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e.IL PERIODO DEL TRIODION

TAVOLA 21 - La santa Kóimèsis della Theotókos - Museo delle Suore Collegine presso il Santuario urbano di Maria SS .ma Odighitria, Piana degli Albanesi,sec. 17°.

TAVOLA 22 - La Theotókos Zòodóchos Pégè - Collezione Papàs Elefteri Schiadà, Piana degli Albanesi, sec. 20°.

IL PERIODO DEL TRIODION

Lo scorrere dell'Anno liturgico lungo le 10 settimane prima della Pasqua con la sua data mobile, è chiamato "Periodo del Triódion", dal nome di questo tipico Libro liturgico. Tale denominazione viene dal fatto che durante questo Periodo nella celebrazione dell' Órthros si cantano solo "tre Odài" invece delle 9 previste dal Canone ecclesiasti-co. Il titolo significante è Triódion katanyktikón, "della compunzione".

Il concreto celebrativo del Periodo del Triódion va visualizzato sempre a partire anzitutto dalla "linea degli Evangeli" delle Domeni-che, tenendo sempre conto che in questo tempo, come in altri, la Do-menica è posta quale punto d'arrivo della settimana liturgica (anche se di per sé la Domenica è il Primo Giorno della settimana, la sua fonte inesauribile). Si ha così questo quadro riassuntivo, dove alle Domeni-che si applica qui anche l'eventuale titolo aggiuntivo:

A) Le 4 settimane di preparazione alla Quaresima ^ ._ i a Le io 10-14: Domenica del Pubblicano e del Fariseo;- 2", Le 15, 11-32: Domenica del Figlio dissoluto (oprodigo);

oa Mt 25, 31-46: Domenica della Apokreos, o dfeirasrinenza dallacarne, o di Carnevale;

- 4\Mt, 6, 14-21: Domenica della Tirofagia, o astinenza dai Latticini;

B) Le 6 settimane della Quaresima- 1\ Gv 1, 43-51: Domenica dell'Ortodossia, o delle sante icone;- 2\Me 2, 1-12: Domenica del Paralitico, o di S. Gregorio Palamas;- 3\ Me 8,34 - 9,1: Domenica dell'adorazione della preziosa e vivifi-

AaAle9, 17-31: Domenica di S. Giovanni Climaco;- 5\Me 10, 32b-45: Domenica di S. Maria Egiziaca;-6% Gv 12, 1-18: Domenica delle Palme;

C) La Settimana santa e grande della PassioneEssa immette dalla Passione alla Resurrezione del Signore.

Seguendo il corso del Periodo, si nota come un'accelerazione, che va dalla "preparazione" alla Quaresima, e da questa alla memoria della Passione, per terminare nella gloria della Resurrezione.

E si notano una serie di fatti. Poiché questo Periodo celebrativo è finalizzato variamente:

a) alla celebrazione annuale della Passione e Resurrezione del Signo-re, con maggiore solennità e risalto. Tuttavia si deve anche notare che

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COMMENTO - IL TR1ÓD1ON

in sé questa precisa celebrazione, della Passione e della Resurrezione, è rigorosamente propria anche di ogni Domenica (e, con "selezione per accentuazione", come si spiegò nella Parte I, anche delle Feste), nella sua normalità, e così anche quotidiana;b) all'intensificazione pastorale della vita spirituale di tutti i fedeli, at-traverso l'esercizio (àskésis) attento e rigoroso della vita battesimale, e perciò con l'ascolto della Parola divina, con la preghiera, con il digiu-no, con le opere della carità, con il raccoglimento e la contemplazione. In un certo senso, si ritrova qui il quadro del "discorso della monta-gna", in specie Mt 5,1 - 6,21, dove il Signore traccia questo preciso programma da attuarsi nell'esistenza di ogni discepolo suo, e lo fa at-traverso opportune "catechesi" su preghiera, digiuno, carità, povertà e umiltà, nella continua katdnyxis, la compunzione del cuore.

Ma poiché è così, allora il Triódion si pone non come un tempo "forte" quasi per eccezione annuale, dopo la quale tutto ricade nell'a-bitudine spirituale quotidiana. Viceversa, esso è come il programma esemplare, anzi si potrebbe dire unico, per l'intero anno, per l'intera esistenza fedele. Perciò esso è un complesso enorme, compatto, fecon-do. Dove le numerose ed opportune accentuazioni provengono anche da una sapiente esperienza di vita vissuta, in specie quella maturata negli antichi monasteri.

Questo è visibile se si parte anzitutto dal centro portante, che è la celebrazione domenicale di Cristo Signore Risorto nella sua divina Pa-rola trasformante. Qui si nota una duplice linea, condotta dalla "linea degli Evangeli", e dalla "linea delYApóstolos":

A) La "linea degli Evangeli"Insiste sull'assimilazione dei fedeli al loro Signore morto e risorto

nello Spirito Santo. Di fatto:a) nelle 4 Domeniche della preparazione, i fedeli, e da parte loro i ca-tecumeni, sono richiamati rispettivamente alla mistagogia ed alla cate-chesi, in forti contenuti:- l'umiltà: il Pubblicano ed il Fariseo, e le loro così diverse preghiere

all'Unico Signore;- il ritorno alla Casa del Padre, che accoglie sempre le sue creature: il

Figlio dissoluto:- la carità universale, che porta sempre su Cristo Signore: il Giudizio

finale;- il perdono scambievole, e la povertà nell'umiltà: le "catechesi" del

"discorso della montagna".Si ha così per i fedeli una prima "memoria dell'iniziazione battesi-

male", e per i catecumeni una prima introduzione ad un genere di vita del tutto diverso da quella anteatta;

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IL PERIODO DEL TRIÓDION

b) nelle 6 Domeniche della Quaresima si insiste sul recupero dell'ico-na di Dio perfetta, "battesimale", per i catecumeni (di allora; ma oggi ricomincia il flusso degli adulti che chiedono la grazia della fede bat-tesimale), e della vita in crescendo dell'icona battesimale per i fedeli. E così:- Cristo Icona perfetta del Padre nello Spirito Santo, l'unico modello

battesimale, contemplata anche nelle "sante icone";- l'icona deturpata del paralitico (simbolismo anche spirituale), recu

perata per intervento del Signore;- l'autorinnegarsi come condizione della sequela fedele del Signore,

accettando la propria croce;- l'indemoniato, icona orribilmente rovinata, anche essa recuperata ad

opera del Signore, che predice anche la sua Passione e ResurrezioneV0«a);

- l'umiltà nella Comunità, condizione per partecipare al Battesimo edalla Coppa del Signore, il Servo sofferente;

- l'unzione del Signore per la sua sepoltura, e l'ingresso messianicoper prendere possesso della sua Città, la Sposa, l'Icona nuziale;

e) nella Settimana santa e grande si accelera questa presentazione bat-tesimale:- l'Icona dello Sposo viene, e la Sposa battezzata, come Vergine sa

piente, deve andargli incontro preparata (Ufficio del Nymphios);- l'Icona sacerdotale del Signore, Re, Profeta e Sposo messianico, che

raduna i suoi fedeli alla santa Mensa sacrificale del suo Corpo e della sua Coppa preziosi (Giovedì santo e grande);

- l'Icona terrena ultima del Signore, nella "più abissale umiltà" dellaCroce vivificante accettata dal Dio Creatore e Sovrano del mondo, ilFiglio dell'uomo e Servo sofferente (Venerdì delle Sofferenze);

d) e finalmente, l'Icona eterna della Gloria dello Spirito Santo: Cristo Risorto, accolto, acclamato e adorato dalle Potenze incorporee tremanti di terrore e di gioia, nel loro perenne corteo regale festoso, e da tutti i fedeli del Signore, nel cielo come sulla terra, in eterno.

I catecumeni perciò debbono ricevere da Cristo, il Crocifisso Risorto ad opera dello Spirito Santo, 1'"impressione" indelebile in essi dell'Ico-na perfetta del Padre (S. Basilio il Grande). Essi si preparano a questa iconizzazione della loro vita attraverso la morte e la resurrezione battesi-male, entrando così nella Chiesa, l'Icona nuziale dello Sposo divino.

I fedeli invece ricevettero quella medesima Icona perfetta nella loro anima, nelle potenze spirituali della loro persona, nell'"impressione" indelebile. Ma questa Icona proprio nelle potenze dell'anima potrebbe essere stata offuscata dal carico dei peccati e delle colpe insorgenti do-po il battesimo. Essi, chiamati a farsi umili ed obbedienti insieme ai

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COMMENTO - IL TRIÓDION

catecumeni, in un certo senso sono richiamati a ripercorrere quella via dolorosa che li condusse alla gloria battesimale, nel perenne e ir-reversibile rinnovamento della loro esistenza. È questo anche il rivi-vere della forte "coscienza storica", dono squisito dell'iniziazione battesimale.

B) La "linea te\YApóstolos"L'antica "linea delVApóstolos" di questo Periodo, raccordata ed ar-

monizzata con i rispettivi Evangeli, si sa che storicamente fu sostituita da quella attuale. Questa proviene più direttamente dall'esperienza pe-nitenziale della vita monastica, che all'intera ufficiatura di questo Pe-riodo del resto conferisce il suo tipico carattere.

A tale caratterizzazione sono chiamati tutti i fedeli. Si può qui par-lare, anzi si deve parlare, della "struttura monastica della Chiesa". Es-sa, senza fare riferimento a "regole" codificate, ha una risalenza im-pressionante che affonda in precise note dell'A.T.: i Profeti, in specie Geremia ed Ezechiele, e già Elia e i "figli dei profeti", i Recabiti, i sa-pienti d'Israele, il Salmista, già anticipano quella che sarà la vita di penitenza e di perfezione. Il N.T. accentua quest'aspetto già con Cristo Signore e la sua severa sequela; gli Atti mostrano alcune prime appli-cazioni, S. Paolo ne accentua molti tratti. In una parola, la "continua conversione del cuore", la perenne tensione alla perfezione della vita, la rinuncia, il nascondimento, l'autorigenerarsi, l'abnegazione, l'obbe-dienza docile, tutto come risposta generosa alla Grazia gratuita che dal Padre discende mediante Cristo e che è lo Spirito Santo, forma una precisa "struttura monastica" sia della Comunità, sia dei singoli fedeli.

Perciò il Periodo del Triódion, anche da questa parte, è programma-tico per l'intera esistenza redenta e santificata.

Altre caratteristiche di questo Periodo, sono:

a) la distinzione netta, risalente alle origini, tra giorni "liturgici", in cuisi celebra la divina Liturgia, ed i "giorni aliturgici", in cui si celebranosolo le Ore sante, eventualmente accompagnate da altre pratiche. Ora,secondo un'antica tradizione, in Quaresima la Divina Liturgia si celebra solo il sabato e la Domenica. Invece, il mercoledì edil venerdì

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delle prime 6 settimane di Quaresima, il giovedì della 5a s

Grande canone), il lunedì, martedì e mercoledì della Settimana santa e grande, si celebra la speciale "Liturgia dei Presantificati", che consiste in un "ordine" celebrativo preciso: la base è il Vespro, a cui si fa se-guire un'Akolouthia per far comunicare ai Preziosi Doni conservati devotamente dalla Domenica precedente;

b) dal lunedì al venerdì delle settimane di Quaresima si celebra il tipico ufficio della Compieta grande;

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IL PERIODO DEL TRIÓDION

c) il venerdì delle prime 5 settimane di Quaresima si celebra con gran-de solennità l'"Inno Akàthistos per la Soprasanta Theotókos".

Dentro tale enorme, complesso e ricco quadro celebrativo, che oc-corre sempre tenere lucidamente presente, e non è facile, si deve inter-pretare la Parola divina con cui si celebra il Signore nostro negli epi-sodi della sua indicibile Vita tra gli uomini, per poter essere da Lui in-trodotti ad adorare la Triade santa consustanziale indivisibile vivifi-cante.

Non sarà disattesa l'insistenza: questa è la "lettura celebrativa", che sta sotto la grande legge della "teologia simbolica", che parte dall'O-mega per risalire all'Alfa, che fa tesoro di tutte le "ritualità" del Testo sacro, e che accetta anche le sollecitazioni e le risonanze che la Chiesa celebrante con i suoi testi, con i suoi canti, con i suoi "tempi sacri" conferisce alla Santa Scrittura che di fatto si legge.

È questo il "modo normale" della lettura della Parola divina, il più proprio, il più frequente per la Chiesa, e per tutti i suoi fedeli.

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DOMENICA 33a DOPO PENTECOSTE i ,-a di Luca

"Sul Pubblicano e Fariseo"

La rubrica indica così: "Facciamo memoriale {anamnesis) della pa-rabola del Pubblicano e del Fariseo nel Santo Evangelo".

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikà ed i Makarismói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1)Apolytikion anastàsimon, del Tono occorrente.

2)Apolytikion del Santo titolare della chiesa.

3)Kontàkion: "Pharisàiouphygómen hypsègorian". L'esortazione è arespingere lontano l'alterigia del Fariseo, e ad imparare dal Pubblicanol'umiltà dei gemiti, così che i fedeli possano gridare al loro unico Salvatore: "Sii propizio, o Unico facile da riconciliare!".

Questo Kontàkion deve precedere comunque il Kontàkion della Hy-papantè, sia se tale Festa ancora non è celebrata, sia se si celebrano an-cora i giorni prima della sua Apódosis.

4. Apóstolosa) Prokéimenon: Sai 75,12.2,"Cantico di

Sion".Vedi la Domenica 9a e 17a Matteo; 8a

b) 2 Tim 3,10-15Paolo nella seconda prigionia, a Roma invia una seconda Epistola al

diletto discepolo Timoteo, che aveva preposto alla Chiesa di Efeso. È circa l'anno 61, la fine ormai sovrasta l'esistenza dell'Apostolo delle nazioni pagane. Roma, lo manifesterà a forti note VApocalisse, sarà "ubriaca del sangue dei santi e del sangue dei Martiri di Gesù" (Ap 17,6). Paolo affronta la sua hóra nella pienezza della Grazia dello Spi-rito Santo, che non l'ha mai abbandonato. In un certo senso, nella forza d'animo senza cedimenti che gli è propria, traccia con quest'Epistola il suo testamento spirituale. In quel momento, solo Luca, il fedele colla-boratore, sta con lui (2 Tim 4,11); è la prima difesa a Roma, conclusasi con l'assoluzione, eppure tutti lo hanno abbandonato (4,16). Adesso ha

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DOMENICA DEL PUBBLICANO E DEL FARISEO

bisogno che i suoi più intimi discepoli si stringano intorno a lui per il momento della ripresa e lancia a Timoteo l'appello: "affrettati a venire prima dell'inverno" (4,21).

Nel corpo dell'Epistola, Paolo è ricco di esortazioni consigli ed am-monizioni al giovane Vescovo di Efeso. Anzitutto lo esorta alla perseve-ranza contro ogni avversità (1,6-18); poi lo consiglia di non temere di assumersi l'intero carico pesante del suo ministero (2,1-13); quindi lo ammonisce di stare in guardia contro le dottrine eretiche che ormai in-vadono le comunità, sia al presente (2,14-26), sia, com'è prevedibile, nel futuro (3,1-17). Paolo torna ancora gravemente ad esortare Timoteo alla perseveranza a qualunque costo (4,1-8). E infine conclude con l'ap-pello: "Affrettati a venire da me presto" (4,9), denunciando la triste con-dizione in cui si trova, i tradimenti e le apostasie (4,10-17), con la di-chiarazione finale, liberatoria: "II Signore mi fu presente e mi diede for-za, affinchè mediante me il kèrygma si adempia in perfezione, e ascolti-no tutte le nazioni - e fui liberato dalla bocca del leone" (4,17, l'ultima citazione è Sai 21,22), con la conclusione della fede totale: "Mi scam-perà il Signore da ogni opera malvagia, e mi salverà per il Regno suo sovraceleste — a Lui la gloria per i secoli dei secoli. Amen!" (4,18).

L'Apostolo si rivolge adesso con il testo che leggiamo, a Timoteo, riaffermandogli la sua totale gratitudine. Il discepolo infatti accompa-gnò il maestro anzitutto nell'insegnamento della divina Didaskalia, ed inoltre nel retto comportamento (agógé), nel proposito apostolico (próthesis), nella fede inconcussa, nella magnanimità attraverso tutte le prove (makrothymia), nella carità universale (agape), nella pazienza perserverante e sopportante (hypontone, la principale virtù cristiana). Timoteo seguì Paolo nelle persecuzioni, che venivano sia dalle autorità romane, sia da quelle ebraiche, sia dai falsi fratelli, sia dai gruppi pagani (come ad Efeso, cf. At 19,23-40). Nelle sofferenze dell'apostolato, che senza mezzi, senza appoggi, senza infrastnitture costituite, furono affrontate, quando Paolo si trovò da solo ad affrontare l'intero impero romano, la sua cultura, la sua religione, la sua profonda immoralità. I momenti rilevanti qui furono ad Antiochia di Pisidia (cf. At 13,48-52), ad Iconio (At 14,1-7), a Listri (At 14,8-20). L'Apostolo esclama non per lamento o antica paura, bensì per informare Timoteo: "Quali persecu-zioni sopportai (hypophéró)V\ ma completa con l'espressione della sua fede inalterata: " da tutte mi scampò il Signore" (v. 11).

Il Kyrios aveva già predetto il suo progetto su Paolo, quando invia Anania di Damasco a battezzare un povero uomo sconfitto, reso cieco dalla Luce della divina Gloria, eppure: "Va (ad Anania), poiché questo (Saul, poi Paolo) è strumento da Me scelto per portare il Nome mio da-vanti alle nazioni, ai re ed ai figli d'Israele. Io infatti manifesterò a lui quanto si deve (dèi) che egli soffra per il Nome mio" (At 9,15-16). Cri-sto Risorto, il Signore, mantiene fermo il suo progetto, che è "secondo

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COMMENTO - IL TRIÓDION

Dio" (dei), indica sempre la Volontà superna del Padre. Paolo da parte sua si fa portatore carico (verbo bastàio) del Nome di Cristo. Il progetto e l'esecuzione avviene sempre, imperscrutabilmente, non nel successo mondano, ma tra le più inaspettate sofferenze (verbo pàschò). La vi-cenda apostolica di Paolo, la più lungamente narrata nel N.T., in fondo somiglia da vicino a quella messianica del suo Signore. A Timoteo non fa altro che un resoconto obiettivo.

Perché? Perché il progetto divino su Paolo è certo particolare (cf. Rom 1,1-4: Gai 1,15-24; etc.), però è solo parte di una sorte comune, esplicitamente promessa e dunque non misteriosa. Il Signore promette il centuplo quale compensazione alle rinunce per seguirlo dovunque Egli vada, però metà diógmón, "insieme con persecuzioni", che si può tranquillamente tradurre: "sotto forma di persecuzioni" (Me 10,30), passaggio indispensabile per la Vita eterna (ivi). Paolo sa questo di cer-to per comunicazione diretta del suo Signore a lui, ma anche per lunga diretta personale sofferta esperienza lungo l'intero arco della sua mis-sione alle nazioni. Perciò adesso a Timoteo traccia ancora una volta un preciso programma di vita, che deve essere accettato ineludibilmente: "E tutti quelli che vogliono vivere piamente (eusebós) in Cristo Gesù, saranno perseguitati (dióchthèsontai)" (v. 11). Il verbo diókò, ostilmente perseguitare, e diógmós, persecuzione, sono una semantica così fre-quente nel N.T., da far parte del vocabolario portante dei discepoli del Signore. E non per vittimismo, che pure qualche volta spunta in certa letteratura devozionistica, ma per quel realismo forte, deciso, audace di chi "vuole piamente vivere in Cristo" e ne è ostacolato con ogni mezzo, anche con la violenza frequente, dai nemici della Croce, i discepoli e seguaci del Nemico, "il satana" persecutore.

Ben altra è la sorte di questi nemici. Al giovane Timoteo, che pure ha visto molti episodi crudi, Paolo offre anche una filosofia della vita, che deve essere accettata inevitabilmente. Infatti, come già tante volte i Profeti, Giobbe, i sapienti d'Israele, il Salmista avevano dolorosamente annotato, i malvagi e seduttori (portemi, e góètes, questo termine avente una connotazione di magia e di ciarlataneria che confonde molta gente) progrediscono nelle apparenze umane, hanno successo monda-no, tuttavia "verso il peggio", in quanto essi insieme sono "ingannatori ed ingannati", corrotti e corruttori (v. 13). I fedeli ne debbono restare avvertiti sempre. Essi si insinuano facilmente nelle Comunità provo-cando disastri spirituali, eresie e scismi.

Esiste però il sovrano rimedio: la fedeltà alla Tradizione divina ed apostolica. Paolo esorta: Timoteo deve restare saldo, irremovibile, nella Dottrina che imparò (manthànò) dall'Apostolo, poiché da essa fu pie-namente convinto (pistóó), "reso fedele (pistós)" per sempre, in quanto oltre tutto sa bene "da chi" imparò (manthànò). Suo immediato maestro è Paolo, ma Paolo è solo mediatore della Dottrina divina dell'Unico

DOMENICA DEL PUBBLICANO E DEL FARISEO

Maestro, Cristo Signore (v. 14). Ogni altro "maestro" che non segua Cristo, crea discepoli di rovina.

Esiste però anche un altro argomento sovrano. Paolo memora a Ti-moteo che da bambino conosce (óida) le Sacre Lettere, la Scrittura San-ta. In 1,5 Paolo si manifesta pieno di gioia per la fede del giovane disce-polo, trasmessa a lui dalla nonna Loide e poi dalla madre Eunice, due Ebree fedeli alla santa Legge ed insieme, successivamente (sia pure senza precisa conferma), fedeli a Cristo che venne a confermare la Leg-ge nella sua integrità inalterabile, e le due donne nella speranza conse-guita. Ora, va notato, come spesso si trascura di fare, che al tempo di Paolo le "Sacre Lettere" o "Sacre Scritture", sono l'A.T., non esistendo ancora il "N.T." come complesso già redatto e definitivo. Certo, quando scrive la 2 Timoteo, verso il 61 d.C, nonostante le incredibili teorie di certa critica distruttiva e molto poco eusebès (pia), esistono già dei Si-nottici le prime redazioni (Matteo, in aramaico o ebraico non oltre il 35 d.C, la traduzione in greco non oltre il 40); esiste lo stesso epistolario paolino, e l'epistola agli Ebrei; anche l'epistola di Giacomo (verso il 57 d.C.?), ma questo enorme complesso, che circola tra le Comunità con molta rapidità, non è un "corpo" raccolto insieme. Lo sarà solo verso la fine del sec. 1° ed ai primissimi anni del sec. 2°, forse in Asia minore.

Il richiamo a Timoteo perciò è principalmente alla Santa Scrittura dell'A.T., letta ormai alla luce della Resurrezione. Tale testo, tale lettu-ra, prosegue l'Apostolo, hanno la potenza di "rendere sapiente" (sophizó) Timoteo, e dunque i fedeli affidati a lui. Renderlo sapiente in vista della salvezza, la quale è prodotta dalla fede nel Cristo Gesù Ri-sorto (v. 15).

Il centro della vita di Paolo, di Timoteo, delle loro Comunità è la Santa Scrittura letta nella Tradizione ormai formata. La Scrittura è la primordiale Grazia dello Spirito Santo, è Luce e Sapienza, è produttrice di divina salvezza, poiché questa Grazia prosegue donando nelle anime la fede nel Risorto. Allora come oggi.

