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Università degli Studi di Padova
Facoltà di Psicologia
Corso di specializzazione in Psicologia dell'Emergenza
Prof. E. Gius
Aspetti psicologici e sociali dellaAspetti psicologici e sociali dellacomunicazione nelle situazioni d'emergenzacomunicazione nelle situazioni d'emergenza
Specializzandodott. Paolo Daini Settembre 2003
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Indice
Università degli Studi di Padova...................................................................................1
Facoltà di Psicologia..................................................................................................... 1
Corso di specializzazione in Psicologia dell'Emergenza.............................................. 1
Prof. E. Gius................................................................................................... 1
Aspetti psicologici e sociali della comunicazione nelle situazioni d'emergenza...............1
Introduzione.................................................................................................... 3
L'informazione e la comunicazione come processi psicologici e sociali........5
Le comunicazioni intorno all'emergenza: un possibile quadro d'insieme.....11
La comunicazione del rischio....................................................................... 15
Comunicare emozioni nelle emergenze........................................................24
Alcune particolarità della comunicazione nelle situazioni d'emergenza...... 27
Praticare la comunicazione nelle emergenze................................................ 29
Conclusioni................................................................................................... 34
Riferimenti bibliografici............................................................................... 36
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Introduzione
Fra i molti temi affrontati dal Corso, la presente relazione finale si rivolge agli aspetti
comunicativi che sono inevitabilmente presenti negli interventi che lo psicologo è
chiamato a svolgere quando fa parte delle risorse che intervengono in casi di disastri e
calamità. In una accezione più ampia, l'intervento non è limitato alle situazioni di
disastro avvenuto, ma, come sta iniziando a verficarsi in alcune situazioni italiane, lo
psicologo svolge un ruolo proattivo nella prevenzione e nella formazione del personale
di soccorso, e talvolta anche verso la popolazione.
I concetti stessi di emergenza, calamità, catastrofe presentano oggi un ampia variabilità
nella loro definizione, ed in futuro gli accadimenti che vengono categorizzati come tali
potrebbero, sia per cause naturali che umane, purtroppo ulteriormente ampliarsi.
Il costrutto dell'”emergenza” è infatti molto, se non totalmente, caratterizzato dal
contesto storico e sociale in cui ha luogo.
Dopo dei brevi richiami su come la psicologia vede l' informazione, la comunicazione e
più limitatamente il linguaggio, si cercherà di illustrare alcune diverse angolature, pur
rimanendo nella specificità della psicologia dell'emergenza, da cui è possibile affrontare
gli aspetti comunicativi. Parte di queste si aprono alle problematiche centrate sulla
persona, mentre altre si indirizzano soprattutto alla comunità, lasciando l'individuo sullo
sfondo. Di conseguenza, tale diversità di presupposti, di metodi e di obiettivi se da un
lato genera un campo dai contorni ancora incerti, e soprattutto ricco di intrecci e di
sovrapposizioni, dall'altro conferisce al settore una notevole e stimolante dinamicità.
Gli aspetti comunicativi costituiscono un'area dove la psicologia dell'emergenza,
disciplina ancora recente in Italia, necessita tanto di contributi teorici che di conoscenze
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applicative. La registrazione delle esperienze condotta in modo parzialmente pianificato,
almeno per quanto lo possano consentire situazioni che sono caraterizzate per contrario
da una alta imprevedibilità e da pressioni ambientali particolarmente forti, si propone
come una insostituibile strada per riuscire a rinforzare il collegamento teoria-prassi;
questo possiede una fondante valenza metodologica e che può essere sin d'ora
accennata. Stanti la due “anime” che partecipano alla psicologia dell'emergenza, quella
quantitativista di stampo nordamericano che fa ampio uso di test accomunati dal
desiderio di “oggettivare” situazioni e vissuti, per poi standardizzare le procedure
d'intervento, e quella qualitativa-narrativa, che parte dalla valorizzazione dell'aspetto
idiografico dei casi, non sembra possibile perseguire avanzamenti nello stato dell'arte
senza una pratica di ricerca sul campo che eviti una progressiva separazione dei due
approcci.
Separazione che in qualche modo si lega a quella tra persone comuni ed esperti,
ampiamente riscontrata, come si vedrà più avanti, nella storia della comunicazione del
rischio, e che in quest'ultima ha generato consistenti riorientamenti metodologici.
Cambiamenti finalizzati proprio a superare le profode difficoltà che tale scissione
comportava nel far giungere con efficacia i messaggi ai destinatari.
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L'informazione e la comunicazione come processi psicologici e sociali
Se per informazione nel senso comune e generale si intende nozione, idea,
rappresentazione, in sostanza la notizia che permette di avere una conoscenza su eventi,
modi di essere od altro, conservando l'accento sul contenuto che passa da un soggetto ad
un'altro1, nel linguaggio scientifico che è stato sviluppato dalla teoria dell'informazione
viene abbandonato l'aspetto contenutistico dell'informazione; su quest'ultima, la ricerca
scientifica si è infatti concentrataintendendola come misura della libertà di scelta di cui
si dispone nel selezionare un messaggio dall'insieme di quelli disponibili2.
L'informazione è così definita in termini probabilistici rispetto alla novità che il
messaggio ricevuto apporta: più ciò che si riceve è prevedibile, meno fa cambiare il
nostro stato di conoscenza rispetto a prima. Come si vede quello che conta è il
“differenziaele” tra i due stati, ed come il tutto poggi sul presupposto di un codice
costituio da elementi tra cui si effettuano scelte. Va ricordato anche un importante
aspetto considerato dalla prospettiva della teoria dell'informazione che riguarda i
disturbi (detti “rumore”) a cui il messaggio è soggetto tra la partenza e l'arrivo, di
particolare interesse per le situazioni di emergenza: la ridondanza. E' questa proprietà
dei linguaggi che permette di comprendere, ricostruire il messaggio anche quando è
disturbato, poiché le regolarità statistiche che si ammettono nell'uso di un alfabeto
(codice) limitano in sostanza parte della libertà di scelta nel costrure i messaggi con i
simboli di quel codice; ed è questo “surplus” permette di risolvere molte situazioni di
incertezza (come nei giochi enigmistici) quando l'informazione che arriva al ricevente è
1 Ist. della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della lingua italiana. Roma, 1987
2 Singh J., Teoria dell'informazione - Linguaggio e cibernetica. Milano: Modadori EST, 1976 (2a ed.)
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in qualche modo incompleta. Estendendo il ragionamento, si comprende come proprio
nelle criticità, le tipiche situazioni di emerganza, il disturbo aumenta, sia sul piano
pratico, fisico, come su quello psicologico. In tali casi allora, oltre a fattori più
immediati come chiarezza e coerenza, può essere necessario porre particolare attenzione
anche alla ridondanza, per essere sicuri che il messaggio venga recepito in modo
completo dal destinatario.
Passando dalla prospettiva della informazione, dove il centro dell'interesse è la
misurazione di ciò che è veicolato dal messaggio tra l'emittente ed il ricevente, alla
comunicazione, la prospettiva si centra in modo congiunto ed inseparabile sulle due
dimensioni, quella cognitiva e quella relazionale.
