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silenzio, che subito le riassorbiva, non erano xneno arte di quelle fissate per simboli grafici sul pentagramma? E che non il tempo le rifiutava, ma esse stesse respingevano il tempo, che nulla avrebbe aggiunto all'eternità, raggiunta nell'istante del suono?
Ma poichè si parla di pura forma, bilicata sull'equilibrio instabile d'una tecnica rischiosa, di forma compiuta in se stessa, incapace di contenuti, contradditoria a tutti i contenuti, come non indicare di tutte le celesti follie la più lucida tranquilla e bonaria, ma anche la più inguaribile, la più distaccata, la più australe: la tipografia? N elle vecchie esposizioni, onestamente dedicate alla Scienza e al Progresso, il Bodoni era molto riverito: e tutti, da ragazzi, l'abbiamo immaginato come un filantropo dedito a sfornare e distribuire senza posa il pane della scienza. Il bonario filantropo era, forse, di tutti, il più sofistico. Per lui l'espressione era soltanto misura. Nè importa sapere, che cosa misuri la sua pagina elaboratissima. Misura d'un ritmo senza suono, clessidra senza tempo, è l'arte del Bodoni. L'intervallo bianco tra due righe nere, l'arabesco d'una maiuscola, l'allinearsi pausato dei caratteri sono pura forma: dunque, pura poesia. E se non addito, di certo, il Bodoni all'imitazione dei tipografi moderni, che sarebbe come proporre agli scultori l'imitazione del Canova, quanto insegnamento, in questo ritmo della tipografia bodoniana, per quegli artisti d'oggi, che non credono di poter realizzare la loro umanità, se non nelle dimensioni monumentali della rettorica.
Da queste osservazioni, che non vogliono essere un contributo alla critica dei tre grandi che celebrate, io non saprei nè vorrei ricavare, qui, altra conseguenza che la conferma della mia premessa: che, cioè, nella storia della cultura italiana, Parma ha una coerenza che passa indubbiamente, senza interrompersi o deviarsi, per questi tre artisti. Passa e non si conclude: chè la nobile eleganza neo classica di questa città napoleonica e stendhaliana ci porgerebbe l'occasione di sviluppare, per l'urbanistica e l'architettura, concetti analoghi a quelli che indicammo. E poichè Giuseppe Verdi è, sebben del contado, parmense, mi piace concludere, constatando che l'atmosfera rarefatta e, talvolta, per certi polmoni, anche troppo ossigenata, delle culture sottili e delle tradizioni selezionate può dar luogo alle più feconde germinazioni e alle più lussureggianti fioriture creative.
Del resto, a chiarire la funzione di Parma nella cultura italiana e, cioè, il valore dell'italianità, che quella cultura coltivò e maturò per
i tempi propizi, basterà pensare al contributo essenziale che Parma ha dato all'unità d'Italia E si capisce, quando si ritorni con la mente alle premesse del mio discorso. Un fatto d'ordine politico determina il tono della varia spiritualità delle città italiane: l'essere state capitali, l'aver avuto diretti rapporti col mondo, anche e soprattutto, quando lo Stato non coincideva con la Nazione italiana e la politica automaticamente si riduceva a una esosa pratica poliziesca e fiscale. In quella imposta miseria morale, i vecchi municipi, le antiche tradizioni comunali riprendevano vigore, conservavano nelle culture locali gli argomenti e i motivi per le rivendicazioni imminenti; diventavano, insomma, il simbolo d'una libertà esule, perseguitata e combattuta, ma sempre inquietamente attesa, desiderata e preparata.
Ecco perchè, anche in questa solenne ora d'attesa per la nostra Nazione, il ricercare e ravvivare quegli argomenti e motivi non è esercitazione dilettantistica, ma concreta affermazione di primato della cultura ~ perchè è con questa e solo con questa, che i risorgimenti si fanno e gl'imperi si conquistano, si difendono, si potenziano e si liberano dalle soggezioni.
