Post on 01-Dec-2015
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ANTONIO ROCCA
BOMARZO ERMETICA
Il sogno di Vicino Orsini
Comitato scientifico
Gabriella CiampiAlfio CortonesiLuciano OsbatLeonardo RaponeMaurizio RidolfiMatteo Sanfilippo
SETTE CITTÀ
a Cecilia e Giancarlo
1
Proprietà letteraria riservata.
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meccanico, in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, internet) sono vietate
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isbn: 978-88-7853-324-0
isbn ebook: 978-88-7853-472-8
© immagini di archivio 2006 Sette Città.
Finito di stampare nel mese di marzo 2013 da pressup
Caratteristiche
Questo volume è composto in Minion Pro disegnato da Robert Slimbach e prodotto in formato digitale
dalla Adobe System nel 1989 e per le titolazioni in Sophia disegnato da Matthew Carter e prodotto in formato
digitale dalla Carter & Cone Type Inc. nel 1991; è stampato su carta ecologica Serica delle cartiere
di Germagnano; le segnature sono piegate a sedicesimo (formato 14 x 21) tagliate e fresate; la copertina è
stampata su carta patinata opaca da 250 g/mq delle cartiere Burgo e plastificata con finitura lucida.
SOMMARIO
2
INTRODUZIONE di Marcello Carriero 9
PREMESSA 15
GIULIO CAMILLO DELMINIO 17
L’IDEA DEL TEATRO 20
IL TEATRO IMMAGINE DELL’UNIVERSO 22
LE RAGIONI DELLA RIMOZIONE 26
VICINO ORSINI 29
BOMARZO 34
DAL PALAZZO AL SACRO BOSCO 37
IL PIAZZALE EGIZIO 39
LE ISCRIZIONI 41
IL TEATRO 47
LA CASA PENDENTE 51
IL VIALE BASSO 54
LA DEA DORMIENTE E LA QUESTIONE DELLE DATE 58
IL PIAZZALE DI NETTUNO 61
LEPANTO 63
LA PANCA ETRUSCA 65
LA NOTTE DI SAN BARTOLOMEO 67
CERBERO, IL TERRAZZINO E PAN 70
APPARATO ICONOGRAFICO 73
3
INTRODUZIONE
Lo strumento di ricerca scelto da Antonio Rocca per il suo studio
sembra essere quel “modello anarchico” prediletto da Eugenio Battisti.
Un modello di perfetta filologia che non fa credere a nessun dato riferito
senza averne le prove e non fa accettare mai le interpretazioni di altri
senza averne, di persona, ripercorso il ragionamento. Guardando con
attenzione all’interpretazione che Antonio Rocca dà del Sacro Bosco di
Bomarzo, il riferimento corre ancora a Battisti, nello specifico alla raccolta
di studi del 1962 intitolata l’antirinascimento intesa come ipotesi di
lavoro, più che come griglia di traguardi affermati. È infatti più che mai
appropriata l’applicazione del concetto di “antirinascimento” al Sacro
Bosco, groviglio di enigmi del tutto estranei alla chiara e proporzionata
visone prospettica rinascimentale. Il Parco, voluto e realizzato da
Vicino Orsini a metà del XVI secolo, è un episodio singolare e come
giardino ha la particolarità di rivelarsi più un luogo di memoria che
“locus amoenus”. Frutto di un progetto che non è non solo specchio
intellettuale del suo ideatore, il parco nel suo apparente disordine di
allegorie e suggestioni letterarie è un “iperluogo”.
“Se non gli stesse il mio bosco, io sarei solo in questo mondo” dice
l’Orsini in una lettera del 1583 quando, da vecchio, ripercorreva il
mondo che aveva costruito e animato.
Gli ultimi studi, che hanno il pregio di aver dato un nome all’autore
materiale delle sculture, Simone Moschino, anche se ricchi di interessanti
contributi sull’iconologia di questa speciale Arcadia, scomposta e
4
onirica, orrifica e sorprendete, sembrano però non risolvere esaurientemente
l’anomalia di questo giardino, o il mistero che di questa anomalia
è conseguenza. La lettura iconologica preminente è stata sinora
riconducibile agli studi di Maurizio Calvesi e di Horst Bredeckamp che
hanno individuato le fonti letterarie a cui Vicino avrebbe attinto per
redigere gli episodi scultorei e le iscrizioni, ma nessuno, prima di Antonio
Rocca, è mai riuscito a dare un modello unitario e ideologicamente
coerente per l’intero parco di Bomarzo.
5
10 MARCELLO CARRIERO
Esclusioni e aporie, leggerezze e sconcertanti approssimazioni hanno
lasciato in sospeso importanti questioni, popolando alcuni episodi
del parco di incognite a cui Antonio Rocca ha dato risposta.
La ricostruzione dei significati lungo un preciso tragitto segue, secondo
l’ipotesi di Rocca, un modello che sancirebbe la collocazione del
Sacro Bosco del tutto al di fuori della tipologia petrarchesca del giardino
come paesaggio allegorico chiuso e protetto e parimenti aperto a un
possibile viaggio interiore punteggiato di citazioni letterarie; il parco
sarebbe, al contrario, un dispositivo, un coerente edificio della conoscenza
universale. A Bomarzo non saremmo, quindi, dentro un rifugio
per la vita teoretica, bensì al cospetto di una rappresentazione spaziale
impostata su uno schema cognitivo e ideologico da utilizzare come Theatrum.
Il teatro di Bomarzo, secondo lo studioso, sarebbe quello ideato
da Giulio Camillo Delminio e costruito in pietra da Vicino Orsini.
Giulio Camillo Delminio, uno dei più noti umanisti veneti del primo
Cinquecento, cabalista e studioso di ermetismo scrisse il trattato
l’Idea del Teatro con l’intento di dare un’immagine alla totalità dello
scibile umano attraverso esempi corrispondenti a figure mitologiche.
L’ipotesi di Rocca sull’applicazione dello schema camilliano a Bomarzo
si basa sulla convincente ipotesi di anticipazione del momento ideativo
del parco e spiega come la sua organizzazione abbia fondamento nella
cultura ermetica.
6
Lo studioso ritiene fondamentale il momento cruciale in cui Vicino
entrava in contatto con quelle idee che saranno più tardi espresse in
pietra, tra queste il concetto di statua parlante. Inserita a pieno nella
tradizione rinascimentale, l’idea della statua parlante poggiava in parte
sulla suggestione che le vestigia del passato potessero testimoniare l’età
dell’oro ma anche sulla convinzione che l’artificio, imitando la natura,
potesse animarsi certificando la definitiva trasformazione dell’artista
in creatore. Il periodo focalizzato è anche il tempo in cui una generazione
di intellettuali maturò le proprie idee liberamente a Venezia,
città eletta a nuovo Parnaso dopo il Sacco di Roma. La “pista veneziana”
proposta da Rocca si basa sul riscontro dei rapporti intrecciati tra l’ambiente
degli spirituali e la città lagunare, certificati dalla condivisione
di argomenti e trattati come il Beneficio di Gesù Cristo crocifisso verso
i cristiani di Marco Antonio Flaminio, amico fraterno di Giulio Camillo.
Rocca studia questo intreccio per svolgere una linea ideologica
che muove dalla tradizione neoplatonica e incrocia gli studi comparati
di cabala, mistica pagana e musulmana con lo scopo di trovare una
verità universale e, all’interno di questa linea, rileva l’importanza della
cultura pseudo-egizia di Vicino Orsini evidentemente riscontrabile
nel Parco di Bomarzo. Obelischi e sfingi sembrano qui poste a guardia
dell’itinerario iniziatico che Antonio Rocca propone come un nuovo,
rivoluzionario viaggio. Un viaggio che, oltre ad essere un prezioso contributo
alla storia delle idee, ha il pregio di indicare campi di ricerca
alternativi a quelli già noti.
Marcello Carriero
7
Chi lavora per la verità non è nemico di Dio, qualunque
setta o religione professi, a qualunque cultura o nazione
appartenga.
Giulio Camillo, L’idea di eloquenza
Che nessuno osi ancora scrivere, pubblicare, stampare
o far stampare, vendere, comprare, dare in prestito, in
dono o con qualsiasi altro pretesto, ricevere, tenere con
sé, conservare o far conservare qualsiasi dei libri scritti
e elencati in questo Indice del Sant’Uffizio.
Indice dei libri proibiti
8
PREMESSA
Un oblio secolare ha avvolto il Sacro Bosco di Bomarzo in modo assoluto
e improvviso. S’è riversato sul giardino come un’onda gigantesca
e inattesa, seppure, in qualche modo, presagita. Il silenzio e l’incomprensione
gravavano su Bomarzo già negli ultimi anni di vita di Vicino
Orsini, quando sull’uomo e sul suo mondo s’era allungata l’ombra di
una disfatta epocale.
Il tragico, che incombe su quei massi scolpiti, tracima la dimensione
estetica o ludica o letteraria. C’è una ferocia afona e persistente, un sentimento
di radicale sconfitta che è rimasto integro e sospeso tra quelle
creature di pietra. Sconfitta mantenuta in vita da una perfetta coltre di
indifferenza che è la testimonianza prima dell’entità della disfatta.
Il mondo di Vicino è stato annientato due volte. Annichilito dal partito
uscito vincente dal Concilio tridentino e, in seconda istanza, dalla
catastrofe della civiltà antica soppiantata da una modernità prosaica ed
efficiente.
Sempre le generazioni si sfidano, gli stili si susseguono, ma agli intellettuali
del Rinascimento maturo spettò un destino più crudele: essi
divennero improvvisamente incomprensibili. Furono smentiti proprio
quando speravano di aver tirato le fila dell’unico vero sapere, la scienza
universale in cui le epoche e le civiltà trovavano un comune denominatore
ed un senso unitario.
9
Una massa straordinariamente vasta e articolata di conoscenze si è
sbriciolata all’insorgere prepotente di una cultura che delegittima in un
colpo immaginazione, sogno, fede e il pantheon delle autorità: Platone,
Aristotele, Ippocrate, Tolomeo…
Ciò che chiamiamo Modernità è stato, in primo luogo, un movimento
di sottrazione. I miti sono stati scarnificati, i racconti impoveriti.
Le complesse alchimie della cabala, il calcolo della qualità e della quantità
delle lettere, è stato sostituito dalla chimica. Dio stesso è divenuto
una macchina lontana, la cui unica funzione è quella di dare un colpo
al mondo per farlo partire.
La nascente ideologia tecnoscientifica presto darà vita a nuovi riti e
miti, il trionfo dell’Illuminismo e della borghesia avrebbe reso illeggibile per
secoli il codice ermetico. Solo il ‘900, col Surrealismo e il crepuscolo
del Moderno, poteva riscoprire ciò che era rimasto sotto gli occhi
di tutti. In modo lento ma costante artisti e poeti, scrittori e musicisti
sono stati attratti da Bomarzo. Attratti dall’enigma di cui si facevano
latrici quelle bizzarre creature di pietra.
10
BOMARZO ERMETICA 17
GIULIO CAMILLO DELMINIO
Nonostante gli studi degli ultimi decenni, la figura di Giulio Camillo
resta confinata nell’angusto territorio degli addetti ai lavori. La
sua fortuna non è paragonabile a quella di molti suoi colleghi come
l’Ariosto o il Tasso, Erasmo da Rotterdam, Bembo o l’Aretino. Eppure
ciascuno di loro conobbe e celebrò il Delminio. Bembo e l’Aretino gli
chiedevano raccomandazioni presso il Re di Francia, l’Ariosto lo inserisce
nell’Orlando, il Tasso scrive che fu il primo dopo Dante ad aver
ricondotto la retorica al livello della poesia, Erasmo lo definisce il più
grande oratore italiano e ricorda i giorni nei quali vi condivideva la
stanza e talvolta anche lo stesso materasso1.
Il Delminio era notissimo anche nel mondo dell’arte: Tiziano e Salviati
illustrarono sue opere, Lorenzo Lotto gli fa da testimone quando
Sebastiano Serlio, con regolare atto notarile, nomina Giulio Camillo
suo erede universale. È impressionante constatare la potenza ibridante
del suo lavoro, ne ritroviamo tracce in trattati d’arte e architettura
come quelli dello Scamozzi, del Lomazzo e di Federico Zuccari.
Giulio Camillo era nato a Portogruaro, intorno al 1480. Al principio
del Cinquecento entra a far parte dell’Accademia Liviana, fondata da
Bartolomeo d’Alviano nel suo feudo di Pordenone. Tra gli ufficiali del
Liviani, il Delminio incontra Giancorrado Orsini, padre di Vicino.
11
Dopo aver lungamente viaggiato per l’Italia, il Delminio, latinismo
per Dalmata, si stabilisce in Francia a partire dagli anni trenta. A Fontainebleau
lavora al progetto della sua vita, la costruzione di un dispositivo,
che chiama Teatro, in grado di ridurre a sintesi l’intero scibile.
Lontano dalla Penisola continua però a partecipare al dibattito politico
e religioso che animava gli anni che precedono il Concilio. La Chiesa
è divisa in due fazioni, gli zelanti del Carafa e gli spirituali, guidati dal
Pole, favorevoli a riaprire il dialogo con i riformati. Camillo si schiera
con questi ultimi e a più riprese interviene a favore di eretici e riforma
1 “Cum Iulio Camillo non nunquam eadem iunxit culcita”, Erasmo, lettera
dell’agosto 1535, in F. Scaramuzza, Giulio Camillo Delminio. Un’avventura
intellettuale nel ‘500 Europeo. Udine 2004, AGF. p. 159 n. 1 tori2.
Papa Paolo III Farnese, impegnato a consolidare le sorti del suo casato,
mantiene una posizione di relativa neutralità. Intanto, all’ombra
del cardinale Alessandro Farnese, viene costituendosi una cerchia di
aristocratici e intellettuali vicini alle posizioni dell’ecclesia viterbiensis
del cardinal Reginald Pole.
Camillo entra nella sfera d’influenza farnesiana ed è grazie ad un
intervento diretto del Pontefice che è tratto di prigione, dove era stato
rinchiuso, intorno al 1540, con l’accusa di aver praticato l’alchimia.
Il biennio 1541-1542 segna un inasprimento dello scontro interno alla
Chiesa. I teologi Marco Antonio Flaminio e il Contarini, entrambi legati
12
a Camillo, pongono le basi per una riconciliazione con i luterani,
mentre il Carafa, nominato Grande Inquisitore, scatena la sua azione
contro gli spirituali.
