Post on 21-May-2020
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Amministrazione Comunale
di Corte de’ Cortesi con Cignone
STORIE DI ALTRI TEMPI
A cura di Massimo Mancosu
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Indice Prefazione pag 2
Introduzione pag 4
Racconti
Ritorno a casa pag 9
Il panbiscotto pag 18
Trentaquattro pecore pag 23
I libretti della povertà pag 30
Germania pag 35
Cefalonia pag 44
Il sovversivo pag 54
Ringraziamenti pag 58
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Prefazione
Questi sono i ricordi, le storie delle persone, sono gli esempi con i
quali siamo cresciuti, sono memorie legate alle nostre famiglie, ai nostri
genitori, ai nostri nonni, storie di grandi sacrifici e privazioni ma nel contempo
storie di infinita saggezza e solidarietà.
Sono immagini di una generazione che ha saputo sognare e lottare per la
libertà. Anche a rischio della propria sicurezza, anche a rischio della propria
vita.
Il nostro Paese ha un debito inestinguibile nei loro confronti, nei confronti di
quei tanti giovani che sacrificarono la vita, negli anni più belli, per quel
grande, splendido, indispensabile valore che è la libertà.
Oggi i nostri giovani hanno davanti a loro altre sfide: difendere la libertà
conquistata dai loro padri e ampliarla sempre di più, consapevoli come sono
che senza libertà non vi può essere né pace, né giustizia, né benessere.
Noi abbiamo, tutti insieme, la responsabilità di far conoscere e tramandare
alle giovani generazioni la storia e l’identità del nostro paese, il dovere di far
crescere in loro l’orgoglio di appartenere ad una comunità capace di
riconoscere quanto è stato fatto dagli anziani per offrirci un paese migliore di
quello che era stato consegnato loro dai loro padri, dobbiamo educare ad
amare il nostro passato fatto di cose semplici e sincere, di sacrifici e onesto
lavoro per sfuggire alla miseria e povertà.
Ho letto con forte emozione i racconti di Massimo che con sensibilità ha
saputo coinvolgere i nostri compaesani e far riemergere i ricordi più intimi
custoditi con quel tipico pudore delle persone semplici consapevoli di avere
fatto grandi cose ma che non vogliono per questo ostentarle.
Erano ormai immagini e ricordi che il tempo aveva incominciato a sfuocare
anche per i protagonisti dei fatti e grazie al nostro autore oggi sono resi
indelebili.
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Spero che la lettura del volumetto inneschi la voglia di raccontarne altre
perché sarebbe bello poter dare continuità all’iniziativa.
Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione
portando i racconti per il libro e le fotografie per la mostra.
Grazie alla loro generosità abbiamo potuto costruire un patrimonio di
memorie che conserveremo per sempre nell’archivio comunale.
Luigi Rottoli
Corte de’Cortesi con Cignone aprile 2011
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Introduzione Quando il Sindaco mi chiese la disponibilità per scrivere, in forma di
racconto, di alcuni fatti occorsi in paese negli anni a cavallo dell’ultima guerra,
ho accettato questa opportunità con piacere.
Ci siamo dati appuntamento nel suo ufficio per le nove di mattina di una
tiepida giornata di primavera.
Come faccio di solito in queste occasioni, sono arrivato un po’ in anticipo, ho
lasciato l’auto in piazza e ho fatto quattro passi a piedi attorno all’edificio della
casa comunale guardandomi attorno.
Mi hanno subito impressionato: la vastità della piazza, incorniciata da un lato
dal lunghissimo e regale edificio del Comune, una grande scritta su un muro
con ancora ben leggibile una vecchia frase di propaganda del regime, il
silenzio tranquillo delle strade semideserte.
Essendo ormai quasi le nove ho aperto il portoncino di ingresso del
municipio, ho salito lentamente, al ritmo del mio respiro, le scale, ho potuto
scorgere alla mia sinistra il monumento dedicato a tutti coloro che per
difendere la patria non fecero più ritorno a casa, mi ricordo che c’erano anche
dei fiori colorati per onorare i caduti, erano stati deposti con amorevole cura
in un grande vaso di metallo brunito.
Arrivato al primo piano sono entrato negli uffici e qui mi ha accolto un
atmosfera di altri tempi, ho subito pensato che chi fosse stato lì al mio posto
cinquanta anni fa o forse anche più avrebbe potuto vedere le stesse cose,
tranne probabilmente le persone che avevo ora davanti.
Il breve colloquio con il Sindaco fu cordiale e piacevole e si svolse sotto lo
“sguardo“ attento e severo di un enorme quadro dove campeggiavano
austeri, anche se un poco impolverati, i centotrentaquattro articoli della nostra
Costituzione Italiana.
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Già nel nostro primo incontro, il primo cittadino, mi fece un accenno a dei
libretti che aveva trovato nei primi giorni in cui si era insediato, archiviati in un
vecchio armadio.
Erano in sostanza un elenco completo e ordinato delle elargizioni benefiche
erogate dall’Amministrazione alle famiglie più povere, questo primo fatto
rimase impresso nella mia memoria e anche se poi quei libretti non li vidi mai
era come se li conoscessi da sempre.
Poi incominciò la lettura di tutti i documenti conservati in archivio, in questo
mi ha diligentemente coadiuvato Anna Benetollo che di mestiere fa proprio
l’archivista e che quindi conosce bene le modalità di trattamento,
catalogazione, tenuta e consultazione dei beni documentali, un patrimonio
importantissimo per una comunità, una memoria storica e affettiva da
conservare gelosamente e da preservare per la conoscenza delle future
generazioni, un “come eravamo” pervaso da una struggente nostalgia e da
un ingenua semplicità dello scorrere quotidiano della vita, non aveva
importanza che questa fosse stata pubblica o privata.
Per noi si sono aperti registri, annotazioni, verbali, lettere, immagini e rapporti
che l’archivio conserva in modo puntuale e preciso.
Ho potuto studiare quelle carte preziose per farmi un idea completa degli
avvenimenti occorsi negli anni attorno al millenovecentotrentanove,
millenovecentoquarantacinque sia in Corte de’ Cortesi che in Cignone.
Per avere un quadro più approfondito e preciso abbiamo iniziato in seguito
una serie di interviste e di incontri per raccogliere altre informazioni e
documentazioni in particolar modo quelle più private e personali.
Ci diedero un piccolo spazio per ricevere i nostri ospiti, un tempo
quell’edificio, in fianco all’ufficio postale, era dedicato al servizio di
collocamento. Qui in due piccole stanzette abbiamo ricevuto tutti coloro che
avevano qualcosa da raccontare su quegli anni o che avevano documenti o
fotografie da mettere a disposizione per la nostra ricerca.
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In lunghi pomeriggi incontrammo molte persone del paese o che in tempi
passati vi risiedevano, ci vennero a trovare anziani, famiglie, bambini
ciascuno con qualcosa da raccontare, una fotografia da mostrare, un
documento da leggere insieme, alcuni di loro sono tornati più volte come per
salutarci ancora dopo averci conosciuti e questo ci ha sempre fatto molto
piacere. Man mano che i materiali aumentavano mi convincevo sempre di più
dell’importanza di dare uno spazio alla memoria di tutti coloro che avevamo
incontrato, non importava che fossero venuti da noi di persona, di qualcuno, a
volte di molti, ci bastava un sorriso o uno sguardo che traspariva dalle
vecchie foto formato cartolina oppure solo alcune parole scritte in fretta ma
con diligente calligrafia in luoghi e momenti lontani difficili anche da
immaginare o da collocare su una carta geografica.
Per alcuni, per venire incontro alle loro esigenze, abbiamo organizzato delle
vere e proprie interviste a domicilio.
L’accoglienza è stata splendida, in alcune case il tempo era come si fosse
fermato in giorni ormai passati ma nitidi, precisi e sempre vivi nei ricordi.
In una di queste abitazioni, varcata una piccola porticina, mi è stato possibile
visitare un officina meccanica come oggi non se ne trovano più, un museo
privato dove incudini, magli, torni e pulegge sembravano aver avuto riposo
solo alcuni istanti prima del mio ingresso, nonostante su alcuni di loro mani
sapienti di esperti giardinieri avessero appoggiato vasi di rigogliosi gerani
multicolori.
Memorie vive di altri tempi quando il sudore, l’ingegno e la solidarietà
combattevano alleati la fatica quotidiana del tirare avanti e mettere insieme il
mattino con la sera.
In altre case uomini e donne ormai vicini a quella che viene chiamata la terza
età, avevano allestito una “pinacoteca fotografica” delle loro generazioni
passate, presenti e future che sorridevano in posa da cornici dorate e di
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argento non importa se nel giorno della loro nascita, del loro matrimonio o
della loro dipartita.
Ho ammirato fotografie di cortei nuziali che a piedi attraversavano il paese
prima di recarsi in chiesa a celebrare l’unione degli sposi, una lunga
processione festosa che comunicava a tutta la comunità la sua scelta di
fedeltà per sempre.
Ho scrutato i volti di classi di quaranta bambini ordinatamente in posa
immortalati per sempre nei loro grembiulini bianchi o neri, donne e uomini dei
cui destini non sappiamo più di tanto. Ho scorso immagini di uomini
risucchiati dal gorgo della guerra e mai restituiti a chi a casa ne aspettava il
ritorno. Queste sono state le fotografie più toccanti perché dai loro occhi era
difficile capire se fossero già consapevoli di un presagio poi avveratosi.
E ancora la velata malinconia che traspariva dalle parole semplici riportate su
cartoline militari dove immagini di soldati che imbracciavano minacciosi fucili,
si sovrapponevano a eleganti bambine con enormi fiocchi adoperati per tener
fermi lucidi capelli lunghi e ribelli.
“Non dimenticate che tutto questo è stato”, scriveva Primo Levi.
Tutto questo è avvenuto nel vostro paese. Purtroppo non è stato possibile
sentire tutti coloro che avrebbero avuto qualcosa di importante da raccontare,
per questioni di tempo e perché non abbiamo voluto disturbare le persone più
anziane e malate. Forse sarà possibile ascoltarli più avanti, prima che arrivi il
freddo del prossimo inverno.
A voi lettori attenti chiedo solo clemenza per non aver riportato ogni
particolare oppure perché alcuni dei nomi dei protagonisti dei racconti sono
stati mutati in accordo con coloro che abbiamo intervistato.
Queste piccole “storie”, anche se personali, appartengono a Voi ed alla
Vostra comunità, è questo l’umile omaggio che mi sento di farvi.
Massimo Mancosu
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RACCONTI
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Ritorno a casa Le mani continuavano a frugare irrequiete nelle tasche, in realtà nulla
vi potevano trovare se non qualche buco che inevitabilmente si faceva
sempre più largo.
Fra poco sarebbero arrivati, fra poco. Si stava facendo ormai sera, il
campanile aveva appena battuto i cinque rintocchi.
C’era ancora luce a dir la verità, quella strana luce gialla che scolora
nell’azzurro verde e poi si scioglie nel nero della notte che sarebbe scesa
piano piano.
C’è ne era voluto del tempo, per sapere qualcosa, per sperare ancora e poi
alla fine rassegnarsi senza quasi accorgersene.
Vittorio, anche se allora non aveva ancora compiuto gli otto anni, lo aveva
capito subito dagli sguardi che mamma e papà si erano scambiati, valevano
più di mille parole.
Papà Pietro era un uomo forte, un gran lavoratore, come dicevano sempre
tutti, ma quel giorno in cui la notizia era arrivata, non aveva potuto fare altro
che piangere, lentamente, con dignità e con grande compostezza, lasciando
cadere le lacrime come se fossero salate gocce di pioggia che gli avevano
rigato il viso all’improvviso.
