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8. LA VALUTAZIONE D’AZIENDA
8.1. Aspetti generali.
Sin dai primi capitoli è emerso chiaramente come il bilancio d’esercizio non abbia la finalità di
esprimere il valore economico dell’impresa, ovvero il valore della stessa ai fini di un’ipotetica
operazione di cessione o fusione: il patrimonio, infatti, viene stimato adottando il postulato della
prudenza, considerando altresì che la gestione si svolga in normali condizioni di funzionamento. Ciò
significa che molte delle regole cui ci si ispira nella redazione del bilancio d’esercizio vengono meno
quando le finalità della stima mutano: quando, cioè, si valuti il patrimonio in condizioni che non
rappresentano il normale funzionamento dell’impresa. La valutazione di un bene dipende sempre, in
effetti, dalla finalità del processo di stima: ad esempio, la valutazione di un immobile ai fini fiscali
risulterà certamente diversa rispetto a quella realizzata in vista della sua cessione.
La valutazione di un bene - materiale o immateriale - o di un complesso di beni organizzati costituenti
un’azienda o un ramo di essa (art. 2555 c.c.: l’azienda è il complesso di beni organizzati
dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa) rappresenta un processo piuttosto complesso. Chi si
occupa di valutazioni utilizza criteri e metodi che, se a volte possono convergere nei risultati, spesso
portano a esiti alquanto diversi. L’approccio soggettivo del valutatore può influenzare il risultato, in
considerazione soprattutto dell’esperienza accumulata: valutare non significa semplicemente prendere
un modello matematico ed applicarlo ad un caso specifico. È necessario partire dal fine valutativo, dalle
caratteristiche dell’oggetto da stimare e dall’orizzonte temporale nel quale la stima si va ad inquadrare.
Inoltre, il valore che viene realizzato al termine della negoziazione spesso si discosta in misura
considerevole dai risultati raggiunti nel processo di stima.
Le motivazioni che si pongono alla base di un processo di stima possono essere di varia natura: valutare
non è utile solo all’interno di un processo di acquisizione/vendita. Si pensi al caso in cui si dia vita ad
un’operazione di natura straordinaria: il conferimento di un ramo d’azienda o di una partecipazione, la
fusione tra due o più società, la scissione di una società con attribuzione delle parti oggetto di scissione
a diversi soggetti giuridici, la quotazione delle azioni di una società sul mercato di borsa (italiano o
estero) per reperire nuove risorse finanziarie, la necessaria determinazione del valore di una
società/azienda in caso di lite tra soci, di esercizio del diritto di recesso ai sensi degli articoli 2437 e
2473 del codice civile, di successione generazionale che coinvolga alcuni o tutti i discendenti da
regolare con donazioni e patti di famiglia, costituzione di Trust e via discorrendo.
La stima del valore economico dell’azienda è un utile parametro di misurazione anche per le
performance del management: con sempre maggiore frequenza, chi ha ruoli di direzione si vede
assegnare una parte del compenso in funzione dell’incremento di valore che lui/lei stesso/a ha
contribuito a generare attraverso le decisioni prese.
Sono molti i soggetti, i cosiddetti stakeholders (letteralmente: «titolare di una posta in gioco » o «
portatori di interesse »), interessati alla misurazione del valore economico generato (o distrutto)
dall’impresa:
- i soci mirano alla crescita del valore delle loro quote/azioni, in vista del realizzo futuro delle
stesse attraverso la vendita o la quotazione;
- fornitori e clienti guardano con estrema attenzione ai dati aziendali per comprendere
l’affidabilità nel tempo del loro interlocutore: se l’azienda genera valore, ne restituisce una parte
a tutto l’ambiente circostante e, in particolare, ai partner commerciali;
- i dipendenti sono più motivati se vengono responsabilizzati su obiettivi condivisi che si ritiene
possano portare ad una crescita del valore generato. Sono sempre più diffusi sistemi di
remunerazione premiale (Welfare aziendale), che hanno nell’incremento del valore aziendale,
misurato mediante l’utilizzo di parametri preconcordati, un riferimento imprescindibile;
- gli enti creditizi (in genere le banche) e gli investitori istituzionali e non (fondi di private equity,
investment companies), considerano il tema del valore da un duplice punto di vista: da un lato,
il valore del patrimonio rappresenta una fonte di garanzia per i terzi creditori. Dall’altro, il valore
economico viene considerato (soprattutto dai portatori di capitale come i fondi di private equity)
in un’ottica previsionale: la crescita dell’impresa viene attentamente pianificata, ponendo precisi
obiettivi di redditività e di generazione di liquidità, per accertarsi di una corretta e remunerativa
allocazione del capitale erogato, con la certezza della sua restituzione oltre che di un ritorno
adeguato per il rischio in termini di tasso di interesse.
Al di là della prospettiva particolare adottata da ciascuno stakeholder, è necessario che i sistemi di
valutazione si fondino su principi comunemente accettati e riconosciuti, al fine di giungere a risultati
quanto più condivisi e condivisibili. La corretta redazione del bilancio di esercizio e di tutti i documenti
ad esso correlati rappresenta, comunque, una base imprescindibile per la valutazione dell’impresa: non
di rado la proprietà tende ad esprimere valutazioni che, prescindendo da dati empirici, non trovano poi
riscontro nelle stime dei professionisti incaricati della valutazione. L’analisi preventiva del bilancio
consente di evitare sorprese di questo genere.
8.2. Logiche di misurazione del valore Nel gergo comune a volte si tende spesso a sovrapporre i concetti di “valore” e “prezzo”. Tuttavia,
mentre il processo attribuzione del valore - pur venendo quest’ultimo stimato sulla base di formule e
modelli condivisi - è influenzato da aspetti anche emotivi, quali l’attaccamento dell’imprenditore
all’azienda o l’ambizione del potenziale acquirente a realizzare una rapida crescita, il prezzo viene
invece definito con certezza nel momento in cui il valore percepito da chi vende si incrocia con il
sacrificio monetario che l’acquirente è disposto a sopportare.
Creare valore per l’impresa è un obiettivo imprescindibile: se essa distrugge valore nel lungo periodo,
la sua attività è destinata a cessare. Necessariamente, in assenza di performance economiche positive
(utili) non può esservi creazione di valore: tuttavia, non è sufficiente che sussistano adeguate condizioni
di redditività nel breve periodo per poter affermare che l’impresa sta creando valore. Né, d’altra parte,
il fatto che l’impresa abbia prodotto una perdita in un singolo esercizio significa necessariamente che la
gestione aziendale distrugge valore: è possibile, in altri termini, che condizioni particolari abbiano
determinato per quell’esercizio l’impossibilità di coprire i costi. Si pensi, ad esempio, agli effetti della
crisi generata dall’epidemia da coronavirus.
La capacità dell’impresa di creare valore è, dunque, una condizione da verificare in una prospettiva di
lungo periodo. Gli indicatori introdotti nel capitolo 7, con riferimento all’analisi di bilancio (ROE, ROI),
non rappresentano misure adeguate della capacità dell’impresa di creare valore nel lungo termine,
poiché derivano da dati di bilancio che riflettono implicitamente una logica di breve periodo. Basti
considerare, a tale riguardo, che per aumentare il ROI (e il ROE) sarebbe sufficiente tagliare i costi di
ricerca e sviluppo, o quelli di manutenzione degli impianti: queste politiche produrrebbero certamente
ricadute positive sulla redditività nel breve termine, ma avrebbero ripercussioni molto negative nel
lungo termine, finendo col rendere l’impresa meno competitiva e col ridurne il valore economico
(economic value). I modelli di misurazione del valore prodotto dall’impresa si basano sull’assunto che
la gestione debba generare un ritorno sul capitale investito superiore al costo medio (ponderato) del
capitale raccolto: in tale costo è ricompreso, oltre agli oneri finanziari connessi ai finanziamenti da terzi,
anche il ritorno atteso dai soci che hanno investito nel capitale aziendale. In altri termini l’impresa, per
creare valore nel lungo periodo, deve essere in grado di far fruttare il capitale investito netto in misura
tale da remunerare adeguatamente tutti i finanziatori, ivi inclusi i soci, conservando altresì un margine
per la propria crescita.
Si è già avuto modo di dire che - in economia aziendale - l’azienda è concepita come l’insieme
organizzato dei beni dell’impresa (materiali e immateriali), nonché delle risorse umane e finanziarie
disponibili. Il processo di valorizzazione delle singole componenti e del valore che le stesse generano
venendo utilizzate in modo sinergico, sfocia nella teoria della valutazione d’azienda: l’insieme
organizzato delle risorse aziendali assume un valore diverso – spesso molto superiore, altre volte
inferiore - rispetto alla sommatoria dei valori attribuiti a ciascuna risorsa di cui l’impresa dispone.
Utilizzando una metafora calcistica, si potrebbe dire che i risultati di una squadra composta da giocatori
non di elevatissimo talento potrebbero superare le aspettative proprio per le dinamiche di gioco avviate
dal tecnico disponendo i giocatori sul campo in modo strategico; al contrario, squadre dotate di stelle di
gran fama potrebbero non ottenere i risultati previsti per mancanza di organizzazione del gioco. Nel
primo caso, il valore della squadra risulta superiore alla sommatoria del valore dei suoi giocatori; nel
secondo caso, invece, il valore complessivo è inferiore alla somma dei singoli elementi. Nel seguito si
cercherà di illustrare le diverse logiche utilizzabili nel processo di valutazione, senza necessariamente
entrare nella formulazione matematica delle stesse.