Il conflitto attraversa anche gli ordini monastici, i teatini del Carafa
fronteggiano i cappuccini guidati da Bernardo Ochino. L’Ochino,
convocato dal Santo Uffizio, decide di fuggire all’estero mettendo a rischio
l’intero ordine dei cappuccini. Nello stesso 1542 il Delminio3 lo
raggiunge a Ginevra, forse tentando di ricondurlo in Italia. La lunga
permanenza di Camillo in città inquieta Calvino, che se ne lamenta in
una lettera: ”Habemus hic Julium Camillum, cuis tam diuturna mora
nobis nonnihilo suspecta4”. I sospetti di Calvino erano vani, l’Ochino
era deciso a non rientrare in Italia e ribadisce al cardinal Farnese e a
Girolamo Muzio, discepolo di Camillo, le motivazioni che lo avevano
indotto alla fuga, idee che aveva già espresso a Vittoria Colonna:
“Christo m’insegnò a fuggire più volte, in Egitto e alli Samaritani et
così Paulo, immo mi disse che io andassi in altra città quando in una io
non ero ricevuto. Dapoi che farei più in Italia? Predicar sospetto et predicar
Christo mascarato in gergo? Et molte volte bisogna bestemiarlo per
2 Una sua celebre orazione in difesa del monaco Pallavicino sarà, coraggiosamente,
pubblicata in Italia da Francesco Sansovino. Cfr. Scaramuzza, op. cit., p. 348
3 Secondo lo Scaramuzza, autore di un testo di sintesi fondamentale sul Delminio,
Giulio Camillo si sarebbe recato in Svizzera su incarico dello stesso Cardinale
13
Farnese. Cfr. Scaramuzza, op. cit., pp. 492-93. 4 Scaramuzza, op. cit., p. 492
“satisfare alla superstizione del mondo. Et non basta, et ad ogni sgraziato
basterebbe l’animo scrivere a Roma, pontar me: ritorneremo presto alli
medesimi tumulti. E scrivendo manco potrei dare in luce cosa alcuna.5”
Rientrato in Italia, forte di una raccomandazione di Paolo Giovio,
il Delminio si mette al servizio del marchese d’Avalos, governatore di
Milano. Nel 1544, pochi mesi prima di morire, detta a Girolamo Muzio
una versione breve e priva d’immagini del lavoro condotto in Francia
per Francesco I: L’Idea del Teatro.
5 Lettera di Bernardo Ochino a Vittoria Colonna, 22.8.1542, in G. Bardazzi, Le rime
spirituali di Vittoria Colonna e Bernardo Ochino, p. 68, da «Italique», IV (2001), p. 68.
L’IDEA DEL TEATRO
I termini “idea” e “teatro” hanno subito nel corso dei secoli un radicale
cambiamento di significato. Nella parola “idea” riverberava la suggestione
positiva del concetto platonico di forma archetipica.
Le idee erano considerate espressione icastica del disegno divino.
Anche il termine “teatro” ha subito un notevole slittamento semantico.
Nel XVI secolo, in ambito scientifico, si utilizzava comunemente la
parola “teatro” per definire manuali enciclopedici caratterizzati da un
ampio ricorso a tavole illustrative. L’accezione, oggi divenuta un preziosismo
archeologizzante, fu molto praticata sino all’Illuminismo.
14
Il libro di Camillo tuttavia si distingue da opere come il Theatrum
de beneficiis, de veneficiis, diabolicorum, fungorum, cometicum, orbis
terrarum…, in quanto il suo dispositivo si propone come un manuale
onnicomprensivo, il teatro dei teatri. Il Delminio voleva realizzare un
testo in cui davvero la dinamica dell’universo potesse essere messa in
scena, visualizzata in modo sinottico. Tentò persino di dare vita ad un
modello tridimensionale della sua macchina. In una lettera ad Erasmo,
Viglio parla di una costruzione ripartita in ordine e gradi, gremita di
immagini e piccole cassette piene di fogli, e prosegue:
“Egli chiama questo suo teatro con molti nomi, dicendo ora che è una
mente e un’anima artificiale, ora che è un’anima provvista di finestre.
Pretende che tutte le cose che la mente umana può concepire e che non
si possono vedere con l’occhio corporeo, possono tuttavia, dopo essere
state raccolte con attenta meditazione, essere espresse mediante certi
simboli corporei in modo tale che l’osservatore può, all’istante, percepire
con l’occhio tutto ciò che altrimenti è celato nelle profondità della mente
umana. E appunto a causa di questa percezione corporea lo chiama un
teatro.6”
Nella lettera Viglio, sorprendentemente, parla di un anfiteatro.
6 Lettera di Viglio a Erasmo, Erasmus, Epistolae, X, in Yates, op. cit., p. 123
15
Forse Giulio Camillo stava anticipando il theatrum anatomicum, aula ad
anfiteatro in cui era possibile assistere alla dissezione dei cadaveri. Il
theatrum anatomicum costituiva una formula di compromesso tra la
scientificità del trattato di anatomia e il teatro vero e proprio, in quanto
prevedeva una sorta di scena riservata ad un singolo attore. È possibile
che il Delminio avesse pensato di costruire una struttura centripeta, al
cui interno il filosofo potesse sezionare i misteri del cosmo.
La scienza antica e quella moderna si muovevano all’interno di un
medesimo orizzonte e, almeno in un caso, erano destinate ad incontrarsi
nella stessa aula universitaria. Nel 1540, nella facoltà di medicina
di Bologna, il Delminio era presente ad una necroscopia operata da
Vesalio, padre dell’anatomia moderna. L’uno era intento a perfezionare
la sua mirabile macchina, l’altro, nell’aprire cadaveri, uccideva il corpo
vivo del sapere aristotelico. Camillo avrebbe completato l’Idea del
Teatro quando erano ancora freschi di stampa il De humani corporis
fabrica di Vesalio e il copernicano De revolutionibus orbium coelestium,
usciti contemporaneamente nel 1543. Nessuno allora poteva vedere il
nesso tra quei testi, intuire come la lacerazione del mitico e mistico
rapporto tra corpo e universo, tra micro e macrocosmo, avrebbe finito
col devastare l’intero tessuto epistemico che, sin lì, aveva mantenuto
vitale uno stesso orizzonte ben al di là delle polemiche, pur durissime,
tra l’una e l’altra scuola che in esso trovavano spazio.
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IL TEATRO IMMAGINE DELL’UNIVERSO
Immagini profane come la piramide raffigurata nelle banconote
americane o la copertina di The dark side of the moon dei Pink Floyd ci
aiutano a comprendere lo schema dell’universo neoplatonico. Un raggio
di luce passa attraverso un triangolo e si apre a prisma dando vita ad
un arcobaleno. Dio è il fascio di energia creante che muove dall’iperuranio
e si diversifica, rimanendo uno, nella regione celeste.
La rivoluzione scientifica e la filosofia kantiana hanno conferito a
termini come “metafisico” e “iperuranio” un’accezione negativa o, nella
migliore delle ipotesi, meramente simbolica. Ma per i neoplatonici
l’iperuranio, il sovraceleste, è una regione collocata oltre la sfera dei
cieli. La metafisica è ciò che rende possibile il fisico, ciò che lo sostiene
sostanzialmente.
La luce non si vede ma rende visibile, la luce rimbalza contro le superfici
riflettenti, comportandosi come un solido, ma attraversa quelle
trasparenti, come fosse immateriale. La luce riscalda e illumina, non
ha colore eppure contiene in sé tutti i colori. Dio è la coincidenza degli
opposti, l’invisibile è il visibile in quanto lo sostanzia:
Stai forse per dire: «Dio è invisibile»? Bada a come parli. Chi è più
visibile di Dio? Egli ha creato tutto, affinché tu potessi vederlo in tutto.
Questa è la bontà di Dio, questa la sua virtù: manifestarsi attraverso la
totalità degli esseri. Non c’è niente infatti d’invisibile, neppure tra gli
esseri incorporei. L’intelletto si rende visibile nell’atto di pensare, Dio
17
nell’atto di creare.7
Dio è rappresentato da un triangolo, che i cristiani intesero come
immagine della trinità mentre nella cabala simboleggia i suoi tre nomi
inconoscibili, le tre sephiroth maggiori. Il triangolo, o pyramidion, è il
vertice di una piramide che è raffigurata come un triangolo equilatero
composto da dieci punti. I pitagorici chiamavano questa figura tetractis,
7 Ermete Trismegisto, Corpo ermetico, XI 22
In quanto ogni lato presenta quattro punti. La piramide, d’ascendenza
egizia, pitagorica, cabalista e cristiana, è considerata sacra anche dai
neoplatonici8. La centralità della tetractis nella cultura ermetica deriva
dalla sua capacità di suggerire l’unità di fisico e metafisico. Il vertice
divino, costituito da tre punti apicali, si connette con le sette colonne
dell’universo. La regione celeste si chiude con una base quaternaria che,
nella sfera sublunare, innesca il gioco dei quattro elementi.
Coerentemente con i principi della teologia negativa, secondo cui
non era dato conoscere la natura dell’ultraceleste, Camillo non descrive
nel suo Teatro il triangolo mistico, ma prende a mappare il cosmo a
partire dalla sfere celeste. Dal momento in cui è possibile distinguere
l’articolazione modale dell’unità indistinta in sezioni d’onda discreta,
dal momento in cui il fascio di luce disvela la natura cromatica del rispettivo
segmento energetico.
Il dio musicista della cultura ermetica compone tutta la musica del
mondo utilizzando sette note, ad esse corrispondono altre fondamentali
18
come le sette vocali greche, i giorni della settimana o i pianeti tolemaici:
Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere, Saturno e il Sole. Il raggio
di sole, normalmente rappresentato da un obelisco, è lo sguardo di Dio
che penetra la regione celeste per illuminare la terra. Il raggio di sole è
l’occhio di Dio nel centro del triangolo.
Ad ogni cielo, o pianeta, corrisponde uno dei quattro elementi sublunari:
acqua, terra, fuoco e aria.
A sua volta ogni elemento è collegato con una stagione, uno stato
fisico, un carattere e uno degli umori fondamentali: bianco, nero, rosso
e giallo.
Date queste premesse si comprende la complessità dell’interrelazione
tra fisica, astrologia e medicina. La scienza rinascimentale riteneva
che gli astri potessero attivare un moto di repulsione o attrazione sugli
elementi e gli umori vitali. Un buon tema natale comportava equilibrio
armonico, definito “eucrasia”, la disarmonia era detta, invece, “discra
8 L’eroe della Pugna d’amore in sogno di Polifilo, capolavoro della letteratura
neoplatonica e fonte iconografica del Sacro Bosco, s’imbatte in una piramide al
principio delle sue peregrinazioni alla ricerca dell’amata Polia, e una Piramide è
il primo simbolo di cui si serve Camillo per rappresentare il sole nella sua mappa
cognitiva dell’universo.
sia”. Su tali basi la medicina aveva fondato una teoria dei tipi, cui ci si
affidava per riconoscere i caratteri e per elaborare la cura.
Il tipo malinconico o saturnino denunciava prevalenza di umore
19
nero, era considerato pallido, avaro, triste e geniale.
Un eccesso di umore giallo, detta bile, caratterizzava il tipo collerico,
che aveva il suo punto debole nel fegato. Il bilioso era generoso,
superbo, magro e con un bel colorito.
Il flemmatico con un’eccedenza di umore bianco, detto flegma, era
considerato lento, sereno e talentuoso.
Il tipo sanguigno, gioviale, era sotto la predominanza dell’umore
rosso ed era riconoscibile per il buon carattere, per la dedizione al cibo
e al sesso.
Il tema natale, l’irripetibile miscela degli elementi che caratterizza
ogni singolarità, condiziona gli individua ma non nega il libero arbitrio.
Ogni uomo è un frammento di Dio, un dio smarrito nel mondo,
se saprà ritrovare la strada di casa potrà dominare gli influssi astrali.
La conoscenza è dunque strumento di salvezza e in questo cammino il
Teatro di Giulio Camillo si propone come una mappa preziosa.
Il congegno è molto semplice ed è dato dall’incrocio di due linee
base. Nel segmento latitudinale Camillo dispone sette caselle dedicate
sincreticamente ai fondamentali della cultura classica, ebraica e cristiana:
le sephirot minori, gli arcangeli e i pianeti tolemaici. Nell’asse
longitudinale descrive, invece, sei gradi di sviluppo attraverso i quali
l’energia celeste si fa mondo.
20
Una volta entrato nella regione sublunare, o terrestre, il prisma energetico
avoca i quattro elementi secondo dinamiche differenti per ogni
punto nel flusso. La sezione d’onda che esprime Marte tenderà ad inverarsi,
principalmente, sotto forma di fuoco. L’energia lunare attrarrà
l’acqua, Giove l’aria, Saturno invece la terra. Come un accordo musicale,
ogni entità è però composta da più elementi.
In un primo momento, scrive Camillo, le energie si incontrano.
Questo grado è detto Convivio.
Nella fase successiva, Antro delle Ninfe, gli elementi appaiono in
un’unica tessitura materica. Nel terzo grado, Gorgone, fa la sua comparsa
l’anima, che nel quarto grado, Pasifae e il toro, si lega al corpo.
Negli ultimi due momenti, Talari di Mercurio e Prometeo, vedono la
luce attitudini e tecniche.
L’intreccio delle sette colonne e dei sei gradini evolutivi dà vita ad
una sorta di griglia, composta da 42 caselle9, in cui il Delminio ha collocato
delle immagini col duplice intento di favorire la memorizzazione
e di celare, agli occhi dei profani, il significato ermetico del suo lavoro.
9 Cui vanno aggiunte le sette case dedicate ai pianeti, che vanno considerate come
una sorta di grado zero.
21
LE RAGIONI DELLA RIMOZIONE
Il Delminio fu un autore celebre, il suo Teatro ha avuto innumerevoli
critici ed imitatori, eppure, per secoli, di Giulio Camillo e del suo
lavoro si è praticamente persa memoria. L’opera di Vicino Orsini fu, a
paragone, indubbiamente meno nota tra i contemporanei, tuttavia desta
meraviglia l’assoluto silenzio nel quale il Sacro Bosco ha attraversato
la Modernità.
Troppo grande la soluzione di continuità tra la cultura rinascimentale,
ancora divisa in platonici ed aristotelici, e il mondo che emergerà
dalla rivoluzione scientifica. Il Seicento ha determinato le condizioni
per una catastrofe sistemica dell’intero quadro epistemologico sin lì
conosciuto. È una rivoluzione che muta la percezione dello spazio, del
tempo, della parole. Persino la stessa parola ‘rivoluzione’, che era stata
figura di un divenire ciclico, tradisce se stessa e viene ad avere il significato
di un balzo che spezza l’eterno ritorno del medesimo. La ruota
mette i denti e comincia a mordere il mondo, imprimendo ovunque il
segno del suo passaggio. Ne emergerà un paesaggio in cui non c’è posto
per il sogno ermetico.
Al Teatro del mondo di Giulio Camillo, Descartes ha sostituito un
sistema di assi utile ad individuare astratte entità geometriche. Mentre,
di là della Manica, Francis Bacon pone tra i maggiori ostacoli allo
sviluppo della scienza “l’idolo del teatro”, il miraggio di un sistema in
cui non è possibile discernere tra filosofia, scienza e religione. Probabilmente
Bacon sta riferendosi a Camillo, certamente la civiltà di Camillo
22
tramonta quando l’Idea del teatro è ridotta ad idolo. Qui risiedono le
cause di una così lunga fase di oblio, ma, nell’immediato, ciò che ridusse
al silenzio e all’incomprensione la cultura di Vicino e di Camillo fu
il conflitto con gli Inquisitori.
Gli zelanti artefici della Controriforma intuivano la pericolosità teologica
e politica rappresentata da un dispositivo come quello di Camillo.
Scopo del Teatro era sottolineare l’unitarietà profonda tra la filosofia
pagana, la religione cristiana e la cabala ebraica. I neoplatonici
erano persuasi che la storia del pensiero filosofico e religioso fosse una
variazione continua su un medesimo tema. Un’unica tradizione congiungeva
i prisci theologi ai contemporanei Cusano e Bessarione, ultimi
interpreti dell’eredità di Plotino e Dionigi l’Aeropagita, di Agostino e
Avicenna.