Mamma Natalina no, lei aveva gridato forte con tutto il fiato che le era rimasto
in gola, aveva quindi pregato brevemente e poi non aveva detto più nulla.
Era rimasta in quello stato per tre lunghissimi e interminabili giorni, tutto le era
ormai indifferente, anche gli altri figli sembravano essere lontani dai suoi
pensieri, invano papà Pietro aveva cercato di scuoterla, invano.
L’aveva supplicata, aveva cercato di convincerla che non c’era più nulla che
potesse fare, insomma adesso bisognava farsene una ragione e tirare avanti.
Per lei, per lui e per tutta la famiglia.
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Ferruccio era partito dal paese alla fine del millenovecentoquarantatre, in
dicembre per l’esattezza, la settimana prima che arrivasse, con l’onomastico
della mamma, il Santo Natale, il terzo di guerra.
Qualche mese prima era sembrato che il conflitto potesse finalmente avere
termine, l’otto settembre c’era stato l’armistizio, in molti erano tornati dai fronti
più lontani e forse a molti altri sarebbe stato risparmiato un destino incerto e
pericoloso. Ma nonostante tutte le speranze, così non fu.
Ferruccio, che aveva allora da poco raggiunto i diciotto anni, venne chiamato
alle armi e inquadrato nel primo Battaglione Costruttori della neo costituita
Guardia Nazionale Repubblicana.
Successivamente, nel marzo del millenovecentoquarantaquattro, appena
terminato il periodo di addestramento formale, fu inviato, a Piandimeleto, nei
pressi di Sestino in provincia di Arezzo.
Qui, sugli impervi monti aretini, passava la Götenstellung (linea Gotica), un
insieme ininterrotto di fortificazioni difensive che estendendosi per trecento
chilometri dal mar tirreno al mare adriatico, doveva costituire un baluardo
capace di fermare l’avanzata, che sembrava ormai inesorabile, degli
angloamericani e di alcuni reparti del ricostituito Regio Esercito Italiano.
In realtà, nelle intenzioni del Comandante Supremo, la GNR avrebbe dovuto
essere un corpo di élite, un gruppo di uomini scelti, preparati e coraggiosi
destinati ad affiancare a testa alta l’alleato tedesco che però, a partire
dall’armistizio, non nutriva oramai più molta simpatia nei confronti dei vecchi
camerati italiani che già una volta avevano tradito.
Nella pratica ad essa erano affidati i compiti più sgradevoli e che potevano
essere risparmiati all’esercito tedesco che ormai guardava all’alleato di un
tempo con sempre maggiore diffidenza e con crescente disprezzo.
E infatti il ruolo di Ferruccio e di molti altri commilitoni era relegato a quello di
semplice fantaccino, braccia per scavare trincee, approntare ripari, fortificare
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postazioni e lavorare senza sosta dalla mattina alla sera, al freddo e nel
fango e con un rancio da fame.
Questa vita non poteva piacere per molto a Ferruccio che ben presto riuscì a
mettersi in contatto con alcuni esponenti delle brigate partigiane che già
operavano attivamente sulle montagne e che avevano cominciato a dare del
filo da torcere ai reparti impegnati in zona.
Il dilemma però era grande. Abbandonare tutto e tutti e tornare in paese dove
sapeva che lo aspettavano e lo avrebbero volentieri aiutato a nascondersi, o
darsi alla macchia per entrare nelle fila della resistenza andando incontro a
un futuro incerto e di sicuro rischioso?
Non si era più dimenticato di quella notte in cui riuscirono a catturare un
partigiano e lo consegnarono ai tedeschi il mattino successivo.
Non era un ragazzo come loro, era un uomo sui cinquant’anni, poteva essere
suo padre, alcuni avrebbero voluto derubarlo e malmenarlo, altri parlavano di
giustiziarlo sul posto, così su due piedi, senza indugiare, in fondo si trattava
pur sempre di un pericoloso nemico anche se parlava la loro stessa lingua.
Ma a Ferruccio non andava di abbassarsi a quelle istintive bestialità, era
sempre stato corretto e fedele al suo giuramento di onestà.
Aveva osservato bene e a lungo il prigioniero, si vedeva chiaramente che era
molto stanco, magrissimo e aveva la barba di più giorni, calzava scarponi
consunti che portavano un vecchio spago annerito al posto dei lacci.
Teneva in grembo le mani legate strette strette da una corda di fortuna, erano
mani grandi e callose avvezze a usare attrezzi, forse era un fabbro o un
carpentiere, chi poteva saperlo, di certo non aveva mai aperto bocca per dire
chi era, da dove veniva e chi avrebbe pianto a lungo se non fosse più
ritornato a casa dove anche per lui c’era sicuramente qualcuno che ancora lo
aspettava. Nei suoi occhi si indovinava facilmente la paura, ma la sua
fierezza e forse la serenità della propria scelta, gli davano una calma
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serafica, una inconsueta posizione di indifferenza nei loro confronti e del
proprio destino.
Se lo erano portato via, alle prime luci dell’alba, un pattuglia di tedeschi in
compagnia di un graduato della milizia.
Quell’ultimo suo sguardo che aveva incrociato, sembrava dirgli addio senza
più nessuna speranza. Non lo rivide mai più ne nulla riuscì a sapere della
sorte che gli era toccata.
Fu prima della metà di maggio che prese la decisione, la notte seguente
avrebbe tagliato la corda e sarebbe salito in montagna.
Non fece parola con nessuno della sua sofferta scelta, anche se gli sembrava
di aver ormai intuito che non era il solo che si apprestava a fare il salto della
barricata.
Lo aveva facilmente dedotto da alcuni discorsi dei camerati e soprattutto da
altri palesi improperi che ormai scappavano, in sempre maggior numero,
anche ai signori ufficiali che poi, tanto signori, non lo erano sempre.
La notte successiva, dopo aver camminato per più di cinque ore al buio tra
rovi e arbusti, aveva raggiunto, come gli avevano ordinato gli emissari delle
resistenza, una vecchia capanna nascosta al limite del bosco dove riuscì a
congiungersi con la formazione partigiana della quinta Brigata Garibaldi di
Pesaro posta ai comandi di Bruno Ercolani.
Era giovane e in forze per cui all’inizio gli toccarono soprattutto i trasporti di
materiale e le guardie interminabili in attesa che qualcosa accadesse.
E qualcosa accade. Era ormai arrivato il mese di giugno quando ebbe il
battesimo del fuoco.
Si trattava di preparare un agguato a una pattuglia tedesca che portava
munizioni e viveri ai soldati acquartierati giù a valle, appena fuori dal paese.
L’azione fu facile e si concluse in una manciata di minuti che sembrarono
interminabili, nessuno dei compagni rimase ferito, i tedeschi ebbero invece
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molte perdite e lasciarono il carico per strada fuggendo a piedi verso l’abitato
di Sestino.
Ferruccio e gli altri recuperarono velocemente le armi e tutto quello che
potevano trasportare.
La vista di quei poveracci morti, riversi sulla strada e con ancora gli occhi
spalancati, lo toccò nel profondo, ma ormai non si poteva più tornare indietro,
aveva fatto consapevolmente la sua scelta e doveva prestarle fede.
Non avrebbe avuto molto altro tempo per abituarsi perché sapeva che a
quella azione ne sarebbero seguite presto molte altre ancora.
Nel corso dell’estate fu coinvolto in altre due operazioni di guerriglia e tutto
sembrò andare per il verso giusto fino al 25 luglio, martedì.
Faceva già molto caldo quella mattina, anche se la notte era stata fresca e
aveva potuto riposare, se si può definire riposo passare quattro ore su un
tavolaccio consumato appoggiato sul pavimento in terra battuta di una
vecchia capanna da boscaioli senza più alcun infisso ne uno straccio di
finestre degne di quel nome.
Ma quando si hanno diciotto anni ci si immagina e ci si crede invincibili e
basta un caffè fumante bevuto in compagnia per riprendere tutte le forze e
andare incontro a un nuovo giorno come un leone.
Oggi aveva un compito semplice scortare un commissario politico che era in
collegamento con la brigata, fino al fondovalle dove un’altra guida lo avrebbe
preso in consegna e portato chissà dove.
Quell’uomo era di sicuro molto importante, considerato come il comandante
gli rivolgeva la parola dandogli del Lei con imbarazzata riverenza, era una
strana figura che si celava dietro due lenti spesse che proteggevano grandi
occhi chiari consumati sui libri durante interminabili notti, forse passate in
religiosa solitudine a un tavolo con la sola mesta compagnia del lume di una
tremolante candela. Indossava un abito scuro, forse marrone, liso e
stropicciato ma ancora in grado di essere testimone dell’elegante fattura che
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un tempo gli era appartenuta e portava sempre, a tracolla, uno strano
tascapane in cuoio scuro zeppo di incartamenti.
Non scambiò alcuna parola con Ferruccio che, intuendo l’importanza e la
superiorità dell’uomo, non osò chiedere nulla.
Erano partiti poco prima dell’alba e in due ore, mantenendo un buon passo,
sarebbero stati puntuali, prima che facesse completamente luce, al punto di
incontro.
Ma la fortuna quel giorno non era dalla loro parte, infatti usciti allo scoperto
nel primo campetto che si affacciava sulla macchia che li aveva finora
protetti, si imbatterono in una pattuglia di tedeschi in movimento che subito
aprirono il fuoco. Ferruccio tosto rispose con il suo sten, ma un solo uomo
contro altri dieci nulla poté fare se non coprire la ritirata dell’importante
compagno che nel trambusto, guadagnato di nuovo il boschetto, riuscì a
scampare all’agguato ed a tornare indietro.
Lo stesso non accadde a Ferruccio che, gettato il mitra a terra ed alzate le
mani sul capo, si arrese senza nulla dire.
Nessuno dei tedeschi rimase ferito nel combattimento e questo contribuì
all’incolumità del prigioniero che dopo essere stato perquisito e legato stretto
venne portato giù verso il paese.
Qui venne dato in consegna a un reparto del battaglione M che era lì di
stanza. E dal quel momento rimase in balia dei suoi carnefici.
Tentarono con ogni mezzo ed in ogni modo di fargli confessare quanti
fossero e dove fossero i suoi compagni e chi li comandava, dove si
trovassero nascosti e di quali armi disponessero.
Non parlò mai e seppe tener testa anche a quel sottotenente che forse aveva
i suoi stessi anni ma sembrava più maturo per la sua voce aspra e corposa e
per l’atteggiamento di sfida ben sintetizzato in quel sorrisetto beffardo a
stento trattenuto. Sembrava giocare come fa il gatto col topo, pareva che
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recitasse un ruolo non suo ma mandato a memoria e interpretato con la
maestria e la professionalità di un consumato attore.
In certi momenti sembrava minacciarlo a tal punto da farlo sentire perduto,
altre volte sembrava rassicurarlo che tutto sarebbe finito a breve e bene,
forse lo avrebbero anche liberato facevano intendere il tono pacato e i modi
calmi e cortesi dell’ufficiale.
Andò avanti così per due intere giornate poi senza che nulla potesse farlo
presagire alle prime luci del 28 luglio la porta della cella si spalancò di colpo
ed entrarono quattro uomini che sollevatolo di peso lo condussero fuori in
strada dove aspettavano due auto col motore già in moto.
Nella prima stava seduto sul sedile alla destra dell’autista il sottotenente che
lo aveva interrogato nei giorni precedenti, fumava assorto una milit senza
degnare di uno sguardo il prigioniero.
Il piccolo corteo si mosse veloce, superò le ultime case del paese e si diresse
verso il cimitero che era un po’ fuori dal centro abitato.