È necessario, anzitutto, cogliere alcuni aspetti di fondo del processo di valutazione. Si immagini di voler
stimare un macchinario o un altro bene materiale utile all’attività dell’impresa: certamente, l’onere
sostenuto per il suo acquisto (o per la sua produzione) rappresenta un primo riferimento nel processo di
stima. Questo valore andrà poi rettificato per tener conto della progressiva riduzione della vita utile
residua del bene, a causa dell’utilizzo dello stesso nel processo produttivo o per fenomeni di
obsolescenza tecnologica. Il valore di mercato è un altro parametro fondamentale cui fare riferimento
nel processo di stima. Non sempre, però, esiste il valore di mercato di un bene: si pensi, ad esempio, ai
titoli delle aziende non quotate, o ai marchi. Inoltre, se il bene è stato costruito appositamente per
l’impresa α (potrebbe anche essere stato autoprodotto o essere il risultato di un profondo processo di
modifica dell’esistente per adattarlo alle esigenze dell’azienda) su specifiche tecniche ben definite e
circoscritte, avrà per essa un valore particolare: per la sua rilevanza sul piano strategico, il bene potrebbe
risultare addirittura insostituibile. Lo stesso bene per un’altra impresa potrebbe risultare, invece, inutile.
La stima del valore del macchinario in questione sarà, perciò, completamente diversa a seconda dei
soggetti che si pongono nella prospettiva del suo utilizzo: il bene può essere strategico per alcuni,
marginale per altri. Queste considerazioni consentono di comprendere che l’esame del contesto in cui
ci si muove è fondamentale per inquadrare la disciplina delle valutazioni: non è sufficiente considerare
l’oggetto della valutazione tout court.
Le riflessioni appena fatte con riferimento al singolo bene possono essere estese all’azienda nel suo
complesso: il valore di un’azienda potrebbe aumentare di molto allorchè, a seguito di una cessione,
l’acquirente fosse in grado di inserirla in un nuovo contesto, dando vita a sinergie e integrazioni sia a
monte che a valle del processo di produzione e vendita. Nel processo di stima dell’impresa occorre
dunque tener conto del contesto in cui essa opera: è necessario considerare la tipologia di beni prodotti
(o servizi erogati), il suo posizionamento sul mercato, la situazione macroeconomica dei mercati di
sbocco, il mercato finanziario di riferimento utile per ottenere le risorse necessarie. Dall’analisi delle
poste contabili, inoltre, si possono ottenere numerose informazioni in merito, ad esempio, all’esistenza
di crediti di dubbia esigibilità o di passività potenziali non espresse o, ancora, di rischi e garanzie che
possono tramutarsi in perdite di valore; va considerata, inoltre, l’esistenza di know-how e brevetti
fortemente innovativi e di notevole valore strategico e la possibilità di tutelarne lo sfruttamento.
Una prima metodologia valutativa prevede di esaminare le singole voci di bilancio, operando rettifiche
in aumento o in diminuzione allo scopo di riesprimere il patrimonio netto a valori correnti. La differenza
tra attivo e passivo rettificati porterà a riesprimere il patrimonio netto a valori correnti (c.d. Patrimonio
Netto rettificato). Il patrimonio, esaminato secondo questa modalità, diventa il fulcro del processo di
valutazione; per tali motivi il metodo in questione è definito metodo patrimoniale. Come si vedrà più
avanti, esistono due modalità di applicazione di questa metodologia. Di fatto, il valore ottenuto viene a
coincidere con il capitale necessario per partire con una nuova attività con caratteristiche strutturali e
patrimoniali corrispondenti a quelle dell’impresa analizzata.
Un approccio alternativo consiste nello stimare l’impresa sulla base dei flussi che essa sarà
prevedibilmente in grado di generare negli esercizi futuri: secondo questa impostazione, il valore del
patrimonio dipende – più che dal valore dei singoli elementi che lo compongono - dal ritorno ottenibile
dallo stesso sotto forma di redditi futuri o, alternativamente, di flussi di liquidità. Questo approccio viene
utilizzato per valutare la convenienza degli investimenti nel lungo periodo: si tratta di confrontare il
valore dei flussi di cassa attesi dall’investimento –attualizzati al tempo t0 inteso come il momento in cui
si effettua l’investimento - con quello del capitale da investire.
Da questo punto di vista, la stima può essere diversa a seconda che si dia rilevanza al flusso economico
espresso attraverso la differenza tra ricavi e costi previsti (grandezze di natura economica), piuttosto che
a quella tra flussi di cassa in entrata e uscita: si parlerà perciò di «metodo reddituale» nel primo caso e
di «metodo finanziario» nel secondo. In generale, qualsiasi investimento può essere valutato tenendo
conto dei flussi che ci si attende da esso.
A differenza del metodo patrimoniale, in quest’ottica valutativa quanto accaduto nel passato serve quale
base di partenza per prevedere le performance future e comprendere se le ipotesi effettuate poggino su
solide basi. Una costanza di comportamento e di risultati raggiunti nei periodi precedenti più prossimi
può costituire un valido supporto per ritenere raggiungibili gli obiettivi espressi nei piani aziendali.
Quando ci si trova di fronte a situazioni in cui è utile considerare cosa accadrà in futuro, ma è necessario
al tempo stesso partire da una base storica per tenere conto della situazione attuale, si utilizza un metodo
di valutazione che pratica e dottrina hanno denominato come metodo misto patrimoniale-reddituale: in
pratica, si tiene in considerazione sia l’elemento statico di partenza, di dotazione patrimoniale, che
quello dinamico di sviluppo futuro.
Da ultimo, un’azienda potrebbe essere valutata anche attraverso il confronto con altre realtà che possano
avere un adeguato grado di comparabilità. La logica di fondo di questo approccio è abbastanza facile da
comprendere: dovendo valutare un’azienda, si potrebbe far riferimento al valore stabilito in precedenti
negoziazioni per aziende del medesimo settore e in situazioni simili a quelle riscontrate dal valutatore.
Se vengono rispettate determinate condizioni di comparabilità, è possibile immaginare che il valore
dell’azienda oggetto di valutazione non si discosti molto da quello definito in passato per casi simili. Il
valore dell’impresa è ottenuto, perciò, attraverso opportuni moltiplicatori: frequentemente si moltiplica
un elemento desunto dal bilancio o da situazioni contabili aggiornate più prossime possibile alla data
della stima (fatturato, EBITDA o EBIT o altro ancora) per un coefficiente, ottenuto per ipotesi,
attraverso la definizione di un insieme statistico costruito con ragionevolezza. Ad esempio, se viene
riscontrato con assidua frequenza che il valore di un’impresa per un settore e in una determinata area
geografica è in media pari a due volte il fatturato, si può ritenere che tale multiplo possa essere applicato
a tutti i soggetti operanti nel medesimo settore e con caratteristiche simili. I coefficienti generalmente
applicati possono derivare da studi su analisi delle performances nei mercati azionari delle Società
quotate, dall’esame di transazioni che hanno avuto ad oggetto società simili per caratteristiche
dimensionali, di mercato, di prodotto ecc. In questo caso si parlerà di metodo dei multipli o delle
transazioni comparabili.
8.3. L’individuazione del metodo di valutazione.
Poiché come si è visto, i metodi di valutazione normalmente non portano a risultati univoci, ci si deve
porre il problema dell’individuazione del metodo più adatto nel caso specifico. Quelli comunemente
utilizzati e riconosciuti dalla Dottrina e dalla pratica, come accennato nel precedente paragrafo sono:
1. metodo patrimoniale (semplice e complesso);
2. metodo dei flussi attesi (reddituale o finanziario);
3. metodo misto patrimoniale-reddituale con stima autonoma dell’avviamento (goodwill);
4. metodo dei multipli.
Un metodo non esclude l’altro: è nella scelta del metodo che la figura del valutatore con la sua esperienza
e capacità gioca un ruolo fondamentale. La decisione, infatti, è fortemente influenzata dal contesto e dal
momento in cui si attua la valutazione. Dipende dal mercato di riferimento, dalle variabili interne ed
esterne, dalle ragioni della valutazione.
Se si dovesse valutare un’impresa per l’intervento in capitale di un fondo di equity – tipicamente
orientato ad ottenere un ritorno importante con una way out dopo 5/6 anni - il metodo più efficace
sarebbe quello dei multipli o, in alternativa, il metodo dei flussi attesi con orientamento verso i flussi
finanziari. L’obiettivo sarebbe infatti quello di presentare agli investitori un’ottica prospettica del loro
investimento, al fine di comprenderne la convenienza in termini di possibile crescita di valore nel
periodo di tempo considerato.
Se, invece, si volesse procedere alla valutazione di una società con investimenti fissi molto significativi
- si pensi ad una società immobiliare ove l’elemento degli immobili detenuti ai fini di investimento
stabile è quello rilevante – la scelta ricadrebbe indubbiamente su una valutazione col metodo
patrimoniale. Il professionista che si occupa della valutazione deve partire dagli elementi che gli
vengono messi a disposizione: bilanci, situazioni contabili, business plan. La stima deve procedere
attraverso una valutazione generale che va al di là delle forze in campo: non deve essere influenzata da
domanda ed offerta. Il risultato deve essere razionalmente spiegabile e dimostrabile, oltre che stabile
rispetto a influenze derivanti da fatti sporadici e difficilmente ripetibili.
