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Il riparto di giurisdizione dopo il codice del
processo amministrativo: il riparto di posizioni
e il riparto per materia
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Indice
1. Il riparto di giurisdizione
1.1. Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 4 luglio 1949, n. 1657 : il criterio della
causa petendi come criterio ordinario di riparto: individuazione della giurisdizione
dipendente dalla consistenza della posizione soggettiva. Dicotomia carenza- cattivo uso del
potere
(estratto)
1.2. Consiglio di Stato, sez. IV, 5 luglio 2012, n. 3298 : inesistenza di una riserva di tutela
dell’interesse legittimo in favore del g.a.
1.3. Consiglio di Stato, sezione V, 13 maggio 2014, n. 2456
2. La giurisdizione per connessione
2.1 Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 23 marzo 2011, n. 6594 : giurisdizione
ordinaria in materia di risarcimento del danno da provvedimento favorevole illegittimo
previamente annullato
2.2 Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 4 febbraio 2011, n. 804 : danno da occupazione
appropriativa e indennizzo da occupazione legittima
3. In base al criterio ordinario di riparto spettano al giudice amministrativo tutte le
controversie nelle quali si faccia questione del corretto esercizio del potere pubblico da
parte di un soggetto pubblico.
3.1 Nozione di soggetto pubblico
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 22 dicembre 2011, n. 28329
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3.2 Potere pubblico
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza del 3 giugno 2011, n.10
Corte di cassazione, Sezioni unite, sentenza del 12 ottobre 2011, n. 20929: Controversie in tema di
quote latte, giurisdizione del giudice ordinario e fondamento
Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza del 29 luglio 2013, n. 17 : riparto di giurisdizione
in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni
3.2.1 Il comportamento amministrativo
Corte Costituzionale, sentenza n. 204 del 2004
(estratto)
Corte costituzionale, sentenza n. 191 del 2006
3.3 Corretto esercizio del potere pubblico : carenza / cattivo uso del potere
Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 4 luglio 1949, n. 1657 : adesione al
principio di affievolimento dei diritti e a quello della carenza di potere
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza del 22 ottobre 2007, n. 12 : rifiuto della
tesi della carenza in concreto
3.3. 1 Riparto di giurisdizione e diritti inaffievolibili o a nucleo rigido
Corte Costituzionale, sentenza del 27 aprile 2007, n. 140: normativa in materia di impianti
di generazione di energia elettrica e incomprimibilità del diritto alla salute e alla salubrità
dell’ambiente
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 30 marzo 2011, n. 7186 : procedure
selettive e violazione del divieto di discriminazione
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Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 15 febbraio 2011, n. 3670: concessione
del bonus bebè e violazione del divieto di discriminazione (allegato 1)
Corte di cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 6 settembre 2013, n. 20577 : la
giurisdizione del g.o. in merito alla domanda di annullamento dell’atto amministrativo di diniego
di autorizzazione ad effettuare cure specialistiche praticate all’estero
4. Casistica: la giurisdizione sui danni cagionati dagli amministratori delle società pubbliche
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 19 dicembre 2009, n. 26806: Società a
partecipazione pubblica , azione di responsabilità nei confronti degli amministratori o dei dipendenti e
giurisdizione della Corte dei conti
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 3 maggio 2013, n. 10299: giurisdizione del
giudice ordinario in ordine all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione
pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti.
Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 25 novembre 2013, n. 26283 : giurisdizione della
Corte dei Conti sull’azione di responsabilità esercitata dalla Procura della Repubblica presso detta corte
quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per danni da essi cagionati
al patrimonio di una società in house.
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Selezione giurisprudenziale
1. Il riparto di giurisdizione
1.1 Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 4 luglio 1949, n. 1657 : il criterio della causa petendi
come criterio ordinario di riparto: individuazione della giurisdizione dipendente dalla consistenza della
posizione soggettiva. Dicotomia carenza- cattivo uso del potere
(estratto)
“la discriminazione fra la competenza giudiziaria ordinaria e quella del giudice amministrativo si precisa così: se il
cittadino nega che potere siffatto ( potere discrezionale di disporre (…) di quel diritto) sia conferito all’autorità
amministrativa, la competenza a conoscere di tale controversia spetta all’autorità giudiziale, perché si tratta di accertare se
il diritto subiettivo sia tale anche di fronte alla p.a. Se invece la controversia abbia per suo oggetto l’esercizio, che si
pretende scorretto, del potere discrezionale conferito, sotto l’aspetto della competenza, della forma o del contenuto (…) la
competenza a conoscere è del g.a.”
1.2 Consiglio di Stato, sez. IV, 5 luglio 2012, n. 3298 : inesistenza di una riserva di tutela
dell’interesse legittimo in favore del g.a.
Testo della sentenza
(omissis)
DIRITTO
1. - L’appello non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.
2. – (omissis)
3. - Venendo al merito della questione, va osservato come, valutando correttamente le ragioni
sostanziali sottese alla pretesa dell’originaria parte ricorrente, il giudice di prime cure, sollecitato
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dall’espressa eccezione di controparte, si è soffermato preliminarmente nell’esame dell’esistenza
della propria giurisdizione.
Va condivisa la valutazione operata in sentenza che, ponendo in primo piano la pretesa della parte
originariamente appellante, ha verificato come la controversia sfugga alla giurisdizione del giudice
amministrativo. Infatti, in disparte la veste impugnatoria data in ricorso, la questione non verte sui
vizi formali o procedimentali degli atti impugnati, ma unicamente sull’effettiva spettanza del diritto
dominicale, assumendo sostanzialmente parte ricorrente di essere nella proprietà dell’immobile.
La giurisdizione, infatti, è conformata dalla domanda e, ai fini del riparto tra i diversi plessi
giurisdizionali, rileva non già la prospettazione delle parti, quanto il petitum sostanziale,
identificato in relazione alla concreta pronuncia che si chiede al giudice ed in funzione
della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed
individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti
fatti costituiscono manifestazione.
L’articolazione del giudizio come impugnatorio, quindi, non è fatto idoneo a trasferire la vicenda
presso il giudice dell’atto amministrativo (da ultimo, Cassazione civile, sez. un., 16 maggio 2008, n.
12378), specie nella fattispecie in esame, dove la vicenda fondamentale in scrutinio non risulta
oggetto di uno specifico accertamento giurisdizionale che si imponga all’amministrazione, atteso
che il giudizio che si è svolto innanzi al giudice delle acque non ha riguardato la posizione giuridica
del D’Arienzo (come emerge dalle sentenze del Tribunale regionale delle acque pubbliche n. 144/92
e n. 92/94, e del Tribunale superiore delle acque pubbliche n. 106/98).
Quindi, quando si verta nel caso dell’ordine di rilascio di un immobile da parte della pubblica
amministrazione, sul presupposto della sua appartenenza al demanio ed il privato miri, tramite il
giudizio, a sentire accertare negativamente la demanialità del bene e positivamente il proprio pieno e
libero diritto di proprietà, la relativa controversia spetta alla cognizione del giudice ordinario, in
quanto non investe vizi dell'atto amministrativo, ma si esaurisce nell'indagine sulla titolarità della
proprietà e, quindi, è rivolta alla tutela di posizioni di diritto soggettivo (per l’espressione di tale
principio in relazione alla diversa casistica, Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 4 ottobre 2011 n.
627; Consiglio di Stato, sez. VI, 26 settembre 2011 n. 5357; Consiglio di Stato, sez. VI, 9 novembre
2010 n. 7975; Consiglio di Stato, sez. VI, 30 luglio 2010 n. 5044; Cassazione civile, sez. un., 29
marzo 2011 n. 7097)
4. - L’appello va quindi respinto. Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano come
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in dispositivo.
1.3 Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 13 maggio 2014, n. 2456
FATTO e DIRITTO
1. La presente controversia ha ad oggetto l’individuazione del soggetto pubblico obbligato al
pagamento delle rette di degenza e assistenza della signora A.M.P. ricoverata presso la struttura Villa
Serena facente capo all’Ente Provincia Toscana Denominata "Addolorata" dell'Istituto delle Suore
Passioniste di S. Paolo della Croce (in prosieguo Istituto dell’Addolorata).
1.1. In fatto, sulla scorta di tutta la documentazione versata nel fascicolo di primo grado, giova
evidenziare quanto segue:
a) la signora A.M.P., nata nel comune di Fossacesia (Chieti) il 4 settembre 1939 ed ivi residente fino al
1972, è stata ricoverata nel 1963, su richiesta della provincia di Chieti, nell’Istituto dell’Addolorata,
struttura che pacificamente non eroga e non ha mai erogato prestazioni sanitarie;
b) nel 1970 è stata dichiarata invalida civile al 100%, ai sensi della l. n. 625 del 1966, perché epilettica,
con specifica attestazione della impossibilità di riduzione dell’invalidità mediante idoneo trattamento di
riabilitazione;
c) nel 1985 è stata dichiarata inabile al lavoro per riduzione permanente della capacità lavorativa in
misura superiore ai 2/3 ai sensi della l. n. 118 del 1971;
d) nel 1997 è stata dichiarata persona handicappata ai sensi della l. n. 104 del 1992, con accertamento di
epilessia e oligofrenia di media entità, possibilità di attività lavorativa solo per determinati tipi, uso
continuo di terapia farmacologica;
e) è acclarata la prescrizione di farmaci anticomiziali (con prescrizione di assistenza continua, in un
quadro di condizioni cliniche stabilizzate), da parte di medico che non risulta alle dipendenze
dell’Istituto dell’Addolorata (cfr. certificati in data 11 ottobre 2002 e 19 dicembre 2006);
f) fino al marzo del 1998, le spese di degenza sono state sostenute (e ripartite) dall’U.S.L. n. 7 di
Lanciano (poi A.U.S.L. n. 3 di Lanciano – Vasto) e dalla U.S.L. n. 10 di Firenze;
g) successivamente, entrambi gli enti del servizio sanitario nazionale hanno sospeso ogni pagamento
indicando come unico soggetto obbligato il comune di Fossacesia, in quanto verrebbero in rilievo
prestazioni di carattere eminentemente socio assistenziale e non sanitario.