GIUSEPPE BOTTAI
PER LA XXII BIENNALE.
Questa XXII Biennale s'inaugura in un clima di raggiunta concordia nelle arti. Noi sappiamo, che l'arte intrapreIJ.de il suo cammino sicuro nel momento in cui le polemiche, che pur concorrono a irrobustire gli ingegni nella spinta essenziale delle idee, si tacciono e si compongono in un proposito di lavoro costruttivo. Anche per le arti appare valido l'insegnamento politico, secondo cui l'azione determina la dottrina.
Ma ogni età dell'arte, come ogni età politica, deve prima di tutto riscattare, dinanzi alla coscienza dei suoi uomini, le ragioni d'una intrinseca modernità, che riproponga costantemente un linguaggio di rinnovamento e d'anticipazione, pena la decadenza. D'altra parte, è ben presente al nostro spirito un ragionamento: ehe nulla d'assolutamente nuovo può esistere, a meno di cadere in un dilettantismo avulso dal tempo e dalla storia e, di per sè stesso, privo di forza creatrice e di persuasiva morale. Nel dilemma ci assiste e ci guida il nostro fermo proposito di intendere la tradizione come un perpetuo movimento di valori integrantisi a vi-
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cenda e scambievolmente garantiti dal risultato artistico, che non varia nella sua sostanza, mentre è diverso nella sua rappresentazione.
Sarebbe facile, oggi, dopo le polemiche degli ultimi anni, dopo gli inviti in pari modo esasperati ad un ritorno all'antico o ad un affidamento supino alla disperata e vana avanguardia, sarebbe facile stabilire, con romana sapienza, il punto d'incontro nel mezzo delle due intenzioni programmati che. Sarebbe facile; e, forse, troppo facile. Tuttavia, il lato attivo di queste battaglie dialettiche, che, comunque, non hanno distratto i nostri artisti migliori dal loro lavoro, è fornito dalla possibilità di chiarimento e da quella convinzione definitiva e unanimemente accettata, che all'arte s'arriva dopo una segreta elaborazione del passato con una aderenza non soltanto pubblica e non ' soltanto rettori ca al proprio tempo, con un'assimilazione intima e sincrona ai fatti del proprio tempo.
Al momento in cui, per eccesso di tutela o per malinteso amore, abbiamo udito rivolgere un estremo atto d'accusa agli artisti italiani, gratuitamente imputandoli d'asservimento alla cultura straniera e d'assenteismo rispetto alla realtà sociale del Fascismo, è stato necessario intervenire, per rendere palese e responsabile lo Stato di fronte al prodotto dell'arte, che, per il fatto stesso d'accadere nel giro della sua azione, l'impegnava a riconoscerlo e a meritarlo. E s'è visto, allora, quanto essa arte fosse autentica, quanto il suo conclamato europeismo fosse, invece, un fenomeno originariamente italiano, pervertito o comunque tralignato, e magari anche diversamente concluso, nell'accaparramento fattone dalle cucine artistiche europee. Una fiducia superiore, un'atmosfera di persuasione e d'amore s'è cosÌ creata intorno agli artisti italiani. Fugate le nebbie reazionarie e le fumate dei rivoluzionari precoci e sprovveduti, è stato possibile introdursi alla comprensione intelligente e serena della nostra arte contemporanea. Più che un richiamo all'ordine è stato, per gli ingordi e per gli ingenui, un richiamo all'economia e alla realtà più vere dell'arte, alla sua sfera!di virtù e di stupori meditati e sofferti.
