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Capitolo I
I reati religiosamente orientati ed i reati culturalmente
orientati: un approccio a partire dai concetti di cultura
e religione.
Sommario: Introduzione. 1.1. Il concetto di “religione”. 1.2. Il concetto di
“cultura”. 1.3. La definizione di “cultura” giuridicamente rilevante in ambito
internazionale. 1.4. La libertà religiosa: Costituzione, ordinamento europeo ed
ordinamento internazionale. 1.5. La libertà culturale. 1.6. La definizione di reati
religiosamente orientati e di reati culturalmente orientati.
Introduzione.
Al fine di analizzare i fenomeni dei reati religiosamente orientati e
dei reati culturalmente orientati - che rappresentano il nodo gordiano
della presente trattazione - risulta opportuno sviluppare previamente
una riflessione sui concetti di religione e di cultura, con particolare
riguardo alle libertà a questi relative.
Con riferimento al concetto di religione, occorre un’annotazione
preliminare. Se è possibile rinvenire in atti giuridicamente rilevanti
una nozione di cultura, lo stesso non si può affermare per il concetto
di religione.
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1.1. Il concetto di “religione”.
La religione può essere considerata come il “complesso di credenze,
sentimenti, riti che legano un individuo o un gruppo umano con ciò
che esso ritiene sacro, in particolare con la divinità, oppure il
complesso dei dogmi, dei precetti, dei riti che costituiscono un dato
culto religioso”1.
Si deve evidenziare come tale definizione vada a costruire un
concetto di religione volto ad individuare gli aspetti essenziali di un
particolare tipo di esperienza antropologica2.
Questo ha reso altresì inevitabile che in ogni epoca storica si siano
elaborate definizioni diverse di religione, per coglierne i mutamenti.
Da oggetto di studio per pochi eletti, tornando ad essere fattore di
rilevanza pubblica e sociale, la religione oggi, per il tramite della
globalizzazione e gli aspetti ad essa connessi, ha assunto un ruolo
centrale come fattore identificante per le varie comunità.
In questa prospettiva di globalizzazione si colloca il pensiero del
sociologo americano Roland Robertson, secondo il quale la religione
si qualifica per la sua partecipazione al processo di unificazione del
pianeta3: la religione così concepita non viene più analizzata in base
ai contenuti che ne delineano l’identità, bensì per i legami con
l’ambiente esterno, in particolar modo con le altre culture e religioni
del mondo.
La religione, in tale ottica, non risulta una monade distinta e scissa
dal contesto spaziale e temporale in cui si colloca. Al contrario,
manifesta la sua essenza nelle relazioni che riesce ad instaurare con
1 Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed
arti, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 2008. 2 Cfr. G. Filoramo, Che cos’è la religione. Temi metodi problemi, Einaudi, Torino,
2004, p. 1. 3 Cfr. R. Robertson, Globalization: Social Theory and Global Culture, Sage,
London, 1992, trad. it. a cura di A. De Leonibus, Globalizzazione: teoria sociale e
cultura globale, Asterios, Trieste, 1999, pp. 69-70.
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altre religioni e culture: una fitta rete di legami e connessioni da
apprezzare nel loro insieme.
In tale accezione si può individuare un carattere aggregante piuttosto
che escludente del fattore religioso.
La religione è in grado di creare una trama che lega insieme
sfaccettature culturali potenzialmente discordi.
Tuttavia, tale definizione di religione resta relegata in precise
coordinate spaziali e temporali, che ne rendono relativa la propria
validità.
È veramente possibile individuare una nozione universale di
religione, capace di esistere al di là delle dinamiche storiche e
territoriali? E, se così fosse, tale definizione non finirebbe forse per
essere eccessivamente generica e, conseguentemente, limitata?
Una siffatta definizione di religione finirebbe per includere tutto e
niente.
Al fine di focalizzare al meglio la questione, a prescindere dalle
letture del lemma religione che si sono susseguite nel tempo, può
essere utile interrogarsi sulla parallela nozione di confessione
religiosa.
Seppur non abbia una relazione identitaria con il concetto di
religione, presenta caratteri di interesse per tentare di comprendere
che cosa si intenda per religione.
È possibile innanzitutto rinvenire all’interno del dettato
costituzionale un primo riferimento alle confessioni religiose,
precisamente nei tre commi dell’articolo 8.
L’interpretazione di tale dato letterale ci impone, infatti, di
identificare quei soggetti definiti con l’espressione “confessioni
religiose”.
A tal proposito è opportuno rilevare come questa espressione debutti
direttamente con tale norma costituzionale.
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La ratio dell’introduzione di questa locuzione è quella di
circoscrivere maggiormente i soggetti destinatari della norma e,
consequenzialmente, dell’eguale libertà in essa proclamata.
Tali destinatari non sono identificabili né con le religioni
generalmente intese, né con qualsiasi gruppo di persone
religiosamente qualificato4.
In tale percorso interpretativo occorre allora riflettere in una
prospettiva storica.
I membri dell’Assemblea costituente che elaborarono la norma in
questione non avevano di fronte il pluralismo religioso delle odierne
società multiculturali, avendo esperienza esclusivamente delle
minoranze ebree e protestanti italiane.
Non avvertirono l’esigenza di confronto con realtà religiose quali
l’Islam o il Buddismo, oggi nettamente più diffuse rispetto a sessanta
anni fa5.
Un ulteriore ostacolo alla definizione di confessioni religiose è altresì
rappresentato dal principio di laicità che impone il divieto per lo
Stato di definire unilateralmente i parametri di religiosità e i criteri
per identificare una confessione religiosa.
Per altro verso, lo stesso Stato ha la necessità, come ordinamento, di
sapere se il gruppo che ha di fronte ricade nella garanzia d’eguale
libertà ex articolo 8.
A tale esigenza ha dovuto sopperire la giurisprudenza, compresa la
Corte Costituzionale, che ha tentato di individuare dei criteri
riconoscibili di riferimento.
Tuttavia, non ha ritenuto di poterli ravvisare in precedenti
riconoscimenti pubblici, quali la stipula di un’intesa, il
riconoscimento della personalità giuridica ai sensi della legge sui
culti ammessi, o uno statuto che ne proclami i caratteri.
4 Cfr. P. Consorti, Diritto e religione, Laterza, Roma-Bari, 2014, p. 88. 5 Cfr. B. Randazzo, Diversi ed eguali. Le confessioni religiose davanti alla legge,
Giuffrè, Milano, 2008, pp. 33-35.
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In conclusione, alla luce di tale giurisprudenza, si è potuto
individuare come definizione di confessione religiosa
costituzionalmente compatibile quella di “gruppo caratterizzato dalla
comunanza di un certo orientamento spirituale, espressivo della
libertà di coscienza e legato a un certo modo di intendere la vita (e la
morte), il quale si autoqualifica come confessione religiosa” 6.
Si riesce così a garantire sia l’autonomia statuale che quella
confessionale.
Si può evidenziare come emerga da tale nozione il riferimento alla
coscienza.
Un profilo che apparentemente va oltre l’aspetto prettamente
religioso, abbracciando una sfera intima non esclusivamente
riferibile ai dogmi del proprio credo.
