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DAL
A
PASSANDO PER IL VAFFA… E LA ROTTAMAZIONE
CELODURISMOYES WE CAN
LE PAROLE DELLA POLITICA E L’INTELLIGENZA LINGUISTICA
IRENE PIVETTIALESSIO ROBERTI
© 2012 Alessio Roberti Editore
Titolo dell’operaDal Celodurismo a Yes we can passando per il Vaffa... e la Rottamazione
SottotitoloLe parole della politica e l’intelligenza linguistica
Pubblicata da:Alessio Roberti Editore Srl
Via Lombardia, 298 – Urgnano (BG) Italy
Prima edizione: dicembre 2012
Ristampa 7 6 5 4 3 2 1 2019 2018 2017 2016 2015 2014 2013
ISBN978-88-6552-051-2
EditorMattia Bernardini
Anna Albano
Fotografie in copertinaAlessio Roberti: Fabrizio Zambelli per GLAM Entertainment
www.glamentertainment.itIrene Pivetti: Iwan Palombi
Progetto grafi co e impaginazioneAndrea Mattei | www.zeronovecomunicazione.it
StampaLineagrafi ca, Città di Castello (PG)
Proprietà letteraria riservata.
È vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo.
Prefazione di Clemente Mimun 7
Introduzione 11
1. Il linguaggio di Obama 13
2. Il linguaggio di Bossi e della Lega 53
3. Il linguaggio di Berlusconi e Forza Italia 81
4. Il linguaggio di Grillo e dei rottamatori 105
5. Le parole di Bob Kennedy per i tecnici 119
Appendice: “Su quanto sta accadendo 123
la classe politica ha di che rifl ettere”
Conclusione 129
Postfazione di Alessio Vinci 133
Ringraziamenti 139
Bibliografi a 141
Linea diretta con l’Editore 143
INDICE
A 17 anni e mezzo sono entrato per la prima volta alla Ca-
mera dei deputati. Avevo soggezione perché c’erano gli ono-
revoli, che all’epoca erano considerati quasi irraggiungibili,
alla stregua di fi gure mitologiche, che tutto potevano nel
bene e nel male.
Mi è capitato di vedere negli anni ‘70 personalità che han-
no segnato la nostra storia. Da Luigi Longo circondato dalle
attenzioni di Berlinguer, Bufalini, Natta e tanti altri, ai Moro,
Fanfani, Andreotti, De Mita, Marcora, Piccoli e Forlani. Tra i
socialisti, partito per cui tifavo assieme ai radicali di Marco
Pannella, mi impressionavano Nenni, Mancini e Lombardi.
C’era con loro, qualche volta, uno spilungone, che poi rico-
nobbi in Craxi. Poi c’erano gli eredi del fascismo, che non mi
di CLEMENTE MIMUN
PREFAZIONE
8 PREFAZIONE
piacevano per niente e altre fi gure simpatiche come il mo-
narchico Alfredo Covelli, che aveva sempre uno schiaffone
per tutti. Allora nelle aule, tranne qualche intemperanza di
Pajetta o dei missini, si usava un eloquio educato e ridon-
dante, citazioni latine e greche facevano chic, la cravatta era
obbligatoria, non un optional. Quel che valeva nei discorsi
parlamentari, naturalmente, non era il linguaggio sanguigno
dei comizi. In tutti prevaleva l’attenzione a quel che si diceva,
non a come si comunicava. Il massimo della modernità era
rappresentato dalle interviste radiofoniche (in cui era spe-
cializzato Lello Bersani), e nell’appuntamento con le tribune
politiche, allora imperdibili.
Seguo la politica per ragioni professionali, ma anche per
interesse personale da allora, e devo dire che, pur avendo
vissuto i diversi profondi cambiamenti del costume politico,
anche documentandomi al meglio, leggendo il libro di quella
che fu la più giovane Presidente della Camera della nostra
storia, e Alessio Roberti, ho visto ricollocare al loro posto le
mille caselle delle trasformazioni di questi anni.
Se era ovvio che, parlando di Bossi, Irene avrebbe mostrato
una conoscenza non comune del personaggio e delle sue
scelte, per avvicinare ed emozionare il popolo padano, meno
9PREFAZIONE
scontata era la profondità e la completezza, dello studio de-
gli altri fenomeni italiani, ma non solo. La Pivetti e Roberti
spiegano con dovizia di elementi cosa hanno portato i prota-
gonisti della politica alla evoluzione del linguaggio e alla co-
struzione della fabbrica del consenso. Leggendo di Obama si
comprende che siamo lontani ancora anni luce dalla moder-
nità, nonostante l’utilizzo, secondo me piuttosto ruspante,
di facebook o twitter. Anche in questo campo siamo vittime
di un gap, troppa retorica e troppo piagnisteo. È tornato il
tempo dei valori condivisi e anche dell’orgoglio nazionale.
Bisogna guardare avanti, e noi ancora non ci siamo.
Clemente Mimun
LA POLITICA SI NUTRE DI PAROLE
INTRODUZIONE
Dalla torre d’avorio del politichese all’impatto emotivo
del turpiloquio, dall’uso sapiente della metafora alla for-
za trainante dello slogan perfetto, alcuni politici dimostrano
di conoscere a fondo il potere del linguaggio, manifestando
quella che Alessio Roberti defi nisce “intelligenza linguistica”.
Fortunatamente anche noi cittadini elettori possiamo ac-
quisire questa abilità, diventando noi per primi linguisti-
camente intelligenti e imparando così a distinguere tra i
discorsi dei politici e quelli dei politicanti.
In questo libro cerchiamo di fornire una prospettiva diversa
attraverso cui leggere e ascoltare i messaggi di chi chiede il
nostro voto e, in vista di una nuova competizione elettorale,
acquisire un nuovo strumento di giudizio.
Irene Pivetti e Alessio Roberti
“Four more years, four more years, four more years…”. Anco-
ra quattro anni.
Così l’urlo scandito dalla platea alla Convention Democra-
tica di Charlotte, North Carolina, del settembre 2012 dove
Barack Obama ha accettato formalmente la candidatura alle
ultime elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’America.
E, ancora una volta, ce l’ha fatta. Questa volta con lo slogan
“Forward”. Avanti.
Un messaggio che contiene una pre supposizione linguisti-
ca: abbiamo imboccato la strada giusta, dobbiamo andare
avanti. Oltre alla presupposizione, c’è anche un’ambiguità
positiva: avanti, anche nel senso di progresso e migliora-
mento! (E poco contenuto specifi co, per fare in modo che
chi ascolta carichi lo slogan dei propri signifi cati.)
IL LINGUAGGIO DI OBAMA
CAPITOLO 1
14 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
Linguisticamente assai più debole del leggendario “Yes we
can”, è comunque assertivo e positivo, perciò funziona.
Nel discorso di Charlotte, Obama ha puntato come sempre a
coinvolgere direttamente gli elettori. La sua è una linguistica
di precisione, che mira a rendere protagonista e responsa-
bile del futuro del Paese chi lo ascolta e lo “deve” votare.
