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PRINCIPI
Patrimonio, persona e nuove tecniche di Governo
L’ottica rimediale si libera sia dalle maglie della produzione
del diritto, sia dalla produzione dell’azione. Autorino ha scelto il
termine rimedio non di sanzione perché dal suo punto di vista il
rimedio ingloba la sanzione. Neanche la sanzione è da intendersi
entro gli angusti confini della sanzione. Nel terreno del diritto di
famiglia e delle persone i margini dell’applicazione della sanzione
negativa sono assai limitati. Basti pensare alle “incursioni” del dirittopenale nel diritto di famiglia laddove la norma deve necessariamente
rivestire carattere sanzionatorio. Gli esempi in questo caso possono
essere svariati per esempio la legge del 2006 sui maltrattamenti in
famiglia o nelle mutilazioni dei genitali. Ma volgendo uno sguardo al
diritto anglosassone un esempio può essere lo Stalking che
recentemente è stato preso in considerazione anche dai giuristi
italiani. Il compito dei comparatisti è quello di garantire gli interessi
delle persone e di offrire un modello spesso cogente di
comportamenti. Basti riflettere nell’evoluzione che hanno avuto gli
istituti della separazione e del divorzio con l’abbandono del concetto
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di colpa e il progressivo trasferirsi dell’antica disciplina delle cause-
effetti.
Nel nostro ordinamento sin dalla riforma del 1975 l’essenziale
gravità dei comportamenti che originano l’addebitabilità della
separazione è tale da ripercuotersi sull’esistenza di una residua
solidarietà familiare. Un caso emblematico è costituito
dall’ordinamento tedesco, dove, nell’attuale dimensione è pressoché
irrilevante il concetto di colpa sostituito quasi per intero dal
principio di autoregolamentazioni della crisi matrimoniale. Anche
quando si consente di sciogliere il matrimonio per l’esistenza di
cause che risiedono nella persona dell’altro coniuge, non è il concetto
di compatibilità che viene in conto bensì quello dell’inesigibilità dellaprosecuzione della convivenza. Caso emblematico l’adulterio. Le
corti tedesche evitano il sillogismo adulterio <-> impossibilità di
proseguire la vita coniugale. Limitano la rottura del vincolo
matrimoniale ad alcuni casi particolarmente gravi quali, quello delle
mogli prostitute oppure il marito che decide di convivere con la
nuova compagna nella casa familiare. Lo stesso si intravede nell’are
del Common Law inglese dove già il Matrimonial Acts del 1937
ammetteva una causa di divorzio che prescindesse dalla colpa.
La prospettiva dell’abbandono dell’elemento sanzionatorio
non può e non deve comportare l’abdicazione da parte
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dell’ordinamento al potere di intervento. La tesi del non intervento
non può trovare accoglimento nel diritto di famiglia. Ormai sono
superate le tesi di un intervento mite o non intervento addirittura
che sarebbero dettate dalla necessità di rispettare la compresenza
delle diversità nell’unità di luogo o di tempo. Il multiculturalismo
non può significare critica attenzione dell’altro ma al contrario deve
tradursi alla ricerca di posizioni condivise che si muovano all’interno
di una gamma di valori e di tutele costituzionali. Vanno in tal senso
le posizioni più recenti della Corte di Cassazione Francese, quando
negano applicazione ad alcune decisioni dei tribunali algerini
sull’ammissibilità del ripudio in nome del principio di eguaglianza e
parità dei coniugi riconoscendo all’ordinamento nazionale di porre vincoli all’introduzione di disposizioni capace di sovvertire il
complesso valoriale garantito a livello costituzionale. Lo stesso vale
in Inghilterra dove si è ribadito il principio di monogamia.
Occorre operare una bipartizione tra i rimedi tipici
dell’ordinamento distinguendo tra volontari e coercitivi. Nel primo
caso il rimedio è determinato dalle parti e, quindi rimesso alla loro
autonomia, ma comunque il diritto non abdica ma poi la natura degli
interessi in gioco fa un passo indietro. Un esempio nel diritto di
famiglia può essere rappresentato nel nostro ordinamento
nell’articolo 145 2c.c. che ammette che i coniugi in disaccordo
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rimettono al giudice delle decisioni come la fissazione della residenza
o determinati affari essenziali. Questo punto è discusso in dottrina,
secondo alcuni l’intervento del giudice è di carattere giurisdizionale e
quindi di ricollegarsi al 316 c.c. in materia di richiesta di intervento
del giudice concernenti la potestà dei genitori. Per l’Autorino è un
atto a valenza negoziale. A prescindere dall’indirizzo al quale si vuole
aderire che nella fattispecie in questione, l’intervento del giudice sia
solo eventuale o comunque dipenda dall’accordo tra coniugi. Così si
comprende che il rimedio in questione abbia natura mista tra
autonomia dei coniugi e intervento del giudice. Una scelta che pare
essere imitata dall’articolo 171 del codice civile svizzero che consente
ai coniugi di rivolgersi alla mediazione del giudice in caso didisaccordo su affari importanti del governo della famiglia.
La scelta italiana che lascia ampia autonomia ai privati si
contrappone ad esempio dell’articolo 70 del codice civile spagnolo
come riformato nel 1981 consente un intervento autoritativo del
giudice in caso di disaccordo sulla scelta della residenza familiare.
Ma questo sembra un caso sporadico rispetto alla scelta effettuata
dagli altri Stati in questa vicenda. Invece i rimedi di tipo coercitivi
sono in realtà di varia natura e rispondono ad interessi tra loro
contrastanti. I rimedi coercitivi seppure più numerosi di quelli
volontari hanno natura sussidiaria, cioè trovano spazio laddove
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l’autonomia privata non trova la possibilità di dirimere situazioni
configgenti all’interno della famiglia e non vi sia concordia in ordine
alle scelte d’assumere. I rimedi coercitivi non possono distaccarsi
dagli altri rimedi tipici. Basti pensare all’articolo 333 c.c. che
autorizza il giudice a prendere dei provvedimenti convenienti.
Questo fa capire che i rimedi nel diritto di famiglia hanno un altro
grado di elasticità, cioè significa che molto spesso il legislatore si
rimette alla sensibilità del giudice e che la scelta del rimedio non è
aprioristicamente determinata dal legislatore ma si preferisce una
soluzione aperta.
È noto che, per quanto riguarda il diritto di famiglia, il modello
italiano ha subito una forte influenza soprattutto dall’ordinamentostatunitense, nel quale la legislazione riconosce fino ai primi anni ’70
i protection orders. In tale processo fondamentale è l’abbandono del
modello colposo e la necessità di provvedere a soluzioni nuove che
consentono al giudice ampia discrezionalità. In questo senso si
spiega la scelta di qualificazione in maniera molto generica il
concetto di family offense o di abuso familiare come nella
legislazione degli Stati di New York e della California. Il diritto degli
Stati Uniti (soprattutto quello Californiano) in materia di diritto di
famiglia se è pur vero che si inquadra in una gamma di ordini di
protezione legislativamente predeterminato hanno un alto grado di
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duttilità e elasticità che consentono al giudice il miglior rimedio per
ogni caso specifico.