In realtà, grazie ad un’esperienza personale che ho avuto modo di
condurre in Thailandia (precisamente nel Wat Chedi Luang)7, tale
concezione è propria di alcune confessioni religiose, quale appunto il
Buddismo. Nel corso della conversazione privata con un monaco
buddista del tempio, ho avuto modo di apprendere come egli
concepisca il proprio credo religioso come uno stile di vita assunto in
forza di una scelta di coscienza piuttosto che in virtù di dogmi
religiosi imposti dall’alto.
Nella visione buddista, le religioni sono solo svariate strade tramite
cui raggiungere una meta comune, la felicità.
Essi non ritengono che il buddismo sia la migliore religione possibile
e non credono nemmeno nell’esistenza di una necessaria relazione
con Dio. Pensano piuttosto che il buddismo sia una delle potenziali
vie per raggiungere la felicità terrena.
6 P. Consorti, op. cit., p. 91. 7 Nell’ambito di una visita di studio svolta in Thailandia dal 20 al 31 marzo 2017,
ho avuto la possibilità di intervistare un monaco buddista (Monk Chat) nel Wat
Chedi Luang (tempio buddista) della città di Chiang Mai.
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In tale ottica, si può cogliere un punto di collegamento tra la nozione
di confessione religiosa e quella di religione nel concetto di
coscienza: nella scelta di come condurre la propria vita, in forza di
una convinzione intima superiore ad ogni altro credo.
Nonostante l’individuazione di questo possibile punto d’incontro,
rimane opportuno riflettere circa la “patologica” assenza di un’
altrettanto determinata nozione di religione all’interno di documenti
giuridicamente rilevanti.
In particolare, tale lacuna risulta evidente con riferimento alle
direttive 43/20008 e 78/20009 nelle quali il legislatore europeo ha
omesso una qualsiasi definizione del concetto di religione10.
Tuttavia, la dottrina11 ha evidenziato che tale omissione non è
casuale, ma è stata voluta dal legislatore europeo.
Una netta definizione di un così delicato concetto esporrebbe al
rischio di delimitare eccessivamente l’ambito di tutela ad esso
correlato, finendo per assumere un carattere discriminatorio verso le
credenze passibili di esclusione rispetto ad una definizione in
materia.
In linea con tale ratio, all’articolo 1 della direttiva 78/2000 si accosta
la locuzione “convinzioni personali” al termine religione, così da
tutelare un più ampio insieme di concezioni, sia di natura prettamente
religiosa sia di natura non religiosa.
D’altronde tale impostazione garantistica espone ad un ulteriore o
contrapposto rischio, ossia quello di un’espansione ad infinitum della
8 Consiglio dell’Unione Europea, 29/06/2000 (pubb. Gazzetta Ufficiale delle
Comunità Europee 19/07/2000), n. 43. 9 Consiglio dell’Unione Europea, 27/11/2000 (pubb. Gazzetta Ufficiale delle
Comunità Europee 02/12/2000), n. 78. 10 Cfr. S. Coglievina, Diritto antidiscriminatorio e religione. Uguaglianza,
diversità e libertà religiosa in Italia, Francia e Regno Unito, Libellula, Tricase,
2013, pp. 79-81. 11 Cfr. F. Margiotta Broglio, La protezione internazionale della libertà religiosa,
Giuffrè, Milano, 1967, p. 35 e ss.
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tutela religiosa, arrivando a ricomprendere sotto la nozione di
religione qualsiasi opinione personale.
A scongiurare tale rischio è intervenuta la Corte di Strasburgo che ha
precisato che assumono rilevanza esclusivamente quelle opinioni
personali corredate di un certo livello di forza e coerenza nel
delineare la visione della vita di un soggetto.
Nella sentenza del 25 febbraio del 1982 della Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo si legge infatti: “La parola ‘convinzioni’ non è
sinonimo dei termini ‘opinione’ e ‘idee’, come utilizzati nell'art. 10
della Convenzione che garantisce la libertà d'espressione; la si
rinviene nella formulazione francese dell'art. 9 (in inglese «beliefs»)
che consacra la libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Si
applica ad opinioni che raggiungono un certo grado di forza, di
serietà, di coerenza e di importanza” 12.
Si arriva così ad una definizione, seppur indiretta, di religione,
connotata da rilevanza giuridica internazionale.
Sarà questo il punto di riferimento nello sviluppo della trattazione in
merito.
1.2. Il concetto di “cultura”.
Nel tentativo di comprendere il concetto di cultura non si può
prescindere dall’analisi etimologica del termine: la sua derivazione
dal latino colere.
Nella sua accezione originaria ha conosciuto uno slittamento di
significato da sostantivo, “la terra coltivata”, a verbo, “l’atto del
coltivare”, assumendo così anche la sfumatura metaforica di
“coltivazione dello spirito”, con un valore prettamente individuale.
Tuttavia, nel XIX secolo si afferma un nuovo ed ulteriore significato
12 Corte Europea dei diritti dell’Uomo, 25/02/1982, n. 48, caso Campbell-Cosans,
ric. n. 7511/1976 e 7743/1976.
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di cultura che va a designare l’insieme dei caratteri della collettività,
esaltando così una dimensione plurale.
Sulla base di questa lettura pluralista si innesta inevitabilmente un
raffronto con il termine “civilizzazione”, frutto di un intreccio
semantico con la parola civiltà, a cui la visione collettiva di cultura
saldamente si lega.
È proprio tale confronto che ci permette, per contrasto, di evidenziare
il carattere chiuso e inclusivo del concetto di cultura: se con
civilizzazione si indica un processo di portata universale che pone
l’accento sul minimo comune denominatore dei popoli delle varie
nazioni, al contrario con cultura si tende a evidenziare il rapporto di
appartenenza fondata sul binomio popolo/nazione, esaltando le
peculiarità di ciascuna nazione e lo spirito nazionale dei vari
popoli13.
Data tale lettura preliminare, emerge che il concetto di cultura
presenta ancora oggi un’insita polisemia14.
Secondo un’interpretazione ristretta il concetto di cultura coincide
con il “patrimonio di cognizioni ed esperienze acquisite da una
persona tramite lo studio, ai fini della specifica preparazione in uno o
più campi del sapere”15.
Viceversa, un’interpretazione più ampia richiama il modo di vivere e
di pensare, riuscendo ad inglobare altri termini come mentalità,
spirito, tradizione, ideologia16.
Data la crescente diffusione di tale ultimo significato del termine
cultura, risulta necessario un tentativo di precisazione terminologica
13 Cfr. M. Mellino, C. Pasquinelli, Cultura: introduzione all’antropologia,
Carocci, Roma, 2010, pp. 51-52. 14 Cfr. F. Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale
nelle società multiculturali, Giuffrè, Milano, 2010, p. 15. 15 G. Devoto, G. Oli, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze,
2002, p. 566. 16 Cfr. D. Cuche, La notion de culture dans les sciences sociales, La Découverte,
Paris, 1996, trad. it. a cura di M. Negro, La nozione di cultura nelle scienze sociali,
Il Mulino, Bologna, 2006, p. 123.