Il trasferimento di conoscenza è quindi visto come un processo di ricircoli (feedback) tra
chi inizia a mandare un messaggio e chi lo riceve. Il messaggio trasmesso è codificato
in partenza e decodificato all'arrivo, due momenti del processo complesssivo che
possono, anzi in senso ampio lo fanno inevitabilmente, filtrare lo stesso e modificarne
l'attribuzione di significato.
In realtà, come è stato messo in evidenza, lo scambio comunicativo coinvolge due tipi di
conoscenza: la conoscenza che l'emittente cerca di trasmettere e quella che il ricevente
fa propia al momento di interpretare il messaggio. Perchè ci possa essere
comunicazione, quindi oltre alla condivisione del codice, necessita una sistema di attese
reciproco che costituisce la base del processo di ricostruzione interpretativa.
Se la ricostruzione interpretativa attiene al ricevente, l'intenzione e l'intento sono
elementi riconosciuti fondanti per l'emittente: con l'intenzione si guarda alla volontà, e
all'aspetto decisionale di perseguire consapevolmente un fine, mentre con l'intento
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l'attenzione è sullo scopo o fine da raggiungere, inteso come aspetto concreto della meta
finale.
Nel momento in cui due o più individui si pongono in interazione comunicativa,
scelgono di trovare una loro modalità di alternanza, di reciprocità e di
complementarietà. Questi presupposti rimandano immediatamente alle tre funzioni
fondamentali della comunicazione:
a)espressiva (o emotiva);
b)regolativa (o conativa);
c)referenziale (o cognitiva).
Queste tre funzioni sono una categorizzazione ricompresa all'interno di una più generale
funzionalità di sopravvivenza sotto il profilo biologico chi il linguaggio svolge.
Se la prospettiva della scienza della informazione ha trattato il processo comunicativo in
modo altamente formalizzato servendosi ampiamente fin dall'inizio degli strumenti dalla
matematica, il punto di vista semiotico sposta la trattazione nel campo della filosofia ed
in quello della psicologia umanistica e sociale. La semiotica si interessa della
significazione, poiché il messaggio deve possedere un senso ed un significato per le
persone che stanno comunicando. Viene così in luce il duplice riferimento del processo:
a) quello alla realtà e agli oggetti della comunicazione, e b) quello al codice utilizzato
tra i comunicanti. Si crea così, come noto sin da Aristotele il triangolo della
significazione, costituito dal simbolo, ad esempio il termine linguistico, dal referente,
l'oggetto o evento appartenete alla realtà, e dalla referenza, che è la rappresentazione
mentale, il concetto, che ha contenuto culturale ed è immerso nella socialità. E'
importante notare che il simbolo, nel “triangolo” non ha un rapporto diretto con la
realtà, ma “passa” attraverso la referenza. Per il segno è stata proposta a) una
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concezione di equivalenza (de Saussure) in modo che significante e significato,
espressione e contenuto sono due facce della medesima realtà (il segno) e una non si dà
senza l'altra, e b) una di inferenza (Peirce), per la quale il segno rimanda a qualcosa di
altro da sé e costituisce un indizio da cui trarre delle conseguenze. La presenza di
modelli mentali implicata in questa seconda prospettiva, che elaborano l'indizio,
operando l'inividuazione ed il completamento del senso di quanto comunicato, è in
grado di dar conto sia della variabilità e della plasticità nell'impiego dei medesimi segni
(come nelle situazioni di risemantizzazione contestuale), sia del fatto che esiste uno
scarto tra quanto è detto e quanto è implicato in ciò.
Il codice è inteso come “un insieme di regole che associano in maniera coerente e
tendenzialmente biunivoca gli elementi di un sistema con gli elementi di un'altro
sistema”3 tale codice inoltre, si basa sulla categorizzazione dell'esperienza considerata
continua ed illimitata, segmentandola con un'operazione convenzionale definita
nell'ambito della cultura. All'interno di una data cultura, e tra diverse culture, essa si
regola in base al principio di salienza, che raggruppa ad unità gli aspetti che possiedono
maggiore rilevanza dal punto di vista percettivo e funzionale.
L'analisi semiotica tratta quindi in profondità i processi di significazione in relazione al
segno e al codice, senza però entrare nel merito dei processi situazionali nei quali la
comunicazione ha luogo, né considera l'interazione che si sviluppa tra i comunicanti, e i
significati.
Al collegamento tra i segni e le persone che parlano si rivolge la pragmatica, ossi all'uso
dei significati nelle diverse circostanze. All'attenzione, in questo caso, è la relazione
testo-contesto, con i relativi processi che intercorrono.
3 Anolli L., Legrenzi P., Psicologia generale. Bologna: Il Mulino, 2001
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La pragmatica concepisce la comunicazione come azione e come fare e sviluppa, a
partire dagli anni '60 con Austin, una teoria degli atti linguistici.Viene sottolineato che il
parlare di qualcosa è sempre anche fare: così si compiono atti locutori (il dire qualcosa),
atti illocutori (come il domandare, comandare, ecc.) che si agiscono attraverso il parlare
stesso, e gli atti perlocutori, che sono la produzione di determinati effetti su credenze e
sentimenti di chi ascolta.
La comunicazione è un flusso continuo, e ciò che si scambia è più di quanto si dice. Il
principio della cooperazione, che si avvicina molto a queli di alternanza, di reciprocità e
di complementarietà cui si accennava in precedenza, e che costituisce un prerequisito
fondante della comunicazione, è precisato in quattro massime (Grice, 1967): quantità,
qualità, relazione, modo. Quantità, soggerisce di dare un contributo informativo
adeguato agli scopi della comunicazione, e di non eccedere; qualità invita ad essere
veritiero e a non servirsi di cose delle quali non si hanno prove; relazione indica di dare
contributi che siano pertinenti; modo, infine, invita a non utlilizzare espressioni oscure o
ambigue, ed essere coinciso e ordinato.
Il contesto, che è l'insieme delle condizioni, dei vincoli, e delle possibilità di ogni atto
comunicativo, interagisce modificando, allargando o limitando il messaggio e ponendosi
come matrice di significato del discorso; esso di fatto attiva o lascia sullo sfondo molte
proprietà del messaggio. Importante sottolineare proprio per la particolarità delle
situazioni di emergenza che la regolarità dei significati e la loro prevedibilità, si fondano
sulla regololarità dei contesti (Anolli, op cit.). Quando, nelle situazioni critiche, tale
prevedibilità si destruttura in modo consistente, tale crollo del contesto va a ricadere
inevitabilmente come un ulteriore “carico” del processo comunicativo. Non solo il
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livello di notizia e quello di comando, distinti da Bateson (1978), presenti nella
comunicazione assumono con facilità relazioni profondamente diverse nel caso delle
emergenze rispetto alla ordinaria quotidianità, ma se si accetta la prospettiva psicologica
della comunicazione come relazione interpersonale che produce la definizione di se e
dell'altro, appare evidente come si debba porre molta attenzione quando gli interlocutori
sono vittime di un disastro.
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Le comunicazioni intorno all'emergenza: un possibile quadro d'insieme
In realtà, mettendo insieme a) le situazioni di emergenza accadute con quelle attese, b)
gli individui, i gruppi e le comunità, c) le vittime ed i soccorritori, si evidenzia come vi
siano setting comunicativi profondamente diversi: basti pensare, come esempio, alla
comunicazione tra un formatore ed un gruppo di volontari sul burnout ad un corso di
aggiornamento tenuto in un'apposita aula, e metterla vicino a quella che può crearsi tra
una famiglia ed uno psicologo in una tenda da campo subito dopo un'alluvione. Oppure
accostare entrambe alla comunicazione sviluppata in modo articolato e generalizzato
con la popolazione di molti quartieri per garantirsi l'evacuazione di un'ampia zona prima
di disinnescare un ordigno.