Un analogo diritto, simile a quello statunitense, lo troviamo
anche in quello tedesco in cui ritroviamo dei presupposti “mobili”
per l’applicazione della disciplina che troverà spazio non solo nei casi
di azioni violente o di minacce ma anche in presenza di limitazione
delle funzioni esistenziali ossia ogni disturbo alle funzioni fisiche,
spirituali e psicologiche. La disciplina negli ordini di protezione è
quindi chiara espressione della necessità che il diritto entri, in taluni
casi, tra le mura domestiche, riaffermando la tutela del singolo
all’interno del proprio nucleo familiare.
In tutti i principali sistemi giuridici europei, si assiste ad unaprogressiva accettazione das parte della corte di risarcire un membro
della famiglia del danno causato da un altro membro della famiglia.
Si tratta ancora di un cammino in action atteso sia dai sistemi
di Common e Civil Law.
Gli itinerari percorsi dalla giurisprudenza, sono molteplici.
Tanto nell’ordinamento francese che in quello italiano si è ammessa
la cumulabilità dei rimedi prospettata per il divorce aux torts
exclusifs ex art. 256 code civil con il risarcimento dei danni per tutte
le violazioni non connaturate al momento del divorzio ma
conseguente ad esso. L’ordinamento non può riconoscere una sorta
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di immunità ai comparenti della famiglia per gli illeciti da loro
commessi.
Non bisogna confondere il principio di solidarietà con
l’inammissibile avallo di una zona franca nella quale il diritto non
potrebbe entrare. Però è importante ricordare che non sembra che la
mera violazione di un dovere familiare possa dar luogo al
risarcimento in caso di adulterio. Secondo l’Autorino in caso di
adulterio già vi è previsto un rimedio tipico quale la separazione
invece secondo l’autrice il risarcimento del danno dovrebbe essere
pronunciato solo nel caso in cui vi sia violazione di un altro interesse
meritevole di tutela come il diritto all’onore e alla reputazione ovvero
quando il tradimento ingeneri un danno ulteriore di natura biologicao esistenziale.
Concludendo, un aspetto emerge prepotente nel settore del
diritto di famiglia, la sanzione repressiva del comportamento pur
non perdendo tutte le sue funzioni si accompagna sempre un aspetto
restitutivo, di conservazione e del recupero del rapporto di crisi e ciò
vale anche per l’aspetto patrimoniale. In questo settore il profilo
sanzionatorio si mortifica e il decorso in questo campo si collega alla
prevenzione e alla promozione del rimedio.
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I fondamenti costituzionali dell’unione europea
Le norme giuridiche vivono sempre una singolare parabola,
nascono con determinate finalità ma poi possono subire
accelerazioni evolutive improvvise anche per opera della dottrina e
giurisprudenza. Nessuno, infatti, avrebbe mai potuto pensare che
una piccola cellula istituzionale, dall’impatto circoscritto al settore
dell’energia (la CECA) avrebbe generato un processo istituzionale di
cui il Trattato costituzionale è una rilevantissima, sebbene non
definitiva, tappa finale.
La costituzione, in primo luogo abolisce la distinzione tra
Comunità Europea e Unione Europea, attribuendo a quest’ultimapersonalità giuridica. L’Unione Europea, dunque, sarà pleno jure il
soggetto operante sulla scena internazionale. Tutto ciò trova
concretizzazione nell’articolo I-1 che istituisce l’Unione Europea
ispirata alla volontà dei cittadini e degli Stati d’Europa di Costruire
un futuro comune. La formula prescelta per la Costituzione Europea
ad istituire l’unione Europea non è di poco conto, non è più come per
gli attuali trattati le altre parti contraenti.
Il cambiamento non è solo linguistico ma soprattutto
sostanziale. Seppur racchiuso in poche parole vi è riportato il
risultato di una secolare, variegata e contraddittoria tradizione
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costituzionalistica Europea. È il caso di ricordare come il “progetto
europeo” post-bellico nella spinta contrapposta della visione
prospettica degli “Stati Uniti d’Europa” e delle ragioni di Real
politik, finì per privilegiare il modello gradualista e l’angolo di
visuale del processo di integrazione economica.
Nell’evoluzione della CECA al MEC e quindi alla CEE, gli Stati
europei non rinunciarono a dotarsi di un ordinamento giuridico con
caratteristiche analoghe ad uno stato propriamente detto. Un
apporto decisivo a questo processo di formazione è venuto dalla
giurisprudenza comunitaria, che si è incarnata in una serie di norme
tra le quali la superiorità del diritto comunitario nei confronti degli
Stati medesimi e l’applicabilità diretta del diritto comunitario daparte dei giudici statali. Dottrina e giurisprudenza portano alla
ribalta il diritto costituzionale europeo, un diritto condiviso e
applicabile in tutti gli Stati aderenti che vada al di là del diritto
internazionale. È possibile affermare che l’interazione tra il
legislatore europeo, secondo il progresso dei trattati, con il giudice
europeo e con gli autori della Western Legal Tradition ha prodotto
l’humus nel quale il trattato-Costituzione del 2004 ha avuto modo di
svilupparsi.
Un passo verso l’Unione Sostanziale è ormai irreversibilmente
compiuto. La scelta dei valori dell’Unione Europea oggi formalizzati
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nell’Art. I-2 è stata tutt’altro che la disputa su più o meno “norme
manifesto”. L’art. I-2 rappresenta comprensibilmente la difficile
composizione di evoluzione del continente europeo. In quest’ottica il
quesito sull’oggetto della Costituzione si ridimensiona, è evidente che
la costituzione ha optato per un modello di carta fondamentale quale
“progetto integrale”. Di qui l’elencazione né neutra né neutrale dei
“valori dell’Unione” quelli della dignità umana, della libertà, della
democrazia, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani
compresi quelli delle minoranze.
Questi sono valori che accomunano ogni Stato membro, se
dovessimo fare un’ermeneutica al contrario va semmai segnalata
l’assenza delle radici cristiane. Sembra però corretto sostenere che ildiritto, nel suo significato di opera di razionalizzazione
sistematizzante ha fatto la sua parte, allorché si è ritenuto che i valori
di cui alla norma in questione costituiscono il parametro per
misurare il rispetto di valori condivisi da parte degli aderenti. Infatti
l’articolo II-70 consacra espressamente la libertà di religione, e l’art.
II-52 prevede il rispetto dello Status previsto nelle legislazioni
nazionali quanto alle chiese e alle associazioni o comunità religiose
degli stati membri.
Venendo al contenuto positivo dell’art. I-2 dove va a collocarsi
come primo, al vertice la dignità umana. Vuol dire che sotto la
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“cenere” di un processo di integrazione europea nato come processo
di integrazione economica covava il “fuoco” della dignità della
persona umana, oggi valore fondante della neonata Unione Europea.