Ferruccio comprese che quella “gita” sarebbe stata senza ritorno, l’aveva
intuito subito con quella incredibile lucidità che ci avverte in anticipo facendo
presagire quello che accadrà come un nitido sogno concreto.
Gli uomini in divisa che lo scortavano non proferirono parola ma le loro
espressioni erano tristi e i loro volti risultavano duri e scuri come la montagna
che si scorgeva alle loro spalle.
Non vi furono molti convenevoli e quando, legato e bendato, lo fecero
appoggiare al muro bianco del camposanto Ferruccio fece ancora in tempo a
sentire il profumo fresco e pungente dei cipressi sopra di lui mentre i soldati
portavano la pallottola dal caricatore alle camera di scoppio con un
movimento secco e deciso che gli diede ancora qualche secondo per
pensare. Poi echeggiarono gli spari e il martirio, in un istante, fu compiuto.
Raccolsero il corpo, bloccarono il capo fra due sassi con l’aiuto di una benda,
lo avvolsero con cura dentro un telo militare poi strinsero bene le corde e
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gettarono il pesante fardello giù nel dirupo fra i rovi e l’alta vegetazione dove
nessuno a prima vista potesse vederlo e recuperarlo.
Fra poco sarebbero arrivati, fra poco.
Papà e altri due uomini del paese erano andati a prendere Ferruccio dopo
che il corpo fu ritrovato molto tempo dopo. Avevano garantito per il recupero
e il trasporto i sindaci di Corte e di Sestino.
Era da più di un ora che Vittorio aspettava e finalmente ecco sbucare dalle
ultime curve il vecchio camion Lancia.
Il mezzo si arrestò davanti al bambino, papà Pietro spalancò la portiera
antivento e gli disse: ” quanto tempo è che sei qui ad aspettare? “
Da poco, mentì rapido Vittorio, sapevo che sareste tornarti prima che facesse
completamente buio.”
Fece cenno all’autista di spegnere il motore, scese dal camion e si chinò
verso il bambino.
Vittorio rimase come paralizzato poi, dopo che Pietro gli diede un bacio,
chiese: “l’avete portato a casa con voi?”
“E’ qua dietro, sul pianale” disse l’uomo. “Ti ricordi di tuo fratello?”
“Certo che me lo ricordo” “Vuoi vederlo?” “Sì” rispose senza esitazione.
Il papà sganciò la sponda del camion e apparve un grande baule in legno
scuro. Sollevò Vittorio fino a portarlo all’altezza del feretro e gli disse: “guarda
bene dalla piccola finestrella in vetro”.
Il bambino si sporse sopra quel piccolo quadrato trasparente e guardò con gli
occhi spalancati. Il viso di Ferruccio gli sembrava intatto come lo aveva
sempre ricordato , uguale a quello della foto che stava sopra il camino.
“Allora, l’hai visto?” Disse l’uomo guardandolo fisso negli occhi. “Si papà”
rispose Vittorio, “è come se dormisse.”
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Il panbiscotto
Ci si deve alzare molto presto se si vuol fare in modo che tutto vada
per il verso giusto!
Le notti migliori sono quelle fredde e lunghe dell’inverno, meglio se senza
molta umidità, quelle in cui il cielo è terso, il freddo è pungente ma secco e la
cintura di Orione brilla ancora alta sull’orizzonte.
Però anche quelle che anticipano la neve vanno bene, perché è proprio allora
che il freddo si spezza appena prima che il cielo liberi i primi fiocchi bianchi.
Bisogna cominciare con la farina, serve la farina migliore e che soprattutto
non “abbia sofferto di umidità”, l’ideale è quella che si accumula verso il fondo
della madia, quasi addormentata sopra le tavole chiare di pioppo, se è una
madia povera oppure, se è una madia un po’ più ricca, sulle tavole più scure
di castagno.
Anche l’acqua va raccolta con cura e fatta riposare in un mastello perché
stemperi la sua freddezza di pozzo prima di sposarsi, nell’impasto delicato,
con la evanescente e polverosa farina.
A questi semplici ingredienti si deve poi unire un pizzico di sale e la madre,
cioè un pezzo di pasta ben lavorata in precedenza e conservata
preservandone la corretta umidità, che costituirà il lievito fondamentale per
dare vita al nuovo impasto.
La madre si tramandava da impasto ad impasto e, se proprio in casa non ce
ne fosse stata, bastava fare un salto dal panettiere e chiederne un poco della
sua che certo non gli mancava.
Poi occorreva ancora un bel tavolo dove amalgamare con sapienza il tutto e
cominciare a lavorare di buona lena l’impasto.
Anche quel sabato nove dicembre del millenovecentoquarantaquattro
qualcuno si era alzato alle tre e mezzo per preparare il pane, il calendario
recitava che quel giorno si poteva festeggiare San Siro.
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Spettava al papà preparare il tutto perché ormai era diventato un provetto
fornaio e la pasta di pane era, per le sue braccia forti, un gioco da ragazzi
mentre lavorandola con energia le dava calore e forma.
In particolare la sua specialità era preparare il panbiscotto.
Lo si faceva una volta al mese e spesso però poteva durare, senza alcuna
ombra di muffa, per quindici, venti giorni o anche di più.
Il segreto del panbiscotto stava tutto nella sua sapiente cottura.
Infatti, preparato l’impasto lo si doveva far riposare, per favorirne la
lievitazione, in apposite cassette che possedevano una pezzatura
corrispondente a circa cinque o sei chilogrammi ciascuna.
Passato questo intervallo di tempo il panbiscotto era ormai pronto per andare
incontro all’abbraccio caldo del forno e iniziare lentamente il processo di
cottura.
Questo di solito avveniva nel forno a legna del fornaio il quale, gentilmente,
si prestava a far realizzare questa operazione a tutti color che, non avendo in
casa un capiente forno proprio, gli chiedevano gentile ospitalità.
In cambio egli ne ricavava preziose forniture di legna già pronta da utilizzare
nel suo quotidiano ciclo di cotture del pane.
Prima si doveva portare il forno alla massima temperatura facendo bruciare
completamente fascine di sterpi e ceppi di legno contemporaneamente,
quando dalle fiamme si era ormai passati alle braci, bastava solo togliere un
poco della cenere più minuta e tutto era pronto per accogliere le forme di
pane da cuocere.
Il ciclo della cottura poteva durare anche due intere giornate, l’importante era
che il forno rimanesse a una temperatura costante tale da permettere al
panbiscotto di perdere lentamente tutta la sua umidità, acquistando una
consistenza simile a quella di un friabile biscotto e infine un colore dorato che
indicherà il momento in cui sarà giunto il tempo di toglierlo dal forno e farlo
raffreddare coperto da un telo.
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Quella notte, alla luce fioca della lampada da venticinque candele, sfidando
anche il coprifuoco che imponeva l’oscuramento totale, papà Quirino iniziò
con metodo il suo lavoro.
Aveva ancora sonno ma non poteva distrarsi perché quello era un pane
speciale, un pane che dopo avere a lungo viaggiato avrebbe dovuto portare
sapori e aria di casa in un luogo molto lontano.
Avrebbe dovuto attraversare mezza Europa superando valli, fiumi, montagne
e confini prima di arrivare a destinazione dove era tanto atteso.
Sarebbe stato adagiato in una scatola di legno leggero, dopo essere stato
avvolto con delicatezza in un foglio grande di carta oleata.
Il pacco sarebbe stato sigillato con cura e poi consegnato all’uomo che,
facendo il giro della raccolta del latte, si sarebbe spinto fino a Robecco
D’Oglio da dove sarebbe stato spedito sul primo treno in partenza.
Il pacco era un pacco di guerra e sarebbe stato recapitato su in Germania.
Avrebbe fatto compagnia a molti altri pacchi che da tutta l’Italia, ciascuno con
il proprio carico di cibi poveri ma prelibati, vestiario, fotografie di padri, madri
spose e bambini e anche lettere vergate con minute calligrafie, venivano
spediti quotidianamente a uomini lontani che si trovavano in quella terra
straniera come prigionieri di guerra.
Mentre tutto questo gli passava rapidamente per la mente giunse al termine
del suo paziente lavoro.
L’impasto era pronto per riposare qualche ora, nel primo pomeriggio
l’avrebbe portato al forno per farlo cuocere.
Anche il fornaio sapeva della destinazione del pane, infatti ne avevano
parlato a lungo, egli era contento che Ezechiele, che era pressappoco della
sua classe, se le fosse cavata anche se dalla base della marina a Navarino
era stato portato a Halle Saale in un campo di prigionia vicino a Lipsia.
Tutto accadde poi proprio come papà Quirino aveva già immaginato e in capo
a quarantotto ore il pacco, con il suo prezioso contenuto, era già in viaggio.
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Passò prima da Cremona, dove attese in deposito qualche giorno per
sbrigare le pratiche di controllo prima della spedizione.
Quindi, adagiato sulle assi di legno di uno scricchiolante vagone merci e con
la nutrita compagnia di altri pacchi di ogni provenienza, foggia, colore e
contenuto, toccò Brescia, transitò da Verona, salì verso Chiusa, valicò le Alpi
raggiungendo Innsbruck, oltrepassò Monaco di Baviera e poi vide scorrere
una serie di città con nomi difficili da leggere e tanto più da pronunciare e
ricordare.
Arrivò finalmente a destinazione qualche giorno prima di Natale sotto un cielo
grigio e gonfio di neve.
Alla stazione il carro venne svuotato completamente da alcuni uomini
guardati a vista da soldati armati, i pacchi e gli altri colli vennero accatastati in
un magazzino senza riscaldamento e dalle pareti gialle e scrostate.
Rimasero li fermi fino al mattino successivo quando di buon ora un sergente
corpulento e dalle gote arrossate per il freddo pungente, accompagnato da
altri due soldati, si degnò di esaminarli.
Guardò con circospetta attenzione ogni pacco destinato ai prigionieri del suo
campo. Rigirò uno per uno quelli che secondo lui erano i più sospetti poi
rassegnato cominciò il suo metodico lavoro.
Aprì diligentemente i pacchi uno per uno e si apprestò a togliere ciò che
secondo lui non era ammesso ricevere, in particolare caddero sotto il suo
intransigente giudizio tutte quelle delizie alimentari che ai prigionieri non
potevano certo essere distribuite ma di cui invece si accollò la onerosa
responsabilità di consumarle personalmente.
Quando arrivò a quel pacco ricoperto di carta marrone chiaro stropicciò un
po’ gli occhi, si concesse una svogliato sbadiglio e poi lo degnò di maggiore
attenzione.
Lacerata la carta con la baionetta, tagliò i sigilli di corda e guardò curioso
all’interno per verificarne attentamente il contenuto.
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“Pane secco!” esclamò. “ Chi poteva mandare un pacco con del pane per
giunta ormai secco? ”, si interrogò stupito il militare.
Richiuse il pacco ridendo e lo pose nella catasta di quelli che avrebbe portato
al campo per farli distribuire ai prigionieri.
Quando all’appello il pacco gli fu distribuito ad Ezechiele vennero gli occhi
lucidi.
Sapeva che in quella scatola lo aspettava un panbiscotto che nessuno si
sarebbe mai sognato di avere.
I due pani erano affiancati ordinatamente sul fondo della scatola. Non si
trattenne e ne mangiò subito un pezzo.
Era squisito e si scioglieva in bocca, solo allora si accorse che una delle
forme aveva un vistoso buco sulla parte superiore.
Non gli fu difficile collegare quel foro al sudicio pollice del sergente affondato
in quella prelibatezza mentre pensava: “è solo uno stupido pezzo di pane
secco!”.
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Trentaquattro pecore Angelo andò presto a letto quella notte di aprile perché domani, allo
spuntare del sole, avrebbe dovuto essere già in piedi per dare una mano
nella stalla prima di andare a scuola, forse potrà anche dare una carezza a
quell’agnellino albino nato solo tre giorni fa.