Eccone un recentissimo esempio:
Possiamo aiutare le grandi aziende e le piccole impre-
se a raddoppiare le loro esportazioni e, se scegliamo
questa strada, possiamo creare un milione di posti
di lavoro nel manifatturiero nei prossimi quattro anni.
Potete fare in modo che ciò accada. Potete scegliere
questo futuro.”
Obama ha fatto della comunicazione il punto forte del suo
“essere” politico.
Attraverso il linguaggio lavora incessantemente per costruire
un’identità condivisa ed evoca valori e ideali fondamentali
per il popolo americano.
Il debutto pubblico di Barack Obama è stata la Convention
dei Democratici tenutasi a Boston il 27 luglio 2004. Lo storico
15IL LINGUAGGIO DI OBAMA
discorso, che analizziamo in questo capitolo, segna di fatto il
suo ingresso nella scena politica nazionale. Quando sale sul
palco è un semisconosciuto senatore per lo stato dell’Illinois;
il giorno successivo i principali giornali degli USA parlano solo
di lui. L’apparente semplicità e immediatezza dei suoi discorsi
nascondono una raffi nata complessità: Obama (e chi scrive
i suoi discorsi) è dotato di una intelligenza linguistica acuta.
Molte e diverse sono le strategie comunicative applicate dal
futuro presidente degli Stati Uniti, già nel corso di quella prima
importantissima occasione pubblica.
UNO SCRITTORE DEI DISCORSI GIOVANISSIMOBarack Obama non è l’autore materiale dei suoi di-scorsi. La loro stesura è affi data a un team attual-mente diretto dal giovane Jon Favreau (classe 1981). I due si incontrano proprio alla Convention dei De-mocratici tenutasi a Boston il 27 luglio 2004, in occasione della quale Obama pronuncia il discorso che pubblichiamo nelle prossime pagine. Al tempo Favreau scriveva i discorsi per la campagna elettorale presidenziale di John Kerry; aveva 23 anni!
16 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
Nell’analisi che segue abbiamo volutamente mantenuto un
livello di dettaglio “medio”, in modo da agevolare la lettura
e creare un equilibrio tra le parole di Obama e i nostri com-
menti. La consultazione della registrazione video del discor-
so, disponibile su YouTube, vi renderà possibile anche soffer-
marvi su tutti quegli aspetti di comunicazione non verbale
diffi cili da rendere mediante una trascrizione.
Discorso di Barack Obama alla Convention dei Democratici
tenutasi a Boston il 27 luglio 2004.
A nome del grande stato dell’Illinois, crocevia di una
nazione, terra di Lincoln, lasciatemi esprimere la mia
più profonda gratitudine per il privilegio di poter par-
lare a questa Convention.
Stasera è un particolare onore per me, perché, di-
ciamocelo, la mia presenza su questo palco è ab-
bastanza improbabile. Mio padre era uno studente
straniero, nato e cresciuto in un piccolo villaggio del
Kenya. È cresciuto portando le capre al pascolo, è
andato a scuola in una baracca col tetto di lamiera.
Suo padre – mio nonno – era un cuoco, faceva il do-
mestico per gli inglesi.
17IL LINGUAGGIO DI OBAMA
Ma mio nonno aveva grandi sogni per suo fi glio. Attra-
verso il duro lavoro e la perseveranza, mio padre ha
ottenuto una borsa di studio per studiare in un luogo
magico, l’America, che aveva brillato come un faro di
libertà e di opportunità per molti prima di lui.
Durante i suoi studi in questo paese, mio padre incon-
trò mia madre. Lei era nata in una città dall’altra parte
del mondo, in Kansas. Suo padre aveva lavorato sul-
le piattaforme petrolifere e nelle aziende agricole per
buona parte della Grande Depressione. Il giorno dopo
Pearl Harbor mio nonno si arruolò e, agli ordini del
generale Patton, attraversò l’Europa. Nel frattempo,
a casa, mia nonna cresceva la loro fi glia e lavorava in
una catena di montaggio per assemblare bombardieri.
Dopo il confl itto proseguirono gli studi e acquista-
rono una casa grazie alle agevolazioni per i veterani
di guerra. Successivamente si trasferirono a ovest,
spingendosi fi no alle Hawaii, in cerca di opportunità.
E anche loro avevano grandi sogni per la fi glia. Un
sogno comune, nato da due continenti.
I miei genitori non condividevano solo un amore
improbabile, ma anche una fede incrollabile nel-
18 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
le possibilità di questa nazione. Mi hanno dato un
nome africano – Barack, o “beato” – convinti che in
un’America tollerante il nome che porti non costi-
tuisce un ostacolo al successo. Hanno immaginato
– Hanno immaginato per me le migliori scuole del
paese, anche se non erano ricchi, perché in un’Ame-
rica generosa non hai bisogno di essere ricco per
raggiungere il tuo potenziale.
Oggi non sono più tra noi. Eppure so che questa sera
loro mi stanno guardando da lassù con grande or-
goglio.
Loro sono qui – E io sono qui, oggi, grato per l’etero-
geneità delle mie radici, consapevole del fatto che i
sogni dei miei genitori continuano a vivere nelle mie
due preziose fi glie. Sto qui davanti a voi, consape-
vole che la mia storia fa parte di una più grande
storia americana, che ho un debito verso tutti coloro
che sono venuti prima di me, e che, in nessun altro
paese al mondo, la mia storia sarebbe stata anche
soltanto possibile.”
19IL LINGUAGGIO DI OBAMA
On behalf of the great state of Illinois, crossroads of
a nation, Land of Lincoln, let me express my deepest
gratitude for the privilege of addressing this convention.
Tonight is a particular honor for me because, let’s
face it, my presence on this stage is pretty unlikely.
My father was a foreign student, born and raised in a
small village in Kenya. He grew up herding goats, went to
school in a tin-roof shack. His father — my grandfather —
was a cook, a domestic servant to the British.
But my grandfather had larger dreams for his son.
Through hard work and perseverance my father got a
scholarship to study in a magical place, America, that
shone as a beacon of freedom and opportunity to so
many who had come before.
While studying here, my father met my mother. She
was born in a town on the other side of the world, in
Kansas. Her father worked on oil rigs and farms through
most of the Depression. The day after Pearl Harbor my
grandfather signed up for duty; joined Patton’s army,
marched across Europe. Back home, my grandmother
raised a baby and went to work on a bomber assembly
line. After the war, they studied on the G.I. Bill, bought
20 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
a house through F.H.A., and later moved west all the
way to Hawaii in search of opportunity.
And they, too, had big dreams for their daughter. A
common dream, born of two continents.
My parents shared not only an improbable love, they
shared an abiding faith in the possibilities of this
nation. They would give me an African name, Barack, or
“blessed”, believing that in a tolerant America your name
is no barrier to success. They imagined — They imagined
me going to the best schools in the land, even though
they weren’t rich, because in a generous America you
don’t have to be rich to achieve your potential.
They’re both passed away now. And yet, I know that
on this night they look down on me with great pride.