La rubrica dell’art. I-2 “Valori dell’Unione Europea” induce a
ritenere che tutti i valori della norma partecipino ad un medesimo
disegno costituzionale rappresentata dalla dignità della persona
umana, criterio ordinatore degli altri valori.
A metà strada tra i valori e i principi si collocano gli “Obiettivi
dell’Unione”, che il Trattato individua nella pace e nel benessere dei
suoi popoli. L’Unione si prefigge di offrire ai suoi cittadini uno spazio
di libertà, sicurezza e giustizia nonché un mercato unico nel quale la
concorrenza sia libera e non distorta. Sempre tra gli obiettivi sicolloca il perseguimento di uno sviluppo estensibile, frutto di una
crescita economica equilibrata, di una stabilità dei prezzi, in
un’economia sociale competitiva, di alto livello di tutela ambientale.
Del pari “obiettivi – valori – principi” sono la lotta alle
esclusioni ed alle discriminazioni, il progresso tecnico scientifico, la
giustizia e la promozione sociale, la tutela dei diritti dei minori ed
infine la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà tra
gli Stati membri.
L’attuale “assetto” del capitolo “dei principi e dei valori” è
soltanto l’ultima, ma non definitiva, tappa di un processo iniziato con
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il Trattato di Roma, che ha visto sciogliersi il progresso dei diritti
civili e sociali della “Comunità Europea” e dei suoi cittadini tramite
l’unificazione economica.
Trascorrendo all’esame dei principi intesi strettamente in
senso organizzativo-costituzionale, è bene sottolineare che la
descrizione non si ricava soltanto da una singola disposizione del
Trattato, bensì emerge dal complesso del testo del 2004 a sua volta
erede di una pluriennale tradizione del costituzionalismo europeo. È
il caso del principio di attribuzione, consolidata regola alla cui
stregua l’unione può assumere iniziative entro i limiti delle
competenze ad essa attribuite dai Trattati e più in generale, dalle basi
giuridiche della propria azione.Il riferimento è all’articolo 308 del Trattato CE che ha abilitato
la Comunità Europea ad adottare atti giuridici, pure in assenza di
un’attribuzione specifica, se necessari per il conseguimento di uno
degli scopi prescritti dal trattato. È chiaro che una simile
disposizione ha favorito un esteso judge made in law e che ha
portato addirittura problemi inerenti alla certezza del diritto. Nel
circuito virtuoso delle relazioni tra diritto interno e quello europeo,
nell’ordinamento italiano, a titolo esemplificativo si collocano la
storica sentenza 170/84 della Corte Costituzionale, con il suo assunto
circa l’obbligo del giudice comune di applicare la norma comunitaria
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disapplicando ogni contrastante norma nazionale, anteriore e
necessaria che sia.
E al culmine della segnalata evoluzione, la riformulazione
dell’articolo 117.1 con la legge costituzionale 3/2001. I fattori di
incertezza sia pure in questa nuova impostazione permangono,
principalmente connessi alla sindacabilità da parte della corte
costituzionale degli atti comunitari lesivi di principi costituzionali
fondamentali. Il modo è rilevantissimo e si perviene al termine
dell’iter sin qui assecondato.
1) l’Unione opera nell’ambito delle competenze ad esse attribuite;
2) il catalogo delle competenze è esplicito ma si alimenta, per via
pretorienne, di competenze implicite o indirette;3) il principio di certezza del diritto è posto in discussione
dall’ampliamento descritto e dal concorrente controllo di
costituzionalità interno dei singoli ordinamenti degli Stati
membri, che né può dirsi superato dal Trattato del 2004, né va
ritenuto non operante per il judge made law.
Tutto lascia presagire, in realtà che la “dilatazione” del
principio di attribuzione non subirà rallentamenti e che sarà sempre
più la sola sede europea a garantire della certezza del diritto. Nella
stessa dinamica interpretativa ed esplicativa si inseriscono i principi
di sussidiarietà e di proporzionalità. La Costituzione rende più
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efficace l’applicazione di questi due principi, innestandoli, nel corpo
del meccanismo istituzionale, ed infatti, nel presentare una proposta
la Commissione deve tener conto di questi due principi. Elemento
innovativo è che ciascun Parlamento nazionale potrà esprimere le
proposte, rendendo, se lo ritiene, un parere motivato circa la
violazione del principio di sussidiarietà. Quando almeno un terzo dei
parlamentari nazionali emetta un simile parere, la Commissione è
tenuta a riesaminare la proposta.
Una riflessione conclusiva, sempre per quanto riguarda i
principi, va riservata ai fondamenti democratici dell’Unione
Europea. Non si può sottacere che sulle istituzioni europee ha pesato
spesso l’accusa di deficit democratico. È risaputo che ad una crescitaesponenziale delle prerogative dell’Unione, sempre più penetranti
nella vita dei singoli ordinamenti nazionali non ha fatto riscontro
l’adozione di strumenti istituzionali atti a garantire l’idoneo controllo
democratico delle politiche e delle normative comunitarie. La
Costituzione fornisce una risposta convincente non definitiva alla
segnalata domanda di democrazia.
La partecipazione democratica viene, in concreto, assicurata
dalla fissazione di nuovi obblighi a carico delle istituzioni in tema di
meccanismi di consultazione della società civile, trasparenza, eccesso
di documenti e protezione dei dati di carattere personale. La
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Costituzione, poi, consacra il ruolo delle parti sociali e l’Unione
favorisce relazioni dialogiche con le Chiese e le organizzazioni non
confessionali. Nuova è altresì la previsione di leggi su iniziativa dei
cittadini in numero di almeno un milione, provenienti da un numero
rilevante di Stati membri.
Anche i Parlamentari nazionali rafforzano il proprio ruolo, non
soltanto attraverso l’early warning system (il meccanismo di
allarme preventivo nel rispetto del principio di sussidiarietà) ma
anche attraverso lìincremento della trasparenza dei lavori in sede di
Consiglio. Tuttavia il discorso sulla democrazia è sostanziale. Una
delle grandi tematiche che restano sullo sfondo della Costituzione è il
diritto europeo. Civil Law e Common Law rischiano di restareformule descrittive o magari di ricostruzione storica di fronte allos
viluppo inarrestabile di un nuovo jus commune europeo,
specialmente di rilevanza privatistica.
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Ricerca scientifica, consenso, tutela della persona
La questione delle tecniche di regolamentazione si colora
sempre più di travaglio man mano che si prende atto delle continue,
profonde e inarrestabili innovazioni della scienza e delle relative
tecniche le quali sembrano porre in grave crisi le categorie
dogmatiche elaborate dal diritto civile. Il giurista in approssimazione
al nuovo è per sua natura indotto a tentare di inglobare l’innovazione
nel rassicurante universo delle regole vigenti, garantendo in questo
modo continuità alle stesse. Sembra possibile individuare almeno tre
modelli, tra loro contrapposti.