“Chi lavora per la verità – avrebbe scritto Giulio Camillo – non è nemico
di Dio, qualunque setta o religione professi, a qualunque cultura o
nazione appartenga.10”, questo tipo di apertura sincretica, che all’epoca
fu detto irenista, non poteva che entrare in conflitto con l’integralismo
delle parti in lotta.
Gli irenisti, abituati a riconoscere elementi comuni tra culture molto
distanti, si posero quasi naturalmente tra quanti erano propensi al dialogo.
Giulio Camillo, in particolare, fu molto legato a Marco Antonio
Flaminio, coautore di un testo in cui si ponevano le basi per ricomporre
l’unità dei cristiani. Il Trattato utilissimo del beneficio di Giesù Christo
crocifisso verso i cristiani dislocava l’attenzione dalla questione della
23
salvezza per opere o per fede, ripartendo dal potere salvifico e universale
derivato dal sacrificio del sangue di Cristo. Un’opera pericolosissima
per il Santo Uffizio che ne ordinò la distruzione.
Detto ciò è importante comprendere che gli irenisti erano irriducibili
all’ortodossia cattolica, tanto quanto lo erano ai nuovi dogmi protestanti.
Sensibili alla cultura ermetica e cabalista, uomini come Giulio
Camillo o Egidio da Viterbo, padre generale degli agostiniani, avrebbero
potuto condividere e certamente condividevano molte delle richieste
che Martin Lutero, agostiniano a sua volta, aveva avanzato, tuttavia rimaneva
tra i due fronti una distanza incolmabile. L’ antropocentrismo
radicale di Ficino e Pico della Mirandola affonda le sue radici nella tradizione
ermetica. Lo stesso incipit dell’ Orazione sulla dignità dell’uomo
è un richiamo all’Asclepio:
Rispettabilissimi Padri, ho letto, nei testi Arabi, che Abdallah saraceno
interrogato su che cosa, in questa sorta di scena del mondo, considerasse
sommamente mirabile, rispose che non scorgeva nulla di più
mirabile dell’uomo.
10 G. Camillo, L’idea di eloquenza, in F. Scaramuzza, op. cit., p. 269
24
Con questo detto concorda la frase di Mercurio:
Grande miracolo è, o Asclepio, l’uomo.11
Citazione da un passo che merita di essere letto per intero:
O Asclepio, grande miracolo è l’uomo, essere degno di reverenza e
d’onore; egli si spinge infatti verso la natura divina, quasicché egli stesso
sia un dio; egli è familiare con la stirpe dei demoni, poiché sa di avere con
essi comune origine; egli disprezza quella parte della sua natura che è
solo umana, riponendo ogni sua speranza nel carattere divino dell’altra
parte.
12
L’ermetismo è equidistante da Riforma e Controriforma, fratello negletto
della rivoluzione scientifica ha continuato a condurre il potere
seminale del suo messaggio radicalmente umanista, nella clandestinità,
servendosi di società massoniche e di riti esoterici. In qualche occasione,
come dimostra la piramide nella banconota da un dollaro, ha
ottenuto notevoli risultati.
11 Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate, 1486
12 Ermete Trismegisto, Asclepio, VI
13 Cfr H. Bey, Geroglifici e denaro, in Il giardino dei cannibali, Shake, 2010. pp.
114-115. Nel medesimo testo c’è anche un interessantissimo saggio su Bomarzo:
Oniricografia, nel paesaggio di sogno di Polifilo
25
VICINO ORSINI
Pierfrancesco, detto Vicino, nasce a Roma nel 1523 da Giancorrado
e Clarice Orsini. Il padre è cugino di Bartolomeo d’Alviano ed è considerato
da Calvesi quasi un alter ego del celebre condottiero. La madre
appartiene, invece, al ramo degli Orsini di Castello, alleati e parenti dei
Medici.
Vicino trascorre la sua infanzia alla corte di Clemente VII Medici,
cugino del cardinal Franciotto Orsini, nonno di Vicino. Il cardinal
Franciotto è tra i pochi che durante il Sacco di Roma del 1527 può
riparare, assieme al Pontefice, nella imprendibile fortezza di Castel
Sant’Angelo.
Vicino era allora un bambino di quattro anni e quattro anni era durata
la felice stagione del mecenatismo di Clemente; ad alcuni era parsa
una nuova primavera, era invece un’estate di San Martino recisa dalle
picche dei mercenari luterani rimasti senza capo e senza paga.
Forse le cose sarebbero andate diversamente se Benvenuto Cellini
non avesse ucciso Carlo III di Borbone, capitano delle truppe inviate
da Carlo V. Cellini faceva parte dell’ampia schiera di artisti richiamati
a Roma dal progetto di rinascita promosso da Clemente. A seguito del
Sacco tutti lasciarono la città. Rosso Fiorentino va a Fontainebleau dove
incontra il Delminio, Jacopo Sansovino, col figlio Francesco, parte alla
volta di Venezia.
26
Anche Vicino si allontana da Roma. Si suppone che abbia trascorso
la giovinezza tra la corte medicea, i territori della Serenissima e la
Tuscia. Sul finire degli anni trenta Roma non si era ancora ripresa dal
dramma del Sacco e molti aristocratici ripiegarono nel più sicuro entroterra.
La Tuscia era un territorio reso sicuro dall’accordo tra le due
famiglie dominanti: i Farnese, allora al Soglio con Paolo III, e l’antica
dinastia degli Orsini.
Viterbo in quel periodo giocò un ruolo molto importante nello scacchiere
politico della Penisola e non solo. Vi risiedono il Pole, membro
della famiglia reale inglese, e Vittoria Colonna che, oltre ad appartenere
ad una delle più antiche e potenti famiglie romane, poteva vantare il
titolo di Marchesa d’Avalos. Suo marito, in qualità di comandante delle
truppe imperiali, nella battaglia di Pavia aveva fatto prigioniero il re di
Francia e consegnato l’Italia agli spagnoli.
Accanto al Pole a alla Colonna s’erano schierati alcuni degli uomini
più brillanti e potenti dell’epoca. Tra gli altri spiccavano i nomi di Bernardo
Ochino e di Pietro Carnesecchi, appartenente alla casa Medici e
protonotario apostolico.
Nel 1541, Vicino è a Viterbo per assistere alla rappresentazione di
una commedia a lui dedicata, la Cangiaria. Allo spettacolo sono presenti
il Pole e Vittoria Colonna. Nello stesso anno gli spirituali stavano
ottenendo un risultato che avrebbe potuto cambiare le sorti della
storia. Nella Dieta di Ratisbona, fortemente voluta dall’Imperatore, i
teologi cattolici e quelli protestanti avevano trovato un accordo. La tesi
27
era talmente avanzata che il Papa fu costretto a disconoscere i risultati
di Ratisbona. Di più, l’ala intransigente ottenne l’istituzione del Santo
Uffizio. A partire dal 1542 comincia l’accerchiamento ai membri della
cosiddetta ecclesia viterbiensis. Bernardo Ochino, come abbiamo visto,
ripara all’estero, il Carnesecchi sarà giustiziato, il Pole inquisito, Vittoria
Colonna si salva solo in virtù della sua prematura scomparsa. Ma,
nel 1542, Vicino è già tornato a Venezia.
Nella città lagunare il suo destino si lega a quello di Giulio Camillo.
Il cerchio delle comuni frequentazioni si salda nel gruppo d’intellettuali
radunati attorno a Gabriele Giolito de’ Ferrari, figura invisa all’Inquisizione
per aver pubblicato testi in odore di eresia. Per l’eterodosso
editore, assieme al bomarzese Fortunio Spira, lavorarono: Giuseppe Betussi,
Ludovico Domenichi, Francesco Sansovino, Bernardo Tasso e il
Molza. Sappiamo che tutti questi autori furono connessi col Delminio
e che tutti ebbero rapporti con Vicino.
Gran parte delle informazioni sulla vita dell’Orsini a Venezia le ricaviamo
da un libello a lui dedicato: Il Raverta, scritto da Giuseppe
Betussi per Giolito. Il testo prende il suo nome dal vescovo Ottaviano
Della Rovere, detto Raverta, che era a sua volta intimo di Giulio Camillo.
Betussi immagina che il Della Rovere dialoghi con la poetessa Franceschina
Baffo e Ludovico Domenichi. Per ben due volte i personaggi
si ritrovano a parlare di Giulio Camillo, iterazione che sarebbe stata
fuori luogo qualora non ci fossero stati contatti diretti tra il dedicatario
dell’opera e il Delminio.
28
Nel 1544 cambia tutto: Giulio Camillo muore e Vicino si sposa con
Giulia Farnese. Era stato un matrimonio politico. Gli Orsini controllavano
gran parte del Lazio settentrionale, avevano castelli e casate a
Bracciano, Monte Rotondo, Pitigliano, Mugnano…, i Farnese erano
una potenza emergente. Paolo III Farnese stava ponendo le basi del ducato
di Castro e di Parma. L’accordo si concludeva sotto la supervisone
del potentissimo cardinale Alessandro Farnese che, dal castello di Caprarola,
s’era fatto arbitro dei destini della Tuscia.
Vicino era giunto a Roma assieme alla sua amante, Adriana della
Roza, morta improvvisamente dopo pochi mesi. In una lettera del
gennaio ‘44, Giuseppe Betussi, nell’esprimere cordoglio per la perdita
dell’amante, non rinuncia a consolare l’amico ricordandogli i grandi
vantaggi derivati dal suo matrimonio:
Se altro non s’havesse trovato da questa perdita, è nato almeno che
non è riputato da poco, ma assai, che vi siete congiunto di congiugale et
onesto amore con quella Ill. Giulia Farnese, et con così saldo legame, che
non si potrà scorre per altro, che per morte. È adunque poco questo? Sete
unito a sì nobile famiglia, & vi sete fatto figliuolo, non che parente, di
un tanto Pontefice. Et era ben dritto , che due si fatti legnaggi si fossero
congiunti, che partoriranno ancora al mondo di quei famosi Heroi, de
quali tal città gode di essere stata tante volte madre. Perche mi rallegro
molto di sì felice acquisto: come anco poco mi sono attristato della primiera
perdita.14
Nel ’45 Vicino è ancora a Roma, chiamato a dirimere una controversia,
29
sorta tra Sangallo e Michelangelo, su questioni di architettura
militare. Evidentemente per l’Orsini era stata segnata una carriera che
ripercorresse quella del padre, Giancorrado, compagno d’arme di Bartolomeo
d’Alviano. Il biennio 1546-47 lo trascorre a fianco dell’Imperatore,
nella campagna contro la lega di Smalcalda. Tornato dalla Germania,
può mettere mano ai lavori di ammodernamento del palazzo,
cui era legato da vincoli testamentari, solo a partire dal luglio del 1548
14 Giuseppe Betussi a Vicino Orsini, 20 gennaio 1544. L’intero epistolario di Vicino
Orsini è riportato in appendice nel fondamentale testo di H. Bredekamp, Vicino e
il Sacro Bosco di Bomarzo, Roma, Edizioni dell’elefante, Roma 1985.
Quando, raggiunti i venticinque anni, entra in possesso della sua eredità.
Intanto aveva lasciato Venezia, alla volta di Firenze, il suo vecchio
amico Ludovico Domenichi. Questi, alla fine del decennio, entra in
possesso del manoscritto inedito dell’Idea del Teatro e, nell’aprile del
1550, dà alle stampe il capolavoro di Giulio Camillo. Il testo conobbe
un notevole successo, tanto che Ludovico Dolce, per Giolito, ne curò
una seconda edizione già nel 1552. Immediatamente sorsero cicli pittorici
ispirati all’Idea. Restano tracce di questi interventi nel trattato del
Taegio, La Villa (1559), e nella romana galleria Spada. Ma il progetto
bomarzese era decisamente più ambizioso: Vicino voleva tradurre in
pietra l’intero Teatro.
Nel barco, l’area di caccia nella quale l’elemento selvatico prendeva il
sopravvento su quello geometrico dominante nel giardino all’italiana,
30
la forte pendenza del terreno e la presenza di massi erratici costituivano
uno scenario perfetto per mettere in scena il grandioso teatro del mondo
ideato dal Delminio. Nasce così il Sacro Bosco.
Già nel 1552 Vicino firma e data il completamento della prima fase
dei lavori. Segue una lunga pausa. Vicino partecipa ad una sfortunata
campagna contro l’Imperatore e trascorre il biennio 1553-55 nelle carceri
francesi. Nel ’56, per conto dei Farnese, torna in Francia e a Fontainebleau
può vedere la reggia dipinta con suggestioni iconografiche tratte
da Giulio Camillo. L’anno seguente partecipa al massacro di Montefortino.
È la sua ultima azione militare. Nel ’58 è a Firenze in missione
diplomatica presso i Medici, quindi, a trentacinque anni, si ritira dalla
scena pubblica.
Il decennio si chiude con l’istituzione dell’Indice dei libri proibiti.
Cadono sotto il duro controllo dei funzionari romani interi rami dello
scibile: tutti i libri di astrologia e magia, tutti i testi editi da stampatori
protestanti, l’intera opera di autori come Erasmo e Rabelais.
L’Index e il controllo dell’Inquisizione, che non risparmiava le lettere
private, renderà sempre più opaco il linguaggio epistolare e, di conseguenza,
complicherà il lavoro di individuazione delle fonti.
Vicino difficilmente indica il titolo dei libri che avidamente richiede
ai suoi amici. Talvolta gli sfugge una citazione, e si tratta di autori
proibiti come Rabelais o Cornelio Agrippa. Spesso preferisce parlare di
autori stravaganti, mentre sdegna altri testi che potrebbero piacere ai
31
‘chietini’. I chietini sono i teatini, l’ordine che deve il nome all’episcopus
theatinus, ovvero il vescovo di Chieti, il cardinal Gian Pietro Carafa.
Il Carafa fu il vero stratega della Controriforma, ma i pontefici non
apportarono soluzioni di continuità. Pio IV si è reso responsabile del
più grande eccidio della Controriforma italiana. A Guardia Piemontese,
in quattro giorni dell’estate 1561, furono uccisi duemila abitanti da
bande di irregolari pagate venti ducati per ogni eretico vivo e dieci per
ogni morto. Grande Inquisitore era il Ghislieri, successore di Pio IV e
santificato col nome di Pio V.
Non v’erano dunque le condizioni perché Vicino potesse considerare
un ritorno alla vita politica o militare. Nel 1573, due anni dopo la
battaglia di Lepanto in cui aveva perduto il figlio Orazio, scrive:
Hora sia come voglia io amo più starmene in questi boschi che immerso
nelle fallacie et ambizioni delle Corti, et massime in quella di Roma.
15
C’è un nuovo pontefice, Gregorio XIII, ma nulla è cambiato. Vicino
non lascerà più Bomarzo e qui morirà il 28 gennaio del 1585.
15 Vicino Orsini a Giovanni Drouet, 14.8.1573.
32
BOMARZO
All’epoca di Vicino, Bomarzo costituiva un organismo bilanciato,
organizzato attorno a due poli: il palazzo e il parco, uniti dal borgo e
dal giardino.
Dal castello, l’Orsini osservava la valle del Tevere e il bosco. Nelle
terrazze che circondavano i suoi appartamenti, ora ripartite tra uffici
comunali e case private, ci sono iscrizioni utili a comprendere il progetto
di Vicino.