They stand here — And I stand here today, grateful for
the diversity of my heritage, aware that my parents’
dreams live on in my two precious daughters. I stand
here knowing that my story is part of the larger American
story, that I owe a debt to all of those who came before
me, and that, in no other country on earth, is my story
even possible.”
21IL LINGUAGGIO DI OBAMA
Il sogno americano. Prima di questo momento la maggior
parte degli americani non ha mai visto Barack Obama. La
prima cosa che fa il senatore, perciò, è costruire la propria
credibilità. E lo fa volgendo a proprio favore un vissuto che
rende la sua presenza su quel palco “improbabile”. La storia
dei suoi genitori è la quintessenza del sogno americano: una
storia di povertà e immigrazione, ma anche di perseveranza
e di duro lavoro; una storia personale che tuttavia abbrac-
cia più di un secolo di storia americana (con il riferimento,
tutt’altro che casuale, al presidente Lincoln): una storia che
parla di sogni, di opportunità e di libertà.
Ancoraggio. Nella parte iniziale del discorso Obama riesce a
creare una forte connessione – un ancoraggio – tra se stesso
e il sogno americano.
Parole evocative. Senza parlare direttamente di religione, at-
traverso l’uso attento di alcune parole chiave quali “fede in-
crollabile”, “beato”, “tollerante”, Obama introduce anche uno
dei temi chiave per l’elettorato americano. Chi cura la parte
di comunicazione nel suo staff conosce bene il potere delle
parole, così come la loro capacità di evocare immagini e senti-
menti che vanno al di là di ciò che viene esplicitamente detto.
22 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
Uso del tempo. Il futuro presidente si muove fl uidamente tra
passato, presente e futuro. Il passato che evoca è il proprio
e, al tempo stesso, quello di un’intera nazione. Vi sono i non-
ni e i genitori, ma anche tutti coloro che sono venuti prima
di noi. Poi Obama porta l’attenzione al qui e ora, non senza
evocare la continuità temporale che culmina nel futuro, qui
rappresentato dal riferimento alle fi glie.
Questa sera siamo riuniti per affermare la grandezza
della nostra Nazione – e non è per l’altezza dei nostri
grattacieli, o il potere del nostro esercito, o la dimen-
sione della nostra economia.
Il nostro orgoglio si fonda su una premessa molto
semplice, riassunta in una dichiarazione che risale a
più di duecento anni fa:
“Noi riteniamo queste verità di per se stesse evidenti,
che tutti gli uomini sono creati uguali, che essi sono
dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili,
che fra questi diritti vi sono la Vita, la Libertà e la
ricerca della Felicità.”
È questo il vero genio dell’America, una fede – una
fede nei sogni semplici, la persistente fi ducia nei pic-
23IL LINGUAGGIO DI OBAMA
coli miracoli; poter rimboccare le coperte ai nostri fi gli
la sera sapendo che hanno di che mangiare, di che ve-
stire e che sono al sicuro; poter dire ciò che pensiamo,
scrivere ciò che pensiamo, senza il timore di sentir bus-
sare improvvisamente alla porta; poter avere un’idea e
iniziare un’attività in proprio senza dover pagare una
tangente; poter partecipare al processo politico senza
paura di ritorsioni, e sapere che i nostri voti verranno
contati – almeno nella maggior parte dei casi.”
Tonight, we gather to affi rm the greatness of our Nation
— not because of the height of our skyscrapers, or the
power of our military, or the size of our economy.
Our pride is based on a very simple premise, summed
up in a declaration made over two hundred years ago:
“We hold these truths to be self-evident, that all men
are created equal, that they are endowed by their
Creator with certain inalienable rights, that among
these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness.”
That is the true genius of America, a faith — a faith
in simple dreams, an insistence on small miracles;
that we can tuck in our children at night and know
24 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
that they are fed and clothed and safe from harm;
that we can say what we think, write what we think,
without hearing a sudden knock on the door; that we
can have an idea and start our own business without
paying a bribe; that we can participate in the political
process without fear of retribution, and that our votes
will be counted — at least most of the time.”
Il passato come elemento unifi cante. Ancora una volta
troviamo un riferimento al passato come tema trasversale
per l’intero elettorato, che si può riconoscere nei valori della
dichiarazione d’indipendenza: il diritto alla vita, alla libertà e
alla ricerca della felicità. E ancora una volta Obama utilizza
parole chiave intrise di religiosità: “fede” e “miracoli”.
Linguaggio dei sensi. Obama non si limita a menzionare
concetti astratti. Il passaggio successivo del suo discorso è
fondamentale per creare un collegamento diretto tra i valori
menzionati e le esperienze concrete di vita vissuta, in cui
chiunque si possa riconoscere. Per conferire vividezza alla
sua rappresentazione, Obama fa appello ai sensi: crea im-
magini facilmente rappresentabili (rimboccare le coperte ai
25IL LINGUAGGIO DI OBAMA
propri fi gli, avviare un’attività in proprio), parla di esperienze
auditive (dire ciò che si pensa, sentir bussare alla porta) ed
evoca sensazioni (sentirsi al sicuro, avere paura).
Quest’anno, in queste elezioni siamo chiamati a riaf-
fermare i nostri valori e i nostri impegni, a confron-
tarli con una dura realtà per vedere come ci stiamo
rapportando all’eredità dei nostri padri e alla pro-
messa delle generazioni future.
E amici americani, democratici, repubblicani, indi-
pendenti, vi dico stasera: abbiamo altro lavoro da
fare – altro lavoro da fare per gli operai che ho in-
contrato a Galesburg, Illinois, che stanno perdendo
il posto di lavoro nello stabilimento di Maytag che si
trasferisce in Messico, e ora si trovano a dover com-
petere con i propri fi gli per posti dove pagano sette
dollari l’ora; altro lavoro da fare per il padre che ho in-
contrato che stava perdendo il lavoro e soffocando le
lacrime, mentre si domandava dove avrebbe trovato i
4500 dollari al mese per i farmaci di cui ha bisogno
il fi glio, ora che stava per perdere l’assicurazione sa-
nitaria pagata dall’azienda; altro lavoro da fare per la
26 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
giovane donna di East St. Louis, e altre migliaia come
lei, che ha i voti, la determinazione, la volontà, ma
non il denaro per andare al college.
Ora, non fraintendetemi. Le persone che incontro – nei
piccoli centri e nelle grandi città, nelle trattorie e negli uf-
fi ci – non si aspettano che il governo risolva tutti i loro
problemi. Sanno che devono lavorare duro per andare
avanti, e vogliono farlo. Andate nelle contee intorno a
Chicago, e la gente vi dirà che non vogliono che le loro
tasse siano sprecate da un ente per il welfare o dal Pen-
tagono. Andate – Andate in qualsiasi quartiere povero
della città e la gente vi dirà che il governo da solo non
può insegnare ai nostri fi gli a imparare, sanno che spet-
ta ai genitori insegnare, che i bambini non possono ot-
tenere buoni risultati a meno che non facciamo crescere
le loro aspettative, che non spegniamo la televisione e
sradichiamo il pregiudizio secondo il quale un ragazzino
di colore con un libro in mano si sta comportando da
bianco. Loro sanno queste cose.