La comunicazione, ferma restando una assunzione fondante di interattività e di scambio
tra colui che parla e chi è in ruolo di ascoltatore, può quindi essere bilanciata verso
l'emittente o il riceventein modo assai diverso. Questo è particolarmente visibile nel
momento iniziale del processo: si pensi al volume di emissione di una comunicazione
mediatica diffusa (esempio dell'evacuazione) con quello di un intervento (non direttivo,
di ascolto) sviluppato da uno psicologo per aiutare a gestire intensi stati emotivi di chi
ha avuto la propria casa danneggiata.
O meglio, utilizzando le precisazioni fatte in precededenza, nelle due situazioni portate
ad esempio, è diversa la quota di comunicazione in senso proprio, rispetto a quella
informativa, unidirezionale dalla fonte al ricevente. E' nell'affrontare gli accadimenti
reali che tale distinguo informazione/comunicazione manifesta tutta la sua utilità,
consentendo di evitare generalizzazioni confusive spesso deleterie.
Per cercare di approssimare una prima sistematizzazione più generale in cui collocare
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gli esempi sopra ricordati, si propone di utilizzare le tre dimensioni (assi) seguenti:
•una temporale, che colloca, in prima – durante – dopo, l'intervento rispetto
all'accadimento di emergenza;
•una epressa con la polarità individuale-collettivo, che si riferisce al soggetto cui è
diretto l'intervento, appunto la persona, il gruppo o la comunità;
•una di status-ruolo, sempre relativa a chi è rivolto l'intervento, che discrimina tra
vittime e soccorritori.
Nella schematizzazione qui eleborata, i tre assi sono utilizzati in modo discreto, con tre
categorie lungo la prima dimensione, tre per la seconda, mentre la terza è assunta in
forma dicotomica. Delle diciotto possibili situazioni in tal modo classificate, alcune
interessano l'ambito specifico della psicologia dell'emergenza solo adottando una
definizione assai ampia, sfumando verso interventi psicologici terapeutici di lungo
periodo che non vengono di solito fatti rientrare nella psicologia dell'emergenza;
esempio è il caso “vittime - dopo – individuale”, per interventi protratti molti mesi. La
dimensione temporale dell'intervento rispetto all'evento catastrofico, inoltre, può essere
espressa con un'altra importante dicotomia, spesso utilizzata ed efficace, quella tra
azioni preventive (ex ante) e successive (ex post) (curative). In tal caso, da una parte (ex
ante) si collocano tutte le attività di formazione, simulazione, addestramento, e più in
generale di sviluppo culturale in tema di protezione civile; con esse, ed in esse anche lo
specifico della comunicazione sotto il profilo psicologico e sociale. Giova ricordare che,
sebbene ancora in chiave più sperimentale che di routine, anche in alcune realtà italiane,
le attività di simulazione coinvolgono da qualche anno sia la popolazione che il sistema
di soccorso con il suo personale.
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Nell'altra (ex post), si possono propriamente far ricadere le relazioni di aiuto, individuali
e di comunità più classiche, nel momento acuto ed in quello immediatamente successivo
del bisogno, tanto delle vittime colpite dal disastro che dei soccorritori4.
Mantenere comunque una distinzione temporale dell'intervento comunicativo in prima,
durante e dopo, permette di trattare il problema dando piu flessibilità allo schema
proprio rispetto alle dimensioni psicologiche, di comunicazione e non solo, che si
pongono in essere nella relazione di aiuto tra vittima e soccorritore; e
contemporaneamente di cogliere, ed in qualche modo categorizzare, le sfumature
dell'interazione. Diversamente il paradigma ex ante-ex post rimanda più ad una
dimensione didattica e valutativa che tende ad allontanare il fuoco dell'attenzione dalle
persone e rischia di rendere più difficoltoso un rapporto di ascolto e di reciproco
scambio.
Tornano in mente, a riguardo, le parole di un esperto nella comunicazione del rischo,
P.M. Sandman, secondo cui “l'educazione è qualcosa che noi vogliamo fare alle
persone che noi pensiamo ignoranti o alle persone che non sono d'accordo con noi. ... Il
disaccordo rispetto a fatti o valori è ciò che ci divide. Nel disaccordo, si è costretti ad
ascoltare oltre che a parlare. ... Essere in disaccordo è un processo bidirezionale.
L'educazione, d'altro canto, è un confortevole (e rassicurante, aggiungerei) processo
unidirezionale.”.
Le categorizzazioni proposte di- o tri-cotomiche sono, come si vede, semplificazioni di
un insieme di situazioni sfumate e complesse, e la comunicazione va affrontata
attraverso strumenti di analisi differenti: se si considera tutto lo spettro degli scambi
4 sul "quando", volendo classificazioni più fini, è utlilizzabile quella in : fase d'emergenza, prima fasesuccessiva all'impatto (dal giorno successivo la calamità a 8-12 settimane), fase di ristabilimento,cfr.Young B.H. et al.,L'assistenza psicologica nelle emergenze. Trento: Erikson, 2002
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comunicativi coinvolti dalle emergenze, è illusorio pensare di servirsi solo di un
paradigma qualitativo o di uno quantitativo per darsi conto delle situazioni occorse
durante tali situazioni. La difficoltà maggiore, è forse quella del punto di contatto tra
una prospettiva che “quantitativizza”, ampiamente rappresentata e fondante la
psicologia dell'emergenza, ed una che “qualitativizza”, centrandosi sui casi studio con
taglio umanistico e modo di fare “esplorativo”5. E al di là di sviluppare indispensabili
riflessioni sui punti di contatto, saper privilegiare l'una o l'altra a seconda della
situazione da trattare, senza assumerele in modo antitetico: può aver senso esaminare
quantitivamente cosa viene detto dai quotidiani per un terremoto attraverso l'analisi del
contenuto6, se interessa la comunicazione intesa a livello di “comunità”, così come
servirsi delle narrazioni per costruire un intervento in piccolo gruppo per elaborare
vissuti di essere profugo7.
5 cfr. Yin R.K., Case Study Research - Design and Methods. Beverly Hills: Sage 1985 (2a rist)
6 sull'analisi del contenuto Amaturo E., Messaggio simbolo Comunicazione. Roma: NIS, 1993;Petts J., Horlick-Jones T., Murdock G., Social amplification of risk:The media and the public. HSE Book,
2001
7 cfr. Brena S., Biografie del dolore, in Adultità, 1996 (4), 155-162
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La comunicazione del rischio
Nelle situazioni di emergenza, è particolarmente facile cadere, pressati dagli eventi,
verso una posizione positivista, alla base della quale vi è il principio della separazione
dicotomica tra fatti e valori, nonché una enfatizzazione dei mezzi tecnologici a
disposizione per ripristinare, a volte in modo acritico, uno “stato” precedente.