8.4. Il metodo patrimoniale Come premesso, con il metodo patrimoniale si stima il patrimonio netto aziendale esprimendolo a valori
correnti o di mercato, in un’ottica ovviamente più continuativa che liquidatoria (in quest’ultimo caso le
considerazioni sarebbero di ben altra natura).
Il risultato della stima è l’espressione, a valori correnti, delle singole attività e passività alla data di
riferimento della valutazione stessa. Il bilancio costituisce il punto di partenza delle analisi
(adeguatamente verificato con tutte le informazioni ritraibili dalla contabilità per una lettura coerente e
quanto più vicina alla realtà) dal quale, per mezzo di una serie di rettifiche e integrazioni in ordine alle
valutazioni in esso espresse, si giunge alla determinazione del valore corrente del patrimonio sociale. Il
valutatore procede all’esame delle singole poste dell’attivo e del passivo, tenendo in considerazione
anche eventuali elementi non desumibili direttamente dalla contabilità: ad esempio, i possibili rischi
patrimoniali esprimibili attraverso accantonamenti di fondi (vedasi a tal proposito il capitolo dedicato
alle poste di bilancio). Si passa così dall’espressione di valori patrimoniali a costo storico e contabilizzati
secondo il criterio di prudenza, alla loro riespressione al valore (corrente) atteso di realizzo, considerato
il mercato di riferimento dei beni - sia immateriali che materiali - posseduti dall’azienda e iscritti a
bilancio. Per le poste del passivo, generalmente rappresentate secondo il valore di estinzione, è
necessario verificare che non risultino sottostimate, a causa di errori o di scelte consapevoli di
rappresentare in modo distorto la realtà aziendale.
Il principale vantaggio offerto dal metodo patrimoniale è il maggior grado di certezza: le valutazioni
sono quanto più possibile oggettive (verificabili) e vicine alla realtà, poichè questa metodologia prende
a riferimento i valori di mercato, intesi come valori di realizzo (in normali condizioni di funzionamento
e non in stato liquidatorio/concorsuale). Se si utilizza il metodo patrimoniale non è necessario
predisporre stime di risultati e/o di flussi finanziari futuri prodotti dall’impresa; questo consente di
limitare l’aleatorietà di previsioni quanto mai complesse, in cui si dovrebbe tener conto dell’evoluzione
prevedibile del settore (o, per aziende più complesse: dei settori) di appartenenza dell’impresa (stima
della domanda, andamento dei prezzi…). Come si è detto, il metodo in oggetto è particolarmente adatto
per essere applicato a realtà fortemente patrimonializzate, che hanno nell’attivo di bilancio la fonte
produttiva del proprio reddito (immobiliari di gestione che affittano i loro beni ad esempio).
La dottrina non sempre è concorde sull’utilizzo del metodo patrimoniale. Caramiello reputa il questo
approccio insufficiente a fornire una valutazione completa ed efficace, riconoscendone però l’utilità
quale base di partenza per la valutazione vera e propria. Al contrario, Guatri e Onida riconoscono la
capacità dei metodi patrimoniali di fornire una valutazione completa, anche se solamente nei casi in cui
l’impresa benefici di flussi reddituali tendenzialmente costanti.
Il metodo patrimoniale viene applicato con due modalità differenti, a seconda che vengano considerati
o esclusi, nella valutazione, gli intangible assets (immobilizzazioni immateriali) non direttamente
desumibili dal bilancio: si parla di metodo patrimoniale semplice se all’interno della valutazione
rientrano esclusivamente gli assets iscritti in bilancio (beni materiali, oneri ad utilità pluriennale, gli
intangibles acquistati e i beni dell’attivo circolante); di metodo patrimoniale complesso se si procede
anche alla valorizzazione dei beni immateriali non iscritti nello Stato Patrimoniale, perché sviluppati
internamente dall’impresa (marchi, know-how tecnologico e manageriale, brevetti, concessioni, ecc.).
La situazione patrimoniale di riferimento può essere il bilancio dell’ultimo esercizio chiuso, se
sufficientemente prossimo alla data della stima (solitamente si considera attendibile se non più vecchio
di 4 mesi); in alternativa, si deve utilizzare uno Stato Patrimoniale appositamente predisposto per la
valutazione, riferito ad una data più vicina. La nota integrativa può essere un valido supporto per
l’individuazione del contenuto delle singole voci e per cogliere ulteriori utili informazioni; la stessa
relazione sulla gestione, ove presente, può fornire spunti importanti mettendo in evidenza, ad esempio,
le attività legate a progetti di ricerca e sviluppo, o altre condizioni particolari che contribuiscono a
costituire il patrimonio intangibile (quale avviamento, know how…) dell’impresa valutata.
8.4.1. Metodo patrimoniale semplice Il bilancio non fornisce, di per sé, una stima corretta del valore economico dell’azienda: del resto, non
è questa la sua finalità. Non è possibile, attraverso una formula algebrica, tradurre il valore delle attività
e quello delle passività in una valorizzazione dell’impresa nel suo complesso: nel nostro ordinamento,
le poste di bilancio sono contabilizzate a valore storico o, per ragioni di prudenza, al valore di presunto
realizzo se inferiore al costo. Il processo di valutazione deve invece arrivare ad esprimere un valore
corrente, cioè il valore teoricamente riconoscibile tra parti indipendenti interessate ad una transazione.
Inoltre, se vi sono nel bilancio elementi atipici, che poco hanno a che vedere con l’attività esercitata
dall’impresa, vanno mantenuti distinti all’interno della valutazione. Si pensi, ad esempio, al caso della
gestione di un immobile – da parte di un’azienda meccanica - ai puri fini di investimento: un immobile
collocato in una posizione prestigiosa, di notevole valore, entrato a far parte del patrimonio aziendale
per un acquisto in tempi remoti o per qualche tipo di operazione straordinaria. Tale componente deve
essere isolata, per non inquinare il processo valutativo.
Per determinare il valore corrente si usano solitamente tre metodologie: il valore di presumibile realizzo
per elementi dell’attivo destinati ad operazioni di cessione (magazzino), il valore di
sostituzione/ricostruzione per le immobilizzazioni strumentali ovvero quelle utili al processo
produzione/vendita ed infine il valore di presumibile estinzione per gli elementi che compongono il
passivo patrimoniale (ad es. residui debiti bancari, debiti verso fornitori, dipendenti, erario).
L’espressione 1.1 riassume questo metodo:
𝑊 = 𝐾! +(𝑅 − 𝐼)(1.1)
Dove I = R x t
Dove:
W Valore dell’impresa
Kt Valore del capitale non rettificato
R Rettifiche di valore (positive e negative)
I Effetto fiscale sulle rettifiche di valore
t aliquota d’imposta (tax rate)
L’effetto fiscale - misurato come t x R - va considerato, in quanto i plus/minusvalori latenti che vengono
fatti emergere nel processo di valutazione potrebbero produrre, in capo all’acquirente, un onere fiscale.
Si immagini, ad esempio, che l’impresa oggetto di negoziazione sia proprietaria di un immobile stimato
ad un costo storico pari a a 1.000 e successivamente ammortizzato, alla data della stima per un valore
pari a 600: il valore residuo contabile ammonta, pertanto, a 400. Supponendo che dal valore della perizia
emerga che il valore corrente dell’immobile sia pari a 2000 (inteso come valore di presumibile realizzo),
il soggetto che acquista l’impresa potrà realizzare una plusvalenza pari a 1600 nel caso decidesse di
alienare l’immobile. Ipotizzando un’aliquota d’imposta del 30%, tale plusvalenza sconterebbe un carico
fiscale pari a 480. Di tale carico fiscale è necessario tenere conto nel processo di stima, in quanto le
imposte vanno a diminuire il valore per l’acquirente, producendo effetti sia in termini di oneri nel conto
economico che in termini di flussi di cassa. La dottrina, tuttavia, non è unanime sulle modalità di
individuazione della base imponibile di queste imposte latenti. Una parte sostiene che vadano applicate
alle singole plusvalenze, un’altra parte al valore complessivo delle rettifiche di valore, tenendo perciò
conto anche delle eventuali minusvalenze; in questo caso, il carico fiscale verrebbe calcolato su un
importo ridotto, risultando perciò inferiore.