Fu la nonna che prima di dargli l’ultimo bacio della buonanotte, e dopo aver
detto insieme a lui sottovoce tutte quante le preghiere, anche perché la
cresima si avvicinava veloce, gli fece notare la palla giallo arancio della luna
che era sorta lentamente dall’orizzonte verso Cignone.
Angelo si accomodò sotto le lenzuola sereno e contento, non aveva molta
paura quella notte, perché nel cielo la luna emetteva una luce che lo
rassicurava e poi dalla sua comoda posizione nel letto, poteva indovinare il
suo vestito da marinaretto che la zia, con tanti sacrifici e con tanta fatica,
aveva messo insieme recuperando i pezzi di stoffa necessari presso tutti i
parenti.
Gli dava forma un omino in legno chiaro che era attaccato su un lato del
vecchio armadio in noce che era appartenuto alla sua bisnonna, roba
dell’ottocento, un po’ scricchiolante certo ma che faceva ancora
egregiamente il proprio dovere di custode di panni e biancheria varia sempre
pulita e dal profumo fresco di lisciva o del sapone, quando c’era .
Aveva, collocato nell’anta di centro, anche uno specchio ricoperto da tutti
quegli arabeschi dorati che di solito compaiono dove per innumerevoli anni si
sono specchiate così tante generazioni da averlo quasi consumato.
Si addormentò quasi subito pensando al regalo che gli avevano più volte
promesso mamma e papà, forse sarebbe finalmente arrivato quel simpatico
cavallino di legno colorato con le ruotine che aveva ammirato incantato una
volta che lo avevano portato in città a Cremona, o forse qualcos’altro, ma non
gli importava molto, di fatto quello che contava di più è che ci sarebbe stata
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una grande festa con tante cose buone da mangiare e chissà, forse anche
una torta di cioccolato di cui era sempre stato goloso.
All’angolo dell’ultima casa prima del ponte sull’Oglio aspettava nervoso un
uomo vestito completamente di scuro, fumava con tirate brevi una sigaretta
che nascondeva con perizia nell’incavo della mano per non fare luce con la
sua brace.
Poggiava il piede sinistro sul predellino di una vecchia e polverosa Lancia e
impaziente aspettava.
Bortolo, il pastore della Valcamonica che era solito svernare con il suo
gregge ospite in paese, quella notte, mentre controllava che tutti gli agnellini
fossero con le loro madri, contava con diligente nostalgia i giorni che
mancavano alla partenza verso le sue montagne.
Ormai da tanti inverni scendeva in paese dove, in cambio di un tetto, un letto,
un piatto di minestra e un ricovero per lui e per le sue bestie, si impegnava a
farle pascolare nei campi di chi lo ospitava, realizzando un esempio mirabile
di mutuo aiuto e di coltivazione integrata.
Infatti gli animali mangiando quel che era rimasto dei raccolti, fertilizzavano
con il loro sterco il terreno rendendo la terra più ricca e feconda per la
prossima semina di primavera.
Ancora una settimana e finalmente, con l’approssimarsi del mese di maggio,
avrebbe attraversato a passo d’uomo la pianura e poi, lasciandosi la
Leonessa d’Italia alle spalle, avrebbe cominciato la lenta risalita della
Valcamonica diretto verso Saviore dell’Adamello dove lo aspettavano una
sposa, quattro bambini e i floridi alpeggi alpini.
Nel freddo metallico della carlinga, a più di duemila metri di quota nel cielo
sopra la zona loro affidatagli, Gavin Flynn, luogotenente della Royal Air
Force, faticava, a causa del vento che aveva rinforzato, a tenere il suo
bimotore sulla verticale del fiume e in vista del ponte, il suo copilota, sergente
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maggiore Austin Barker, osservava invece tutto quanto accadeva sotto di loro
pronto a rilevare ogni fonte di luce o un movimento sospetto.
La luna, ormai alta nel cielo, sembrava così vicina da poterla sfiorare con un
dito. Era grande, gialla e luminosissima.
La vide anche Bortolo che dal suo giaciglio poteva ammirare a stento un
piccolo spicchio di cielo, quando la fatica gli permetteva di stare sveglio
ancora un po’ prima di arrendersi al sonno che lo avrebbe traghettato verso
una nuova giornata di duro lavoro.
Non poté fare a meno di notarla anche l’uomo nervoso sempre in attesa
all’angolo dell’ultima casa prima del ponte sull’Oglio, era visibilmente
preoccupato, perché qualcuno era in palese ritardo all’appuntamento e
questo non faceva che aumentare sempre di più il rischio che era
consapevole di correre.
Il suo cono di luce bagnò anche i due aviatori che furono, per un istante,
come rapiti dall’immagine a tutto tondo di quei monti mari e crateri che si
potevano ammirare benissimo anche a occhio nudo.
Poi l’attenzione del navigatore venne attratta da una nuvoletta di polvere che
seguiva da presso una massa più scura che sembrava muoversi lentamente,
apparendo e scomparendo da un momento all’altro, su quella che poteva
essere una stradina in terra battuta.
L’autista alla guida della vettura si dirigeva, quasi a passo d’uomo, verso il
paese dopo avere finalmente ricevuto e caricato la cassa che aspettava, non
gli rimaneva che arrivare a destinazione, scaricarla e andare a nanna, e la
missione si sarebbe così compiuta senza intoppi, o almeno questo era quello
che lui si augurava.
Pur sapendo di rischiare molto considerò che fosse sufficiente aver oscurato i
fari della vettura per essere quasi invisibile a quei temibili e imprendibili
fantasmi con le ali che tutte le notti volavano nel cielo della pianura in attesa
della loro preda. Ma i due esperti aviatori intuirono subito che quella che
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appariva e scompariva ogni volta che entrava nel cono d’ombra degli alberi
posti ai lati della strada, era un automobile e che quello, a quell’ora non
poteva essere un veterinario in visita notturna.
Seguirono attentamente il mezzo finché entrò in paese e poi, quando senza
alcun riparo il loro bersaglio si fermò e apparve più nitido, il sergente azionò
con un gesto deciso il meccanismo di sgancio, quasi contemporaneamente le
due bombe si staccarono da sotto le ali.
I due pesanti ordigni, già innescati, fischiarono nella notte chiara di luna
piena, ci misero forse dieci secondi prima di arrivare al suolo.
La prima bomba si infilò nel cortile dove si affacciavano le camere da letto di
Bortolo, di Angelo e delle altre nove persone che lì dormivano e
miracolosamente si conficcò in una montagnola di terra e non esplose.
La gemella invece cadde qualche metro più in là centrando in pieno la pila del
letame e qui, completamente annegata nel liquame, esplose dopo un
interminabile secondo.
La deflagrazione investì in pieno il barchessale che ospitava gli animali,
rimasero uccise sul colpo trentaquattro pecore e cinque piccoli agnellini.
Le numerose schegge raggiunsero anche Gatta e Biondo, i due cavalli che
sempre lì dormivano, in piedi, in prossimità del muro, nessuno dei due poveri
animali si salvò.
Angelo pensava di sognare, cascò dal letto tanto fu forte lo spostamento
d’aria, ma si rialzò quasi subito perché non aveva un graffio, avvertiva solo un
fastidio alle orecchie, era come se fossero rimaste piene di acqua come
quella volta che nel fosso, coperto dalle sole mutande e trattenendo il fiato,
aveva provato ad immergersi.
Corse verso le scale ma si accorse subito, complice sempre la luminosità
della luna, che queste non c’erano più, scese comunque in cortile a
cavalcioni di una trave di legno di rovere che era caduta dall’intelaiatura del
tetto e ora toccava quasi terra. Nel frattempo nell’aria cominciarono a
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galleggiare migliaia di piume e piumette che l’esplosione aveva liberato da
cuscini e trapunte squarciate.
Era una scena surreale quella che si presentò a Bortolo, nel chiaro cono di
luce lunare fluttuavano, come fiocchi di neve, le piume leggere.
Nell’aria c’era un odore greve e persistente, un misto di letame e di cordite
frutto dello scoppio della bomba precipitata nel cortile.
Tutti gli abitanti della casa si ritrovarono, spaventati e disorientati, all’aperto.
Era difficile fare una esatta stima di quanti fossero, questo perché spesso
qualcuno che si era attardato per sue faccende a casa di parenti o conoscenti
non tornava alla propria abitazione, preferendo non sfidare il coprifuoco e
soprattutto la sorte.
I superstiti erano undici in totale, compresi Angelo e Bortolo, il pastore.
Questi solo allora realizzò che tra le macerie della stalla c’era il suo
patrimonio ovino.
Gli animali ormai morti giacevano in un lago di penne, piume, lana, polvere e
calcinacci.
Per lo più erano state uccise dal fortissimo spostamento d’aria e dal crollo di
parte del tetto che aveva seminato tegole dappertutto, i bei velli bianchi non
erano quindi macchiati di sangue.
Solo di primo mattino, con l’arrivo della luce, fu possibile fare la conta dei capi
sopravvissuti e stilare la contabilità delle perdite: diciotto pecore e due
agnellini ancora vivi, trentaquattro pecore e cinque piccoli agnellini uccisi.
Quello che era rimasto dei capi che erano rimasti uccisi se lo portarono via
una processione di donne, accompagnate da una torma di bambini incuriositi,
che ne approfittarono per fare spesa a buon mercato, dando allo sfortunato
pastore una cifra minima rispetto al vero valore dei capi, venale e affettivo.
Preparato con cura e consumata lentezza il suo modesto bagaglio, composto
dallo zaino di ormai logora tela verde, da un vecchio ombrello nero e da un
enorme sacco di juta dove furono adagiati alla rinfusa una serie indefinita di
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oggetti, Bortolo decise che sarebbe partito la sera stessa, ormai non aveva
alcun senso prolungare ancora l’inizio del lungo viaggio di ritorno verso casa.
Preparò anche il basto del somarello che da sempre gli faceva da fedele
compagno di viaggio e vi legò ben stretta la tasca imbottita dove avrebbe
fatto accomodare i due agnellini che erano ancora incerti sulle zampe.
L’uomo nervoso della notte prima e che abitava proprio di fronte alla casa
colpita, stava in piedi confuso nella folla dei compaesani che erano accorsi in
massa a curiosare sugli effetti delle bombe e su quanti, ammesso che ce ne
fossero, erano rimasti sotto quelle macerie, non importava molto se si fosse
trattato di cristiani o di animali.
Per fortuna la loro curiosità venne prontamente disattesa dal benevolo
destino toccato agli abitanti.
L’uomo nervoso della notte precedente sembrò aver capito che quelle
bombe, che a lui erano destinate, erano state distratte dal destino colpendo
solo animali innocenti.
Non ne avrebbe fatto menzione con nessuno, ne ora ne mai.
Angelo raccontò invece l’accaduto mille volte, fornendo ad ogni narrazione
una versione sempre diversa arricchita con dovizia di particolari, nessuno mai
lo rimproverò che non sempre tutti corrispondevano al reale svolgimento dei
fatti.
L’unico particolare che rimase immutato nel suo discorso fu invece la fine
ingloriosa del suo elegante completo da marinaretto, pronto per la cresima
ormai prossima, che rimase per sempre offeso dalle bombe sganciate da
quegli aviatori fantasma venuti chissà da dove.
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I libretti della povertà Ogni volta che si sedeva alla sua ampia e lucida scrivania di legno
antico non poteva resistere ad aprire l’ultimo cassetto della fila di destra.
Faceva sempre così, quasi con ostinato metodo, ogni volta che gli si
presentava l’occasione.