La gente non si aspetta – La gente non si aspetta che
il governo risolva tutti i problemi. Ma sente, nel più
profondo di sé, che è suffi ciente un piccolo cambia-
27IL LINGUAGGIO DI OBAMA
mento nelle priorità per garantire che ogni bambino
in America sia messo nelle condizioni di giocarsi le
proprie carte nella vita, e che le porte delle opportu-
nità rimangano aperte a tutti.
Sanno che possiamo fare di meglio. E vogliono que-
sta scelta.
In queste elezioni, noi offriamo questa scelta. Il no-
stro partito ha scelto come nostro leader un uomo
che incarna il meglio che questo paese ha da offrire.
E quell’uomo è John Kerry.”
This year, in this election we are called to reaffi rm our
values and our commitments, to hold them against a
hard reality and see how we’re measuring up to the
legacy of our forbearers and the promise of future
generations.
And fellow Americans, Democrats, Republicans, Inde-
pendents, I say to you tonight: We have more work to do
— more work to do for the workers I met in Galesburg,
Illinois, who are losing their union jobs at the Maytag
plant that’s moving to Mexico, and now are having
to compete with their own children for jobs that pay
28 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
seven bucks an hour; more to do for the father that
I met who was losing his job and choking back the
tears, wondering how he would pay 4500 dollars a
month for the drugs his son needs without the health
benefi ts that he counted on; more to do for the young
woman in East St. Louis, and thousands more like
her, who has the grades, has the drive, has the will,
but doesn’t have the money to go to college.
Now, don’t get me wrong. The people I meet — in small
towns and big cities, in diners and offi ce parks — they
don’t expect government to solve all their problems. They
know they have to work hard to get ahead, and they
want to. Go into the collar counties around Chicago, and
people will tell you they don’t want their tax money
wasted, by a welfare agency or by the Pentagon. Go
in — Go into any inner city neighborhood, and folks
will tell you that government alone can’t teach our
kids to learn; they know that parents have to teach,
that children can’t achieve unless we raise their
expectations and turn off the television sets and
eradicate the slander that says a black youth with a
book is acting white. They know those things.
29IL LINGUAGGIO DI OBAMA
People don’t expect — People don’t expect government
to solve all their problems. But they sense, deep in
their bones, that with just a slight change in priorities,
we can make sure that every child in America has a
decent shot at life, and that the doors of opportunity
remain open to all.
They know we can do better. And they want that choice.
In this election, we offer that choice. Our Party has
chosen a man to lead us who embodies the best this
country has to offer. And that man is John Kerry.”
Messaggio universale. Obama non parla a una platea di
democratici, ma all’intera nazione. Democratici, repubblicani
e indipendenti fanno tutti parte del “noi” mediante il quale
Obama costruisce l’universalità del suo messaggio.
Esempi concreti. Obama non parla dei problemi di un Pae-
se, ma dei problemi delle persone. Non parla di disoccupa-
zione, ma delle persone che alla Maytag perderanno il lavo-
ro. Non parla di welfare, ma della tragedia di un padre che
non sa come pagare le medicine di cui ha bisogno suo fi glio.
30 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
Obama prosegue con un tema caldo della sua intelligenza
linguistica.
John Kerry crede nell’America. E sa che non è suf-
fi ciente che ci sia ricchezza solo per alcuni di noi –
perché, a fi anco del nostro famoso individualismo,
c’è un altro ingrediente della saga americana, la
convinzione che siamo tutti connessi come un solo
popolo. Se c’è un bambino a sud di Chicago che non
sa leggere, per me è importante, anche se non è mio
fi glio. Se da qualche parte c’è un anziano che non
riesce a pagarsi le medicine, e che deve scegliere tra
quelle e l’affi tto, questo rende la mia vita più povera,
anche se non è mio nonno. Se c’è una famiglia araba
americana che viene rastrellata senza aver diritto a
un avvocato o a un processo, questo minaccia le mie
libertà civili.
È quella convinzione fondamentale… È quella con-
vinzione fondamentale – io sono il custode di mio
fratello, io sono il custode di mio sorella – che fa fun-
zionare questo Paese. È ciò che ci permette di perse-
guire i nostri sogni individuali e di essere comunque
31IL LINGUAGGIO DI OBAMA
uniti in un’unica famiglia americana.
E pluribus unum: ‘Da molti, uno solo’.”
John Kerry believes in America. And he knows that
it’s not enough for just some of us to prosper — for
alongside our famous individualism, there’s another
ingredient in the American saga, a belief that we’re all
connected as one people. If there is a child on the south
side of Chicago who can’t read, that matters to me, even
if it’s not my child. If there is a senior citizen somewhere
who can’t pay for their prescription drugs, and having to
choose between medicine and the rent, that makes my
life poorer, even if it’s not my grandparent. If there’s an
Arab American family being rounded up without benefi t
of an attorney or due process, that threatens my civil
liberties.
It is that fundamental belief — It is that fundamen-
tal belief: I am my brother’s keeper. I am my sister’s
keeper that makes this country work. It’s what allows
us to pursue our individual dreams and yet still come
together as one American family.
E pluribus unum: ‘Out of many, one’.”
32 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
Unire. Obama mira a unire l’elettorato sotto un’unica ban-
diera e a questo scopo utilizza diverse strategie linguistiche.
In questo caso, in particolare, fa leva sul senso di apparte-
nenza a un’unica nazione. Parla di America e di “saga ame-
ricana”, di individualismo e di connessione. Senza volerci
soffermare sull’evidente richiamo a John Donne (“Nessun
uomo è un’isola / completo in sé stesso; / ogni uomo è un
pezzo del continente, / una parte del tutto.” John Donne, Me-
ditation XVII), che la maggior parte degli americani sapreb-
be cogliere senza bisogno di alcuna spiegazione, ci basterà
notare come Obama elabori il concetto di (cristiana e civile)
fratellanza per trasformarlo in quello di “famiglia”, con tutti i
potenti risvolti affettivi che esso implica.
Adesso, anche mentre stiamo parlando, ci sono co-
loro che si preparano a dividerci – imbonitori, se-
minatori di zizzania che abbracciano la politica del
“tutto va bene”. Ebbene, questa sera io dico loro, non
c’è un’America liberale e un’America conservatrice –
ci sono gli Stati Uniti d’America. Non c’è un’America
nera e un’America bianca e un’America latina e un’A-
merica asiatica – ci sono gli Stati Uniti d’America.
33IL LINGUAGGIO DI OBAMA
Ai saccenti, ai saccenti piace spezzettare il nostro
paese in stati rossi e stati blu; rosso per gli stati re-
pubblicani, blu per gli stati democratici. Ma ho una
novità anche per loro. Noi adoriamo un “Dio mae-
stoso” negli stati blu, e non ci piace che degli agenti
federali mettano il naso nelle nostre biblioteche negli
stati rossi. Abbiamo allenatori di softball negli stati
blu e sì, abbiamo alcuni amici gay negli stati rossi. Ci
sono patrioti che si sono opposti alla guerra in Iraq
e patrioti che hanno sostenuto la guerra in Iraq. Noi
siamo un solo popolo, giuriamo tutti fedeltà alle stelle
e strisce, e tutti difendiamo gli Stati Uniti d’America.