La prima è collocata in una nicchia dell’ala orientale:
NOSCE TE IPSUM
SIC
NON VIRI LOCIS
VINCE TE IPSUM
ERIS
SED LOCA VIRIS
VIVI TIBI IPSI
33
FELIX
HONESTANTUR
Conosci te stesso, vinci te stesso, vivi per te stesso. Così sarai
felice. Nella rilettura di Vicino il motto socratico s’accompagna
ad una fiera dichiarazione di autosufficienza. Non sono gli uomini
che acquisiscono onore dai luoghi, ma i luoghi in virtù degli
uomini. Prepotente emerge l’orgoglio dell’Orsini e la sua determinazione
a trasformare un piccolo e povero feudo di provincia
in qualcosa che i suoi parenti, nelle corti di Roma e Firenze, non
avrebbero neppure saputo immaginare.
Oltrepassato l’appartamento, nella cui stanza privata c’è un mirabile
e integro reticolo di lesene in maiolica su cui campeggia la sigla di Vicino,
è possibile raggiungere la terrazza esposta sul lato occidentale. Qui
troviamo due epigrafi, entrambe inscritte all’interno di un falso arco
a tre fornici. Il precedente iconografico di questa struttura tripartita
è in una tavola dell’Hypnerotomachia Poliphili. Come Polifilo nel suo
giardino incantato, l’ospite di Vicino deve scegliere quale porta attraversare.
BENE VIVERE ET LAETARI
MEDIVM TEN V ERE BEATI
E(DE) B(IBE) E(T) LUDE
POST MORTEM NELLA
VOL(UPTAS)
34
SPERNE TER(RENA)
POST MOR(TEM) VERA
VOL(UPTAS).
Per raggiungere una vita lieta, la via di Vicino passa per una soluzione
mediana tra gli eccessi biblici del re Sardanapalo (mangia, bevi
e divertiti, dopo la morte non c’è alcun piacere) e il disprezzo dei beni
terreni (disprezza i beni terreni, dopo la morte c’è il vero piacere) 16.
Nella parete EST, un nuovo quesito.
DIRIGE GRESSUS MEOS D(OMI)NE
QUID ERGO
SAPIENS DOM(IN)ABITUR
ASTRIS
FATO PRUDENTIA MINOR
Anche in questo caso l’argomentare procede per frasi contrapposte,
la prima dichiara il primato del sapiente sugli astri, la seconda il predominio
incondizionato del fato sull’individuo. Le asserzioni alternative
sono separate dall’interrogativo quid ergo, cosa dunque? L’iscrizione
apicale affronta l’aporia della ragione affidandosi alla guida del Signore
nel cammino individuale.17
35
È un cammino difficile, irto di ostacoli. La struttura del cosmo neoplatonico
non sembrava lasciare spazio alla libertà del singolo. Il tema
natale, ovvero la posizione nel flusso energetico al momento della generazione,
non solo influenza la morfologia fisica e il carattere degli
individui alla nascita, ma predeterminava opportunità e vincoli. Occasioni
che si innescavano con la logica rigorosa di un sistema meccanico.
Il gioco dei pianeti e dello zodiaco poteva aprire porte o dare vita ad
16 Terrazzo a Sud-Ovest, parete Nord
17 Terrazzo a Sud-Ovest, parete Est
imprese sfortunate in quanto poste sotto una cattiva stella. Qualunque
cosa, anche intraprendere un viaggio, un’attività o un matrimonio, appariva
soggetta ad influenze provenienti dal quadro astrale.
Si comprende, quindi, come l’interrogativo posto da Vicino fosse
tutt’altro che ozioso. E, avvalendoci di un’immagine moderna, potrebbe
essere così riformulato: se il cosmo è simile ad una tastiera in cui le
ottave sono composte da sette note e da dodici tasti, sette come i giorni
o i pianeti e 12 come i mesi o le costellazioni dello zodiaco, come può
l’individuo trovare la propria linea melodica o accordo, senza essere
schiacciato da un meccanismo immenso che procede con la logica spietata
di un carillon?
Il palazzo pone i quesiti che il Sacro Bosco deve affrontare, gli appartamenti
di Vicino sono il motore intellettuale di quel sistema perduto
che era Bomarzo.
36
DAL PALAZZO AL SACRO BOSCO
L’abitato di Bomarzo si estendeva verso meridione, nella direzione
di Viterbo. Nel versante nord-occidentale del Palazzo, quello rivolto al
Sacro Bosco, la rupe della fortezza digradava rapidamente verso il giardino
che arrivava sino al fondo della valle.
Già all’epoca dei Lante, a partire quindi dal 1600, il giardino lascia
il posto a coltivazioni. In particolare, i documenti parlano di un frutteto18.
Ma alla metà del Cinquecento, a Bomarzo come a Bagnaia e Caprarola,
accanto al palazzo c’era un giardino all’italiana, con il suo rigoroso
andamento geometrico. Oltre il fosso, l’intera zona era disseminata
di blocchi di peperino, più o meno imponenti, affioranti dal terreno.
Tutt’oggi, negli orti che costeggiano il cosiddetto Parco dei Mostri, è
possibile osservarne alcuni utilizzati come ricoveri per attrezzi o come
stalle. Sono scavati o parzialmente interrati, abbandonati o coperti da
filari di vigne.
Considerata l’abbondanza d’acqua, garantita dalla presenza di un
ruscello, Vicino Orsini decise di trasformare i massi erratici disposti
nella zona di interconnessione tra il giardino e il Sacro Bosco, in fontane
monumentali.
L’ingresso moderno sorge in un punto che Vicino aveva destinato ad
un piccolo lago artificiale. L’arco d’accesso, le sfingi che lo fronteggiano
e le erme che conducono, sulla sinistra, ad un mascherone araldico, non
occupano la loro posizione originaria. Il mascherone, probabilmente
37
un Proteo sormontato da un globo e un castello, aveva quindi una funzione
molto più marginale di quella contemporanea. Il castello che domina
il globo, immagine del mondo, è un elemento celebrativo della
famiglia Orsini. La presenza del Proteo, simbolo utilizzato da Camillo
per rappresentare l’elemento lunare nel suo grado più semplice, è in sintonia
con la natura del luogo. La luna è infatti il pianeta di riferimento
dell’acqua, essa è il pianeta che sovrintende alle fasi della vita. Divinità
femminile regola le maree, la crescita, la decrescita e la generazione.
18 Sofia Varoli Piazza, Paesaggi e giardini della Tuscia. De Luca, 2000
Tralasciando, per il momento, le sculture recentemente dislocate, il
visitatore che intenda comprendere la logica di Vicino deve dirigersi
verso l’ingresso antico. Bisogna quindi tornare indietro e cercare di
raggiungere il livello più basso del barco, quello prossimo al ruscello.
Trascurata la gigantomachia, su cui avremo modo di tornare, s’incontra
dapprima la fontana del Festina lente, il motto augusteo che invitava
ad affrettarsi con lentezza, qui simboleggiato dall’incontro ossimorico
tra la gigantesca testuggine e la rapidissima fama che la sormonta.
Segue la fontana del Pegaso, mitico cavallo cui era attribuito il potere
di interrompere i terremoti con un colpo di zoccolo e di far sgorgare
sorgenti d’acqua. Come testimoniano i disegni di Giovanni Guerra, la
fontana era circondata da muse e divinità. Vicino celebrava quindi il
suo giardino come un nuovo Parnaso. La forza delle arti pareva costituire
la sola ancora di salvezza in un mondo preda di insicurezze e
distruzione. La colonna spezzata e l’albero bruciato, che introducono
al Pegaso, ci offrono il quadro di un mondo in crisi, sia da un punto di
38
vista naturale che umano.
L’area di interconnessione con il giardino termina poco più in basso,
accanto ad un fontanile, non visitabile in quanto attualmente esterno al
muro di cinta del Parco, accanto al quale gli ospiti dell’Orsini potevano
lasciare il cavallo per cominciare l’itinerario attraverso il Sacro Bosco.
39
IL PIAZZALE EGIZIO
Lasciatosi alle spalle il giardino, il visitatore si apprestava ad intraprendere
il suo percorso iniziatico. Dopo una breve salita, il sentiero
appariva chiuso da due sfingi. Abbiamo qui una prima analogia con
l’Idea, il testo di Camillo si apre infatti con un proemio in cui è raccomandato
al sapiente di celare la verità con l’uso di simboli, il passo
prosegue così:
A questo habbiamo da aggiunger che Mercurio Trismegisto dice, che
il parlar religioso e pien di Dio viene ad esse violato quando gli sopraviene
moltitudine volgare. La onde non senza ragione gli antichi in su le
porte di qualunque tempio tenevano o dipinta, o scolpita una sphinga,
con quella imagine dimostrando che delle cose di Dio non si dee se con
enigma far publicamente parole19.
Oltre le sfingi era visibile il tempio di Iside con all’esterno la maschera
di Giove Ammone e, sulla destra, due obelischi. L’insieme si offriva
come un sorprende angolo d’Egitto.
La fascinazione di Vicino per l’Egitto è certa ed è, tra l’altro, documentata
da un suo scambio epistolare con Annibal Caro in cui, in
risposta ad una specifica domanda dell’Orsini, l’amico descrive le mutazioni
e le corrispondenze tra divinità egizie e greche20. In particolare
tornano nella lettera le associazioni tra Venere ed Iside e quella tra Giove
e Ammone.
40
L’interesse che gli intellettuali del Rinascimento manifestavano per
l’Egitto era derivato dalla riscoperta di opere attribuite a mitici autori:
Ermete Trismegisto e Orapollo. Testi ritenuti antichissimi erano, in realtà,
manoscritti elaborati nell’ambito della cultura greca in un periodo
compreso tra il IV e il VI secolo dopo Cristo. Le assonanze che gli umanisti
verificano tra questi testi e tematiche agostiniane o neoplatoniche,
19 G. Camillo, L’idea del Teatro, in L’idea …op. cit., p. 59
20 Annibal Caro a Vicino Orsini del 12.12.1564.
invece di destare sospetti, apparivano come prove della continuità di
un’unica tradizione che, prescindendo dalle singole credenze popolari,
aveva accomunato filosofi e maghi.
Per quel che riguarda il greco antico, gli umanisti non avevano acquisito
competenze filologiche paragonabili ai livelli toccati con il latino.
Quindi non fu loro possibile esercitare un’opera di demistificazione.
Al contrario, l’autenticità dei manoscritti pseudo-egizi fu certificata
dall’autorità di Marsilio Ficino cui dobbiamo la nascita di un neoplatonismo
ermetico o egiziano. Il pensiero ficiniano è caratterizzato dalla
certezza che l’anima umana e la natura divina siano sostanzialmente
analoghe. L’ipotesi dell’origine divina dell’anima è coerente con una
visione dell’universo panteisticamente interpretato come un animale
vivente attivato dall’energia creante del dio-luce.
Questa centralità del sole pone le premesse concettuali per la rivoluzione
eliocentrica, una rivoluzione fatta propria da Giordano Bruno, il
41
più entusiasta dei filosofi egizi. Bruno riteneva che i geroglifici fossero la
lingua degli dei. Gli ideogrammi erano percepiti come modello di una
comunicazione crittata per difendere le sacre verità dal volgo e figura di
un modo di conoscere divino. Così Dio aveva concepito le Idee e così l’anima
aveva potuto contemplare gli archetipi nella fase di apprendimento
originario e prenatale. Il linguaggio iconico costituiva quindi il punto
d’incontro ideale per arte della memoria, platonismo ed egizianismo.
La convinzione che i geroglifici non fossero una scrittura fonetica
ma un linguaggio iconico, si basava sull’opera di Orapollo, una raccolta
di geroglifici interpretati simbolicamente. L’opinione era errata ma, alla
metà del XVI secolo, gli Hieroglyphica, l’unico trattato sulla scrittura
egizia pervenutoci dall’antichità, godevano ancora di un indiscusso
prestigio. Come vedremo Vicino cita Orapollo nell’antro di Iside, mentre
Pierio Valeriano21, amico ed ammiratore di Giulio Camillo, dà alle
stampe nel 1556 un suo Hieroglyphica in cui è evidente l’impatto che
ebbe nella cultura ermetica la pubblicazione dell’Idea del Teatro.
21 Il bellunese Pierio Valeriano, poeta e uomo di scienza, scrisse anche un compendio
del trattato di astronomia più diffuso nel medioevo ed in uso in tutte le università
sino al XVII secolo, il De sphaera mundi del Sacrobosco. Il Compendium in
sphaeram, edito nel 1537, è dedicato al cardinale Alessandro Farnese.
42
LE ISCRIZIONI
Per accedere al piazzale egizio, il visitatore doveva quindi superare
le due sfingi, che, anche nella collocazione attuale, hanno mantenuto i
loro supporti in peperino con iscrizioni.
Quella delle iscrizioni è una delle molte difficoltà che attendono chi
voglia confrontarsi con il Parco. Il committente ha ampliato, modificato,
reinterpretato la sua costruzione, mantenendola come un’opera
in divenire per circa trent’anni. I lavori nel giardino sono iniziati nel
1550 o, al più tardi nel 1551, e sono stati condotti sino al principio degli
anni Ottanta. Come vedremo alcune opere, quali la gigantomachia, l’elefante
e la panca etrusca, sono presumibilmente tarde, altre, come il
teatro, le Sfingi, Iside e la Venere dormiente, sono invece precocissime.
Maurizio Calvesi, ai cui studi dovremo fare costantemente riferimento,
ritiene che gran parte delle epigrafi siano state introdotte al termine
dei lavori nel tentativo di accentuare l’unitarietà del progetto. Talvolta
lo scarto temporale tra due iscrizioni pur adiacenti registra il mutare
dell’ideologia di Vicino, trascorso da un giovanile neoplatonismo ad un
solido scetticismo nella sua età più matura. Per quel che attiene ai versi
incisi nei monoliti che sostengono le sfingi è ragionevole ipotizzare che
siano stati introdotti in un periodo tardo. Le ragioni che sostengono
questa prima conclusione è data dalla presenza, nella sfinge di sinistra,
di un riferimento alle sette meraviglie, elemento che costituisce una
sorta di leit motiv del giardino. L’iscrizione:
CHI CON CIGLIA INARCATE
43
ET LABRA STRETTE
NON VA PER QUESTO LOCO
MANCO AMMIRA
LE FAMOSE DEL MONDO
MOLI SETTE
Va posta in relazione con altre due che incontreremo successivamente,
sullo schienale di una panca:
CEDAN ET MEMPHI E OGNI ALTRA MARAVIGLIA
CH EBBE GIA L MONDO IN PREGIO AL SACRO BOSCO
CHE SOL SE STESSO ET NVLL ALTRO SOMIGLIA
E accanto alla gigantomachia:
SE RODI ALTIER GIA FV DEL SVO COLOSSO
PUR DI QUEST IL MIO BOSCO ANCHO SI GLORIA
E PER PIV NON POTER FO QVANT IO POSSO
44
Tutti questi versi risalgono presumibilmente alla metà degli anni
settanta e sono contemporanei a quelli con cui Giovan Matteo Toscano
celebra il Teatro di Giulio Camillo, cui debbono rendere omaggio le
sette meraviglie del mondo22.
A Bomarzo, un riferimento al Delminio potrebbe essere celato in
quel moli sette. L’iscrizione infatti non si configura come un indovinello
o un invito, essa è una constatazione, costruita da due proposizioni
speculari, in virtù delle quali si preannuncia che il Parco è immagine
del mondo, che esso è il mondo in quanto espressione dell’incontro dei
sette elementi fondamentali.