Ciò vale anche nello specifico dell'informazione e della comunicazione, che senza
scampo sono soggette a una qualche manipolazione, la quale si gioca proprio molto su
cosa viene presentato come fatto e cosa come valore, valutazione, scelta, ecc., e nello
spazio e nell'enfasi rispettivamente attribuita alle due componenti nel messaggio. Ne
deriva con facilità, che si trasforma sovente in scontata ovvietà, un conseguente
appiattimento del significato costruito dagli attori nella situazione catastrofica, con la
distanza comunicativa tra soccorritori e soccorsi che segna il passo perchè questi ultimi
vedono i primi come esperti distanti, detentori di un potere informativo/comunicativo
globalizzante e lontano dalla comunità colpita.
Società dell'informazione e società del rischio si sono prepotentemente espanse da un
certo numero di decenni. Dalla produzione, fatta dalle industrie, di beni materiali
soggetta poi a logiche più o meno distributive di welfare, le tecnologie hanno prodotto
rischi estremamente più diffusivi e non arginabili, ormai nella consapevolezza delle
popolazioni; si è così passati ad una logica di evitamento (dei rischi) realizzata ogni qual
volta possibile con l'esportazione degli stessi (due per tanti, il recente progetto di
allocare scorie radioattive nazionali in Sardegna o quelle “mondiali” in Patagonia), e di
emergenze. Logica che sta creando problemi maggiori di quelli dovuti alla scarsità
(Beck et al., 1992). I rischi attuali vanno visti quindi come prodotto di decisioni sociali,
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spesso mediate o nascoste; e tale punto di vista è convincente non solo per azzardi
immediatamente dipendenti dalle tecnologie, ma anche per quelli dovuti alle scelte di
antropizzazione del territorio. Numerosi disastri considerati come catastrofi naturali
(alluvioni, terremoti) hanno inequivocabilmente mostrato le responsabilità, nella
dimensione dei danni, di un degrado dovuto a speculazioni edilizie, mancate opere di
difesa idrogeologica e simili ( o sistemi radar vecchi, come nel caso del naufragio della
petroliera Exxon Valdez). Tale stato dei luoghi è frutto di scelte multiple attuate da
molti soggetti, collettivi ed individuali, portate avanti negli anni che all'improvviso
“esigono” un tributo di vite umane, enon solo, ed ingentissime risorse. Non si tratta
tanto di trovare il/i colpevole/i o di accollare allo/agli stesso/i un risarcimento, cosa più
difficile, ma di cercare di spostare culturalmente i valori, rinforzando in modo diffuso, a
partire da chi occupa posizioni di potere nelle amministrazioni, il senso di investire nella
tutela dei beni comuni che aumentano la sicurezza della collettività nei confronti delle
catastrofi, naturali e non.
Il rischio è un concetto che riguarda l'incertezza che circonda gli eventi o i risultati
futuri, comprendente le due componenti della probabilità che l'accadimento si verifichi e
l'impatto che esso è in grado di generare.
La società del rischio, come inevitabile, ha sviluppato una disciplina teorica ed
applicativa conosciuta come analisi del rischio, che si è articolata in tre attività: la
valutazione del rischio, la gestione dello stesso, che si possono riferire all'intento
conoscitivo-previsionale la prima, e manageriale dell'accadimento la seconda, ed infine
il settore specifico della comunicazione del rischio. Quest'ultimo a sua volta si è
suddiviso in ulteriori specializzazioni, come ad esempio la comunicazione dei rischi per
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la salute, area legata da vicino anche alla disciplina della epidemiologia8.
La comunicazione del rischio viene definita come “un processo interattivo di scambio
d'informazioni ed opinioni tra individui e gruppi, ed istituzioni. Esso implica messaggi
multipli circa la natura dei rischi e ulteriori messaggi (non strettamente riguardanti il
rischio) che esprimono interessi, opinioni, o reazioni ai messaggi del rischio o a
disposizioni legali/istituzionali per la gestione del rischio”9.
Oltre a definire la comunicazione del rischio, viene da chiedersi le ragioni per cui essa si
è sviluppata come uno specifico settore di analisi e di studio; tali ragioni sono state
individuate in tre principali argomenti (Renn, 1998):
•il cambiamento di conoscenza, ossia l'informazione, diretto ad assicurarsi che tutte le
persone destinatarie del messaggio ne possano ben comprendere il significato;
•persuadere i destinatari a cambiere le proprie abitudini e/o i loro comportamenti
rispetto a dei rischi specifici;
•instaurare le condizioni per un dialogo che porti ad un'efficace processo di
composizione e/o risoluzione dei conflitti.
Pur se realizzata al meglio, alla comunicazione del rischio non si chiede di risolvere tutti
i problemi, ma è possibile sostenere che la disciplina sia cresciuta prprio sul
riconoscimento che una cattiva comunicazione peggiora nettamente la situazione di
rischio10.
8 sul tema, non solo per quanto concerne i rischi di catastrofi, cfr. Carducci A. et al., La Comunicazione
di massa sulla salute - Proposta di un sistema di valutazione della qualità del processo di produzione
dell'informazione sulla salute, www.fondazionececchinipace.it/qualita_salute.rtf
9 University of Kentucky, College of Agriculture. AGRIPEDIA, http://frost.ca.uky.edu/agripedia/.
10 cfr. The Canadian Food Inspection Agency(2001), Risk Communication and Government - Theoryand Application, by J. Chartier & S. Gabler
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La gestione del rischio ha, d'altra parte e come si accenneva in precedenza, sotto il
profilo sociale ed istituzionale ampi valori associati con la dimensione politica ed
economica, e le logiche che sottendono alle scelte11; ciò vale per tutte le emergenze (da
quelle alimentari a quelle ecologiche a quelle naturali e via dicendo).
La comunicazione del rischio è un processo multidimensionale, e sebbene attualmente i
diversi gruppi nella società vedono i rischi e i benefici in modi assai diversi, sono
presenti alcuni tratti che costituiscono un denominatore comune.
Tra questi l'affrontare la distribuzione dei rischi ed eventuali benefici anche rispetto al
tempo e alle generazioni, affrontare l'impegno morale e i giudizi di valore
esplicitamente, il controllo che le persone possono avere sul rischio. Esiste una distanza
tra l'opinione grezza e approssimativa, come succede inizialmente in molte situazioni di
rischio e di emergenza che si presentano sulla scena sociale delle popolazioni, e una
valutazione del pubblico; tale distanza costituisce una sorta di percorso, per il quale
Yankelovich ha proposto sette stadi: consapevolezza, un senso di urgenza o di domanda
di azione, la ricerca di soluzioni, la reazione e resistenza, la disputa tra scelte alternative,
il consenso intellettuale o la risoluzione a livello cognitivo e infine la completa
risoluzione, morale, intellettuale ed emozionale.
A questo processo di progressivo avvicinamento, comprensione e valutazione delle
situazioni di rischio da parte del pubblico fa eco, in un certo senso, come nella storia
della comunicazione del rischio di un ventennio, gli esperti “che informavano” si sono
mossi in termini delle strategie comunicative che erano ritenute efficaci.
Inizialmente il focus era sul trovare i “numeri” e nel dirli, poi nello spiegare il loro11 cfr. K. Latouche, P. Rainelli, and D. Vermersch. “Food Safety Issues and the BSE Scare: Some
Lessons from the French Case”, Food Policy, 1998, vol. 23, No. 5, pp. 347-356. ; B. A.Sobey, A. C. D. Simpson, and D. P. Ives. “Managing Food Related Risks: Integrating Public andScientific Judgements”, Food Control, 1994, No. 5, 9-19.