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a partire dagli esperimenti di definizione succedutisi nell’ambito
della scienza umana dell’antropologia17.
Infatti, la si deve tenere opportunamente distinta dalla nozione di
cultura sviluppatasi nel linguaggio corrente, la quale va a
ricomprendere tutto ciò che di meglio l’umanità ha elaborato sul
piano dei saperi, delle arti e delle conoscenze.
Si deve anzitutto prendere come punto di riferimento cronologico
una data epocale per la storia dell’Occidente, ovvero il 12 ottobre
1492 perché è con la scoperta dell’America che nasce l’antropologia,
rappresentando tale svolta storica la scoperta dell’Altro.
Con questa svolta storica si rompe il limite ultimo delle colonne
d’Ercole per lasciare spazio ad una visione planetaria: la scoperta
delle popolazioni di questi nuovi territori contribuisce ad ampliare i
confini non solo fisici, ma anche sociali del mondo.
Quello che emerge dai resoconti dei messaggeri del Nuovo Mondo è
infatti un senso di alterità totale, la percezione di trovarsi di fronte a
qualche cosa di sconosciuto, che non rientra in alcuno dei parametri
di riferimento abituali di questi messaggeri.
Si genera così un’intrinseca difficoltà, non solo di descrizione, ma
anche di comunicazione agli altri di un qualcosa di cui non vi era
traccia precedente.
Con la scoperta dell’Altro si apre la strada della riflessione sulla
cultura in tale ambito scientifico: è in particolar modo con la nascita
dell’antropologia culturale che il termine cultura finisce per prevalere
su quello di civilizzazione18.
Edward Taylor nel 1871 dà una definizione sistematica del concetto
di cultura, dalla quale prenderà avvio la ricostruzione succedutasi nei
secoli successivi: “La cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso
etnografico, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le
17 Cfr. F. Basile, op. cit., pp. 17-20. 18 Cfr. M. Mellino, C. Pasquinelli, op. cit., prefazione.
19
credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualunque altra
capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una
società”19.
È interessante sottolineare come compaia, accanto al termine cultura,
ancora quello di civiltà: tuttavia Taylor intende designare due
fenomeni distinti. Egli nella sua opera ricorre al termine “civiltà” per
soffermarsi sullo scenario dell’evoluzione culturale, su quello che è il
processo, appunto, di civilizzazione. Al contrario fa uso della parola
cultura nello spostarsi sugli scenari locali.
Da tale definizione di cultura emergono tre aspetti: la connotazione
collettiva, il rapporto di opposizione con la natura, e la nozione di
“insieme complesso”20.
Per quanto concerne il primo aspetto, “cultura” è una condizione che
riguarda tutti i membri di un gruppo sociale per il solo motivo di
appartenere ascrittivamente a quella data società.
In tale prospettiva si tratta di un modo di essere, dovuto al fatto di
condividere la stessa forma sociale, più che di un dover essere legato
ad una qualsivoglia forma di merito.
Il secondo aspetto scaturisce dal termine “acquisita”: tale scelta
semantica sottolinea come la cultura non sia innata, non faccia parte
del corredo genetico della specie umana, trattandosi bensì di
un’acquisizione che avviene tramite la trasmissione
intergenerazionale.
In tale ottica si può comprendere il rapporto di opposizione che lega
la cultura alla natura.
Se la natura rappresenta l’universalità, e in quanto tale fonda
l’uguaglianza tra gruppi umani sulla base della condivisione di uno
stesso destino biologico, la cultura è invece particolare, esaltando le
19 E.B. Tylor, Primitive Culture. Researches into the Development of Mythology,
Philosophy, Religion, Language, Art and Custom, Murray, London, 1871, p. 7. 20 Cfr. M. Mellino, C. Pasquinelli, op. cit., pp. 57-60.
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differenze fra i vari gruppi sociali sul presupposto di diverse forme di
trasmissione della stessa.
Ultimo elemento degno di analisi è la formula “insieme complesso”
che va a denotare l’essenza di totalità organizzata che Taylor intende
attribuire alla cultura: ciascuno degli elementi citati nella definizione
(“conoscenza, credenze, arte…”) è immanente agli altri e la loro
necessaria coesistenza stabilisce fra essi un rapporto di
interdipendenza dotato di una propria interna stabilità e coerenza.
Nonostante la definizione tayloriana sia stata a lungo un baluardo nel
campo dell’antropologia, essa è stata anche bersaglio di numerose
critiche, fra le quali la più argomentata è quella dell’evoluzionista
Franz Boas21.
È grazie ai suoi studi, che si concentrano sull’incontro della cultura
con i fattori geografici e, soprattutto, con la storia, che dall’assioma
indistinto di cultura si passa all’immagine di una pluralità di culture
che coabitano in un rapporto basato sull’intreccio delle relazioni che
fra esse intercorrono.
Prende così piede l’approccio antropologico del particolarismo
storico che individua come punto focale l’essenza, i tratti peculiari,
che ogni cultura presenta rispetto alle altre, mettendo in luce le
infinite forme che le culture possono assumere rispetto a contesti
geografici e storici diversi; la cultura come insieme omogeneo e
interdipendente per Boas non esiste. Esiste invece una molteplicità di
culture, irriducibili le une alle altre22.
21 Cfr. F. Boas, Race, Language and Culture, Macmillan, New York, 1940, pp.
270-280. 22 Cfr. M. Mellino, C. Pasquinelli, op. cit., p. 71.
21
1.3. La definizione di “cultura” giuridicamente rilevante in
ambito internazionale.
La definizione di cultura giuridicamente rilevante in ambito
internazionale è presente nel Preambolo della Dichiarazione
universale dell’UNESCO sulla diversità culturale (2001)23,
richiamata poi nella Convenzione sulla protezione e la promozione
delle diversità delle espressioni culturali (2005).
Tale Preambolo recita: “La cultura dovrebbe essere considerata come
l’insieme dei distinti aspetti presenti nella società o in un gruppo
sociale quali quelli spirituali, materiali, intellettuali ed emotivi, e che
include sistemi di valori, tradizioni e credenze, insieme all’arte, alla
letteratura e ai vari modi di vita”24.
Quando nella presente trattazione si farà riferimento al concetto di
cultura, o ai suoi corollari, lo si farà avendo riguardo alla suddetta
definizione.
In tale prospettiva si potrebbe affermare che la cultura rappresenti il
genus a cui poter ricondurre la species più delimitata di religione, in
quanto quest’ultima va a ricomprendere tutti quegli aspetti della
cultura che attengono alla sfera spirituale25.
Ma effettivamente il concetto di cultura riesce ad abbracciare anche
la nozione di religione? La religione è “solamente” un’articolazione
del più ampio concetto di cultura?
Può apparire limitativo indicare la religione come una parte del vasto
insieme ascrivibile alla sfera culturale.
23 Cfr. F. Basile, op. cit., pp. 20-21. 24 Per il testo in lingua italiana, si veda www.unesco.it/ document/ documenti/ testi/
dich_diversita.doc. 25 Cfr. I. Ruggiu, Il giudice antropologo. Costituzione e tecniche di composizione
dei conflitti multiculturali, Franco Angeli, Milano, 2012, p. 62.