8.4.2. Metodo patrimoniale complesso
Il metodo patrimoniale complesso si differenzia dal metodo semplice per il fatto che nel processo di
valutazione vengono considerate anche le risorse immateriali: la stima include, in questo caso, il valore
delle risorse intangibili, anche se non iscritte in bilancio. Il valore di queste risorse può essere desunto
sia dai costi sostenuti in passato per il loro ottenimento, sia dai prevedibili benefici economici ottenibili:
in questo senso, il metodo patrimoniale complesso può affiancare alle sti purché identificabili
direttamente. Questa metodologia può quindi essere espressa con la seguente formula:
𝑊 = 𝐾! + (𝑅 −𝐼") + (𝐵 − 𝐼#)(1.2)
Kt Valore del patrimonio non rettificato
R Rettifiche di valore (positive e negative)
IR Effetto fiscale sulle rettifiche di valore
B Valore delle attività immateriali rilevate col processo di stima
IB Effetto fiscale sul valore delle attività immateriali emerse nel processo di valutazione
La stima include pertanto, oltre agli elementi patrimoniali iscritti nel bilancio, il valore delle attività
immateriali non rilevabili direttamente dallo Stato Patrimoniale dell’impresa, per le quali è comunque
possibile procedere ad una valorizzazione sulla base di elementi certi e misurabili. Ove possibile, per
valutare questi beni si fa riferimento al valore di mercato. Spesso, tuttavia, i beni immateriali presentano
caratteristiche che li rendono unici: in questi casi non esiste, pertanto, un vero e proprio mercato che ne
definisca il valore. Il metodo patrimoniale ora in disamina prevede l’utilizzo, per questi beni, di
procedimenti di stima alternativi:
a) Il primo procedimento è il costo di sostituzione o di riproduzione del bene oggetto di stima: si
tratta, in altri termini, di valutare quanto costerebbe -alla data della stima- ricostruire da zero il
bene, nell’ipotesi che esso non esistesse. Ad esempio, si potrebbe cercare di capire quanto
potrebbe costare la pubblicità per affermare un marchio o un prodotto;
b) Un secondo procedimento prevede la capitalizzazione di costi effettivamente sopportati in passato
per l’ottenimento della risorsa immateriale: pur essendo stati imputati tra i costi d’esercizio, questi
valori vengono estrapolati dai dati contabili per essere considerati alla stregua di investimenti, da
rivalutare per tenere conto del periodo di tempo passato tra il sostenimento degli stessi e la data
della valutazione;
c) Il terzo procedimento è quello c.d. del costo della perdita o cost of loss: la stima del bene
immateriale deriva, in questo caso, dall’attualizzazione delle perdite che si prevede deriverebbero
dall’improvvisa indisponibilità della risorsa immateriale oggetto di stima (o, in alternativa, dal
prezzo che gli amministratori sarebbero disposti a pagare per disporre della risorsa);
d) Un quarto metodo si basa sull’attualizzazione dei benefici economici attesi dal bene immateriale:
il valore di un marchio potrebbe essere stimato, ad esempio, in base alle royalties ottenibili dai
terzi ai quali ne fosse concesso l’uso.
Il metodo patrimoniale complesso prevede che venga stimato anche l’avviamento, inteso come il
maggior valore attribuibile all’impresa per il contributo dato dall’insieme delle risorse immateriali non
separabili (cioè non cedibili separatamente dall’impresa) quali le competenze accumulate, la
fidelizzazione della clientela, la reputazione presso i fornitori, la capacità di innovare prodotti e
processi. Inserendo nel processo di valutazione queste risorse immateriali, si attribuisce all’impresa un
valore superiore alla somma dei valori degli elementi patrimoniali separabili, definendo così in via
indiretta il valore all’avviamento: non è da sottovalutare, tuttavia, il rischio di sovrapporre tra loro le
risorse intangibili oggetto di stima, finendo col sopravvalutare l’avviamento. Si pensi, ad esempio, alla
difficoltà di distinguere il valore del marchio (elemento di per sé separabile) da quello della reputazione
aziendale presso i clienti.
Per le immobilizzazioni immateriali (brevetti, marchi, know how, avviamento, software gestionale, ecc.)
il processo di valutazione è certamente complesso. È necessario considerare le caratteristiche del bene
immateriale ed in particolare la sua riproducibilità, la sua capacità di generare benefici economici e
l’eventuale esistenza di un mercato in cui lo stesso possa essere valorizzato, magari attraverso una
licenza d’utilizzo o cessione. Si pensi, ad esempio, ad un marchio molto noto, quale “Nutella” o “Coca
Cola”. Sono entrambi marchi in grado di generare flussi di cassa e ricavi di valore eccezionale rispetto
a marchi di minore diffusione. In questo caso, non essendovi un mercato di riferimento, si renderebbe
necessario lavorare sui flussi generabili attraverso il loro utilizzo. Si parlerebbe in questo caso di metodo
dei risultati attesi. Questo modo di procedere è molto utile anche per la valorizzazione dei brevetti. Ad
esempio, il brevetto di un nuovo farmaco: le vendite ritraibili dallo sfruttamento di quel brevetto
saranno, in termini di flussi attesi, la migliore base di valutazione.
Si è accennato, sopra, alla possibilità di stimare le risorse immateriali anche considerando la
capitalizzazione dei costi sostenuti per l’ottenimento delle stesse: questa possibilità va vagliata
attentamente, verificando la futura utilità della risorsa immateriale. Analogo discorso va fatto per
eventuali oneri capitalizzati (iscritti a bilancio tra le immobilizzazioni immateriali): queste poste vanno
attentamente analizzate, per verificarne la presunta utilità futura. Se la verifica dovesse avere esito
incerto, è opportuno azzerarne il valore andando pertanto a decrementare il patrimonio netto per pari
importo.
Per le immobilizzazioni materiali è necessario fare riferimento ad informazioni ritraibili dalla
conoscenza del mercato di approvvigionamento o sostituzione; in alternativa, si possono valutare i costi
di ricostruzione interna del bene.
Per le immobilizzazioni finanziarie e le attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni, in
genere partecipazioni, crediti finanziari immobilizzati, strumenti finanziari di varia natura, depositi
bancari ecc., si devono effettuare differenti tipologie di valutazione. In presenza di partecipazioni
immobilizzate, inevitabilmente la valutazione deve passare per un processo di stima delle società
partecipate: peraltro, in questa fase non si applica necessariamente lo stesso metodo che si sta applicando
per l’impresa oggetto di stima. Qualora non vi sia significatività (partecipazioni per quote molto piccole
del capitale e di valore modesto), ci si può limitare ad assumere il costo di iscrizione. In tutti gli altri
casi occorrerà considerare se la partecipazione è di controllo o di minoranza: nel primo caso vanno
applicati al valore di stima i c.d. premi di maggioranza, nel secondo caso gli sconti di minoranza. Una
partecipazione che assicuri un potere di controllo e direzione ha sicuramente un valore superiore rispetto
al rapporto proporzionalmente riferibile all'intero capitale: se il valore determinato per il 100% di una
società è pari a 1.000, al 51% di questa va certamente attribuito un valore superiore a 510, poichè il
possesso di quella quota consente il controllo e la direzione della società. Al tempo stesso tempo, la
quota di minoranza del 49% non varrà 490. Ai due valori si applicherà: un premio di maggioranza per
una percentuale che può oscillare intorno al 15-25% e, rispettivamente, uno sconto di minoranza nella
stessa misura. Chi volesse comprare il 51% dovà pagare un prezzo che si collocherà tra il valore di 586,5
e 637,5 mentre per il 49% si potrebbe oscillare su un valore di cessione tra 416,5 e 367,5.
Per quanto concerne gli strumenti finanziari e i crediti di natura finanziaria, questi elementi attivi del
patrimonio dovranno essere espressi al presunto valore di realizzo. Per gli strumenti finanziari occorrerà
distinguere tra quelli quotati sul mercato secondario e quelli che non lo sono. Per i primi normalmente
si fa riferimento ad una media dei valori di quotazione negli ultimi 30 giorni o, per i titoli detenuti a
mero scopo di investimento speculativo, alla quotazione alla data della valutazione.
I crediti iscritti nell’attivo circolante devono essere valutati secondo il criterio di presunto valore di
realizzo/incasso. Il valutatore dovrà porre particolare attenzione alla vetustà degli stessi nonché alla
storicità del rapporto con i clienti, verificandone l’usuale rispetto delle condizioni di pagamento e
operando le dovute svalutazioni in presenza di crediti scaduti. Attenzione particolare dovrà essere
riposta a posizioni creditorie nei confronti di clienti sottoposti a procedure concorsuali (liquidazione
giudiziaria, concordati, amministrazione controllata …) in quanto l’incasso in tali casi diviene non
facilmente determinabile nei tempi e nell’importo. Per quanto concerne il credito per imposte anticipate,
si dovrà porre particolare attenzione alla verifica delle ipotesi di recuperabilità formulate dall’impresa.
Per concludere questa rapida disamina dei criteri di stima da adottare per gli elementi dell’attivo, occorre
considerare la valutazione delle rimanenze: la stima avviene al minore tra costo e presunto valore di
realizzo, ricordando comunque che possono essere utilizzati diversi criteri in relazione alle modalità con
cui vengono considerate le diverse partite d’acquisto o produzione (LIFO, FIFO o costo medio
ponderato). Spesso, politiche di bilancio non proprio conformi a criteri di trasparenza e correttezza
portano a situazioni di sovrastima o sottostima dei beni in magazzino: occorre pertanto procedere ad
opportune verifiche delle modalità di rilevazione, valorizzazione, carico e scarico nonché ad una verifica
fisica dell’esistenza e dello stato di conservazione dei beni.
Le passività normalmente sono espresse al valore nominale o, in alternativa, al costo ammortizzato.
Particolare attenzione dovrà essere posta alla verifica dell’insussitenza di passività potenziali ulteriori
rispetto a quelle rilevate dall’azienda, nonché alla probabilità del manifestarsi di quelle presenti a
bilancio. Per i fondi del passivo, sia per elementi certi che stimati, è prudente perciò richiedere un
confronto circa la congruità degli importi presenti in contabilità. Il valutatore dovrà esaminare con
attenzione eventuali accordi in essere, clausole di garanzia e l’applicazione delle stesse nel tempo, che
possono dare origine alla costituzione di fondi, oneri straordinari (ad esempio per riduzione di personale
in situazioni di crisi) o altre evenienze non immediatamente desumibili dai prospetti contabili.