1.2. Protraendosi la situazione di omessa corresponsione delle rette di degenza e di assistenza, l’Istituto
dell’Addolorata, dopo aver inutilmente adito il giudice ordinario che ha declinato la propria
giurisdizione (cfr. sentenza del Tribunale civile di Firenze n. 2676 del 9 luglio 1995), ha proposto
ricorso al T.a.r. per la Toscana – allibrato al nrg. 42/2007 – per l’accertamento del soggetto pubblico
obbligato alla rifusione delle rette di degenza e assistenza e la relativa condanna al pagamento della sorte
capitale e degli accessori.
2. L’impugnata sentenza - T.a.r. per la Toscana, Sezione II, n. 773 del 6 maggio 2009 -:
a) ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo (tale capo non è stato impugnato ed è
coperto dalla forza del giudicato interno);
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b) ha dichiarato il difetto di legittimazione passiva della Azienda U.S.L. n. 10 di Firenze (anche tale capo
non è stato impugnato);
c) ha respinto l’eccezione di tardività del ricorso di primo grado sollevata dalla difesa del comune di
Fossacesia;
d) assodata la prevalenza della natura socio assistenziale delle prestazioni erogate dall’Istituto
dell’Addolorata (spese di ricovero in senso stretto), rispetto ai profili socio sanitari pure ravvisati
presenti (spese farmacologiche e di sorveglianza), ha condannato sia il comune di Fossacesia che l’A.s.l.
di Lanciano – Vasto, ciascuno per quanto di ragione, al pagamento delle rette di degenza e assistenza a
far data dal 1 marzo 1998;
e) ha accertato la natura di obbligazione di valuta della sorte capitale, escludendo il cumulo di interessi
legali e rivalutazione, ma riconoscendo, a far data dal 1° marzo 1998, a titolo di danno da ritardato
pagamento, la sola rivalutazione monetaria del credito; ha poi previsto, nel caso di liquidazione della
sorte capitale e degli accessori da parte degli enti debitori, che su tale somma globalmente determinata
decorreranno gli interessi al saggio legale fino all’effettivo soddisfo;
f) ha compensato integralmente fra le parti le spese di lite.
3. Con ricorso notificato il 28 ottobre 2009 e depositato il successivo 23 novembre, il comune di
Fossacesia ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza articolando i seguenti mezzi:
a) con il primo motivo (pagine 5 – 6 dell’appello), si contesta il quantum della sorte capitale sostenendosi
che la signora A.M.P. percepisca una pensione sociale dal 1 gennaio 2008 e che possa avere diritto
all’indennità di accompagnamento; dal che discenderebbe che il comune non potrebbe essere chiamato
a corrispondere integralmente il vitto e l’alloggio; si anticipa, infine, la tesi di fondo meglio sviluppata
con il terzo mezzo, ovvero che è dirimente l’accertamento della natura delle prestazioni erogate dalla
struttura di ricovero e non la qualità del soggetto che le eroga;
b) con il secondo motivo (pagine 6 – 8 dell’appello), si ripropone criticamente l’eccezione di
irricevibilità del ricorso di primo grado in relazione alla data del provvedimento con cui è stato negato il
pagamento delle rette (nota comunale del 28 maggio 2002);
c) con il terzo motivo (pagine 8 – 11 dell’appello), si contrastano le conclusioni cui è pervenuto il primo
giudice, negandosi la natura socio assistenziale delle prestazioni erogate dalla struttura, sostenendosi in
ogni caso la prevalenza di quelle sanitarie (sorveglianza e cura di malato psichico cronico in terapia
farmacologica), nonché l’irrilevanza della circostanza che l’Istituto dell’Addolorata non sia un ente
autorizzato all’esercizio dell’attività sanitaria e che non sia accreditato con il Servizio sanitario nazionale;
d) con il quarto motivo, infine (pagina 11 dell’appello), si contesta la decorrenza degli interessi e della
rivalutazione monetaria sulla sorte capitale, venendo in rilievo crediti querable, per cui gli accessori non
potrebbero che decorrere dalla data della proposizione del giudizio di primo grado (28 dicembre 2006),
atteso che nel 2002 era stato negato il pagamento delle rette di degenza.
4. L’A.s.l di Lanciano – Vasto:
a) si è costituita depositando controricorso in data 29 dicembre 2009, deducendo l’infondatezza del
gravame del comune di Fossacesia;
b) con ricorso spedito per la notificazione il 22 – 24 dicembre 2009 e depositato il successivo 29
dicembre, ha interposto appello incidentale contestando, con un unico complesso motivo (pagine 4 –
10), che le prestazioni erogate dall’Istituto dell’Addolorata abbiano rilevanza sanitaria e possano essere
rimborsate dal Servizio sanitario nazionale.
5. L’Istituto dell’Addolorata:
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a) ha proposto, a sua volta, appello incidentale – notificato il 23 dicembre 2009 e depositato il
successivo 29 dicembre – subordinandone l’esame all’accoglimento dell’appello principale proposto dal
comune in modo da individuare, una volta per tutte, l’ente obbligato al pagamento delle rette di
degenza e assistenza;
b) con memoria depositata in data 23 febbraio 2010, ha eccepito la tardività dell’appello incidentale
dell’A.s.l. – da qualificarsi come improprio perché vertente su capi autonomi dell’impugnata sentenza -
in quanto notificato il 30 dicembre 2009, oltre il termine di 60 giorni decorrente dalla notificazione
dell’impugnata sentenza (si sostiene che la notificazione sarebbe dovuta avvenire entro il 14 novembre
2009); nel merito ha concluso per la correttezza del ragionamento logico giuridico posto dal T.a.r. a
fondamento del proprio decisum.
6. Il Comune e L’A.S.L. hanno meglio illustrato le proprie difese con le memorie indicate in epigrafe.
7. All’udienza pubblica del 15 aprile 2014, la causa è stata trattenuta in decisione.
8. (omissis)
9. Prima di esaminare gli appelli in trattazione, giova ricostruire sinteticamente il quadro delle norme
(cfr., in particolare, artt. 72 ss. l. n. 6872 del 1890, 23 e 25, d.P.R. n. 616 del 1977, 30, l. n. 730 del 1983,
6, l. n. 328 del 2000, d.p.c.m. 8 agosto 1985 e 14 febbraio 2001, recanti gli atti di indirizzo e
coordinamento alle regioni e province autonome in materia di attività di rilievo sanitario connesse con
quelle socio assistenziali), e dei principi elaborati dalla giurisprudenza nella materia per cui è causa (cfr.
Cass. civ., sez. un., 12 dicembre 2012, n. 22787; sez. I, 22 marzo 2012, n. 4558; sez. un., 30 luglio 2008,
n. 20586; sez. un., 18 ottobre 2005, n. 20114; Cons. St., sez. III, 15 febbraio 2013, n. 930; ad. plen. 16
dicembre 2011, n. 24; ad. plen. 30 luglio 2008, n. 3, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d),
c.p.a.).
In sintesi:
a) gli interventi per contrastare la povertà e il rischio di marginalità sociale sono a carico delle
autonomie locali e le norme che li disciplinano attribuiscono ai soggetti protetti diritti soggettivi perfetti;
ma il comune può ritenersi obbligato a corrispondere rette di degenza solo nel caso in cui abbia
preventivamente autorizzato l’erogazione della prestazione assistenziale, tenuto anche conto che, per le
limitate risorse disponibili, deve essere lo stesso ente a stabilire - in applicazione di regole predefinite sui
requisiti reddituali e sulle prestazioni assistenziali necessarie e nel rispetto delle procedure di contabilità
cui è astretto - se e in che misura può contribuire alle spese di degenza di un infermo privo di redditi; in
quest’ottica deve escludersi che l’ente locale debba subire meccanicamente il peso economico
dell’iniziativa autonoma del beneficiario delle prestazioni assistenziali, dei suoi familiari o peggio
dell’istituto di ricovero;
b) in considerazione della natura delle posizioni soggettive coinvolte, spetta all’autorità
giudiziaria ordinaria la giurisdizione sulle controversie nelle quali un istituto privato di
assistenza a malati richieda il pagamento delle rette di degenza al comune o al servizio
sanitario nazionale, non influendo sulla determinazione della giurisdizione il carattere
sanitario, socio-assistenziale o misto, della prestazione erogata dall’istituto; tanto deriva dal
fatto che il legislatore non può comprimere il diritto alla salute neppure nella delicata
operazione di bilanciamento con le esigenze della finanza pubblica;
c) per individuare l’ente pubblico (comune o azienda sanitaria), obbligato alla rifusione delle spese di
ricovero dei malati indigenti, il criterio guida dirimente è quello della natura oggettiva della prestazione
in concreto erogata; in presenza di prestazioni miste, deve aversi riguardo alla circostanza che l’istituto
di ricovero sia accreditato con il servizio sanitario nazionale (o quantomeno autorizzato ad esercitare
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attività sanitaria), e che non si tratti di prestazioni sanitarie occasionali (ovvero non legate alla patologia
che ha dato causa al ricovero); in quest’ottica si è stabilito che:
I) laddove ad un soggetto malato cronico, oltre alle prestazioni socio-assistenziali, vengano erogate
anche quelle sanitarie e sussista una stretta correlazione tra le stesse, l’attività va considerata comunque
di rilievo sanitario e quindi di totale competenza del servizio sanitario nazionale; lo stesso è a dire per le
persone affette da malattia mentale cronica, ricoverate presso un’apposita struttura, se vengano ivi
erogate sia prestazioni sanitarie sia prestazioni di natura assistenziale, tra loro strettamente correlate; in
tal caso i relativi oneri finanziari ricadono totalmente sul servizio sanitario nazionale (sì che il comune
non può addebitare ai congiunti del paziente il pagamento di una quota dei costi del ricovero in
relazione alle prestazioni assistenziali), senza che assuma rilievo, in contrario, la circostanza della
impossibilità di guarigione o miglioramento della malattia psichica trattata;
II) la competenza degli enti del servizio sanitario nazionale è esclusa tutte le volte in cui al malato
psichico risultino erogate prestazioni di mera assistenza e sorveglianza;
d) il criterio di collegamento per l’individuazione del comune (ma lo stesso vale per l’individuazione
dell’azienda sanitaria), tenuto a sostenere l’onere dell’assistenza e del soccorso a soggetti affidati a
strutture di ricovero, è costituito dal c.d. «domicilio di soccorso», inteso non solo come residenza, ma
anche come comune di nascita o come dimora di fatto al momento del ricovero senza che abbia rilievo
la successiva acquisizione della residenza nel luogo in cui è sita la struttura ospitante.