Il primo modello è quello del Diniego. Il diritto vietaaprioristicamente tutto ciò che non può essere assoluto nelle
categorie vigenti. Il diritto, però si sostiene, non potrebbe imparare
un’etica se etica condivisa non v’è. Può essere promozionale o
espressiva di taluni comportamenti ma non può spingersi ad imporre
un modello giuridico delegittimando gli altri. Ciò nonostante è
possibile individuare delle ipotesi operazionali in cui trova
attuazione questo modello di diritto. Modello nel quale sembra
essere escluso un attivo intervento dell’autonomia privata. Il
paradigma è offerto dalle tecniche di cassazione riproduttiva. Nella
visione comunitaria vi è stato subito il rifiuto da parte del diritto
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della fecondazione assistita che è stato il primo passo verso la ricerca
della clonazione, perché andava contro il principio etico e contro
quello che era la libera combinazione dei geni. È ovvio che quanto
accade a livello comunitario non è altro che il riflesso speculare delle
generiche previsioni nei singoli ordinamenti Statali, tra i quali molti
già conoscevano espliciti divieti. Basti pensare all’articolo 6 della
legge tedesca del 1990, all’articolo 20.2 della legge spagnola del 1988
oppure all0’articolo 3.3 della legge inglese del 1990. Importanza
fondamentale in questa questione va attribuita al protocollo
addizionale alla convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina.
Quest’ultimo documento proibisce in maniera specifica qualsiasi
intervento che abbia lo scopo di creare un essere umanogeneticamente identico ad un altro, vivo o morto.
La Carta europea dei diritti fondamentali (approvata dal
Parlamento Europeo il 14.11.2000 e proclamata ufficialmente dal
Consiglio Europeo di Nizza il 7.12.2000 prevede nel settore dedicato
alla biologia ed alla medicina, accanto al diritto al consenso
informato nonché al divieto di commercializzazione del corpo umano
e delle sue parti, la proibizione alla clonazione riproduttiva e di
pratiche genetiche (Art. 3).
Il secondo modello di diritto è quello del Diritto che attende.
L’accusa che viene certe volte mossa al diritto è quella di dare giudizi
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e di appurare questioni che non comprende appieno. Si afferma che
la necessità di uno spazio che sia svincolato dal diritto, nel quale il
legislatore potrebbe entrare in casi marginali se non addirittura
eccezionali. Emblema di questa seconda prospettiva è la ricerca sulla
clonazione così detta terapeutica.
La Carta di Nizza vieta procedimenti clonativi finalizzati alla
produzione di individui con caratteristiche genetiche identiche e
sottace sugli altri interventi destinati esclusivamente alla ricerca o
all’attuazione di nuove terapie. È il diritto che attende, che lascia
spazi, zone franche dove la scienza è libera di esprimersi. Analoghe
considerazioni possono essere fatte per le esperienze giuridiche
nazionali che seguono la medesima strada. Ne sono autorevoliesempi la legislazione francese ed inglese. In Francia, sin dal 1994 il
legislatore vieta la clonazione riproduttiva, ma si esprime in favore
tanto dell’uso degli embrioni sovranumerari per fini di ricerca
quanto dell’impiego della clonazione per finalità terapeutiche. Allo
stesso modo in Gran Bretagna, nel 2000, si approva il rapporto
Donaldson e si chiude definitivamente la porta alla clonazione di
embrioni umani per scopi scientifici.
Una soluzione di compromesso tra le due opzioni analizzate
potrebbe essere definito dall’ Autonomia amministrativa. Un
esempio in questo senso è offerto dalle tecniche di fecondazione
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assistita e di maternità surrogata. Il diffondersi delle tecnologie
contraccettive e la legislazione sull’interruzione della gravidanza
hanno educato la coscienza sociale all’idea di una sensualità senza
riproduzione, alla cessione di questo binomio. Con l’analisi
comparativa è possibile distinguere, in argomento, tre tipi di indirizzi
di politica legislativa, che segnano e circoscrivono il ruolo
dell’autonomia privata nella vicenda procreativa. Il primo modello si
racchiude nella soluzione adottata negli Stati Uniti: esso riconosce
un vero e proprio right to autonomy in procreative decisions, per di
più ricondotto in ambito costituzionale. Il sistema si caratterizza per
una disciplina “aperta” delle tecniche di fecondazione artificiale
ponendosi in alternativa (o meglio, in antitesi) rispetto a quelloclassico fondato sulla famiglia nucleare, si dovrebbe così riconoscere
ad ogni individuo, senza distinzione di sesso, la più ampia libertà
possibile nell’auto-determinazione delle scelte, anche giuridiche, in
tema di paternità e maternità con compunta attuazione del right of
privacy.
Il secondo indirizzo di politica legislativa costituisce uno
schema “chiuso” incentrato sul ruolo preminente della
configurazione classica del modello familiare. Esso è caratteristico
dell’Europa continentale in particolar modo della Francia dove trova
la sua prima chiara definizione nell’ Avant project de Loi sur les
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sciences de la vie et les droîts de l’homme: Rapport de présentation
del 1989 (cosiddetto Rapport Braibant), in due importanti leggi del
1994: la 94-653 in tema di bioetica e di atti a disposizione del corpo
umano e la numero 94-654 concernenti l’assistenza medica alla
procreazione. La normativa dispone che l’accesso alla procreazione
artificiale sia esclusivamente riservato alle coppie formate da uomo e
donna, entrambi viventi e in età fertile, sposati o che siano in grado
di fornire prova di convivenza da almeno 2 anni. Ai requisiti
essenziali la legge del 1994 aggiunge l’attribuzione all’assistenza
medica in campo procreativo di una finalità esclusiva: quella di
rimediare all’infertilità, il cui carattere patologico sia stato accertato
da uno specialista della materia. Unica eccezione, l’obiettivo dievitare la trasmissione al bambino di una malattia particolarmente
grave.
Nella materia, dunque, l’ordinamento statunitense si presenta
flessibile ed estremamente liberale, mentre quello francese è più
rigido e legato ad un’idea classica del modello familiare e della
procreazione in genere.
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PARTE TERZA: LA FAMIGLIA
Attribuzione del cognome. Profili comparatistici
Il cognome è il principale segno distintivo di una persona e per
questo motivo rientra nella schiera dei diritti costituzionalmente
garantiti.
Tale garanzia costituzionale dovrebbe essere data sia al
cognome della madre che a quello del padre. Ma in mancanza di una
precisa normativa si usa tradizionalmente solo il cognome paterno.
Soccorre tale tradizione la norma n. 237 del Codice Civile che,annoverando tra gli elementi costitutivi del possesso di Stato la
circostanza che “la persona abbia portato il cognome del padre che
essa pretende di avere” avvalora con il tempo l’uso del patronimico.