Il Periodo del Triòdion chiama a considerare a fondo queste realtà.

5. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 94, 1.2, "Esortazione p r o f e t i ca".Vedi l'Alleluia della Domenica 9a ÌT ' 8a

a) Le 18,10-14II contesto della parabola di oggi è la fine della "salita a Gerusalem-

me", presentata tante volte. Il Signore battezzato e trasfigurato, nella Potenza dello Spirito Santo, "confermato" dalla Luce divina e preso sotto la protezione della Nube della Gloria divina del Padre che è lo Spirito Santo, deve consumare il "suo esodo" a Gerusalemme (cf. Le

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COMMENTO - IL TR1ÒDION

9,31), che è la Croce. Il suo lungo viaggio {Le 9,51 - 19,28) è denso di "parole e fatti", ossia dell'annuncio dell'Evangelo e delle grandi opere del Regno, i miracoli. La parabola si pone come insegnamento derivato dall'Evangelo, come sua parte integrante, esplicitante, applicativa.

Il breve testo a sua volta ha un significato grande e permanente, sa-pientemente scelto per il Periodo del Triódion, e specificamente come "preparazione" ingressiva alla Quaresima, per acquisire disposizioni idonee a vivere così grande tempo di grazia dello Spirito Santo.

Il contesto immediato è la perseveranza irremovibile nella preghie-ra, che da Dio Signore ottiene tutto {Le 18,1-8), e d'altra parte è l'episo-dio, non isolato, in cui Gesù, tra i rimbrotti dei discepoli, abbraccia i bambini, impone ad essi le mani, li benedice (18,15-18), poiché solo essi possiedono nella loro innocenza il Regno, e chiunque voglia rice-vere il Regno di Dio deve lasciarsi fare di nuovo bambino. Al centro dei due testi, la parabola mostra precisamente: a) la preghiera umile del Pubblicano, che ottiene la propiziazione divina; e b) l'attitudine del medesimo, che abbandona la malizia della sua professione, e ritorna semplice come un bambino, nell'innocenza del cuore.

Al v. 18,9 è data la spiegazione della parabola, in anticipo, affinchè nessuno dubiti del suo insegnamento. L'insegnamento adesso si dirige con severità verso quanti hanno eccessiva fiducia in se stessi, nei propri mezzi giustificatorii (cf. 16,15; e Mt 5,20), poiché sono convinti di es-sere "giusti" davanti a se stessi e davanti a Dio, dunque anche davanti al prossimo (cf. Prov 30,12; 2 Cor 1,9). Ma così il prossimo è necessa-riamente disprezzato come inferiore spiritualmente, è "altro", perciò alieno, alienato, scostato (cf. Is 65,5). È il perfetto contrario di come si debba stare davanti a se stessi, davanti al prossimo, e con ciò davanti a Dio. Per scuotere tale atteggiamento occorre un "insegnamento in para-bole", il più ricco ed immediato, anche il più pungente e scuotente le intelligenze di chi abbia orecchie da ascoltare (cf. Le. 8,8 nella parabola del Seminatore). E Gesù narra un parabola.

Una scena normale a Gerusalemme è che si salga al tempio per pre-gare. Ora, il tempio è il luogo per eccellenza della celebrazione sacrifi-cale quotidiana, la mattina e la sera. In queste due occasioni il popolo presente era aiutato dai leviti a pregare, in specie i Salmi, mentre i sa-cerdoti e gli offerenti procedevano alla complessa operazione del sacri-ficio, con il rito del sangue e dell'offerta. In genere queste due liturgie erano sempre molto affollate. Con tanti altri, "salgono" (il tempio sta più in alto dell'abitato) in particolare "due uomini", due tipi ben speci-ficati di uomini, un Fariseo ed un Pubblicano. Due Ebrei.

Due tipi radicalmente opposti. Il Fariseo in fondo è un pio praticante della Legge santa di Dio, un osservante, anche uno spirituale, dedito al-l'ascolto della Parola divina spiegata dagli "scribi" competenti. Al tem-po di Gesù i farisei formano una minoranza compatta, religiosa, che ha

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DOMENICA DEL PUBBLICANO E DEL FARISEO

anche molto ascendente sul popolo semplice, per il prestigio che si for-ma sempre intorno alle persone che si ritiene siano spiritualmente più avanzate. Avviene ancora oggi, anche se, come al tempo di Gesù, la massa non segue gli spirituali in tutto. Si sa che i farisei, come ogni uo-mo religioso, avrebbero voluto che tutti fossero come essi, e dunque re-stavano sempre delusi e amari verso la pratica trascurata del resto del popolo. Anche se nel N.T. si instaurò una polemica dai toni acerbi con-tro i Farisei e gli scribi loro maestri e ideologi, tuttavia si deve notare che questi non parteciparono affatto agli episodi del processo e della crocifissione del Signore. In sostanza, essi erano fondamentalmente buoni Ebrei.

Anche il Pubblicano è un Ebreo. Per malasorte però - per avidità di lucro, per servilismo, per collaborazionismo -, ha accettato di lavorare con l'invasore strapotente, i Romani, accettando l'ufficio di telónès, esattore delle gravose tasse da versare all'erario di Cesare dopo che sono sottratte alla massa dei poveri; mentre come si è detto, in ogni regime i ricchi trovano mille modi di farsi esentare dai tributi: sia dai legittimi governi, sia dagli invasori. Ora, i tributi sono invisi ad ogni popolo, tanto più che qui vanno agli occupanti. Però nel caso degli Ebrei, oltre questo, si ha l'aggravante che essi, popolo liberato dal Signore (cf. l'esordio del Decalogo: Es 20,2, che motiva la "morale dell'alleanza"), e dunque libero per divina destinazione, erano tenuti, per sé, solo a contribuire con decime ed altre tassazioni a mantenere il culto divino, oltre che a sovvenire ai poveri. Vedi qui il mirabile testo di Dt 26, con i versamenti di primizie e decime per le categorie meno abbienti: sacer-doti, stranieri, orfani, vedove. Pagare le tasse agli stranieri e pagani era perciò il segno vergognoso di: a) essere recensiti da quelli, fatto abomi-nevole per il popolo "del Signore", peculiare suo possesso (cf. Es 19,3-6); b) di essere costretti a pagare contro volontà. Era il segno abietto, demoralizzante della schiavitù.

E un Pubblicano che osi entrare nella Casa dove abita la Presenza imperscrutabile e santa del Signore, in mezzo al popolo santificato, era anche un affronto sanguinoso a Dio ed a tutto il popolo, in modo spe-ciale alla purità di vita del Fariseo (v. 10).

I pubblicani insomma godevano dell'antipatia, dell'ostilità, del pub-blico disprezzo, ben meritato del resto, ed essi da parte loro ripagavano questo con la spietatezza degli aguzzini, disponendo della coazione per mano militare romana.

Gesù venne per salvare quanto era ormai perduto, come umile ma onnipotente Figlio dell'uomo (cf. Le 19,10, a proposito di Zaccheo ad-dirittura architelònès, capo del corpo degli esattori; vedi Domenica 15a

di Luca). Egli si dirige verso i malati, non verso (anzitutto) i sani (Le 5,31), da Medico divino dei corpi e delle anime. Ora, tra i kakòs échon-tes, i "malamente versanti", i malati, tra i più gravi, stanno proprio que-

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COMMENTO - IL TRIÓD1ON

sti peccatori spietati, i pubblicani. Egli così agisce con una strategia precisa. Un pubblicano Levi (Matteo), proprio dall'inizio lo fa addirit-tura suo discepolo, convocandolo tra i Dodici {Le 5,27-32; dei Dodici, 6,12-15, Matteo al v. 15a). Si dichiara amico dei pubblicani e dei pec-catori (in pratica, però, le prostitute), apertamente, e quasi con vanto {Le 7,34), dovutamente motivando: essi "riconobbero la Giustizia/Mi-sericordia di Dio", accettando il battesimo di conversione di Giovanni il Battista {Le 7,29, e rinvio a 3,12). Pubblicani e peccatori si avvicina-vano a Lui per "ascoltarlo", ossia per accettarne gli insegnamenti {Le 15,1). Alla fine della "salita a Gerusalemme", come con Levi, accetta il convito in casa di Zaccheo pubblicano {Le 19,1-10). Poi, in altro conte-sto, aveva addirittura dichiarato con "rabbia profetica": "In verità, Io parlo a voi: i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel Regno di Dio", perché si erano convelliti per la predicazione del Battista {Mt 21,31-32). Il che è molto interessante: anche gli altri andranno nel Re-gno, ma troveranno molti posti occupati dalle categorie più miserabili dell'umanità; e tra questi "altri" beati, ovviamente vi saranno i farisei.

Nel tempio, il Fariseo "sta in piedi", nell'atrio degli Israeliti, in pro-spettiva del "santo dei santi" che vede da vicino attraverso la porta che conduce nell'atrio dei sacerdoti dove si svolge il culto. È la classica po-sizione della preghiera ebraica, che conosce, senza problemi, anche la prostrazione a terra. Tale essa resta nell'uso dei cristiani dell'Oriente. Stare in piedi davanti al Signore indica la dignità dei figli, ai quali il Padre loro che li chiama, lo permette. Egli dunque sta davanti al suo Si-gnore, invisibile Presenza nel santuario, dal quale promette ogni grazia, come parla l'intero Salterio. E prega silenziosamente. Un'azione di grazie, eucharistò soi, io rendo grazie a Te. È implicata qui la celebra-zione sempre pubblica del Signore, nell'assemblea santa, in quanto è Lui, in quanto ha titoli meravigliosi, in quanto ha operato grazie e be-nefici sempre sorprendenti (cf. qui il tipico Sai 114-115).

Ma tale azione di grazie è abbastanza strana. Essa infatti è vera so-stanzialmente nel suo contenuto obiettivo. Il Fariseo rende grazie per il beneficio impareggiabile della sua fede, della sua fedeltà alla Legge santa ed all'alleanza fedele, poiché si è tenuto nella purezza dei costu-mi, non ruba, rende giustizia, non è adultero, dunque ha rispettato os-servandoli scrupolosamente i comandamenti 7°, 8°, 6°, e se quel giorno è sabato, com'è probabile, anche il 3°. Non c'è male, 3 comandamenti verso il prossimo, e 1 verso il Signore, ma tenendo conto che il 6° ed il 9° comandamento vanno sempre insieme, ed il 7° con il 10°, si hanno ben 5 comandamenti verso il prossimo e 1 verso il Signore. Si potreb-be arguire dal silenzio del Fariseo che non nomina il 4° comandamen-to, che i suoi genitori siano defunti; e che non nomina il 5°, fa com-prendere che è un buono e pacifico. In pratica, le Due Tavole sono ri-spettate.

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DOMENICA DEL PUBBLICANO E DEL FARISEO

È una dichiarazione di purità sacra, che aprcil libero accesso al Si-gnore, permesso dai Sai 14 e 23, "Liturgie", come "Salmi d'accesso", al santuario. Da che deriva questa autopresentazione? Probabilmente proprio dalla pratica della preghiera, poiché molti Salmi autorizzereb-bero il Fariseo nella sua dichiarazione. Si guardino i Sai 7; 14 e 23; 18 (in bocca al re stesso); 25, con la dichiarazione d'innocenza proprio nell'"ingresso" al santuario e all'altare; 26; 34; 36; 38... Sono tutte di-chiarazioni di innocenza motivata davanti al Signore, accanto ovvia-mente a Salmi di penitenza. Ancora una volta il Fariseo starebbe a po-sto con la sua coscienza.

Ma poi (alla fine del v. 11) il Fariseo aggiunge una clausola inaspet-tata, brutale, discriminatoria: Io non sono come tutti gli altri uomini. I quali così, sono tutti giudicati senza autorizzazione, trovati senza giu-stificazione e condannati senza appello.

Egli ribadisce la sua religiosità con un'autogratificazione compia-ciuta: il digiuno e le decime puntualmente assolti (v. 12). Quanto al di-giuno, alcuni giorni erano fissati per alcune grandi celebrazioni nazio-nali, come il Capo d'anno ed il Kippùr, l'Espiazione, al 1° e 10 del me-se di Tisri, con la formula "affliggerete le anime vostre" in segno di pe-nitenza (cf. Lev 16,29). La tradizione poi aveva fissato il digiuno rego-lare bisettimanale al martedì e giovedì (che i cristiani avevano spostato polemicamente al mercoledì ed al venerdì, fino ad oggi). Quanto alle decime, esse erano fissate dalla Legge divina e concernevano tutto quello che si possedeva (prodotti dei campi, del bestiame, delle indu-strie varie), e, come nel caso del Fariseo, qui, quello che si acquistava (letamai); cf. Dt 14,22. Del popolo di Dio, nessuno e nulla doveva sfug-gire alle decime (oltre alle primizie), poiché si trattava di conferimenti carichi di santità (v. 12).

Il Pubblicano anche stava in piedi, ma da lontano, via dal santuario e dalla gente, e neppure voleva alzare gli occhi al cielo. Egli è consape-vole, sia per un moto della coscienza tratta a resipiscenza, sia anche, non si potrebbe escludere, per avere ascoltato la predicazione di Gio-vanni il Battista (cf. Le 3,12-13, e di nuovo 7,29). Sta lontano dal san-tuario, forse nell'atrio delle donne israelite, tiene gli occhi bassi per la vergogna, poiché contemplare il santuario è già un atto di vicinanza e di comunione ospitale con il Signore; inoltre, in segno di dolore si per-cuote il petto, e dirige verso il Signore una formula di invocazione epi-cletica, ridotta all'essenziale: "Dio, sii propizio a me, il peccatore!" (v. 13). La formula viene anche dal contesto eucologico dei Salmi (cf. Sai 50,3; 78,9); ma esistono anche molti Salmi di confessione e di peniten-za, che esprimono questi sentimenti con formule molto varie (cf. altresì Ez 16,63; Dan 9,19). È la piena del cuore contrito ed umiliato, vera-mente di più non sa dire, poiché davanti alla Presenza santa le parole mancano dolorosamente. E del resto, il Pubblicano sa che le parole per

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COMMENTO - IL TRIOD1ON

lui a nulla servirebbero. Si rimette semplicemente al suo Dio, nella fi-ducia trepida, sapendo che Egli scruta i cuori e i reni degli uomini, tutto comprende, e se vuole tutto rimette e perdona, tutti si riconcilia.

La parabola è terminata. Il v. 14, che la chiude, ne è la conclusione se-vera. Gesù la dichiara, con formula solenne: "Io parlo a voi", e questa è anche una sentenza per il futuro di tutti i suoi discepoli, di tutte le folle presenti, di tutti gli uomini "religiosi" di ogni tempo. Il contenuto della sentenza è anzitutto d'assoluzione piena: il Pubblicano "discese" dal tem-pio e torna a casa "giustificato" (dikaióó). Ossia il Signore gli fu "propi-zio" perché peccatore sinceramente pentito, e lo rende "giusto", riammes-so nella divina amicizia, reso santo, purificato, restituito alla vita di fede.

Il contenuto della sentenza è però di condanna per il Fariseo: quello fu giustificato, "piuttosto di questo". La formula lascia capire molto. Il Fariseo per sé non aveva necessità immediata di "giustificazione", poi-ché per sé era "giusto". Ma disse la piccola bensì sprezzante parola: Non sono rapace, ingiusto, adultero come il resto degli uomini, e fin qui la genericità non offendendo nessuno. Poi però viene a sparare: "o anche come questo Pubblicano" (v. lib). Così si era messo contro tutto il suo prossimo, lontano ed immediato, nell' "ingiustizia" verso di esso, e dunque anche contro Dio. Poiché Dio aveva detto: "Misericordia vo-glio, più che sacrifici" (Os 6, 6), e lo aveva confermato per la bocca santa del Figlio: "Andate ed imparate che significa: Misericordia Io vo-glio, più che sacrificio" (Mt 9,13), ed il Figlio aveva insistito su questa Parola profetica: "Se voi aveste compreso che significa: Misericordia voglio, più che sacrificio" (Mt 12, 7a), con la sentenza durissima: "allo-ra non avreste condannato gli innocenti" (Mt 12, 7b).

Dove sta il peccato del Fariseo, formalmente? Sta nella condanna del fratello, ma soprattutto nella causa di questa scriteriata condanna: "Chiunque è esaltante (hypsón) se stesso, sarà umiliato (tapeinóó), mentre chi è umiliante (tapeinòn) se stesso sarà esaltato (hypsóó)" (v. 14b). È la stessa parola già usata per i convitati presuntuosi, che occu-pano i migliori posti (cf. Le 14,11). I due verbi hypsóó e tapeinóó stanno in forma chiastica, ossia si incrociano: se uno si insuperbisce, ossia si vanta in modo vanaglorioso, Dio lo umilierà (la forma passiva indica Dio senza nominarlo, è un "passivo della Divinità"). Al contrario, occorre umiliare se stesso, allora Dio darà Lui, come sa, la gloria della sua divina amicizia.

Però, chi non esaltò se stesso, ma anzi "svuotò" (kenóó) la sua Divi-nità nella più abietta umiliazione, quella della Croce? Per cui Dio poi Lo superesaltò (hyperypsóó) al di sopra d'ogni nome, e stabilì che il di Lui Nome fosse adorato per la gloria del Padre? Paolo lo spiega in FU 2,6-11 : Cristo Signore stesso, che si fece schiavo per gli uomini, come l'Adamo Ultimo, assumendosi il carico terrificante di tutte le colpe per distruggerle nella sua carne (cf. Rom 8,3).

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DOMENICA DEL PUBBLICANO E DEL FARISEO

Anche da questa via, il Periodo del Triódion rimanda tutto questo in-segnamento al fedele, che è l'icona battesimale del Signore, e che deve vivere la sua iconicità redenta e santificata nella perfetta assimilazione al Figlio di Dio.

Ma il medesimo Periodo rinvia a considerare il centro della parabo-la, così breve e così decisiva. Tale centro in un certo senso non sta "dentro" la parabola stessa, ma vuole trasmettersi "fuori", nella vita de-gli uomini. E così, esso esclude per noi anche, e soprattutto!, il disprez-zo e la ripulsa verso il Fariseo, o verso i "farisei", e dunque verso "tutti gli Ebrei", come purtroppo si fa da due millenni. Agendo così, guarda caso, si agisce precisamente come il Fariseo deprecato della parabola, che oltre tutto è un "tipo", non è una persona storica.

Il centro sta dunque fuori. Nell'applicazione della santa Dottrina del Signore nostro. Che ciascun fedele, e tutti i fedeli come Comunità, deb-bono attuare nella loro vita quotidiana, nel "piccolo quotidiano" in cui si costruisce la perfezione dell'esistenza redenta e santificata. Dove quotidianamente si fanno tante professioni false d'umiltà, e poi dovun-que si corre qua e là per farsi tributare in ogni campo elogi ed onori esterni, che spesso si regalano a personaggi avidi ed immeritevoli. I fe-deli del Signore in realtà stanno davanti a Lui in un Giudizio divino permanente, che sarà riassunto in quello finale (vedi poi la Domenica àeWApókreos). Nel Giudizio permanente l'assoluzione sarà permanen-. te, ma dipende solo da se stessi, ossia dall'operare nella misericordia. Solo allora si pregherà per la propiziazione divina, ma il Signore già sarà stato propizio, e gli resta solo d'accogliere i figli suoi, lasciatisi fare degni della sua Misericordia.

6. Megalinario Della Domenica.

7.KoinòikónDella Domenica.

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DOMENICA 34a DOPO PENTECOSTE17a di Luca

"Sul Figlio dissoluto emigrato in regione lontana"

La rubrica indica così: "Facciamo memoriale della parabola del Fi-glio dissoluto nel Santo Evangelo".

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikà ed i Makarismói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1) Apolytikion anastdsimon, del Tono occorrente.

2) Apolytikion del Santo titolare della chiesa.

3) Kontàkion: Tèspatróas doxès sou. Ogni fedele dell'assemblea santa con questo canto fa proprio l'atteggiamento del Figlio dissoluto chesi rivolge al Padre suo, riconoscendo di avere da insensato allontanatada sé la Gloria paterna in cui viveva. Ad essa aveva diritto ereditario,ma poi disperse nei mali la ricchezza che pure generosamente avevaricevuto dal Padre. Perciò adesso essa grida la medesima invocazionedi quel Figlio: Peccai davanti a Te, Padre di tenera Misericordia(oiktirmón), e chiede di essere accolto mentre si converte e fa penitenza, e di essere accettato come uno qualunque dei suoi servitori a mercede.

Questo Kontàkion deve comunque precedere quello della Festa del-la Hypapantè, che resta come finale.

4. Apóstolos

a) Pmkéimenon: Sai 32,22.1, "Inno di lode". di LucaÈ il Pmkéimenon della Domenica 2a e IO di Matteo, 9a

b) 1 Cor 6,12-20La scelta di questa pericope paolina è motivata al progressivo avvi-

cinarsi della Quaresima. Significa allora una più rigorosa ascesi spiri-tuale che investe l'anima ed anche il corpo, e chiama alla penitenza, alla preghiera, alle opere di carità e al digiuno.

Paolo parla ad una Comunità, quella dei Corinzi, di assai varia estrazione sociale e religiosa. Vi sono sia Ebrei, sia pagani. Questi so-

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DOMENICA DEL FIGLIO DISSOLUTO

no la maggioranza che cerca di prevaricare con la propria cultura. E poveri e ricchi. L'ambiente ellenistico proponeva tenacemente il modo di vita del tutto opposto a quello dell'Evangelo di Cristo predicato da Paolo. Anche sulla Comunità cristiana esercitavano il loro influsso ne-gativo le diverse tendenze, se non correnti ideologiche, di pensiero fi-losofico e religioso, con la prevalenza di un'aspirazione spiritualista di tipo platonico, soprattutto, e stoico, nonché della religione dei "miste-ri" pagani. Ora, l'eccessivo spiritualismo induce a considerare come unico valore 1'"anima" quale ente indipendente dall'esistenza corpo-rea, questa essendo considerata in senso negativo, come la "pesantez-za" della materia. Il medesimo eccessivo spiritualismo in campo mo-rale, curando l'ascetica solo mentale (come certe correnti che, inse-gnate a pagamento da "santoni" e "guru", si diffondono oggi in tutto il mondo), lasciava ampio spazio alla libertà dell'esistenza materiale. Così il corpo, la carne, quanto più era abbandonata agli eccessi di ogni tipo, tanto più si preparava alla sua definitiva corruzione e alla libera-zione dell'anima. Perciò il peccato morale era solo dell'intelletto, il corpo poteva seguire indifferentemente la via dell'estrema ascesi, rara-mente, o dell'estrema sregolatezza in ogni campo. Alcuni Corinzi, in più, erano giunti all'assurdo di credere di essere già risorti con Cristo (cf. 1 Cor 15,12-20), e in conseguenza la pratica spirituale e morale era molto ridimensionata.

Paolo interviene pesantemente contro ogni abuso: sugli scismi nella Comunità (1 Cor 1,10 - 2, 16, il "discorso della Croce"); sull'immatu-rità di tanti fedeli (3,4) che non sanno considerare l'opera apostolica (3,5-23), né la regola della vita nuova (4,1-21); sull'orribile caso del-l'incestuoso (5,1-13); sul ricorso dei fratelli a tribunali pagani, come se nella Comunità non vi fosse l'arbitraggio equo (6,1-11); sulla forni-cazione (6,12-20); poi sulle questioni del matrimonio cristiano e sul celibato (7,1-40); e così via.