La sfinge parla in modo obliquo ed è quindi probabile che in un
sottotesto lasci risuonare un indizio per il visitatore.
La seconda iscrizione invece parla di arte e di inganni:
TU CH’ENTRI QUA PON MENTE
PARTE A PARTE
ET DIMMI POI SE TANTE
MARAVIGLIE
SIEN FATTE PER INGANNO
O PUR PER ARTE.
I due studiosi che più hanno contribuito a fare luce sul Parco, Horst
22 I. M. Toscanus, Peplus Italiane, Lutetiae Parisiorum, 1578, p. 85, in F. A. Yates,
L’arte della memoria, Einaudi 1993, p. 126.
Bredekamp e Maurizio Calvesi, evincono da queste parole significati
45
affatto opposti. Secondo Bredekamp, si tratta di un riferimento al consueto
gioco manierista di confusione tra arte e natura.
In giardini e cortili coevi sovente il confine tra natura e artificio
è volutamente inestricabile. Pietre e conchiglie diventano materia di
opere d’arte, d’altro canto l’architetto e lo scultore in virtù di un uso
spregiudicato del non finito e del bugnato sembrano gareggiare con
la natura. Nel giardino mediceo di Boboli, i Prigioni di Michelangelo
paiono parte integrante della grotta del Buontalenti, l’effetto è molto
suggestivo, ma è espressione di una forzatura. Michelangelo aveva realizzato
i Prigioni per la tomba di Giulio II, un monumentale tentativo
di sintesi del mondo neoplatonico. Gli Schiavi dovevano rappresentare
lo sforzo dell’uomo di sollevarsi dalla materia nel suo cammino verso la
luce, in una evidente citazione del mito della caverna. Filosofia, scienze
e religione si fondevano in uno sforzo di elevazione che era azione mistica.
Quindi, sebbene la ricollocazione degli Schiavi abbia finito col sostenere
l’equivoco di una subordinazione del non finito all’ingannevole
continuità tra arte e natura, è opportuno sottolineare che il linguaggio
del Buonarroti è il medesimo di Giulio Camillo e di Vicino.
La morfologia delle opere presenti nel Sacro Bosco non autorizza,
in alcun modo, a supporre l’esistenza di accorgimenti stilistici atti a
suggerire una confusione tra arte e natura. Le sculture e le architetture
sono lavorate in modo netto, si integrano nell’ambiente come manufatti
autonomi e in assenza di trompe l’oeil.
Quanto detto sembra dar ragione a Calvesi che, forte di un serrato
46
confronto stilistico con testi di Bernardo e Torquato Tasso, interpreta
il termine inganno come sinonimo di “incantesimo”23. L’interrogativo
celerebbe quindi un tranello, una falsa alternativa tra i due poli, solo
apparentemente opposti, di arte e inganno. Il quesito sembra orientare
il visitatore verso l’arte magica.
Il confine tra stregoneria, illecita, e magia naturale, normalmente
accettata dalla scienza rinascimentale, non era chiaramente definito. La
questione era di individuare il punto in cui la ricerca e l’emulazione del
divino sfociassero in empietà. In tutte le pratiche magiche vibra l’ombra
23 M. Calvesi, Gli incantesimi di Bomarzo, Bompiani, 2009, p. 179
del demoniaco, in esse riecheggia l’antica promessa del serpente: eritis
sicut dei, mangiate il frutto della vita e diverrete dei. Sin dove era legittimo
spingersi?
Paracelso, il più grande alchimista del tempo, dichiarò di essere
giunto a creare un homunculus per via di alambicchi, lasciando macerare
insieme sangue, sperma e argilla. La leggenda vuole che, negli stessi
anni, il rabbino di Praga avesse creato un golem. Esperto di Talmud,
Jehuda Löw era riuscito a rinnovare il gesto della Genesi imprimendo
nell’argilla la parola di Dio.
Molteplici erano dunque le strade che il Rinascimento esperiva nel
tentativo di trasformare la creatura in creatore. Pico della Mirandola fu
il primo a realizzare una fusione tra tradizione cabalistica ed ermetica.
Sulla scia di Pico si misero Egidio da Viterbo e Achille Bocchi, il cui
47
palazzo mantiene intatta un’iscrizione in ebraico. Giulio Camillo si incontrò
con Egidio a Roma nel 1519 e si legò strettamente a Bocchi nella
Bologna degli anni Venti. Non solo, il Camillo, che sarebbe stato arrestato
per alchimia sul finire degli anni Trenta, ci lascia un’importante
testimonianza dell’approccio di matrice paracelsiano:
è il vero che ancor vive una persona mobilissima, dottissima e di santissimi
costumi ornata, la qual, benché vergognosamente, pur confessa
aver per artificio di lambicchi e di altri istromenti accomodati all’opera
già più anni prodotto un bambino, il qual, come prima venne alla luce,
fu abbandonato dalla vita. Il che se così fusse, e che uno eloquente scriver
ne volesse, avrebbe a riconoscer il nascimento dell’arte di colui, a cui non
mancano testimoni i quali arditamente affermano aver veduto quanto
ho detto.24
Alchimista, cabalista ed ammiratore dell’Asclepio, nel Delminio trovano
sintesi e raggiungono il loro culmine tutte le vie che il Rinascimento
maturo mise in campo nel tentativo di creare la vita.
Ancora nel 1614 Giuseppe Passi, in Della magic’arte, ouero della Magia
naturale, rimproverava a Giulio Camillo di aver utilizzato l’Asclepio,
24 G. Camillo, Trattato delle materie, in L’idea …op. cit., p. 130
48
libro proibito intriso di magia nera.25 L’accusa si basava su questo tratto
dal Trattato delle Materie:
Ho già letto in Mercurio Trismegisto, che in Egitto già erano fabbricatori
di statoe, tanto eccellenti che condotta che haveano alcuna statoa
alla perfetta proporzione, ella si trovava animata da spirito angelico:
perché tanta perfezione non poteva star senza anima.26
La teoria platonica dell’amore, secondo cui tutto ciò in cui riluce
il bello è compartecipe della perfezione e quindi non può essere privo
di vita, era impugnata da scienziati e artisti come legittimazione della
magia.
L’ipotesi di Calvesi è dunque più che plausibile. Sin dai tempi di Edipo,
le sfingi costruiscono enigmi che sono rivelazioni e inviti alla ricerca
interiore. Edipo non sapeva di essere lui stesso l’animale a quattro,
due e tre zampe, oggetto dell’indovinello che gli era stato sottoposto.
Non ricordava di essersi trascinato carponi nella foresta, non sapeva
che il futuro lo avrebbe condotto allo skeptron, scettro regale e bastone
da cieco.
La Sfinge mistagoga (guida al mistero) a Delfi sovrastava l’imperativo
gnòthi sé autòn. Il motto “conosci te stesso” che torna nelle iscrizioni
di Palazzo Orsini. La sfinge insegna che sebbene la verità sia una sola,
ogni individuo deve farla propria percorrendo da solo il faticoso itinerario
della conoscenza. Già Clemente Alessandrino aveva colto due
sintonie fra Cristo e la Sfinge: entrambi asseriscono che il viaggio è faticoso
49
e che la conoscenza del mistero porta alla salvezza. Mentre
L’autore degli Atti di Andrea e Matteo del IV secolo, narra di un
incontro reale di Cristo con la Sfinge: Gesù entrò in un tempio, animò la
statua di una sfinge e, chiamandola celeste, la invitò a rivelare ai sacerdoti
astanti chi egli fosse. La Sfinge si soffermò sul rapporto tra ‘mistero’
e ‘rivelazione’.27
25 Yates, op. cit., p. 145
26 G. Camillo, Discorso in materia del suo Teatro in L’Idea … op. cit., p.31
27 F. Scaramuzza, op. cit., p. 487
50
Alla concezione classica della vita come viaggio di conoscenza e della
virtù come conquista della ragione e dell’esperienza, il cristianesimo
assomma il tema mistico della lotta interiore. Parliamo di misticismo e
mistero, o più propriamente di teologia negativa, in quanto la volontà
divina è divenuta imperscrutabile, mentre l’indagine introspettiva appare
un viaggio senza fine. Al motto paolino videmus nunc per speculum
in aenigmate, corrisponde l’inquieta ricerca di Agostino. Tra loro
l’apertura mistica di Plotino: L’insegnamento giunge solo a indicare la via e il viaggio; ma la visione sarà di colui che avrà voluto vedere.28
Contemporaneo di Agostino, Prudenzio fu il primo ad immaginare
un’opera epica totalmente incentrata su di una psichica battaglia tra
vizi e virtù. Nella Psicomachia, l’anima affronta i sette vizi capitali. Un
itinerario d’ascesi che è parallelo a quello descritto nel Corpo Ermetico.
Nel Pimander29 lo spirito torna all’unità riconsegnando, a ciascuno dei
sette cieli, le caratteristiche individuali che ha ricevuto alla nascita.
Il neoplatonismo rinascimentale quindi attingeva allo stesso patrimonio,
paolino e agostiniano, da cui traeva la sua linfa il protestantesimo.
Tuttavia l’ermetismo rimaneva ancorato ad una tradizione eroica
e cavalleresca che Lutero ignora. Per comprendere Bomarzo bisogna
risalire alla Psicomachia, transitando per i poemi allegorici di cui Prudenzio
aveva definito la matrice: il Roman de la Rose, la Commedia, i
Trionfi e, naturalmente, l’Hypnerotomachia Poliphili.
28 Plotino, Enneadi, VI, 9, 4
29 Cfr. E. Trismegisto, op. cit., I 25. Insieme all’Asclepio, il Pimander, considerato
51
il corrispettivo della Genesi, è il testo più noto tra quelli attribuiti ad Ermete Trismegisto.
IL TEATRO
Oltrepassate le sfingi, la prima cosa che si presentava alla vista era
l’antro di Iside sul basilisco. Attualmente l’antro è crollato e la statua di
Iside è seriamente danneggiata, tuttavia la leggibilità del gruppo non
è compromessa. La cifra egiziana è sottolineata dalla presenza di un
mascherone di Giove Ammone, che era collocato su una delle pareti
esterne della grotta. Nel comporre questo gruppo, Vicino ha ibridato
due geroglifici di Orapollo: Iside rappresenta l’anno, il basilisco, invece,
l’eternità. La fusione dei due simboli annuncia al viandante che le verità
cui sta per avere accesso sono attuali ed eterne.
Tra le sfingi e l’antro erano disposte sette erme, numi tutelari della
soglia, qui utilizzate per sottolineare la presenza di un limite. Sebbene le
erme siano state dislocate, nel Sacro Bosco la presenza di un confine è
ancora chiaramente percepibile. Forse anche per questo Daniel Spoerri
ha chiamato il suo giardino, ispirato a Bomarzo, Hic terminus haeret,
qui i confini si confondono. In qualche modo, il verso di Virgilio rende
perfettamente il sentimento che Vicino voleva ingenerare nei suoi
ospiti. Difficilmente, del resto, l’Orsini poteva aver dimenticato l’incipit
della Cangiaria, col prologo aperto da un Termino, una pietra sacra a
Giove, la cui funzione era di segnare limiti e soglie. Nel Sacro Bosco i
confini sono molto chiari, così come le vie d’accesso.
Per quanto privo dei due obelischi che lo coronavano, perno del
piazzale era, ed è, il teatro.30 Osservandolo si comprende immediatamente
52
l’imbarazzo degli interpreti. La struttura è impraticabile per una
qualunque rappresentazione: la pretesa scena è piccola, non ha relazione
ottica con i gradini e, soprattutto, è inclinata. L’anomalia si risolve non
30 Nella ricostruzione del piazzale seguiamo Bredekamp, tuttavia nessuna ipotesi
potrà essere verificata sintantoché non sarà avviata una rigorosa ricerca nell’area
antistante l’ingresso originario del Sacro Bosco. La zona in cui sono stati
individuati gli obelischi, assieme ad altri reperti di incerta ricollocazione, è esterna
all’area visitabile ed è stata oggetto solo di studi indiziari. Vedi in proposito il
saggio di Andrea Alessi, Il Sacro Bosco di Bomarzo: frammenti dall’oblio, in S.
Frommel e A. Alessi, Bomarzo: il Sacro Bosco, Electa, 2009, pp. 214-224.
Appena si comprenda che il teatro è pensato per essere osservato e non
calpestato da attori. L’ovale ricavato al centro della gradinata è inclinato
perché è disposto in prospettiva. Il teatro di Bomarzo è la macchina di
Giulio Camillo. C’è una sola variante, il Delminio aveva collocato le colonne
degli elementi nel punto più basso, qui sono disposte in alto, ma
è la morfologia del terreno che ha obbligato Vicino ad adottare una simile
soluzione. Gli scomparti sono collocati nel muro di terrazzamento
che sostiene il livello superiore. Attualmente questi riquadri sono vuoti,
probabilmente, come vuole Calvesi, essi erano occupati da specchi. La
rinnovata sintesi dell’unità poteva apparire ancora più evidente grazie
al gioco incrociato di superfici riflettenti.
La natura ibrida della costruzione, a metà tra quella teatrale e quella
53
anfiteatrale, poneva in accordo due istanze fondamentali e, apparentemente,
antitetiche. Se da un lato la circolarità della struttura consentiva
di ricavare uno spazio centrale per sottolineare il primato della condizione
umana, d’altro canto l’emiciclo offriva la possibilità di cogliere
l’unità del tutto, in virtù di una visione sinottica.
Il testo di Giulio Camillo non fornisce indicazioni per comprendere
la forma del dispositivo. Sul tema gli storici moderni hanno assunto
posizioni diametralmente opposte. La Yates ha sposato l’ipotesi della
forma teatrale, mentre Calvesi opta decisamente per una struttura circolare31.
La soluzione di Bomarzo, considerata anche la sua straordinaria
somiglianza con i teatri anatomici, si propone come una brillante
soluzione di sintesi tra morfologia teatrale e anfiteatrale.
Per quel che attiene alle iscrizioni, il caso del teatro è quello più complesso
dell’intero Giardino. Esse sono, infatti, di tenore completamente
differente. Alla base dei due obelischi sono iscrizioni brevi quanto importanti.
Nella prima è apposta la data e la firma:
VICINO ORSINO NEL MDLII
La seconda riporta un verso di Vittoria Colonna:
SOL PER SFOGAR IL CORE.
31 Cfr. Calvesi, Teatro o anfiteatro, pp. 4-7, in Il mondo virtuale di Giulio Camillo, a
cura di Viviana Normando e Natascia Moroni, da «Festina Lente», I (1997)
54
55
La data è l’unica certa che possediamo per l’intero parco, essa indica
la chiusura della prima fase dei lavori e, con la firma, attesta l’orgoglio
del committente. Orgoglio che sarebbe stato assolutamente fuori luogo
se avesse segnato la costruzione del solo teatro. Possiamo quindi ritenere
che nel 1552 l’intero piazzale d’ingresso, così come lo abbiamo appena
descritto, fosse portato a compimento.
La seconda iscrizione è, ad un tempo, semplice ed equivoca, l’ambivalenza
nasce dal contrasto tra l’apparente leggerezza del verso ed il
fatto, tutt’altro che lieve, che siano parole tratte da una poesia di Vittoria
Colonna.