22
Sarebbe forse più opportuno considerare la religione e la cultura
come due categorie distinte e nel complesso autonome l’una rispetto
all’altra.
Tuttavia, senza entrare ulteriormente nel merito della precisa
ricostruzione del rapporto fra le due nozioni, si può individuare un
punto di contatto.
Entrambe si presentano come convincimento intimo della persona ed
è in questo aspetto che si può trovare un loro minimo comune
denominatore.
In questa prospettiva anche la cultura si presenta come
manifestazione della coscienza del soggetto, di un credo personale.
Una ricostruzione che trova fondamento in questo carattere comune,
seppur muovendo da una distinzione fra cultura e religione, può
rivelarsi utile anche in sede di accertamento26.
Questo minimo comune denominatore potrebbe condurre ad una
possibile nozione penalistica, estendendo per analogia gli aspetti di
rilevanza giuridica della cultura alla sfera della religione.
In sede di accertamento si potrebbe infatti usare come parametro di
riferimento l’effettiva esistenza di tale convincimento radicato nell’io
della persona e la sua riconducibilità ad un gruppo culturale o
religioso di riferimento.
Si potrebbe fondare la rilevanza ordinamentale del condizionamento
culturale e di quello religioso su questo moto interiore e sulla sua
corrispondenza a convinzioni di gruppo che su di esso si fondano.
26 Cfr. A. Massaro, Reati a movente culturale o religioso. Considerazioni in
materia di ignorantia legis e coscienza dell'offesa, in A. Massaro, M. Trapani,
Temi penali, Giappichelli, Torino, 2013, p. 127.
23
1.4. La libertà religiosa: Costituzione, ordinamento europeo ed
ordinamento internazionale.
Nell’affrontare la questione della libertà religiosa si deve sviluppare
un’analisi parallela su due diversi piani, quello dell’ordinamento
interno italiano, con particolare riferimento al dettato costituzionale,
e quello dell’ordinamento dell’UE e internazionale.
Preliminarmente si deve tuttavia inquadrare la libertà religiosa nella
gamma dei diritti e cercare di comprendere il suo contenuto.
Innanzitutto, già dalla fine del diciannovesimo secolo, la libertà
religiosa è stata ricondotta alla sfera dei diritti pubblici soggettivi.
Tali diritti si caratterizzano per essere “connaturali ed assoluti,
intangibili e imprescrittibili”27 e quindi, in quanto tali, azionabili
anche nei confronti dello Stato28.
Esso non potrà più legittimamente ingerirsi in questo ambito come
accadeva fino al diciottesimo secolo, quando, nel ruolo di legislatore,
si imponeva ai cittadini nel campo delle libertà e dei relativi diritti.
Questa concezione si pone quindi in contrasto con l’idea nascente
della disponibilità delle libertà nelle mani del legislatore.
Con l’avvento del terzo millennio il diritto alla libertà religiosa, sia
che la si intenda come libertà individuale, sia come libertà collettiva,
è stato collocato all’interno della categoria dei diritti umani.
Tramite questo inquadramento si può così affermare che la libertà
religiosa, al pari delle altre libertà, si qualifica come “una situazione
giuridica riconosciuta come fondamentale della persona umana e che
neppure lo Stato può comprimere nella sua essenza”29.
27 F. Ruffini, Corso di diritto ecclesiastico italiano. La libertà religiosa come
diritto pubblico subiettivo, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 206. 28 Cfr. E. Casetta, Diritti pubblici soggettivi, in Enciclopedia del diritto, vol. XII,
Giuffrè, Milano 1964, p. 801. 29 Istituto dell’Enciclopedia Italiana, op. cit.
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È con l’aggettivo “fondamentale” che si sottolinea nuovamente la
loro esistenza prima dello Stato e la loro indipendenza dalla legge,
rappresentando anzi un limite alla sua libera produzione30.
Inquadrato l’ambito a cui ricondurre concettualmente la libertà
religiosa, è opportuno tentare di identificare il suo contenuto.
Si possono individuare a tal proposito tre diversi modi di concepire la
libertà religiosa.
Un primo approccio alla tematica è rappresentato dalle tesi teistiche,
per le quali la libertà religiosa discende direttamente dalla volontà
divina.
In tale prospettiva però la libertà religiosa si configura più come un
dovere dei credenti31.
A tale libertà-dovere dei fedeli dovrebbe seguire un pari dovere dello
Stato di garantirne la tutela.
Questa concezione però rischia di finire in contrasto con l’essenza
stessa di tale libertà: la volontà di scongiurare l’ingerenza statuale
potrebbe risultare vanificata da questa impostazione.
A questa tesi si affianca poi la linea di pensiero che immedesima il
potere civile con quello religioso (giurisdizionalismo da un lato e
confessionismo dall’altro).
Alla base di questa impostazione però si colloca la preferenza per
un’opzione religiosa in particolare.
Si finisce per dar vita, in questo caso come nel primo, ad un falso
diritto di libertà religiosa e delle altre ad essa connesse.
Un’ultima prospettiva invece si concentra maggiormente sull’aspetto
filosofico delle scelte religiose.
La libertà di religione sarebbe essenzialmente espressione di scelte
etiche non necessariamente legate alla credenza in Dio, come accade
appunto per il Buddismo.
30 Cfr. P. Consorti, op.cit., pp. 46-48. 31 Cfr. P. Bellini, Libertà e dogma. Autonomia della persona e verità di fede, Il
Mulino, Bologna, 1984, p. 117 e ss.
25
Analizzato il profilo più concettuale della questione, è opportuno
volgere lo sguardo alle norme positive, sia di diritto interno che di
diritto europeo ed internazionale.
La libertà religiosa non è infatti esclusivamente un concetto più o
meno astratto, collocabile sul piano etico o filosofico, ma è
caratterizzato anche da rilevanza giuridica, sia sul piano di diritti che
sul piano dei doveri.
Iniziando dal diritto interno, la nostra attenzione non può non
focalizzarsi sul testo della Costituzione.
In particolar modo si deve guardare all’articolo 19 che, come nella
trama di una ragnatela, si lega ad altre norme costituzionali chiave.
Primi fra tutti l’articolo 2 in materia di diritti inviolabili e l’articolo 3
in tema di uguaglianza di fronte alla legge e di pari dignità sociale;
ma anche gli articoli 7, 8 e 20, di raccordo fra la libertà religiosa
individuale e collettiva.
Questa intelaiatura dimostra come la libertà religiosa sia prevista nel
dettato costituzionale con confini trasversali32 e in forma aperta.
Nell’ottica di studio dei reati religiosamente orientati, è interessante
analizzare il primo comma dell’articolo 19, come norma di
riferimento per la libertà religiosa individuale.
Nel delineare il diritto alla professione religiosa, esso sancisce il
diritto a compiere, nei limiti della legalità, atteggiamenti rilevanti
sotto il profilo giuridico in virtù di scelte spirituali.
È lo stesso dettato costituzionale che prevede la possibilità di
attribuire valore giuridico ad atti compiuti in virtù di un credo
religioso.