La pericope 1 Cor 6,12-20 riguarda la fornicazione, ma non sempli-cemente. Paolo vuole mostrare e dimostrare l'inimitabile dignità del-l'esistenza umana, che è insieme corporea e spirituale, o, come si suoi dire con formula abbastanza soddisfacente, è "un corpo informato dallo spirito", ed è "spirito incorporato", un'entità unica dal duplice aspetto reciprocamente inseparabile. Come in altri momenti del suo epistolario, per dare vivacità e risalto alla sua argomentazione, l'Apo-stolo usa una tipica forma letteraria, la diatriba, in cui due interlocutori difendono due tesi opposte, delle quali però una deve cedere e l'altra prevalere definitivamente.

Al v. 12 l'immaginario interlocutore è un Corinzio "spiritualista", che si concede quanto vuole, sicuro del primato dell'anima astratta dall'esistenza corporea. Egli afferma: "Tutte le realtà a me convengo-

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COMMENTO - IL TRIODION

no", in altre parole, tutto mi è lecito. Paolo ribatte duramente: Però, non tutte le realtà sono utili. E l'altro ripete la prima formula, ma Pao-lo di nuovo ribatte: però io non mi renderò in potere di nessuno.

Viene adesso un duplice concreto. Il primo, le delizie della tavola. L'interlocutore sostiene che i cibi per loro natura e destinazione sono per il ventre che li digerisce, e questo è fatto proprio e solo per i cibi. E un circolo vizioso, che certa scienza ideologica moderna nel 1800 codificò così: la funzione (cibi da digerire) crea l'organo (il ventre), e l'organo (il ventre quale luogo e strumento tipico di digestione) crea la funzione (si cerca i cibi). Paolo ribatte ancora più duramente: si tratta di materiali, funzioni ed organi creati da Dio, ma da Dio poi destinati, dopo la loro funzione temporanea, a non esistere più (v. 12 a).

Il secondo concreto che riguarda le funzioni materiali del corpo, è l'uso del sesso. Qui Paolo non accetta interlocutori, poiché la sua di-mostrazione non ammette contraddizioni. E recisamente afferma un'a-nalogia con il cibo e ventre: il corpo non è per la fornicazione, ossia per l'uso sconsiderato, fuori della norma naturale, del sesso. Poco do-po spiegherà l'immane guasto che la fornicazione produce per l'essere umano. Il corpo invece è per il Signore, che lo creò. Anzi il Signore stesso nel creare il corpo si pose in favore del corpo (v. 13b). Dunque, il corpo è un'entità ben al di là della sola materia, poiché il Signore "per il corpo" ha un preciso disegno, da cui non derogherà mai. Anche questo è spiegato dopo nella pericope.

Intanto però Paolo anticipa la spiegazione ultima, la quale ricorre con insistenza nel suo epistolario: oltre che qui, in 2 Cor 4,14; Rom 6,5.8; con la formulazione più completa, sempre lapidaria, in Rom 8,11. È il massimo argomento dell'antropologia biblica nel N.T., insie-me con il tema dell'uomo icona di Dio, e si può evidenziare così:

Dio Padre con lo Spirito Santo resuscitò il Figlio, e con il medesimo Spirito Santo resusciterà noi.

Di fatto, qui in 6,14, Paolo ricorda che Dio resuscitò "il Kyrios", il Signore, che è il massimo titolo divino di Gesù Cristo. A guardare da vicino i termini, il Padre, dice Paolo, resuscitò non semplicemente "l'Uomo Gesù", come fosse separato dalla sua Divinità, ma resuscitò ho Kyrios-IHVH, il Signore Dio dell'A.T., che è dunque anche il Fi-glio di Dio! Ora, in termini della dogmatica sinodica della Chiesa si dovrebbe dire che nel resuscitare ovviamente l'Uomo morto, crocifis-so, Gesù, l'azione del Padre era però diretta, e perciò concerneva la sua divina Ipostasi, a causa dell'indivisibilità reale, dopo l'Incarnazio-ne, della natura divina dalla natura umana a partire dall'Ipostasi divi-na, e questo a motivo dell'"indicibile hénósis kath'hypóstasin" (S. Ci-rillo Alessandrino).

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DOMENICA DEL FIGLIO DISSOLUTO

Ora, per l'amore verso "il Signore", il Figlio suo (cf. Rom 8,28-30), il Padre se resuscitò Lui, resuscita anche noi "mediante la Potenza sua", lo Spirito Santo. Se si svolge tutto il tema, si sa che Cristo Risor-to è anche divenuto a causa della Resurrezione l'unica Fonte inesauri-bile dello Spirito Santo, e il Padre dona agli uomini lo Spirito Santo, attingendolo per così dire, per effonderlo come divino Fluido, dall'U-manità gloriosa del Figlio: At 2,32-33.

Ma la resurrezione è "dei corpi", come la Chiesa professa dalle sue origini nelle antiche e varie formule di fede, i Simboli battesimali, an-che quando si dice "attendo la resurrezione dei morti". Nella Chiesa antica, sotto l'influsso delle idee filosofiche dell'ambiente orientale, si era discusso a proposito della resurrezione, se risorgessero "solo i cor-pi", o anche le anime. Così però era accettare un'antropologia diviso-ria, come se l'uomo fosse composto di due entità non solo diverse, ma opposte e contraddittorie, da ricomporre poi in una qualche unità dopo la resurrezione ed in vista della vita eterna. Giustamente si era insistito sulV "Oikonomia della carne" anche da parte dei Padri accusati dagli avversari di spiritualismo oltranzista. Così S. Cirillo Alessandrino, ar-gomentava che l'anima è immortale, dunque non può morire né risor-gere, ma risorge la carne. Il che, se è vero in sé, non sta però rigorosa-mente sulla linea dell'antropologia paolina.

Qui infatti l'Apostolo insiste, proprio contro le tendenze spirituali-ste, con tutti i loro eccessi morali, come si accennò sopra, che la crea-zione dell'uomo fu unitaria, poiché il Dio Creatore formò l'uomo "a sua immagine e somiglianzà", plasmandolo dall'argilla ma infonden-dogli il suo Alito divino (cf. Gen 1,,26-27; 2,7), sì che l'uomo è sem-pre e solo un'"anima vivente, psychè zósa" (Gen 2,7), l'uomo non "ha" un'anima e anche un corpo, ma egli è integralmente anima incor-porata e corpo animato, un tutto. Questo tutto il Padre, come operò con lo Spirito Santo per il Figlio, resusciterà con lo Spirito Santo.

L'argomentazione del v. 15 è classica di Paolo. È la dottrina del soma Christoù, che via via ripetuta, sarà poi definita sempre più fino alla precisa-zione finale a livello di Colossesi ed Efesini, e che già sta in nucleo qui: Cri-sto è il Capo-Testa del suo corpo. Egli è Uno ed Unico, mentre il suo corpo è formato da molti, e dunque per essere organismo vivente deve avere mol-te membra o organi. Ora, questi mèle, membra, non sono altro che i semata, i corpi, e non i corpi e le anime. In una parola, qui Paolo usa sòma come noi usiamo "persona". E l'Apostolo pone anche una domanda: non sapete voi che è così? Quindi, la dottrina del "corpo di Cristo" doveva esse-re ben conosciuta nella Comunità di Corinto, e nessuno poteva disattenderla per teorie bizzarre, come quelle che Paolo sta combattendo proprio qui.

E la conseguenza di questa "organizzazione" vivente dei corpi-mem-bra e membri dell'unico "corpo di Cristo" è drastica nel campo della con-

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COMMENTO - IL TRIÓDION

taminazione morale. Ancora con i toni e gli accenti della diatriba, infatti Paolo si chiede: "Io, prese le membra (ossia: i corpi dei fedeli) di Cristo, (ne) farò membra di prostituta?" La risposta è un grido d'orrore: "Non av-venga!", non sia mai (v. 15). Quello che all'uomo "normale" di ogni tem-po sembra, almeno nella sua valutazione o svalutazione, una relazione momentanea, il contatto carnale con una prostituta (póme), per Paolo, ma già per l'A.T. e ovviamente per tutto il N.T., è una relazione che in qual-che modo invece lascia impronte indelebili dentro la profondità dell'uo-mo. E qui, a guardare bene, sia del maschio, sia della prostituta stessa. Inoltre, esistendo anche la prostituzione maschile, l'argomento vale anche per le donne (frequentazione diffusa, perché considerata "sacra"). '

II realismo biblico considera ogni realtà come parte dello sconfinato Disegno divino, e la turbativa portata su un punto che sembra trascura-bile incide invece in profondità, impedendo l'opera divina per tutti gli uomini e per ciascuno di essi. Ora, l'unione carnale tra l'uomo e la don-na non è uno scherzo, non è un gioco, non è neppure un piacere fine a se stesso, senza curarsi delle conseguenze, che sono gravi. Queste infatti, di fronte alle così scoperte incoscienza, ignoranza, amoralità di uomini e di donne, stanno inscritte nel divino Disegno per sempre. E si sa che il Signore porta al fine il suo Disegno, e guai a chi vi si oppone.

Paolo lo spiega con tutta la gravita eh'è possibile conferire al suo discorso di Apostolo dell'Evangelo, di "schiavo del Cristo Gesù" (Rom 1,1), il quale può volere per gli uomini solo quanto il suo Signore vuole: il solo bene, ed in modo disinteressato. Quindi pone una do-manda retorica, nel senso che la risposta vi è già contenuta: forse che i Corinzi ignoravano, dopo tanti anni di insegnamento dell'Apostolo e dei suoi collaboratori, che chi "aderisce" (kollàomai, verbo decisivo) alla prostituta, è con lei, ossia forma con lei "l'unico corpo, sòma!"} Come mai un contatto sempre fuggitivo, spesso clandestino, ha tale ef-ficacia irrimediabile? Lo dice il Disegno divino, e qui Paolo cita Gen 2,24: "Saranno infatti - dice (la Scrittura Santa) - i due come unica carne". La citazione è esplicita ed irreformabile (v. 16).

Occorre qui rievocare i fatti. Il Signore, creato Adam dall'argilla, dopo avere inspirato il suo Alito divino per farne "anima vivente (Gen 2,7), dopo avergli fatto fare "esodo" dalla steppa nel Giardino per es-servi coltivatore e custode, ossia padrone (Gen 2,8), dopo avergli dato il precetto salutare di mangiare dell'Albero della Vita al centro del Giardino (Gen 2,15) che gli avrebbe conferito l'immortalità (cf. Gen 3,22), ed avergli proibito di mangiare invece dell'albero della cono-scenza del bene e del male che produce la morte (Gen 2,17), decide della sua esistenza ordinata: Non è bene che stia solo, e decreta "un aiuto simile a lui" (Gen 2,18), che alla lettera significa "un aiuto che stia davanti a lui" come simile, come consustanziale. Allora dalla sua

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DOMENICA DEL FIGLIO DISSOLUTO

costola trae Havvah, Eva, che in ebraico significa "la vita" (Gen 3,20), gliela presenta e gliela dona (Gen 2,21-22), e Adamo esclama: "Que-sta è osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne!" (Gen 2,23). La con-clusione: l'uomo abbandonerà i suoi genitori, "e aderirà (proskollào-mai, ebr. dabaq) a lei, e i due saranno l'unica carne" (Gen 2,24).

Si noti qui l'assimilazione sóma-sàrx, che hanno sfumature diverse ma un significato di fondo molto simile, poiché in ebraico basar e sé'ér si possono tradurre sia con soma, sia con sàrx. Ora, i due termini ebraici e i due termini greci indicano sostanzialmente con "corpo-car-ne" il concetto di esistenza umana, anche se pongono sempre in risalto la sua fondamentale debolezza. "I due, un'unica carne/corpo" significa che due entità ormai, poiché aderirono reciprocamente (kollàomai), formano un'unica indivisibile esistenza. Di fatto, Adamo ed Eva restano uniti per sempre, anche dopo la loro rovinosa caduta.

La dimostrazione paolina procede con il tipico ragionamento rabbini-co, indicato più volte, e che si usa chiamare "argomentazione dal minore al maggiore". E di fatto, così, se 1'"adesione" tra uno ed una prostituta già forma "un unico corpo-carne", dunque un'unica esistenza, quanto più produrrà effetto 1'"adesione (kollàomai)" al Kyrios, Cristo Risorto. Si noterà che qui il verbo kollàomai assume il significato di "adesione nuziale". Tale adesione, che dunque forma "un unico soma/un 'unica sàrx" ossia ormai "un'unica esistenza" vera, viva, vitale, ha questa con-seguenza unica, inesprimibile, paradossale, mirabile: chi si unisce nu-zialmente al Signore diventa con Lui "unico Spirito" (v. 17).

In altre parole, questa esistenza nuziale che vige tra Cristo Signore ed i suoi fedeli, è operata dallo Spirito Santo, che vive nel Signore la medesima esistenza che vive nei fedeli del Signore.

Tale "adesione" nuziale è prodotta dal battesimo, come Paolo aveva affermato pochi versetti prima, in 1 Cor 6,11 :

Voi eravate questo (prima, esistenza di peccato),però foste detersi (apoloùó),però foste santificati (hagiàzo),però foste giustificati (dikaióó)nel Nome del Signore nostro Gesù Cristoe nello Spirito del Dio nostro.

Unico Spirito, unica esistenza dello Spirito Santo e nello Spirito Santo. Tra il Signore ed i fedeli che aderiscono nuzialmente a Lui scorre per intero la divina Santità ipostatica sussistente, la Trasparenza trascendente, la Potenza trasformante e divinizzante.

Ed ecco un'esortazione, ed una spiegazione gravissima: "Fuggite la fornicazione (pornéia)\" Per chi conosce la situazione di Corinto, tale

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COMMENTO - IL TRIÒDION

drammatico imperativo suona come un violento assalto ad un modo di vivere, che può apparire, e certo tale sarà apparso allora, come una pietra scagliata contro una montagna. Infatti l'immoralità sessuale a Corinto era tale, era talmente nota, e chi sa da quanti altamente ap-prezzata, che la grecita aveva coniato un verbo apposito, sintomatico: korinthiàzó, comportarsi in fatto di sesso come un abitante di quella città allora malfamata. Dove il sesso non solo si commerciava, ma era stato sacralizzato in un santuario apposito, nell'arce dell'abitato, dove l'esercizio delle turpitudini acquisiva il valore di un atto di culto, ben-ché a pagamento, sia per uomini, sia per donne.

E risuona subito la spiegazione. Ogni azione peccaminosa dell'uo-mo è "fuori del corpo", anche se poi in altri contesti Paolo parla del-l'incidenza del peccato, in qualsiasi forma, sulla coscienza profonda di ogni uomo (cf. Rom 1,16-32; cap. 3; 5; 7, etc.). Però il fornicatore commette il peccato direttamente contro il "proprio corpo", contro la propria esistenza (v. 18), avendo formato un'"esistenza unica" che im-mediatamente è infranta dallo scisma, che è la separazione dei due peccatori; il fornicatore avrà sempre un'esistenza divisa, lacerata.

Oggi non siamo tanto ingenui, o ottimisti, da ritenere che l'uomo "moderno", così desolatamente eguale all'uomo "antico" e perfino al-l'uomo "primitivo", possa comprendere ed accettare l'argomentazione "teologica" e "spirituale" di Paolo. La quale però non è "di Paolo" co-me fosse una concezione originale e personale di lui. Essa proviene dalla morale severissima dell'alleanza, come è accettata e sanzionata e resa assoluta da Gesù Signore, quando ad esempio, tra i tanti testi che si possono qui citare, nel "discorso della montagna" proclama beati i puri di cuore (benché puri non solo per la morale sessuale, però so-prattutto per essa), degni di contemplare il Volto della Santità {Mt 5,8). E nel campo specifico dei rapporti tra i due sessi non solo esclude l'a-dulterio, come nel Decalogo (di Es 20,14 e Dt 5,17), ma addirittura ogni sguardo di desiderio verso la persona dell'altro sesso: Mt 5,27-28, attribuendo all'"occhio" della concupiscenza il potere di "scanda-lo", ossia di pietra che fa precipitare nel fuoco eterno della gehenna {Mt5, 29a); e dunque è meglio estrarsi tale "occhio", piuttosto che pe-risca tutto il corpo (5,29b-30).

I Padri della Chiesa, in ogni epoca, hanno ben compreso questa specie di irradicamento del male morale nella profondità dell'esistenza dell'uomo, che baca la sua persona dirigendola costantemente verso il negativo, la pesantezza che porta sempre verso il basso, e mai verso l'alto. Si tratta deipàthè, le "passioni", che sono il subire da fuori e da dentro una vita che non si rivolge verso il suo retto sviluppo; si tratta di "movimenti" disordinati, che ricevono vari nomi, tra i quali il più famoso è epithymia, la "concupiscenza", detta anche "tenebrosa o

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malvagia". Su questo ha scritto pagine decisive, pensose e preoccupa-te, uno dei più grandi tra i Padri, S. Massimo il Confessore.

È esagerazione biblica e cristiana? Non sembra proprio, poiché dal 1800 in specie, e con invasione massiccia, indiscreta e "divulgativa" non nel senso migliore del termine, la teoria e la prassi della psicoanalisi han-no scritto pagine radicalmente diverse dall'E vangelo dei puri di cuore, e tuttavia analoghe. La sessualità è radicata nel profondo dell'"individuo" (qui non esiste il concetto di "persona", tanto meno di "immagine e somi-glianzà di Dio"), lo pervade nella parte decisionale, la "psiche" (che non è mai definita nella sua essenza, poiché l'ambientazione è quella perniciosa del neo-platonismo), la "determina", ossia la conduce anche dove non vuole, ed in fondo ne costituisce quasi la totalità. Le "pulsioni" della ses-sualità oscillano paurosamente tra V"instinctus mortis" (del tutto curioso il richiamo alla terminologia latina, ed alla mitologia greca, come al mito di Edipo) e la tendenza vitale, il primo sopraffacendo largamente la se-conda. La cura (elegantemente detta "analisi") garantisce la "razionaliz-zazione" dell'inconscio e delle sue pulsioni, l"'interpretazione" che porta alla "conoscenza" e dunque alla liberazione (struttura di pensiero e di prassi dello gnosticismo antico). "Stare sotto analisi" è diventato il vezzo dei borghesi ricchi. Ma l'analisi non assicura affatto la "guarigione" per-manente. Spesso provoca altri guasti nella personalità.

Teoria e prassi delle numerose e contrastanti "scuole" di psicanali-si, oggi, non si può ritenere che esagerino sulla sessualità, la quale può condurre alla rovina dell'ordinata esistenza umana.

Tuttavia andava qui mostrato in sintesi che, tutto sommato, neppure esagera la Rivelazione divina, quando richiama con rigore assoluto alla sanità mentale, spirituale, culturale, sociale che porta la retta considerazio-ne delle facoltà umane come il sesso. Che non è "il tutto" come in certe forme di cultura moderna occidentale (ma l'Oriente prossimo non è me-glio), però è sempre condizionante se non è bene inteso e bene moderato.

Così, certa cultura moderna si pone in modo aperto, insolente, pro-grammatico, indiscreto e petulante contro la morale sessuale e familia-re, per non parlare della morale in tutto il genere suo. Ma siamo abba-stanza informati che Paolo di questo era avvertito in modo consapevo-le, lucido, amaro, rabbioso. Come quando ad esempio conclude il ter-rificante cap. 1 dell'epistola ai Romani con questa dura constatazione, che è una condanna:

Essi che la giustizia di Dio così bene conoscendo (epiginóskó), che chi commette tali azioni (l'immoralità) sono degni di morte, non solo le medesime commettono,ma anche si compiacciono (syneudokéó) con chi le commette

(Rom 1,32).

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COMMENTO - IL TRIODION

Al v. 19 l'Apostolo fa seguire un'altra domanda retorica, che come le altre si rispondono da sé: "Forse non sapete": i fedeli debbono sape-re, che il loro sòma, corpo, ossia la loro esistenza concreta, storica, corporale ma insieme spirituale, è "tempio dello Spirito Santo che sus-siste in" essi (v. 19a). Lo Spirito Santo dal battesimo elegge come di-mora il fedele, che non abbandona mai più. Anche in caso di peccato, quando le facoltà spirituali saranno fiaccate, indebolite, incapaci di vi-vere per intero la Vita divina che è lo Spirito Santo; ma la Grazia della conversione è allora sempre donata, e- va solo accettata affinchè quelle facoltà ricomincino a funzionare. Il battezzato diventa "il tempio" consacrato dallo Spirito, quello da cui si innalza al Trono della Miseri-cordia il culto "nello Spirito Santo", che è anzitutto sacrificale oblati-vo (cf. qui testi fondamentali come Rom 12,1 e 11, "brucianti di Spiri-to, zéontes", testo che fonda il Rito dello zéon della Divina Liturgia; FU 3,3; 1 Pt 2,1-10, con richiamo battesimale; Giud20).

Lo Spirito Santo dai fedeli è ricevuto come Dono inconsumabile dal Padre, che Paolo dirà "versato come Carità divina nei cuori" dei battezzati (cf. Rom 5,5, altro testo fondamentale). Da questo momento il Padre ha preso possesso inalienabile dei fedeli, che sono "suoi" per il titolo della sua Paternità e Sovranità infinita, e dell'alleanza che ne deriva. E si sa che Dio non rinuncia per nessun motivo a quanto è sua proprietà personale. I fedeli non appartengono più a se stessi. In essi vive Dio, essi vivono in Dio e per Lui. Essi non possono più disporre del proprio "corpo", a loro arbitrio e capriccio e piacimento, esso or-mai è proprietà di Dio. Essi sono "tempio", sono sacrificio spirituale animato perennemente dallo Spirito Santo. Ribellarsi, tornare indietro, credere di recuperare la propria libertà, è profanazione del tempio, è tradimento contro Dio, è scempio di se stessi... è la rovina finale. Ma il Disegno divino non lo permette (v. 19b).

Paolo parlerà di "tempio" anche in altri contesti (cf. 1 Cor 3,16), anche se con minori esplicitazioni, come quelle singolari, splendide e decisive che porta in questo contesto del cap. 6.

Ma sopravviene un'ultima spiegazione, che è anche la motivazione di tutto quello detto finora. Al v. 20 è detto in modo conciso: "Infatti foste comprati (agoràzo) per prezzo (time)". L'affermazione è enorme. Il "prezzo" infatti è il Sangue di Cristo, detto perciò "prezioso", valore versato a fondo perduto per la redenzione dei fedeli. E "prezzo" non pagato al demonio, come da qualcuno si riteneva, poiché Dio non si fa ricattare sui beni suoi. È piuttosto il "costo" immane, infinito, che ha pesato sul Signore Gesù in modo tale da farlo morire, benché di morte volontaria, accettata, consapevole.

L'imperativo finale è del tutto in linea con la faticosa argomenta-zione dell'Apostolo: "Glorificate Dio nel corpo vostro". Dal tempio

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erompe verso il Cielo la glorificazione, ossia la lode permanente a Dio "perché è Lui", nei suoi titoli e nelle sue opere mirabili. Ma non solo: anche "con lo spirito vostro", e qui Paolo ribadisce con due termini l'integralità dell'esistenza redenta che si accosta a Dio per tributargli la dóxa. Poiché soma epnéuma dell'uomo, la creatura diletta, creata come icona di Dio, gli elementi insomma che lo sostanziano e lo costi-tuiscono, appartengono in proprio a Dio: "Restituire a Dio quello che è-diDio!"(cf.Le20,25b).

5. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 17,48.51, "Salmo regal e " . L u c a 'È l'Alleluia della Domenica 2a e 10a 9a

b)Le 15,11-32II Signore sta percorrendo la sua "salita a Gerusalemme", dove co-

me battezzato e trasfigurato, nella Potenza dello Spirito Santo del Pa-dre, deve consumare il suo "esodo" finale (cf. Le 9,31) al Padre, che avviene dalla Croce. Si è insistito, e con ragione, sul fatto che durante questa "salita" (Le 9,51 - 19,28), Gesù seguita ad attuare il suo pro-gramma battesimale, che adesso è anche trasfigurazionale (cf. qui la Metamorphosis, al 6 Agosto), ossia l'Evangelo da annunciare e da in-segnare, le opere del Regno, i miracoli potenti, da compiere, e il radu-nare gli uomini per introdurli al culto da tributare al Padre. La "salita", detta anche letteralmente "grande inciso", presenta molto materiale proprio di Luca, dove questo Evangelista mostra come l'attività infati-cabile del Signore subisca come un'accelerazione.

Il testo di oggi è la parabola del "Figlio dissoluto", il dissipatore dei Beni paterni. Essa però va inquadrata nel contesto immediatamente pre-cedente, Le 15,1-10, che spiega il senso ultimo della parabola stessa.

Si tratta di 3 parabole connesse dalla nota comune della "divina Misericordia", che è insegnata con tale procedimento efficace. Si usa-no infatti chiamare "le 3 parabole della divina Misericordia", anche se è altrettanto giusto chiamarle altresì "le 3 parabole della Gioia divina" per quanto era "perduto" ed invece laboriosamente "fu ritrovato".

Come già si è visto (cf. sopra, la Domenica del Pubblicano e del Fariseo), una delle caratteristiche più singolari dell'ebreo Gesù è non solo di ricevere, ma soprattutto di andare a cercare la gente perduta co-me pubblicani e peccatori, che, sorpresi dalla Visita divina, si mostra-no invece desiderosi della dottrina del Signore, del suo conforto e per-dono, del suo esempio (v. 1). Come sempre, questo tratto inaudito e offensivo per molti, fa mormorare gli osservanti della Legge santa, i quali sono convinti che "ricevere e mangiare", espressioni che signifi-

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COMMENTO - IL TRIÓD1ON

cano vivere insieme, in relazione ai peccatori, a parte che suona come una tacita approvazione, soprattutto rende contaminati, e dunque non idonei a partecipare all'assemblea cultuale del popolo santo (v. 2). La Santità di Dio non ammette mai la presenza scandalosa degli impuri, così si argomenta. Per sé, con ragione

E tuttavia, Gesù risponde come è suo solito con l'estrema carità dell'insegnamento parabolico, affidato a "chi ha orecchie da compren-dere" (cf. Le 8,8), ma intanto efficace per se stesso (15,3), come più consono alla sua immediata comprensione.

L'insegnamento è distribuito in 3 parabole. La prima tratta della pe-cora perdutasi nel deserto, perché incautamente, colpevolmente stac-catasi dal gregge delle 99 altre. Esistono alcune "leggi dell'esodo" nel deserto, già accennate, che è rovinoso infrangere. Normalmente, con-siderati i pericoli mortali del deserto (fame, sete, calura, predoni, be-stie, perdita dell'orientamento), il pastore si rammarica per il momen-to, poi decide giudiziosamente, tutto calcolato, di abbandonare la pe-cora al suo destino. Però se il pastore è coscienzioso, e Gesù fa appello ai presenti come se lo siano e forse lo sono, si pone alla ricerca del suo animale prezioso, si sposta dappertutto lasciando con calcolo ardito le altre 99 pecore incustodite nel deserto, finché comunque ritrovi "quella" pecora (v. 4). Allora "nella gioia" la prende in braccio, aven-dola trovata stanca ed assetata (v. 5), la riporta a casa, la rifocilla, e convoca la sua comunità, ossia gli amici ed i vicini, sempre solidali tra loro, e li invita alla gioia comune, e così cerca di essere congratulato per la sua ardita impresa, perché finalmente "ha ritrovato" la pecora perduta, rovinata per un momento, ma pecora "sua" (v. 6).

La conclusione della parabola è solenne: "Io parlo a voi" è sempre una formula di sentenzioso sigillo al precedente parlare; e quanto segue è il ragionamento rabbinico "dal minore al maggiore", sia pure in modo ellittico, che qui si completa: se per una sola pecora si fece tanta gioia, immaginatevi che sarà per un uomo, l'icona di Dio! Infatti "nel Cielo", ossia presso Dio, si farà analogamente (hoùtós) gioia (charà) per un unico peccatore che si converte, che fa penitenza (metanoéó), più che per 99 giusti che non hanno necessità di conversione, poiché stanno nella pace perenne con Dio (v. 7). Ecco allora due insegnamenti. Uno esplicito: il valore immenso di un uomo, anche, e forse proprio perché peccatore, agli occhi di Dio. Uno implicito: con la recuperata gloria di un unico peccatore, aumenta la Gioia divina, poiché il Dio senza alcuna mutazione è il medesimo che si muove per cercare i peccatori, e muove dentro il suo Cuore divino amante la sua Gioia infinita.

Analoga nella sostanza, viene la seconda parabola, quella della dracma smarrita. Anche qui si comincia con una domanda retorica: è pensabile che una donna, questa "regina della casa", 1'"angelo del fo-

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colare", attenta ai minimi particolari dell'economia domestica (cf. qui l'elogio della "donna forte", in Prov 31,10-31; l'unanimità degli ese-geti vi riconosce un forte colore greco più che ebraico) si dia pace se si perde {apóllymi) una sola dracma? No di certo, anche se ne possiede 10. Allora accende la lucerna, che pone in luogo strategico, poi scopa lentamente, attentamente l'intera casa, e cerca con cura (epimelós) fin-ché la trova (v. 8). E trovatala, chiama le amiche e le vicine, e le inter-pella per gioire insieme sulla "dracma perduta ma ritrovata" (v. 9). E di nuovo, con il procedimento rabbinico "dal minore al maggiore, Gesù esprime la formula solenne": "Io parlo a voi", e quanto dice richiama la gioia (chard) "davanti agli Angeli di Dio", le miriadi di miriadi di spiriti incorporei che perennemente servono Dio e cantano la sua Gloria, una gioia per un unico peccatore che giunge alla conversione (metanoéó) (v. 10). Se allora tanto a partire da una realtà come la pe-cora e la dracma, tanto più a partire proprio dalla realtà umana, un uo-mo perdutosi ma ritrovato. Ed ecco la terza parabola.

La pericope di Le 15,11-32 è oltre 3 volte più lunga delle due peri-cope delle due parabole che la precedono. Il testo è noto come forse pochi del N.T., e nei secoli è stato sempre un pezzo forte della predi-cazione della Chiesa, in Oriente come in Occidente.

Un uomo ha due figli. La parabola è così tripolare, e qui il padre ha una duplice relazione, del tutto diversa, con i due figli, e questi hanno una relazione del tutto diversa con il loro padre (v. 11). Il figlio più giovane, sempre immagine e somiglianzà del padre suo, gli si rivolge in modo sfrontato, senza rispetto, anche se l'interpella con il titolo in-delebile di "padre", e gli chiede senza mezzi termini l'anticipo dell'e-redità che gli spetterebbe dopo la morte del genitore; questo è contra-rio alla legge successoria in ogni legislazione, antica e moderna, e un padre vi si può opporre. Però qui soccorre la bontà del genitore, o forse la sua lungimiranza, in quanto il padre buono sa che prima o poi "ritroverà" il figlio, nonostante ogni avventura. Così al figlio "dona" (la donazione è un'istituzione prevista da ogni legislazione) la "parte spettante (epibàllon) della sostanza", tecnicamente "gli divide il bios", per sé "la vita", per metonimia quello che serve al sostentamento, il vitto per il resto degli anni (v. 12).

Il giovane senza cuore filiale pochi giorni dopo, radunati tutti quei beni immeritati, ossia realizzata la liquidità della sua sostanza patri-moniale, e con ciò stesso costituendo il fratello maggiore erede del-l'altra metà, viaggiò verso la "regione lontana", e lì dissipò, disperse (diaskorpizó) quanto possedeva, "vivendo incontinentemente, asótós", in modo dissoluto (v. 13). Vanno fatte qui due annotazioni. La prima è sulla "regione lontana", che i Padri studiarono a lungo, e che chiama-rono anche la "regione della dissomiglianza" dal Padre. È la "fuga", il

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nascondersi di Caino dal Volto divino, dallo Specchio divino in cui ogni icona vivente ritrova i suoi veri lineamenti nella purità fonda-mentale della creazione per grazia, la Trasparenza divina che vuole sempre stare di fronte alla limpidità della sua icona. Il figlio invece sceglie un diaframma volutamente interposto, per non essere "come" il Padre, secondo le leggi della Grazia. Nella "regione lontana", dove si crede di avere abolito, o almeno rimosso via lo stimolo fastidioso della Presenza, sta la rovina totale. Non si vive veramente fuori della Casa del Padre.

La seconda annotazione va su quell'avverbio sinistro, asótós, che bolla questo figlio e che da il nome a questa "Domenica del Figlio dis-soluto". L'avverbio viene dal sostantivo asòtia o asótéia, e dal verbo asòtéuomai, a sua volta risultato dell'a-, alfa privativo, e di sózó, ciò che non è salvabile, perduto, disperato. Asòtéuomai perciò significa scialacquare senza rimedio, scialare, vivere sregolatamente. E qui la nota morale è che chi si comporta così è moralmente perduto, depra-vato, dissoluto, libertino, gaudente, scialacquatore, fino ad essere una persona perniciosa per sé e per gli altri. In una parola, quel figlio visse da perduto. Oggi, come ieri, con frequenza crescente, si assiste a mas-se di persone dei due sessi, che nelle grandi città vivono in tal modo la propria, ed inevitabilmente anche l'altrui rovina. Fu anche coniata un'espressione diventata internazionale: la "dolce vita", vacua di valori e di interessi, fine a se stessa, inutile per la società.

Al lungo prologo, l'epilogo breve. Il giovane scialacqua e spende tutto, proprio mentre, restato senza sostentamento, avviene una "forte fame" in quella regione; è la carestia che si abbatte impietosa, travol-gendo in specie i meno provvisti di beni. Così il giovane senza mezzi cominciò a sentire il gravame dell'indigenza, indicata qui dal verbo hysteréò (al passivo) (v. 14). Allora si da a girare, finché trova da rifu-giarsi (kolldomai, aderire) presso uno di lì, e si fa inviare a lavori che nessuno accetta, nei campi a pascere i maiali. Quella terra dunque non è la Palestina, è una regione tutta pagana. Infatti per la tradizione ebraica al tempo di Gesù, esistevano molti mestieri che rendevano im-puri, e che dunque escludevano dall'assemblea liturgica; tra questi, i pastori di pecore, e così tanto più i mandriani di porci, che è l'ultimo grado della pastorizia. Il giovane diventa ancora più abietto (v. 15). Ora, nella fame crescente, l'industriale delle carni suine sorveglia che gli animali da allevamento siano ben nutriti, e le carrube sono un cibo altamente energetico, sopportabile anche dagli uomini, piacendo molto anche ai bambini; una buona mangiata avrebbe riempito lo stomaco del giovane, ma questo restava un desiderio. Infatti nessuno dava a lui (v. 16), e così egli ha toccato il fondo. Il Cielo lo permette in modo misterioso, ma provvidenziale.

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Nonostante gli stravizi, e le prove che lo attanagliano, visto da vicino in fondo questo giovane ha un'indole buona. È e resta sempre l'icona del Padre buono. Di cui sente il richiamo angosciante. Perciò finalmente "venne in se stesso", ossia rientrò in se stesso, si pose lucidamente da-vanti alla sua coscienza. È un "moto", principio della conversione del cuore, ossia del radicale mutamento del pensare e dell'agire. Il tempo opportuno ha validamente lavorato in suo favore, nonostante tutto. Ec-cellente richiamo al tempo opportuno chiamato Periodo del Triódion. Così il giovane perduto comincia a riconsiderare la sua situazione. An-zitutto, la Casa del Padre è ricolma di beni abbondanti per i misthioi, i salariati, dunque per gli estranei, proprio mentre "il figlio" di quel Padre "per la fame va in perdizione (apóllymi) (v. 17). Questa l'analisi. Poi la decisione: "sorto, mi recherò dal Padre mio". Il primo verbo, anastàs (da anistèmi), indica anche la resurrezione; il secondo,poréusomai, è un futuro (di poréuomai), con valore volontativo: "voglio andare dal Padre mio", decisione irrevocabile. Anche le parole da rivolgere al Padre sono pensate con cura: "Padre!", è l'indirizzo. Il figlio non ha dimenticato che il Padre è sempre e comunque Padre "suo". Il contenuto è la confes-sione: "io peccai contro il Cielo e davanti a te" (v. 18). Se si considera un semplice rapporto paterno-filiale, il figlio giustamente confessa che il peccato è duplice: contro il Cielo, ma in quanto è violazione del 4° co-mandamento. Se si considera il rapporto qualificato paterno-filiale, tra Dio e un suo figlio, la sua creatura diletta, allora si può spiegare così: Io peccai contro Dio (il Cielo), ossia contro Te in quanto Padre.

L'accusa della confessione porta adesso sulla situazione. Il figlio si considera "ormai, non più, degno di essere chiamato figlio" del Padre suo; nella sua estrema umiltà, dal profondo del suo cuore contrito, sa di aver perduto il diritto di avere il dolcissimo rapporto che regna tra generante e generato; è decaduto da quel grado, e sa che da solo non lo riavrà mai. Però chiede comunque la riammissione nella Casa del Padre, e si contenta di essere "fatto" come uno qualsiasi dei salariati che vivono a servizio del Padre (v. 19). Ed esegue il proponimento sa-lutare, da ragazzo ormai rinsavito: "e sorto (anistèmi), venne presso il Padre suo". È l'inizio della sua resurrezione, a cui dovrà dare però il sigillo legittimo e finale solo il Padre.

E il Padre "suo", mentre il figlio si teneva ancora lontano, "lo vi-de". In effetti, il Padre non l'ha mai abbandonato, anzi lo ha seguito anche "da lontano", lo ha sempre desiderato, ed ha sempre voluto avere la Gioia di riaverlo finalmente. Lo vede nella condizione meschina in cui il figlio versa, si può immaginare il giovane sfigurato dalla fame e dalle privazioni, vestito di stracci, dall'andatura ancora incerta. È 1'"immagine e somiglianzà" deturpata certo dal peccato, ma mai per-

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duta definitivamente. Il Padre ha dunque il moto divino della Miseri -cordia, dove il verbo è splagchnizomai, nel N.T. riservato solo a Dio. Sono le viscere della divina Misericordia sconvolte dall'amore tene-ro. Il Padre non attende, ma si precipita di corsa (dramón), e "cadde sul suo collo", espressione semitica per indicare il forte abbraccio, e gli da il bacio della pace, il bacio paterno della comunione mai nega ta al figlio, ovviamente non curandosi della sua visibile condizione di porcaro, che rende impuro chiunque lo tocchi (v. 20).

Il figlio comincia la sua confessione: "Padre, peccai verso il Cielo e davanti a Te e non sono più degno di essere chiamato figlio di Te" (v. 21). È la metà del discorso preparato, manca la richiesta di essere con-siderato nel rango di salariato, perché il Padre lo interrompe proprio rivolgendosi a quei servi, con ordini immediati: portare la veste (di) prima (qualità) per rivestirlo, poi l'anello al dito, poi i calzari ai piedi (v. 22). Essi debbono subito dopo portare da abbattere il vitello grasso, riservato per le feste. E terminano gli ordini con l'indizione della fe-sta: "Mangiando, facciamo festa!" (v. 23).

La motivazione è stupenda e propriamente divina: "Questo figlio "mio" era morto, e tornò a vivere, e perduto era, e fu trovato". Dalla morte alla vita, dalla rovina alla Casa del Padre. E cominciano a fe-steggiare nella gioia. Che tipo di festeggiamenti? Veste, anello, calza-ri, e vitello delle grandi occasioni: è il Convito nuziale gioioso, che è per il Padre anche il coronamento della vita del figlio, il pieno reinse-rimento di lui nella Casa comune (v. 24) (vedi Appendice I).

E qui, a ben vedere, l'insegnamento della parabola, che è densa di straordinario e perenne significato, sarebbe terminata. Scisma, pecca-to, dissoluzione nella lontananza, conversione, ritorno, penitenza con-fessante, abbraccio e bacio della pace paterna, sacramentalità sigillare del Convito. Tutto è avvenuto, e tutto è terminato bene. Secondo la Volontà precisa del Padre. Per cui il Padre donò al Figlio la vita due volte, quando lo generò e adesso. Ma adesso per sempre.

E tuttavia Gesù pone un seguito, assai cupo, doloroso. È il secondo insegnamento sulla Misericordia del Padre, che non conosce limiti se non nella voluta inconoscenza che gli si rivolta contro. Poiché di fronte alla Misericordia "paterna" viene a mancare la misericordia "fraterna", che è equamente principale come la prima, non può essere disgiunta da essa, ne discende in via diretta. Un parallelo si troverà nell'altra parabola, del debitore dei 10.000 talenti e di quello di 300 denari, il primo condonato dal Re ma non condonante il confratello, il primo perdonato nel molto inarrivabile, e non condonante nel poco (cf. Mt 18,23-35). Si usaparlare dunque del "conservo spietato" (vedi Do-

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Ora, il Convito non è completo se manca la comunione di tutti. L'altro fratello, coerede maggiore, sta nel probo lavoro dei campi, e torna a casa, e avvicinandosi percepisce sempre più distintamente il suono allegro della zampogna (symphónia; ma potrebbe anche dire del concerto armonioso), e delle danze con canto (v. 25). Allora chiama un servo e si informa su quello che sta succedendo lì (v. 26). Quindi il fratello maggiore non si trovava con il Padre nella Casa comune, non attendeva il fratello, non era pronto a riaccoglierlo. Il servo lo infor-ma: suo fratello è venuto, il Padre ha fatto uccidere il vitello grasso, poiché riebbe il figlio "sano (hygidinofe salvo (v. 27).

La rabbia, la gelosia, il rancore del fratello maggiore esplodono, e questi non vuole partecipare alla festa. Deve uscire il Padre, avverti -to, a chiamarlo (v. 28). E la seconda uscita, benevolente come la pri-ma, poiché il cuore del Padre contiene ambo i figli. Ma questo figlio adesso lo ricusa, e rigetta l'invito paterno, aggredendolo con dura violenza verbale, indizio di un cuore pieno di livore non solo verso il fratello, ma anche, e forse soprattutto, verso il Padre perdonante, ge-neroso senza alcun limite. La prima parola è mettere il Padre sotto processo: "Ecco", rinfacciandogli il servizio di tanti anni, come se avesse lavorato "per" il Padre e non per se stesso e per il suo avveni-re. Con l'"ecco", si nota a colpo d'occhio che neppure lo chiama "Padre", come invece l'altro figlio. Gli rinfaccia poi di essere stato sempre ligio agli ordini, di non avere mai "trasgredito il precetto" pa-terno, ossia la regola della vita comune. Questa è aggressione anche al fratello, che non nomina, e che invece trasgredì in modo grave la Volontà di bene del Padre. Allora viene l'accusa incredibile: di non aver mai ricevuto dal Padre neppure un capretto per una cena con gli amici (v. 29).

Infine, l'ultimo colpo, segno della violenza dei moralisti dell'osser-vanza stretta, meschina. Che genera spesso intolleranza per chi non sta allineato non con la morale comune, ma piuttosto con la loro ristrettez-za di mente e di cuore, con le loro idee sulla morale. Così osa attentare alla dignità del Padre addirittura per avere riaccolto con il Convito del vitello grasso "questo tuo figlio", non "questo mio fratello", che ritorna dopo essersi divorato (kataphàgó) l'intera sostanza con le prostitute (v. 30). Non si sa se qui la rabbia non sia anche velata di invidia.

Il Padre buono resta calmo. Egli anzitutto lo chiama "figlio". E gli ricorda che sta con lui da sempre, e perciò i beni suoi sono anche del figlio. È la comunione indivisa della vita e dei beni. E quindi la colpa è solo del figlio se non ha usato quei beni "suoi". E qui si insinua il dubbio che questo figlio sia anche avaro (v. 31). E poi lo ammonisce gravemente: "Si doveva (édei)", faceva parte del divino Disegno, e

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COMMENTO - IL TRIÓDION

della sua necessità cogente, che si facesse il Convito e si godesse la Gioia, per il motivo immenso, davanti a cui tutto deve scomparire se è rimprovero, rimpianto: "Questo fratello tuo era morto e tornò a vivere, e perduto e fu trovato" da Dio. La resurrezione di un fratello è solo gioia e festa dei fratelli, come lo è del Padre comune. Il Padre con questo afferma per sempre che ha due figli "suoi", che ama in modo eguale.

Se è così, allora deve stabilirsi in modo permanente ed efficace il triangolo dell'amore, che ha la fonte nel Padre comune, e che scorre in modo supereffluente nei figli e fratelli e che deve essere scambiato da questi fratelli. Il Padre ha stretta necessità di questo, poiché vuole sta-bilire e consolidare l'amore fraterno, affinchè questo come un solo cuore diventi anche amore verso Lui. Dio vuole essere amato dagli uo-mini, ma attraverso gli uomini, non da uomini singoli ed alienati tra loro. Così la mancata misericordia, ossia l'amore nonostante il non meritato dell'amato — ma poi, chi dice che mio fratello sia immerite-vole moralmente del mio amore di comunione? Io, che mi ergo dun-que a giudice senza appello? —, interrompe quel mirabile triangolo dell'amore. Che è il capolavoro della creazione divina. Che realmente qualifica l'uomo come "icona del Padre", capace d'amare, nei limiti creaturali ovviamente, "come" il Padre lo ama, e il Padre lo ama preci-samente in quanto sia poi capace di amare le "icone" sorelle. Il contra-rio vanifica l'amore di Dio.

La parabola in questo Periodo del Triòdion insegna che la vera con-versione verso il Padre di ogni Misericordia è in realtà prima la con-versione verso se stessi, verso i fratelli, verso il mondo creato. Il Vertice del Triangolo, che scatenò questa tempesta vivificante e trasformante dell'amore salvifico, resta in attesa di ricevere tutto l'amore che donò ai figli, aumentato però nei figli.

Qui sta la Gioia divina, e qui sta l'aumento infinito di questa Gioia, benché questa non sia quantificabile e perciò paradossalmente resta immutabile. Le tre parabole della divina Misericordia, viste qui sopra, sono anche le tre parabole della divina Gioia per gli uomini che torna-no alla Casa del Padre, anche per ritrovarvi { fratelli.

Le Chiese così orribilmente divise, oggi, alienate, rancorose, adira-te, sono chiamate a contemplare queste realtà a livello comunitario, e non solo individuale.

6.MegalinarioDella Domenica.

7.KoinónikónDella Domenica.