A livello europeo si sta cercando in maniera pressoché
uniforme qualsiasi discriminazione in campo sessuale e non solo tra
moglie e marito. Fonte ispiratrice di questa nuova tendenza sono la
Convenzione di New York del 18.09.1979, ratificata in Italia con la
legge n. 132/85 sia sul versante europeo attraverso la risoluzione del
Consiglio d’Europa n° 37/78 e le raccomandazioni del Parlamento
europeo n. 1271/95 e n. 1362/98 in cui si afferma che il mantenere di
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previsioni discriminatorie tra uomo e donna riguardo al nome della
famiglia viola il principio di eguaglianza.
In Francia la nuova normativa in vigore dal 01/01/05 consente
ai genitori di attribuire al proprio figlio «sia il cognome paterno che
quello materno, sia i loro due cognomi posti nell’ordine scelto da loro
nel limite di un cognome per ciascuno». In caso di disaccordo, il
figlio assume il cognome del genitore nei cui riguardi la filiazione sia
stata stabilita per prima ed il cognome di entrambi se la filiazione sia
stata stabilita simultaneamente nei loro riguardi.
Qualora i genitori portino un doppio cognome, essi possono,
con dichiarazione scritta congiunta, trasmetterne uno soltanto. In
caso di nascita all’estero di un figlio di cui almeno un genitore siafrancese, i genitori che non abbiano usufruito della facoltà di scelta
del cognome alle condizioni di cui sopra possono effettuare la
dichiarazione al momento della trascrizione dell’atto, entro i tre anni
dalla nascita del figlio.
Il cognome attribuito al primo figlio con le suddette modalità
(ex art. 311-21 code civil) si estende obbligatoriamente a tutti i figli
comuni.
Dal tenore delle predette disposizioni, si evince che, rispetto
alla questione del cognome la completa parificazione tra figli
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legittimi e figli naturali è stata pienamente realizzata almeno per
coloro che siano riconosciuti da entrambi i genitori.
Diversa è, infatti, la situazione in caso di riconoscimento
tardivo da parte di uno dei genitori. Per l’art. 311-22 code civil – nella
sua attuale formulazione (l. 4 marzo 2002, n. 304 e ord. 4 luglio
2005, n. 759) – nel caso in cui «la filiazione al momento della
dichiarazione di nascita sia stabilita nei confronti di un solo
genitore», il bambino prende il cognome di questi soltanto. Tuttavia
se il legame di filiazione viene accertato nei confronti dell’altro
durante la minore età del figlio, i genitori possono chiedere, con
dichiarazione congiunta all’ufficiale di stato civile, di sostituire o di
aggiungere (nell’ordine scelto dai medesimi e nel limite di un solonome ciascuno) il cognome del secondo genitore.
Per i nati prima dell’entrata in vigore delle indicate riforme,
l’art. 334-1 prevedeva che il cambiamento del cognome al figlio
naturale potesse essere richiesto all’ufficiale di stato civile per
domanda congiunta dei genitori, oppure al giudice degli affari
familiari (JAF) su domanda di uno dei due genitori.
Se invece vi è accordo tra i genitori, a garanzia dell’interesse
del minore, l’art. 311-23 code civil prevede attualmente che qualora il
figlio abbia compiuto tredici anni, per il cambiamento del cognome è
sempre necessario il suo consenso.
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Resta ancora applicabile ai figli nati prima dell’entrata in
vigore delle leggi citate, la disposizione dell’art. 334-3 che consentiva
al figlio naturale, entro due anni dal compimento della maggiore età,
di chiedere la sostituzione del cognome di uno dei genitori con quello
dell’altro attribuitogli secondo l’ordine del riconoscimento.
Ciò che desta maggiore interesse è, tuttavia, la disposizione
secondo cui il cambiamento del cognome ha pieno effetto nei
confronti dei figli del beneficiario che abbiano meno di tredici anni.
Diversamente, l’art. 61-3 code civil stabilisce che «per qualsiasi
cambiamento del cognome del minore ultratredicenne, è necessario
il suo consenso qualora tale cambiamento non risulti dalla
statuizione o dal mutamento del rapporto di filiazione». D’altrocanto, però, queste stesse circostanze, non comportano il mutamento
del cognome dei figli maggiori, salvo il loro consenso. Sembrerebbe,
dunque, che il cambiamento del cognome, in seguito ad un’azione di
contestazione di stato, sia automatica, salvo che per i maggiorenni.
Se la filiazione è adottiva, l’art. 363 code civil, nell’attuale
formulazione, per l’adozione semplice conferisce il cognome che
dell’adottante all’adottato, in aggiunta al cognome di quest’ultimo;
nel caso in cui adottante ed adottato, o uno soltanto dei due, abbiano
doppio cognome, il cognome da attribuire all’adottato risulta
dall’aggiunta del nome dell’adottante al suo proprio cognome,nei
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limiti di un solo cognome per ciascuno dei due. La scelta appartiene
all’adottante, che tuttavia dovrà ottenere il consenso dell’adottato
qualora questi abbia compiuto i tredici anni; in caso di disaccordo o
in mancanza di scelta, il primo cognome dell’adottante si aggiunge al
primo cognome dell’adottato.
Se adottano entrambi i coniugi, per l’art. 363 code civil , il
cognome da aggiungere a quello dell’adottato può essere sia quello
del marito che quello della moglie, nel limite di un cognome soltanto;
in difetto di accordo prevale il primo cognome del marito.
Il ritorno alla tradizionale prevalenza del patronimico si
giustifica, per i redattori della riforma, nell’esigenza di certezza delle
situazioni giuridiche e di stabilità del nome.La disciplina più recente abroga altresì l’art. 334-5, introdotto
dalla legge del 2002: la norma rendeva possibile attribuire il
cognome del marito al figlio nato da un precedente matrimonio –
ovviamente, con persona diversa – sciolto o annullato. Una simile
disposizione è apparsa pregiudizievole sia per il rischio di un
successivo, ulteriore divorzio; sia per il timore di agevolare pratiche
illecite di sostituzione della maternità.
Infine, per il coniuge il cui cognome non è stato scelto come
nom de famille, il legislatore francese predispone une petite
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solution: egli potrà aggiungere o anteporre al proprio il cognome
dell’altro, ma solamente à titre d’usage.
In Germania, già dalla EhereformG del 1976, il § 1355 BGB
imponeva ai coniugi di scegliere tra i loro cognomi – indicandolo al
momento della celebrazione all’ufficiale di stato civile – quello
destinato ad essere il nome familiare comune. In mancanza di
accordo, era prevista la prevalenza del cognome paterno per i figli
comuni, mentre ai coniugi veniva lasciata la possibilità di aggiungere
o di posporre al cognome comune quello proprio di nascita.
In Spagna, l’art. 109 c.c., nella sua attuale formulazione,
stabilisce che i genitori possono decidere, di comune accordo,
l’ordine dei cognomi dei figli (tra i rispettivi primi cognomi) inassoluta equiparazione dei sessi. In mancanza di esercizio di tale
opzione si applica la disciplina della legge generale.
L’articolo 108 del Código Civil pone, inoltre, l’equiparazione a
tutti gli effetti della «filiazione matrimoniale» alla filiazione fuori dal
matrimonio e all’adozione.