Va sempre verificato l’assolvimento degli obblighi per i versamenti erariali e previdenziali al fine di
tenere conto di possibili fattispecie (ritardati od omessi versamenti, comportamenti elusivi sanzionabili,
errori di interpretazioni voluti o meno) oggetto di sanzioni e interessi, che incrementerebbero il debito
in essere (nonché conseguenze penali, oltre certi importi). Occorre infine considerare medesima le
eventuali garanzie prestate a favore di terzi ed eventualmente quelle insistenti su beni aziendali che,
qualora attivate, andrebbero ad incidere sulla possibile esigibilità dei beni stessi.
Operate tutte le opportune stime, valutazioni e rettifiche positive o negative, si giunge all’espressione
del patrimonio netto rettificato dell’impresa a valori correnti: attraverso un processo di riespressione dei
valori di bilancio secondo i valori correnti, nonché attraverso l’evidenziazione delle risorse immateriali
non rilevate nel sistema contabile si perviene quindi alla determinazione del valore dell’azienda.
8.5. Il metodo basato sui risultati attesi Un soggetto che dedicasse la propria attività nella gestione di immobili al fine di ottenerne una rendita
locandoli, farebbe una serie di valutazioni in ordine alla tipologia (civile abitazione, fabbricato
industriale o commerciale, ufficio ecc.), alla posizione (centro città, area turistica, area industriale,
centro direzionale), nonché in ordine ai possibili utenti. Il valore di un investimento (nella fattispecie,
un immobile) dipende, in altri termini, dal ritorno economico che esso può garantire all’investitore:
l’idea di fondo, secondo questo approccio, è che il patrimonio non abbia valore in sé, ma tragga piuttosto
il proprio valore dai benefici economici che sarà in grado di generare nel tempo.
L’esempio della valutazione dell’immobile presenta però una significativa differenza rispetto all’ipotesi
della valutazione di un’impresa: infatti, mentre il canone di affitto è un importo mensile predefinito
contrattualmente o comunque prevedibile piuttosto agevolmente e tendenzialmente costante, i risultati
economici aziendali futuri sono soggetti, normalmente, a notevole variabilità e incertezza.
L’attività d’impresa è sempre caratterizzata da un certo grado di rischio: non vi è mai la sicurezza che i
risultati attesi possano effettivamente essere raggiunti. Se, dunque, per stimare il valore dell’impresa si
intende partire dai benefici economici attesi dalla gestione, è necessario predisporre anzitutto dei piani
economico-finanziari che, ragionevolmente, riflettano quanto potrà effettivamente avvenire. Al fine di
ridurre la componente aleatoria di stima e arginare pertanto eccessivi scostamenti tra i risultati attesi e
quelli che saranno effettivamente realizzati, è prassi partire dalle performance passate o da stime di
settore. Un’attenta analisi dei bilanci degli esercizi passati, nonché delle condizioni attuali di mercato,
contribuirà quindi a rendere più affidabili i piani economico-finanziari da utilizzare nel processo di
stima.
Nel piano occorre considerare le ipotesi sugli investimenti da effettuare, sull’approvvigionamento delle
risorse (materiali e umane, finanziarie) da utilizzare nonché, ovviamente, sui ricavi ottenibili dalla
gestione. La gestione futura potrà richiedere, sia in relazione agli investimenti di lungo periodo che in
relazione alle risorse del capitale circolante, un impegno finanziario immediato a fronte, invece, di un
ritorno nel medio/lungo periodo. La performance futura potrà essere espressa sia in termini di flussi
economici (ricavi, costi, margini) che in termini di flussi finanziari (entrate, uscite, flussi netti di
liquidità). Il documento che contiene queste informazioni è il Business Plan: esso raccoglie tutti gli
elementi, sia quantitativi che qualitativi, utili alla valutazione dell’impresa (o del progetto
imprenditoriale), nonché le informazioni utili a comprendere la strategia programmata. Non sempre,
tuttavia, gli imprenditori sono spontaneamente portati a formalizzare in un documento le strategie che
intendono perseguire: spesso i piani di sviluppo restano nella testa di chi guida l’impresa, specialmente
nel mondo delle piccole/medie imprese.
Per le imprese già operative - non, dunque, per i progetti imprenditoriali - il business plan pone le proprie
premesse nella situazione aziendale espressa da stato patrimoniale, conto economico e rendiconto
finanziario con dati storici, per giungere alla stesura di analoghi prospetti in un’ottica previsionale
indicando, altresì, le azioni da avviare per ottenere i risultati previsti. Ai fini del processo di valutazione
i prospetti sono spesso riclassificati: lo Stato Patrimoniale più utilizzato è quello riclassificato col
metodo finanziario; il Conto Economico viene espresso a valore aggiunto e/o a margine di
contribuzione. Oggigiorno il business plan, contrariamente a quanto accadeva nei tempi passati, copre
archi temporali non eccessivamente lunghi: di solito si usa arrivare a 3/5 anni, considerando che le
previsioni riferite ad orizzonti temporali più lunghi risulterebbero poco attendibili, eccezion fatta per le
situazioni in cui ci si possa aspettare uno sviluppo standardizzato e costante del business (ad esempio,
le centrali per la produzione di energia).
Il metodo di valutazione basato sui risultati attesi può essere applicando secondo due modalità differenti,
a seconda che la grandezza utilizzata per stimare i flussi attesi sia il reddito (ricavi meno costi) o il flusso
di cassa (entrate meno uscite): in particolare, si parla di metodo reddituale quando si considerano, nel
processo di misurazione del valore, i risultati economici che si prevede saranno ottenuti dall’impresa. Il
margine di riferimento in questo caso è il risultato economico operativo (o l’EBIT) al netto delle imposte
(IRES e IRAP).
Se, invece, si procede nella valutazione sulla base dei flussi di cassa attesi, si parla di metodo finanziario:
secondo questo approccio è necessario attualizzare (cioè riportare indietro nel tempo sino alla data della
valutazione) i flussi di cassa attesi, determinati attraverso un apposito piano finanziario. Perlopiù, il
flusso di cassa atteso dalla gestione operativa viene stimato partendo dal MOL (margine operativo lordo)
di cui si è parlato nel capitolo 7. Considerando le variazioni attese nel capitale circolante netto operativo
(rimanenze, crediti e debiti operativi) e le imposte previste si perviene al flusso della gestione operativa;
per ottenere il flusso di cassa da utilizzare per la stima si dovrà tener conto altresì dei flussi connessi
agli investimenti e di quelli relativi ai finanziamenti (rimborsi e nuovi prestiti). Si perviene in questo
modo al flusso di cassa che si prevede risulterà disposibile per i portatori di capitale, il c.d. free cash
flow to the equity (flusso di cassa libero per il capitale, FCFE).
In Europa ha prevalso, soprattutto in passato, l’impiego dei metodi basati sui flussi economici, poiché
si riconosce al reddito normalizzato una maggiore capacità di rappresentare le performance aziendali: il
criterio della competenza economica consente, infatti, di ridistribuire il valore degli investimenti nel
tempo (imputandone il valore pro-quota negli anni attraverso il processo di ammortamento),
consentendo così di ottenere minori discontinuità nei risultati annuali previsti rispetto a quanto avviene
nei medodi che considerano i flussi finanziari. Questi ultimi sono più diffusi nella comunità finanziaria
internazionale, perché considerando le tempistiche delle uscite finanziaria connesse agli investimenti e
quelle delle entrate che ne derivano, esprimono valori più conformi alle esigenze informative degli
operatori dei mercati dei capitali.
Gli approcci utilizzati nei metodi valutativi basati sui flussi, sia economici che finanziari, possono
seguire fondamentalmente due strade. Anzitutto, è possibile pervenire ad una stima del valore
economico dell’equity, cioè del patrimonio netto aziendale (c.d. approccio equity side) al netto, quindi,
del valore dei debiti di finanziamento e della remunerazione attesa dai terzi finanziatori.
Alternativamente, è possibile utilizzare un approcco c.d. asset side, che consente di pervenire alla stima
del capitale investito netto (CIN), da depurare successivamente sottraendo il valore della posizione
finanziaria netta.
Poiché la stima del valore è legata ai risultati attesi, il valutatore deve essere attento nell’utilizzare i dati
che gli vengono forniti: è fondamentale che chi effettua la valutazione resti indipendente, per poter
esprimere un giudizio in assenza di condizionamenti di sorta sull’affidabilità delle previsioni. È
P.NETTO (EQUITY)
POS.FIN. NETTA
CIN
METODO REDDITUALE:
Reddito Operativo dopo le Imposte
METODO FINANZIARIO: Flussi finanziari
da gestione operativa e da
investimento (Free Cash Flow to the
Firm)
METODO REDDITUALE: Reddito Netto
METODO FINANZIARIO: Flussi finanziari netti per i soci
(Free Cash Flow to the Equity)
Figura 1 Sintesi dei metodi di valutazione basati sui flussi previsionali
necessario, perciò, che il piano venga redatto da un soggetto terzo. In una prospettiva di analisi storica,
ad esempio, se un’impresa ha sempre mantenuto un fatturato stabile e un margine operativo nell’ordine
del 10%, difficilmente si potrà ritenere affidabile una previsione di crescita, nel successivo triennio, che
stravolga quanto accaduto in passato. Diverso il caso in cui siano prevedibili, con una buona dose di
certezza, importanti cambiamenti (investimenti su nuove linee, mercati, acquisizioni di altre realtà) che
certamente modificheranno le attuali condizioni di gestione.