Allo stesso tempo, però, questa norma individua un espresso vincolo,
rappresentato dal buon costume.
32 Cfr. P. Consorti, op. cit., p. 73.
26
Nondimeno si deve ritenere che a questo limite si debba aggiungere
quello ordinamentale della legalità, che quindi ne costituirebbe il
confine intrinseco, oltre il quale tale libertà non può esplicarsi.
La libertà religiosa si qualificherebbe in tale prospettiva come una
libertà relativa, in necessario bilanciamento con altri diritti
costituzionalmente garantiti, primo fra tutti il rispetto della legge.
Seppur in questa prospettiva relativa, la Costituzione assegna un
“esplicito ruolo positivo”33 ai diritti religiosi, volto alla loro
salvaguardia, riconoscendone una rilevanza fondamentale per
l’uomo.
È sul presupposto della rilevanza di tale ruolo che anche la Corte
Costituzionale annovera fra i beni costituzionalmente protetti il
sentimento religioso.
La Suprema Corte stabilisce infatti che “il sentimento religioso,
quale vive nell'intimo della coscienza individuale e si estende anche
a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo
della professione di una fede comune, è da considerare tra i beni
costituzionalmente rilevanti, come risulta coordinando gli artt. 2, 8 e
19 Cost., ed è indirettamente confermato anche dal primo comma
dell'art. 3 e dall'art. 20” 34.
Il sentimento religioso, in tale visione, è da intendere come “quel
particolare momento della vita interiore, solitamente caratterizzato
dalla partecipazione attiva e riconosciuta nei confronti di comunità,
che praticano la stessa fede”35.
Passando al versante internazionale ed europeo si deve evidenziare
come anche su tale piano siano state prodotte numerose norme
positive.
33 P. Consorti, I reati culturalmente e religiosamente orientati: un fenomeno di
glocalismo giuridico nella prospettiva di diritto interculturale, in Diritto e
Religioni, n. 2/2017, p. 364. 34 Corte Costituzionale, 08/07/1975, n. 188. 35 R. Coppola, Laicità relativa, in P. Picozza, G. Rivetti, Religione, cultura e
diritto tra globale e locale, Giuffrè, Milano, 2007, p. 105.
27
Primi fra tutti i numerosi atti approvati dalle Nazioni Unite, a partire
dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del 1948, dal
valore meramente programmatico e non propriamente giuridico, e il
Patto nazionale sui diritti civili e politici del 1966, che invece
presenta un carattere giuridicamente vincolante.
Questi documenti internazionali mostrano una letterale concordanza
a livello normativo36, proclamando entrambi al rispettivo articolo 18
il “diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”37,
includendo la libertà di manifestazione, di culto e di jus poenitendi.
In questi atti internazionali sostanzialmente si proclama il divieto di
discriminazione sulla base del fattore religioso.
Inoltre, nell’assicurare la dovuta tutela alla libertà religiosa, se ne
garantisce l’esistenza.
Il diritto internazionale infatti si dimostra tutore delle istanze dei
soggetti titolari e delle istituzioni religiose di appartenenza.
Si offre così anche l’occasione di ridefinire e rafforzare la propria
base giuridica.
Accanto a questi documenti sono da menzionare ulteriori atti di
natura internazionale, quali quelli assunti dall’Osce e le risoluzioni
del Parlamento europeo.
Queste ultime, pur non avendo natura vincolante sotto il profilo
giuridico, dimostrano un impegno volto a garantire la libertà
religiosa e, più in generale, quella di coscienza38.
Volontà che trova un significativo riscontro anche nella CEDU, con
particolare riferimento all’articolo 9. Tale articolo recita: “Ogni
persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione;
tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come
la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo 36 Cfr. A. Papisca, Identità religiosa nelle società multiculturali, in M.V. Nodari (a
cura di), Laicità e libertà religiosa, Rezzara, Vicenza, 2013, p. 51. 37 Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Dichiarazione Universale dei Diritti
dell'Uomo, 10/12/1948. 38 Cfr. P. Consorti, Diritto cit. pp. 60-61.
28
individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante
il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.
La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non
può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite
dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società
democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine,
della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e
della libertà altrui”39.
Allo stesso modo la Carta di Nizza al primo comma dell’articolo 10
sancisce che “ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di
coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare
religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria
religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente,
in pubblico o in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le pratiche
e l'osservanza dei riti”40.
Si può osservare come le garanzie apprestate a livello interno siano
rafforzate in sede europea e internazionale, essendo compresa in
questo ultimo ambito anche l’intensa attività giurisprudenziale
registrata sia da parte della Corte di giustizia dell’Unione Europea,
sia dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, da considerarsi oggi un
vero e proprio parametro di legittimità costituzionale.
Il riconoscimento della libertà religiosa a livello giuridico
internazionale ne rafforza la portata etica sviluppata già sul piano
costituzionale, rendendo le relative norme positive impermeabili
rispetto agli “attacchi” della teoria dell’effettività, in base a cui una
norma ripetutamente disattesa perde questa sua essenza,
indipendentemente dal suo contenuto41.
39 Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà
fondamentali, Roma, 04/11/1950. 40 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, Nizza, 07/12/2000. 41 Cfr. A. Papisca, op.cit., p. 49.
29
In conclusione, si può affermare che il diritto di libertà religiosa
incontra un’ampia copertura positiva sia nell’ordinamento interno, a
partire dalla legge fondamentale, sia in quello europeo e
internazionale.
Ciò rende possibile il superamento di una garanzia meramente
formale tramite l’ancoraggio del dato letterale ad un’ampia attività
giurisprudenziale su entrambi i fronti.
In merito alla tutela religiosa si può affermare un carattere di
effettività positiva che risulta pressoché assente in tema di libertà
culturale.
Si registra l’omissione di qualsivoglia riferimento legislativo con
riferimento ad una libertà culturale42.
1.5. La libertà culturale.
Se è rinvenibile una positivizzazione del diritto di libertà religiosa,
altrettanto non si può affermare con riferimento al diritto di libertà
culturale, in particolare a livello dell’ordinamento italiano.
La ratio di questa distinzione è essenzialmente storica.
Al momento della nascita dei progetti costituzionali, e con l’avvento
della Costituzione, il principale fattore di alterità era identificabile
nella religione.
La libertà di religione era delineata dal dettato costituzionale come
una delle prime libertà negative meritevoli di tutela.
Nonostante la Costituzione italiana, come la maggior parte delle
Costituzioni del globo43, riconosca la libertà di religione come bene
meritevole di tutela, si registra una tendenziale assenza di
codificazione di quelli che sono definibili come diritti culturali.
42 Cfr. P. Consorti, I reati cit., p. 359. 43 Cfr. I. Ruggiu, op.cit., p. 61.
30
Pur essendo tale scelta legislativa riconducibile alle ragioni storiche
poc’anzi illustrate, oggi risulta sempre più discutibile continuare ad
accettare tale impostazione.
La cultura e la religione sono elementi parimenti costitutivi
dell’identità umana.
Risulta allora opinabile la scelta di un diverso trattamento giuridico.