Il sabato mattina gli piaceva salire a palazzo di buon ora, sbrigare le faccende
di routine, vergare qualche firma con la sua elegante e minuta grafia, passare
in rassegna la corrispondenza, aprire subito le missive più interessanti
mettere sotto il plico quelle meno importanti ma che avrebbe comunque
aperto più tardi.
A volte si alzava dalla scrivania, copriva con passi lenti e misurati i pochi
metri che lo separavano dalle finestre e appoggiandosi ad uno stipite
osservava assorto l’enorme piazza e il paese che attorno ad essa si muoveva
indaffarato in mille faccende quotidiane.
Fissava attentamente le donne che attraversando la via andavano in bottega,
si metteva alla prova cercando di associare un nome ad ogni volto, o figura
che fosse.
Si impegnava cercando di immaginare quali discorsi stessero affrontando i tre
uomini fuori dall’osteria che sembravano discutere animatamente, seguiva
con lo sguardo il parroco che sbucato da un angolo guadagnava in fretta la
canonica tenendo le mani incrociate dietro la schiena.
Si insospettiva vedendo i Carabinieri che, sempre in coppia lambivano un lato
della piazza, e poi tirava contento il fiato realizzando che questa volta non
sarebbero venuti da lui.
Quello era il suo paese, oggi appena accarezzato da quei refoli di vento che
portavano precocemente un poco di autunno facendo volare via dagli alberi le
prime foglie ingiallite che incominciavano a tappezzare l’ampio spazio in
fronte al municipio .
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Era il suo paese o meglio così lo sentiva, pensando alla responsabilità che
aveva in capo e per cui doveva render conto a tutte quelle anime che vi
risiedevano e che in lui avevano riposto la loro fiducia.
Negli uffici che presiedeva, vi era raccolta ordinatamente tutta la storia dei
suoi concittadini, i registri dell’anagrafe, con annotate in diligente ordine tutte
le informazioni dello stato civile: nascite, classi di leva, matrimoni e decessi.
Vi erano conservate, con orgogliosa riconoscenza, tutte le schede informative
dei caduti in guerra, compresi quelli i cui nomi riposavano per sempre incollati
nella lapide in loro onore posta sul muro in fronte all’entrata in modo che
chiunque salisse le scale fosse portato a rendervi omaggio od almeno uno
sguardo e se c’era un pò più di tempo una breve preghiera.
Sempre osservando dalla finestra vide la strada riempirsi di bambini vocianti
che tornavano a casa dopo la scuola. Erano tantissimi e correvano insieme
contenti e spensierati.
Li conosceva quasi tutti, conosceva anche i loro padri, le loro madri, i nonni e
tutti gli altri parenti.
Conosceva proprio tutti in paese, e sapeva bene quali famiglie versavano
nelle condizioni di maggiore bisogno.
Tornò allora sui suoi passi e, dopo aver salutato l’ultimo impiegato che aveva
fatto capolino dalla porta per augurargli una buona domenica, guadagnò di
nuovo la sua sedia e qui si abbandonò ai suoi pensieri.
Sembrava preoccupato, si passò lentamente una mano tra i capelli ingrigiti,
diede uno sguardo distratto all’orologio appeso alla parete di fronte, lesse
svogliatamente quella corrispondenza che gli era rimasta da completare e poi
la sua mano corse, quasi senza accorgersene, verso l’ultimo cassetto della
fila di destra.
Si svegliò dal torpore dei pensieri accorgendosi che non aveva infilato la
chiave nella serratura. Cercò allora nella tasca sinistra della giacca e non la
trovò. Riprovò in quella destra ma anche lì nulla.
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Gli venne in mente solo allora che l’ultima volta l’aveva riposta nel taschino
interno della giacca e qui infatti la chiave giaceva a stretto contatto con la
fodera.
La infilò nella toppa e dopo che questa fece due scatti il cassetto si aperse.
Al suo interno riposti in bell’ordine e sue due file allineate, c’erano una decina
di piccoli libretti grigio azzurri, alcuni erano quasi nuovi, altri erano sbiaditi
dalle molte dita che li avevano maneggiati e sgualciti soprattutto agli angoli.
Li prese con cura e li appoggiò sulla scrivania che aveva prima liberato
dall’ingombro di fogli, documenti e altri oggetti che là erano depositati.
Lo coglieva sempre una grande emozione quando si accingeva a sfogliarli.
In quelle pagine a un profano e distratto osservatore sembravano solo
esserci una pedissequa sequela di nomi e cognomi a cui facevano capo, per
ogni riga, cifre che rappresentavano ordinatamente scarni addendi di una
lista aritmetica, parevano registri ordinati da un paziente e zelante ragioniere
attento a tenere una completa e dettagliata contabilità con consumata
professionale pignoleria.
Ma per lui, che ben li conosceva, ed a cui spettava la completa
amministrazione, quei piccoli e a prima vista insignificanti libretti sbiaditi
erano la fotografia nitida dei poveri del paese.
Girando le pagine e ripassando, seguendolo con un dito, ogni cognome egli
andava a comporre un quadro preciso di uomini, donne, bambini, anziani che
dalle piccole cifre annotate sulle righe traevano il sostentamento per vivere.
C’erano registrate famiglie con dieci e più figli, uomini e donne ormai alle
soglie della vecchiaia e senza alcun lavoro con cui sbarcare il lunario in
attesa di passare a miglior vita ma pur sempre con uno stomaco da riempire
tutti i santi giorni.
Spose incolpevoli di essere rimaste senza marito ma in compenso con a
carico una nutrita e sempre affamata prole. Li immaginava tutti, uno dopo
l’altro e gli sembrava che dopo aver salito le scale, fossero entrati
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timidamente nel suo ufficio, con dignità sfilavano davanti alla sua scrivania
senza nulla dire solo per fissarlo negli occhi e ringraziare senza parole o con
un goffo inchino appena accennato prima di scomparire oltrepassando la
porta da cui erano entrati.
“La povertà che condizione tremenda e spesso incolpevole!” si scoprì a
pronunciare a voce alta.
L’amministrazione lo sapeva bene, e lui era l’Amministrazione.
Conosceva quelle famiglie che faticavano a mettere insieme un pasto al
giorno e che d’inverno spesso dimoravano in case dove non vi era differenza
di temperatura tra esterno e interno.
Sapeva il nome di tutti quei bambini e bambine che a scuola dovevano
risparmiare anche la grafite della matita stando attenti a non commettere
errori per non doverli cancellare e correggere e il temperino era un lusso
troppo dispendioso per poterselo permettere.
Era questo un segreto di cui tutti erano a conoscenza ma che nessuno aveva
mai osato rinfacciare, una tacita tregua fra poveri.
In quei libretti prendevano vita alimenti, medicinali, maglioni, calze, guanti
cappelli, quaderni che coloro che ne avevano maggior bisogno potevano
ricevere in bottega senza sborsare nulla, ci aveva già pensato il Comune a
saldare il debito di carità in capo a tutti i cittadini, indipendentemente che
questi ne fossero o meno consapevoli.
L’unico suo cruccio era che qualcuno che ne avesse più bisogno non potesse
vedere iscritto il suo nome nei libretti della povertà, i fondi erano quello che
erano anche se qualche volta una mano anonima ma caritatevole donava ai
libretti una cifra sincera da girare ai più poveri.
Li fece passare tutti e meccanicamente stilò il bilancio rispetto a quanto
ammontavano le uscite e quale margine vi fosse ancora da impegnare,
perché la lista dei bisognosi non accennava mai ad esaurirsi completamente.
Il riscontro fu fortunatamente positivo.
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Riaprì il cassetto, rimise tutti i libretti al loro posto e in buon ordine, richiuse a
chiave e si abbandonò per un attimo sulla sedia mentre le sue labbra si
dischiudevano in un sorriso leggero.
Chiuse gli occhi e con la memoria ritornò a quel giorno in cui vide per la prima
volta il vecchio archivio del comune perfettamente preservato, in un decrepito
armadio era conservata un’altra pila di piccoli libretti grigio-azzurri né aprì
alcuni e subito fu attratto da una riga dove era scritto, con inchiostro turchino
il suo cognome, era la riga che corrispondeva al suo bisnonno.
Il campanile distratto batteva già le due quando, chiusa la porta del comune
dietro di se, si affrettò a passo spedito verso casa.
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Germania Mario era ormai pronto, sarebbe partito domani nel primo pomeriggio,
destinazione finale Germania, la terra degli alleati.
Allora lavorava già da più di tre anni, faceva il falegname per l’esattezza ed
era anche bravo, il lavoro gli piaceva e la volontà e l’impegno non gli erano
mai mancati.
In paese aveva saputo che chi si offriva volontario poteva essere selezionato
per andare a lavorare nella Germania del terzo Reich, ma a lui di questo poco
importava quello che gli interessava davvero era che lo stipendio era buono,
o almeno così dicevano i racconti di chi ci era stato.
E poi era giovane e quando si è giovani si è sempre pronti a fare le valigie e a
partire, per dove non ha molta importanza.
La cosa più difficile era stata convincere i suoi genitori ma l’alternativa
sarebbe stata quella di partire, a breve, per un fronte di guerra, infatti
compiuti i diciotto anni e senza avere nessun’altra possibilità di scelta,
l’avrebbero chiamato alle armi e spedito chissà dove.
Iniziò così quella che sembrava una semplice avventura, una scommessa di
gioventù per cercare altrove quello che non si era ancora accorto di avere
proprio sotto casa.
Accompagnato dalle raccomandazioni di tutti, da una piccola valigia di
cartone marrone riempita con tutti i suoi panni e con in tasca i suoi pochi
averi, senza alcun pensiero ne presentimento, salì convinto sul treno verso
Brescia lasciandosi alle spalle la famiglia, il paesello e tutte le altre
preoccupazioni vane.
Viaggiò come un signore in quello spazioso e luminoso vagone di terza
classe, ad onor del vero quella era la seconda volta in vita sua che gli era
capitato di essere ospite delle Ferrovie dello Stato.
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Il treno, trainato da una sbuffante locomotiva, anche se stracarico di
viaggiatori e di militari che si spostavano verso i fronti, era incredibilmente in
perfetto orario.
Fecero la prima fermata ad Innsbruck, in Austria, dove cambiarono treno
salendo sul convoglio diretto a Berlin, come stava scritto a caratteri cubitali
sul cartello giallo attaccato con due ganci arrugginiti sulla fiancata del
vagone.
Ci volle tutta la notte per arrivare, alle prime luci del giorno, in Germania, se
ne accorse leggendo i nomi delle stazioni che il convoglio attraversava ogni
volta rallentando per poi fermarsi sulla banchina affollata di viaggiatori e di
soldati con le più svariate uniformi.
Insieme a molti altri compagni di viaggio italiani scesero a Nürnberg e qui
trovarono ad aspettarli alcuni funzionari che, dopo aver fatto un primo
appello, uno di loro parlava fortunatamente un dignitoso italiano e dopo aver
comunicato alcuni obblighi da osservare strettamente, li condussero ad un
altro treno che sembrava aspettasse solo loro per muoversi.
Era, questo, un treno diverso da quello che li aveva condotti lì, molto più
piccolo con pochi vagoni di colore verde dove sedevano persone che, a
giudicare dall’abbigliamento, potevano essere contadini o tuttalpiù fattori,
comunque gente abituata alla vita semplice di campagna senza tanti fronzoli
o pretese.
Sembrava che fossero abitanti di un paesino che erano stati in città per
sbrigare qualche faccenda o per partecipare a un mercato e ora stanchi per
l’alzataccia tornavano meritatamente verso casa.
Dopo numerose fermate dove in fila ordinata e silenziosa scesero molti dei
passeggeri, arrivarono in un piccolo paesino di campagna.