10. Scendendo all’esame dell’appello principale del comune di Fossacesia, è agevole rilevarne la
completa infondatezza alla stregua dei principi sopra illustrati.
(omissis)
10.2. Parimenti infondato si rivela il secondo mezzo, atteso che la posizione soggettiva azionata in
giudizio dall’Istituto dell’Addolorata ha pacifica consistenza di diritto soggettivo, sicché non è possibile
porre una questione di irricevibilità del ricorso avverso gli atti del comune di Fossacesia privi, in quanto
tali, di qualsiasi valenza provvedimentale perché meramente adempitivi di obbligazioni discendenti dalla
legge.
10.3. Migliore sorte non tocca al terzo mezzo di gravame, una volta assodato, sulla scorta della
precedente ricostruzione in fatto (retro §§ 1 ss.), che le prestazioni in concreto erogate dall’Istituto
dell’Addolorata hanno natura esclusivamente socio assistenziale e che in tale genus sono sussumibili (per
le considerazioni in diritto sviluppate retro § 9) anche quelle relative alla sorveglianza della disabile ed
alla somministrazione di farmaci.
Invero:
a) non può ammettersi che una struttura residenziale, priva dell’autorizzazione all’esercizio di attività
sanitaria, possa erogare prestazioni di carattere sanitario;
b) non è provato che la prescrizione del trattamento farmacologico sia stata disposta da personale
sanitario in servizio presso la struttura;
c) la concreta somministrazione del trattamento farmacologico non integra prestazione di carattere
sanitario in assenza di specifica prova contraria in ordine alle peculiarità intrinseche a tale attività ed
all’espletamento da parte di personale sanitario;
d) è assodato che il ricovero presso la struttura non aveva finalità riabilitative o di cura, stante la
irreversibilità e la stabilità del quadro clinico e medico legale della signora A.M.P.;
e) la mera attività di assistenza e sorveglianza, anche se svolta in via continuativa e finalizzata alla
prevenzione di atti autolesionistici, non integra il concetto di prestazione sanitaria.
10.4. Relativamente al quarto ed ultimo mezzo di gravame, il Collegio osserva che:
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a) non è vero che il T.a.r. abbia disposto il cumulo degli accessori (interessi legali e rivalutazione
monetaria sulla sorte capitale), avendolo invece espressamente escluso; quanto al pagamento dei soli
interessi legali sulla somma complessiva (e dalla data) risultante dalla liquidazione della sorte capitale e
della rivalutazione monetaria ad opera degli enti convenuti, si tratta di evento non verificatosi; in questa
prospettiva le relative censure risultano inammissibili per carenza del requisito della soccombenza;
b) circa la natura querable dell’obbligazione dedotta in giudizio e la decorrenza degli accessori dalla data
di introduzione del giudizio di primo grado (28 dicembre 2006), si tratta di affermazione errata, sia in
fatto che diritto, perché:
I) a mente del combinato disposto degli artt. 1182, 1219, 1224 e 1282 c.c., come interpretati dalla
consolidata giurisprudenza (cfr. fra le tante Cass. civ., sez. I, 18 settembre 2013, n. 21340; 20 maggio
1997, n. 4476; sez. III, 3 ottobre 2005, n. 19320; 8 novembre 1983, n. 6597), i pagamenti dovuti dalle
amministrazioni pubbliche e dagli enti locali in particolare (a mente dell’art. 185 t.u. n. 267 del 2000),
compresi quelli aventi ad oggetto gli interessi corrispettivi ed il maggior danno derivante dal ritardo
nell’adempimento di obbligazioni pecuniarie, devono effettuarsi presso la tesoreria dell’ente e
necessitano dell’emissione del mandato di pagamento (anche al fine della decorrenza degli interessi che
presuppongono la liquidità ed esigibilità del credito principale); tanto esclude la possibilità di
configurare la mora ex re ed impone la necessità di una formale intimazione da parte del privato
creditore; allorquando però sia stata effettuata rituale messa in mora, resta irrilevante ogni circostanza
relativa alla procedura ed ai tempi di emissione del mandato di pagamento;
II) nel caso di specie risulta dalla lettera datata 18 aprile 2002 (redatta dal legale del creditore, inoltrata a
mezzo raccomandata postale e ricevuta dal comune il successivo 24 aprile 2002), che l’Istituto
dell’Addolorata ha costituito in mora il comune intimando il pagamento del dovuto a titolo di sorte
capitale ed accessori;
c) pertanto, le somme dovute a titolo di sorte capitale (ovvero gli importi delle rette di degenza e di
assistenza nella misura indicata dal T.a.r. e in quella successivamente dovuta sulla scorta delle
determinazioni via via assunte dagli organismi competenti), con decorrenza marzo 1998 (non contestata
dal comune), andranno maggiorate della sola rivalutazione monetaria esclusivamente e a partire dal
rateo mensile successivo alla messa in mora (ovvero dalla rata di maggio 2002) e fino all’effettivo
soddisfo; sui ratei mensili dovuti a titolo di rette di degenza e assistenza dall’ottobre 1998 all’aprile 2002,
non saranno pertanto riconosciuti e pagati accessori.
11. Quanto all’appello incidentale dell’A.s.l. è agevole rilevarne la fondatezza alla luce di tutte le
considerazioni in fatto e diritto sviluppate in precedenza.
Pertanto deve escludersi che l’A.s.l. sia tenuta al pagamento delle spese farmacologiche nonché a quelle
di assistenza e sorveglianza della disabile per tutte le ragioni esposte retro ai §§ 9. e 10.3.
12. (omissis)
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2. La giurisdizione per connessione
2.1 Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 23 marzo 2011, n. 6594 : giurisdizione
ordinaria in materia di risarcimento del danno da provvedimento favorevole illegittimo
previamente annullato
Testo della sentenza
(omissis)
RITENUTO IN DIRITTO
Il ricorso devesi ritenere ammissibile, perche' il Tribunale adito, anziche' pronunciare sulla domanda nel
merito, con provvedimento in data 13.1.2010, preso atto del proposto regolamento preventivo di
giurisdizione, ha provveduto a sospendere il giudizio ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 367 c.p.c.
(cfr. in tal senso cass. sez. un. n. 4805 del 2005);
Con riferimento alla questione di giurisdizione sottoposta all'esame di questa Suprema Corte, si
osserva:
se la pubblica amministrazione procede alla emanazione di provvedimenti illegittimi - contro i quali, ai
sensi dell'articolo 113 Cost., comma 1, e' sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli
interessi legittimi lesi dinanzi agli organi di giustizia ordinaria o amministrativa - determina la lesione dei
diritti o degli interessi in maniera diversa a seconda che l'interesse leso rientri nella categoria generale
degli interessi pretensivi o in quella degli interessi oppositivi. Se l'interesse e' pretensivo la sua lesione si
concretizza nello illegittimo diniego o nella ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo
(legittimo); se l'interesse e' oppositivo la sua lesione si concretizza nello illegittimo sacrificio di un bene
o di una situazione di vantaggio. Il Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 80, articolo 35, come
sostituito dalla Legge 21 luglio 2000, n. 205, articolo 7, dispone che "il giudice amministrativo, nelle
controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in
forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto.".
La Corte Costituzionale, nelle sentenze n. 292 del 2000 e 281 del 2004, ha chiarito che con tale
disposizione il legislatore ha inteso rendere piena ed effettiva la tutela del cittadino nei confronti della
pubblica amministrazione, concentrando innanzi al giudice amministrativo non solo la fase del
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controllo di legittimita' dell'azione amministrativa, ma anche (ove configurabile) quella della riparazione
per equivalente, ossia il risarcimento del danno, evitando per esso la necessita' di instaurare un
successivo e separato giudizio innanzi al giudice ordinario; ha chiarito, pero', che il risarcimento del
danno ingiusto non costituisce una nuova materia attribuita alla giurisdizione del giudice
amministrativo, ma esclusivamente uno strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a
quello classico demolitorio, da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica
amministrazione.