Il metodo reddituale esprime il valore dell’azienda sulla base della capacità della stessa di generare redditi
negli esercizi successivi. Operativamente, occorre scegliere la configurazione di reddito, l’orizzonte
temporale di riferimento e il tasso da utilizzare per l’attualizzazione.
Con riferimento all’orizzonte temporale di riferimento, teoricamente sarebbe possibile immaginare un
flusso di reddito costante per un periodo di tempo illimitato. Si consideri comunque che i flussi attesi di
reddito hanno un effetto via via più ridotto sul valore attuale dell’impresa, quanto più sono temporalmente
lontani dalla data di stima: ad esempio, se 1,05 € ottenibili tra un anno valgono 1€ alla data attuale venendo
attualizzati ad un tasso del 5%, il valore attuale di 1,05 € ottenibili tra 10 anni si colloca ben al di sotto di
1 € (0,64€) per effetto del valore finanziario del tempo. Se si fa riferimento, quindi, ad un flusso reddituale
atteso di durata indefinita, il valore economico dell’impresa (W) equivale al valore attuale di una rendita
perpetua di rata costante (R), calcolata al tasso (i), determinato in base alla seguente formula:
(1) Valore attuale del reddito medio atteso: W = R / i
dove (i) rappresenta il tasso di capitalizzazione ed (R) è il reddito medio atteso. Questo procedimento
tende quindi a individuare un reddito atteso normale, volto ad esprimere la capacità reddituale
dell’impresa a regime, depurata da ogni componente straordinaria, nonché da ogni interferenza riferibile
a mere politiche di bilancio.
Il tasso di capitalizzazione (i) utilizzato incorpora il rendimento legato al trascorrere del tempo e dipende
da considerazioni legate al rischio insito nell’investimento in alternativa ad investimenti considerati a
rischio minimo e solitamente identificati negli investimenti in titoli di Stato. Il tasso di interesse utilizzato
dovrebbe anche tenere conto del tasso di inflazione, per basare la valutazione dell’azienda su un tasso
depurato da tale effetto, denominato tasso reale.
Se, per ipotesi, il reddito medio atteso fosse 200.000 € e il tasso utilizzato fosse pari all’8%, il valore W
sarebbe pari a 200.000/0,08= €2.500.000. Nel valutare il grado di rischio dell’investimento vanno
considerati sia il contesto socio-economico in cui è inserita l’impresa (il settore di appartenenza, i mercati
su cui opera, le condizioni sociali e politiche) sia altri fattori che caratterizzano l’impresa oggetto di
valutazione (la composizione del patrimonio, la posizione finanziaria netta, i valori degli intangibles,
ecc.).
Più spesso si preferisce stimare i redditi attesi su un orizzonte temporale di 3-5 anni, sommando poi al
valore così ottenuto il valore atteso dell’impresa al termine del periodo considerato, stimato come rendita
perpetua. Questo approccio si basa sull’assunto che le previsioni riferite ai primi 3-5 anni a venire possano
risultare sufficientemente affidabili, mentre oltre questo arco temporale ogni previsione risulta velleitaria:
cionondimeno, non si può prescindere dall’attribuire all’impresa un valore (c.d. Terminal Value) al
termine del periodo considerato nel piano economico. Questa variante del metodo reddituale poggia
dunque sulla stima di due addendi:
i. il valore attuale dei flussi reddituali attesi, sistematicamente individuati all’interno di un orizzonte
temporale definito, diversamente da quanto previsto considerando la rendita perpetua analizzata
sopra;
ii. il valore attuale del valore finale o Terminal Value (TV) dell’azienda al termine del periodo
considerato nel piano economico, inteso come valore attualizzato di quello che potrebbe essere, a
regime, il risultato economico atteso medio dell’impresa.
La formula che esprime questo modo di applicare metodo reddituale è la seguente:
(2)𝑊 =/𝑅$
(1 + 𝑖)$ +𝑇𝑉
(1 + 𝑖)%
%
$&'
dove
W è il valore del capitale economico dell’impresa;
Rj è il reddito relativo al j-esimo anno dell’orizzonte temporale di previsione esplicita;
i è il tasso di attualizzazione per i redditi compresi nell’orizzonte di previsione esplicita;
TV è il Terminal Value, intesto come rendita perpetua corrispondente a R/i
m è il numero di esercizi considerati nelle previsioni analitiche (normalmente tra 3 e 5)
Il primo addendo rappresenta, dunque, la sommatoria del valore attuale dei redditi previsti nei primi
anni successivi alla data di stima; viene poi considerato, nel secondo addendo, il Terminal Value
attualizzato alla data della stima. Per comprendere il significato economico dell’operazione di
attualizzazione, basti considerare che il tempo ha di per sé un valore finanziario: in altri termini, un euro
oggi vale di più di un euro domani. Ne consegue che il valore di un beneficio economico (reddito o
flusso di cassa) atteso a una data futura, riportato indietro nel tempo alla data attuale ha un valore
inferiore. L’operazione di attualizzazione consente di esprimere il valore attuale di benefici economici
futuri: per ottenere questo risultato si applica un fattore di sconto che è, di fatto, un tasso di interesse.
Per comprendere questo concetto basti pensare al valore che assume un capitale iniziale investito ad un
certo tasso, dopo un certo periodo: se si investe in data t0 un capitale C pari 100 € potendo ottenere dallo
stesso un rendimento annuale pari al 5%, dopo un anno in data si potrà disporre di un capitale M
(chiamato montante) pari a 105€, ottenibile come segue:
(3)M=C×(1+i)
L’operazione di attualizzazione consente di ottenere l’effetto opposto: si riporta indietro nel tempo un
capitale, considerando un tasso di interesse che consente di tener conto del valore finanziario del tempo.
Dall’espressione (3) si può agevolmente ricavare il fattore di attualizzazione:
(4)𝐶 = 𝑀 ×1
(1 + 𝑖) =𝑀
(1 + 𝑖)
Questa semplice formula consente di riportare indietro di un anno il valore in data t1 del capitale M,
ottenendone così il valore attuale al tempo t0. Nel nostro esempio, il montante M – pari a 105€ -
moltiplicato per il fattore di attualizzazione 1/(1+i) porta – al tasso i=5% - al capitale C pari a 100.
Estendendo questo metodo a periodi temporali superiori all’anno, considerando che il capitale continua
ad avere un rendimento col passare del tempo, si può esprimere il fattore di attualizzazione (V) con la
formulazione generica:
(5)𝑉 =1
(1 + 𝑖)(
dove n indica il numero di anni per i quali si intende attualizzare (cioè riportare indietro nel tempo) il
capitale. La formula (5) consente di comprendere meglio l’espressione (2).
Nel processo di valutazione dell’impresa, allo scopo di individuare il tasso di attualizzazione da
utilizzare, si tiene conto - se rilevante - anche dell’effetto dell’inflazione. Inoltre, il tasso di
attualizzazione deve esprimere il livello di rischio insito nell’attività dell’impresa, nelle sue
caratteristiche strutturali (ad esempio, la struttura del capitale raccolto espressa attraverso il rapporto di
leva finanziaria) e nel contesto in cui essa si muove: per tener conto di questi fattori si applica un c.d.
premio per il rischio che viene sommato all’interesse ottenibile da investimenti a rischio inferiore
(generalmente titoli di stato). Non è obiettivo di questo testo entrare nei dettagli dei modelli adottati in
finanza aziendale per la misurazione del premio per il rischio.
Come indicato nella figura 1, se nella stima dei due addendi si utilizza il reddito operativo previsto al
netto delle imposte (NOPAT: net operating profit after taxes), si perviene alla stima del Capitale
Investito Netto, cui è necessario sottrarre la Posizione Finanziaria Netta (PFN)1 per ottenere il valore
economico dell’impresa (equity). Togliendo o aggiungendo la PFN a seconda che il valore sia negativo
(eccesso di passivo finanziario rispetto all’attivo) o positivo, si entra nell’ottica del soggetto che,
valutando una possibile acquisizione valuta anche il fatto di addossarsi i debiti esistenti alla data
dell’acquisto. Se, invece, si considera nella formula il valore del reddito netto previsto (normalizzato),
si perviene direttamente ad una stima del valore economico dell’equity.
Il terminal value, come si è detto, rappresenta l’attualizzazione dei risultati che si ritiene l’impresa possa
realizzare oltre l’orizzonte temporale definito per il piano prospettico: a tal fine si considera un reddito
medio a regime, calcolato normalmente come media dei risultati previsti nel business plan.
Il metodo finanziario parte sostanzialmente dalle stesse logiche ora illustrate con riferimento al metodo
reddituale. Esprime il valore attribuibile all’impresa tramite l’utilizzo dei flussi monetari attualizzati che
sarà in grado di esprimere nel futuro. Anche qui la variabile fondamentale passa attraverso la certezza
che le previsioni siano effettuate su basi solide e misurabili.