Alla fi ne – Alla fi ne – Alla fi ne, questo è il senso di
queste elezioni. Partecipiamo a una politica di ci-
nismo o partecipiamo a una politica di speranza?
John Kerry ci invita alla speranza. John Edwards ci
invita alla speranza.
Non parlo qui di un cieco ottimismo – l’ignoranza
quasi intenzionale convinta che la disoccupazione
scomparirà, se solo non ci pensiamo, o che la crisi
del sistema sanitario si risolverà da sé, se solo la
ignoriamo. Non è di questo che parlo. Sto parlando
34 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
di qualcosa di più sostanziale. È la speranza degli
schiavi che, seduti attorno al fuoco, cantano canzoni
di libertà; la speranza degli immigrati che partono
per lidi lontani; la speranza di un giovane tenente
della marina che coraggiosamente pattuglia il delta
del Mekong; la speranza del fi glio di un operaio che
osa sfi dare il destino; la speranza di un ragazzo ma-
grolino, con un nome buffo, che crede che l’America
abbia un posto anche per lui.
La speranza - La speranza di fronte alle diffi coltà. La
speranza di fronte alle incertezze. L’audacia della
speranza!”
Now even as we speak, there are those who are
preparing to divide us — the spin masters, the negative
ad peddlers who embrace the politics of “anything
goes”. Well, I say to them tonight, there is not a liberal
America and a conservative America — there is
the United States of America. There is not a Black
America and a White America and Latino America and
Asian America — there’s the United States of America.
35IL LINGUAGGIO DI OBAMA
The pundits, the pundits like to slice-and-dice our
country into red states and blue states; red states
for Republicans, blue states for Democrats. But I’ve got
news for them, too. We worship an “awesome God” in
the blue states, and we don’t like federal agents poking
around in our libraries in the red states. We coach Little
League in the blue states and yes, we’ve got some
gay friends in the red states. There are patriots who
opposed the war in Iraq and there are patriots who
supported the war in Iraq. We are one people, all of
us pledging allegiance to the stars and stripes, all of
us defending the United States of America.
In the end — In the end — In the end, that’s what this
election is about. Do we participate in a politics of
cynicism or do we participate in a politics of hope?
John Kerry calls on us to hope. John Edwards calls on
us to hope.
I’m not talking about blind optimism here — the al-
most willful ignorance that thinks unemployment will
go away if we just don’t think about it, or the health
care crisis will solve itself if we just ignore it. That’s not
what I’m talking about. I’m talking about something
36 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
more substantial. It’s the hope of slaves sitting around
a fi re singing freedom songs; the hope of immigrants
setting out for distant shores; the hope of a young
naval lieutenant bravely patrolling the Mekong Delta;
the hope of a millworker’s son who dares to defy the
odds; the hope of a skinny kid with a funny name who
believes that America has a place for him, too.
Hope — Hope in the face of diffi culty. Hope in the face
of uncertainty. The audacity of hope!”
Contrapposizione. Obama conosce bene la forza coesiva
generata dall’avere un nemico in comune. Per quanto la
contrapposizione noi-loro non sia al centro del suo discorso
politico, in alcune occasioni egli non manca di toccare an-
che questo tasto. In questo caso, “loro” non sono i repub-
blicani (ai quali, ricorderete, Obama tende fraternamente la
mano), ma dei non meglio specifi cati saccenti, imbonitori e
seminatori di zizzania. Il loro peccato non è quello di avere
una diversa opinione, bensì quello – ben più grave all’inter-
no della cornice di fratellanza creata da Obama – di voler
dividere l’America.
37IL LINGUAGGIO DI OBAMA
Ancoraggio negativo. Dopo aver costruito questa immagine
negativa fatta di cattive intenzioni e resa mediante scelte les-
sicali adatte a descrivere un avversario vile e meschino, Oba-
ma crea un’associazione tra i non meglio identifi cati “loro” e
un certo modo di fare politica: quello dei suoi avversari.
Vaccino. Dopo aver parlato di speranza, Obama provvede
a vaccinare i suoi ascoltatori contro una possibile lettura
negativa – il “cieco ottimismo” –, in modo da affrontare e
fugare ogni dubbio. In contrapposizione al cieco ottimismo,
Obama parla di schiavi e immigrati, facendo appello alle
radici della stragrande maggioranza degli attuali cittadini
americani. Le altre tre persone che nutrono questa speranza
sono, nell’ordine, il candidato presidente Kerry, il candidato
vicepresidente Edwards e lo stesso Obama.
Densità semantica. Dopo aver tracciato un percorso di unio-
ne e di speranza, Obama sa che il modo migliore per capitaliz-
zare le impressioni positive dell’uditorio è quello di condensa-
re l’intero messaggio in una singola frase a effetto: l’audacia
della speranza. È il principio dello slogan, sommato all’avervi
associato (o, meglio, ancorato) uno stato emozionale positivo.
38 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
Alla fi ne, questo è il dono più grande che Dio ci ha
fatto, è questo il fondamento della nazione. Credere
nelle cose che non si vedono. Credere che ci aspet-
tino giorni migliori.
Io credo che possiamo dare respiro alla nostra clas-
se media e che possiamo dare alle famiglie che lavo-
rano una strada che porta alle opportunità.
Io credo che siamo in grado di offrire posti di lavo-
ro ai disoccupati, case ai senzatetto, e che sapremo
salvare i giovani nelle città di tutta l’America dalla
violenza e dalla disperazione.
Io credo che alle nostre spalle soffi un vento giusto
e che, trovandoci al crocevia della storia, possiamo
fare le scelte giuste, e affrontare le sfi de che abbiamo
di fronte.
America! Questa sera, se anche tu senti la stessa
energia che sento io, se anche tu senti la stessa ur-
genza che sento io, se anche tu senti la stessa pas-
sione che sento io, se anche tu senti la stessa speran-
za che sento io – se facciamo quello che dobbiamo
fare, allora non ho dubbi sul fatto che in tutto il paese,
dalla Florida all’Oregon, da Washington al Maine, nel
39IL LINGUAGGIO DI OBAMA
mese di novembre la gente si solleverà, e John Kerry
sarà nominato presidente, e John Edwards sarà nomi-
nato vicepresidente, e questo paese rivendicherà la
sua promessa, e da questa lunga oscurità politica
sorgerà un giorno più luminoso.
Molte grazie a tutti. Dio vi benedica. Grazie.”
In the end, that is God’s greatest gift to us, the bedrock
of this nation. A belief in things not seen. A belief that
there are better days ahead.
I believe that we can give our middle class relief and
provide working families with a road to opportunity.
I believe we can provide jobs to the jobless, homes
to the homeless, and reclaim young people in cities
across America from violence and despair.
I believe that we have a righteous wind at our backs
and that as we stand on the crossroads of history, we
can make the right choices, and meet the challenges
that face us.