In altre parole il legislatore ha inteso realizzare la unificazione della tutela avanti al giudice
amministrativo, concentrando dinanzi allo stesso sia i poteri di annullamento dell'atto illegittimo che la
tutela risarcitoria consequenziale alla pronuncia di legittimita' dell'atto o provvedimento contro cui si
ricorre (argomenta anche dal succitato articolo 113 Cost.), prima riservata al giudice ordinario.
Ne deriva che la attrazione della tutela risarcitoria nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo puo' verificarsi esclusivamente qualora il danno, patito dal soggetto che ha proceduto
alla impugnazione dell'atto, sia conseguenza immediata e diretta (articolo 1223 c.c.) della illegittimita'
dell'atto impugnato; pertanto, qualora si tratti di atto o provvedimento rispetto al quale l'interesse
tutelabile e' quello pretensivo, il soggetto che puo' chiedere la tutela risarcitoria dinanzi al giudice
amministrativo, perche' vittima di danno ricollegabile con nesso di causalita' immediato e diretto al
provvedimento impugnato, e' colui che si e' visto, a seguito di una fondata richiesta, ingiustamente
negare o adottare con ritardo il provvedimento amministrativo richiesto; qualora si tratti di atto o
provvedimento amministrativo rispetto al quale l'interesse tutelabile si configura come oppositivo, il
soggetto che puo' chiedere la tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo e' soltanto colui che e'
portatore dello interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio, che vengono
direttamente pregiudicati dall'atto o provvedimento amministrativo contro il quale ha proposto ricorso.
Soltanto in queste situazioni la tutela risarcitoria si pone come tutela consequenziale e comporta, quindi,
la concentrazione della fase del controllo di legittimita' dell'azione amministrativa e quella della
riparazione per equivalente, ossia il risarcimento del danno, dinanzi all'unico giudice amministrativo.
Tra gli atti rispetto ai quali e' configurabile un interesse pretensivo rientra la concessione edilizia.
Appare opportuno precisare che la concessione edilizia prevista dalla legge n. 10/77 in sostituzione
della licenza edilizia, nonostante il nomen iuris, non e' una concessione. La Corte Costituzionale nella
sentenza 5/1980 ha chiarito che la concessione edilizia ha struttura e funzione di autorizzazione. In
detta sentenza si afferma che il diritto di edificare inerisce alla proprieta' dell'area da edificare (ius
aedificandi), e che tale diritto, pero', puo' essere esercitato solo entro i limiti, anche temporali, stabiliti
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dagli strumenti urbanistici; che sussistendo le condizioni richieste solo il proprietario o il titolare di altro
diritto reale, che legittimi a costruire, puo' edificare, non essendo consentito dal sistema che altri possa,
autoritativamente, essere a lui sostituito per la realizzazione dell'opera; che, quindi, la concessione a
edificare non e' attributiva di diritti nuovi, ma presuppone facolta' preesistenti, sicche' sotto questo
profilo non adempie a funzione sostanzialmente diversa da quella dell'antica licenza, avendo lo scopo di
accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall'ordinamento per l'esercizio del diritto, nei limiti in
cui il sistema normativo ne riconosce e tutela la consistenza.
Il proprietario del suolo o il titolare di altro diritto reale, che legittimi a costruire, hanno, quindi, un
interesse pretensivo al rilascio della concessione edilizia; se il richiedente che si trova nelle condizioni
previste dalla legge per il rilascio di detta li concessione, se la veda ingiustamente negare, puo' insorgere
contro l'illegittimo provvedimento di diniego chiedendo al giudice amministrativo sia il controllo della
legittimita' dell'atto sia il conseguente risarcimento del danno. In questo caso e' ammissibile la
concentrazione di entrambe le tutele dinanzi allo stesso giudice, potendo l'avente diritto al rilascio della
licenza invocare entrambe le tutele. Diversa e' la situazione del proprietario o di altro titolare dello ius
aedificandi che ottenuta la concessione edilizia ed iniziata l'attivita' di edificazione sul fondo facendo
affidamento (incolpevole) sulla (apparente) legittimita' dell'atto, venga successivamente privato del
diritto ad edificare a seguito di annullamento di ufficio della concessione o di annullamento
giurisdizionale della stessa su ricorso di un soggetto (in tal caso titolare di
un interesse oppositivo), che assuma la intervenuta lesione di un suo diritto da parte del provvedimento
impugnato.
In questo caso, intervenuto l'annullamento d'ufficio o giurisdizionale per la riscontrata illegittimita' della
concessione, il proprietario ed il titolare di altro diritto che lo legittima ad edificare, venendo
giustamente privati del diritto ad edificare, non possono invocare, adducendo la perdita di tale facolta',
il risarcimento del danno. Sulla base di questa situazione non possono invocare ne' la tutela demolitoria
di un qualche atto (a meno che non si ritenga di impugnare il provvedimento di ufficio, che, una volta
riconosciuto legittimo non consente piu' di invocare lo ius aedificandi quale fondamento di una
ulteriore tutela) ne' quella risarcitoria alla possibilita' di quel tipo di tutela strettamente collegata. La
legittima privazione del diritto ad edificare non autorizza nessuna delle due tutele e non consente,
quindi, (non costituendo la tutela risarcitoria una autonoma ipotesi di giurisdizione esclusiva) che possa
essere invocata dinanzi al giudice amministrativo la tutela risarcitoria.
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Una volta intervenuto legittimamente l'annullamento della concessione edilizia puo' rilevare
esclusivamente una diversa situazione, sulla quale fondare il risarcimento del danno.
Il titolare dello ius aedificandi, cui sia venuto meno tale diritto, a seguito di annullamento della
concessione edilizia o d'ufficio o su ricorso di un altro soggetto, che sia insorto contro detto
provvedimento (soggetto che, in quanto portatore di un interesse oppositivo all'annullamento dell'atto
puo' chiedere dinanzi al medesimo giudice amministrativo sia la tutela demolitoria che la correlata tutela
risarcitoria), una volta che sia stata definitivamente accertata la illegittimita' della concessione, si trova
privato dello ius aedificandi, senza che sussista un qualche altro provvedimento amministrativo contro
il quale possa insorgere.
Si ha soltanto che il provvedimento che aveva concesso il diritto ad edificare e che, perche' illegittimo,
legittimamente e' stato posto nel nulla e che non rileva, quindi, piu' come provvedimento che rimuove
un ostacolo all'esercizio di un diritto, continua a rilevare per il proprietario del fondo o il titolare di altro
diritto, che lo abiliti a costruire sul fondo, esclusivamente quale mero comportamento degli organi che
hanno provveduto al suo rilascio, integrando cosi', ex articolo 2043 c.c., gli estremi di un atto illecito per
violazione del principio del neminem laedere, imputabile alla pubblica amministrazione in virtu' del
principio di immedesimazione organica, per avere tale atto con la sua apparente legittimita' ingenerato
nel suo destinatario l'incolpevole convincimento (avendo questo il diritto di fare affidamento sulla
legittimita' dell'atto amministrativo e, quindi, sulla correttezza dell'azione amministrativa) di poter
legittimamente procedere alla edificazione del fondo.
In mancanza di un atto impugnabile il proprietario o il titolare di altro diritto che lo abiliti a costruire
sul fondo hanno la esclusiva possibilita' di invocare un'unica tutela (che non essendo collegata alla
impugnabilita' di un atto non puo' essere attratta nell'ambito di applicazione della giurisdizione
esclusiva, atteso che, appare opportuno ribadirlo, la autonoma tutela risarcitoria non costituisce una
ulteriore ipotesi di giurisdizione esclusiva): quella risarcitoria fondata sull'affidamento; viene in
considerazione un danno che oggettivamente prescinde da valutazioni sull'esercizio del potere pubblico,
fondandosi su doveri di comportamento il cui contenuto certamente non dipende dalla natura
privatistica o pubblicistica del soggetto che ne e' responsabile, atteso che anche la pubblica
amministrazione, come qualsiasi privato, e' tenuta a rispettare nell'esercizio della attivita' amministrativa
principi generali di comportamento, quali la perizia, la prudenza, la diligenza, la correttezza. Di quanto
si e' osservato sin qui si puo' offrire questa sintesi.
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In base agli articoli 103 e 113 Cost., il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa
hanno giurisdizione per la tutela contro gli atti della pubblica amministrazione.
La giurisdizione amministrativa e' dunque ordinata ad apprestare tutela - cautelare, cognitoria ed
esecutiva - contro l'agire della pubblica amministrazione, manifestazione di poteri pubblici,
quale si e' concretato nei confronti della parte, che in conseguenza del modo in cui il potere e'
stato esercitato ha visto illegittimamente impedita la realizzazione del proprio interesse
sostanziale o la sua fruizione.
Dei poteri che al giudice amministrativo e' stato dato di esercitare per la tutela degli interessi sacrificati
dall'agire illegittimo della pubblica amministrazione, dal Decreto Legislativo n. 80 del 1998, in poi, ha
iniziato a far parte anche il potere di condanna al risarcimento del danno, in forma di completamento o
sostitutiva: risarcimento che e' percio' volto a contribuire ad elidere le conseguenze di quell'esercizio del
potere che si e' risolto in sacrificio illegittimo dell'interesse sostanziale del destinatario dell'atto.
Casi, come quello in esame, non prospettano un'esigenza di tutela quale quella appena delineata.
La parte che agisce in giudizio non e' stata destinataria di un provvedimento ablatorio, di un
comportamento silenzioso mantenuto su una domanda di provvedimento favorevole o del diniego di
un tale procedimento, atti o comportamenti di cui avrebbe potuto avere ragione di postulare
l'illegittimita' e sollecitare di tale illegittimita' l'affermazione con l'ulteriore eventuale ristoro del danno
che quella illegittimita' gli avesse provocato.