Già la precedente Biennale, dopo la quale in certo senso ebbero inizio le battaglie polemiche, forniva un bilancio attivo della nostra situazione artistica. Successivamente, la Quadriennale romana imponeva un suggello di qualità nella revisione dei nostri maggiori; e ciò si produceva e si produce in èontemporaneità, con altre manifestazioni, che per quanto diverse, compongono rigogliosamente la poliedri-
ca unità del nostro tempo, documentando un'aderenza sempre più viva dei nostri artisti alla vita della Nazione. Alludo al « Premio Cremona », al « Premio Bergamo », campi d'Arte e di Marte, vivai e traguardi: e alludo anche a tutto questo intenso moto di grandi Mostre che non sono un nostalgico appello al passato' ma nel presente, nell'attualità viva si tempra: no: la Triennale di Milano, la Triennale di Napoli, le Mostre del Partito, le Mostre sindacali e intersindacali, che testimoniano sempre un livello più alto. E non vorrei neppure dimenticare, accanto a queste manifestazioni che hanno durata temporale limitata, quelle di carattere permanente: non vorrei dimenticare la prodigiosa attività edilizia, il rinnovamento delle nostre città: non segni avvisatori, ma durevoli testimonianze, eloquenti per tutti, di una vita che nell'arte dà prova inconfondibile della sua spiritualità.
Ed ora è la volta di questa XXII Biennale veneziana, che . concede" altresì, d'anticipare la certezza di un'integrale fusione degli spiriti creatori. I giovani si sono fatti le ossa, gli anziani hanno ristabilita la loro mai dimessa lealtà verso l'arte. È la fine del calligrafismo, delle gratuite e vacue « sensibilità». L'arte ha rinverginato nel suo eterno divenire i canoni fondamentali della propria esistenza: i valori intrinseci della forma è del colore, della plastica e dell'architettura. Vi è una stupenda fioritura di artisti nuovi; la gioventù artistica italiana mai, come ora, aveva contemperato e senza reciproca limitazione, l'età giovanile e il dominio formale. Ad essa spetta un primato: essa avrà il riconoscimento del suo primato. Con ciò, noi non invitiamo gli artisti a far grande e a far epico, noi non interveniamo in alcun modo nel loro processo creativo. È dalla chiara conclusione, motivata nei fatti, che esiste oggi, nuovamente, in Italia, un primato artistico, che ha ben fermi i suoi nomi e le sue date, che noi ricaviamo la fiducia e la disposizione verso i nostri artisti come verso gli « illustratori Il sicuri del nostro tempo. Perchè prima, insieme e dopo il valore delle armi, e in comunione con esso, sono le ragioni dell'ingegno, che assicurano la potenza di una N azione. Sono per sempre tramontati i tempi, in cui gli Italiani si consolavano della loro miseria politica con la dovizia dell'arte, quasi che questa fosse il surrogato d'un concreto imperialismo, a noi precluso da una nostra fatale inettitudine al comando politico sostenuto e avvalorato dalla forza d'elle armi. Il comando politico ci spetta: per forza d'armi e per vigore d'arti. Chè armi
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e arti, oltrechè consonare nella parola, hanno il medesimo suono nell'animo d'un popolo, che, come questo italiano, si batte per un'idea d'ordine e di bellezza.
G. BOTTAI
LA MOSTRA DEL '500 TOSCANO A FIRENZE.
La Mostra che si è tenuta fin dallo scorso aprile a Palazzo Strozzi non era rivolta alla grande arte classica del primo Cinquecento fiorentino che segnò con Leonardo, Raffaello e Michelangelo la piena maturità del Rinascimento, bensì alla complessa evoluzione che a Firenze la segui e vide il sorgere di nuovi intenti, il concretarsi e l'evolversi del fenomeno artistico tuttora designato con l'improprio nome di Manierismo.