Infine relativamente all’area di Common Law, in Gran
Bretagna, vige la regola dell’attribuzione di un solo cognome scelto
fra quello materno e paterno. Tuttavia, in generale, nei Paesi
Anglosassoni, il problema della scelta del cognome viene affrontato
con estrema elasticità sia in sede giudiziale che in sede
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amministrativa ed è riconosciuta un’ampia libertà a ciascun
individuo di modificare il proprio cognome, una volta raggiunta la
maggiore età, purché non si rechi pregiudizio a terzi.
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Forma, autonomia privata e negozio giuridico
L’approccio all’art. 1350 c.c. può avvenire almeno in due modi
distinti. Da un lato, infatti, non si può ignorare che la disposizione
apre e, in un certo senso “segna” la sezione IV del capo II del titolo
III, “Dei contratti in generale”, dedicata alla forma del contratto. In
altre parole, è difficile sottrarsi alla tentazione, che, in realtà,
corrisponde ad un percorso obbligato, di ricollegare l’esegesi della
norma a ciò che è “dietro” di essa, sul piano della visione storica dello
strumento contrattuale, del dibattito dottrinale sulla “forma della
manifestazione di volontà” e, in ultima analisi, sul ruolo stesso
dell’autonomia privata in sé considerata. Apertis verbis, si tratta di prendere in considerazione la
disciplina degli “atti che devono farsi per iscritto”, avendo, altresì,
l’attenzione rivolta ai quesiti di fondo sulla forma del contratto, sulla
natura della norma, sulla sua portata e sull’eventuale sua estensione
a fattispecie “affini”.
Sotto questo profilo occorre muovere dalla valenza sistematica
dell’art. 1350 all’interno dell’elaborazione più risalente e complessiva
sul c.d. principio di libertà della forma.
Dal punto di vista storico il termine “forma” ha assunto via via
significati diversi.
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È appena il caso di ricordare che gli ordinamenti più risalenti
erano contraddistinti da un accentuato formalismo, laddove la
formula veniva a coincidere con l’elevazione del factum al rango del
giuridico e, di poi, garantiva la realizzazione degli effetti stabiliti per
legge. al rango del giuridico e, di poi, garantiva la realizzazione degli
effetti stabiliti per legge.
È soltanto con la Pandettistica che si consumò il “divorzio” tra
la forma e la volontà, nel senso che la prima venne relegata al ruolo
di veicolo della seconda, vero elemento fondante della teorica del
negozio giuridico.
D’altro canto, è sempre alla Scuola delle Pandette e nel
medesimo clima culturale, prima ancora che giuridico, che si devel’atteggiamento di diffidenza verso l’elemento formale, considerato in
termini strumentali rispetto alla voluntas e, pertanto, da guardare
con sospetto tutte le volte che il legislatore oppure gli altri formanti
del diritto vi attribuissero uno spazio eccessivo o di limitazione della
volontà. Per questa strada, il legame tra la c.d. teoria volontaristica
del negozio giuridico ed una dimensione quasi “ancillare” della
forma puà dirsi saldato; ma l’aver strettamente legato i destini di
forma e volontà determina il successivo ripensamento dell’elemento
formale in coincidenza con la crisi del principio, se è lecito dire, sola
voluntas obligat.
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Nella prospettiva volontaristica ritorna la concezione
funzionale dello “strumento-forma”, mentre la volontà, espressione
della signoria dell’individuo dotato di auto-nomia, è le gibus soluta
anche in ordine alla scelta della modalità considerata più idonea a
manifestarsi all’esterno.
Per la teoria dichiarazionista, invece, l’intimo valore diventa
produttivo di effetti giuridici soltanto divenendo “dichiarazione”,
cioè volontà che si manifesta e “si dirige” ad extra; non esiste,
secondo tale logica, un contenuto disgiunto da una forma, laddove la
seconda non può mai mancare, potendo, al più, differentemente
atteggiarsi in relazione alle opzioni che le parti e, in primis, la legge
compiono sull’efficienza del requisito formale richiesto.Nella “Relazione al codice civile” si legge espressamente che
con riguardo «all’argomento della categoria degli atti soggetti a
trascrizione, è stato accresciuto il numero di quelli soggetti alla
solennità della forma scritta» e che «[…] vi è parallelismo, riguardo
ai contratti, tra l’art. 2643 e l’art. 1350».
In altre parole, emerge una visione principalmente
“funzionale” dell’elemento formale, non nel solo senso, innanzi
segnalato, della forma come “strumento” di emersione della volontà,
bensì in una dimensione tecnica, nella quale la scelta del legislatore
del più o meno accentuato rigore formale risponde ad uno “scopo”
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pratico, piuttosto che ad un’opzione di base in tema di prerogative
dei privati.
Per oltre un trentennio l’argomento in oggetto è parso vivere di
certezze consolidate, quasi “intercluso”, se è lecito dire, nei
confiniPer oltre un trentennio l’argomento in oggetto è parso vivere
di certezze consolidate, quasi “intercluso”, se è lecito dire, nei confini
del dogma della forma libera e dell’intervento eccezionale
dell’ordinamento, sia con le previsioni codicistiche, sia tramite le
ipotesi (spesso incoerenti) dettate dal legislatore speciale.
La forma, dunque, non è un requisito in sé indispensabile; al
contrario, essa è, sul piano extragiuridico, una necessità “logica”
dell’esprimersie; al contrario, essa è, sul piano extragiuridico, unanecessità “logica” dell’esprimersi, mentre assurge al rango del diritto
soltanto se prescritta in maniera vincolata.
Ma, in questo caso – il n. 4 dell’art. 1325 – la relativa norma
non esprime un principio generale, anzi, «il principio di libertà delle
forme esprime soltanto l’assenza di una norma, e serve a designare le
fattispecie o “strutture deboli”», non a fissare uno schema generale
di “regola-eccezione”.
Nello stesso alveo di lettura “di fondo” della tematica in
oggetto si colloca la posizione di chi accosta, non senza critiche, la
riflessione sulla demolizione della libertà della forma a quella su le
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droit sans l’etat; ciò nel senso che il rifiuto dell’alternativa “regola-
eccezione” in materia di forma e l’esaltazione del mero momento
strutturale nella ricostruzione sistematica della previsione dell’art.
1325, n. 4, corrispondono all’idea di “perdita di centro”, cioè di un
diritto che ricerca sempre di più in sé la giuridicità, abbandonando il
postulato 4, corrispondono all’idea di “perdita di centro”, cioè di un
diritto che ricerca sempre di più in sé la giuridicità, abbandonando il
postulato della necessaria «associazione di idee tra “diritto” e
“ordinamento giuridico dello Stato”».
Ma è sotto il profilo degli interessi in gioco che si registrano gli
esiti più significativi in ordine alla disputa sulla forma e sulla sua
pretesa libertà.Ciò si evince a partire dal ripensamento della derogabilità e
inderogabilità delle norme.