Il 1552 s’era aperto con l’abiura del Domenichi, responsabile della
pubblicazione di un pamphlet di Calvino sul nicodemismo. La figura di
Nicodemo d’Arimatea, il criptocristiano che solo dopo la crocifissione
troverà il coraggio di recarsi a viso scoperto da Pilato per reclamare il
corpo di Cristo, era divenuta un riferimento costante. Già il Valdés,
consigliere spirituale di Vittoria Colonna, aveva suggerito di percorrere
la via del nicodemismo per non dover sottrarre tempo alla vita spirituale,
impelagandosi in inutili polemiche. Con l’affermarsi degli zelanti la
questione era diventata molto più scottante e pericolosa.
Due anni dopo la pubblicazione dell’Idea del Teatro, il Domenichi
s’era dunque imbarcato in una pericolosissima impresa, conclusasi con
una condanna al carcere a vita. Vicino, citando un verso all’apparenza
di puro disimpegno e mantenendosi nel quadro della più coerente e
nicodemita prudenza, trova il modo di scolpire su pietra la sua scelta
56
di campo. Questo elogio della prudenza sarà di lì a poco echeggiato dal
motto riportato nella casa pendente, tuttavia prima di affrontare questo
aspetto andiamo a chiudere con il teatro affrontando l’ultima iscrizione,
quella presente nel muro di sostegno.
La frase, frammentaria, è stata integrata da Calvesi
PER SIMIL VANITÀ MI SON ACCORTO
CHE IL TEMPO FUGGE E IL VIVER PARMI CORTO32
32 Attualmente è leggibile solo PER SIMIL VANITA MI SON AC N PARMI CORTO.
La ricostruzione di Calvesi è in Incantesimi, op. cit., p. 174
Parole amare in evidente contrasto con l’entusiasmo, la leggerezza
e la voglia di sfida che caratterizzano la nota di fondo delle epigrafi
alla base degli obelischi. Con questo distico, l’anziano Vicino sembra
voler porre una pietra tombale sul sogno della sua giovinezza e, forse,
di un’intera epoca.
57
LA CASA PENDENTE
Prima di procedere nel percorso iniziatico dobbiamo fermarci per
dare conto di quel particolarissimo edificio noto come ‘casa pendente’
collocato nell’area subito prima del teatro, più o meno in asse con la
posizione che originariamente dovevano occupare le sfingi.
Oramai tutti33 convengono sul fatto che la fonte iconografica della
casa sia una tavola del Symbolicarum Quaestionum di Achille Bocchi,
un testo portato a compimento nel 1555.
Braedekamp, servendosi del motto inciso in uno dei due medaglioni
alla base dell’edificio, tenta di rafforzare la sua lettura del Signore di Bomarzo
come di un surrealista ante litteram e quindi interpreta il motto
d’ascendenza aristotelica:
ANIMUS QUIESCIENDO FIT PRUDENTIOR ERGO
Con un invito al sogno, tuttavia la traduzione di quiescere con sognare
è palesemente una forzatura. Quiescere vuol dire stare in quiete,
riposare. Solo in casi isolati può significare dormire, ma si tratta del
sonno della morte, ad ogni modo mai può essere tradotto con sognare.
D’altra parte Calvesi, ritenendo che la casa sia voluta da Giulia Farnese,
conclude che l’iscrizione sia un inserimento tardivo di Vicino.
L’ipotesi è debole, infatti la scritta è evidentemente organica al medaglione
che la ospita e dev’essere contemporanea all’edificio. L’errore di
58
Calvesi deriva da un approccio che, in questo caso, è complessivamente
fuori fuoco. A suo avviso, la casa sarebbe stata realizzata da Giulia durante
l’assenza del coniuge e l’inclinazione manifesterebbe una fase di
estrema debolezza del casato Orsini-Farnese. Tesi poco credibile per
33 Con l’eccezione di Guidoni che, con una tesi suggestiva quanto poco documentata,
attribuisce la paternità del Sacro Bosco a Michelangelo e ne anticipa quindi la
realizzazione agli anni quaranta. Guidoni giunge, conseguentemente, alla
conclusione che la costruzione bomarzese sia l’antecedente della tavola del Bocchi.
Cfr E. Guidoni, Il Sacro Bosco di Bomarzo nella cultura europea, David Ghaleb
editore, 2006
59
differenti ragioni. Innanzitutto l’edificazione di un monumento alla
difficoltà è fuori dalla logica del tempo, in secondo luogo, qualora fosse
stato questo l’intento dell’edificio, apparirebbero spaesanti le iscrizioni
e incongrua la scelta del sito. C’è poi la questione temporale, nell’arco
di tempo compreso tra la redazione del Symbolicarum (1555) e la morte
di Giulia (1560), Vicino è stato in condizioni prolungate di difficoltà solo
nella fase finale della sua prigionia in terra di Francia. Considerando
che l’Orsini fu liberato già nell’estate del ’55, la forbice temporale appare
davvero troppo stretta perché Giulia potesse ottenere il libro, ideare il
progetto e farlo realizzare.
L’ipotesi di Calvesi diventa poi davvero remota se consideriamo la
vicenda del libro di Bocchi. Se infatti è vero che il Symbolicarum era
pronto già al principio del 1555, tuttavia la morte di Giulio III e quella
del successivo pontefice, Marcello II, resero impossibile l’ottenimento
dell’imprimatur papale. Il Bocchi dovette attendere l’insediamento di
Paolo IV per poter far circolare effettivamente il suo testo, giungiamo
così all’anno successivo. Opinione consolidata dalla presenza, nella Biblioteca
centrale di Napoli, di una copia del Symbolicarum datata 1556 e
caratterizzata da una dedica al patrono dell’Accademia Hermathena: il
cardinal Alessandro Farnese. A questo punto l’idea che Giulia Farnese
abbia potuto consultare il testo molti mesi prima dello zio appare davvero
una congettura azzardata.
Non resta che avanzare l’ipotesi più semplice, ovvero che Vicino Orsini
abbia esaminato il manoscritto napoletano negli anni, durissimi,
del pontificato Carafa e che ad esso abbia fatto ricorso quando decise
60
di costruire un monumento dedicatorio dell’intero parco al Cardinal
Madruzzo, giunto nel limitrofo feudo di Soriano nel 1560.
Per comprendere le ragioni di una scelta così eccentrica occorre tornare
ad affrontare alcuni dei temi di polemica politica e religiosa che,
negli anni del Concilio di Trento, attraversavano la vita culturale italiana.
Il primo dato da tenere a mente è che il cardinal Madruzzo era stato
uno dei personaggi più in vista del partito riformatore. Legatissimo
al Pole, il Madruzzo in qualità di Principe di Trento era stato ospite
del Concilio. Durante gli anni del pontificato Farnese aveva mantenuto
una posizione dialogante con i protestanti, scontrandosi, sin dalle sedute
inaugurali del Concilio, con il cardinal Ciocchi del Monte, che sarebbe
stato eletto papa col nome di Giulio III. L’elezione al soglio di Giulio
III corrisponde ad una fase di debolezza dell’ecclesia viterbiensis, accerchiata
e progressivamente annichilita dall’Inquisizione. Il Madruzzo,
tuttavia, non aveva cessato di sostenere le tesi del Pole anche negli anni
in cui la casa degli spirituali sembrava sul punto di cadere.
L’invito al riposo e alla prudenza rivoltogli dall’amico Vicino era
ben lungi dall’essere una mera esortazione alla virtù. La scelta di
un’immagine tratta dal Symbolicarum aveva poi un significato molto
forte. Grazie alla protezione del cardinal Farnese, il Bocchi poté inserire
nel Symbolicarum riferimenti significativi quanto pericolosi. Accanto
a quelle al Cardinale Alessandro, troviamo infatti tavole dedicate a
Reginald Pole, a Giulio Camillo e a Marco Antonio Flaminio.
61
Vicino, nel costruire la casa pendente, compie dunque un gesto perfettamente
in sintonia con il suo carattere e la sua politica. Apparentemente
si limita ad erigere un monumento bizzarro, in concreto sta
tracciando una rete di legami, evidenti ai contemporanei, e assicura che
la casa degli spirituali e degli irenisti sebbene penda tuttavia non cadrà,
esattamente come la casa nella tavola del Bocchi che, per quanto sembri
sul punto di cadere, “non cadit illa tamen34”.
34 Atqui casura dicas; casura videtur, Fallat ut invidiam, non cadit illa tamen.Achille
Bocchi, Symbolicarum Quaestionum, Bologna, 1555. Simbolo CXLVI
62
IL VIALE BASSO
Giulio Camillo, Ludovico Domenichi, Achille Bocchi, Cristoforo
Madruzzo, Reginald Pole, Marco Antonio Flaminio, Vittoria Colonna…
ai contemporanei non sfuggiva nessuno di questi riferimenti, ai
quali forse va aggiunto il nome di Pierio Valeriano.
Negli anni più difficili di Giulio Camillo, Valeriano era intervenuto
in difesa dell’amico con versi durissimi:
Qui vates temnit vatum non gaudet honore
Sit procul a tabulis turba profana pij35. (Chi disprezza i vati, non può
godere dell’onore dei vati – Stia lontana la turba profana dalla tavola del
pio). Il poeta bellunese si scaglia contro la turba profana che è incapace
di comprendere la tradizione occulta e che l’ermetismo tagliava programmaticamente
fuori dalla mensa degli iniziati. Molti anni dopo la
morte di Camillo, Valeriano tornerà con un suo Hieroglyphica (1556) a
rendere manifesto omaggio all’Idea del Teatro.
La passione per la scrittura sacra degli egiziani costituisce una delle
tracce più evidenti per seguire la parabola della scuola ermetica. In
questo filone s’inserisce a pieno titolo Achille Bocchi che dedica la tavola
CXLVII, simbolo immediatamente successivo a quello della casa
pendente, alle mistiche lettere degli egiziani. I geroglifici raffigurati nel
Symbolicarum sono quelli ideati da Francesco Colonna per la Pugna
d’amore in sogno di Polifilo, fonte iconografica imprescindibile per il Sacro
63
Bosco. Difatti l’Antro delle Ninfe, la prima opera che incontriamo
dopo il tempio di Iside, è la citazione quasi esatta di una stampa dell’edizione
francese dell’Hypnerotomachia del 154636. L’Antro delle Ninfe
è una ripresa letterale del secondo grado del Teatro. È Vicino stesso
a qualificare l’area come Antro in un’iscrizione, purtroppo anch’essa
mutila:
35 Pierio Valeriano, in Scaramuzza, op. cit., p. 469
36 Cfr. Calvesi, op. cit., p. 127
64
L’ANTRO LA FONTE IL LI ET
D’OGNI OSCURO PENSIERO ME GL
Probabilmente Camillo, che già stava lavorando al suo Teatro sin
dagli anni dieci, aveva avuto accesso all’edizione del 1518 dell’Antro delle
ninfe. Nel De Antrum Nynpharum, il discepolo di Plotino interpreta
un passo dell’Odissea come una metafora della generazione. Il libro comincia
così:
L’antro di Itaca descritto in questi versi da Omero è un enigma:
In capo al porto vi è un olivo dalle ampie foglie:
vicino è un antro, amabile, oscuro,
sacro alle Ninfe chiamate Naiadi;
in esso sono crateri e anfore
di pietra; lì le api ripongono il miele.
Le Ninfe sono quindi Naiadi, divinità d’acqua dolce, e vivono in un
antro amabile, oscuro e sacro. Tutt’intorno, come a Bomarzo, sono vasi
e crateri di pietra.
Adiacente all’Antro sono le Tre Grazie. Si tratta di un’immagine che
65
nel Teatro troviamo nella casella generata dall’incrocio tra il grado Antro
e la colonna di Giove37. Esse rappresentano la virtù nel dare e nel
ricevere.
L’ultima opera del viale è la gigantomachia. Vicino se ne gloria in
un’iscrizione:
SE RODI ALTIER GIA FV DEL SVO COLOSSO
PUR DI QUEST IL MIO BOSCO ANCHO SI GLORIA
E PER PIV NON POTER FO QVANT IO POSSO
37 Nella medesima casella Camillo colloca altri simboli, il più interessante
è Giunone sospesa. L’associazione delle Tre Grazie e di Giunone sospesa
è già presente nella Camera della Badessa, assieme ad evidenti elementi
egiziani, in una miscela perfettamente in sintonia con la cultura del
Delminio.
Sull’interpretazione della scultura non è stato raggiunto un accordo
tra i critici. La tradizione locale individua nell’eroe Ercole, Maurizio
Calvesi invece riconosce nel gruppo Orlando e il pastore. Si tratterebbe
del passo ariostesco in cui Orlando, impazzito, fa a pezzi un pastore.
L’ipotesi è sostenuta principalmente da una seconda iscrizione, purtroppo
mutila:
FIER GIGANTE
O SCEMPIO
ANGLANTE.
66
Anglante può essere interpretato come SANGLANTE, insanguinato,
o come ANGLANTE, per cavalier d’Anglante, ovvero Orlando. Pur
volendo seguire il Calvesi nella integrazione dell’epigrafe, colpisce l’imperturbabilità
del preteso Orlando. Il suo volto impassibile contrasta
fortemente con l’espressione lacerante della vittima. Ariosto descrive la
follia del cavaliere, qui abbiamo, invece, un gesto razionale, cruento ma
pacato. Inoltre non è chiara l’inserzione dell’opera nel contesto generale
del parco. Calvesi ne fa un esempio a contrario, un modo di esaltare la
prudenza mostrando gli effetti della dismisura, la congettura appare
francamente debole e posticcia.
Se torniamo al modello del Delminio le cose si fanno molto più semplici.
Nel Teatro appaiono due immagini che potrebbero aver suggestionato
Vicino. All’intersezione tra il sole e il grado antro c’è Gerione
ucciso da Ercole. Questa prima supposizione configurerebbe il viale
come interamente dedicato all’Antrum Ninpharum. Il secondo simbolo
che potrebbe essere avvicinato al gruppo è la lotta tra Ercole e Anteo.
Ci troveremmo, in questo caso, all’incrocio tra Saturno e il grado Gorgone.
Il conflitto tra Ercole e Anteo rappresenta la vittoria dell’anima
razionale sull’io animale. Anteo è sollevato da terra e ucciso mentre è
preda di pulsioni incontrollate. Sarebbe impossibile dirimere la questione
se Vicino stesso non avesse inteso lasciare un indizio. Scolpita
nella corazza, quasi nascosta alle spalle dell’eroe nudo, vi è infatti l’immagine
di una gorgone. La traccia non potrebbe essere più chiara.
67
Il possibile riferimento al cavalier d’Anglante va quindi letto come
una surcodificazione, un moltiplicare i livelli di senso. Si tratta di un’operazione
affatto consueta, l’associazione di citazioni, che all’occhio
moderno appare incongrua, era una pratica comune. Ercole era figura
del Cristo, e Orlando poteva essere utilizzato come immagine di cavaliere
solare, di un Ercole o di un combattente di Cristo. Paradossalmente
l’universalità del vero poteva essere testimoniata dalla molteplicità
dei simboli.
68
LA DEA DORMIENTE E LA QUESTIONE DELLE DATE
Oltrepassato l’Ercole è possibile salire al livello superiore. Probabilmente
in origine vi si accedeva direttamente dall’Antro e si giungeva
direttamente alla dea dormiente38. Una scultura enigmatica sulla quale
gli storici non hanno maturato un parere unanime. Bredekamp vi riconosce
la ninfa Psiche, mentre Calvesi crede sia la maga Alcina.