Nel caso in esame, la parte ha ottenuto il rilascio di una concessione edilizia e ha iniziato a realizzare il
manufatto oggetto della concessione.
Questa situazione di fatto non era tale da sollecitare alcuna esigenza di tutela contro un agire illegittimo
della pubblica amministrazione.
L'esigenza di tutela - risarcitoria e solo di tale tipo - affiora in questo come in analoghi casi solo per
l'affidamento ingenerato dal provvedimento favorevole e non richiede che per ottenere il risarcimento
la parte domandi al giudice amministrativo un accertamento a proposito della illegittimita' del
comportamento tenuto dall'amministrazione, perche' questo accertamento essa ha invece interesse a
contrastarlo nel giudizio di annullamento del provvedimento summenzionato da altri provocato e puo'
solo subirlo.
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La parte che invoca la tutela risarcitoria non postula dunque un esercizio illegittimo del potere,
consumato in suo confronto con sacrificio del corrispondente interesse sostanziale, ma la colpa che
connota un comportamento consistito per contro nella emissione di atti favorevoli, poi ritirati per
pronunzia giudiziale o in autotutela, atti che hanno creato affidamento nella loro legittimita' ed
orientato una corrispondente successiva condotta pratica, poi dovuta arrestare.
La possibilita' di questa sola e, quindi, autonoma tutela porta ad escludere la giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, invocata
dalle controparti in applicazione del Decreto Legislativo n. 80 del 1998, articolo 34, come sostituito
dalla Legge n. 205 del 2000, articolo 7, non solo, ma anche quella generale di legittimita', stante la
consistenza di diritto soggettivo della situazione, nel caso di specie, fatta valere. Va dichiarata, pertanto,
la giurisdizione del giudice ordinario, compensando integralmente tra le parti, data la complessita' della
questione, le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte dichiara la giurisdizione del giudice ordinario; compensa le spese.
2.2 Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 4 febbraio 2011, n. 804 : danno da occupazione
appropriativa e indennizzo da occupazione legittima
TESTO DELLA SENTENZA
(omissis)
DIRITTO
1. - In via preliminare, va disposta la riunione dei due appelli, in quanto proposti contro la stessa
sentenza.
2. - Gli appelli non sono fondati e vanno respinti per i motivi di seguito precisati.
3. - Iniziando la disamina dalle ragioni proposte nel ricorso n. 3915 del 2010, evidenziata la palese
inammissibilità del primo motivo che contiene un’istanza di correzione degli errori materiali contenute
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nella sentenza di primo grado e che va proposto con l’apposito rimedio giurisdizionale, rilevato che ai
punti 2 e 3 dell’appello non sono contenute ragioni di doglianza, deve essere esaminato il terzo motivo
di ricorso, con cui si lamenta l’erroneità del ritenuto difetto di giurisdizione del giudice amministrativo
sulla domanda di accertamento dell’inefficacia e dell’inopponibilità dell’atto pubblico notarile di
trasferimento della proprietà dell’immobile oggetto di espropriazione dal CASIC alla società ARPRA. A
parere della difesa appellante, poiché il trasferimento della proprietà è una delle possibili finalità
dell’espropriazione, questo deve essere considerato comportamento riconducibile, anche mediatamente,
all’esercizio del pubblico potere, e quindi ricompreso nell’ambito attribuito alla cognizione del giudice
amministrativo.
4. - La doglianza non ha pregio.
Occorre rilevare che il procedimento espropriativo, nel quale vengono esercitati i poteri autoritativi
spettanti alla pubblica amministrazione, si conclude al momento dell’acquisizione in capo al soggetto
pubblico dell’utilità prima appartenente al privato. L’attività rientrante nell’ambito delle attribuzioni
pubblicistiche è quindi quella che termina, nel caso in specie, con il decreto di esproprio. Da quel
momento in poi, il regime giuridico del bene ablato cessa di essere regolato dal diritto amministrativo
per finire invece nell’ambito del diritto comune e quindi nel regime ordinario della proprietà.
Pertanto, anche a volere accedere all’ampia nozione di riconducibilità al pubblico potere
propugnata dalla difesa appellante, questa non può essere impiegata per travalicare i limiti
ontologici dei procedimenti ablatori. Ne deriva che, completata la fase procedimentale
autoritativa, a nulla rileva l’ulteriore destinazione impressa al bene, atteso che questo è, nelle
more, transitato nella disponibilità, secondo le regole del codice civile, del soggetto
avvantaggiato dall’espropriazione.
Deve quindi ritenersi corretta la valutazione operata dal giudice di prime cure che ha dichiarato, in
relazione alla domanda di dichiarazione di inefficacia e di inopponibilità dell’atto di compravendita, il
proprio difetto di giurisdizione.
5. – (omissis)
8. - Venendo ora alle ragioni sostenute dal CACIP nel ricorso n. 4005 del 2010, viene in rilievo il primo
motivo di diritto, con il quale l’appellante consorzio si duole del rigetto dell’eccezione di difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo in relazione alle domande risarcitorie conseguenti
all’annullamento degli atti del procedimento amministrativo di espropriazione.
20
8.1. - La doglianza non ha pregio.
Va, infatti, ricordato che, a seguito di un lungo travaglio giurisprudenziale, l’attuale assetto del riparto di
attribuzioni tra le due magistrature è nel senso di ritenere che, anche nel caso di procedimento
espropriativo non soggetto alle norme del D.P.R. n. 327/2001, rientra nella giurisdizione del giudice
amministrativo un’azione con la quale i proprietari di un’area hanno chiesto la restituzione del fondo, o
in subordine il risarcimento dei danni, deducendo la sopravvenuta illegittimità degli atti di occupazione,
ancorché originariamente avvenuti a seguito di una corretta dichiarazione di pubblica utilità. Rientra,
invece, nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda relativa alla richiesta dell'indennità di
occupazione legittima, in applicazione, ratione temporis, dell’art. 34 d.lgs. n. 80/1998, come sostituito
dall’art. 7, comma 1, lett. b), l. n. 205/2000, senza che l’eventuale connessione tra tale domanda e quella
di risarcimento del danno può giustificare l'attribuzione di entrambe le domande allo stesso giudice,
essendo indiscusso in giurisprudenza il principio generale dell'inderogabilità della giurisdizione per
motivi di connessione (da ultimo, Cassazione civile, sez. un., 9 febbraio 2010, n. 2788).
Pertanto, in disparte ogni considerazione sulla circostanza di quanto in concreto sia stata accolta la
domanda, deve ritenersi che in ogni caso la giurisdizione sia stata correttamente radicata dinanzi al
giudice amministrativo.
9. – (omissis).
3. In base al criterio ordinario di riparto spettano al giudice amministrativo tutte le
controversie nelle quali si faccia questione del corretto esercizio del potere
pubblico da parte di un soggetto pubblico.
3.1 Nozione di p.a.
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 22 dicembre 2011, n. 28329
Testo
(omissis)
DIRITTO
(omissis)
21
Con il primo motivo la ricorrente in sostanza deduce la erroneità della qualificazione della 'selezione per
personale giornalistico 2010' della RAI come 'procedura concorsuale', e la inesistenza nella specie di
qualsivoglia situazione giuridica soggettiva in capo al […], in quanto il provvedimento impugnato
dinanzi al giudice amministrativo non era un bando di concorso, essendo semplicemente finalizzato alla
selezione di un gruppo di persone che la RAI si riservava di assumere o meno, a seconda delle future
esigenze aziendali.
Con il secondo motivo la ricorrente rileva la erroneità della qualificazione della s.p.a. RAI come ente
equiparato alla pubblica amministrazione, deducendo che la RAI è una società per azioni (art. 49 d.lgs.
n. 177/2005) equiparata agli enti pubblici soltanto a determinati fini, e cioè con riguardo alla disciplina
degli appalti e alla responsabilità contabile dei funzionari, ma non in relazione alla disciplina
dell'organizzazione interna, interamente sottratta al diritto pubblico, ed aggiungendo che la scelta
legislativa in favore della natura privatistico societaria della RAI, è stata dettata proprio dall'intento di
differenziare la RAI dalle amministrazioni pubbliche, sicché equiparare la prima alle seconde per via
giurisprudenziale costituirebbe una 'invasione del merito legislativo', non consentita all'Autorità
Giudiziaria. La ricorrente, inoltre, deduce che:
- la nomina di taluni consiglieri d'amministrazione da parte di una commissione parlamentare non è
risolutiva per affermare la natura di ente pubblico della RAI, perché caratteristica comune a tutte le
società per azioni di interesse nazionale;
- l'indisponibilità dello scopo sociale è comune a numerose imprese, ivi comprese quelle
indubitabilmente private operanti nel settore radiotelevisivo, le quali non possono avere altro oggetto
sociale che l'esercizio dell'attività radiotelevisiva;
- la percezione di fondi pubblici consegue alla scelta originaria, secondo la quale la concessionaria del
servizio pubblico radiotelevisivo, ancorché società per azioni, dovesse essere in mano pubblica;
- la sottoposizione ai poteri di vigilanza di un'apposita commissione parlamentare non depone per la
natura pubblica dell'ente, ed anzi prescinde dalla forma prescelta per lo stesso;
- il controllo della Corte dei Conti discende dal fatto che la RAI rientra tra gli enti, non necessariamente
pubblici, destinatari di contribuzioni ordinarie da parte dello Stato;
- l'obbligo dell'osservanza delle procedure di evidenza pubblica nell’affidamento degli appalti, scaturisce
dall’inquadramento a tal fine negli 'organismi di diritto pubblico' ai sensi della normativa comunitaria in
materia ma non implica affatto la natura pubblica dell'ente.