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significato. In seguito le modalità comunicative si sono spostste verso il mostrare che in
passato sono stati accettati rischi simili o maggiori (un approccio quindi comparativo) e
che quello in questione è un buon compromesso che tratta gli interessati con riguardo.
Poi coinvolgere il pubblico come partner. Questi diversi approcci si sono
progressivamente sommati l'un l'altro, sino a costituire una strategia complessiva12.
Dietro le strategie sopra citate, vi sono stati modelli di comunicazione del rischio
diversi, che hanno segnato uno spostamento da un'iniziale visione “tecnica” e di
“informazione fattuale” che attribuiva al pubblico fraintendimenti e trattava le stime
degli esperti come incontrovertibili, a una visione “democratica” che sottolinea
l'importanza di comprendere ed integrare le reazioni e le logiche sottostanti, delle
persone comuni, per arrivare ad una posizione condivisa, od almeno simile, sul rischio
in questione. Nel cambiamento di rapporti tra esperti e pubblico ha di sicuro rivestito un
ruolo rilevante, dalla parte dei primi, l'evoluzione delle concezioni scientifiche sulla
conoscenza e su come trattare l'incertezza, la cui presenza è stata sempre meno negata
dalla scienza nel corso degli anni; contemporaneamente si è espanso il riconoscimento
di forme diverse di conoscenza ed esperienza, tutte con una propria rilevanza.
Tali spinte hanno ristrutturato la concezione della valutazione del rischio, in un modello
duale esperti-pubblico, con i primi che analizzano il pericolo ed i secondi che danno un
contributo insostituibile per valutare l'oltraggio e l'offesa che l'evento ha causato o
potrebbe causare. Fattori come la volontarietà, l'equità, la memoria ed il terrore, tra gli
altri, sostanziano il punto divista del pubblico, che sta ottenendo maggiore
riconoscimento13.12 B. Fischoff. “Risk Perception and Communication Unplugged: Twenty Years of Process”. In, Risk and
Modern Society. R. Lofstedt and L. Frewer, (eds), London, Earthscan Publications, 1998.13 L. J. Frewer. “Public Risk Perceptions and Risk Communication”. In, Risk Communication and Public
Health . P. Bennett and K. Calman,(eds), New York, Oxford University Press, 1999
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Lungo questa strada, dopo l'informazione e la comunicazione, si trova la negoziazione,
nella quale l'interazione aumenta il proprio peso, e forza i partecipanti a trattare in modo
aperto con le ambiguità, le incertezze e i conflitti.
Tre componenti sono considerati essenziali nella comunicazione del rischio:
1.la fiducia;
2.la percezione;
3.i fattori allarmistici.
La fiducia è riconosciuta il più importante elemento per una comunicazione efficace, ed
include caratteristiche come la competenza percepita, l'obiettività, l'equità, la
consistenza e la benevolenza. Da una parte spesso le ricrerche hanno mostrato che le
istituzioni governative sono considerate dal pubblico come una fonte di informazioni
distorte o incorrette; dall'altra è emerso come le persone comuni presentano un dualismo
volontà/ necessità di aver fiducia nei decisori, se non altro perchè i pericoli odierni
possono essere assai poco trattati a livello individuale. Quando la comunicazione
avviene con fonti sanitarie, è stato riscontrato un miglior livello di accettazione e di
credibilità da parte del pubblico, che accorda fiducia a questi esperti fiducia e riconosce
loro un impegno per il benessere pubblico.
La percezione è stata oggetto di numerose ricerche nel corso degli anni, e raramente si è
trovata una convergenza tra esperti e pubblico sul rischio. L'attitudine del pubblico
verso il rischio ha mostrato l'esistenza di alcune distorsioni sistematiche (bias) come la
fallacia ottimistica, quando viene riconosciuta l'esistenza del rischio ma si crede che non
possa accadere a se stessi, o la fallacia dell'offesa, che porta a credere che si è più
esposti al rischio che un membro medio della società. Sembra però che anche gli esperti
non siano immuni da errori di tal genere, in particolare quando le previsioni sono forzate
20
rispetto alle informazioni14.
I fattori allarmistici interessano gli aspetti propriamente psicologici dell'emotività,
facendo leva su una delle enozioni basilari, la paura. Questi fattori modellano
ampiamente la percezione di certi rischi, ed hanno generato considerazioni pratiche
sull'importanza di vedere o meno il rischio come ineludibile, familiare/non familiare,
provocante un danno nascosto o irreversibile, poco compreso dalla scienza, ecc..
Prima di aprire il “capitolo” sui media, si ricordano in breve due importanti modelli che
sono stati utilizzati per comprendere e gestire la comunicazione del rischio.
Il modello della amplificazione del rischio (SARF)15 considera il processo della
rappresentazione dell'evento e l'interazione con un ampio spettro di fattori psicologici,
sociali, istituzionali e culturali, i cui risultati interpretano il rischio ed i comportamenti
conseguenti. Esso descrive perché alcuni eventi sembrano creare un effetto di
propagazione ad onde (ripple effect) con impatti secondari e terziari che vanno a
coinvolgere tecnologie o istituzioni non immediatamente collegabili all'accadimento. Il
modello utilizza la metafora della pietra nello stagno per descrivere il percorso del
messaggio tra i vari attori sociali, passaggio che agisce sulle caratteristiche di salienza,
simboliche ed interpretative che esso possiede. E' stato però sottolineato come tale
metafora sia riconducibile ancora alla posizione propria del linguaggio tecnocentrico,
cercando di identificare quale comunicazione è richiesta dalla situazione, piuttosto che
genuinamente comprendere le ragioni delle risposte e delle percezioni.
Un più recente modello che esprime quanto detto in precedenza rispetto agli
spostamenti culturali e di settore, è quello proposto da Bourdieu che utilizza la metafora14 cfr. P. Slovic. “Perception of Risk”, Science, 1987, No. 236, 280-285
15 Kasperson, R.E., Renn, O. & Slovic P. et al.(1988) Social amplification of risk: a conceptualframework. Risk Analysis, 8, 177-187
21
della comunicazione pubblica come un campo di gioco e competizione. Nel “campo” da
una parte vi sono le istituzioni politiche e dall'altra il pubblico, i cittadini; nel centro si
trova il sistema dei media che agisce come collegamento attivo. Altri attori nel campo
che il modello pone sono le comunità scientifiche e di esperti, i gruppi e i movimenti
sociali, le corporazioni e i partiti d'opposizione. Fra questi soggetti vi è in alcuni casi
comunicazione diretta, in altri azioni di lobbying, interventi di supporto e informative. Il
modello individua quattro punti principali di competizione e negoziazione: il controllo
sulla visibilità/occultamento, la legittimità, la fiducia e la precedenza nelle definizioni e
nel dibattito.
Pur cambiando i modelli utilizzati per comprendere e gestire la comunicazione del
rischio, rimane centrale la presenza e l'importanza dei media nel selezionare e presentare
le informazioni.
Numerosi studi sul settore dei media classici, sia in termini generali (tra cui McNair,
1994; Harrison, 2000) che di rischi ambientali (Allan et al., 2000), hanno fatto emergere
una serie di criteri, dotati di consistenza nel tempo, con cui i media trattano le notizie:
•orientamento agli eventi;
•novità;
•conflitto e drammatizzazione;
•risonanza;
•personalizzazione;
•domesticazione.