America! Tonight, if you feel the same energy that I do, if
you feel the same urgency that I do, if you feel the same
passion that I do, if you feel the same hopefulness that
40 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
I do — if we do what we must do, then I have no doubt
that all across the country, from Florida to Oregon, from
Washington to Maine, the people will rise up in Novem-
ber, and John Kerry will be sworn in as President, and
John Edwards will be sworn in as Vice President, and
this country will reclaim its promise, and out of this long
political darkness a brighter day will come.
Thank you very much everybody. God bless you. Thank
you.”
Il re dell’anafora. L’anafora è una fi gura retorica che consi-
ste nell’iniziare più frasi successive (o più porzioni della stes-
sa frase) con le stesse parole. Questa reiterazione conferisce
al discorso ritmo e coesione, focalizza l’attenzione e crea un
irresistibile crescendo emozionale.
Si pensi ad esempio al celebre discorso di Martin Luther
King, da molti ricordato proprio per i passaggi che inizia-
no con “I have a dream…(Ho un sogno)”, oppure all’appello
pronunciato da Churchill al parlamento britannico dopo la
disfatta di Dunkerque: “… Noi combatteremo in Francia, noi
combatteremo sui mari e sugli oceani, noi combatteremo
con crescente fi ducia e crescente forza nell’aria…”
41IL LINGUAGGIO DI OBAMA
Dopo il discorso del 2004, il secondo e ancora più travol-
gente passaggio mediatico di Barack Obama fa il giro del
pianeta nel 2007, quando il senatore si presenta come
candidato alle primarie del proprio partito, che vincerà nel
giugno dell’anno successivo, quando Hillary Clinton ammet-
te la sconfi tta e Obama diventa il candidato per il partito
democratico alla Casa Bianca.
I due slogan della sua campagna elettorale sono “Change
we can believe in” e “Yes We Can” (rispettivamente “Un cam-
biamento in cui possiamo credere” e “Sì, noi possiamo”).
Obama continua a presentarsi come l’uomo nuovo, portato-
re di cambiamento all’interno della società americana.
Il suo paradigma comunicativo continua a ricercare un ele-
mento unifi cante, di appartenenza e comunanza, che en-
trambi i suoi slogan dichiarano apertamente mediante il
“we” (noi).
Il breve estratto che segue, tratto da uno dei discorsi tenuti
durante le primarie del 2007, restituisce intensamente l’in-
telligenza linguistica del politico Obama e del suo “Yes we
can” (Sì, noi possiamo).
42 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
Ma in quella storia improbabile che è l’America,
non c’è mai stato nulla di falso nella speranza. In-
fatti, quando abbiamo affrontato ostacoli impossibili,
quando ci è stato detto che non eravamo pronti, o
che non avremmo dovuto provare, o che non poteva-
mo, generazioni di americani hanno risposto con un
credo semplice che riassume lo spirito di un popolo.
Sì, noi possiamo.
È stato un credo scritto nei documenti su cui si fonda
questo Paese, documenti che dichiararono il destino
di una nazione.
Sì, noi possiamo.
È stato sussurrato dagli schiavi e dagli abolizionisti
che nelle notti più buie hanno illuminato il cammino
verso la libertà.
Sì, noi possiamo.
È stato cantato dagli immigrati che salpavano da lidi
lontani e dai pionieri che si sono spinti a ovest affron-
tando una natura selvaggia e spietata.
Sì, noi possiamo.
È stato il richiamo per i lavoratori che si sono organiz-
zati, per le donne che hanno ottenuto il voto, per un
43IL LINGUAGGIO DI OBAMA
presidente che ha scelto la luna come nuova frontiera,
e per un re che ci ha portato in cima alla montagna e ci
ha indicato la strada per la Terra Promessa.
Diciamo “Sì, noi possiamo” alla giustizia e all’uguaglian-
za. Diciamo “Sì, noi possiamo” alle opportunità e alla
prosperità. Sì, noi possiamo guarire questa nazione. Sì,
noi possiamo riparare questo mondo. Sì, noi possiamo.”
But in the unlikely story that is America, there has
never been anything false about hope. For when
we have faced down impossible odds; when we’ve
been told that we’re not ready, or that we shouldn’t
try, or that we can’t, generations of Americans have
responded with a simple creed that sums up the
spirit of a people.
Yes we can.
It was a creed written into the founding documents
that declared the destiny of a nation.
Yes we can.
It was whispered by slaves and abolitionists as they
blazed a trail toward freedom through the darkest of
nights.
44 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
Yes we can.
It was sung by immigrants as they struck out from
distant shores and pioneers who pushed westward
against an unforgiving wilderness.
Yes we can.
It was the call of workers who organized; women who
reached for the ballot; a President who chose the moon
as our new frontier; and a King who took us to the
mountaintop and pointed the way to the Promised Land.
Yes we can to justice and equality. Yes we can to op-
portunity and prosperity. Yes we can heal this nation.
Yes we can repair this world. Yes we can.”
45IL LINGUAGGIO DI OBAMA
PICCOLA DIGRESSIONE NOSTRANAPoco dopo, uno degli uomini politici italiani di punta di allora, presentò come slogan – “Si può fare” – che sembrava ispirarsi proprio allo “Yes We Can” del candi-dato alla presidenza statunitense. Purtroppo per il politico nostrano, probabilmente non ben consigliato, questa “traduzione” snatura comple-tamente il messaggio originario, privandolo di tutta la sua effi cacia. “Sì” è un’affermazione e trasmette determinazione, apertura, possibilità. Sì. “Si”, per contro, è una parti-cella pronominale che in italiano si usa nelle forme impersonali. Non solo manca dell’assertività del sì, ma crea un secondo e più grave problema, legato a ciò che rimane di questo breve slogan. L’intento unifi ca-tore del “noi” nel discorso politico di Obama viene del tutto vanifi cato dalla presenza, in italiano, del “si” im-personale. Un conto è dire “Sì, noi possiamo”. Noi. Voi e io, insieme. È una presa di responsabilità, oltre che una forte esortazione ad agire. Tutt’altra cosa è dire “Si può fare”. La forma impersonale equivale a un passi-vo: può essere fatto. Da chi? Non so, però si può fare.Dal punto di vista della comunicazione effi cace, “Si può fare” è una catastrofe assoluta.
46 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
L’ARMA LETALE DI BARACK OBAMA NELLE ELEZIONI DEL 2012: LA RETORICA ROSA
Vestita di rosa, il suo “brand” fi sico (le braccia scoperte) in
bella evidenza e un accenno di lucidalabbra, Michelle Oba-
ma ha pronunciato il suo intervento alla Convention Demo-
cratica del settembre 2012 dimostrando un’eccellente pre-
parazione in comunicazione verbale (parole), paraverbale
(tono, volume, pause…) e non verbale (postura, gesti…).
Ha utilizzato le variazioni di tono per porre l’accento sulle
parole chiave, ha osservato le pause di rito e non ha mai
mostrato compiacimento per gli applausi. Insomma, brava.
Durante il suo intervento ha richiamato gli assi portanti del-
la cultura americana: il duro lavoro, il merito, i valori della
famiglia.