Si insinua in tal modo anche il rischio di situazioni di sostanziale
disparità data dalla stridente divergenza di trattamento costituzionale.
In assenza di un chiaro fondamento costituzionale e legislativo, si è
assistito ad una contraddittorietà, o quantomeno eterogeneità, dei
primi ricorsi all’argomento culturale da parte della giurisprudenza
italiana.
“In taluni casi il diritto penale tende a divenire spada per colpire
taluni comportamenti espressivi dello specifico universo culturale
dell’autore, ponendosi dunque a scudo dei valori della cultura
maggioritaria compromessi dai suddetti comportamenti; mentre in
altri casi, all’opposto, tende a divenire scudo capace di legittimare o
comunque salvaguardare le culture minoritarie coi loro peculiari
comportamenti, assumendo il ruolo di spada, se del caso, per punire
gli atti di intolleranza nei confronti della diversità culturale e delle
sue manifestazioni” 44.
Si possono scorgere nella giurisprudenza italiana sia sentenze
improntate alla massima tolleranza del fattore culturale sia sentenze
che non tengono conto di quest’ultimo.
Sul primo versante si può citare la sentenza della Cassazione che
stabilisce che l’impiego di minori nell’accattonaggio non è da
considerarsi lesivo dell’interesse degli stessi45.
Di segno opposto, sulla stessa questione, è una sentenza del Pretore
di Torino che afferma che “integra l’elemento oggettivo del reato di
44 Cfr. A. Bernardi, L’ondivaga rilevanza penale del fattore culturale, in Politica
del diritto, n.1/2007, pp. 3-48. 45 Cassazione penale, Sez. I, 07/10/1992, n. 11376.
31
cui all’articolo 572 c.p. l’impiego abituale di figli minori
nell’accattonaggio”, da considerarsi come un’“aggressione al bene
della dignità della persona”46.
Se nella Costituzione italiana non si registra una positivizzazione del
diritto di libertà religiosa, nell’ambito del diritto internazionale è,
invece, presente l’espressione “diritti culturali”.
Con tale locuzione il diritto internazionale intende definire quelle
forme simboliche che caratterizzano la vita delle comunità culturali
al punto di influenzare le singole identità personali al loro interno.
Questa scelta del diritto internazionale è stata letta da parte della
dottrina47 secondo un’interpretazione pedagogica: la promozione dei
diritti culturali garantirebbe implicitamente la tolleranza ed il rispetto
per gli altrui diritti individuali e collettivi.
La presa di posizione internazionale innegabilmente diverge
dall’impostazione assunta dalla Costituzione.
La nozione internazionalistica di diritti culturali finisce per includere
al suo interno anche la libertà religiosa.
Questo sembrerebbe confermare l’impostazione antropologica per
cui la religione altro non è che una specificazione del più vasto
concetto di cultura48.
Entrando nel dettaglio normativo, si può notare come non vi sia un
esplicito riferimento alla libertà culturale49 ma vi sia la possibilità di
estrapolarlo dall’insieme di varie norme.
Primo fra tutti il diritto delle minoranze ad una propria vita culturale,
sancito dall’articolo 14 del suddetto Patto internazionale sui diritti
civili e politici, poi successivamente confermato da altri atti quali la
Dichiarazione sulla diversità culturale del Consiglio d’Europa del
46 Pretore di Torino, sent. 4 novembre 1991, in Cassazione penale, 1992, p. 1647. 47 Cfr. A. Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 54 e ss. 48 Cfr. I. Ruggiu, op. cit., p. 62. 49 Cfr. P. Consorti, Conflitti cit., p. 189 e ss.
32
2000 e la Dichiarazione universale sulla diversità culturale
dell’Unesco dell’anno successivo.
Analizzando il testo del suddetto articolo 14 del Patto internazionale
sui diritti civili e politici si può infatti osservare come, attraverso la
proclamazione di garanzie processuali (quali quella “ad essere
informato sollecitamente e in modo circostanziato, in una lingua a lui
comprensibile, della natura e dei motivi dell'accusa a lui rivolta” o
quella “a farsi assistere gratuitamente da un interprete, nel caso egli
non comprenda o non parli la lingua usata in udienza”), sia presente
un tentativo di preservare le identità culturali di eventuali minoranze.
In linea con questa volontà si pone anche la suddetta Dichiarazione
universale sulla diversità culturale dell’Unesco.
Questa, all’articolo 1, recita: “La diversità culturale è, per il genere
umano, necessaria quanto la biodiversità per qualsiasi forma di vita.
In tal senso, essa costituisce il patrimonio comune dell'Umanità e
deve essere riconosciuta e affermata a beneficio delle generazioni
presenti e future”.
In virtù di questo ruolo centrale, l’articolo 4 aggiunge che “la difesa
della diversità culturale è un imperativo etico, inscindibile dal
rispetto della dignità della persona umana. Essa implica l'impegno a
rispettare i diritti dell'uomo e le libertà fondamentali, in particolare i
diritti delle minoranze e dei popoli autoctoni”50.
Parimenti le previsioni della Carta Europea dei diritti dell’Uomo
esprimono la tendenza ad una tutela della libertà culturale.
Non è previsto, anche in questo caso, un richiamo esplicito a tale
libertà.
È tuttavia possibile desumerla, sulla scia della Corte di Strasburgo51,
a partire dall’articolo 8 sulla protezione della vita privata e familiare.
50 Dichiarazione Universale dell'Unesco sulla diversità culturale, Parigi,
02/11/2011. 51 Corte Europea dei diritti dell’Uomo, 18/01/2001, caso Chapman vs the United
Kingdom, n. 27238/95.
33
L’elaborazione giurisprudenziale della Corte dei diritti dell’Uomo ha
infatti esteso la ratio di tale protezione alla tutela della diversità
come bene pubblico.
Nonostante lo spirito garantistico di tali documenti abbia finito per
sovrapporre i diritti culturali ai diritti delle minoranze, grazie alla
giurisprudenza europea, si sono aperte le porte al “superamento della
concettualizzazione del riconoscimento allo scopo di proteggere una
minoranza, a favore della diversità come un più inclusivo, nuovo
valore”.
Progressivamente si perde la connotazione del diritto alla cultura
come protezione di minoranze discriminate.
Tale diritto si afferma invece come “elemento costitutivo
dell’identità personale”52.
In tale prospettiva la libertà culturale diventa estensibile alla totalità
degli individui, compresi quelli appartenenti ad una maggioranza53,
tutelando così il valore stesso della diversità culturale.
Data questa tensione dell’ordinamento internazionale verso la
positivizzazione del diritto di libertà culturale, ci si può interrogare
sulla possibilità di reperire all’interno dell’ordinamento italiano un
dato letterale che, seppur indirettamente, possa essere ricondotto a
tale forma di garanzia.
Un ancoraggio testuale è rinvenibile nel dettato dell’articolo 21 della
Costituzione, emblema del diritto alla libertà di pensiero.
L’articolo 11 della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino
del 1789 definisce tale diritto come “uno dei diritti più preziosi
dell’uomo”, costituendo condizione imprescindibile per la vita in un
regime democratico.