22
Con il terzo motivo la ricorrente, deduce che anche le norme generali sul riparto di giurisdizione di cui
agli artt. 7 e 133 del Codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104 del 2010) escludono nella
fattispecie la giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto la RAI non è titolare di poteri
autoritativi e nell’esercizio della propria attività non emana provvedimenti amministrativi, rilevando
altresì che neppure potrebbe dilatarsi 'a dismisura' l’ambito applicativo dell’art. 63 c. 4 del d.lgs. n. 165
del 2011, in forza della 'generalissima disposizione' contenuta nell’art. 18 comma 2 del d.l. 112 del 2008
(conv. con l. n. 133 del 2008), con conseguente 'surrettizio ampliamento della giurisdizione' del giudice
amministrativo.
In primo luogo, osserva il Collegio che la RAI - Radiotelevisione italiana s.p.a. è designata direttamente
dalla legge (vedi ora art. 49 comma 1 del d.lgs. n. 177 del 31-7-2005 – 'T.U. dei servizi di media
audiovisivi e radiofonici' -, e già art. 20 comma 1 della legge n. 112 del 3-5-2004) quale concessionaria
(fino al 6-5-2016) del 'servizio pubblico generale radiotelevisivo' (in precedenza sulla 'natura' di s.p.a. di
'interesse nazionale ex art. 2461 c.c.' (ora art. 2451 c.c.) della società concessionaria v. art. 1 della legge
n. 206 del 1993 e sulla previsione della concessione 'ad una società per azioni a totale partecipazione
pubblica' v. art. 2 comma 2 della legge n. 223 del 1990 e, prima ancora, art. 3 della legge n. 103 del 1975;
da ultimo, invece, sulla previsione dell’avvio del processo di 'dismissione della partecipazione dello
Stato' v. art. 21 della legge n. 112 del 2004, richiamato nel comma 13 dell’art. 49).
Il secondo comma, poi, del citato articolo 49 del T.U. stabilisce espressamente che 'per quanto non sia
diversamente previsto dal presente testo unico la Rai Radiotelevisione s.p.a. è assoggettata alla disciplina
generale delle società per azioni, anche per quanto concerne l'organizzazione e l’amministrazione'.
La RAI è quindi una società per azioni per volontà stessa del legislatore (che peraltro con l'art. 21 della
legge n. 112 del 2004 ha previsto anche la incorporazione della 'Rai-Radiotelevisione italiana s.p.a.' nella
RAI-Holding s.p.a.' nonché, 'per l'effetto', la assunzione da parte della incorporante della
denominazione sociale di 'RAI- Radiotelevisione italiana s.p.a.') e, seppure soggetta ad una disciplina
particolare per determinati aspetti ed a determinati fini, riguardanti anche la giurisdizione, chiaramente
dettata da interessi di natura pubblica, per tutto quanto non diversamente previsto non può che essere
regolata secondo il regime generale delle società per azioni.
In particolare va premesso che il T.U. citato, all'art. 7 chiarisce che la RAI è 'la società del servizio
pubblico generale radiotelevisivo' istituita 'al fine di favorire l’istruzione, la crescita civile e il progresso
sociale, di promuovere la lingua italiana e la cultura, di salvaguardare l’identità nazionale e di assicurare
prestazioni di utilità sociale', con il contributo pubblico da essa percepito, costituito dal canone versato
dagli utenti, che 'è utilizzabile esclusivamente ai fini dell’adempimento dei compiti di servizio pubblico
23
generale affidati alla stessa (all’uopo l’art. 47 dello stesso T.U. prevede la tenuta di 'una contabilità
separata' e il divieto di 'utilizzare, direttamente o indirettamente, i ricavi derivanti dal canone per
finanziare attività non inerenti al servizio pubblico' – in tal senso v. già art. 18 della legge n. 112 del
2004 - ).
La norma, peraltro, precisa che l'informazione radiotelevisiva di qualsiasi emittente costituisce
comunque un 'servizio di interesse generale'.
L’art. 49 disciplina gli organi, i relativi poteri e le relative nomine, stabilendo tra l'altro che spetta alla
Commissione parlamentare di vigilanza il potere di nominare i sette noni del consiglio di
amministrazione 'fino a che il numero delle azioni alienate non superi la quota del 10 per cento del
capitale'.
La RAI è poi sottoposta a penetranti poteri di vigilanza da parte della detta Commissione parlamentare
(art. 50) e alla verifica dell’adempimento dei compiti affidata all’Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni (art. 48), nonché al controllo della Corte dei Conti (ai sensi dell’art. 2 della legge n. 259
del 1958, trattandosi di ente 'cui lo Stato contribuisce in via ordinaria' e, dal 2010, a seguito del DPCM
10-3-2010, ai sensi dell'art. 12 della stessa legge, configurandosi, con riguardo alla intervenuta recente
fusione sopra richiamata, la fattispecie tipica dell'apporto statale al patrimonio in capitale).
In tale quadro, poi, è stato precisato da questa Corte che 'poiché la RAI è un'impresa pubblica (sotto
forma societaria, in cui lo Stato ha una partecipazione rilevante) operante nel settore dei 'servizi'
pubblici di telecomunicazioni radio e televisive in concessione, assoggettata, ai poteri di vigilanza e di
nomina da parte dello Stato e costituita per soddisfare finalità di interesse generale, essa deve essere
qualificata come 'organismo di diritto pubblico' tenuto ad osservare le norme comunitarie di evidenza
pubblica, nonché le rispettive norme interne attuative, per la scelta dei propri contraenti in tutti gli
appalti di valore eccedente le soglie indicate per i servizi di cui all'art. 7 del d.lgs. n. 158 del 1995 (ad
eccezione delle sole procedure per l’aggiudicazione di appalti che siano relativi specificamente a servizi
di radiodiffusione e televisione - settore 'escluso' dalla Direttiva 92/50/CEE del 18 giugno 1992)', con
le relative conseguenze in ordine alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art.
33, lett. d) del d.lgs. n. 80 del 1998 come sostituito dall’art. 7, comma 1, lett. a) della legge n. 205 del
2000 (v. Cass. S.U. 23-4-2008 n. 10443).
Nello stesso quadro, infine, pur sempre delimitato, va collocata la affermazione della sostanziale
'assimilabilità' della RAI ad un 'ente pubblico' al fine della qualificabilità come danno erariale del danno
cagionato dai suoi agenti e della conseguente loro assoggettabilità all'azione di responsabilità
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amministrativa davanti al giudice contabile, peraltro connessa al controllo ex l. n. 259 del 1958 al quale è
assoggettata (v. Cass. S.U. 22-12-2009 n. 27092).
Orbene, tali aspetti particolari, costituiscono pur sempre dei segmenti speciali di una disciplina che,
comunque, per tutto quanto non diversamente disposto si rifà al regime proprio delle società per azioni.
Del resto la espressa configurazione per legge in tal senso non potrebbe di certo assumere una valenza
assolutamente 'neutrale'.
In conclusione la RAI-Radiotelevisione Italiana, anche se fortemente caratterizzata dagli evidenziati
peculiari aspetti e tuttora in mano pubblica, resta pur sempre una società per azioni, e ciò deve vieppiù
affermarsi a seguito della legge n. 112 del 2004 e del T.U. n. 177 del 2005 (in precedenza sulla natura
privatistica della RAI v. fra le altre Cass. S.U. 26-11-1996 n. 10490, Cass. 13-8-2002 n. 12200).
Sulla base di tale premessa deve quindi escludersi che, con riferimento alla stessa, possa applicarsi la
riserva della giurisdizione del giudice amministrativo, 'in materia di procedure concorsuali per
l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni', di cui all'art. 63 comma 4 del d.lgs. n. 165
del 2001.
La RAI, infatti, non è in alcun modo annoverabile tra le pubbliche amministrazioni indicate nell'art. 1
comma 2 dello stesso d.lgs..
Né all'uopo potrebbe invocarsi l'ampia espressione contenuta nell'art. 7 comma 2 del Codice del
processo amministrativo, d.lgs. n. 104 del 2010 ('Per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente
codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del
procedimento amministrativo'). Il detto articolo, infatti, come si legge nella Relazione trasmessa dal
Governo al Senato, 'definisce la giurisdizione del giudice amministrativo in ossequio alle norme
costituzionali e ai noti principi dettati dalla Corte Costituzionale, in particolare nelle sentenze nn. 204
del 2004 e 191 del 2006. In applicazione di tali regole e principi la giurisdizione amministrativa è
strettamente connessa all'esercizio (o al mancato esercizio) del potere amministrativo e in tale ambito
rientrano in essa le controversie concernenti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili
anche mediatamente a detto potere. L'articolo 7 costituisce una clausola generale tesa a spiegare la ratio
delle diverse ipotesi di giurisdizione amministrativa in termini unitari'
In definitiva ciò che è comunque essenziale è la riconducibilità dell'atto, del provvedimento o del
comportamento all'esercizio di un pubblico potere (cfr. C. Cost. n. 191 del 2006, n. 35 del 2010),
esercizio che è del tutto assente in capo alla RAI.
25
Alla luce, quindi, di quanto espresso nella richiamata Relazione, deve escludersi qualsiasi incidenza
innovativa dell'art.7 comma 2 citato sulla estensione della giurisdizione amministrativa nella materia
delle procedure concorsuali come prevista dall’art. 63 comma 4 d.lgs. n. 165 del 2001, tanto meno in
combinato disposto con l’art. 18 comma 2 del d.l. n. 112 del 2008, conv. con l. n. 133 del 2008 ('Le altre
società a partecipazione pubblica totale o di controllo adottano, con propri provvedimenti, criteri e
modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi,
anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, pubblicità e imparzialità').