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TAVOLA 23 - Sinassi dei SS. Taxiarchi Michele e Gabriele - Studio del Vescovo, Piana degli Albanesi, 1995. S. Angelo su epigonàtion - Parrocchia Maria SS. Assunta, Palazzo Adriano, 1800.

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TAVOLA 24 - Cristo Pantokrator e la santa Dièsis - Episcopio, Piana degli Albanesi, circa 1610.

SABATO PRIMA DELLA APÓKREOS PSYCHOSÀBBATON

La rubrica di questo giorno indica così: "Compiamo la memoria (mnèmé) di tutti i cristiani ortodossi, padri e fratelli nostri, addormentatisi da questo secolo". Essa è la medesima dello Psychosàbbaton, della vigi-lia della Pentecoste, al quale si rimanda per il significato globale della ce-lebrazione. Il presente Psychosàbbaton, celebrato in prossimità dei Digiu-ni grandi, ha anche l'accentuazione di fare memoria presso il Signore dei defunti che nel tempo sono stati abbandonati o dimenticati dagli uomini. Ovviamente, non dal Signore, sì che questa mnèmè di oggi ha anche il compito fondamentale di risvegliare la "coscienza storica" battesimale dei fedeli, che debbono riacquistare la costante consapevolezza che for-mano una grande, innumerevole Comunità alla quale sono chiamati già su questa terra in modo da prepararvisi a partecipare in eterno.

L'ufficiatura del Vespro, del Mattutino e delle Lodi di oggi è trapunta da questa consapevolezza, e dunque da compunzione. I defunti possono essere anche chiamati per nome nel Mnèmósynon tòn kekoimèménòn ap-posito del Vespro. La contemplazione della morte, della mortalità dei sin-goli battezzati, innalza il pensiero alle Realtà divine: le preghiere men-zionano le opere della salvezza del "Dio degli spiriti e di tutta la carne", la concentrazione nell'Incarnazione, nella Croce e nella Resurrezione, e la tensione al dono finale della Vita dello Spirito Santo.

Non sarà visto come contrasto il fatto che tra le Ore e la Divina Liturgia, in specie nelle sue Letture, esista una certa separazione. Infatti l'introduzio-ne di questo Psychosàbbaton fu operata quando l'ufficiatura era già corrente quanto alla Divina Liturgia, che non si ritenne di dover accordare se non nei Tropari, che sono quelli dello Psychosàbbaton di Pentecoste. Ma poiché le Letture bibliche contengono una forte tensione escatologica nell'Evangelo del giorno, il raccordo è agevole da fare nella mistagogia al popolo di Dio.

1. AntifoneTypikà e Makarismói.

2. EisodikónOrdinario, con ho Anastàs ek nekròn.

3. Tropari

1) Apolytikion dei defunti: vedi lo Psychosàbbaton di Pentecoste.

2) Kontàkion dei defunti: vedi lo Psychosàbbaton di Pentecoste.

3) Theotokion: Sé Mi téichos, vedi lo Psychosàbbaton di Pentecoste.

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COMMENTO - IL TR1ÓDION

4. Apóstolosa) Prokéimenon: Sai 24,13, e 27,1, "Suppliche individuali".

Per Sai 24,13, vedi lo Psychosdbbaton di Pentecoste. Lo Stichos (27,1) è il grido del fedele al Signore, suo unico Rifugio fortificato, che sembra tacere, ma non lascerà il suo fedele senza la vita.

b) 1 Cor 10,23-28L'Apostolo dedica una lunga pericope, 10,14-33, alla problematica

grave che provoca il culto degli idoli; ne aveva già trattato in 8,1-12. Vedi la parte dell' Apóstolos della Domenica delV Apókreos, dove si tratta di "una serie di spiegazioni normative".

5. E VANGELO

a) Alleluia: Ordinario del Sabato.

b) Le 21,8-10.25-28.33-37.La pericope composita è ritagliata dal "discorso escatologico" di

Luca (Le 21,5-36), con l'aggiunta della conclusione redazionale (v. 37). Il discorso è divisibile in diverse parti (vedi schema generale di Luca, Parte I): i segni precursori della fine (21,5-19), la fine di Gerusalemme (vv. 20-24), la Parnasia ultima del Signore (vv. 25-33); con l'ammoni-zione a vigilare (vv. 34-36). Va qui detto che Luca anticipa elementi dell'escatologia in 17,20-37, che vanno sempre tenuti presenti.

I vv. 8-10 contengono l'ammonizione iniziale, di tenere a distanza ifalsi profeti che verranno nel nome del Signore in modo ingannevole(vv. 8-9), mentre avverrà nel mondo una guerra totale (v. 10).

II Signore allora sarà preceduto da "segni" terrificanti, in cielo ed interra, e tutti gli uomini ne avranno un'angoscia mortale (vv. 25-26).Secondo la profezia di Dan 7,13-14 (che il Signore confermerà nelprocesso davanti al sinedrio, Le 22,70), Egli, il Figlio dell'uomo, dotato di ogni potere salvifico in cielo come in terra, su tutti i popoli,"verrà con potenza e gloria grande" (v. 27). La causa della Parnasiasarà il Giudizio (cf. Mt 25,32-46; vedi Domenica prossima).

A questo momento, il Signore esorta i fedeli a guardare in alto, al di là di ogni timore umano, nella fede ferma, poiché "la Redenzione si avvicina (eggizei)", ossia è ormai venuta (v. 98). Il Fine della storia degli uomini porta la salvezza di chi avrà conservato la fede contro ogni attesa, ogni assalto di idee ingannevoli, contro ogni persecuzione inevitabile per i discepoli del Signore.

Quanto il Signore afferma, è certo: "il cielo e la terra passeranno, però i lógoi, le parole mie, non passeranno" (v. 33). Ossia, si attueran-no nell'intero rigore del loro contenuto annunciato.

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PSYCHOSÀBBATON

I vv. 34-36 sono l'ammonizione finale, la più severa. Essa è perma-nente, da adesso e per sempre. I fedeli dovranno "fare attenzione (pro-séchó) a se stessi", con forte vigilanza, in costanza che non viene me-no, affinchè le preoccupazioni mondane non rendano i loro cuori "pe-santi", ossia non più ricettivi della divina Parola. Esse in questo possono opporre un malefico diaframma: la vita materiale facile, indicata qui con due "estremità" che indicano totalità: l'eccessivo cibo, la crapula, e l'eccessivo bere, l'ubriachezza; e le "preoccupazioni" della vita ridotta al biologismo (v. 34). Infatti "quel Giorno" grande e tremendo può cadere addosso all'improvviso, come scatta la rete per gli uccelli e la trappola per gli animali, all'imprevista, su tutti gli abitanti della terra (v. 35). Ma i fedeli sono preavvisati, ammoniti, istruiti, resi vigili.

Perciò debbono vigilare (agrypnéó), non dormire il sonno in senso spirituale e morale, sempre, e supplicando (déomai). Solo allora essi otterranno di sfuggire la catastrofe inevitabile, e saranno resi degni di stare davanti al Figlio dell'uomo, nel Giudizio (v. 36). La Grazia divi-na sarà dunque ottenuta dalla continua epiclesi di un popolo sempre desto alla Realtà divine.

Gesù dava questi terribili insegnamenti in pubblico, nel tempio, ogni giorno. La notte invece stava in preghiera costante sul Monte de-gli Olivi, che tra poche ore vedranno consumarsi l'inizio della sua Passione redentrice per tutti gli uomini (v. 7).

I fedeli defunti furono quelli che ascoltarono e misero in pratica gli insegnamenti e le ammonizioni del Signore, sostenuti dalla Grazia bat-tesimale del suo Spirito Santo.

I fedeli viventi memorano questo, entrando così nel medesimo at-teggiamento di fede consapevole. I Digiuni prossimi segneranno per essi una specie di palestra vigile della pratica della loro fede, e della loro speranza nel Signore che viene.

6. MegalinarioOrdinario.

7. KoinónikónÈ composto dal Ps 64,5, identico al Koinónikón dello Psychosàb-

baton di Pentecoste, a cui si rinvia.

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DOMENICA DELLA APOKREOS

o "dell'Astinenza dalla carne" o "di Carnevale"

"Sulla Venuta di Cristo"

La rubrica che intitola questa Domenica indica così: "Facciamo il memoriale della seconda ed incorruttibile Parousia del Signore nostro Gesù Cristo". Questo pone a contatto i fedeli con le Realtà ultime e terribili, proprio mentre questa Domenica li sta avvicinando, come pe-nultima di preparazione, ai Digiuni, che sono la "Quaresima". Perciò intanto si fa tempo di un digiuno più stretto, più consapevole. Non si mangia più la carne. La Chiesa antica era molto più severa, e la lette-ratura riferisce di digiuni drastici, non solo dei monaci, ma anche di molti fedeli, come del resto le Chiese Orientali, dove si può, ancora praticano. Con la preghiera e la carità, il digiuno, che è anche segno di umiltà, è oggetto costante dell'insegnamento del Signore, il quale Egli stesso ne ha praticato l'uso mostrandone il valore ineludibile da parte dei fedeli, ad esempio nel "discorso della montagna, proprio intorno al "Padre nostro": cf. Mt 6,1-15.16-21 (e Domenica prossima, l'Evange-lo). La vita moderna sembra sconsacrare e respingere la pratica del di-giuno religioso come residuo di culture ed usi antichi ed obsoleti, e questo si sostiene anche da gente che ancora dice di avere la fede; in realtà il digiuno terapeutico e sportivo è raccomandato dagli speciali-sti, ed è in continuo aumento attraverso sofisticate ricette di "diete controllate". Segno indicatore che in un modo o nell'altro l'uomo è fatto anche per digiunare.

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikà e i Makarismói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1) Apolytikion anastàsimon, del Tono occorrente.

2)Apolytikion del Santo titolare della chiesa.3)Kontàkion: "Hótanélthès, ho Theós", Tono 1°. Il canto riprende larubrica e l'Evangelo del giorno, con la visione del Signore che vienesulla terra nella Gloria divina, nel tremore di ogni esistente, con il fiume di fuoco che scorre davanti al palco del tribunale, quando i libridella vita saranno finalmente spalancati, e le realtà nascoste sarannodivulgate. Tutta l'assemblea orante qui innalza la supplica: allora

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DOMENICA DELLA APÓKREOS

scampami dal fuoco inestinguibile, e rendimi degna di prendere pósto alla destra tua, o Giudice giustissimo!

4. Apóstolosa) Prokéimenon: Sai 117,14.18, "Azione di grazie comunitaria".

Vedi la Domenica 3a di Pasqua; 22a Matteo; 2a 10a

b) 1 Cor 8,8 - 9,2II blocco impressionante dei cap. 5-11 dell'Epistola è dedicato da

Paolo a diverse norme che debbono regolare la vita di fede e di carità della Comunità, e reprimere gli abusi, ed esortare i deboli, ed incorag-giare i forti ad operare la carità.

Tra i problemi che causavano gravissimo ostacolo all'unione degli animi stava quello degli "idolotiti", ossia del mangiare questa carne che proveniva dal sacrificio pagano, e che era regolarmente venduta nelle macellerie, mentre una parte era consumata direttamente sul luo-go del culto pagano stesso. Un fatto lontano, che oggi può sembrare di altri mondi, causava scandalo, mentre oggi se cristiani fedeli parteci-pano a festini apertamente irreligiosi, come la vita odierna da frequenti occasioni, passa per inavvertito. Ma va considerato che secondo la vita spirituale della Rivelazione divina, già in sé il mangiare è un fatto sacro, che va accompagnato dalla benedizione che deve salire al Si-gnore. Ed è un fatto doppiamente sacro se il cibo è preso in comunità, sia essa anzitutto e soprattutto la famiglia, sia essa una comunità intor-no al Vescovo o al parroco, sia una comunità monastica.

Ora, taglienti precisazioni negative contro la partecipazione al pasto sacrificale pagano risuonano già nell'A.T., come in Es 34,15; Lev 17,7; Ez 8,3-11; quel gesto rende contaminati, ed esclusi dal culto divino. Ed oltre tutto, se recidivo, rende proni all'abitudine di una pratica che insensibilmente fa tornare all'insania dell'idololatria.

Per la Palestina del tempo di Gesù il problema quasi non si poneva, e perciò gli Evangeli praticamente lo ignorano. Non era così per Pao-lo, "il maestro delle nazioni" pagane, la cui predicazione si scontrava frontalmente con il più massiccio paganesimo dell'età antica. Questo era molto grave a Corinto, poiché l'Apostolo torna a trattare degli ido-lotiti ben 2 volte nella 1 Corinzi: 8,8-9,2; 10-25.29.19, e di nuovo po-co tempo dopo nella 2 Cor 6,14-16.17-18 (le due Epistole sono circa degli anni 56 e 57).

In 1 Cor 10,25-29, dopo aver trattato della partecipazione al Pane ed alla Coppa del Signore (vv. 15-17), e dopo avere perciò esortato a stare lontano dall'idololatria (v. 15), Paolo stabilisce che sia la carne sacrificata agli idoli, sia gli idoli stessi, sono "nulla" (v. 19), e che tut-tavia questo sacrificio attraverso gli "idoli" è offerto ai demoni (v. 20).

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COMMENTO - IL TR1OD1ON

E stabilisce subito l'avvertenza drastica: guai a suscitare la gelosia del Signore! (v. 22), poiché partecipare alla libazione e al convito sacrifi-cale idololatrico, alla mensa dei demoni, esclude la partecipazione alla Coppa ed alla Mensa del Signore (v. 21).

Seguono una serie di spiegazioni normative. Come aveva afferma-to, con il modo della "diatriba", in 6,12-13, se tutto è lecito ai liberi, invece non tutto è conveniente alla loro salvezza, poiché non tutto "costruisce" le anime e la Comunità (v. 23). E perciò nessuno cerchi solo il vantaggio proprio, ma cerchi sempre e solo quello del prossimo (v. 24). Ora "del Signore è la terra e quanto questa contiene" (citazio-ne di Sai 23,1), e dunque i fedeli al mercato possono comprare tutto (vv. 25-26). E perfino se un amico pagano invita a mangiare, si può mangiare tutto, senza fare indagini sulla provenienza (v. 27), in sicura coscienza. Salvo che qualcuno avverta che si tratta di "carne dei sacri-fici", ed allora il cristiano eviterà di gustarne, sia per la propria co-scienza, sia per lo scandalo che darà agli "altri" (v. 28); qui Paolo cor-regge: piuttosto si tratta della coscienza dell'altro (v. 29).

In 2 Cor 6,14-16.17-18 Paolo torna con ancor maggiore decisione sul tema, ed esclude la comunione tra giustizia ed iniquità, tra luce e tenebra (v. 14), tra Cristo e il principe dei demoni, tra il fedele e l'infe-dele, tra il tempio di Dio e gli idoli (vv. 15-16a). Seguono le citazioni di Lev 26,12; Ez 37,27; Ger 51,45; Es 20,34,41; h 52,11; 2 Re (= 2 Sam) 7,14; Is 43,6; Ger 31,9; 32,38; Os 1,10, variamente intrecciate, che dicono: il Signore abiterà in mezzo al popolo suo, perciò questo popolo sarà "santo" solo se fuggirà ogni contaminazione dal rapporto con i pagani impuri ed idololatri. Allora il Signore sarà il Padre per i figli suoi (vv. 16b-18).

Qui non sarà da confondere purità, sacralità, contaminazione, im-mondizia, separazione, e così via, con norme "tabù", come sostiene con sospetta insistenza certa critica positivista senza conoscere real-mente i fatti. Paolo insiste sulla santità, sulla carità, sulla comunione totale con il Signore, sulla purezza delle intenzioni, che sono tutte realtà non riferibili a tabù esterni. Si tratta di rispondere alla Grazia dello Spirito Santo, e questo è di disporsi a rimuovere ogni diaframma impediente, che può diventare tragico per la salvezza dei fedeli.

La pericope di oggi, tenendo conto di quanto detto finora, comincia con il conferire giusta proporzione al cibo: questo non è in sé uno stru-mento efficace di "presentazione" (paristèmì) a Dio come Sovrano a cui rendere omaggio, come Giudice da esserne giudicati, come Signo-re Dio e Padre da adorare. E così se si mangia non esiste abbondanza spirituale, né se si digiuna esiste penuria spirituale (8,8). Perciò viene la messa in guardia: "Guardate!", il libero potere di mangiare o no, non deve porre ilpróskomma, la pietra di inciampo, lo "scandalo" ai

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DOMENICA DELLA APÓKREOS

deboli nella fede, agli incerti, agli scrupolosi, come ne esistono nume-rosi nelle comunità religiose di ogni tipo (v. 9). Uno di questi "deboli" infatti ha stima per il confratello che considera "avente conoscenza", un esperto della fede e della vita; se lo vede adagiato a mensa nello stesso santuario pagano, il luogo massimamente contaminato (oltre i sacrifici, vi si praticavano le orge promiscue di ogni scelleratezza), mentre mangia tranquillo la carne già offerta agli idoli — per sé, un "nulla", vedi sopra, la spiegazione a 10,19 —, allora il debole crede di poter concludere in coscienza, sempre debole, che quel cibo abomina-to, adesso identificato come tale dal luogo dove è consumato, si possa mangiare senza conseguenze spirituali (v. 10). E però questo fratello debole, che è tale valore che Cristo morì per lui, va alla rovina, nella tentazione della partecipazione idololatrica, solo perché 1'"avente co-noscenza", l'esperto, con il suo comportamento ve l'ha indotto (v. 11).

Così, tuttavia, avviene la catastrofe: In esperto" di realtà spirituali, che agisce così sconsideratamente, commette peccato verso i fratelli indifesi, più deboli, percuotendo dolorosamente la loro coscienza spi-rituale. E questo è proprio peccare contro Cristo Signore (v. 12). Ma se è così, se questo mio mangiare scandalizza mio fratello, afferma Pao-lo, per non scandalizzarlo, mai più mangerò carne (v. 13).

Qui egli lancia un forte appello alla Comunità. Con domanda "reto-rica", ossia che contiene in sé già pronta la risposta, chiede: "Forse che io non sono "apostolo"?", poiché a Corinto lo revocavano in dubbio i falsi fratelli, sopravvenuti a predicare dopo lui e spargendo zizania tra i fedeli (cf. 3,1-17). E: "Forse che io non ebbi visione di Gesù Cristo il Signore nostro?", fatto avvenuto sulla via di Damasco davanti a molti testimoni (cf. At 9,1-9), e ripetutosi in modo assai misterioso intorno agli anni 42-43, nel "terzo cielo", "in paradiso" (cf. 2 Cor 12,1-4). Questi sono i titoli autentici con cui Paolo si presenta al mondo, poiché fu reso idoneo alla missione dal Signore Risorto stesso. E segue la quarta ed ultima domanda: "Non forse voi l'opera mia, siete, nel Signo-re?" (9,1). E questa concretezza storica è la migliore conferma del suo apostolato divino, poiché lì realmente sta la Mano di Dio.

Perciò l'Apostolo conclude che anche se qualcuno per odio e di-sprezzo non lo considera vero "apostolo", del gruppo degli Apostoli di Gerusalemme, ossia dei Dodici, dei 120 e dei 500 (cf. 1 Cor 15,3-8), tuttavia lo è, ed a titolo eminente e visibile negli effetti, per i Corinzi. Essi sono "la sphragis dell'apostolato" di Paolo, ma "nel Signore" Ri-sorto (9,2). Ora, sphragis, sigillo, per gli antichi era un fatto concreto e molto serio. In genere, sapendo scrivere o no, ognuno possedeva il suo sigillo personale e identificante. Esiste una grande scienza archeologi-ca, la "sfragistica", che studia i milioni di esemplari di sigilli ufficiali e personali pervenuti fino a noi dalla più remota antichità sumera (Meso-

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COMMENTO - IL TRIÒDION

potamia, 5° millennio a.C), e via via attraverso i Cananei, i Greci, i Romani, per il medio evo fino a giungere ad oggi, ma con prosecuzione futura senza fine. E però il sigillo suppone una serie di fatti: la transa-zione, dunque l'accordo, poi il documento scritto su quegli accordi, ed infine l'asseverazione personale dimostrata legalmente e validamente dalla firma, se si poneva, e dall'immancabile sigillo personale. Allora il documento era completo, l'affare prendeva consistenza e portava le sue conseguenze, e tutti ne dovevano tenere conto, poiché faceva legge. La Comunità di Corinto "nel Signore" è questo sigillo del grande fatto, la predicazione di Paolo ed il sorgere della fede. Il medesimo Paolo poi ricorderà che il Sigillo divino apposto a tutte le operazioni di Dio è lo Spirito Santo (cf. 2 Cor 1,21-22; etc.).

5. E VANGELO

a) Alleluia: Sai 19,1, "Salmo regale"; 27,9,Vedi per 19,1, Domenica 3a dl WÈafteo, ew 2

Pmkéimenon della Domenica 7a e 15a 6a 14a

b)Mt 25,31-46La pericope fa parte dell'ultimo insegnamento di Gesù nella sua Vita

tra gli uomini prima della Cena e della Passione. Esso è dato ormai nel gruppo ristretto dei discepoli, ammessi ad ascoltare gli infiniti Misteri del Regno di Dio che pongono termine alla storia degli uomini. Perciò la parabola di oggi fa parte del "discorso escatologico" (Mt 24,1 - 25,46). Che, come si sa (vedi lo schema generale di Matteo, Parte I), è a sua volta diviso: a) nella predizione delle realtà finali come catastrofe del mondo storico, con i "segni" terribili del Figlio dell'uomo che viene per la sua "seconda e terribile Parousia" (24,1-51);b) in 3 parabole, delle dieci vergini (25,1-13), dei talenti (25,14-30), edel Re della gloria con il Giudizio (25,31-46).

Proprio questa pericope, che è come l'esplicitazione della preannun-ciata Parousia del Figlio dell'uomo, da Gesù preannunciata finora ben 3 volte, riapre la visione grandiosa di questa Parousia. Il testo comincia con un preannuncio che è terribile certezza: "Quando verrà il Figlio dell'uomo", poiché inevitabilmente verrà. "State preparati, poiché il Fi-glio dell'uomo verrà in quell'ora che non conoscete!", aveva ammonito il Signore in 24,44. Ora, il verbo érchomai, venire, è carico di contenuto teologico. Giovanni il Prodromo all'inizio della sua predicazione, che segna anche l'inaugurazione del ministero di Gesù, aveva preannunciato l'operazione di "Colui-che-viene, ho Erchómenos" (Mt 3,11). Così riferito a Gesù, il "venire" indica sempre la missione ed il suo adempimento (Mt 16,27; 24,27.30: nei "segni" terrificanti; 26,64, la te-

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DOMENICA DELLA APÓKREOS

stimonianza del Signore stesso davanti al sinedrio, nel processo — e precisamente parole che gli frutteranno la condanna a morte —, come le Scritture avevano predetto (cf. 7n.cc 14,5) e poi mostreranno confer-mato (Ap 20,11-13).

La Venuta è del Figlio dell'uomo. È questo l'unico titolo che Gesù attribuisce alla sua persona (gli altri, tutti, sono della Comunità primi-tiva). Esso indica quella figura misteriosa di Dan 7,13-14, il quale nella visione divina finale, nell'aula celeste, si avanza "da Dio verso Dio", l'Antico di giorni, l'Eterno, per ricevere "l'intera potestà" della salvezza, sotto forma della Sovranità divina, sempre ricordando che biblicamente "re" significa "salvatore" del suo popolo. Sovranità su tutte le nazioni, e lungo l'intera storia degli uomini. Gesù Risorto quando sta congedandosi dai discepoli per salire al Padre, si presenta come il Figlio dell'uomo che, venuto e adempiuta la sua missione affi-datagli dal Padre, invia i suoi Apostoli a portare la salvezza al mondo; cf. qui Mt 28,18, la presentazione, e 19-20 la missione.