52 I. Ruggiu, op. cit., pp. 84-85. 53 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 18/03/2011, caso Lautsi vs Italy, ric. n.
30814/06.
34
Tale fondamento costituzionale può essere ricercato altresì fra i
primissimi articoli, interpretabili come clausole aperte, quali
l’articolo 2 e l’articolo 3.
L’articolo 2 del dettato costituzionale “riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo”.
Si potrebbe affermare, sulla scorta della suddetta interpretazione
della Corte di Strasburgo, che la libertà culturale si collochi fra
questi, quale elemento fondante l’identità personale.
Sullo stesso piano l’articolo successivo nel sancire il principio di
eguaglianza formale, può essere letto come cardine per impedire
disparità in ragione del fattore culturale.
Tale riferimento testuale promuove la parità formale al fine di inibire
discriminazioni, quali quelle elencate nel periodo seguente.
In questa prospettiva l’articolo 3 della Costituzione è da raccordare a
livello europeo con l’articolo 1 della CEDU, volto ad obbligare al
rispetto dei diritti e delle libertà successivamente elencate.
Ne consegue, complessivamente, un divieto di discriminazione che
tende allo sviluppo di una piena ed effettiva libertà culturale.
Nell’ordinamento italiano, tuttavia, un richiamo esplicito alla libertà
culturale non è presente.
In tal senso non ci è di aiuto neanche il ricorso al minimo comune
denominatore fra religione e cultura.
Si potrebbe interpretare la cultura come convincimento intimo, così
da ricondurla nella prospettiva di tutela della libertà di coscienza.
Questa è da intendersi come tavola di valori a cui poter “uniformare
liberamente la propria vita”54.
Tuttavia, anche la libertà di coscienza non è positivizzata nel testo
costituzionale.
54 G. Dalla Torre, Libertà di coscienza e di religione, in Stato, Chiese e Pluralismo
Confessionale, rivista online, marzo 2008, p. 5.
35
In conclusione, si può ritenere che, legando le maglie del dettato
costituzionale si può estrapolare un diritto di libertà culturale.
Tuttavia, tale soluzione sembra restare claudicante.
Possono la prassi giurisprudenziale e il diritto internazionale
sopperire a così profonde lacune costituzionali? È sufficiente un
richiamo implicito e indiretto per poter affermare l’effettiva garanzia
di uno dei diritti fondamentali nella costruzione identitaria di un
individuo?
1.6. La definizione di reati religiosamente e culturalmente
orientati.
Nel tentativo di definire i reati religiosamente e culturalmente
orientati, si deve premettere che per nessuna delle due espressioni
esiste una definizione legislativa55.
Si deve valutare che cosa accade quando la libertà culturale e quella
religiosa arrivano a oltrepassare il limite invalicabile della legalità.
Nella lettura dell’articolo 19 circa la libertà religiosa si precisa da
subito come la legalità rappresenti il parametro, o meglio, il confine,
oltre il quale questa libertà non può estendersi.
Lo stesso ragionamento può estendersi analogicamente anche a
libertà non positivizzate, quali quella di cultura.
Data l’assenza di un dato legislativo fondante il diritto di libertà
culturale, si potrebbe giungere alla conclusione logica per cui
altrettanto lacunosa dovrebbe essere la nozione di reati culturalmente
orientati.
Non essendo prevista un’esplicita copertura legislativa di tale libertà
potrebbe ritenersi improbabile una qualificazione di reati motivati dal
fattore culturale.
55 Cfr. P. Consorti, I reati cit., pp. 353-365.
36
Se formalmente non esiste una libertà culturale, come possono essere
ipotizzati limiti ad essa?
Tuttavia, invece, si è fatto ricorso maggiormente al concetto di reati
culturalmente orientati, piuttosto che a quello di reati motivati dal
fattore religioso.
Forse proprio la labilità dei confini della libertà culturale favorisce
l’inclusione di numerose fattispecie entro tale categoria di reati.
Si deve allora innanzitutto ricercare una definizione di reati
culturalmente orientati (fra le molte avanzate), per poi tentare di
ricavarne una di reati religiosamente motivati.
Che cosa sono i reati culturalmente motivati?
Con tale formula ci si intende riferire ad un comportamento
considerato reato dall’ordinamento giuridico proprio del gruppo
culturale di maggioranza, ma che, all’interno del diverso gruppo
culturale del soggetto agente, è accettato, approvato, incoraggiato o
addirittura imposto.
Si può osservare come tale fenomeno si fondi sostanzialmente su una
situazione di conflitto.
Si assiste allo scontro fra una norma giuridica, vigente
nell’ordinamento di uno Stato e che incrimina un dato
comportamento tenuto dal soggetto agente, e una
norma culturale, radicata nella cultura di appartenenza dello stesso
soggetto agente.
Quest’ultima, in contrasto con il dispositivo normativo, impone, o
comunque facoltizza, quello stesso comportamento.
Si potrebbe parlare a riguardo di “conflitto improprio di norme”56,
ossia un conflitto fra quella che è una norma giuridica e quella che è
invece una norma extra giuridica.
56 Cfr. F. Basile, op. cit., pp. 41-42.
37
Si tratta di un fatto che sotto il profilo oggettivo si qualifica come
reato a tutti gli effetti, ma che in virtù del profilo soggettivo consegue
un’attenzione specifica.
La questione è molto delicata, toccando profili teorici e tecnici, ma
allo stesso tempo, in ragione della prospettiva soggettiva, anche
profili più prettamente pratici, legati alla quotidianità delle società
multiculturali57.
Osservando l’aspetto più tecnico, si deve innanzitutto tener conto del
principio di territorialità, in virtù del quale lo straniero che giunge in
Italia è soggetto alla legge penale italiana58.
Bisogna domandarsi come possa essere valutata la motivazione
culturale in rapporto a tale principio.
Tendenzialmente il fattore culturale può rilevare sotto tre diversi
profili: come causa di giustificazione, in virtù dell’ignorantia legis e
infine come circostanza, aggravante o attenuante.
Con riferimento alla categoria delle scriminanti è opportuno
chiedersi se la commissione di un illecito in adesione ad una norma
culturale, diffusa nella cultura d’origine dell’imputato, possa
escluderne l’antigiuridicità.
La scriminante ex articolo 51 del codice penale può avere
innanzitutto due nature distinte59.
In primo luogo, potrebbe essere un diritto previsto da una fonte
normativa dell’ordinamento giuridico d’origine del soggetto agente.
Basti pensare, ad esempio, alla poligamia, considerata reato ex
articoli 556, 557 e 558 del codice penale.
In taluni paesi musulmani, è riconosciuto agli uomini la possibilità di
sposare più di una donna.
Un immigrato musulmano che contragga sul suolo italiano un
secondo matrimonio, potrebbe sottrarsi ad una condanna per il delitto
57 Cfr. P. Consorti, Conflitti cit., pp. 195-196. 58 Art. 6 c.p. 59 Cfr. F. Basile, op. cit., p. 370 e ss.
38
di bigamia invocando in funzione scriminante il diritto riconosciuto
nell’ordinamento giuridico d’origine di contrarre un matrimonio
poligamo?