In primo luogo l’art. 7 comma 2 citato non contiene alcun rinvio all’art. 18 comma 2 citato, con la
conseguenza che tale ultima disposizione di natura chiaramente sostanziale non può assumere di per sé
alcuna rilevanza processuale, tanto meno al fine di un allargamento della giurisdizione del giudice
amministrativo prevista dall’art. 63 comma 4 del d.lgs. n. 165 del 2001.
L'obbligo, poi, di adottare i detti 'criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il
conferimento degli incarichi', si inserisce pur sempre nell'agire (jure privatorum) della società, senza
comportare esercizi di pubbliche potestà e senza incidere sulla giurisdizione.
Inoltre non può ignorarsi che la riserva della giurisdizione del giudice amministrativo in materia di
procedure concorsuali, ex art. 63 comma 4 d. lgs. n. 165 del 2001, presuppone la finalità della
instaurazione di un rapporto di lavoro pubblico, seppure contrattualizzato, alle dipendenze di una
pubblica amministrazione e non può affatto configurarsi in funzione della insorgenza di un rapporto di
lavoro privato alle dipendenze di una società per azioni.
Infine, con riferimento alla fattispecie in esame, neppure può trascurarsi che la selezione de qua
('riservata a giornalisti professionisti di lingua italiana da utilizzare, per future esigenze, con contratti di
lavoro subordinato a tempo determinato in qualità di redattore ordinario, nelle redazioni giornalistiche
regionali' delle regioni e province autonome indicate) non ha ad oggetto, in via immediata, l'assunzione
di giornalisti, ma solo l’individuazione di un gruppo di giornalisti idonei in vista di future assunzioni, di
guisa che anche sotto tale profilo non potrebbe invocarsi l’art. 63 comma 4 del d.lgs. 165/2001 (per
un'ipotesi analoga v. Cass. 13-8-2002 n. 12200 cit.).
In conclusione, sul regolamento preventivo di giurisdizione proposto, nella controversia in esame va
dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario.
Infine in considerazione della complessità e della novità delle questioni trattate, le spese del presente
giudizio vanno compensate tra le parti.
26
P.Q.M.
Pronunciando sul ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, compensa le spese e
rimette le parti davanti al tribunale civile.
3.2 Potere pubblico
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza del 3 giugno 2011, n.10
DIRITTO
(omissis)
Sul merito dei ricorsi di primo grado
33. Superati tutti gli ostacoli frapposti dalle numerose questioni pregiudiziali e preliminari, occorre
procedere all’esame, per la prima volta, dei ricorsi di primo grado, espressamente e integralmente
riproposti.
I motivi dei ricorsi di primo grado si incentrano sulle seguenti questioni:
a) dalle deliberazioni prodromiche alla scissione non emergerebbero le ragioni di interesse pubblico e in
particolare le finalità istituzionali sottese alla creazione della società di engineering;
b) le Università non potrebbero partecipare, quali operatori economici, a gare di appalto e
pertanto non potrebbero allo scopo costituire una società con socio unico né potrebbero agire
quali imprenditori sul mercato;
c) la società di engineering sarebbe stata dotata di un capitale di quasi tre miliardi di vecchie lire (lire
2799 milioni), provenienti da un finanziamento statale destinato ad altro scopo (il recupero urbanistico
di Venezia);
d) le Università hanno fini non lucrativi di ricerca e di insegnamento, per cui non potrebbero
costituire una società con fini di lucro;
e) si sarebbe creata una società privata a fine di lucro, che opera sul mercato in concorrenza con
operatori privati, fruendo di finanziamento pubblico, così creandosi una evidente distorsione di
mercato.
33.1. L’ordinanza di rimessione ritiene che le Università, aventi finalità di insegnamento e di
ricerca, possano dare vita a società, nell’ambito della propria autonomia organizzativa e
27
finanziaria, solo per il perseguimento dei propri fini istituzionali, e non per erogare servizi
contendibili sul mercato.
Tanto, ad avviso dell’ordinanza di rimessione, in virtù di un principio che si desume dall’ordinamento, e
che è ora codificato dall’art. 27, co. 3, l. n. 244/2007.
34. In punto di diritto, il collegio, condividendo quanto affermato nell’ordinanza di rimessione, ritiene
che l’art. 27, co. 3, l. n. 244/2007 esprima un principio di carattere generale che era immanente
nell’ordinamento anche prima della sua esplicitazione positiva.
34.1. Dispone, infatti, la citata disposizione che, “al fine di tutelare la concorrenza e il mercato, le
amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non
possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente
necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere
direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. E’ sempre ammessa la costituzione di
società che producono servizi di interesse generale e che forniscono servizi di committenza o di centrali
di committenza (…)”.
La disposizione in questione evidenzia un evidente disfavore del legislatore nei confronti della
costituzione e del mantenimento da parte delle amministrazioni pubbliche (ivi comprese le Università)
di società commerciali con scopo lucrativo, il cui campo di attività esuli dall’ambito delle relative finalità
istituzionali, né risulti comunque coperto da disposizioni normative di specie (secondo il modello delle
c.d. ‘società di diritto singolare’).
Si osserva al riguardo che la Corte costituzionale, nel dichiarare infondata la questione di legittimità
costituzionale relativa ai commi 27 e 29, con la sentenza 4 maggio 2009 n. 148, ha sottolineato come
essi abbiano inteso rafforzare la distinzione tra l’esercizio della attività amministrativa in forma
privatistica (posta in essere da società che operano per una pubblica amministrazione con effettivo
carattere di strumentalità, configurandosi nei fatti quali mere modalità organizzative per l’esercizio di
compiti tipici dell’Ente pubblico di riferimento) e l’esercizio della attività di impresa da parte degli enti
pubblici, mirando altresì ad evitare che quest'ultima possa essere svolta beneficiando dei privilegi dei
quali un soggetto può godere in quanto pubblica amministrazione.
34.2. Così interpretata la ratio della citata disposizione, essa esprime un principio già in precedenza
immanente nel sistema.
Il sistema, anche anteriormente alla l. n. 244/2007, era connotato dalle seguenti coordinate
fondamentali:
a) l’attività di impresa è consentita agli enti pubblici solo in virtù di espressa previsione;
b) l’ente pubblico che non ha fini di lucro non può svolgere attività di impresa, salve espresse deroghe
normative;
28
c) la possibilità di costituzione di società in mano pubblica, operanti sul mercato, è ordinariamente
prevista da espresse disposizioni legislative; non di rado è la legge a prevedere direttamente la creazione
di una società a partecipazione pubblica;
d) la costituzione di società per il perseguimento dei fini istituzionali propri dell’ente pubblico è
generalmente ammissibile se ricorrono i presupposti dell’in house (partecipazione totalitaria pubblica,
esclusione dell’apertura al capitale privato, controllo analogo, attività esclusivamente o prevalentemente
dedicata al socio pubblico), e salvi specifici limiti legislativi (v. art. 23-bis, co. 3, d.l. n. 112/2008 conv.
in l. n. 133/2008).
34.3. Un conto è, dunque, la costituzione di una società in house, da parte di un ente pubblico senza
fine di lucro, che è in sé un modulo organizzativo neutrale, che rientra nell’autonomia organizzativa
dell’ente, con il limite intrinseco che ogni forma organizzativa è sempre e necessariamente strumentale
al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente medesimo, e salvi specifici limiti legislativi.
Un altro conto è la costituzione, da parte di un ente pubblico, di una società commerciale che non operi
con l’ente socio, ma operi sul mercato, in concorrenza con operatori privati, e accettando commesse sia
da enti pubblici che da privati.
La società commerciale facente capo ad un ente pubblico, operante sul mercato in concorrenza con
operatori privati, necessita di previsione legislativa espressa, e non può ritenersi consentita in termini
generali, quanto meno nel caso in cui l’ente pubblico non ha fini di lucro.
La stessa Corte costituzionale, nel ribadire l’intangibilità in via di principio della libertà di iniziativa
economica privata degli Enti pubblici, ha altresì sottolineato la necessità di “evitare che soggetti dotati
di privilegi operino in mercati concorrenziali” (sentenza n. 326/2008). L’approccio in questione, del
resto, appare pienamente compatibile con il paradigma normativo comunitario secondo cui è fatto
divieto agli Stati membri di emanare o mantenere, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese
cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, misure contrarie alle disposizioni dei trattati, con particolare
riguardo a quelle in tema di tutela della concorrenza e divieto di erogazione di aiuti di Stato (art. 106
TFUE – già art. 86 TCE).
34.4. L’evoluzione normativa mostra un netto sfavore per la costituzione e mantenimento di società da
parte di enti pubblici, persino per quanto riguarda gli enti locali, nonostante il loro riconoscimento
costituzionale come enti territoriali autonomi a fini generali, e persino quando si tratta di società create
per i fini istituzionali dell’ente (art. 13, d.l. n. 223/2006; art. 23-bis, d.l. n. 112/2008; art. 14, co. 31, d.l.
n. 78/2010).
34.5. Tanto vale anche per le Università, la cui riconosciuta e indiscussa autonomia organizzativa e
finanziaria incontra il limite interno invalicabile della rigorosa strumentalità rispetto alle finalità
istituzionali.