Nella costruzione retorica del suo scenario, lei e Barack sono
i protagonisti del sogno americano. Provengono da due fa-
miglie modeste ma di solidi principi; hanno conseguito i loro
obiettivi più ambiziosi, ma il successo non li ha cambiati,
così almeno ce la racconta:
47IL LINGUAGGIO DI OBAMA
... per me Barack è sempre il ragazzo che mi veniva
a prendere con un’automobile così malandata che io
vedevo letteralmente il marciapiede che ci sfi lava a
fi anco attraverso un buco nella portiera.”
… to me, he was still the guy who’d picked me up
for our dates in a car that was so rusted out, I could
actually see the pavement going by through a hole in
the passenger side door.”
La vita che racconta Michelle Obama è fatta di povertà, malat-
tie, sacrifi ci, debiti. Eppure la storia che racconta non è affatto
triste, in quanto Michelle sa porre abilmente l’accento sulle le-
zioni che lei e Barack hanno imparato dalle rispettive famiglie.
Abbiamo imparato cosa fossero la dignità e il deco-
ro – che lavorare sodo conta più di quanto guadagni;
che aiutare gli altri non serve soltanto a farsi una
posizione. Abbiamo imparato cosa fossero l’onestà
e l’integrità – che la verità conta; che non devi pren-
dere scorciatoie o giocare seguendo le tue regole, e
che il successo non conta se non lo conquisti one-
48 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
stamente. Abbiamo imparato cosa fossero la grati-
tudine e l’umiltà – che moltissime persone avevano
contribuito al nostro successo, dagli insegnanti che ci
hanno ispirato ai bidelli che tenevano pulita la scuo-
la. Ci hanno insegnato ad apprezzare il contributo di
tutti e a trattare chiunque con rispetto: questi sono i
valori che Barack e io – come la maggior parte di voi
– stiamo cercando di trasmettere alle nostre fi glie.
Questo è ciò che siamo. E quando mi sono trovata
davanti a voi quattro anni fa, sapevo che per me era
importante che nulla di tutto questo cambiasse, se
Barack fosse diventato presidente. Bene, oggi, dopo
tutte le sfi de e i trionfi e i momenti che hanno messo
alla prova mio marito in modi che mai avrei saputo
immaginare, ho potuto vedere con i miei occhi che
essere presidente non cambia chi sei – lo rivela.”
We learned about dignity and decency – that how
hard you work matters more than how much you
make... that helping others means more than just
getting ahead yourself.
We learned about honesty and integrity – that the
truth matters... that you don’t take shortcuts or play
49IL LINGUAGGIO DI OBAMA
by your own set of rules... and success doesn’t count
unless you earn it fair and square.
We learned about gratitude and humility – that so
many people had a hand in our success, from the
teachers who inspired us to the janitors who kept our
school clean... and we were taught to value everyo-
ne’s contribution and treat everyone with respect.
Those are the values Barack and I – and so many of
you – are trying to pass on to our own children.
That’s who we are.
And standing before you four years ago, I knew that
I didn’t want any of that to change if Barack became
President.
Well, today, after so many struggles and triumphs
and moments that have tested my husband in ways
I never could have imagined, I have seen fi rsthand
that being president doesn’t change who you are – it
reveals who you are.”
In poche frasi Michelle Obama ci parla dei valori che condi-
vide con suo marito, della loro volontà di trasmettere que-
sti valori alle fi glie e della loro identità familiare (“Questo
è ciò che siamo”).
50 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
Lo dichiara apertamente, Michelle:
Barack conosce il sogno americano perché lo ha vissuto.”
Barack knows the American Dream because he’s
lived it.”
Poi parla dell’importanza della “cena” come momento chia-
ve della giornata che vede la famiglia riunita intorno al ta-
volo. Parla di un uomo che ascolta pazientemente le fi glie,
risponde alle loro domande su questioni di attualità e le
aiuta a escogitare la giusta strategia per gestire le amicizie
a scuola. (Da far impallidire un democristiano consumato!)
Michelle non dimentica certo i punti caldi del programma
elettorale. Della riforma alla previdenza sociale ci dice:
A proposito della salute delle nostre famiglie, Barack
si è rifi utato di dare ascolto a tutti quelli che gli dice-
vano di rimandare la riforma, di lasciare che fosse un
altro presidente a occuparsene. A lui non importava
se fosse o meno la cosa più facile da fare da un pun-
to di vista politico – non è così che è stato cresciuto
– a lui importava che fosse la cosa giusta da fare.
51IL LINGUAGGIO DI OBAMA
When it comes to the health of our families, Barack
refused to listen to all those folks who told him to leave
health reform for another day, another president.
He didn’t care whether it was the easy thing to do
politically – that’s not how he was raised – he cared
that it was the right thing to do.”
Michelle Obama riserva un’altra parte del suo discorso ai
diritti delle donne, al diritto all’istruzione, al coraggio degli
americani, che nei momenti più diffi cili si sanno rimboccare
le maniche. Un discorso denso e coinvolgente che pone in
risalto i suoi lati migliori. Ancora una volta, complimenti a
Jon Favreau e al suo team (altri due ragazzi più o meno della
sua stessa età: in tre non arrivano a cent’anni!) che hanno
scritto il discorso.
Il culmine dell’effi cacia, che sfocia in un grande coinvolgi-
mento emotivo da parte dell’uditorio, arriva verso la fi ne:
Dico tutto questo, stasera, non solo come First Lady,
e non solo come moglie. Vedete, alla fi ne dei conti il
mio titolo più importante è ancora quello di “mom-in-
chief” [mamma in capo].”
52 IL LINGUAGGIO DI OBAMA
And I say all of this tonight not just as First Lady... and
not just as a wife. You see, at the end of the day, my
most important title is still “mom-in-chief.”
Romney voleva puntare la sua campagna sulla famiglia.
È arrivato secondo, grazie anche all’intelligenza linguistica di
Michelle e Barack Obama.
A volte le parole mancano, a volte basta una parola o anche un gesto. L’ho capito nel deserto del Kuwait, quando insieme ai Marines mi stavo preparando per l’invasione dell’Iraq nel 2003. I generali americani erano preoccupati che i loro soldati non riuscissero a comunicare con la popolazione civile e ave-vano quindi organizzato dei corsi di lingua araba per insegnare alle truppe alcune parole chiave, di solito necessarie ad un posto di blocco: “stop”, “avanti”, “scendi”, “apri il cofano” ecc. Durante una di queste lezioni mi avvicinai ad un sergente che mi pareva distratto e distaccato. Gli chiesi perché non fosse interessato alla lezione, e lui mi rispose con un mezzo sorriso accarezzando l’arma che portava a tracolla: “I speak M-16”. Parlo M-16 mi ha risposto, facendo riferimento al fucile mitra-gliatore in dotazione ai Marines.