La questione dell'influenza dei media nel modellare la percezione del rischio è dibattuta,
tra esperti che sostengono un'alta o una bassa possibilità di plasmare l'opinione pubblica
posseduta da televisione e giornali; d'altra parte, riconoscere che l'interpretazione del
messaggio è un processo attivo del destinatario, è ben altra cosa che negare l'influenaza
22
dei media. Piuttosto è che i processi di influenza sono il più delle volte indiretti, mediati
dall'interazione sociale e dal bagaglio culturale posseduto da chi ascolta il messaggio.
Alcuni punti sono stati evidenziati dalle ricerche rispetto all'amplificazione/attenuazione
operata dai media nel diffondere le notizie; tra questi che a) il sistema fondamentale di
alterare la percezione delle persone è attraverso il numero e la vividezza degli articoli,
b) il modo in cui le “storie” iniziano è cruciale per definire il quadro del significato, e c)
la presentazione delle informazioni attraverso testimonianze personali favorisce circuiti
autorinforzantisi tra la rappresentazioni delle persone comuni, l'esperienza quotidiana e
la conversazione sociale. Inoltre si ritiene che sia necessario un protratto numero di
messaggi per cambiare credenze e percezioni, mentre una informazione ad alta intensità
per un breve periodo è in grado di accrescere l'interesse ma non di mutare le credenze.
In ogni caso, si riconosce ai media un potere fondamentale di costruzione di significato
agito non solo con la selezione quantitiva delle informazioni presntate (copertura
mediatica), ma anche con l'organizzazione delle forme linguistiche e immaginative,
attraverso il testo e le immagini. Estramamente utile per affrontare questo aspetto
specifico è il concetto di “inquadramento-strutturazione” (framing), che i media
operano.
Esso si articola in connessione, contestualizzazione e ancoraggio.
Il primo aspetto riguarda il collegare il nuovo evento a casi già familiari nella copertura
mediatica precedente e la loro assimilazione in una narrativa continua, come ultimo
episodio di una storia che si sta svolgendo; il secondo concerne l'accostamento
dell'evento ad altri temi d'attualità che godono di forte risonanza; l'ancoraggio infine,
riguarda il collegare l'evento alle paure, alle ansietà e alle credenze profonde trasmesse
23
attraverso immagini ed espressioni popolari a larga diffusione.
Nel concludere queste brevi riflessioni sui media e la comunicazione del rischio, si
ritiene utlie riportare uno dei risultati trovato in un'ampia ricerca svolta di recente nel
Regno Unito (Petts et al., 2001) e centrata su tali questioni; da essa è emerso come
nell'organizzazione dei media sia in corso uno spostamento dall'indirizzarsi ad
un'audience concepita come cittadini con obbligazioni condivise, ad una modalità che
parla alle persone nel loro ruolo di consumatori di beni e servizi con diritti acquisiti di
sicurezza personale e benessere.
Comunicare emozioni nelle emergenze
Nelle situazioni critiche e destabilizzanti quali quelle seguenti ad eventi catastrofici, le
risposte umane subiscono sollecitazioni particolari, e consistente parte di queste si
ripercuote nelle emozioni. Tanto che si dia credito alle teorie “innatiste” sulle emozioni,
o a quelle che invece le leggono con la chiave del costruttivismo sociale (o se si vuole a
quelle che considerano le emozioni come cause oppure come effetto), le emozioni
rappresentano una espressione che collega le persone al mondo esterno e contribuisce
ad indirizzare l'azione ed il comportamento.
Le emozioni costituiscono quindi una risposta dell'organismo, dove a delle componenti
biologiche si sovrappongono processi cognitivi di valutazione; ma deve sottolinearsi
come l'esperienza emotiva non sia un fatto che si esaurisce all'interno dell'individuo,
esclusivamente privato, bensì vanno considerate dei fenomeni sociali sia perchè nella
maggior parte delle situazioni, tipicamente nelle emergenze, quando si provano
emozioni gli «altri» sono presenti (oltretutto se non fisicamente come rappresentazione),
24
sia per la sicura influenza delle norme culturali che, secondo recenti studi, sono in grado
di modificare di molto la qualità e l'intensità delle emozioni, nonché le occasioni in
grado di suscitarle.
Notevole può essere la differenza nella capacità di esternare le emozioni provate, a
trasmettere i vissuti corporei e vocali, e questo ha valenze pratiche, ad esempio, quando
si mette insieme un lavoro di gruppo in un'azione psicologica di soccorso.
Non vi sono profili certi per discriminare tra le emozioni, ma alcune indicazioni sono
emerse durante anni di studi.
Nelle emergenze, ad esempio, si ha più spesso a che fare con emozioni negative come
rabbia, paura, tristezza, e queste di norma sono piu soggette a controllo di quelle
positive, come la gioia. Inoltrte paura e rabbia tendono ed essere meno durature della
tristezza, mentre come intensità ci si può attendere che la paura sia l'emozione più forte,
seguita da tristezza e rabbia. La rabbia ha molte risposte espressive, ma non è molto
controllata, mentre la tristezza si caratterizza per una prevalente espressione attraverso
la comunicazione non verbale. La vergogna e la colpa sono fortemente controllate, con
la seconda che si presenta più duratura.
Le emozioni sono spesso uno stimolo per prendere contatto con gli altri, ed il parlare di
un evento emotivo aiuta a guardarlo con distacco, a riordinare le idee ed a distinguere
meglio temporalità e causalità dell'eventoche le ha provocate. Soprattutto, condividere
con gli altri le proprie emozioni è anche un modo di chiedere aiuto per affrontare la
situazione interna ed esterna suscitata dall'evento emotivo.
La comunicazione delle emozioni da modo, esemplificando il caso di vittime e
soccorritori, di ottenere interpretazioni diverse e di riconnettere (parte) dell'accaduto
25
catastrofico ad altri episodi. Si innescano così processi che possono contribuire a
rafforzare l'identità sociale e soprattutto ad accettare e legittimare dei vissuti dolorosi.
La solidarietà reciproca sviluppata attraverso l'aiuto emozionale porta sollievo:
condividere sentimenti con chi ha avuto la stessa esperienza è importante. Ma poiché la
competenza emozionale delle vittime è assai diversificata, come il grado di controllo
scelto o solo agito, si rivela fondamentale la capacità dello psicologo nell'aiutare
l'espressione dei vissuti emotivi e la condivisione, come quella che interviene tra i
partecipanti ad un debriefing. In prima battuta, il punto si può definire come la sottile
bilancia tra la sollecitazione a comunicare da una parte, ed il rispetto/ascolto della
vittima dall'altro.
A seguito di eventi eccezionali, si presentano reazioni emotive spesso “esagerate”, se
paragonate alla storia di vita di gran parte delle vittime. Reazioni che possono essere
tanto immediate quanto tardive, anche se non sfociano in quadri di nevrosi e disturbi
post -traumatici.
Difficile, se non impossibile, pensare che sia possibile portare un aiuto psicologico dopo
una catastrofe evitando di affrontare i vissuti emotivi, risposta intrinseca delle persone;
anzi nella pratica, si vede una possibile criticità che, sotto la spinta delle contingenze e
nel desiderio di far “quadrare” al più presto le cognizioni, venga dato uno spazio
insufficiente alla espressione ed alla elaborazione delle emozioni.