Se invece fosse corretta l’ipotesi camilliana, ci troveremmo innanzi
ad una delle due dee presenti nell’asse planetario. Il contesto ambientale
potrebbe suggerire che si tratti della dea della caccia. Il tema iconografico
di Artemide dormiente nel bosco, con un cane di guardia, è piuttosto
consueto. La posizione della scultura, che guarda al piazzale d’ingresso,
potrebbe essere coerente con l’impianto generale del Sacro Bosco. Camillo
infatti sceglie di aprire il suo Teatro proprio con la Luna-Diana,
regina dell’acqua e quindi nume propizio alla generazione.
Tuttavia il vistoso bracciale ci induce a ritenere che si tratti di Afrodite.
Il tema giorgionesco della dea addormentata en plein air appare aggiornato
sulla produzione dell’ultimo Tiziano, con particolare alla Venere
con cane e pernice e alla Venere con organista. Il velo ad impedire il nudo
integrale, che ricorda la Venere allo specchio, è un tributo al clima pudico
imposto dal Concilio. Una variazione della sensibilità che lascia tracce
anche nella libera Venezia, come prova la polemica avviata da Ludovico
Dolce contro i nudi del Giudizio michelangiolesco nell’Aretino.
Quanto detto sin qui ci porta a ritenere che questa scultura sia stata
69
realizzata a ridosso del 1560.
È una supposizione fragile che ci introduce alla questione della datazione,
una vicenda apertissima ed estremamente complessa per l’intero
Sacro Bosco. Pochi sono gli elementi stabili, la sola data sicura è, come
abbiamo visto, quella imposta da Vicino stesso alla base di un obelisco
nella zona d’ingresso. Un documento notarile del gennaio 1552 attesta
la presenza a Bomarzo dello scultore Francesco Moschino, elemento,
questo, che consiglia di attribuirgli le sculture del piazzale egizio.
38 Anche in questo caso il riconoscimento è contrastato, Bredekamp vi vede la ninfa
Psiche, mentre per Calvesi si tratterebbe della maga Alcina.
La prossimità fisica e una comunanza di linguaggio inducono a ritenere
che anche l’antro, le grazie e la dea dormiente siano state realizzate
negli anni cinquanta.
Una preziosissima lettera di Vicino Orsini al cardinal Farnese,
dell’aprile 1561, ci fornisce poi un altro appiglio documentario:
Io sto tuttavia intorno al mio boschetto per veder sello posso far veder
meraviglioso a Lei come a molti balordi che vi vengono, ma questo non averrà,
perché la maraviglia nascendo de l’ignorantia non può cader in Lei39.
Da queste poche righe si evincono alcune notizie fondamentali. La
prima, e la più evidente, è che il boschetto, al principio del 1561 è già
meta di visite ed è ad uno stato di avanzamento tale da essere meraviglioso
per molti balordi.
70
La seconda è che alla base della costruzione c’è un progetto, che esiste
una chiave di lettura che gli ignoranti non possiedono.
La terza è che il giardino non può essere stato pensato da Vicino
come memoriale per la moglie, in quanto Giulia Farnese muore nel 1560
e non sarebbe stato tecnicamente possibile progettare, realizzare il giardino
e ricevere molte visite nel solo inverno 60-61.
La tesi della centralità di Giulia è del resto affascinante ma anacronistica.
Non esiste un solo riferimento alla moglie in tutto l’epistolario
di Vicino, nemmeno nelle tre lettere inviate ad Alessandro Farnese nei
mesi successivi alla prematura scomparsa della nipote. Con l’uomo che
aveva delineato il suo matrimonio, Vicino ragiona di questioni economiche
e legali, della sua salute e del boschetto, ma non fa un solo cenno
alla moglie40. La cosa non deve apparire insolita, il matrimonio tra due
membri dell’aristocrazia non aveva nulla a che fare con l’amore o la
passione. I coniugi erano tenuti al reciproco rispetto, essi erano parti
di un legame di sangue contratto tra due casate. In questo quadro va
inteso anche il tempietto classicheggiante eretto in memoria di Giulia
appena fuori il confine del Sacro Bosco. Il mausoleo è un monumento
di devozione e una testimonianza che con la morte di Giulia il contratto
39 Vicino Orsini ad Alessandro Farnese 22. 4. 1561
40 Lettere del 26 marzo, 20 e 22 aprile 1561
71
tra gli Orsini e i Farnese non aveva perso d’efficacia. L’intreccio dei gigli
e delle rose, emblemi delle due dinastie, presente nella volta del tempio,
è un’inequivocabile affermazione di questo legame.
In un’altra lettera dello stesso aprile 1561, Vicino afferma di essere
a letto a causa di una rovinosa caduta ”dal muro del lago del mio boschetto41”.
Lo curava il medico del papa, Iacopo Sacchi, una vecchia conoscenza
di Vicino. L’archiatra era stato infatti l’autore della Cangiaria,
la commedia che aveva segnato l’ingresso in società del giovane Orsini.
Gli interventi di Annibal Caro, del 1564:
La lettera m’ha trovato in Frascati tanto occupato intorno a’ viali e
simili novelle de la mia vignetta, quanto forse non V.S. intorno a Teatri,
e mausolei del suo Bomarzo.42
e di Francesco Sansovino, riferito ad una visita del 1565:
Mi pare essere su loggia, laqual scopre tutto il paese & mena l’occhio
de riguardanti giù per quella collina, a piè della quale si uede il Teatro, il
lago, & il Tempio dedicato alla felice memoria dell’Illustriss. Sig. Giulia
Farnese già uostra consorte.43
Suggeriscono, con il loro loquace silenzio, che le opere colossali del
Sacro Bosco al 1565 non siano ancora state realizzate. Una stampa del
1564 che, come vedremo, costituisce un precedente iconografico del
gruppo con l’elefante ci conferma in questa supposizione. I lavori dovettero
72
continuare almeno sino al 1573, quando Vicino scrive di un suo
scultore a cui è venuta voglia di vedere le grandezze di Caprarola.44
Nella seconda metà degli anni settanta il boschetto deve però essere
sostanzialmente concluso. Vicino è occupato in lavori di manutenzione
e di completamento. Le sculture sono colorate ed è presumibilmente
in questo momento che sono inserite la maggior parte delle iscrizioni.
41 Vicino Orsini ad Alessandro Farnese 20.4.1561
42 Annibal Caro a Vicino Orsini, 20.10.1564
43 Jacopo Sannazaro, Arcadia, Dedica di Francesco Sansovino a Vicino Orsini, 1570
44 Vicino Orsini ad Alessandro Farnese, 14.8.1573
IL PIAZZALE DI NETTUNO
Grazie al bacino artificiale, realizzato nel 1561, Vicino può attivare
fontane e giochi d’acqua, sia in basso, nell’area di interconnessione col
giardino, sia in alto, verso la grandiosa fontana con il dio barbuto.
Ancora un dio, dopo la Venere che rappresentava esplicitamente
uno dei numi tutelari del Teatro, siamo ora di fronte a Nettuno. Giulio
Camillo ricorre all’immagine di Poseidone per ben tre volte nella colonna
della Luna, a rappresentare l’elemento equoreo a differenti gradi
di complessità:
73
Nettuno prometterà che nel suo volume si tratterà dell’elemento
dell’acqua purissimo e semplicissimo. Si dà alla Luna, per esser la reina
dell’umidità. Questa medesima sotto l’Antro significherà l’acquatico
e i suoi animali. Sotto i Talari tentare il guado, passar l’acqua, lavar
con acqua, bagnar, bere, spruzzare. E sotto Prometeo arti sopra l’acque,
come aquedutti, fontane artificiale, ponti, arzanà, arte navale e l’arte
del notare e pescare.45
Più volte, nella costruzione del suo Teatro, Camillo utilizza il medesimo
simbolo per rappresentare differenti tappe nel divenire mondo.
Così, la Fanciulla con vaso di odori in testa, collocata poco più avanti
nel piazzale di Poseidone, appare per tre volte nella colonna di Venere:
nell’Antro significherà tutti gli odori. E per esser il vaso di Venere, al
lei si dà. Sotto i Talari significa le nostre operazioni insieme agli odori
fuor d’arte, come odorare e portare odori. Ma sotto Prometeo contiene le
arti pertinenti ad odori e perfumieri.46
Accanto alla Fanciulla con vaso di odori, in cui Bredekamp riconosce
Cerere mentre Calvesi crede sia la figlia Proserpina, c’è il Vello
45 G. Camillo, L’idea del Teatro, in L’idea …op. cit., p. 75
46 G. Camillo, L’idea del Teatro, in L’idea …op. cit., p. 83
d’oro. Il mitico animale è stato trascurato da Calvesi, ma è presente nel
Teatro, nella colonna di Mercurio, a rappresentare:
74
tutti gli oggetti che appartengono al giudizio del peso o del toccamento,
come grave e leggiero, aspro, molle, duro, tenero e simili; intendesi
nondimeno di quelle che son fuor dell’uomo. Questa medesima immagine
sotto Pasife significherà le cose medesime del corpo umano e sotto
i Talari significherà l’operazion senza arte di far duro, molle, aspro.47
Una sola volta, al grado Convivio nella colonna di Marte, troviamo
la Bocca Tartarea. La presenza di una tavola conviviale all’interno del
monumento più celebre dell’intero Sacro Bosco non si spiega quindi
con il ricorso ad una bizzarria, ma ancora come un indizio. Come tutte
le immagini collocate nell’area di pertinenza del dio guerriero, anche
la Bocca tartarea rimanda al fuoco e, difatti, Calvesi sottolinea la discendenza
del motivo iconografico da alcuni camini presenti nelle ville
del veronese e a Vicenza48. Ulteriore conferma della preponderante influenza
veneta nella formazione culturale di Vicino.
47 G. Camillo, L’idea del Teatro, in L’idea …op. cit., pp. 81-82
48 Cfr. Calvesi, Incantesimi … op. cit., p. 247
LEPANTO
Dopo l’esperienza del carcere, Ludovico Domenichi riprende il suo
lavoro di editore. Nel 1564 pubblica le Istorie di Paolo Giovio, un intellettuale
che molto si era esposto per la sua liberazione. In quest’edizione
c’è una tavola che è fonte iconografica per il gruppo con l’elefante e il
legionario. La ripresa è precisa, Bredekamp nota che “il diadema simile
ad una rosa sulla fascia frontale dell’elefante del Giovio avrà suggerito a
75
Vicino di rivestire i lembi della bardatura con il suo simbolo araldico.”49
A conferma della datazione tarda dell’opera non vi è solo questo elemento,
anche in questo caso, come per la gigantomachia, è lo stesso
silenzio delle fonti a suggerire che il gruppo non fosse stato realizzato
nella prima metà degli anni sessanta. Calvesi propone una data posteriore
al 1571, il legionario morto sarebbe un monumento in memoria
del figlio Orazio, caduto nella battaglia di Lepanto. La guerra contro
i Turchi si presenta come l’ultimo episodio di un millenario conflitto
tra Oriente e Occidente. Una crociata alla quale Vicino s’era rifiutato
di partecipare, ancora giovane aveva deciso di abbandonare la carriera
militare in modo definitivo. Il massacro di Montefortino, l’ultima spedizione
cui aveva partecipato, lo aveva disgustato. La cittadina laziale,
colpevole di essersi ribellata al Papa era stata rasa al suolo e le sue macerie
erano state arate con il sale. Tutti gli abitanti erano stati massacrati
dalle truppe del Carafa, mentre le donne, che avevano condotte con sé
i bambini, furono bruciate vive dentro una chiesa nella quale avevano
sperato di trovare rifugio. L’ipotesi di Calvesi rende anche ragione
dell’importante variante che Vicino impone al modello camilliano.
Nel Teatro l’elefante appare nella colonna di Mercurio a rappresentare
gli dei favolosi, le false religioni. L’introduzione del legionario potrebbe
quindi essere un tributo al figlio sacrificato in pasto ai falsi dei e ai
suoi apostoli. Questa congettura è rafforzata dall’epistolario, infatti nel
corso dei suoi ultimi anni l’Orsini si lascia sfuggire giudizi sempre più
scettici nei confronti delle religioni e carichi di disprezzo nei riguardi
49 H. Bredekamp, op. cit., p. 152
dei ministri della Chiesa di Roma.
76
In una lettera all’amico Drouet scrive che non vi è vita oltre la vita:
et così tirare avanti, sinché s’arriva al porto del fiume Lethe, et non
è poca consolatione a pensare che s’altri non curarà né parlarà più di
me, io non curarò, né parlarò manco d’altri et tornarò in quel medesimo
stato che ero nanzi che venissi di qua; et ben dice Seneca, che poca differenza
è da una candela nanzi che s’appicci, o dipoi che è smorzata.50
In un’altra cerca invece di consolarlo per la paura della morte, il relativismo
è spinto sino ad una sostanziale dichiarazione di ateismo:
Hor consoliamoci con altre sorti di consolazioni, e non più con li
pianti; noi dovemo fare, già che semo nella settimana santa, come li cristiani,
e creder che queste siano transitorie e quell’altre, ch’arremo da
haver di là, siano eterne e di altra qualità; se non ti piace questa, piglia
l’opinion Pitagorica, confortati con l’haver a saltar d’un corpo in un altro;
se non ti piace questa, piglia la Platonica, che doppo tante migliaia
d’anni là tornerai; se non ti piace questa altra, piglia l’Epicurea, e se non
ti piace nessuna, crepa, già che non si trova via de consolarti.51
Mentre nella sua ultima lettera, scritta nel Natale del 1583, chiede
all’amico di prendersi gioco dei membri del concistoro, di quelli vecchi
come di quelli nuovi, sebbene, prudentemente, sotto lo mantiello:
…, ma de gratia mi faccia un piacere: come voi vedete, questi cardinali,
tanto novi como vechi, per amor mio, fateli una ficha sotto lo
77
mantiello, …52
50 Vicino Orsini a Giovanni Drouet, 28.7.1574
51 Vicino Orsini a Giovanni Drouet, 3.4.1583
52 Vicino Orsini a Giovanni Drouet, 26.12.1583
LA PANCA ETRUSCA
Nel livello di Nettuno sono presenti ancora due massi di peperino.
Dal primo è stato ricavato il gruppo del drago in lotta con i due leoni,
opera che, come vedremo, è strettamente connessa con i leoni presenti
nel livello superiore. Con il secondo monolito è stata invece ottenuta
una grandiosa panca etrusca. Si tratta di una realizzazione tarda che
pare posta a margine del progetto. Parte integrante della panca è un’iscrizione
che recita:
VOI CHE PEL MONDO GITE ERRANDO VAGHI
DI VEDER MARAVIGLIE ALTE ET STUPENDE
VENITE QVA DOVE SON FACCIE HORRENDE
ELEFANTI ORSI ORCHI ET DRAGHI
78
Vale per questa quanto detto per la maggior parte delle iscrizioni,
si tratta di un intervento realizzato al termine dei lavori, con il chiaro
intento di unificare l’intero giardino. Non ci sono enigmi per questa
epigrafe, un semplice invito ai suoi ospiti, una piccola e autocelebrativa
sintesi delle meraviglie presenti nel boschetto. Tuttavia, la morfologia
della panca poteva dire qualcosa ai contemporanei di Vicino. Si tratta
infatti di una citazione del reperto etrusco presente nei giardini del
cugino Nicolò IV Orsini di Pitigliano. Al ramo di Pitigliano, gli Orsini
di Bomarzo erano legati da vincoli di parentela, alleanza ed amicizia.