Scesi dal treno e usciti dalla stazione, furono accompagnati da alcuni
funzionari che li attendevano alla banchina, fino a un semplice edificio chiaro
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in pieno centro, dove furono fatti accomodare in piedi in una enorme stanza
quasi vuota e mal illuminata.
Tutto sembrava nuovo a Mario, c’era una strana atmosfera, aveva
l’impressione che qualcuno lo stesse osservando dalla grande porta a vetri
che si apriva su un lato della stanza, attraverso cui si intravedevano diverse
persone indaffarate che entravano ed uscivano senza sosta da quello che
sembrava essere il retro dell’edificio
Dopo altri dieci minuti uno stravagante gruppo di persone, per la maggior
parte donne, oltrepassata la porta a vetri si piazzarono di fronte a loro senza
dire alcuna parola.
Poi iniziarono a indicare il loro gruppo scegliendo uno ad uno i lavoratori che
potevano loro interessare.
Incredibile, pensò Mario, sembrava di stare al mercato del bestiame.
Bestie, compratori e mediatori si agitavano rumorosamente per ottenere il
“capo” migliore o più adatto alle esigenze di ciascuno.
Il primo ad essere “ selezionato” fu Franceschino, un tale che abitava in un
paese vicino al suo e che aveva incontrato sulla tradotta, se lo portarono via
due suore vestite in bianco e nero che, compilate in fretta alcune carte
guadagnarono la porta a vetri scomparendo in quello che doveva essere un
cortile interno.
Quando fu il suo turno, venne scelto da una strana signora che discusse
animatamente con uno dei funzionari, sempre presenti, in apparenza perché
altri “lavoratori” erano stati già assegnati senza rispettare il suo turno di
prelazione.
Mario rimase come inebetito, si era immaginato un trattamento diverso e
soprattutto incominciava a pentirsi della sua decisione, o per lo meno gli
venne spontaneo bollarla subito come “avventata”.
La signora in questione firmò velocemente le sue carte e condusse Mario
fuori dal paese finché arrivarono dopo una buona mezz’ora di cammino in
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una fattoria isolata in mezzo a una sconfinata campagna. La donna, scoprì
più tardi, era rimasta da sola con tre bambini in tenera età, il suo consorte,
soldato della Wehrmacht, era impegnato sul fronte orientale e tutti i lavori
della fattoria e delle terre intorno erano adesso diventate di sua competenza.
Ora poiché da sola non avrebbe mai potuto farcela, lo stato le offriva la
possibilità di impiegare uno o più lavoratori stranieri in cambio della
corresponsione di un salario che non coincideva certo con quello medio di un
bracciante tedesco ma ne era ben al di sotto.
A Mario fu consegnato l' "Arbeitsbuch fur Auslander" ( Libretto di lavoro per
stranieri ), che indicava la mansione e il luogo dove veniva prestato il lavoro
oltre alla cartella di assicurazione contro gli infortuni, alla cartella per le tasse
sui redditi da lavoro dipendente e ad una tessera dell'ufficio del lavoro per
stranieri che valeva anche come documento di riconoscimento per muoversi
liberamente in tutta la Germania.
Era diventato a tutti gli effetti un volonteroso lavoratore per il glorioso terzo
Reich impegnato nella conquista dell’Europa.
Quello che i suoi uomini non potevano adempiere perché si trovavano in
prima linea, era invece demandato a Mario e a molti altri uomini che si
trovavano sparpagliati per tutta la Germania in compagnia di un numero
sempre crescente di prigionieri di guerra che tradotte stracolme portavano
verso il paese da ogni fronte dove l’esercito combatteva.
Certo non si trovava male, aveva il suo stipendio, vitto e alloggio gratuito ma
tuttavia non si sentiva affatto contento, serpeggiava dentro di lui un misto di
malinconia e rimpianto che la lontananza da casa tendeva ad amplificare, la
sua inquietudine andava crescendo giorno dopo giorno.
Il lavoro nelle proprietà della signora era faticoso e pesante, in pratica
incominciava a persuadersi sempre di più che aveva voluto fuggire dal suo
paesello per non essere condannato a fare il contadino a vita ma ora si
trovava a vivere la stessa condizione e per giunta in un paese a lui straniero
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e che di sicuro non nutriva molta simpatia nei suoi confronti, anche se la cosa
era di fatto ormai diventata reciproca.
Giocò allora la sua ultima carta. Il contratto che aveva in precedenza stipulato
gli riconosceva il diritto, se non fosse stato soddisfatto della sistemazione, di
chiedere una nuova assegnazione.
Informò la signora della sua intenzione e ottenuto a fatica il suo assenso,
venne riportato nella sede del primo collocamento e riammesso alla prima
sessione di selezione utile.
Non passò nemmeno una giornata che venne nuovamente opzionato da una
giovane ragazza che era accompagnata da un vecchio uomo, probabilmente
il padre, lo dedusse dai tratti somatici dei due che si assomigliavano come
due gocce d’acqua.
Mario ringraziò e seguì il nuovo datore di lavoro con la speranza che questa
nuova sistemazione fosse migliore della precedente.
L’uomo era proprietario di molti terreni e di un annesso mulino nelle vicinanze
della città di Ingolstadt nel land della Baviera settentrionale sulle rive del
fiume Danubio.
Il suo nuovo compito era quello di controllare il funzionamento del mulino, in
particolare doveva occuparsi anche della manutenzione della parti
meccaniche.
La nuova famiglia si dimostrò in effetti migliore della prima, era composta dal
vecchio uomo, dalla moglie e da due ragazze che avevano solo qualche anno
in meno di Mario.
Nella fattoria erano impiegati anche diversi prigionieri di guerra polacchi che
facevano gruppo a se conversando nella loro strana lingua dove sembrava
che le vocali non volessero mai immischiarsi con le consonanti.
Fu allora che Mario cominciò a soffrire di una strana malattia che non aveva
mai conosciuto prima, era una patologia particolare: la nostalgia.
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Ebbe prima nostalgia della sua lingua, ormai erano più di sei mesi che era lì e
si era reso conto con amarezza che non aveva più scambiato una parola di
italiano da quasi duecento giorni, d'altronde non poteva pretender che lassù
qualcuno potesse conoscere la sua madre lingua.
A dir la verità gli mancava anche il dialetto, quella splendida forma idiomatica
che aveva appreso fin da piccolo e che la nonna usava sempre per
descrivere, con esilaranti battute, avvenimenti epocali o semplici passaggi di
stagione sintetizzandoli in detti e motti apprezzati da tutti gli uditori,
specialmente dai nipoti più piccoli.
Poi gli mancava l’affetto dei genitori, si era fermato più volte a pensare a
loro, li immaginava tutti insieme in cucina mentre a tavola si interrogavano su
quando sarebbe tornato a casa.
All’inizio si erano scritti diverse lettere ma ora che la situazione bellica stava
peggiorando anche le poste non consegnavano con celerità e qualche volta il
servizio era sospeso a tempo indeterminato.
Solo una cosa mitigava questa sua sottile malinconia, un sentimento
crescente di simpatia che Anneli, una delle figlie del fattore, non perdeva
occasione per manifestargli.
Anneli doveva avere uno o due anni in meno di lui, bionda e con occhi
azzurro cielo non passava certo inosservata anche se le preoccupazioni del
momento non lasciavano molto spazio al romanticismo.
Anche Mario se ne invaghì e ormai gli occhi dolci che la ragazza gli faceva ad
ogni occasione non potevano più lasciarlo indifferente.
In altre circostanze si sarebbe presto arreso a cupido ma in quella condizioni
non poteva permetterselo perché, se qualcuno se ne fosse accorto, per lui
sarebbe stato un rischio troppo grande.
Giravano anche voci che alcuni lavoratori volontari erano stati passati per le
armi perché scoperti in dolce compagnia delle ragazze locali. Infatti non era
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loro permesso stringere alcun legame con la popolazione , men che meno
con quella femminile.
Il loro solo compito era lavorare e non arrecare alcun disturbo, anonimi
fantasmi da fatica.
La sua posizione era di fatto peggiorata. Con il tradimento dell’Italia, dopo il
tragico armistizio dell’otto settembre millenovecentoquarantatre e con
l’avanzare del fronte fin dentro i confini della Germania, egli era diventato di
fatto solo uno schiavo e i controlli si erano fatti molto serrati, non poteva
spostarsi dal luogo di lavoro e soprattutto non poteva più volontariamente
chiedere di far ritorno a casa, era in tutto e per tutto un prigioniero.
La guerra incominciava a incalzare anche da quelle parti, i bombardamenti si
facevano sempre più frequenti e gli spostamenti delle colonne di truppe e
mezzi corazzati erano sempre più evidenti.
Proprio ieri, mentre si trovava nel bosco, era mezzo morto dallo spavento
quando un bombardiere, probabilmente americano, era sceso a bassa quota
sopra il fiume prima di sganciare un grande involucro metallico.
Sulle prime pensò si trattasse di una bomba, ma quando cadde con un tonfo
sordo al limitare della macchia senza esplodere, capì che doveva trattarsi di
qualcos’altro.
Dopo che l’aereo si fu allontanato raggiunse il luogo della caduta e trovò un
enorme contenitore di metallo probabilmente un serbatoio ausiliario di
carburante ormai vuoto.
I suoi compagni di lavoro polacchi gli avevano fatto capire a gesti che
qualcosa stava per succedere e che forse sarebbero stati liberati.
Anche se non se ne rendeva ancora conto ormai erano più di due anni che
Mario era lì, aveva imparato anche a masticare un po’ di tedesco e comprese
subito, quando il suo datore di lavoro lo chiamò insieme con i prigionieri
polacchi e li rinchiuse nella stalla intimandogli di non muoversi, che qualcosa
di strano stava accadendo.
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Passarono la dentro una notte intera e poi, il mattino successivo, sentendo
rumore di mezzi e voci di una moltitudine di uomini, voci che non parlavano la
lingua tedesca, ruppero la serratura della stalla ed uscirono allo scoperto.
Dei loro “padroni” non sembrava esserci più alcuna traccia, la casa appariva
disabitata e i rumori e le voci che prima erano in sottofondo in lontananza si
facevano sempre più vicini.
Non fecero in tempo a decidersi sul da farsi perché un gruppo di uomini
armati in divisa verde li circondò intimandogli, a gesti, di tenere le mani ben in
vista e di portarle lentamente sopra la testa.
I prigionieri polacchi che qualche parola in lingua inglese la conoscevano
spiegarono la loro condizione di prigionieri di guerra e furono subito portati via
verso un mezzo che li aspettava.
A Mario che invece non spiccicava una parola di inglese parve normale dire
che era italiano.
Uno dei soldati si voltò, lo fisso negli occhi e si avvicinò con il mitragliatore
spianato per osservarlo meglio.
A Mario scendevano, lungo la schiena, interminabili gocce di sudore.
“Di quali paese venire, italiano?” disse il soldato con un accento strascicato.
Era la prima volta che dopo due anni sentiva pronunciare parole nella sua
lingua, rimase come paralizzato e le parole non si concretizzavano sulla sua
bocca, riusciva a pensarle ma non a farvi corrispondere un suono.
Il fante verde gli ripeté insistendo per altre due volte la stessa domanda
sempre senza abbassare il mitra.
Mario proruppe in un “da Cremona” che scucì un sorriso dalle labbra del
soldato. “Anche io sono di Italia, mio padre venuto da Paceco Sicilia, io te
capire abbastanza. No paura, essere libero now (ora), noi Americani.”
A Mario scappò una lacrima proprio mentre l’italoamericano abbassava il
mitra e gli dava una pacca sulla spalle. Sembrava impossibile! Tra tutti gli
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alleati che si potevano trovare laggiù doveva trovare proprio un
italoamericano.