La catastrofe è di per se un evento di perdita, e l'emozione tipicamente associata alla
perdita, dopo quelle di “lotta”, è la tristezza. Se con essa si denota un'emozione anche
complessa ma tuttavia di intensità e durata limitate, con il lutto si indica l'intero
processo di elaborazione della perdita, dalle prime reazioni alla rassegnazione ed al
26
distacco. Nel valutare una perdita importante si sviluppano sentimenti di pessimismo
che possono, cadute le speranze, sfociare nella depressione. Nel lutto si verificano tre
fasi prinicipali: la perdita che provoca e viene comunicata spesso con uno stato di
obnubilamento, da un'iperattività e da continui pensieri o richiami all'oggetto perduto; la
disorganizzazione e le disperazione, che si manifesta con apatia e isolamento, perdita di
interesse e concentrazione, anoressia, insonnia, ecc.; il distacco e la riorganizzazione,
quando differenti strutture cognitive arrivano ad far accettare la perdita subita. Dal
punto di vista sociale, il lutto e il cordoglio sono risposte non solo tollerate, ma attese. I
rituali inoltre, aiutano l'individuo a riconoscere l'impatto della perdita, ed a costruire
scopi e significati, mantenendo la coesione sociale contro le tendenze alla non azione e
all'isolamento.
Comunicare e condividere le emozioni legate alla perdita non è facile, almeno in modo
ampio: sembra che quando si tratti di stordimento, rabbia ed angoscia, esse si attenuano
nella condivisione, o vengono nominate meno spesso; subiscono un'intensificazione
invece dispiacere e rassegnazione, che sono, tutto sommato, emozioni “più leggere”16
proprio sul piano sociale.
Alcune particolarità della comunicazione nelle situazioni d'emergenza
Gli interventi di psicologia dell'emergenza si configurano tipicamente nella relazione di
aiuto, indipendentemente dalle diversità del caso che possono essere categorizzate
attraverso lo schema proposto in precedenza, od altri, lungo i tre assi temporale,
16 cfr. Zammuner V.L., Frijda N.H., Felt and communicated emotions Sadness andjealousy, in Cognition
and Emotion, 1994, 8, 37-53
27
individuale-collettivo e di status-ruolo.
Nell'agire la relazione di aiuto, si passa inevitabilmente attraverso la comunicazione, e
pertanto la conoscenza di modalità comunicative efficaci è una condizione necessaria
per realizzare una relazione d’aiuto valida, anche quando non si voglia riconoscere
all'interazione una intrinseca costruttività. Punto centrale sono le capacità di
comunicazione interpersonale del soccorritore, le quali determinano sia il livello di
fiducia che la vittima accorda, sia di controllare la situazione e gestire al meglio
l’intervento. Comunicare significa scambiare informazioni, segnali e messaggi, vuol
dire capire i pensieri, i bisogni, i desideri dell’altro e fargli comprendere i propri, in
qualsiasi modo attraverso le parole, i gesti o la scrittura.
Significa, in sostanza, “sintonizzarsi” in buona misura su simboli e valori, sperimentare
empatia. Nella relazione interpersonale, spesso concentrata nel tempo ma
particolarmente intensa nel caso di emergenze, l'atto del comunicare “assume un
significato più complesso; comunicare vuol dire, creare un rapporto, partecipare, creare
uno scambio, mettere in comune, condividere azioni, idee e sentimenti.” (CESVOT,
1999-2000)
Nel comunicare con la popolazione, i fattori psicologici centrali che”passano” attraverso
la comunicazione tra soccorritori e vittime, possono sintetizzarsi nei seguenti:
•l'identità, personale, sociale e professionale, dei comunicanti: genere, età, presenza,
competenza, titoli, mansione, ruolo;
•il tipo di relazione tra i comunicanti che si instaura: collaborativa, competitiva,
paritaria, gerarchica, amicale, di interdipendenza, con storia;
•il contenuto della trattazione: informazioni, richieste, rassicurazione, consigli, ordini,
raccomandazioni, esortazioni;
•il modo espressivo: la scelta del registro linguistico e dell'accompagnamento analogico,
28
non verbale e paraverbale;
•il contesto: l'ambiente e le circostanze in cui avviene l’interazione, le finalità, gli
obiettivi, le intenzioni dei comunicanti.
Durante e dopo lo scambio e l'intervento, l'attenzione è sugli effetti; i risultati ottenuti e
la calibrazione e l'utilizzo del feedback. rivestono un'importanza unica per lo psicologo
ed i soccorritori nel migliorare lo standard dei propri interventi..
Anche il modo esperessivo, con la comunicazione non vebale attraverso la postura, lo
sguardo, la mimica e la gestualità rivastono una notevole importanza, soprattutto nel
senso, da parte di chi soccorre, di saper leggere e comprendere chi si sta aiutando. Nelle
situazioni critiche infatti, una quota ancor maggiore dello scambio va ad essere veicolata
proprio da tali modalità espressive. Dalla parte delle vittime, l'esperienza ha messo in
luce la rilevanza dell'abbigliamento dei soccorritori, in particolare nelle fasi iniziali del
contatto. Inoltre, importanti in tale aspetto, sono le eventuali differenze culturali,
sovente marcate, che si verificano quando le forze di soccorso provengono da altri
contesti (regioni, nazioni).
Praticare la comunicazione nelle emergenze
Le conoscenze pratiche che si sono accumulate negli anni, insieme alle ricerche, sia
nello specifico della comunicazione attreverso i media, e quindi su un piano “sociale”,
sia a livello di scambio “individuale” tra soccorritori e vittime di calamità, hanno
prodotto una serie di indicazioni su strategie, modalità e stili che sono di aiuto per
evitare problemi e malintesi, così come, di converso, suggerimenti su cose da evitare.
I canali comunicativi possibili sono molti e diversificati; oltre ai media classici, esistono
29
differenti modi per contattare le persone interessate da un evento di emergenza, e che di
fatto sono quasi sempre stati utilizzati. In caso di disastro accaduto, alcuni di questi
possono essere temporaneamente non utlizzabili.
Ai due media classici di giornali e televisione, e trascurando riviste ed altri periodici, si
va oggi ad aggiungere la rete internet, che in molte aree nazionali ed europee sta
raggiungendo una consistente diffusione e consultazione. Associato alla rete internet vi
è il canale della posta elettronica, che presenta l'indubbio vantaggio di essere dotato di
grande tempestività.
Rispetto a questi ultimi canali comunicativi, non va però sottovalutato che per
consistenti fasce della popolazione, specie in zone rurali e/o in presenza di livelli
d'istruzione medio-bassi, la comunicazione attraverso internet ha, ed avrà ancora per
alcuni anni, un impatto limitato. Il problema si può inquadrare nell'emergere , in modo
assai visibile, di nuove emarginazioni sociali, che nello specifico va sotto il nome di
“tecno-privazione”. Esiste non solo la dimensione del singolo individuo che non riesce a
ricavarsi spazio nella rete telematica, ma anche quella, messa in luce dalla psicologia di
comunità, della sfera pubblica17. Istituzioni e leader politici non sembra che siano in
grado di contribuire efficacemente a realizzare un tessuto dove i nuovi apprendimenti
abbiano significati condivisi dalla collettività. Su questo i tempi ed i modi del sociale si
stanno diversificando, con una forbice strutturale, da quelli di un settore tecnico ed in
parte istituzionale, in preda ad una crescente autoreferenzialità anche educativa-
formativa.