Come nell'aula celeste quando riceve l'investitura, il Figlio del -l'uomo è portato dalle nubi della divina Gloria (teologia simbolica: le nubi formano il carro che trasporta la Divinità dovunque voglia recar-si; cf. anche Ez 1), avviene così anche adesso. E come gli Angeli cir-condano il Trono celeste (cf. Is 6,1-3, con il Trisàgion: "Santo Santo Santo!"; Ez 1; Ap 4, con il Trisàgion in 4,8), corteo mirabile, commo-vente, di servizio purissimo, d'amore e di glorificazione, così adesso è trasportato ed è presentato il Figlio dell'uomo. Egli si intronizza sul Trono della sua gloria (cf. Ap 4-5, segno distintivo della Divinità del Padre Invisibile e dell'Agnello Risorto, il Servo sofferente ormai glo-rioso), ai fini, come aveva annunciato il Signore stesso, dellapaligge-nesia, la rinascita e nuova generazione trasformante, quando ammet-terà come sua propria gloriosa corona e synodos endèmoùsa i Dodici Apostoli (19,28). E il Sovrano divino, unico ed universale, adorato da-gli Angeli e dal cosmo, nel fulgore e nello schianto insopportabili del-la sua Maestà indicibile (v. 31).

Ad un cenno imperioso del Sovrano, sono radunate (syndgó) tutte le nazioni. Il che significa che sono rese presenti tutte le persone umane create e tutta la loro storia (cf. 24,31; e Rom 14,10) davanti al Trono. Va anticipato qui che questa sinassi universale e finale non è solo una questione giuridica procedurale, per essere sottoposti tutti gli uomini al giudizio che a ciascuno sarà imposto. Il Trono è "segno" molteplice: sta nell'aula regale, dove ci si avanza ammessi all'omaggio dovuto al Sovrano; dove sta anche il palco del tribunale per il Giudice, a cui ci si presenta per rendere conto della propria esistenza vissuta con Lui o senza e contro Lui; ma l'aula regale è anche il santuario e tempio indicibile di santità, a cui si chiede di essere ammessi per offri-

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COMMENTO - IL TRIÓDION

re il culto eterno sacrificale dossologico, anamnetico, benedizionale, di rendimento di grazie. Essere allontanati via dal Trono decreta la ro-vina finale irrimediabile.

Proprio per questo, il Figlio dell'uomo procede con insindacabile in-fallibilità a "segnare il confine invalicabile" (come dice qui il verbo aphorizò alla lettera), tra gli appartenenti alle nazioni, a separarle in modo che tra le due parti mai più esista contatto e confusione. Lo aveva preannunciato anche da altra direzione il Signore stesso con la parabola della zizania (Mt 13,40-43), poiché il grano buono è destinato alle Apothèkai eterne, gli eterni luoghi dei divini Tesori. Nel v. 32 questa "separazione" avviene sotto la figura di quello che fa il pastore tra le pe-core, buone e miti, e le capre semiselvagge ed irrequiete; quelle, docili, mangiatoci di erba buona, queste divoratrici onnivore e devastanti di ogni tenero germoglio, dunque spegnenti ogni forma di vita. Il tratto era stato già intuito nell'A.T. (cf. Gioel 3,12) e Matteo lo aveva anticipato poco prima (Mt 24,14). È l'opera del Pastore buono, che ama le sue pe-core, si cura di esse senza interruzione, le divide dai capri selvatici (Ez 34,17), se serve dona la vita per esse (cf. Gv 10,11), affinchèesse, le pe-core domestiche e docili e piene di trepida obbedienza per il loro Pastore ascoltato e seguito, abbiano la Vita in abbondanza (Gv 10,10).

Insomma, alla fine, quanto è buono ed utile resterà, e quanto è mal-vagio e dannoso dovrà scomparire dall'esistenza. Questo è il senso complesso del v. 32. Il segno discriminante è spaziale, nei simboli del-la destra del Sovrano, luogo assegnato alle pecore buone, e della sini-stra di Lui, luogo assegnato ai capri malfattori.

Il senso di questo è chiaro se si considera la teologia simbolica del-la "destra". Il Re e Figlio e Sacerdote è posto dal Padre suo in trono alla sua "destra" (Sai 109,1; cf. la realizzaione, Me 16,19; è un grande motivo dell'Epistola agli Ebrei, ad es. Ebr. 1,5.8; 4,16). Ora, il conte-sto di queste allusioni è Gerusalemme. Il Signore sta intronizzato sui Cherubini nel santuario, che guarda verso l'oriente, mentre la reggia di David sta "alla destra", verso meridione. Lì il Signore simbolicamente intronizza il Figlio di David, mentre pone i suoi nemici come sgabello dei piedi di Lui (Sai 109,1 e 1 Cor 15,25-27). Nella trasposizione sim-bolica finale, il santuario divino è il Trono, e sul Trono stesso il Figlio sta alla Destra del Padre (cf. Ap 4-5).

Per contrasto, i capri sono posti "alla sinistra", figura del settentrio-ne, la regione del freddo, della bruma, della tenebra, della morte.

Inoltre, "dare la destra" indica l'aiuto nel combattimento. Il Figlio combatte con la Spada nella mano destra, avendo per così dire il lato sinistro scoperto, adesso però protetto dall'Aiuto che interviene. An-che per questo, Giacobbe chiama il figlio ultimo, il diletto, Bin-jàmìn,, "figlio della destra", della parte utile, favorita.

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DOMENICA DELLA APOKREOS

La sinistra, sempre per contrasto, è la parte inutile (v. 33).Si ha così la disposizione nell'Aula celeste, che è reggia e tribunale

e santuario. E qui, davanti al Re, che è anche Giudice (cf. At 10,42, e 38), che è anche Dio (Mt 28,19; Gv 1,1-18; Rom 1,3-4; 9,5; etc.), può cominciare il Giudizio, che sancirà anche l'inizio della Liturgia eterna davanti al Signore eterno per l'eternità.

Come per ogni autentico giudizio, il Giudice sovrano, che ha acqui-sito le prove irrefutabili lungo i secoli della storia, procede al rito for-male, pronunciando prima il dispositivo della sentenza, e poi la moti-vazione. E poiché il Giudizio per sé era stato inaugurato dal primo istante della creazione (cf. Is 27,1, e par.), e il dibattimento tra gli uo-mini, rei o innocenti, si è svolto lungo la storia, adesso la sentenza è Ìrreformabile perché inappellabile, emanata dal Tribunale supremo.

A quelli della destra il Giudice rivolge l'appello: "Venite!" Poiché Egli stesso venne ad essi, ed essi lo accettarono, adesso questi debbo-no venire a Lui per restare con Lui. Si può leggere qui in trafila l'ap-parizione improvvisa della figura della Sposa, alla destra del Re (Sai 44,10), perché invitata dal suo Signore, il Diletto, alle Nozze divine eterne (cf. Ct 4,8), ripetutamente (cf. Domenica 14a 1 Matteo; l l a Luca, sul Convito nuziale e sui ripetuti inviti). Il "venite" è rivolto ai "benedetti del Padre mio", dove "la benedizione torna sul Benedicente ed unisce per sempre a Lui i benedetti". Benedizione anticamente pro-messa (cf. ad esempio Is 65,23), benedizione eterna (Efes 1,3), la qua-le fu acquistata con il Legno della Croce dallo stesso Figlio di Dio, e che è lo Spirito Santo (cf. Gai 3,13-14), il Dono inconsumabile della divina Carità (Efes 1,3-14). L'invito ha il suo contenuto: "Ereditate il Regno, preparato per voi dalla fondazione del mondo" (v. 34).

Ereditare significa in realtà "coereditare" con Cristo, l'Erede unico, tema molto caro a Paolo (Rom 8,17; Efes 3,6) ed a Pietro (ì Pt 3,7). Ora, a guardare bene, 1'"eredità" (klèronomia) indica totalità di pos-sesso. E dunque la divina Eredità può essere solo "Tutto Dio" e "tutti gli uomini", come già nell'A.T. per i sacerdoti (cf. Dt 18,1-8; 10,9; Num 18,20.23, etc., testi numerosi). Eredità significa il possesso mi-sterioso che nell'amore consumante abbraccia senza confusione il Dio Personale e gli uomini persone, il Prototipo divino e tutte le sue icone redente, santificate, divinizzate. Immensa Comunione trasformante, operata in eterno dallo Spirito Santo (cf. 2 Cor 13,13). Questa precisa Eredità è ormai possedibile (cf. Mt 19,29; 1 Pt 3,9; Ap 21,7), poiché fu "preparata" (hetoimasménè), dal Disegno divino con cura infallibile (Mt 20,23; 1 Cor 2,9; Ebr 11,16), adesso condivisibile con l'Erede unico (Ebr 1,1-4), e che si chiama Basiléia, Regno.

Si è visto finora diverse volte come sia decisivo il concetto di "Re-gno", che è "Regno di Dio", "Regno del Padre", "Regno dei deli". Es-

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COMMENTO - IL TRIÓDION

so anzitutto indica la realtà finale e totale della pace, della prosperità, dell'integrità, della gioia (cf. Mt 20,21; Le 22,29), sempre procurata dal Re al popolo suo. È un tema grandioso già nell'A.T., e lo è defini-tivamente nel N.T. Da dove conosciamo anche "chi" sia il Regno, che è dunque non realtà astratta, bensì "personale": il Regno del Padre so-no il Figlio e lo Spirito Santo, come esplicitamente dice Gesù (Mt 12,28; Le 11,20). Il Regno e Vita e Maestà e Gloria e Potenza e Sa-pienza e Luce e Santuario (cf. Ap 21,22-23), sono nella Triadicità del-l'Unità il Padre ed il Figlio e lo Spirito Santo — e tutti coloro che so-no chiamati alla loro indicibile Comunione. Tale Realtà vuole un'i-naugurazione per gli uomini, il Convito (Le 22,16-18). E così la stes-sa creazione divina del mondo era stata sapientemente finalizzata al Regno (v. 34).

Per una sentenza valida e lecita, il dispositivo deve essere motivato. E perciò il Re della Gloria enuncia il dispositivo, con l'enumerazione di 6 "opere di carità" (vv. 35-36), dove 6 è il numero simbolico dell'attesa dicarità"(vv.35-36),dove6èilnumerosimbolicodell'attesadella complezza, che è data dal 7. La T °Pera * carità, che convalida le prime 6, è l'amore del Figlio dell'uomo che sigilla la carità degli uomini. E qui avviene un fatto inaudito, che nessun'altra religione conosce, se non quella dell'A.T. e del N.T.: il Re e Giudice e Sovrano divino si ap-propria al passivo di queste opere ormai compiute, che dichiara come ri-ferite a Lui, compiute alla sua stessa Persona. Nell'A.T. basterà qui citare testi emblematici come il Sai7 3, in specie nel finale; 78, anche nel fina-le, e le terribili invettive profetiche contro i nemici d'Israele, che con ciò stesso sono i nemici del Signore d'Israele. Inoltre, il tema frequente nel-l'A.T. e nel N.T., delle opere da compiere in favore degli uomini per es-sere accetti anche al Signore. Nel Giudizio, le opere ricordate, che vo-gliono abbracciare la totalità dell'operazione caritativa, sono:

A) al v. 35:1) "Io ebbi fame". Sono qui richiamati i temi di Is 58,7.10; Ez18,7.16; vedi allusioni nel Sai 11,9; 36,2la. Il Signore si identifica congli affamati, che dichiarò "beati" (Mt 5,6, di giustizia divina), e perciòfu sfamato nelle persone di questi poveri di Dio, il cui volto è anche ilVolto suo;

2) "ebbi sete", come chi è disperso nel deserto senza soccorso. Vediqui testi come 4 Re (=2 Re) 6,22; 2 Cron 28,15; Gen 24, 15-18. E anche la richiesta dell'acqua alla Samaritana (cf. Gv 4,1-7). Ora, "dissetare" nell'A.T. è un'operazione quasi sempre riservata alla divinaBontà, che opera nella divina Sapienza;

3) "ero straniero" , pellegrino, profugo, fuggiasco. Il Signore, in specie è Protettore degli "stranieri" in mezzo al suo popolo, e su questo

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DOMENICA DELLA APÓKREOS

esiste una vasta legislazione nell'A.T. Basterà qui prendere come base della considerazione il "codice dell'alleanza" (És 20,22 - 23,19), espli-citazione del Decalogo (Es 20,1-17), ambedue testi di certa redazione mosaica. Ora in Es 22,20 (che a sua volta fa parte di uno dei "decalo-ghi minori" del codice detto, e questo è 22,17-30) si manifesta un aspetto che non si riconosce volentieri ad Israele, ossia il trattamento umano, cordiale verso lo straniero: "Tu non maltratti, e tu non opprimi lo straniero — poiché anche voi foste stranieri in Egitto ! " La motiva-zione è stringente ed esemplare. Israele conobbe l'alienazione in terra ostile, la ferocia dell'oppressione, la segregazione, i lavori forzati gra-tuiti. La Legge santa torna su questo diverse volte (cf. Es 23,9; dentro un altro "decalogo minore"; Lev 19,33; Dt 10,18-19; 24,17-18; 27,19). È materia di violenta predicazione profetica, segno che la nor-ma non era attuata (cf. Ger7,6; Zacc 7,10; Mal 3,5). Occorreva vincere diffidenze ed egoismi, odio ed avversione, dunque si dovevano versare primizie e decime nel santuario, perché una parte era riservata agli stranieri (cf. Dt 26,11 e 13), insieme con sacerdoti, orfani e vedove. Nella pericope di questa Domenica, il riferimento è anche, e diretto, ad Is 58,7; cf. Gen 18,1-8, detto del Padre nostro Abramo; Giob 31,32. Perché tanta preoccupazione per lo straniero? Perché è uno sco-nosciuto in mezzo a sconosciuti, un estraneo alla cultura, alla lingua, ai costumi, un "diverso" difficilmente inseribile; in genere, è un pove-ro, senza patria, senza casa, senza lavoro, senza proprietà, senza diritti civili, senza futuro annunciabile da adesso. E proprio per questo, è un aspetto non minore del Volto di Cristo (cf. Rom 12,13; 1 Tim 3,1-2; 5,10; Ebr 13,2; 1 Pt 4,9). Il quale facendosi vero Uomo in un certo senso si fece, sia pure per un tempo, "straniero" dalla Casa del Padre. Però restando vero Dio, venne come "straniero" tra gli uomini — tan-to, che "i suoi non lo accettarono-compresero (Gv 1,11), pure se venne "nella sua proprietà" (ivi). Povero, straniero, "irriconoscibile" per la malvagità umana (cf. il 4° canto del Servo sofferente, Is 52,14; 53,2-3). Ma se accettare gli stranieri procura ad Abramo di "ricevere gli Angeli" (Ebr 13,2, che cita Gen 18,3; 19,2-3), accettare lo Straniero divino "fa diventare figli di Dio" (Gv 1,12);

B) al v. 36:4) "ero nudo", rimando a Is 58,7 (cf. Ez 18,7.16; 2 Cron 28,15). La nudità è insieme il segno ultimo dell'indigenza totale, ed è una supre-ma vergogna (cf. solo Lev 18,1-19; "scoprire la vergogna" è termino-logia per la turpitudine; ma si denudavano i prigionieri per supremo disprezzo, cf. 2 Re (= 2 Sam) 10,4). E così è anche un disonore per il fratello, vedere la sua medesima carne nel prossimo, esposta al ludi-brio della nudità (cf. Tob 1,20; 4,17). Ma il Signore e Dio nostro, il

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COMMENTO - IL TRIÓDION

Creatore dell'universo, non "fu sospeso sul Legno" nella totale nudità della sua carne santa ed immacolata, e nel ludibrio di quanti passavano (cf. Mt 27,39-44)? E non immensa carità fu quello che canta la Chiesa nella Paraskeuè santa e grande (Apóstìchon Stichèrón prosómoion, Autómelon 1°):

Quando dal Legno Te, morto, quello d'Arimatea depose,Te, la Vita di tutti,con mirra e con la sindone Te, Cristo, accudì,e da desiderio, cuore e labbraera spinto ad abbracciare il Corpo tuo immacolato,insieme, trattenuto dal terrore,con gioia gridò a Te:Gloria alla Condiscendenza tua, Amante degli uomini !

5) "Ero malato" (cf. Eccli 7,39), visitato dal buon Samaritano in quelferito e abbantonato (Le 10, 33-34), in continua attesa di visite e di cure e d'amore (Giac 1,27), Egli, il Medico dei corpi e delle anime;

6) "ero carcerato", e qui, per qualsiasi causa e motivo, poiché quantigiacciono nelle galere sono comunque infelici, colpevoli o innocentiche siano, e degni sempre di sincera misericordia e compassione edaiuto (Ebr 10,34; 13,3), essendo molto spesso abbandonati da tutti (cf.2 Tim 1,15), raramente visitati da consolatori ed esortatori (2 Tim1,16), ascoltati da orecchie pazienti ed amiche, aiutati in tutte le lorococenti necessità.

Quanti operarono tali opere di carità, opere del Regno, sono adesso chiamati "i giusti", hot dikaioi. Poiché il loro agire, rispondendo al-l'impulso necessario della Grazia (cf. FU 2,13!), li "giustificò", ossia secondo il linguaggio biblico li fece trovare "misericordiosi", degni della divina Giustizia-Misericordia. In essi la perfetta "giustizia" ope-rata sul fratello sconosciuto, fu anche perfetta misericordia gratuita, disinteressata. Essi operarono, e basta. Non fecero indagini previe sui meritevoli d'aiuto. Né su chi fossero gli aiutati.

I "giusti" allora restano sorpresi. E per reazione, pongono al Giudice i quesiti per comprendere la motivazione della lieta sentenza, conun'interrogazione del tutto simmetrica alle parole ascoltate, ripercorrendo le 6 opere di carità, raggnippate a 2 a 2 con la triplice domandainiziale a ciascuna tripletta: "Signore, quando noi vedemmo Te?" inquelle precise situazioni (vv. 37-39; e cf. Mt 6,3).

IIRe attendeva dall'eternità questo momento, previsto e disposto. Econ immenso amore risponde, introducendo la formula solenne: "Inverità, Io parlo a voi", che tradotta dall'ebraico sottostante dice: "Io, ilSignore Dio "Amen", il Fedele, il Veridico, parlo a voi". Questo è il si-

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DOMENICA DELLA APÓKREOS

gillo divino alla sentenza. Il contenuto delle parole non fa che precisare il dispositivo della sentenza, che rivela l'Oggetto della giustizia-carità operata dai "giusti": "Per quanto voi faceste ad uno solo di questi fratelli miei minimi, a Me faceste!" (v. 40). Qui alcuni esegeti moderni vedono una difficoltà nel termine assai limitativo elàchistoi, minimi, i più piccoli, quelli che in genere sono trascurati, che per sé rimande-rebbe ai discepoli del Signore, che vanno accolti come si accoglie il loro Signore (cf. Mt 10,40.42); allora si tratterebbe solo dell'acco-glienza degli Apostoli della prima generazione. Sì, anche questo, ma qui è anche di più.

Chi sono infatti hoi adelphói mou "i fratelli di Gesù"? Sono tutti quelli che si fanno piccoli per poter entrare nel Regno del Padre, anzi, che si lasciano fare "minimi" per questo, e chi accoglie anche solo uno di questi "piccoli", già egli stesso entra nel Regno (cf. Mt 18,1-5). An-che quelli che eseguono la Volontà del Padre suo, sono fratelli e sorelle e madri di Lui {Mt 12,50). La Resurrezione sancisce per sempre questa fraternità {Mt 28,10; cf. Gv 20,17). Ma questa, oltre che deve essere portata al mondo, nel mondo deve anche essere individuata. Sicché il Re e Sovrano e Signore "non si vergogna affatto di chiamare fratelli" gli uomini {Ebr 2,11), confessandoli davanti al Padre suo e davanti al mondo. Al fine di essere Egli "il Primogenito tra molti fra-telli", Icona tra le icone {Rom 8, 29, cf. vv. 28-30). In sostanza, si vuo-le far trovare in tutti i fratelli, grandi, medi, piccoli, minimi.

Tuttavia, i giusti nel loro agire per la giustizia-carità ignoravano questo. Chi glielo aveva spiegato? E avevano necessità di essere istruiti, se la loro carità stava già operando? Tanto più, allora, la mate-ria dell'azione giudiziale finale non saranno le dottrine e le idee, e non si sarà giudicati sulla fede e speranza, sulla santità, bensì su tutte queste realtà, se esse presero vita e corpo nella carità ai fratelli.

E così anche da questa parte, all'ultimo dei tempi, si dovrà risponde-re se quella Tavola II della Legge santa, sui doveri verso il prossimo, e non tanto la Tavola I sui doveri verso Dio, si sarà osservata ed attuata, essendo sia scritta dal Dito di Dio per la lettura e proclamazione e cele-brazione nell'assemblea santa del popolo santo (cf. Es 31,18; Dt 9,10; Ger 31,31-34; Ez 36,26-28), sia scritta dal medesimo Dito divino nei cuori {Rom 5,5). E questo Dito Divino, che è anche la Legge divina, è lo Spirito Santo, Spirito della Carità divina ed umana. Insomma la Ta-vola II, la legge della carità, è assunta come supremo ed ultimo criterio di giudizio finale: "Chi ama il prossimo adempì la Legge", proclama al solito modo lapidario Paolo {Rom 13,8.10 e Gai 5,14).

E qui la santa Rivelazione manifesta che esiste l'unico "prossimo" di ciascun "se stesso" degli uomini: Egli, il Figlio dell'uomo, il Re della Gloria.

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COMMENTO - IL TR1ÓD1ON

Non tanto nei "fratelli minimi" che soffrono nella loro esistenza "sta Lui", quanto "Lui è questi fratelli minimi". Non che esista qui la "confusione" delle persone: Egli resta Lui, e gli uomini restano se stessi. È materia complicata solo nella spiegazione, poiché è molto fa-cile da capire.

Cristo Signore è "il Tutto", il Ricapitolante tutto (Efes 1,10), esclusa ogni forma di immanentismo e di emanatismo e di panteismo. Egli è l'Adamo Ultimo, che come l'Adamo primo, è posto per essere il Ca-postipite, per contenere tutti gli uomini. Egli è la Testa-Capo dell'im-mane organismo vivente che costituì con il suo Sangue prezioso, il suo "corpo". E questo è formato dalle sue membra "preziose", perché pa-gate con quel Prezzo che è il Sangue del Figlio di Dio, e tra queste membra le più "preziose" — poiché partecipano più da vicino alle Sante Sofferenze del Signore — sono i "fratelli suoi minimi", oggetto privilegiato della carità sconosciuta.