Infatti, la vexata quaestio sulla forma imposta come regola o
eccezione è alimentata anche dall’aspetto pratico-applicativo della
portata da attribuire alle disposizioni in tema di procura legale, della
loro derogabilità, della possibilità di estenderle in via analogica.
Ecco perché v’è chi correttamente prende le mosse dall’aggiramento
dell’altro (e consolidato) idolum, secondo cui le norme sulla forma
sono necessariamente di ordine pubblico e di natura inderogabile.
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Se la stessa derogabilità o inderogabilità è soltanto una
tecnica legislativa, che «non risponde ad esigenze e a simmetrie
dommatiche ma a scelte di politica legislativa in coerenza con le
esigenze e gli interessi protetti nelle singole fattispecie, il problema
esce fortemente ridimensionato nella sua ipotetica valenza
“sistematica”.
Il primo risultato di una siffatta impostazione è il passaggio
“dal formalismo ai formalismi”; ogni disposizione in materia di
forma ha una sua logica propria, risponde a finalità differenti e,
spesso, sul piano strutturale esprime una stratificazione di diverse
legislazioni frutto di varie epoche storiche.
Il secondo è che il fenomeno della derogabilità-inderogabilitànon è sempre uguale a se stesso, bensì va visto secondo graduazioni
ed intensità molteplici, alla stregua dei più disparati fondamenti: ora
vi è l’inderogabilità “espressa”, di solito contrassegnata dal marchio
sanzionatorio della nullità: ora, invece, grava sull’interprete, in
relazione al dato testuale ed al contesto ove è collocata la norma,
esprimere il carattere di inderogabilità.
No è credibile che la difesa dell’inderogabilità, id est della
tassatività, preclusiva dell’applicazione analogica delle relative
disposizioni, nasconda una prospettiva lato sensu ideologica
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dell’autonomia privata,non sufficientemente permeata dai valori
costituzionalmente rilevanti.
In altre parole, l’intero dibattito pare segnato dalla visione
della forma quale “lacciuolo” dell’autonomia, quest’ultima ancora in
prevalenza coincidente con lo spazio – possibilmente ampio ed in
suscettibile di regolazione – nel quale i privati disciplinano i propri
interessi, non condizionati da ciò che interest rei.
Viceversa, il programma costituzionale dell’autonomia privata,
a mente dell’art. 41, commi 2° e 3° Cost., non postula alcuna
«assoluta libertà delle forme negoziali», si tratterà di appurare, case
by case, gli interessi sui quali si fondano le prescrizioni formali,
senza cedimenti né a simpatie verso forme legali emanazione di unapotestà “selettiva” statualistica, né a crociate antiformalistiche,
pronte a bollare ogni regola di forma come mero rigorismo.
Così vi saranno le forme legali poste a presidio diretto di valori
costituzionalmente rilevanti, in suscettibili di deroga e la cui
violazione comporta automaticamente nullità.
In altre ipotesi, pur postulata l’inderogabilità delle norme sulla
forma, non è detto che ne discenda la nullità dell’atto: in queste
prospettive va ripensato il ruolo dell’art. 1423 c.c., che mentre
afferma il principio – questa volta sì – dell’inammissibilità della
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convalida del negozio nullo, lascia aperta la strada dell’intervento
legislativo («se la legge non dispone diversamente»).
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Responsabilità civile e dovere di mitigare il danno
In generale, la norma giuridica e la stessa sanzione
contengono, o dovrebbero contenere, in re ipsa questa
predisposizione di disincentivo, costituita dalla minaccia di
conseguenze negative – che possono incidere sul patrimonio, ma
anche sulla persona – in caso di violazione del precetto.
In un organismo complesso e flessibile come quello della
responsabilità civile, abituato a profondi mutamenti di prospettiva
nel tempo, tuttavia, il paradigma degli incentivi/disincentivi non è
immutabile e segue anch’esso una sua parabola o addirittura più
parabole.Le due funzioni incentivanti per eccellenza della responsabilità
civile, sanzionatoria e preventiva, attraversano, da tempo, una
profonda crisi.
In tale prospettiva, la minaccia dell’obbligazione risarcitorio
dovrebbe indurre l’autore di condotte potenzialmente dannose ad
astenervisi oppure a realizzare le massime misure di sicurezza atte ad
evitare incidenti, internalizzandone, in questo modo, i costi. In
realtà, l’impossibilità di controllare capillarmente le fonti dei rischi e
la difficoltà di accollare esattamente il prezzo per le conseguenze
dannose agli effettivi responsabili finisce per agevolare la diffusione
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di comportamenti dannosi, segnando un’insufficienza della finalità
preventiva.
Così, mentre in Europa si moltiplicano nuove tipologie di
danni risarcibili e di diritti ed interessi da proteggere con la
responsabilità civile, negli Stati Uniti si discorre di damage lotteries
e spinte di overdeterrence ed overcompensation, che
compromettono il funzionamento equilibrato della regola dei torts.
Questi fenomeni indicano che i “nuovi” danni finiscono sovente per
essere liquidati abdicando a qualsiasi compito di prevenzione e
trascurando il profilo dell’autoresponsabilità della vittima, a volte in
modo arbitrariamente penalizzante per il responsabile.
Tali derive creano precedenti giurisdizionali, rischiando, inconcreto, di condizionare negativamente l’impianto della
responsabilità civile.
Una delle possibili direzioni di indagine potrebbe riguardare il
dovere di mitigare il danno da parte della vittima, con particolare
riferimento alla responsabilità extracontrattuale. In questo senso, un
originale effetto preventivo, non del tutto sondato, si gioca sul
territorio del trattamento giuridico dei comportamenti della vittima
diretti a evitare o diminuire il pregiudizio.
Il dovere di mitigare il danno (Duty to mitigate demages –
Obgliegenheit zur Schadensminderung) consiste, infatti, nel
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considerare giuridicamente tenuta la vittima a mettere in atto tutti i
comportamenti utili, nei limiti dell’ordinaria diligenza, per attutire il
danno. L’eventuale passività od inerzia rilevano ai fini di
un’eventuale esclusione o decurtazione, in parte qua, del
risarcimento del danno, mentre le spese, affrontate per adempiere
all’obbligo suddetto, dovrebbero essere pienamente ristorate da
parte del danneggiante.
Nella recezione italiana del principio si possono segnalare
essenzialmente tre diversi approcci.
Originariamente – nei primi decenni successivi all’entrata in
vigore del codice civile – il problema del dovere di mitigare il danno
era pressoché ignorato- Si discuteva invece circa il dovere di nonaggravare il danno già avvenuto – c.d. obbligo di non aggravare il
danno – che è cosa ben distinta, in quanto si richiede che la vittima si
limiti a tenere un comportamento passivo, di non compromissione.
Nel sistema della responsabilità civile, la norma positiva, cui la
funzione descritta è stata progressivamente ricondotta, è l’art. 1227,
2° co., c.c., richiamato in materia di responsabilità extracontrattuale
dall’art. 2056 c.c.. Sulla scorta di tale disposizione “il risarcimento
non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare
usando l’ordinaria diligenza”. Nulla naturalmente si rinviene nella
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lettera della norma sull’eventuale rifusione al danneggiato delle
spese eventualmente anticipate per temperare il danno.