A tale interrogativo è stata data una tendenziale risposta negativa60 e,
pur ammettendone in linea teorica la possibilità, l’appello al fattore
culturale come causa di giustificazione potrà essere praticata solo su
ipotesi assolutamente marginali61.
In secondo luogo, il diritto invocato potrebbe fondarsi sull’elemento
culturale in sé, non regolamentato a livello normativo.
A titolo di esempio citiamo le mutilazioni genitali femminili.
Il nuovo articolo 583 bis c.p. punisce “Chiunque, in assenza di
esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali
femminile”.
Con l’espressione mutilazione genitale femminile, per l’OMS, si
intendono tutte quelle pratiche che comportano la rimozione parziale
o totale degli organi esterni, genitali esterni o altri danni agli organi
genitali femminili, compiute per motivazioni culturali o altre
motivazioni non terapeutiche62.
Questa norma si pone l’intento di proteggere una minoranza culturale
“discriminata due volte”63, per il genere e per la cultura di
appartenenza.
In tal caso la libertà culturale può essere invocata comunque in
funzione scriminante?
In questo caso si tende ad affermare che la situazione si diversifica in
relazione al grado di offensività del reato64.
60 TAR Emilia-Romagna - sede di Bologna, sez. I, 14/12/1994, n. 926; Cassazione
civile, Sez. VI, 28/02/2013, n. 4984. 61 Tribunale Bologna, 12/03/2003, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica,
2004, 775. 62 Si veda http://www.who.int/en/. 63 P. Consorti, Diritto cit., p. 264. 64 Corte d'Appello di Venezia, 23/11/2012, n. 1485.
39
Si distinguono le varie ipotesi di offesa all’interno di una forbice che
va da un livello elevato ad uno scarso.
Il diritto alla propria cultura è destinato a soccombere qualora
comporti l’offesa di beni di elevato rango costituzionale, quali la
vita, l’integrità fisica, l’uguaglianza dei coniugi.
Quando invece la condotta dell’imputato è tale da non
compromettere alcun diritto fondamentale, allora la propria cultura
potrebbe fungere da causa di giustificazione rispetto al fatto tipico
commesso65.
Una seconda variabile dell’incidenza dell’elemento culturale sulla
circostanza di reato è quello dell’ignorantia legis, ossia la possibilità
di non conoscere la norma penale violata.
In tali casi la difesa dell’imputato, nonostante il principio sancito dal
brocardo latino “ignorantia legis non excusat”, consiste nell’aver
ignorato incolpevolmente che il fatto commesso costituisse un reato
nel paese ospitante.
Diversi sono i fattori da cui può dipendere la valutazione
d’inevitabilità dell’ignoranza della norma.
Tra di essi possiamo menzionare il grado di eterogeneità tra cultura
italiana e cultura d’origine, la durata del soggiorno nel paese
d’arrivo, l’esistenza nel paese d’origine di una norma penale dal
contenuto analogo alla norma penale violata, la giovane età, la
conoscenza della lingua e via dicendo66.
Infine, ci si deve chiedere se la diversità culturale possa essere presa
in considerazione dal giudice in sede di commisurazione della pena
ai fini dell’applicazione o meno di alcune circostanze attenuanti67 e
aggravanti68.
65 Cfr. F. Basile, op.cit., p. 378. 66 Corte Costituzionale, 24/03/1988, n. 364. 67 Tribunale Buckeburg, 14/03/2006. 68 Cassazione penale, Sez. I, 21/12/2011, n. 6796.
40
La commissione di reati per motivi ritenuti dall’imputato di
particolare valore morale o sociale (ma magari legislativamente
abietti o futili) non scalfisce l’oggettiva illiceità del reato.
Tuttavia, getta una luce più o meno favorevole sull’autore, ex articoli
61 e 62 del codice penale.
A tal proposito si ritiene che sia la rilevanza positiva che quella
negativa della motivazione culturale debba risultare da una
valutazione condotta alla stregua di parametri oggettivi.
Si dovrebbe così scongiurare il rischio di concedere l’attenuante (o
infliggere l’aggravante) a qualsiasi soggetto che si fosse
autonomamente convinto di essere spinto da una motivazione
apprezzabile e commendevole.
Occorre adesso fare un tentativo di delineazione dei reati
religiosamente motivati.
La tesi per cui la religione possa qualificarsi come una species del
genere cultura ci permettere di ipotizzare un’estensione analogica di
quanto affermato in tema di reati culturalmente orientati.
Inoltre, si deve evidenziare come nel designare il concetto di reati
culturalmente orientati ci si è mossi in assenza di baluardi legislativi,
capaci di fornire una qualsivoglia forma di guida.
Al contrario, la definizione di reati religiosamente orientati potrebbe
essere più nitida, in forza di un’esplicita formulazione del diritto alla
libertà religiosa.
Più chiara è la delineazione dei confini di una libertà, più dovrebbe
risultare agevole individuare il suo valico.
Essendo la libertà religiosa un diritto previsto a livello legislativo,
incontrerà in primo luogo il limite della legalità, ma anche quello del
buon costume, previsto in modo particolare per la libertà di culto.
Questi riferimenti normativi dovrebbero comportare altresì una
notevole agevolazione per l’attività giurisprudenziale.
41
Con riferimento ai reati culturalmente orientati si è rilevato come i
primi casi giurisprudenziali fossero caratterizzati da un’inevitabile
eterogeneità, dovuta proprio all’assenza di cardini legislativi di
riferimento e di precedenti giurisprudenziali a cui guardare69.
Questa eterogeneità, in realtà, si riscontra, come vedremo, anche per
i reati religiosamente orientati.
Inoltre, si deve aggiungere che, nonostante le analogie fra i due
fenomeni, i reati religiosamente orientati non dovrebbero essere
ritenuti reati a sfondo culturale in cui la motivazione è prettamente
legata all’aspetto fideistico.
Tra i due fenomeni sussiste una sovrapposizione, ma solo parziale70.
L’interferenza fra matrice culturale e fattore religioso è oramai un
dato pressoché appurato.
Tuttavia, occorre mettere in risalto come l’elemento culturale, nella
sua maggiore pervasività, eserciti un’influenza implicita sul soggetto.
Al contrario le scelte religiose sono caratterizzate dall’appartenenza
alla sfera della volontarietà del soggetto71.
Volendo rappresentare con un’immagine il rapporto sussistente fra i
reati culturalmente orientati e i reati a sfondo religioso si potrebbe far
riferimento a due circonferenze.
Una di esse è più ampia dell’altra e raffigura i reati culturali; l’altra,
più piccola, rappresenta i reati religiosamente orientati.
Le due circonferenze si intersecano solo parzialmente.
Solo alcuni reati culturalmente motivati sono anche a sfondo
religioso, e viceversa.
I restanti sono reati propriamente culturali e reati propriamente
religiosi.
69 Cfr. I. Ruggiu, op.cit., pp. 64-65. 70 Cfr. P. Consorti, I reati cit., p. 363. 71 Cfr. I. Ruggiu, op. cit., p. 65 e ss.