Mario rimase nella fattoria per altre due settimane perché la zona non era
ancora “safe” (sicura) come dicevano gli Americani.
Poi decise comunque di incominciare il lungo viaggio verso casa, tra villaggi
distrutti, truppe di occupazione, fame, morte e miseria ci mise più di un mese
per tornare a Corte.
Quando arrivò a casa non aveva neanche più scarpe ai piedi, in tasca però
custodiva duecentosette reichsmark, tutti i risparmi di due anni di lavoro.
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Cefalonia Quando anche l’ultima cima dell’imbarcazione fu liberata dall’ormeggio la
caldaia, già in pressione, manifestò pronta tutta la sua potenza spingendo
alto nel cielo un denso sbuffo di fumo dal colore grigio scuro.
Impercettibilmente il bastimento si staccò dalla grigia banchina puntando la
prua verso la stretta imboccatura del porto stracolmo di navigli, la notte si
preparava a proteggere quel viaggio stendendo la sua propizia ombra scura
sul mare.
A bordo vi erano poche luci accese, solo quelle indispensabili per assicurare
la lettura degli strumenti per la navigazione, sopra in plancia, dove sedeva
attento il capitano.
Giuseppe si sedette tranquillo su una panca a prora e, mettendo mano al
taschino della camicia grigioverde, tirò fuori un pacchetto nuovo nuovo di
Macedonia extra, ne estrasse lentamente una sigaretta e se la accese con
uno zolfanello proteggendone la fiamma con il palmo chiuso dell’altra mano.
Domani sarebbe stato il primo giorno di estate e lui lo stava aspettando
fumando seduto sul ponte delle regia nave Garigliano, una vecchia cisterna
per il trasporto di acqua potabile da millequattrocentocinquanta tonnellate di
stazza che dopo aver preso il largo da Bari faceva ora rotta verso la vicina
Grecia.
La notte era chiara e ben visibili le stelle, mentre un vento teso cominciava a
soffiare deciso man mano che l’imbarcazione si allontanava veloce dalla terra
ferma.
Era stato qualche giorno a casa in licenza e aveva potuto abbracciare la sua
sposa e i suoi due bambini.
Ora stava ritornando a Cefalonia. Un militare di carriera, quale lui era, non
aveva certo tempo per farsi prendere dai sentimentalismi ma istintivamente
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sentiva che quel periodo breve di serenità, appena trascorso con la sua
famiglia, gli sarebbe servito per i tempi a venire.
Cercò di ripercorrere ogni momento che aveva vissuto a casa, memorizzò i
visi dei bambini, che aveva trovato molto cambiati, ma si sa bastano pochi
mesi per scoprire nuove fattezze in chi ha solo il dovere di crescere ogni
giorno.
Fissò nella memoria ogni particolare della sua sposa, non che se ne fosse
dimenticato, ma gli mancava molto quella consuetudine quotidiana che si
crea in una famiglia unita.
Nel fare tutto ciò non riuscì a resistere alla tentazione di guardare le loro foto,
che portava sempre gelosamente con se in una tasca interna della giacca,
con la complicità di una minuta lampadina del corridoio che conduceva alla
cambusa.
Questa fu l’ultima cosa che fece prima di ritirarsi per riposare su un vecchio
telo mimetico appoggiato in un angolo ben riparato sottocoperta.
La notte fortunatamente passò abbastanza tranquilla e senza ombra di aerei
o navi nemiche all’orizzonte.
La mattina presto la nave era già in vista di Corfù dove sarebbe dovuto
sbarcare di li a poco.
Raccolse allora tutti i suoi bagagli e si preparò a godersi dal parapetto lo
splendore delle coste dell’isola illuminate dai primi raggi obliqui del sole.
Ci sarebbe voluta ancora almeno un ora prima di arrivare in porto, scambiò
nel frattempo due parole con gli altri commilitoni compagni di viaggio e
l’argomento cadde subito sulla situazione attuale della guerra.
Le operazioni non andavano molto bene, la Grecia, che dapprima era
sembrata una preda facile, o così almeno aveva detto da Palazzo Venezia
anche il Duce in persona, si era invece rivelata con il trascorrere dei giorni un
osso duro e la campagna di conquista segnava tragicamente il passo.
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I partigiani greci erano sempre più forti e ben armati e incominciavano a
rappresentare un serio pericolo anche dopo l’intervento di supporto degli
alleati tedeschi che avevano inviato mezzi e truppe ad Atene e in tutto il
peloponneso.
Gli italiani avevano il compito di tenere le isole di Corfù e di Cefalonia, in
particolar modo dovevano proteggerle da ogni tentativo di invasione che gli
inglesi stavano preparando da sud, secondo quanto aveva comunicato il
controspionaggio.
Sbarcato a Corfù si presentò prima al presidio di divisione per conoscere se
vi fossero ordini o messaggi da recapitare al suo comando, qui trovò alcuni
vecchi commilitoni con i quali si fermò a lungo a parlare ancora della sua
recente licenza e di come andassero le cose in Italia, per molti uomini era
passato più di un anno dall’ultima volta che avevano potuto usufruire di un
permesso per poter tornare a casa.
Ritirò solamente un plico giallo sigillato destinato a un ufficiale del suo
battaglione, altro non c’era.
Tornò quindi al porto da dove sarebbe partita, di li a poco tempo, la nave che
prima di sera l’avrebbe portato a Cefalonia.
Qui comprò anche della frutta fresca da un ragazzino che trainava un carretto
pieno di merce e che aveva imparato anche alcune parole di italiano.
Prima del calare del sole arrivò finalmente a destinazione, gli ci volle poi
ancora un ora abbondante di viaggio per raggiungere Argostoli, sede del
comando generale italiano.
La situazione nell’isola era di stallo, le truppe come da disposizioni dei
comandi italiano e tedesco, presidiavano i punti strategici in modo da essere
pronte a rispondere ad un eventuale attacco che gli inglesi e i loro alleati
potevano sferrare da un momento all’altro. La guarnigione italo tedesca
poteva contare su poco meno di quattordicimila uomini equipaggiati con
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diversi cannoni, sia mobili che in posizione fissa fortificata, e con una decina
di mezzi corazzati.
Non vi era una copertura aerea direttamente “residente” nell’isola ma si
poteva contare su più di trecento velivoli di stanza nelle basi sulla terraferma
a non più di mezz’ora di volo.
Il clima fra le truppe italiane e tedesche era disteso, spesso svolgevano
insieme esercitazioni e addestramenti comuni.
I soldati italiani avevano invece maggiore confidenza con gli abitanti greci
dell’isola, mentre i tedeschi si mantenevano più isolati.
Poi nella giornata del venticinque luglio millenovecentoquarantatre la radio
trasmise la notizia che il regime fascista era caduto, Mussolini arrestato, ed
un nuovo governo era stato formato.
I comandi italiani erano in fibrillazione, non avevano idea di cosa potesse
significare questo mutamento politico improvviso, poi fortunatamente la
catena di comando e controllo dimostrò di essere ancora intatta e efficace.
Gli ordini erano che nulla era mutato, le operazioni di guerra proseguivano al
fianco degli alleati tedeschi.
Questi fatti furono a lungo oggetto di dispute e discussioni, anche accese, tra
ufficiali superiori, tra sottufficiali e persino tra i militari di truppa.
La speranza che le animava era quella che la guerra potesse volgere al
termine, tutti potevano, insomma, tornarsene finalmente a casa, o almeno
questo era quelli che tutti si auguravano.
Quel venticinque luglio fu però la prova generale di quello che accade poi in
settembre.
Nell’intervallo tra fine luglio e fine agosto i nostri si accorsero che i tedeschi
avevano cominciato, anche se con discrezione, a controllare da presso gli
alleati italiani.
Anche i voli degli aerei si erano moltiplicati, con l’unica motivazione che
bisogna aumentare la ricognizione per non farsi cogliere impreparati dal
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nemico, ma questa scusa nessuno se la era bevuta, qualcosa
misteriosamente non tornava.
In tutto questo clima di sospesa incertezza Giuseppe cercava di capirne di
più interrogando gli ufficiali che conosceva bene da molti anni, ma questi
rimanevano abbottonati consigliando di non abbassare mai la guardia e di
non venire mai meno ai propri doveri senza esitazioni in sostanza bisognava
mantenersi pronti.
Nonostante queste rassicurazioni nel pieno splendore della calda estate
greca le preoccupazioni incominciarono ad aumentare e con esse gli
inevitabili dubbi.
Ci si mise anche la posta militare che finora era sempre stata puntuale.
Dal mese di agosto incominciava ad arrivare a singhiozzo e quel prezioso filo
di collegamento con tutti gli affetti rimasti in patria si sfilacciò aumentando
l’ansia perché non si riusciva a sapere cosa accadeva laggiù nell’Italia che
sembrava sempre più travagliata e lontana.
Poi proprio in Italia avvenne che a Cassibile venne firmato il documento che
avrebbe rappresentato per tutti gli uomini fermi a Cefalonia il tragico inizio
della fine.
“Otto settembre millenovecentoquarantatre, a partire da oggi la nazione
italiana si impegna a non combattere contro gli angloamericani”, così
recitavano i dispacci che i comandi si apprestavano a diramare a tutti i
capisaldi sparsi per i diversi teatri di operazioni in cui erano impegnate le
truppe italiane.
Nei fatti quel documento significava non un armistizio ma una resa immediata
e incondizionata.
Quando alla sala cifra venne portato il messaggio appena arrivato, tutti, alla
presenza della più alta autorità in comando, Generale Antonio Gandin,
rimasero in trepida attesa della decifrazione e della lettura ufficiale.
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Quando il messaggio arrivò nelle mani del Generale questi lo lesse accigliato
senza pronunciare parola.
In esso nulla si diceva in merito al comportamento da assumersi.
I tedeschi che erano stati informati prima e più dettagliatamente di quanto
avvenuto chiesero agli Italiani, per voce del loro comandante in capo
sull’isola, di deporre le armi e di evitare ogni resistenza o atto ostile nei loro
confronti.
Il Generale non avendo ben chiara la vera natura del messaggio in ordine al
da farsi tergiversò in attesa di ottenere una risposta chiara e precisa in merito
ai quesiti che aveva già inviato al comando in Italia.
In sostanza si delineavano tre possibilità: arrendersi e consegnare le armi,
continuare a combattere al fianco dei tedeschi, non arrendersi e combattere
contro i tedeschi.
L’esperienza di lungo comando lo aiutò nel comprendere subito, dagli ordini
contraddittori che continuava a ricevere, quale fosse il destino suo e degli
uomini posti sotto la sua responsabilità.
Realizzò lucidamente che solo a lui sarebbe spettata la soluzione di quella
situazione e che la madre patria, anche volendo, si trovava al momento
impossibilitata a fornire qualsiasi tipo di aiuto o di appoggio.
Fece allora una valutazione prettamente strategica considerando che la
guarnigione tedesca era meno di un quinto da un punto di vista numerico
rispetto a quella italiana anche se meglio equipaggiata.
L’effetto sorpresa avrebbe inoltre giocato a loro favore però sarebbe stata
solo un questione di tempo, quello necessario ai tedeschi per riorganizzarsi e
contrattaccare con ogni mezzo a disposizione e senza alcuna esclusione di
colpi.
Loro non avevano copertura aerea mentre i tedeschi potevano mettere in
campo centinaia di aerei, inoltre sulla terraferma erano pronti almeno
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duecentomila unità di pronto impiego che avrebbero potuto arrivare
celermente sull’isola.
Sui nuovi alleati e sulla resistenza greca non si poteva fare troppo
affidamento, per la lontananza dei primi e per la sparuta presenza dei
secondi.