8.6. Il metodo misto patrimoniale-reddituale I metodi di valutazione sino ad ora esaminati partono da presupposti diversi: il metodo patrimoniale fa
riferimento ad una valutazione statica, con una stima puntuale di attività e passività rilevate in un preciso
e concordato momento storico, la cui differenza porta a determinare il valore del patrimonio netto
rettificato; il metodo reddituale e quello finanziario poggiano invece sull’assunto che un patrimonio (o
un investimento) assume valore se e nella misura in cui è in grado di generare benefici economici nel
1 Si veda, a tale proposito, il capitolo 7 con riferimento alla riclassificazione funzionale dello Stato Patrimoniale.
tempo. I metodi basati su piani economico-finanziari, seppure efficaci, sono soggetti a errori e
distorsioni dovuti alla stima dei risultati attesi: le previsioni implicano una componente aleatoria, perché
potrebbero avere basi non sempre solide e dimostrabili e perchè, in ogni caso, restano soggette alla
discrezionalità di chi predispone il piano prospettico. La stessa componente del Terminal Value, che
può assumere un valore molto rilevante, implicando una previsione a lunghissimo termine basata su un
risultato medio atteso normalizzato, può effettivamente far sorgere dubbi sulla capacità di tale metodo
di rappresentare correttamente il valore economico dell’impresa.
Le critiche cui sono soggetti i metodi sinora visti hanno fatto sì che venisse teorizzato (e poi applicato)
un terzo approccio, che si propone di superare i principali difetti dei metodi precedenti sfrtuttandone al
tempo stesso le caratteristiche positive: il metodo misto patrimoniale-reddituale coniuga il punto di vista
statico, analitico e oggettivo del metodo patrimoniale con quello prospettico del metodo reddituale.
Attraverso questo approccio, il valore economico dell’azienda scaturisce dalla somma tra il patrimonio
netto rettificato (K), già considerato nel metodo patrimoniale, e il valore dell’avviamento inteso come
insieme dei sovraredditi futuri attualizzati che l’impresa potrà verosimilmente conseguire, rispetto a
quelli medi ottenibili da imprese appartenenenti al medesimo settore. L’avviamento – che può risultare
positivo o negativo – viene stimato considerando la differenza tra il reddito medio-normale atteso
dall’impresa e la redditività mediamente richiesta (espressa in termini percentuali, come un tasso i%)
sul patrimonio netto rettificato K. Se l’impresa remunera il capitale investito dai soci meglio di quanto
facciano le imprese concorrenti, tanto maggiore sarà il valore del suo avviamento e quindi quello
dell’azienda stessa. Se, dunque, R rappresenta il reddito medio atteso dall’impresa, l’avviamento viene
fatto corrispondere al valore di una rendita costante pari a R-iK per un numero di esercizi limitato
(normalmente tra i 5 e gli 8 anni), dove iK rappresenta il rendimento annuo normalmente ottenibile nel
settore da un investimento di valore pari a K: la differenza R-iK sta perciò ad indicare il cosiddetto
sovrareddito, ovvero la capacità di un’impresa presente sul mercato di generare redditi futuri superiori
alla normale redditività del capitale investito. Quando questa differenza risulta negativa, si è in presenza
di badwill, cioè di avviamento negativo: il valore economico dell’impresa W è inferiore al valore del
patrimonio netto rettificato K. In questa situazione, l’acquirente dovrà essere consapevole che l’impresa
target necessiterà di una serie di investimenti per giungere ad un livello di redditività soddisfacente:
l’operazione di acquisizione potrebbe perciò concludersi a un valore nullo o irrisorio, proprio perché si
valuta che, appena acquisita, l’impresa necessiterà di un iniezione di capitali per far ripartire l’attività
ed invertire la rotta.
Chiaramente, la scelta dei parametri quali il tasso di rendimento medio per la stima dell’avviamento o
il tasso da utilizzare per l’attualizzazione dello stesso o, ancora il numero di anni per cui si estende la
valutazione possono influenzare notevolmente il risultato finale. Chi effettua la valutazione deve essere
in grado, in base alla propria esperienza e sensibilità, di operare scelte che consentano di arrivare a valori
quanto più verosimili e verificabili.
8.7. Il metodo dei multipli Il c.d. metodo dei multipli viene utilizzato spesso per arrivare rapidamente ad un’ipotesi di espressione
del valore per aziende che sono oggetto di operazioni straordinarie (operazioni di acquisto/vendita,
conferimento, fusione ecc.). Il presupposto alla base del metodo dei moltiplicatori è che il valore di
un’azienda non dovrebbe discostarsi molto dal valore espresso dal mercato per aziende di dimensioni
simili, operanti nello stesso settore e nei medesimi contesti geografici: aziende, in altri termini, che
rispondono a requisiti di comparabilità rispetto a quella oggetto di stima. Diventa quindi determinante
la scelta delle imprese comparabili: alla semplicità e facilità di utilizzo di questo approccio si
contrappone perciò la notevole attenzione da riservare a questa fase del processo di stima, per non
vanificarne i risultati rendendoli eccessivamente approssimativi.
Questo approccio viene utilizzato spesso anche per imprese quotate sul mercato di borsa. In generale, il
capitale economico è ottenuto come prodotto tra un moltiplicatore di mercato (cioè: calcolato
empiricamente sulla base di dati forniti dal mercato) e una grandezza connessa al valore economico
dell’azienda oggetto di stima. Ad esempio, potrebbe risultare che un ristorante, in una determinata città,
possa essere stimato ad un valore pari al doppio del fatturato di un’esercizio, perché in media le
operazioni di acquisto avvenute in passato per aziende di quel settore in quella zona si sono concluse
intorno a valori di quell’ordine di grandezza.
W = moltiplicatore×Variabilerappresentativadelvalore
Il capitale economico viene quindi espresso come multiplo di una variabile che in qualche modo esprime
la capacità dell’azienda di generare valore. Il multiplo, quindi, è calcolato come determinante di una
frazione che ha:
- al numeratore l’Entreprise Value oppure l’Equity Value dell’azienda presa a campione;
- al denominatore una variabile in grado di sintetizzare la capacità di un’azienda di generare
valore: solitamente si tratta di grandezze contabili come EBITDA, Utile, Patrimonio netto
contabile…
In via generale sono individuati due approcci principali:
- approccio delle società comparabili: viene utilizzato un campione di società quotate
comparabili, da cui si deducono i multipli per valutare l’impresa oggetto di valutazione;
- approccio delle transazioni comparabili: fa riferimento ai prezzi definiti in negoziazioni
riguardanti il pacchetto di controllo (o, comunque, quote rilevanti di capitale) di società
comparabili.
Questo metodo viene anche utilizzato quale parametro di confronto per stime ottenute con i metodi
introdotti precedentemente: immaginando, ad esempio, di aver ottenuto un valore di stima con
l’applicazione del metodo misto patrimoniale-reddituale, quest’ultimo potrebbe essere validato o,
viceversa, riconsiderato qualora dall’utilizzo del metodo dei multipli - in presenza di dati
sufficientemente validi – scaturisse un valore vicino al primo o, al contrario, molto lontano da esso. Se
la forbice tra valori ottenuti con metodi diversi è contenuta, si può ritenere di aver raggiunto una stima
corretta; in caso di forbice molto ampia tra i valori, invece, si rende necessario indagare le ragioni che
possono aver portato a uno scostamento così significativo.
Il processo di applicazione del metodo in oggetto può essere sintetizzato in quattro fasi:
1. scelta del campione di società comparabili;
2. scelta dei moltiplicatori;
3. calcolo dei multipli medi;
4. elaborazioni e scelte finali.
Nella scelta delle società comparabili occorre essere sufficientemente certi che i dati disponibili non
siano inquinati da politiche di bilancio e che siano stati predisposti sulla base degli stessi principi
contabili, che le società possano dirsi al medesimo stadio di maturazione (è diverso, cioè, valutare una
start – up rispetto a una società presente sul mercato da molti anni), che non siano soggette a particolari
influenze (si pensi a società controllate da altre società che ne guidano l’approccio al mercato o ne
influenzino i risultati attraverso addebiti intra-gruppo). È opportuno, inoltre, che le società comparabili
siano dotate di risorse, materiali e immateriali (anche non espresse dai bilanci), e tecnologie
paragonabili. Altro aspetto da tenere in considerazione, poi, è l’ampiezza del campione di società
comparabili: quanto più è numeroso, tanto più si può ritenere che sia rispondente alla ricerca di
comparabili significativi.