La norma, a ben vedere, è formulata in chiave negativa (“il
risarcimento non è dovuto”), trattando di danni che la vittima
“avrebbe potuto evitare” e non di danno già subito che debba
preoccuparsi di attenuare, non considerando alcuna cesura tra una
fase anteriore al danno ed una posteriore e, soprattutto, trattando di
un danno integralmente da evitare.
Per questo motivo, il comma in questione è stato naturalmente
trattato come una species del genus “concorso di colpa”, previsto
invece, dal primo comma dell’art. 1227 c.c., riguardante il fatto
concorrente della vittima, talmente grave da tradursi in unamonopolizzazione del nesso causale in capo a quest’ultima. Perché si
potesse configurare una violazione dell’obbligo in discorso occorreva
dimostrare che la vittima era intervenuta nella sequenza causale,
aggravando il danno con un suo comportamento gravemente
colposo.
La conseguenza estrema di questa lettura era quella
dell’esclusione in toto del risarcimento, a patto che tale
aggravamento fosse stato debitamente provato dal convenuto con
apposita eccezione in senso stretto, non proponibile per la prima
volta in appello.
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Il principio vero e proprio, della mitigazione, invece, era
relegato tradizionalmente al settore assicurativo, dove prende le
sembianze degli obblighi di avviso e di salvataggio di cui agli artt.
1913-1915 c.c.. Annoverabile tra i correttivi degli effetti di
“deresponsabilizzazione” tipici dello strumento assicurativo,
l’obbligo di salvataggio vincola il danneggiato, nel quadro di un più
generale dovere di correttezza contrattuale, a fare quanto
ragionevolmente possibile per evitare e minimizzare il danno di cui
dovrà rispondere l’assicuratore.
Una delle più recenti tesi della dottrina italiana postula che,
una volta verificatosi il danno, si potrebbe definitivamente archiviare
il problema della causalità e della colpa di cui all’art. 1227, 1° co., c.c.,giocando interamente la questione del duty to mitigate sul terreno
dell’art. 1227 capoverso. Quest’ultima norma, espressione di un
principio di equità, prefigura sostanzialmente la necessità di operare
una selezione, interna alle conseguenze casualmente riconducibili
alla condotta del danneggiante e perciò risarcibili, tra quelle che
siano risarcibili in quanto inevitabili e quelle che non lo siano, in
quanto avrebbero potuto essere elise e neutralizzate dal danneggiato
mediante il contegno di attiva e fattiva salvaguardia. Ma, a parte la
contraddictio in terminis che potrebbe essere giustificabile in
termini di coordinamento sistematico con la previsione – ormai
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assurta a vera e propria clausola generale – del anno ingiusto di cui
all’art. 2043 c.c., una rilettura basata sulla esclusiva rilevanza del
comportamento della vittima post dannum non sembra, alla prova
dei fatti, apportare sostanziali trasformazioni in chiave propositiva
all’originaria funzione del non aggravamento del danno.
La scarsa attenzione al principio della mitigazione del danno,
soprattutto in chiave di obbligo positivo a carico della vittima e sue
conseguenze patrimoniali, sembra avere radici ben precise. La regola
della riparazione integrale ha posto, infatti, in primo piano la
preoccupazione di accollare la responsabilità per il danno all’autore
dell’illecito (favor creditoris), concentrandosi innanzitutto sul
problema della sanzionabilità della sua colpa, nel tempo divenuta, inmolti casi, sostanzialmente presunta.
Il nuovo principio veicolabile nel corpus della responsabilità
civile potrebbe consistere, insomma, nella mitigazione del danno,
quale limite al concetto di riparazione integrale.
L’obbligo di attenuare i danni trae la sua più profonda
ispirazione da considerazioni di carattere economico, ampiamente
recepite dai sistemi giuridici anglosassoni, sotto il profilo
dell’interesse generale ad incentivare comportamenti importanti a
criteri di diligenza.
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È qui che la figura del duty to mitigate damages or losses ha
ricevuto anche le sue applicazioni più avanzate, dovute senza dubbio
anche ad una casistica di giurisprudenza commerciale ed industriale
molto sviluppata e complessa, meno frenata da talune elaborazioni
concettuali presenti negli ordinamenti di civil law.
Anche nel common law possono evidenziarsi due fasi
temporali nell’evoluzione del duty to mitigate. Nella prima fase, di
emersione della nuova figura, l’accento è posto sul disincentivo verso
atteggiamenti di passività della vittima, soprattutto in contesti
commerciali, dove l’interesse è quello all’efficienza degli scambi. Uno
dei primi interventi in tal senso, è riscontrabile nel XIX secolo,
quando la regola del duty to mitigate damages è enunciata nellasentenza Staniford v. Lyall (1830), mentre la sua recezione in un
testo di legge si deve al Sale of Goods Act del 1979 in materia di
vendite di beni mobili.
Negli Stati Uniti, il principio del duty to mitigate origina dal
Case Law. Se da un lato il danneggiante può eccepire che la parte
danneggiata non ha sofferto integralmente i danni per cui chiede il
risarcimento, parallelamente è pacifico che essa non debba essere
risarcita per quei danni che avrebbe potuto non soffrire (avoidable
consequences), esercitando il reasonable care per ridurre le
conseguenze derivanti dall’illecito. La prova di questo elemento deve
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essere fornita a cura del danneggiante come sua difesa in senso
stretto.
Nel contesto del civil law europeo, il principio esaminato
stenta a trovare quell’autonomia attribuita nel common law,
consolidandone l’applicazione in specifici settori. In Germania il §
254 BGB cpv. sul Mitverschulden, di contenuto sostanzialmente
analogo al nostro art. 1227 c.c., riguarda, in prevalenza, casi di
inadempimento contrattuale e la fictio iuris del dovere di cercarsi
un’occupazione lavorativa – Erwerbsobliegenheit – per arginare i
danni derivanti dalla perdita di una fonte di reddito.
Paradigmatica dei contrasti che suscita l’idea di una recezione
nel civil law del principio in discorso, risulta l’esperienza francese,nella quale, nonostante l’impulso della dottrina, né il code civil né la
giurisprudenza hanno riconosciuto espressamente diritto di
cittadinanza ad un’autonoma obligation de limiter le dammages,
ammettendola a certi fini solo con un’interpretazione estensiva del
concorso di colpa del danneggiato.
La possibilità di limitare la regola della reparation integrale di
cui all’art. 1382 code civil attraverso l’istituto di origine anglosassone
è, di recente, al centro di un intenso dibattito, incontrando ulteriori
critiche ed ostracismi da parte della giurisprudenza. Si ricorda che,
in base alla clausola generale dell’art. 1382 code civil: “Tout fait
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quelconque de l’homme qui cause è altrui un dommage, oblie celui
par la faute duquel il est arrivé è le réparer”.