Ora, il corpo vivente ha un unico Volto, quello di Cristo Risorto. È il Volto sia del corpo, e sia di ciascun membro di esso. Che esprime sia la Vita sua, sia del corpo, sia quella delle singole membra di esso. E così, reciprocamente, anche ciascun membro è quel Volto, reso però irriconoscibile dalla sofferenza di chi soffre, come fu del Servo (cf. ancora Is 52,13 - 53,12). E come proprio la Sofferenza (tà Pdthè, le Sofferenze, la Passione) fu l'aspetto più umanamente vero di quel Vol-to, e l'aspetto più divinamente donato di quel Volto, così è dei "fratelli minimi" sofferenti. Per l'inderogabile legge dell'organicità del "cor-po" che vuole essere vivo, se il membro "minimo" soffre, soffre tutto l'organismo (1 Cor 12,26a). Ma a cominciare dalla Testa, poiché la vita del corpo comincia dalla Testa, e la sofferenza del corpo si concentra nella Testa, ed è anche riassunta dalla Testa. Se questo è complicato, quanto segue anche lo sarà, e molto di più.

Per la medesima legge dell'organicità del corpo vivente, che si compone inderogabilmente di Testa e membra, la Testa è del corpo in quanto membra, e le membra sue in quanto corpo sono della Testa. E però, la Testa, Principio unico dell'intera vita del corpo-membra — il quale se fosse "de-capitato" non sarebbe neppure vivente! —, usa sa-pientemente tutte le "sue" membra per curare tutte le "sue" membra. Esiste nel corpo la "cattolicità", lo scambio vitale interreciproco all'in-finito, scambio totale fraterno caritativo sempre. Non si potrebbe dire qui che il Corpo di Cristo, la Chiesa Sposa, l'Unica, la Santa, "la Cat-tolica", l'Apostolica, così orribilmente divisa alle soglie di due millenni della divina Redenzione, somigli alle figure presentate a Cristo nel N.T. affinchè ponga su esse la sua Mano santa ed immacolata, e le guarisca? Questa Chiesa divisa in raggruppamenti pieni di diffidenza e di rancore, non somiglia forse, almeno in qualche modo, all'uomo eie-

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co, a quello sordomuto, a quello zoppo, al paralitico, alla donna rat-trappita, all'emorroissa, a quello che ha la mano inaridita? Ed infatti i cristiani "vedono" i fratelli cristiani, li "ascoltano" e "parlano" parole di consolazione e di confermazione nella fede comune? E procedono tutti sulle vie di Dio, ed operano tutti le opere del Regno? Anche su questo, Mt 25,31-46 chiama oggi a riflettere, non senza gravissime an-gosce per chi abbia la "preoccupazione per tutte le Chiese" (cf. Paolo in 2 Cor 11,28), e preghiere e lagrime per essa.

Ora, contempliamo questa Santa Scrittura che ci insegna i Misteri del Regno. Proseguendo, Testa e corpo sono "uno". Dunque in senso reale la Testa è anche il corpo, ed il corpo è anche la Testa, non l'una senza l'altro, come mai lo Sposo esiste senza la Sposa (cf. 1 Cor 11,11, applicato dagli sposi umani alla Nuzialità regale del Signore con la Chiesa). E però, allora la Testa quando usa le sue membra, opera la carità a se stessa. Per così dire, la Testa presta a se stessa le "proprie" mani spinte e dirette dal "proprio" cuore, per operare il bene a se stessa. Usa le "sue proprie" membra per curare le "sue proprie" membra. Ed insieme, mentre presta a se stessa, fa prestare a se stessa. Poiché la Testa ed ogni suo membro sono sempre e solo persone viventi della medesima vita ed esistenza.

E qui si può comprendere a fondo come il Re debba affermare: "/o ebbi fame, e voi Mi sfamaste". Come un'altra volta griderà ad uno scellerato, assetato di persecuzione e di furore: "Saul, Saul, perché perseguiti MeV {At 9,4). Saul Lo perseguitava nei propri fratelli Ebrei cristiani innocenti, fratelli di Lui, ignorando che questi fossero Luì. Così il Signore aveva deciso dall'eternità di fare di Saulo il Paolo "Apostolo delle nazioni", al quale insegnare la carità della Testa e del corpo-membra, e propriamente di tale dottrina egli è l'insuperabile maestro nel N.T., dopo il Signore. Anche questo è complicato, ed an-che quanto ancora segue.

Se si traspone quanto finora spiegato, ciascuno di noi deve com-prendere che, a livello personale o comunitario che sia (meglio l'im-pegno in ambo i livelli), se "io", ciascuno di noi, opero il bene al "fra-tello minimo" del Signore, allora però lo opero almeno su 3 poli. Co-me quando sento: "ama il prossimo tuo come te stesso" penso a tre po-li: 1) io; 2) il prossimo mio; 3) me stesso, vincolati dall'amore unico, così se opero il bene al fratello minimo opero in realtà: a Cristo Signo-re, al fratello, a me stesso. Io infatti per il titolo indelebile del battesi-mo sono un membro vivo di Cristo Testa, dunque del suo corpo di cui è Testa; anche il fratello mio è così, e perfino se non ha il titolo del battesimo, essendo così ancora più sfortunato; dunque lui, il fratello di Cristo e fratello mio, è mio membro, ed io, fratello di Cristo e di quel-lo, sono membro di quello: "Voi siete corpo di Cristo e membra da

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COMMENTO - IL TR1ÒD1ON

membro" (1 Cor 12,27). Nel battesimo io ho cominciato a ricevere "la carne" redenta di Cristo, ma anche a donargli la mia carne. Il fratello di Lui e mio è carne dalla carne di Cristo, ma anche carne dalla carne mia, e carne dalla carne sua sono io. Dunque, se io opero il bene a lui, carne mia, lo opero a me stesso. In sostanza, se io opero il bene all'i -cona di Dio, che è il fratello di Cristo e mio, lo opero all'icona di Dio, che sono io. Poiché il Dio della Bontà creò un'unica "icona sua", di-stribuita, la medesima, nella singolarità delle persone storielle, ed an-zitutto folgorante di Gloria divina nel Figlio, la Gloria destinata ai "giusti" nel Regno (cf. 2 Cor 3,18-4,6).

Ma allora, tanto più "all'Icona resa ancora più preziosa dalla soffe-renza", e dunque all'icona sofferente che è il fratello di Lui e mio. Io che posso, opero il bene a lui che non può, ed allora io porto in me l'i-cona dell'efficacia operante che la stessa Bontà divina opera mediante me agli altri miei "io" che incontro quotidianamente.

Poiché, "tutto è Grazia" dello Spirito Santo. Il fratello che per vie sempre misteriose, indecifrabili, il Padre Comune dona a me, che è, se non la grazia suprema, affinchè nello Spirito Santo battesimale io operi il bene al fratello minimo, in specie sofferente, e dunque direttamente al Fratello nostro Primogenito di molti fratelli (Rom 8, 28-30), che con quello si identifica e vuole identificarsi?

Ed ancora. E questo che altro è, se non la Grazia donatami, dunque la mia elezione nel rango dei "giusti", e perciò la mia salvezza conse-guita attraverso l'efficacia del "sacramento del prossimo"?

Ed ancora. E questo che è, se non "il mio altare", dove debbo far salire al Trono della Gloria e della Misericordia il mio servizio e dia-conia e liturgia e amore e adorazione, come splendidamente affermano i Padri (S. Giovanni Crisostomo)? Il fratello minimo e sofferente a cui io opero il bene è dono ed occasione e motivo e causa della mia sal-vezza. Mi è donato per questo. In un certo senso, è il "mio salvatore", poiché anche lui inconsapevolmente è assimilato all'opera del Salva-tore divino, strumento docile, sensibile, umile. Poiché il Fratello mio Primogenito a cui nel minimo dei suoi fratelli io opero il bene, è "il Salvatore" nostro unico, donatoci dal Padre.

Il testo potrebbe terminare qui. Ma purtroppo, altri "fratelli", altre "icone di Dio", avendo ricevuto tutto il cumulo di grazie qui sopra de-lineato, si sono posti per loro esclusiva colpa in condizione di rigetto finale, avendo essi operato il rigetto nella loro esistenza terrena. Per essi è emanata dovutamente la sentenza di condanna. Qui i fatti sono semplificati al massimo: al rigetto umano, il Rigetto divino. Quegli uomini non operarono mai così da essere "i giusti", dunque "benedetti dal Padre" del Signore e Re e Giudice. Il Giudice contesta ad essi le 6 opere della carità che fanno conseguire l'Opera divina della Carità, os-

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sia l'Eredità nel Regno (vv. 42-43). Anche in questi avviene la sorpresa mortale, agghiacciante: "E quando vedemmo Té" nelle 6 condizioni esemplari della sofferenza, "e non amministrammo, diakonéòT, poi-ché il bene operato è diakonia, servizio di carità (v. 44).

La risposta alla controdeduzione è eguale e contraria a quella già data alla sorpresa dei "giusti" (cf. v. 40). E con la medesima forma so-lenne: "Io, YAmen fedele, parlo a voi: per quanto non operaste anche ad uno solo di questi minimi, neppure a Me operaste" (v. 45). Le membra del corpo fecero scisma dalle altre membra, e dunque dalla Testa e Capo. Si divisero e sfuggirono al dovere stretto dell'organicità. E "ivi sta il peccato, dove sta la moltitudine" che se ne va (Origene). È l'amputazione volontaria (incosciente per quanto si potrebbe capire). È la morte. Si rilegga qui la parabola di Lazzaro e del ricco epulone (Domenica 5a di t^S>-

Esiste qui, non nella Volontà santa impeccabile e senza mai rimpro-vero umano, ma nella stessa decisione degli uomini, la divisione terrifi-cante. I giusti ed i benedetti, eredi del Regno, con Dio in eterno, nella Vita eterna, insieme con il loro Sovrano: "Venite" a Me (vv. 46b e 34a).

Gli "altri" sono "maledetti", e "la maledizione non torna mai sul Maledicente, poiché allontana da Lui i maledetti" (v. 4la). Essi debbo-no scomparire dalla presenza del Sovrano (cf. Mt 7,23), nel "supplizio (kólasis) eterno" (v. 46a), secondo l'espressione apocalittica di Dan 12,2. Ora lo spavento terrificante è quell'aggettivo aiónios. "Eterno" significa in Matteo che il "tormento, supplizio" dura in eterno, e così che i tormentati e suppliziati vivranno anche così, in questa condizio-ne negativa, in eterno? Se questo passo si legge seriamente, e "con paura e tremore", nella contestualità matteana, e perciò con Mt 10,28:

Non temete dagli uccisori del corpo,ma l'anima non possono uccidere,temete piuttosto Colui che è potentesia l'anima, sia il corpo far perire nella gehenna,

allora si dovrebbe comprendere, come la Chiesa dei primi 4 secoli si rappresentava lucidamente, che la gehenna è "eterna", poiché è ine-stinguibile nella sua terrificante potenza di annullare "anima e corpo", ossia sostanze create, che non resistono alla "negatività" consumante, e che scompaiono dunque nel nulla. Qui si possono aggiungere testi come Ap 20,11-15. E meditare a fondo. Il Regno eterno della Bontà e della Luce e della Vita e della Gloria, potrebbe sopportare che esistesse accanto e di fronte un contro-regno eterno della malvagità e odio, della tenebra, della morte e dell'infamia?

E però, considerando qui l'alta positività del Periodo del Triódion,

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COMMENTO - IL TRIÓDION

che ogni anno con amabile Pazienza il Signore concede ai suoi fedeli per revisionare la loro vita, a noi deve interessare di più quanto riguar-da i "giusti e benedetti". Perché noi non solo speriamo di essere am-messi ad ereditare con essi, ma lo vogliamo positivamente, contem-plando la nostra sorte ultima nel volto dei fratelli adesso, per contem-plare già adesso il Volto divino della Bontà trasformante e poi in eter-no. In mezzo, stanno le opere nostre, della nostra carità fraterna, con-dizionante, ma anche grazia. Infatti i Padri usavano dire: "la sorte dei dannati è segnata — per esclusiva loro colpa... — ma tu opera per sta-re con i giusti e beati".

Visione grandiosa, questa, che ci accosta alle più mirabili opere di Dio, quella che i Padri chiamavano "l'Incarnazione storica", l'indici-bile santa Oikonomia culminante nella Croce, nella Resurrezione, nel Dono dello Spirito Santo, nella Parnasia.

La Quaresima prossima ne è l'intensa contemplazione, e l'intenso vissuto di fede, di preghiera, di opere, di digiuno, di carità.

6. MegalinarioDella Domenica.

7. KoinónikónDella Domenica.

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DOMENICA DELLA TYRINÉ

o "dell'uso del formaggio, Tyrophagia" o "dei Latticini"

La rubrica qui indica: "Facciamo il memoriale (anamnesis) dell'e-silio dal Paradiso della delizia del Protoplasta Adamo".

Il nome di questa Domenica viene dal permesso di mangiare il for-maggio (ed i prodotti del latte) solo per questo ultimo giorno, poiché il lunedì successivo cominciano i "Digiuni grandi". Va sempre notato che per sé la Domenica, giorno del Signore Risorto, la Chiesa non ammette il digiuno (se non il 14 settembre che occorra di Domenica). Dopo que-sta Domenica perciò il digiuno dei fedeli si fa più rigoroso ancora, sen-za dimenticare che in antico si usava praticare anche la xerophagia, os-sia quel digiuno che permette solo l'uso di acqua e sale, pane e legumi secchi; ma molti seguendo l'ascesi monastica, si riducevano solo al-l'acqua, pane e sale. Gli antichi avevano un maggiore senso del pecca-to, e dunque anche una grande disposizione alla penitenza.

La conoscenza dell'ufficiatura dell'intera giornata, come si disse, è indispensabile per cogliere quanto più a fondo è possibile i temi della celebrazione. Ora, nelle Ore sante, ossia a partire dal Hesperinós, i te-sti fanno cantare, e con ciò stesso contemplare la "teologia della sto-ria", dalla caduta di Adamo nel Giardino, con tutte le conseguenze di peccato, fino alla Passione del Signore, all'implorazione di misericor-dia e alla fedeltà ah" "agone" penitenziale, che giunge al suo fine, ren-dere: "degni di adorare le Sofferenze e la santa Resurrezione" del Si-gnore, l'Unico che ami gli uomini (Philànthrópos) (Tropario Tono 7°, dopo il Dóxa Patri degli Àinoi).

1. AntifoneDella Domenica, o i Makarismói o i Typìkà.

2. EisodikónDella Domenica.

2. Tropari

1 )Apolytikion anastàsimon, del Tono occorrente.

2) Apolytikion del Santo titolare della chiesa.

3) Kontdkion: "Tès sophias hodègé", Tono 6°. Il canto, molto intenso econ densi temi teologici, si rivolge al Sovrano, Cristo Signore, invocatocome "il Lògos del Padre". Ma altri titoli vengono dall'inizio: Condottiero della sapienza, Direttore dell'intelligenza, Pedagogo degli insipienti,

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COMMENTO - IL TRIÓDION

Scudo dei poveri. A Lui è rivolta l'epiclesi: che renda saldo il cuore di chi Lo invoca, renda intelligente questo cuore, doni, Egli Verbo del Padre, la parola, per cui i fedeli non impediranno alle loro labbra di gridare: "Mise-ricordioso, abbi misericordia di me che sono caduto" rovinosamente.

4. Apóstolosa) Prokéimenon: Sai 46,7.2, "Salmo della Regalità divina". di Matteo;

È il Prokéimenon della Domenica 4a di Pasqua; 4a el 1la di L

b)/tom l 3 , l l b - 14,4I cap. 12-15 dell'Epistola sono ricchi non solo di precetti e consigli

dell'Apostolo in ordine all'esistenza di fede, ma anche di dottrina assai piena sulla grazia e sulla carità, sui doveri verso le autorità e versoil prossimo, sulla disciplina per il retto ed ordinato vivere della Comunità. Si ha non meno l'ecclesiologia vista come vissuto, che l'antropologia, vista come complesso di qualità (ad esempio, la forza della fede,la sua sapienza) e di difetti (ad esempio, la debolezza — più o menocolpevole — di alcuni fedeli nella medesima fede).

La grande norma, che regola tutto e non ha norma sopra di sé, è dettata dall'Apostolo in 13,10: "la carità al prossimo il male non ope-ra: la pienezza della Legge è dunque la carità". In questo splendore va letta la pericope apostolica di oggi.

II v. 11 dice al suo inizio: "E questo, conoscendo voi il tempo(kairós), poiché è momento (hóra) già che voi dal sonno vi risvegliate". Il che significa che la pienezza della Legge santa, la carità fraterna, ha tanto più decisivo valore, in quanto i Romani furono già istruitiad avere piena coscienza del kairós divino, il tempo opportuno in cui èoperata la salvezza. Ed insieme, significa che in un certo modo i fedelidi Roma si trovano già adagiati nel comodo, sonnecchiano. Ossia, dopo un primo fervore portato dalla predicazione dell'Evangelo (non daPaolo, bensì da missionari ancora non identificati), come avviene dappertutto, e così in Galazia, a Corinto, viene una stasi, una stanchezza.E un fenomeno umano generale, ben conosciuto anche oggi, e si puòdire in ogni aspetto della vita associata anche non specificamente religiosa. Scuotersi dal sonno (egerthènai), per vigilare attenti nella hórache il Signore invia, è l'imperativo apostolico permanente.

La motivazione viene al v. l ib, che da inizio alla pericope di oggi. Paolo rileva per i Romani la nota escatologica, la tensione permanente verso l'adempimento dell'esistenza, che in fondo non è altro che il lavoro continuo della Grazia divina. Infatti, si deve avere sempre presente la "teologia della storia", con i due poli costituiti dallo "ieri, un tempo, una volta", e dair"adesso, ora, oggi". Per cui la divina salvezza "adesso"

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DOMENICA DELLA TYRINÉ

(nyn) ormai sta qui, si avvicinò, è percepibile, ovviamente più di "allo-ra", quando si accettò la fede divina (pistéuó). La quale è di certo l'atto escatologico per eccellenza, quello che segna per sempre l'esistenza del fedele, tuttavia va sempre considerato che le facoltà umane del fedele sono destinate alla crescita illimitata che si ha vivendo la Grazia in totale docilità (v. lib). Con il plurale epistéusamen, "credemmo, accettammo la fede", Paolo mostra che anche lui sta sotto queste condizioni. Ossia umanamente, benché oggetto di tanti privilegi spirituali, egli non deroga dalle leggi comuni della crescita. E se poi si esamina sotto questa visuale l'epistolario paolino, tale crescita spirituale e intellettuale di lui si nota facilmente, solo se si tengano presenti i grandi temi salvifici che via via l'Apostolo presenta alle sue diverse Comunità. Così il tema decisivo dell'escatologia, cronologicamente uno dei primi esposti ai fedeli, è presente ad esempio nella prima fase letteraria di Paolo (1 Tess 5,6, il sonno da cui svegliarsi), in quella centrale (1 Cor 15,34), quella finale (Efes 5,14). L'avvicinarsi irresistibile della salvezza è un tratto che rie-cheggia il Secondo e Terzo Isaia (cf. Is 56,1). E sotto l'influsso letterario di Paolo, ne tratta Luca nel suo "discorso escatologico" (Le 21,28).

La "teologia della storia" prosegue al v. 12 con i due termini estre-mi ed opposti, della notte che ormai è trascorsa (prokóptó, verbo che indica lo spianare la strada faticosamente ma sicuramente, per avan-zarsi) e del giorno che senza ostacoli ormai sta qui (eggi'zó, avvicinar-si, anche rendersi presente, stare qui). È il passaggio naturale, dalle te-nebre passate al giorno presente, che riecheggia spesso nella Scrittura, a partire dalla notte dell'esodo che si apre al giorno del passaggio del Mar Rosso verso la salvezza (cf. Es 14-15), fino al nuovo esodo dal-l'esilio, quando Israele procederà alla Luce della divina Gloria. Fino alla notte drammatica in cui la Sposa si pone vanamente alla ricerca dello Sposo, mentre invece deve farsi trovare da Lui nel giorno felice che si apre. Qui l'immagine viene anche sotto la figura dell'inverno che è finito, della fioritura primaverile, dei primi frutti della stagione che ormai è piena, mentre lo Sposo chiama: "Alzati, Diletta mia, vie-ni!" (cf. Ct 2,8-14). Ma il Signore stesso pone un terribile ammoni-mento sulla notte, poiché come passa per la divina Grazia, così per le colpe accumulate dagli uomini torna:

A Noi si deve (dèi) che si compiano le operedi Colui che inviò Mefinché è giorno (hèméra).Viene la notte (nyx), quando nessuno può operare (Gv 9,4),

tuttavia aggiungendo per grande conforto:

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COMMENTO - IL TRIÒDION

10 Luce, nel mondo sono venuto,affinchè ognuno che crede in Me,nella tenebra non rimanga (Gv 12,46).

11 giorno, la hèméra divina, si avvicinò (v. 12). È il pieno giorno,quando ogni probo contadino ed operaio entra nella sua piena attività.Per far questo, il lavoratore si disfa di ogni impaccio, di ogni peso. Taledeposizione è esortata da Ebr 12,1-3, per l'"agone" assegnato, con losguardo su Gesù, Autore e Consumatore della fede, che accettò la Crocema sta nella Gloria del Padre. Perciò Paolo esorta, al coortativo, "deponiamo" (apothómetha). H termine si ritrova nel canto del Cheroubikón,quando si deve accogliere il Re dell'universo che viene nei santi Donicon il corteo degli enti incorporei, adesso "iconizzati" dai battezzati. La"deposizione" e rinuncia, è delle "opere tenebrose", opere vecchie, dimorte. Questo sarà ripetuto poi in Efes 5,11, testo già visto; fa parte della predicazione di Gesù raccolta da Giovanni (cf. Gv 3,19-20). Quellesono le opere della "tenebra" che indica sempre l'aspetto demoniaco. Icristiani per sé hanno già deposto, con Yapótaxis, la rinuncia battesimale, tutte quelle vecchie opere che portano alla rovina. Ma tale rinuncia èdeposizione permanente, se serve, anche da ripetere. Solo denudati diogni malizia — anche qui, richiamo battesimale —, si possono "indossare {endy omair le armi della Luce. Indossare in modo da non svestirsenepiù. In modo che tali armi facciano parte dell'essere del cristiano. Poichéil combattimento, 1'"agone", è diuturno, ed è mortale se affrontato conleggerezza, con faciloneria. Il tema del combattimento e delle armi ne-cessarie è insistito da Paolo, già in 2 Cor 6,7, poiin Efes 6,11-13 (vedisopra le lunghe spiegazioni nelle Domeniche 16a di Matteo, e IO di Lu-ca), ma già lo aveva presentato alF'inizio, nella sua prima Epistola (cf. 1Tess 5,8). Nella metodologia del combattimento, Paolo enumera tra queste armi, la panoplia di Dio, il cinturone della verità, la corazza dellagiustizia, i calzari della prontezza nell'annunciare l'Evangelo, lo scudodella fede, l'elmo della salvezza, e soprattutto "la Spada dello Spirito, laParola di Dio", ma pregando ininterrottamente (cf. Efes 6,13-18) (v. 12).