In questo periodo il centro dell'attività artistica italiana si spostò da Firenze a Roma: la vicenda considerata era quindi ormai una vicenda regionale. Ma a parte il generale interesse di queste rassegne di singole scuole, questa Mostra ne aveva uno più particolare nell'adeguarsi ad uno dei più recenti risultati della critica: la nuova considerazione del momento manieristico. Esso sembrò per secoli solo inerte ripetizione, senza proprie vicende, del linguaggio creato dai grandi artisti del primo Cinquecento: la critica moderna ha riscoperto alte affermazioni individuali entro questa apparente uniformità: ha chiarito come il Manierismo sorga quale autonoma manifestazione d'arte da un preciso orientamento spirituale diverso da quello dell'arte classica. La stessa denominazione è parsa pertanto impropria a indicare la vera essenza del fenomeno, inadeguata a significarne tutte le manifestazioni. E si è designata come « reazione anticlassica », come « crisi della forma» la fase decisiva in cui il nuovo orientamento prese coscienza dei suoi scopi che altrove circolavano non chiari nella virtuosistica rielaborazione dei moduli di Raffaello e di Michelangelo.
Questo avvenne a Firenze, per opera del Pontormo e del Rosso, fin dal secondo decennio del secolo, e si è riconosciuto quanto le loro soluzioni stilisti che furono attive su tutto il Manierismo italiano ed europeo. A ragione quindi s'era fatto della loro arte il nucleo centrale della Mostra la quale seguiva poi il complesso elaborarsi dei problemi per tutto il secolo risalendo alla loro origine fin negli ultimi aspetti del Quattrocento.
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Essa non presentava questioni filologiche di singolare importanza. Scarse erano le incertezze attributive, limitate al tondo di Budapest con S. Giovanni Evangelista, male riferito al Granacci e reputato dal Longhi prodotto del Quattrocento Ferrarese vicino al Costa, alla bellissima Sacra Famiglia della Collezione Contini provvisoriamente assegnata al Pontormo ma tanto diversa da lui nel compatto colore, a poche altre opere di minore interesse. Notevole invece l'esemplificazione di artisti da poco meglio definiti o rivalutati dalla critica, come Pietro Candido riconosciuto autore dell'l D eposizione e della Natività di Volterra prima assegnate al Rossetti, o Filippo Paladino, o il Buontalenti di cui s'è ora rintracciata la prova di una attività pittorica nel ritratto di Francesco I a Prato. E notevoli anche la precisazione su base documentaria delle attribuzioni dei dipinti nello Studiolo di Francesco I, e la prima presentazione di recenti ritrovamenti: la pala di Villamagna del Rosso; la Fiesole del Tribolo e la Giunone dell'Ammannati, e soprattutto le due statue marmo ree di Benvenuto Cellini che ne completano la conoscenza come scultore prima Hmitata, si può dire, al solo Perseo e ad opere di minore importanza.
Ma più importante di questi contributi particolari, che completavano senza sostanzialmente innovarlo il quadro storico, era la conferma che la Mostra porgeva alla rivalutazione del manierismo operata nella critica, consentendo di seguirne le singole, laboriose vicende, di rilevarne il lato positivo in elette creazioni individuali. Intento solo sottinteso nel titolo che aveva voluto evitare il significato ancora ambiguo del termine (( manierismo », ma evidente nella scelta delll:) opere, nella loro stessa successiva coordinazione, nella decisiva importanza data al Pontormo, al Rosso, che furono di questa vicenda le figure centraH.
Questa rassegna non poteva pertanto avere più appropriata cornice del Pa~zzo Strozzi, sorto a Firenze tra la fine del '400 e l'inizio del '500, che fin nella sua stessa struttura ri· specchia l'evoluzione spirituale nel trapasso tra i due secoli.
Il recente restauro ha restituito al monumento la chiara vastità della sua struttura interna, menomata nei 'secoli da suddivisioni murarie. Ha completata anche la bella loggia verso mezzogiorno, rimasta interrotta nei dissesti della famiglia Strozzi. All'esterno del palazzo il ritmo architett.onico è pienamente quattrocentesco. Ma nel cortile si ha il senso di un variare del gusto solo che si ascenda coll'occhio dal loggiato
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