di ALESSIO VINCI
POSTFAZIONE
134 POSTFAZIONE
Mi sono bastate quelle poche parole per capire che l’esercito e i Marines non erano assolutamente pronti all’invasione. E non mi riferisco ai piani di battaglia o alla presa di Baghdad che poi avvenne poche settimane dopo. Ma a quello che sarebbe successo dopo, all’incapacità dell’amministrazione americana in Iraq di capire come gestire un popolo dopo decenni di dittatura, l’incapacità di prevedere una rivolta po-polare sfociata poi in anni di guerriglia. Certo non sarebbe bastato insegnare ai soldati l’arabo, ma era chiaro sin dall’inizio che l’atteggiamento era quello di spara prima e poi chiedi il chi va là. In guerra spesso ti manca la parola. Per quello che vedi, per quello che vorresti raccontare e non puoi dire. Ci sono regole ferree anche se non scritte. Durante i bombardamenti della NATO in Serbia nel 1999 ho ricevuto decine di telefonate da “colleghi e amici” negli Stati Uniti che mi chiedevano di non entrare nei dettagli di come centinaia e forse migliaia di civili rimanevano uccisi dalle “bombe intelligenti”, che colpivano sì l’obiettivo strategico ma se lì vicino c’erano delle famiglie, dei bambini, o se passava per caso un pullman carico di operai la parola per descrivere la loro morte era stata ben presto coniata dalle autorità militari: “collateral damage”, danni collaterali. Nessuno ha mai pensato che le 3.000 vittime (tutti civili) dell’attacco alle Torri Gemelle l’11 settembre 2001 fossero
135POSTFAZIONE
un danno collaterale. Eppure nelle prime ore i media “nemici dell’occidente” che si opponevano a quello che descrivevano come l’egemonia mondiale del “grande satana” raccontava-no che per la prima volta dopo Pearl Harbor gli americani avrebbero fi nalmente capito cosa signifi casse sentirsi “sotto attacco”, cosa si provasse a perdere amici, parenti e cari in una guerra non dichiarata. Le Torri Gemelle un obiettivo “le-gittimo” dicevano. Chi ci lavorava dentro e ci abitava vicino erano “danni collaterali”. Parole che pesavano come macigni all’indomani di quell’attacco che scosse il mondo, cambiò la storia, e con il quale ancora oggi si fanno i conti. Le parole “Ground Zero” o “11 settembre” e “Torri gemelle” sono diventate immediatamente sinonimo di tragedia, di guerra portata in casa, di terrorismo inteso come “siete tutti obiettivi legittimi, nessuno è salvo”. Non a caso quando poi Al Qaeda colpì successivamente Madrid (l’11 marzo 2004) e Londra (il 7 luglio 2005) la stazione di Atocha divenne il “ground zero spagnolo” e l’attacco alla metropolitana di Londra “l’11 settembre inglese”. Dopo gli attacchi di New York, Madrid e Londra si sono fatti vivi con me alcuni nazionalisti serbi con i quali mi ero confrontato tra il 1999 e il 2000, dopo che le bombe NATO erano riusci-te a cacciare le milizie serbe dal Kosovo. Mi dissero che “gli americani, gli spagnoli e gli inglesi (tutti paesi NATO) avevano
136 POSTFAZIONE
ricevuto la “giusta punizione”. Parole che pesavano come ma-cigni. Ma con il loro linguaggio diretto e con parole semplici esprimevano un concetto assurdo: i bombardamenti NATO e gli attacchi dell’11 settembre sono stati entrambi parte della stessa “strategia del terrore mondiale”, del tentativo del più forte di imporre la propria volontà sul più debole. La macchina folle della propaganda serba messa in piedi da Slobodan Milosevic (ormai in cella e poi deceduto prima della fi ne del suo processo all’Aia) era sopravvissuta al suo leader. Il suo potere oratorio era riuscito a convincere i serbi che “nessuno li avrebbe mai più cacciati” dalla loro terra. Milosevic fu bravissimo dopo i bombardamenti NATO a rac-cogliere consensi in patria con parole chiave come “reagire, ricostruire, e resistere”. Resistere all’opposizione in casa che faticava a raccogliere consensi, reagire all’aggressione della comunità internazionale “ricostruendo” il Paese. Ci hanno creduto in molti fi no al suo arresto. Quando il giudice della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia gli chiese cosa ri-spondeva all’accusa di crimini contro l’umanità, Milosevic rispose “this is your problem”. Il problema è suo disse. “I consider this tribunal false tribunal, the accusations false accusations”, considero questo tribunale un tribunale falso, le accuse false accuse. Milosevic sapeva usare le parole e sapeva che non sarebbe mai stato condannato. Non perché
137POSTFAZIONE
innocente, ma perché sia lui che il giudice morirono (di cau-se naturali) prima di arrivare ad una sentenza. Slobodan Milosevic non fu il primo leader a scommettere sul-la parola “ricostruzione” per salvare il proprio destino politico. Fu così anche per Michail Gorbaciov la cui perestrojka però non era propaganda, ma il tentativo (riuscito) di cambiare un modello politico-economico-sociale che ormai aveva perso il passo nei confronti dell’occidente ed in particolare degli USA. Non tutti ricordano però che “perestrojka” (che signifi ca appunto ricostruzione) fu la terza parola chiave della fi ne dell’URSS. La prima infatti era stata “uskorenije” che signi-fi ca “accelerazione”. Gorbaciov aveva capito che per poter competere con gli Stati Uniti bisognava appunto accelerare il progresso tecnico-scentifi co del Paese. Reagan aveva già iniziato la sua guerra stellare (lo scudo militare che avrebbe difeso gli USA da un attacco missilistico dell’URSS). Gorba-ciov si rese subito conto che l’URSS non avrebbe mai tenuto il passo, e che una gara agli armamenti avrebbe messo in ginocchio il suo paese già economicamente provato. Fu in quel momento che il tentativo di “accelerare il progres-so scientifi co” (leggi militare) lasciò spazio alla più conve-niente “glasnost”, cioè trasparenza, la seconda parola chiave legata alla fi ne dell’URSS.
138 POSTFAZIONE
In realtà la parola viene dal russo “golos” che signifi ca “voce”. A Gorbaciov interessava “dare voce” ad un popolo che fi no a quel momento non solo non l’aveva, ma viveva sulla propria pelle il fallimento del sistema comunista. Fu proprio la “voce del popolo” a scardinare un sistema basato sul silenzio inteso come repressione e segreto di stato. L’immagine di Boris Eltsin sul carro armato dopo il tentato colpo di stato nel 1991 divenne il simbolo della “piazza che prendeva la parola” e Eltsin ne era il portavoce. Non uno che “veniva” dalla piazza, ma uno che la “capiva”. L’errore che fece Gorbaciov fu proprio di non avere il linguaggio adatto per la piazza. Per Eltsin fu un gioco da ragazzi prendere il sopravvento. Da quel momento tutto cambiò. Eltsin rimase al potere fi no al 2000, ma già alle elezioni del 1996 dava segni di cedi-mento. Pochi sanno o ricordano che fu un gruppo di esperti della comunicazione (americani ma non solo) che riuscirono a fargli vincere quelle ultime elezioni contro il potente candi-dato comunista Gennady Zhuganov, che raccoglieva consen-si raccontando la storia più vecchia dell’anti-politica: chi sta al potere è un corrotto, un bugiardo e un incapace.
Alessio Vinci