Così armati per la battaglia, i fedeli nella pienezza del giorno debbo-no procedere, ossia comportarsi "con onore, euschèmónós", dove l'av-verbio indica la messa in opera di tutto l'ornato che arricchisce la vita cristiana e gli conferisce nobiltà di intenti e di operazione come rispo-sta ai Doni ricevuti. Anche con l'onestà del lavoro probo, delle proprie mani, beneficando tutti e nuocendo a nessuno (cf. 1 Tess 4,11). E così evitando ogni comportamento vergognoso. Qui al v. 13 segue l'enume-razione di vizi della vita in 3 coppie: a) anzitutto il rovinoso peccato di gola: gozzoviglie, ubriachezze, che erano anche, oltretutto, segni della vita religiosa dei pagani. Cf. qui 1 Tess 5,7; Le 21,34: sono impedimen-

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DOMENICA DELLA TYRINÉ

ti a ricevere il Signore che viene per la sua "seconda e terribile Parou-sia"; 1 Pt4,3, con richiamo ai fedeli di cessare assolutamente tale com-portamento proprio ai pagani; b) poi la vita degli eccessi della libidine; e) quindi le liti e le invidie che avvelenano la vita della Comunità, su cui l'Apostolo si era già espresso duramente nella 1 Corinzi (cf. 3,3), e che Giacomo aveva stigmatizzato (Gc 3,14-16). Che i primi Apostoli mettessero severamente in guardia contro questa tabe delle Comunità primitive, è segno che il pericolo era reale. Paolo qui sta parlando ai Romani, i cristiani di Roma provenienti dall'ebraismo e dal paganesi-mo. Ora proprio un'antichissima tradizione romana, riportata da un il-lustre Vescovo di Roma e glorioso Martire, Clemente (di provenienza giudeo-cristiana), che invia una lettera verso il 95-96 ai cristiani di Co-rinto, proprio per esortarli a dirimere le loro liti e gelosie, riporta un da-to, pressoché trascurato dagli storici: che a Roma Pietro e Paolo furono messi a morte per la denuncia di alcuni loro confratelli nella fede. Il te-sto è contenuto nella 1 Clemente 5,3-6; esso è preceduto dagli esempi di gelosia ed invidia dell'A.T., di cui furono vittime Caino, Giacobbe, Giuseppe, Mosè, David (4,1-12). Il testo qui ha una svolta:

5,1. Però al fine che cessiamo con gli esempi antichi, veniamo agli atleti fattisi vicino, prendiamo i nobili esempi della nostra generazione.

2. A causa di gelosia e d'invidia (zèlos kdi phthónos)le massime e giustissime Colonne furono perseguitate, e gareggiarono (athléó) fino alla morte.

3. Prendiamo davanti agli occhi nostri gli Apostoli buoni.4. Pietro, che a causa di gelosia (zèlos) iniqua

non una o due volte, ma moltissime sopportò sofferenze,e avendo testimoniato (martyréó),si avviò verso il dovuto luogo della Gloria.

5. A causa di gelosia e lite (zèlos kdi éris)Paolo mostrò il premio della sopportazione (hypomonè),

6. Sette volte portate le catene, costretto alla fuga,lapidato, diventato Predicatore in Oriente ed in Occidente,ricevette l'autentica gloria della sua fede,

7. avendo insegnato la giustizia al mondo interoe giunto ai confini dell'Occidente,e testimoniato (martyréó) sotto i governatori.Così egli abbandonò il mondo,e si avviò verso il santo Luogo,diventato grandissimo esempio di sopportazione (hypomonè).

Resta il mistero non ancora decifrato su queste denunce di cristiani di Roma contro i loro Apostoli e Fondatori.

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COMMENTO - IL TRIODION

E resta il problema dei dissensi e cattiverie nelle Comunità, che Paolo sconfessa, volendo che i fedeli "depongano" tutto questo per di-ventare innocenti, e perciò non impacciati al combattimento spirituale inevitabile (v. 13).

E però l'armatura formidabile per 1'"agone", che Paolo indica, e che poi enumererà nei testi accennati qui sopra, si riassume nell'invincibilità che è il "rivestirsi del Signore Gesù Cristo". È un altro dei massimi temi paolini, che ritorna in Gai 3,27, celebre testo (che nella divina Liturgia sostituisce il Trisàgion in diverse occasioni festive eccezionali; vedi so-pra, il Sabato santo e grande), in Col 3,10 ed in Efes 4,24. Anche se la metafora può sembrare pesante, chi si "riveste del Signore" Lo possiede come la forma essenziale del suo esistere, e senza di cui il suo esistere è informe ed inutile. Nel simbolismo battesimale questo è significato dalla veste candida, che come si vide indica la vittoria della Resurrezione do-po la morte (l'immersione), la regalità, il sacerdozio, la nuzialità, la fe-stività, la gioia. Simbolicamente, ancora, tale veste non va mai smessa, così che la teologia simbolica ripresenta i redenti e santificati e beati e divinizzati con la veste candida per l'eternità, come in Ap 7,9-17.

Per la verità, il Padre buono dona ai figli suoi una veste duplice, perché i discepoli del Signore "sono rivestiti" per sempre anche dallo Spirito Santo (Le 24,49). E qui il testo mirabile che spiega questa se-conda veste che non si dismette più, è Col 3,12, che enumera alcuni doni come prodotto diretto dello Spirito Santo: "Rivestitevi come elet-ti di Dio, santi ed amati, di viscere di misericordia, di bontà, d'umiltà, di mitezza, di magnanimità..." (vedi sopra, Domenica 13a diLuca).

Con questa "tenuta da combattimento", ossia con Cristo e lo Spirito Santo, i fedeli non trasformeranno il loro normale e doveroso provve-dere iprónoia) alla propria carne, ossia alla propria persona e esisten-za, così da farne la negazione massima della fede, le "concupiscenze" (epithymiai), i desideri smodati in ogni direzione. Quelli che, facendo diaframma tra l'uomo e se stesso, e tra lui ed il prossimo ed il mondo, e finalmente anche in rapporto a Dio, portano al degradamento da cui è difficile poi riprendersi. L'esercizio spirituale, la dskèsis dei Padri, è anche questo abbattimento del diaframma malefico dell'egoismo, e in forza della metànoia è la ricomunicazione con la realtà di se stessi, del prossimo e del mondo, e finalmente del Padre Buono; vedi qui la para-bola del Figlio dissoluto (sopra).

Ma sempre con questa "tenuta da combattimento" per i forti, Paolo spinge i fedeli alla battaglia difficile. La prima esortazione è ad acco-gliere i deboli nella fede (cf. Rom 15,1; e già 1 Cor 7,9-11; 9,22; e la Domenica precedente a questa, YApóstolos), senza l'inutile dissipazio-ne delle infinite discussioni sulle idee degli altri; il fedele non deve perdere tempo e pazienza in queste gare di parole, che portano alle liti

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DOMENICA DELLA TYRINÉ

(vedi sopra) e turbano i rapporti (v. 14,1). Così, in tema di cibo, il cre -dente, ben fondato nella sua fede, mangia di tutto (cf. 14,14), e fa be ne; l'altro, debole nella fede, pieno di scrupoli, mangia solo al modo vegetariano, e per sé male non fa (v. 2). Il problema sta nel fatto che il primo non deve criticare né disprezzare il fratello vegetariano, e que -sto deve agire altrettanto con l'altro (cf. Col 2,16). Infatti, Dio stesso accoglie l'uno e l'altro (v. 3), e il discorso è finito. Paolo qui al modo della diatriba greca, interpella l'eterno "critico" che esercita quest'arte in un senso o nell'altro: "Tu chi sei?", chi credi di essere, se ti permetti di giudicare impunemente 1'"altrui familiare (oikéios)", il servitore sul quale dispone unicamente il Padrone divino? Questa critica alla critica è propria anche dell'apostolo Giacomo (Gc 4,12), altro indizio del ma-lessere che poteva regnare già nelle antiche Comunità. Ora, l'oggetto della critica, il fratello disprezzato, sta davanti al suo Signore, e starà saldo, oppure cadrà, bensì è affare solo tra lui ed il suo Signore. Ma certo, essendo un fedele, resterà saldo. Dipende solo da Dio, poiché Egli solo ha la potenza e potestà di conferire a lui la stabilità, non altri uomini con le loro indebite parole (v. 4).

Il richiamo a noi tutti, in direzione della Quaresima ormai prossi -ma, è dunque alla forza dell'agone spirituale; alla fede nel tempo do-natoci da Dio per le "opere della Luce"; ad essere sempre molto so -brii; a condursi da combattenti di Cristo Signore; alla carità fraterna verso i più deboli; al mangiare con discrezione; a considerare sempre il fratello come "accolto da Dio", che comunque, anche nonostante i suoi difetti, gli ha conferito la stabilità, che è grazia.

5. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 30,2.3, "Supplica individuale". e di Matteo;Vedi l'Alleluia della Domenica 4 a di Pasqua; 4a 12a 4a

di Luca.

b) Mt 6,14-21Nell'economia dell'Evangelo che narra Matteo, Gesù Signore, bat -

tezzato dallo Spirito Santo e così consacrato per il suo ministero mes -sianico tra gli uomini, superate le tentazioni dove da vittorioso riaffer -ma la sua fedeltà filiale al Padre, comincia a svolgere il suo Programma battesimale: l'annuncio dell'Evangelo che deve essere anche spiegato ed insegnato, le opere della carità del Regno, e il culto filiale al Padre al quale convoca gli uomini. Ora, la prima predicazione di Gesù, le pri -me guarigioni dei malati e degli indemoniati, raduna le folle. Ad esse Gesù rivolge il primo grande insegnamento, che si è convenuto chia -mare "discorso della montagna" (5,1 - 7,29; vedi nella Parte I, lo sche-

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COMMENTO - IL TR1ÒD1ON

ma generale di Matted). Enunciate le beatitudini (5,1-12), dichiarati i discepoli sale delle terra e luce del mondo (5,13-16), dichiarati i rap-porti tra la Legge antica e quella nuova (5,17-48), Gesù insegna una "catechesi" specifica sull'elemosina (6,1-4), sulla preghiera con al cen-tro il "Padre nostro" (6,5-15), sul digiuno (6,16-18), sull'uso dei beni del mondo (6,19-34).

Ora, la pericope di oggi, 6,14-21, abbraccia le esortazioni sul digiu-no, ed in parte sull'uso cristiano dei beni. E qui va detto, anche se sembrerà strano, che la Quaresima che sta per cominciare, nei testi della celebrazione dei Divini Misteri avrà poche occasioni di parlare specificamente del digiuno (cf. solo Me 9,17-31, nella Domenica 3a 1

Quaresima, dove al v. 29 si nomina il digiuno). La penitenza, che si esprime anche digiunando, è invece piuttosto trattata nell'ufficiatura delle Ore sante.

Si è accennato sopra che la considerazione di certa cultura moderna sul digiuno oscilla tra il rigetto totale, areligioso, e la rivalutazione ad uso estetico terapeutico e sportivo. Giocano qui diversi fattori cultura-li, che hanno portato alla progressiva perdita dei valori, del senso reli-gioso, perfino da parte di sinceri credenti. Comunemente si crede che le pratiche come il digiuno siano superate dal solo impegno sociale, e mistificazioni simili. Su questo, poi si inserisce il nominalismo e il ra-zionalismo che predomina negli studi teologici in genere, con l'altro sofisma, che il digiuno è un'"opera della Legge" che si contrappone perciò alla fede senza le opere.

Contrassegno tipico di questa mentalità stravolta è il testo di Me 9,29, quando Gesù, che ha liberato il ragazzo indemoniato dove i suoi discepoli hanno fallito, e gliene chiedono la ragione, risponde: "Questo genere (di demoni) in nessuno può uscire, se non con preghiera e digiu-no, enproseuchè kài nèstéia". Ora, tutte le edizioni moderne espungo-no Mi nèstéia, benché sia la lezione originale ed ottimamente attestata. Questo è non avere compreso Gesù Signore, Ebreo fedele, e la sua vo-lontà per noi.

Il digiuno in realtà è una pratica pia e necessaria già nell'A.T. per i fedeli e la nazione. Giovanni il Battista lo praticava tutta la vita. Gesù ha digiunato secondo la Legge santa, fino al digiuno che fece nella Ce-na dei Misteri. Gli Apostoli anche, e le loro Comunità. Così le Chiese antiche, invariabilmente. Così deve praticare sempre la Chiesa di Dio.

Gesù da anche le norme per il retto digiuno: Mt 6,16-18.Ma inserisce il digiuno come conseguenza della preghiera: 6,5-13,

e come prolungamento del perdono fraterno: 6,14-15. Senza preghiera e perdono, il digiuno sarebbe ipocrita.

H v. 6,14 va letto quale esplicitazione del v. 12 del "Padre nostro" (vv. 9-13), che è precisamente la serie di 7 epiclesi, per il Nome, per il

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DOMENICA DELLA TYR1NE

Regno, per la Volontà, e poi per il pane, per la "remissione" dei debiti, per la tentazione, per la liberazione dal Maligno.

H v. 12 dice: "E rimetti (aphièmi, perdonare, condonare, rilasciare) a noi i debiti nostri, come anche noi rimettemmo (aphièmi) ai debitori nostri". Il secondo aphièmi, in aoristo puntuale come il primo indica che chi già ha perdonato, e solo lui, ha la facoltà di chiedere il divino perdono di ogni debito, che già fu concesso.

Gesù allora prosegue con la condizionale del v. 14: "Se voi dunque avrete rimesso agli uomini" (anche qui, in congiuntivo aoristo, come azione già determinata ed irreversibile), allora il Padre Celeste certa-mente rimetterà.

Il verbo aphièmi, da cui àphesis, viene dal greco dei LXX, e tradu-ce diverse ed interessanti semantiche. Va tenuto conto che il senso è da apó, via, lontano da, e hièmi, inviare, mandare, spedire, rimandare.

Si ha così:

a) aphièmi traduce in specie:- sàlah (da cui la sélihàh): perdonare dai peccati, in specie in nessocon i sacrifici (cf. Lev 4-5);

- sàmat: condonare i debiti (Dt 15,2, contesto dell'anno sabatico);

b) àphesis traduce in specie:- dèrór, la remissione di ogni debito: Lev 25,10 (per il Giubileo cinquantennale); Is 61,1 (per il dono dello Spirito di Dio sul Re e Sacerdote messianico); Ger AX (34), 8.15.17 (2 volte);

- silluhim: il perdono dei peccati- sémittàh: il condono dei debiti: Es 23,11 (nel "codice dell'alleanza";

Dt 15,1.2 (2 volte). 3.9 (nel contesto dell'anno sabatico); 31,10; -jóbèl:Lev 25,1 (anno sabatico). 11-13 (Giubileo).

Verbo e sostantivo stanno spesso nelle parti solo greche dell'A.T., come Daniele e 1 Maccabei. Il significato è chiaro:

a) sul piano sociale, nel contesto dell'anno sabatico e del Giubileo, è iltotale rimettere dei debiti;

b) sul piano dell'opera divina della salvezza, è il perdono divino dei"debiti" gravissimi che sono i peccati, in specie nei testi profetici citatisopra.

Ora in Mt 6,12 e 14 i due significati si coniugano: il Signore, il Pa-dre Celeste, perdona, condona, abbona, rimette, cancella ogni "debito" contratto verso Lui sia per il fatto stesso di avere ricevuto i Beni divini ricevuti, sia per i peccati che abusano di quei Beni. La condizione per

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COMMENTO - IL TRIÓDION

segreto "ti renderà", ossia ne tiene conto, e ne offre la ricompensa (v. 18). Ennesimo segno che gli occhi attenti del Padre non si distolgono mai da ciascuno dei suoi figli, poiché da ciascuno il Padre si attende l'apertura dell'anima per poter donare i suoi Beni.

I vv. 19-21 sono l'introduzione catechetica a come nella nuovaEconomia divina si debba corrispondere nell'uso temporaneo dei beniterreni. Materia né facile, né esauribile, e di fatto nei secoli in perennediscussione, per continui eccessi in un senso o nell'altro. Perciò anchemateria di trasgres sioni, contestazioni, lotte violente, rivoluzioni.

IIprimo imperativo per i discepoli del Signore è negativo: "Non tesaurizzate per voi tesori sulla terra" , , .

Nella Domenica 9a diL uca, leggendo la parabola "del ricco scemo(16,16-21), si è trovata l'espressione programmatica "arricchirsi da-vanti a Dio" (v. 21), mentre poco dopo viene l'affermazione e promes-sa: "Non temere, piccolo gregge, poiché si ebbe compiacenza da parte del Padre vostro di donare a voi il Regno" (v. 33). Qui sta il Tesoro nel cielo, e secondo la parabola delle mine, chi spreca la sua mina non "tesaurizzandola" per il suo Signore, è escluso dal Regno, con la for-mula difficile: "A chi ha, sarà donato, e a colui che non ha, sarà tolto anche quello che non ha" (Le 19,20-26), dove "avere" significa avere ricevuto dal Signore ed avere così tesaurizzato, mentre "non avere" si-gnifica egualmente avere ricevuto dal medesimo Signore per ritrovarsi colpevolmente, per l'inazione, senza più nulla in mano.

Gesù prosegue (Mt 6,19): le ricchezze umane simbolicamente sono di-vorate dalla ruggine e dal tarlo, oppure i ladri sfondano qualsiasi camera di sicurezza e portano via. Giacomo Apostolo descrive questo con eguali note deprimenti: le ricchezze si putrefanno, e le vesti lussuose sono divo-rate dalla tignola, l'oro ed argento paradossalmente sono corrosi dalla rug-gine, e questa stessa sarà "testimone" contro i ricchi, "e divorerà le carni" loro come fuoco, perché ammassarono tesori che saranno la causa della morte eterna, "degli ultimi giorni" (Gc 5,2-3). Anche la ricchezza materiale è "concupiscenza" degli occhi e della vita (cf. 1 Gv 2,15).

Tutt'al contrario, l'esortazione imperiosa del Signore induce preci-samente a "tesaurizzare tesori nel cielo", presso Dio (v. 20a). E qui la Santa Scrittura ci insegna i molteplici contenuti del "tesaurizzare i te-sori". Intanto, si tratta della ricompensa divina preparata per i buoni, come qui, e poi inMt 19,21; Me 10,21; Le 12,33; 18,22. Ma poi "il Te-soro" è la Grazia dello Spirito Santo donata agli Apostoli per l'annun-cio dell'Evangelo" (cf. 2 Cor 4,7) sotto la formula: "tutti i tesori della sapienza e della conoscenza (divine)". I quali per sé sono contenuti esclusivamente in Cristo Signore (Col 2,3), poiché solo in Lui "abita la Pienezza della Divinità" che è lo Spirito Santo (Col 2,9). Così que-sti Tesori provengono dall'adesione fedele al Signore.

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DOMENICA DELLA TYRINE

ricevere in atto questa àphesis però è una, netta, drastica: avere a no-stra volta fatto àphesis verso i fratelli, sia per i debiti spirituali, si tratta allora di torti ricevuti, sia per i debiti materiali. Tali debiti tra fratelli qui sono iparaptómata (da parapiptò),che indica l'agire o il non agire per cui si devia dall'onesto, oppure si manca di tributare a Dio o ai fratelli quanto dovuto, quindi azione gravemente difettosa, una defezione, un'iniquità.

Ma il N.T. è la rivelazione che nel Figlio con lo Spirito Santo il Pa-dre ormai ha concesso il Giubileo biblico divino della remissione ge-nerale di ognipardptòma. E così:

a) in Le 4,18-19, Gesù proclama che lo Spirito di Dio sta su Lui affinchè ormai porti Vàphesis nell'"Anno del Signore accetto", il Giubileodivino;

b) in Gv 20,19-23, Cristo Signore Risorto dona la Pace sua, soffia loSpirito Santo ed invia i discepoli a portare al mondo Vàphesis divina,il Giubileo universale;

e) Pietro la mattina di Pentecoste, annunciando la Resurrezione del Si-gnore e il conseguente Dono dello Spirito Santo, chiama i presenti alla conversione del cuore, al battesimo per ricevere Y àphesis dei peccati (At 2,38-39).

Così, chi ha ricevuto lo Spirito Santo, e dunque la remissione dei debiti, non può che comportarsi come il Padre che tanto Dono gli con-cesse: deve condonare ogni torto al fratello.

Il v. 15 in negativo, gioca sul termine paraptómata: se gli uomini non li condonano ai fratelli, neppure il Padre Celeste li perdonerà a questi duri di cuore.

Viene adesso la sezione del digiuno. In regime di Grazia, fatti di-scepoli del Signore, la disciplina del digiuno resta, ma è profondamen-te innovata. Lo Sposo è stato assunto al cielo, e i discepoli debbono digiunare (Mt 9,15). Essi debbono vivere ancora "nella tristezza", però del mondo, non "con tristezza" in essi. Perciò il digiuno, benché sia sempre una forma penitenziale, non farà diventare tristi. Chi si presenta agli altri, e si esibisce con il volto trasandato in segno di sofferenza, in modo che si veda la privazione del cibo, non ha alcun merito: già ri-cevette il suo compenso, ossia la considerazione umana (v. 16).

Il digiuno gradito da Dio è quello che insieme offre slancio e leti -zia. Gesù esorta a lavarsi il viso, non a cospargerlo di cenere, come gli ipocriti di poco sopra, ad ungersi i capelli, ed anche qui, niente cenere-sul capo (v. 17). Gli altri non debbono accorgersi del digiuno. Questo è uno dei segni del sacrificio spirituale, offerto con il cuore contrito e sincero, come vede nel segreto il Padre Celeste, ed Egli nel medesimo

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COMMENTO - IL TR1ÓDION

Contro questi tesori non hanno presa la ruggine e i tarli e i ladroni (v. 20a). Essi sono inattaccabili dalla malvagità degli eventi e degli uo-mini. Sono custoditi preziosamente dal Padre stesso per ammettervi tutti i suoi figli buoni.

Il v. 21 molto caro alla riflessione dei Padri: "Dove infatti sta il teso-ro tuo, lì sta anche il cuore tuo". Questa semplicità della formula na-sconde uno straordinario significato. Anzitutto va notato che infallibil-mente ogni uomo si dirige, ed in forma irresistibile, verso le realtà che crede siano il "suo bene", e questo anche se invece è il peggiore male. Seguendo tale constatazione generale, i Padri hanno visto bene che "il tesoro" è l'aspirazione suprema di ogni uomo, è la realizzazione, sup-posta o immaginata, dell'intera loro esistenza. Perciò esso ha un signi-ficato "equivoco", ossia può risolversi in negativo, o in positivo:

a) il tesoro, la tensione verso l'adempimento della vita, per sé è universale ed infallibile. Anche nel male, paradossalmente si cerca il proprio bene. Se tale bene però è realtà caduca, solo umana, contingente,fine a se stessa, trasforma l'uomo che lo possiede o vi tende nella caducità e nella rovina; è l'ostacolo finale verso i Tesori del Regno;

b) il tesoro nello stesso significato di realizzazione della propria esistenza, se è tensione alle Realtà del Regno, trasforma in tali realtà, edunque è la via alla divinizzazione.

Il cuore è il luogo di tale "trasformazione" per via di identificazione, essendo il centro della persona (non il cuore muscolo, ma "il cuore" ri-posto, l'anima, l'intelletto, la sensibilità, la decisionalità, la volontà).

Il Periodo del Triódion viene a porre sotto gli occhi "il Tesoro", e a sollecitare "il cuore" a purificarsi per farsi trasformare. La Parola divi-na e la santa Mensa sono i grandi Doni trasformanti, pregusto del Te-soro preparato così:

Quanto occhio non vide ed orecchio non ascoltòe sul cuore dell'uomo non ascese,questo preparò Dio per quanti Lo amano (1 Cor 2,9).

6. MegalinarioDella Domenica.

7. KoinónikónDella Domenica.

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