Cercò allora di prendere decisioni comuni e condivise con i suoi ufficiali e qui
scoprì, con sorpresa che la maggioranza di essi era ormai decisa ad opporsi
in armi all’ex alleato, conquistare tutta l’isola e poi resistere attendendo
l’arrivo degli angloamericani.
Tutto questo andò avanti per più di una settimana durante la quale si
susseguirono incontri frenetici con il comando tedesco per cercare di
negoziare una resa dignitosa e soprattutto incruenta.
Nel frangente in diverse scaramucce tra gli opposti schieramenti si contarono
i primi caduti da entrambe le parti.
Gli stessi uomini, complice la tensione e l’incertezza del momento,
cominciarono a non obbedire più agli ordini di non prendere l’iniziativa
aprendo il fuoco anche quando non era necessario o opportuno, scatenando
quindi la reazione del nemico.
Ci volle tutta la diplomazia dei comandanti delle guarnigioni per riuscire a
impedire per ora la battaglia aperta.
In tutto questo Giuseppe si adoperò sempre per cercare di tenere unito il suo
reparto rispettando le consegne e cercando di non rispondere ad alcuna
provocazione del nemico, dalla sua aveva la grande esperienza maturata in
quasi vent’anni di carriera.
Anche se incominciava però a presagire che le cose si stavano mettendo
male.
Solo verso la metà di settembre la situazione precipitò, e questa volta
definitivamente.
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Il generale, ormai senza più nessun contatto con l’Italia decise l’opzione
militare di contrapporsi combattendo ai tedeschi.
Tutti i reparti ricevettero l’ordine di attacco e la battaglia cominciò in tutta
l’isola.
Nonostante la superiorità numerica, le perdite furono numerose poiché i
tedeschi erano riusciti nel frattempo ad avere rinforzi e il supporto incisivo
della aviazione.
I nostri, male armati e con riserve di munizioni gravemente carenti,
cominciarono a soccombere.
Interi reparti ormai erano completamente allo sbando.
Il Generale, definitivamente convinto dell’impossibilità di volgere a loro favore
la battaglia, dichiarò allora la resa e ordinò agli uomini di consegnare le armi
e arrendersi al nemico, in cambio chiese di ricevere un onorevole trattamento
così come garantito dalle convenzioni internazionali.
Ma qui avvenne l’epilogo che nessuno di loro avrebbe mai potuto
immaginare.
Poiché secondo i rapporti degli ufficiali germanici, prontamente inviati a
Berlino, i soldati italiani furono indicati come veri e propri traditori, Hitler in
persona diede l’ ordine di procedere all’eliminazione tramite fucilazione di tutti
i prigionieri catturati.
E questo sistematicamente avvenne.
Il primo della lista fu naturalmente il Generale Antonio Gandin che si presentò
a testa alta al plotone di esecuzione che lo attendeva dietro la casetta rossa
che si affacciava sul mare.
Giuseppe invece andò incontro inconsapevole al proprio destino la mattina
dopo, ventitre settembre.
Non avendo avuto alcuna notizia della resa, a causa dei collegamenti e delle
comunicazioni inesistenti fra il comando e le truppe sul terreno, si trovava a
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mantenere la sua posizione con la batteria che gli era stata affidata,
nonostante le munizioni fossero ormai quasi esaurite.
Come sempre accade in questi frangenti, la morte chiese di saldare il suo
debito nello scorrere di un istante, se ne incaricò un aereo tedesco che
individuata la batteria la centrò in pieno con il suo carico di bombe.
Non si contarono superstiti.
Due notti prima, ventuno settembre, nel silenzio della sua stanza da letto, sua
moglie si era svegliata di soprassalto perché una lontana zia, morta da
tempo, ma che sorrideva per sempre serena dalla foto appoggiata sopra il
comò, le era apparsa in sogno e le aveva consigliato di cercarsi al più presto
un lavoro perché Giuseppe non sarebbe mai più ritornato a casa.
La donna seppur spaventata non si preoccupò più di tanto della strana
apparizione.
Per contro decise che la mattina successiva, avrebbe scritto una lunga lettera
al marito dove avrebbe fatto cenno anche di questa ridicola apparizione della
zia foriera di tristi notizie.
Il giorno successivo così fece, scrisse più di due pagine fitte fitte, piegò il
foglio in due parti, lo introdusse nella busta, la sigillò con estrema cura e
appoggiò la lettera sul comò coprendo, inavvertitamente, la vista della foto
della zia sorridente.
Quasi presagendo che nessun avrebbe potuto leggerla, quella lettera non la
spedì mai.
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Il sovversivo Faceva il suo mestiere con grande passione, era fiero e orgoglioso
della sua divisa turchina di conducente di tram.
Milano non aveva segreti per lui perché, seduto sulle quindici tonnellate del
suo magnifico mezzo che si muoveva agile su ruote metalliche, aveva
percorso tutte le linee che portavano dal centro alle periferie, dalla nuova
Stazione Centrale al Duomo dai pinnacoli immacolati, dalla magnifica Scala
fino alle più grigie periferie così dense di nebbia nei mesi invernali da essere
tutte uguali e tristi allo stesso modo.
La macchina che preferiva era il millecinquecento, meglio conosciuto come il
ventotto, dall’anno in cui venne immesso in servizio, realizzato dalla
Carminati e Toselli era una vettura a carrello docile e potente allo stesso
tempo, componeva una famiglia di cinquecento fratelli che sferragliavano per
le vie di tutta la città eleganti e capienti.
Ne aveva fatto di strada da quando, giovanissimo apprendista era salito a
Milano da Corte perché voleva conoscere il mondo e imparare un mestiere!
Aveva fatto un giorno quella domanda quasi per caso spinto dalla volontà di
cercare sempre una sistemazione migliore.
E il destino gli aveva sorriso quando, nella piccola stanzetta del palazzone di
ringhiera sui navigli dove aveva eletto domicilio, aveva aperto quel
telegramma sdrucito con cui gli si comunicava che era stato ammesso al
corso per aspiranti conduttori di mezzi su rotaia.
Aveva superato brillantemente le selezioni e in un inverno del millenovecento
trentotto aveva ottenuto il brevetto di guida.
Da allora fasciato nella sua ordinata divisa saliva sul tram nel deposito
Messina e accompagnava per la linea i passeggeri che scendevano e
salivano ad ogni fermata.
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Del paese aveva sempre però molta nostalgia e non mancava mai di tornarvi
ogniqualvolta aveva un fine settimana libero o un doppio turno di riposo per
aver fatto in servizio giornate festive.
Gli piaceva incontrare soprattutto parenti e famigliari perché, essendo di
carattere schivo e introverso, non gli si addiceva l’ambiente animato e fumoso
delle osterie dove qualcuno di sicuro lo avrebbe voluto interrogare su come
fosse comodo e facile vivere a Milano e con un bel stipendio fisso “sudando”
seduto su uno scranno di fine legname per sole otto ore al giorno!
Quello che però sempre portava dentro di se era la profonda commozione
che gli procurava il contatto con la miseria, e in paese ce n’era ancora tanta.
Tanto era impeccabile e bello nella sua divisa di tramviere tanto sembrava
trascurato e povero quando vestiva gli abiti borghesi.
Indossava solo abiti che denunciavano l’ingiuria degli anni oltre ogni misura,
giacche disseminate di rammendi, camicie senza ormai più polsini o colletti
degni di chiamarsi tali, scarpe che da molto più di venticinque quaresime non
avevano ricevuto una risuolata, e se poi doveva soffiarsi il naso l’impresa era
ardua cercando un pezzo di stoffa sufficiente fra i mille buchi che si aprivano
nel suo fazzoletto consunto.
Sembrava l’emblema della povertà estrema.
A Milano era venuto in contatto con nuove idee che recitavano che gli uomini
erano tutti uguali.
A onore del vero quel concetto l’aveva già appreso dal parroco che più volte
ne aveva parlato nelle sue interminabili omelie, ma quando si è bambini,
anche se le cose si possono intuire e capire, spesso non si hanno i mezzi per
realizzarle.
Cominciò allora a frequentare assiduamente e di nascosto quegli ambienti
dove nuovi ideali venivano condivisi, si parlava di libertà di espressione, di
uguaglianza, di diritti e di mutuo soccorso e tutto ciò in un paese dominato da
vent’anni dalla dittatura e piegato e affamato da una guerra mondiale
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suonavano come un invito palese a prendere decisioni che avrebbero
cambiato il destino di molti.
Si creò insomma una pericolosa fama di sovversivo, ma l’interpretazione del
tutto originale e personale che diede a quella dottrina era davvero speciale.
Egli unì l’aspetto politico della questione con l’aspetto sociale.
Meno evidente il primo ma sorprendentemente concreto il secondo.
Decise che tolto quello che gli serviva per vivere il resto dei suoi averi era per
lui superfluo ma allo stesso tempo per altri indispensabile.
Non tenne mai in tasca più di quanto gli servisse e si sbarazzò senza
rimpianti di tutto il resto, facendolo avere a coloro che riteneva ne avessero
avuto estremo bisogno.
Cominciò a sperimentare questa sua filosofia di vita dando tutto quello che
poteva ai nipoti, che erano una marea e che spesso soffrivano fame e
privazioni che il suo aiuto poteva non risolvere completamente ma
sicuramente alleviare.
Poi questo non gli bastò più perché, maturando la sua convinzione, comprese
che solo l’anonimato poteva garantire la neutralità delle sue azioni.
Cominciò allora a frequentare i negozi di alimentari dove erano di casa ricchi
e notabili cittadini milanesi e fingendosi anch’egli tale partecipò
economicamente all’acquisto delle quote dei pacchi per i poveri.
Era questa, una consuetudine che si perdeva nella notte dei tempi, tale per
cui, specialmente sotto Natale od altre feste importanti, le persone più
abbienti chiedevano di far preparare dei pacchi, di solito di alimentari, ma a
volte anche di abbigliamento, da recapitare ai più bisognosi.
Il costo totale veniva suddiviso in quote che ognuno dei benefattori
provvedeva ad acquistare. Si trasformò così in un San Francesco laico,
senza forse rendersene conto e la sua esistenza fu sempre improntata a
perseguire il suo obiettivo di aiutare il prossimo.
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Quando morì, poiché non si era preoccupato di lasciare dietro di se nessuna
stirpe, si incaricarono delle sue esequie i suoi nipoti più affezionati che
sempre aveva beneficiato delle sue donazioni.
Come indicato nelle sue disposizioni volle un funerale laico e soprattutto
frugale e sobrio così come era stato il suo stile di vita, i nipoti eseguirono
fedelmente le sue volontà, si permisero però di trasgredire ad una sola delle
sue volontà: lo avvolsero in uno splendido abito appena confezionato e gli
allacciarono ai piedi un paio di scarpe di cuoio nuove di zecca perché almeno
quest’ultimo viaggio lo facesse come un principe, non importa se dei poveri.
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Ringraziamenti
Carmine Nicola Bandera
Teresa Benedini Coppi
Elvina Bonvini
Annamaria Bova
Carmelina Bignamini
Gabriella Bravi
Pietro Chiodelli
Luigia Teresa Delai
Marco Gorini
Giuseppe Guadrini
Mario Manara
Vittorio Manini
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Serafina Marchi
Paola Nolli
Patrizio Renzi
Giovanni Romanenghi
Maurizio Romanenghi
Angelo Rossi
Marcella Volpi
Un grazie particolare per la loro disponibilità a
Anna Bertelli
Giannina Bruneri
Vilma Onesti
Rossella Rapazzoli
Luigi Rottoli
60
Un sentito ringraziamento per aver raccolto e
catalogato tutto il materiale fornitoci a
Anna Benetollo
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