La fase successiva consiste nella scelta del multiplo da utilizzare per la stima. Tra quelli più utilizzati,
senza pretesa di esaustività, si considerino i seguenti:
a) EV (enterprise value) / Sales (fatturato): tra i vari multipli utilizzati è, probabilmente, quello
meno soggetto a politiche di bilancio essendo basato sul fatturato raggiunto dalla società: dato,
quest’ultimo, facilmente verificabile. È intuitivo ritenere che quanto maggiore risulta essere il
fatturato di un’impresa, tanto maggiore possa risultare il valore economico della stessa: al tempo
stesso, tuttavia, si comprende che questo valore, limitandosi a considerare la dimensione delle
vendite, non coglie altri aspetti della gestione che condizionano certamente la capacità
dell’impresa di creare valore: in particolare, non considera le condizioni di efficienza
nell’utilizzo delle risorse, o la capacità di generare liquidità. Questo multiplo, conseguentemente,
può essere utilizzato con maggior efficacia per imprese (spesso di piccola dimensione)
caratterizzate da processi produttivi semplici, che si svolgono secondo condizioni standard, e
per le quali la prima misura del successo è rappresentata dal rapporto con la clientela e, in ultima
analisi, dal valore delle vendite;
b) EV (enterprise value) / EBITDA (Earnings before interests, taxes, depreciation and
amortization): questo rappresenta, probabilmente, il multiplo più utilizzato, per le proprietà
dell’EBITDA indicate nel capitolo 7. Questo margine rappresenta sia un parametro di efficienza
economica, sia una misura della capacità dell’azienda di generare liquidità. Inoltre, l’utilizzo
dell’EBITDA consente di isolare l’effetto di possibili politiche contabili volte a modificare i
piani di ammortamento ed esclude l’effetto del costo dei finanziamenti esterni e del carico
fiscale.
c) EV enterprise value / EBIT (Earnings before interests, taxes): questo multiplo viene considerato
come un’alternativa a quello calcolato con l’EBITDA. Tuttavia, va adottato con cautela perché
nel campione dei comparables potrebbero essere inserite imprese con differente incidenza di
capitale fisso sul valore complessivo del capitale investito netto, con la conseguenza che
l’impatto degli ammortamenti potrebbe risultare molto diverso. Al tempo stesso, poiché nel
calcolo dell’EBIT si prescinde dalla struttura finanziaria e dalla situazione fiscale della società,
questo multiplo può essere utile per confrontare imprese che presentano diversi rapporti di leva
finanziaria (indebitamento);
d) P (Price) /E (Earning): il multiplo confronta il prezzo corrente di un’azione, rilevato al momento
della valutazione, con l’utile netto per azione. Stimando il multiplo su un campione di aziende
comparabili nel settore, lo si può applicare all’azienda oggetto di stima per valutare se il titolo
di quest’ultima è – ragionevolmente – sopravvalutato o sottovalutato. Se, ad esempio, il P/E ratio
medio delle aziende del settore risulta pari a 10, mentre quello dell’impresa oggetto di
valutazione ammonta a 8, è ragionevole aspettarsi che il corso del titolo di quest’ultima possa
salire. Il prezzo di un’azione incorpora le aspettative del mercato sull’azienda: un P/E pari a 10
significa che gli investitori sono disposti a pagare, per avere un’azione, un prezzo pari a 10 volte
il reddito realizzato. Un P/E pari a 15 rifletterebbe la disponibilità degli investitori a pagare un
prezzo superiore, in ragione delle aspettive ancor più positive sulla capacità dell’impresa di
aumentare gli utili in futuro. Quanto maggiore è il P/E, tanto più ottimistiche risultano essere,
quindi, le aspettative degli investitori sulle possibilità di crescita dell’impresa. Il P/E ratio,
dunque, può essere utilizzato come indicatore della sopra/sotto valutazione di un titolo per il
quale esista un mercato. Poiché al denominatore si considera il reddito netto, questo multiplo
incorpora l’effetto del grado di indebitamento nonché quello dell’imposizione fiscale sul valore
del titolo. Normalmente, nei settori in cui le dinamiche competitive sono più intense, il P/E ratio
risulta più basso rispetto a quei settori dove – ad esempio perché sono settori nuovi, con elevato
tasso di innovazione – la concorrenza è meno accentuata.
e) P (Price) /CF (Cash Flow): questo multiplo segue le medesime logiche che stanno alla base del
P/E ratio, ma ha il vantaggio di non risentire delle politiche contabili attuate sugli ammortamenti
e sugli altri costi che non comportano uscite finanziarie. Inoltre, considerando il flusso di cassa
anziché il reddito, questo multiplo consente di rendere comparabili anche aziende che operano
in Paesi diversi, ove trovano applicazione principi contabili differenti che renderebbero di fatto
non comparabili tra loro i redditi delle imprese stesse. Quanto maggiore risulta essere il peso
degli investimenti durevoli nell’attività dell’impresa e, dunque, quanto maggiore è l’incidenza
degli ammortamenti, tanto più significativo diventa questo multiplo rispetto al P/E ratio.
Vengono inoltre utilizzati altri multipli, specifici in relazione alla tipologia di attività esercitata e
rappresentati da un rapporto tra il valore dell'azienda e una variabile misurabile quale, ad esempio: il
numero di pezzi venduti, di accessi a un sito internet, il numero di clienti attivi. Si pensi, inoltre, a realtà
aziendali con più business units in diversi settori e la possibilità che solo uno di questi sia oggetto di
cessione e pertanto di stima: si tratterà di isolare l’attività oggetto di stima per valutarla come se fosse
una realtà a sé stante, applicando solo su di essa i criteri di valutazione.
Nella prassi, solitamente non si utilizza un solo multiplo come parametro di riferimento: è buona norma
far affidamento su una combinazione di multipli per garantire l’affidabilità e confrontabilità del risultato.
Al fine di evitare di incorrere in facili errori dovuti a influenze contabili (volute o meno) sulle grandezze
prese a riferimento come ad esempio l’EBITDA, si è soliti operare degli aggiustamenti per arrivare al
cosiddetto EBITDA adjusted: questa misura viene depurata degli effetti relativi ad elementi che si
ritengono estranei alla valutazione (ad esempio: costi non direttamente inerenti all’attività esercitata
perché attinenti alla sola sfera personale dell’imprenditore).
Chiudiamo con un esempio facilmente intuitivo per migliorare l’assimilazione dei concetti sino a qui
riportati.
L’azienda Ω, che opera nel settore automotive, intende acquisire una sua concorrente, in modo da
migliorare la propria posizione strategica sul mercato. L’impresa concorrente ∆ oggetto di interesse da
parte di Ω presenta le seguenti caratteristiche:
- indebitamento netto (PFN: posizione finanziaria netta): € 9 mil.
- fatturato: € 24 mil.;
- EBITDA: € 6,5 mil..
Vengono presi a riferimento, per la valutazione, i valori di capitalizzazione di Borsa di alcune società
qualificabili come comparabili secondo i criteri sopra introdotti.
Azienda EV/EBITDA EV/Fatturato EBITDA/Fatt.
Impresa α 12.5 4 32 %
Impresa β 11 2.5 23%
Impresa π 10.75 5.25 49 %
Impresa µ 9.25 3.75 41%
Valore medio 10.88 3.88 36,25 %
Si procede quindi alla stima dell’ EV per l’impresa ∆, avente un rapporto EBITDA su fatturato pari a circa
il 27 %. Si può immaginare di scegliere due campioni: (a) il primo, contenete tutte e quattro le altre
imprese presenti nel mercato, selezionate andando a considerare come moltiplicatori i valori medi e (b)
un secondo campione che consideri solo le imprese aventi una redditività paragonabile a quella
dell’impresa ∆.
Utilizzando il primo campione, l’Enterprise Value di ∆ potrebbe essere stimato sulla base dei multipli
EV/EBITDA e EV/Fatturato:
𝐸𝑉 = M )*)#+,-.
𝑥𝐸𝐵𝐼𝑇𝐷𝐴Q − 𝑃𝐹𝑁 = (10,88𝑥6,5) − 9 =61,72 Milioni di Euro
𝐸𝑉 = M )*/0!!120!3
𝑥𝐹𝑎𝑡𝑡𝑢𝑟𝑎𝑡𝑜Q − 𝑃𝐹𝑁 = (3,88𝑥24) − 9 =84,12 Milioni di Euro
Vi è una forte differenza tra i valori ottenuti applicando i due multipli: il valore di stima risulta, pertanto,
molto incerto.
Ripetendo il medesimo procedimento per il secondo campione, contenente solo imprese con un livello di
redditività simile a ∆ si ottengono i seguenti valori:
𝐸𝑉 = M )*)#+,-.
𝑥𝐸𝐵𝐼𝑇𝐷𝐴Q − 𝑃𝐹𝑁 = (11,75𝑥6,5) − 9 = € 67,3 mil.
Dove il moltiplicatore pari a 11,75 viene determinato come media tra i moltiplicatori ottenuti dai dati delle
due imprese del campione: (12,5+11)/2.
𝐸𝑉 = M )*/0!!120!3
𝑥𝐹𝑎𝑡𝑡𝑢𝑟𝑎𝑡𝑜Q − 𝑃𝐹𝑁 = (3,25𝑥24) − 9 = € 69 mil.
Dove il moltiplicatore pari a 3,25 risulta dalla media dei moltiplicatori ottenuti sulle imprese comparabili:
(4+2,5)/2. La stima ottenuta utilizzando il secondo campione fornisce valori più coerenti, che
ragionevolmente possono essere considerati più affidabili. L’esempio, seppur molto semplice, consente
di evidenziare quanto la scelta del campione e delle grandezze di riferimento possa influenzare il risultato
ottenuto.
In particolare, nel primo caso l’impresa Ω sarà disposta ad acquisire ∆ per un valore prossimo a 72,92
milioni di Euro (cioè la media dei due valori individuati), mentre nella seconda situazione il prezzo verso
cui i soci di ∆ cercheranno di spingere l’impresa Ω sarà quanto più vicino possibile a 68,15 milioni di
Euro. Tra i due valori vi è una differenza di Euro 4 milioni, una misura non così esigua considerata l’entità
dell’operazione. Al di là dei risultati ottenuti, resta in ogni caso fondamentale la fase di negoziazione tra
le parti, che porta alla fissazione di un prezzo basato sulle valutazioni fatte, ma influenzato altresì dalle
aspettative e dalla capacità negoziale delle parti coinvolte.