Bartolomeo d’Alviano e Giancorrado, padre di Vicino, avevano combattuto
per Niccolò III, generale dell’esercito veneziano. Mentre Vicino
stesso aveva condiviso la campagna contro gli smalcaldici del 1546-47
con Niccolò IV. Già i contemporanei percepivano i giardini di Pitigliano
e quello di Bomarzo come realizzati in competizione l’uno con l’altro53,
evidente l’analogia tra le due finte panche etrusche che hanno un
comune precedente nella tomba della sirena di Sovana, collocata nei
territori del conte di Pitigliano.
53 cfr, Bredekamp, op. cit., p. 194 n. 34
79
Tomba della sirena che, come osserva Bredekamp54, è un sicuro precedente
anche per un altro monumento finto etrusco che, sebbene posto
in una zona periferica del giardino, consideriamo ora per affinità tematica.
Le pseudo rovine del tempio etrusco, nel cui timpano è scolpita
a basso rilievo una favolosa creatura marina, ripropongono un motivo
apologetico del casato Orsini. Gli Orsini erano infatti celebrati dalla
letteratura cortigiana come discendenti dei primi coloni etruschi, giunti
in Italia dopo la guerra di Troia e chiamati dalle popolazioni locali
Populi Ursentini, a causa degli orsi condotti dall’Asia minore. Stando
allo storico Annio da Viterbo, Vicino poteva poi vantare un primato
del suo feudo in quanto a Piammiano era stato individuato il primo insediamento
etrusco nella penisola. I primi coloni, giunti dalla Meonia,
avrebbero costruito il mitico oppidum Meanum non lontano dal sacro
Bosco, nell’antico Piano dei Meoni o Piammiano.
Ma, al di là di connessioni più o meno pretestuose, queste realizzazioni
neoetrusche appaiono più che altro di valore ornamentale e sono
comunque estranee al progetto originario del Sacro Bosco.
54 Bredekamp, op. cit., p. 137
80
LA NOTTE DI SAN BARTOLOMEO
Lasciato il livello di Poseidone, il visitatore raggiunge un terrazzamento
dominato da una panca che termina con una imponente figura
di donna. Si tratta di Cibele, cui Camillo ricorre quattro volte per significare,
nella colonna di Saturno, la terra e le sue arti. L’iconografia
è quella classica, che il Delminio riconduce a Lucrezio, la dea è turrita
ed è accompagnata da due leoni. Melanione ed Atalanta, posti da Giove
a difesa di Cibele, sono all’altro capo del piazzale, impegnati a fronteggiare
creature infernali colte nel momento della loro transizione da
sirene ad arpie. In quanto manifestazioni dell’Ade, le Arpie sono assimilabili
alle Furie che ritroviamo nel Teatro nella casella di intersezione
tra Prometeo e Marte:
Le Furie infernali, per esser esecutrici delle pene, conteneranno il barigellato,
cattura, carcere, tortura, supplicii.55
La corsa dei leoni non s’arresta qui, sono infatti ancora Melanione
ed Atalanta che balzano nel livello inferiore per aggredire il drago posto
accanto all’elefante. La centralità di questa lotta è sottolineata dalla
iscrizioni presenti in tre dei crateri presenti nel piazzale di Nettuno.
Purtroppo una solo è integra e recita:
NOTTE ET
GIORNO
81
NOI SIAM VIGILI
ET PRONTE
A GVARDAR D’OGNI
INGIURIA QUESTA
FONTE
Il Parco si è aperto quindi ad una dimensione teatrale che mette in
55 G. Camillo, L’idea del Teatro, in L’idea …op. cit., p. 124
scena un vero e proprio dramma, un succedersi di eventi che è parallelo
al divenire del percorso verso il punto più alto del giardino, quel colle a
cui è teso l’intero itinerario.
Tuttavia, prima di riprendere il viaggio iniziatico, resta da sciogliere
un nodo: cosa rappresenta il drago? Nella macchina di Camillo non è
presente, a cosa dobbiamo questa variazione? Dobbiamo considerare
il drago come un emblema generico di creatura demoniaca? O, invece,
si tratta di un simbolo che i contemporanei potevano cogliere agevolmente?
Per dare una risposta a questo interrogativo possiamo far ricorso a
due elementi: datazione e collocazione. Il gruppo con il grado e i due
82
leoni è disposto tra l’elefante e le arpie collocate nel livello superiore. Il
legame con le divinità infernali è sottolineato dalla presenza della coppia
di leoni. Nel piazzale di Cibele, Melanione ed Atalanta si limitavano
a tenere a bada gli agenti della tortura, del carcere e dei supplizi, qui,
al contrario, sono impegnati in una furiosa combattimento. L’azione è
drammatica, molto diversa dalla pur prossima lotta tra il legionario e
l’elefante. Vi è una solennità nelle sculture che devono ricordare Lepanto,
un’immobilità che contrasta fortemente con il dinamismo espressionista
del conflitto con il drago. Eppure le due opere devono essere
pressoché contemporanee. Appare fortemente probabile che Vicino abbia
proceduto nella costruzione del suo giardino per fasi ben definite,
in zone ben delimitate. Non vi sono documenti che alludano al drago
almeno sino al 1565 ed è ragionevole ipotizzare che anche questo monolito
sia successivo a Lepanto. L’indizio che ci spinge a valutare questa
ipotesi è la straordinaria somiglianza tra il drago di Bomarzo e lo
stemma pontificio di Gregorio XIII, eletto nel 1572, e distintosi immediatamente
per la sua feroce politica contro gli eretici. Il papa Boncompagni
accolse con gioia la notizia della strage degli ugonotti, il massacro
indiscriminato di decine di migliaia di calvinisti francesi, perpetrato
a freddo nella notte tra il 23 e il 24 Agosto. Gregorio XIII donò cento
scudi al messaggero che per primo l’informò dell’eccidio, ordinò che in
segno di festa sparasse il cannone di Castel Sant’Angelo, fece coniare
una medaglia commemorativa della strage ed incaricò Giorgio Vasari
di affrescare gli appartamenti regali del Vaticano con una rappresentazione
del più grande massacro perpetrato nell’età della Controriforma.
83
L’11 settembre lo stesso Pontefice indisse una solenna funzione in cui
pose sullo stesso piano Lepanto e la notte di San Bartolomeo, infedeli
ed eretici56.
Vicino Orsini era passato indenne attraverso il pontificato di Giulio
III che pure aveva colpito duramente il suo amico Domenichi, aveva
partecipato al massacro di Montefortino ordinato da Paolo IV, aveva
saputo dell’eccidio di Guardia Piemontese avvenuto per volere di Pio IV
e aveva poi visto salire al Soglio il Grande Inquisitore, papa Ghislieri,
che del massacro era stato il vero mandante. In tutti quegli anni s’era
mantenuto in disparte, aveva lanciato segnali di dissenso ed inviti alla
prudenza. Ma Lepanto gli porta via un figlio e Gregorio XIII inaugura
il suo pontificato celebrando l’ennesima e la più grave carneficina del
secolo. Vicino coglie il nesso tra agenti del supplizio e mandanti, tra
inutili stragi e falsi dei. L’ironia lascia allora il posto al disgusto e alla
rabbia. Cibele, nume tutelare della terra, si vede costretta a difendere il
giardino e la fonte della vita.
56 Nel dispositivo di Camillo il Dragone cavalcato da Marte è detto “veleno di Dio”
e rappresenta, nella colonna di Marte a tre differenti gradi di intensità, la potenza
distruttrice, la crudeltà e la vendetta.
Nascosta tra le spire del drago bomarzese emerge una terza fiera il cui significato
è ancora incerto.
84
85
CERBERO, IL TERRAZZINO E PAN
Alle spalle di Cibele c’è un’ultima scalinata che ci conduce alla sommità
del colle. Per accedervi si deve affrontare Cerbero.
Scrive Camillo:
Cerbero è stato dipinto con tre teste a significar le tre necessità naturali,
che sono il mangiare, il bere et il dormire; le quali, perciò che
impediscono molto l’uomo dalla speculazione, finge Virgilio che Enea
per consiglio della Sibilla, volendo passar alla contemplazione delle cose
alte, gli gitta un boccone e di subito passa. Il che significa che, quantunque
noi abbiamo a soddisfare a queste tre necessità, con poco loro abbiamo
a soddisfare, se vogliamo avere tempo di contemplare.57
Il mostro tricefalo è l’ultimo ostacolo da superare per raggiungere il
grado di perfezione spirituale in cui è possibile la contemplazione del
mistero dell’universo. Dal terrazzino si apriva la vista delle cose terrene
e quelle celesti.
Il che più chiaramente esprimeremo con uno esempio. Se noi fossimo
in un gran bosco et havessimo desiderio di ben vederlo tutto, in quello
stando, al desiderio nostro non potremmo soddisfare: percioché la vista
intorno volgendo, da noi non se ne potrebbe vedere che una piccola parte,
impedendoci le piante circonvicine il vedere delle lontane: ma se vicino
a questa vi fosse una erta, la qual ci conducesse sopra un alto colle,
del bosco uscendo, dall’erta cominceremo a veder in gran parte la forma
86
di quello; poi sopra il colle ascesi tutto intero il potremmo raffigurare.
Il bosco è questo nostro mondo inferiore, l’erta sono i Cieli, et il colle il
sopraceleste mondo. Et a voler bene intendere queste cose inferiori è necessario
di ascendere alle superiori: et di alto in giù guardando, di queste
potremmo haver più certa cognizione.58
57 G. Camillo, L’idea del Teatro, in L’idea …op. cit., p. 83
58 G. Camillo, L’idea del Teatro, in L’idea …op. cit., p. 63
È forse questo il passo, tratto dalle prime pagine dell’Idea, che nel
1550 offrì a Vicino lo spunto per la creazione del suo capolavoro. Il
bosco, il desiderio di conoscenza, il percorso iniziatico, l’ascesi verso
l’erta, il superamento delle passioni terrene rappresentate da Cerbero
e, infine, il raggiungimento della sommità del colle da cui è possibile
contemplare le cose inferiori e le superiori. La coincidenza nei termini,
nel progetto e nelle immagini è indubitabile.
Stando così le cose siamo in condizioni di comprendere l’importanza
ed il ruolo di una scultura, gravemente danneggiata, che oggi giace
riversa al suolo accanto a due orsi araldici. Si tratta di un Pan, divinità
disposta al primo grado della colonna centrale, quella dedicata al sole:
Pan, il quale perciò che con la testa significa il sopraceleste con le
corna d’oro che in su guardano, e con la barba i celesti influssi e con la
pelle stellata il mondo celeste, e con le gambe caprigne l’inferiore, sotto
questa figura ci saranno significati i tre mondi.59
87
Il Pan è dunque l’immagine di sintesi cui l’iniziato giungeva al termine
del suo percorso d’ascesa.
Il progetto originario è condotto a compimento, ma è doppiato da
un’ombra di scetticismo che è venuta addensandosi nel corso degli anni
e dei decenni. Vicino interpreta Camillo con sempre maggior libertà,
inventa varianti che, pur non tradendo l’impianto delminiano, introducono
allusioni al vissuto personale del committente via via più evidenti.
Il giardino si fa traccia di una vita intera e si fa interamente carico
di dubbi e ripensamenti. Abbiamo visto come l’iscrizione tardiva che
l’Orsini fa inserire nel teatro, giungiusse a rimettere tutto in discussione.
Il neoplatonismo, la magia, l’Egitto e la possibilità di trasformare
le statue in uomini, appaiono all’ultimo Vicino come vanità. In una
lettera tarda, del 1580, il progetto è messo a nudo e, ad un tempo, privato
di valore:
et quando considero ch’hormai nel mio boschetto non ci ho da far
altra operatione, che la contemplatione delle cose inferiori et superiori,
59 G. Camillo, L’idea del Teatro, in L’idea …op. cit., p. 66
non ne ritraggo altro, che, stando astratto con la mente, parer una statua.
60
Ecco la conferma che il suo boschetto è il bosco di Giulio Camillo,
insieme all’amara constatazione che il grande talismano si è ritorto
contro il suo creatore. In luogo di dare la vita alla pietra, il Sacro Bosco
88
trasforma gli uomini in statue.
Vicino non rinuncia a sorridere di se stesso. L’ironia è l’ultima arma
che gli rimane. La userà contro i sapienti:
… alla fin fine questi barboni bianchi ch’hanno nome di savii danno
nel coglionorio più che gl’altri.61
La userà contro se stesso e per farsi beffe dell’ideologia aristocratica,
quando nasconde nel cuore stesso dell’emblema orsiniano una scimmietta
che fa le boccacce. La scimmia è celata dentro una rosa sostenuta
da un orso, disposto proprio accanto al Pan. Il principe di Bomarzo
sino all’ultimo continua a fare le fiche sotto lo mantiello e si diverte a tenere
assieme sacro e profano, dimensione pubblica e sfera privata, in un
complesso gioco di scatole cinesi. L’approccio guascone è sempre quello
della gioventù, ma Vicino è oramai stanco e pronto a morire:
non c’è più rimedio alli casi nostri, già è data la sententia et non
manca se non l’esecutione; io dico che bisogna pagare il debito alla Natura
et resolverse a farlo senza tante cerimonie et querele.62
Probabilmente crede di aver perso la sua sfida. Eppure chi, oggi, si
trovi ad attraversare il suo sogno di pietra, può affermare che davvero
LOCA VIRIS HONESTATUNTUR, i luoghi acquisiscono onore dagli
uomini. La visione del giovane ha sconfitta la scettica saggezza dell’anziano
60 Vicino Orsini a Giovanni Drouet, 15.1.1580 61 Vicino Orsini a Giovanni Drouet, 28.7.1574
62 Vicino Orsini a Giovanni Drouet, 8.8.1574
APPARATO ICONOGRAFICO
89
APPARATO ICONOGRAFICO 75
Teatro anatomico di Leida
ipotesi di ricostruzioni del
Teatro di Giulio Camillo
Terrazze appartamento
di Vicino Orsini
Tavola della
Hypnerotomachia
Poliphili
Dettagli della stanza
di Vicino Orsini e Giulia Farnese
90
Planimetria del Sacro Bosco
Le lettere corrispondono alle tavole
dell’apparato iconografico
A: Sfingi
B: Erme
C: Iside su Basilisco
D: Teatro
E: Casa Pendente
Tavola dal Symbolicarum
Quaestionum (1555/56)
di Achille Bocchi
Veduta d’insieme del piazzale d’ingresso
F: Antro delle Ninfe
Tavola dall’ Hypnerotomachia Poliphili
G: Tre Grazie
Dettaglio della corazza di Ercole con testa di Gorgone
H: Ercole e Anteo
I: Venere
L: Nettuno
M: Fanciulla con vaso di odori in testa
91
N: Bocca tartarea con elefante e drago sullo sfondo
O: Elefante
Tavola da
Paolo Giovio, Delle istorie, 1564
P: Drago con fiere
Emblemi della famiglia Boncompagni
Medaglia commemorativa
della strage degli Ugonotti
Q: Cibele
R: Pan
S: Orso araldico
Dettaglio con scimmia sbeffegiante
T: Atalanta e Melanione con Sirena ed Arpia
U: Cerbero
V: Terrazzino
Z: Tempietto di Giulia Farnese
Dettaglio del tempio con la rosa degli Orsini e i gigli farnesiani
Immagine della tetractis e della piramide
Tavola dal Symbolicarum quaestionum di Achille Bocchi (1555/56)
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Finito di stampare nel mese di marzo 2013
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