Altri materiali cartacei sono, in ambito locale, utlizzati ampiamente, e rivestono sicura
importanza: lettere inviate da autorità e/o organizzazioni preposte, pieghevoli
17 cfr. Lavanco G., Novara C., Elementi di psicologia di comunità. Milano: McGraw-Hill, 2002
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illustrativi, manifesti e simili. Anche il telefono, con chiamate dirette e/o con
l'istituzione di call center, quando debitamente pubblicizzati, costituisce un ulteriore
canale interattivo con le persone interessate.
La comunicazione diretta, con la presenza fisica dalle persone, si articola da situazioni
“didattiche” quali attività preventive di tipo formativo, a grandi riunioni ed assemblee,
ad incontri di gruppi medi e piccoli (come nelle attività di “debriefing” dopo una
catastrofe, o come i focus group), e, in misura meno frequente nella psicologia
dell'emergenza, agli incontri individuali. Una comunicazione efficace nelle emergenze
cerca di evitare:
•l'utilizzo del gergo, e di espressioni comprensibili solo a parte degli interessati;
•lo humor in relazione a sicurezza, salute o ambiente;
•termini e frasi negative;
•solo parole o testo per i punti più importanti (integra con figure e simili);
•di dare per scontato che chi parla sia stato compreso o che si sia spiegato bene;
•di servirsi di astrazioni;
•apparire disorganizzati;
•di fare promesse cui non può tenere fede;
•di portare il denaro speso come testimonianza del proprio impegno;
•di provare a scaricare su altri le responsabilità;
•di assumere l'identità di una grande organizzazione;
•di esaltare se stessi o la propria organizzazione;
•di non coivolgere i partecipanti.
L'elenco sintetizza buona parte delle debolezze comunicative che negli anni sono state
osservate. Rispetto al punto, non inserito nella lista precedente, di utilizzare delle
comparazioni tra il rischio in questione ed altri rischi, ossia porre lo stesso in
prospettiva, viene suggerito di non usare eventuali benefici per giustificare il rischio, e
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di non indebolire la fiducia e la credibilità con comparazioni irrilevanti o peggio
fuorvianti (Covello et al, 1988; Covello, 1989). Le più efficaci comparazioni sembrano
essere quelle dello stesso rischio in due differenti momenti temporali, con un qualche
“standard” dotato di senso e con differenti stime dello stesso rischio.
In positivo, le competenze comunicazionali richieste per attuare uno scambio efficace
possono essere riassunte nel saper:
•ascoltare e raccogliere le informazioni rilevanti;
•esprimersi in modo appropriato e congruente;
•rispettare le regole di cooperazione conversazionale e di cortesia;
•instaurare e mantenere la relazione, calibrare il feedback;
•essere flessibili e utilizzare quanto emerge;
•scegliere lo stile più adattoalle circostanze/setting.
Emerge come questa seconda scaletta “in positivo”, pur presentando i punti in forma
leggermente più generale, si ricolleghi alla lista di “cose” da evitare. Entrambe sono
dirette soprattutto a due punti basilari, ovvi nella sostanza ma assolutamente non
scontati nel realizzarsi: stabilire un rapporto di fiducia e avvicinarsi ad un rapporto di
partenariato, con un coinvolgimento che cerca di dare ascolto reale a chi viene soccorso,
muovendosi in una direzione equitativa-distributiva per agire uno scambio basato sul
rispetto reciproco. Pur riconoscendo che una situazione di scambio tra “pari” è
realizzabile in gruppi di auto-aiuto e ben difficilmente nel caso generale di soccorritori e
vittime, si ritiene non di meno che un valido approccio comunicativo debba muoversi in
tale direzione. Dare per acquisita nella pratica e nella letteratura della comunicazione
d'emergenza detta direzione potrebbe rivelarsi erroneo: recenti testi specifici in merito
(De Vincentiis, 2001), intercalano l'argomento in questione con massime, tratte da tutte
le epoche storiche, inneggianti all'arte della guerra, derivando da queste virtù e strategie
32
considerate applicabili con profitto alla comunicazione d'emergenza. Oltremodo
difficile, pensando a tale posizione, ed ai valori che la sostanziano, trovare spazio a
relazioni basate su ascolto, empowerment, condivisione e simili. Assai più facile è
aspettarsi contatti informativi travestiti, o spacciati, come comunicazioni, inscritti in
un'agire da “specialista” per il quale viene da chiedersi, oltre alla premura di misurare i
risultati dell'intervento in termini di recupero delle quotazioni dell'azienda produttrice
del disastro, quanto possa essere vicino a chi è stato coinvolto nella catastrofe.
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Conclusioni
Nel concludere il percorso di riflessione sulla comunicazione nell'emergenza proposto,
sviluppato più per alcuni punti salienti che in modo sistematico, si vuol tornare
sull'importanza di realizzare una comunizione sì efficace, ma anche e soprattutto dotata
di un senso che sia radicato nel sociale della comunità colpita dall'emergenza.
Parlare di efficacia rimanda ad obiettivi e conseguimenti, ad un “punto fermo”, rispetto
al quale misurare un processo che si è concluso. Riferirsi al senso è parlare di vita e di
continuità, un divenire dove fluisce passato, presente e futuro nello svolgersi di una
narrazione continua. Le situazioni d'emergenza, con la destrutturazione che mettono in
atto costituiscono uno spazio dove le cognizioni e le emozioni stabiliscono tra loro
nuove relazioni, e possono trovare canali espressivi meno vincolati da schemi e
consuetudini. Comunicare in tali situazioni richiede competenza e sensibilità, poiché è
semplice consolidare asimmetrie e scivolare nel paternalismo quando la comunicazione
si svolge tra vittime e soccorritori. In forme ed in modi diversi questo riguarda sia la
comunicazione con la comunità che con il singolo. Uno dei maggiori problemi risiede
nel gestire una comunicazione emozionale che possa ricollegarsi alla razionalità
cognitiva quando di questa nel e dopo il disastro, ne è rimasta una traccia frammentata e
spesso leggera.
Comunicare, come si è cercato di mettere in evidenza, non si limita a recapitare il
“messaggio”, consegna “tecnica” inscrivibile in un paradigma di asettica neutralità, ma
vuol dire farlo comprendere. Ed ancora, perchè possa darsi vera comunicazione è
necessario riconoscere l'altro, la vittima, e capirne simboli, riti e valori. In qualche
misura anche saperli accogliere. Ed essere riconosciuti come validi interlocutori, cosa
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che la scienza della comunicazione può orientare e favorire, ma non costruire ex-novo.
In tal caso è possibile ricevere, come psicologi, il dolore generato dalle catastrofi,
comunicarne che ne è possibile la trasformazione, spesso assai più lenta dei tempi del
soccorso sotto i riflettori mediatici, in costruttiva determinazione per integrare prima il
disastro subito nella propria storia di vita e poi, se si riesce, contribuire per le proprie
possibilità a ridurre le catastrofi future. Almeno quelle, e sono molte, dove alcuni
uomini non riescono ad occultare le proprie dirette responsabilità.
35
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