Viene in rilevo, sotto tale profilo, l’art. 6, co. 4, l. n. 168/1989, il quale, nell’individuare le Università
quali ‘sedi primarie della ricerca scientifica’ e nel ribadire il necessario rispetto della libertà di ricerca dei
docenti e dei ricercatori nonché dell'autonomia di ricerca delle strutture scientifiche, stabilisce – con
29
inciso dall’evidente carattere di chiusura – che le richiamate prerogative siano riconosciute alle
Università pur sempre “per la realizzazione delle proprie finalità istituzionali”.
Viene anche in considerazione lo Statuto di IUAV, che sia nel testo vigente all’epoca dei fatti che in
quello attuale, dispone espressamente che “(…)L’Università IUAV, ferma restando l’esclusione di
qualunque scopo di lucro ha piena capacità di diritto pubblico e privato(…) è legittimata a porre in
essere ogni atto negoziale, anche a titolo oneroso, idoneo al perseguimento delle proprie finalità
istituzionali, ivi compresi gli atti di costituzione o di adesione (…) a società di capitali (…)”.
E’ evidente il nesso di stretta strumentalità del negozio societario rispetto ai fini istituzionali dell’Ente.
In assenza di una disposizione di legge in senso contrario, sembra che il logico corollario sia
rappresentato dal generale divieto per tali Istituzioni di istituire società di capitali con scopo meramente
lucrativo (le cui finalità, per definizione, esulano dal perseguimento delle tipiche finalità istituzionali).
34.6. Né militano in senso favorevole alla possibilità di costituire società commerciali operanti sul
mercato le previsioni dell’art. 7, l. n. 168/1989 e dell’art. 66, d.P.R. n. 382/1980.
L’art. 7, relativo all’autonomia finanziaria e contabile dell’Università, dispone che le sue entrate sono, tra
l’altro, costituite da “c) forme autonome di finanziamento, quali contributi volontari, proventi di
attività, rendite, frutti e alienazioni del patrimonio, atti di liberalità e corrispettivi di contratti e
convenzioni”.
La circostanza che siano previsti i corrispettivi di contratti e convenzioni non autorizza per ciò solo a
ritenere che sia consentito qualsivoglia contratto, e segnatamente il contratto costitutivo di società
commerciale, perché si deve pur sempre trattare di contratti consoni ai fini istituzionali dell’Ente.
A sua volta l’art. 66, d.P.R. n. 382/1980, prevede che “Le Università, purché non vi osti lo svolgimento
della loro funzione scientifica didattica, possono eseguire attività di ricerca e consulenza stabilite
mediante contratti e convenzioni con enti pubblici e privati. L'esecuzione di tali contratti e convenzioni
sarà affidata, di norma, ai dipartimenti o, qualora questi non siano costituiti, agli istituti o alle cliniche
universitarie o a singoli docenti a tempo pieno”.
Infatti tale previsione intanto pone un limite di compatibilità e pertinenza della ricerca e consulenza,
rispetto ai fini istituzionali, e inoltre prevede una specifica formula organizzativa, atteso che l’esecuzione
di contratti e convenzioni deve avvenire tramite le ordinarie strutture dell’Università, e non mediante
società commerciali.
Sono previste poi una rigorosa ripartizione dei proventi delle prestazioni e dei contratti e una precisa
destinazione delle entrate, finalizzate al finanziamento dei compiti istituzionali dell’Università.
34.7. Il Collegio concorda anche con quanto osservato nell’ordinanza di rimessione, in ordine
all’irrilevanza, ai fini del presente giudizio, del mutato panorama giurisprudenziale in ordine alla
questione se le Università possano o meno partecipare, in veste di operatori economici, a gare di
appalto, per le ragioni già esposte nel par. 32.
30
Si impone tuttavia una puntualizzazione in ordine ai limiti entro cui l’Università può, tramite apposita
società, agire quale operatore economico nei confronti di committenza pubblica, oltre che privata.
L’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici con la determinazione 21 ottobre 2010 n. 7, alla luce
dell'orientamento espresso dalla C. giust. CE, ha sostenuto che “non sembra potersi affermare, in via
generale, l'esistenza di un divieto per gli operatori pubblici a partecipare alle procedure ad evidenza
pubblica. (…) Al contrario, la possibilità per le Università di operare sul mercato sarebbe espressamente
prevista dall'articolo 7, comma 1, lett. c), della legge 168/1989, che include, tra le entrate degli atenei,
anche i corrispettivi di contratti e convenzioni, nonché dall’articolo 66, del d.P.R. 382/1980, (…) che
prevede che le Università possano eseguire attività di ricerca e consulenza, stabilite mediante contratti e
convenzioni con enti pubblici e privati, con l’unico limite della compatibilità delle suddette attività con
lo svolgimento della funzione scientifica e didattica che per gli Atenei rimane prioritaria”.
Ad avviso del Collegio, il limite non è di mera compatibilità, ma di stretta strumentalità.
L’attività di ricerca e consulenza, anche se in favore di enti pubblici, non può essere indiscriminata, sol
perché compatibile, ma deve essere strettamente strumentale alle finalità istituzionali dell’Ente, che
sono la ricerca e l’insegnamento, nel senso che giova al progresso della ricerca e dell’insegnamento, o
procaccia risorse economiche da destinare a ricerca e insegnamento.
Non si può pertanto trattare di un’attività lucrativa fine a sé stessa, perché l’Università è e rimane un
ente senza fine di lucro.
Entro i limiti sopra disegnati, deve ammettersi che l’Università possa agire quale operatore economico
nei confronti di committenti pubblici (o ad essi equiparati ai sensi del d.lgs. n. 163/2006), non solo in
via diretta, ma anche mediante apposita società (come consentito dalla stessa Autorità di vigilanza sin
dalla deliberazione 18 aprile 2007 n. 119).
35. In tale prospettiva, occorre allora verificare, passando al caso concreto, se la società ISP s.r.l. sia o
meno strettamente necessaria al perseguimento delle finalità istituzionali dell’Università IUAV.
35.1. Si deve anzitutto escludere che ISP s.r.l. abbia i requisiti di una società in house, in quanto:
- pur essendo, al momento attuale, una società a totale partecipazione pubblica, lo statuto prevede la
possibilità di cessione delle azioni a terzi soggetti, non necessariamente pubblici (art. 6 statuto);
l’apertura al capitale privato esclude la sussistenza dell’in house [C. giust. CE 13 ottobre 2005 C-
458/03, Parking Brixen Gmbh; C. giust. CE, 6 aprile 2006 C-410/04, Anav c. Comune di
Bari; Cons. St., sez. V, 22 aprile 2004 n. 2316; Cons. St., sez. V, 13 luglio 2006 n. 4440; Cons. St.,
sez. V, 30 agosto 2006 n. 5072; Cons. St., sez. VI, 1 giugno 2007 n. 293];
- la società non è esclusivamente o prevalentemente dedicata ai soci pubblici, atteso che può operare sul
mercato, anche nei confronti di committenti privati.
35.2. Si deve anche escludere che ISP s.r.l. sia stata inizialmente costituita per consentire all’Università
di partecipare, quale operatore economico, a procedure di affidamento ai sensi del d.lgs. n. 163/2006:
31
l’oggetto sociale, testualmente riportato in altro paragrafo della presente decisione, è ben più ampio,
potendo ISP s.r.l. agire quale imprenditore sul mercato, nei confronti di committenti pubblici e privati.
35.3. Invece, ISP s.r.l. si configura, in base al suo statuto all’indomani della scissione, come società
commerciale a fine di lucro.
Va allora esclusa la sussistenza di un vincolo di stretta necessità della società in relazione alle finalità
istituzionali, se sol si considera l’ampiezza dell’oggetto sociale, che secondo l’atto costitutivo, include fra
le attività esercitabili (inter alia e solo a mo’ di esempio) la somministrazione e vendita al pubblico di
alimenti e bevande, la locazione di immobili, la concessione di fidejussioni e garanzie, la generica
possibilità di partecipare al capitale di altre società.
E se è vero che tali profili esulano dall’odierna materia del contendere, delimitata dall’interesse delle
categorie professionali rappresentate dagli Ordini ricorrenti, è anche vero che, pur avendo riguardo alla
parte di oggetto sociale relativo all’engineering, i compiti di progettazione e consulenza sono descritti
con tale ampiezza da escludere la necessaria correlazione con i compiti istituzionali della didattica e
della ricerca scientifica.
Dalle stesse delibere dell’Università prodromiche alla scissione societaria (verbali del Senato accademico
del 13 e del 22 marzo 2002) non si evincono le ragioni istituzionali che giustificano la costituzione di
una società di engineering.
E’ vero, poi, che:
- nella delibera del 21 marzo 2002 si ipotizza “la prossima costituzione in seno allo IUAV di un
“Comitato” chiamato a valutare la conformità delle commesse oggetto dell’attività della società di
engineering con le finalità istituzionali di ricerca e formazione dello IUAV”;
- nella seduta del 22 gennaio 2003 il Senato accademico delibera di “nominare un comitato composto
dai direttori dei dipartimenti dell’ateneo per definire la missione della società e i criteri attraverso i quali
essa raggiunge i propri obiettivi”.
Tuttavia dell’operato di tale Comitato non vi è traccia negli atti successivi.
Sicché non risulta che in virtù di atto parasociale l’oggetto sociale sia stato delimitato e mirato al
perseguimento dei fini istituzionali dell’Università; né vi è traccia di una “strumentalità finanziaria” della
società, nel senso della destinazione degli utili ai fini istituzionali della didattica e della ricerca scientifica.
36. E’ doveroso verificare se le successive vicende abbiano modificato o meno l’originaria
configurazione della società come società commerciale.
36.1. In prosieguo, infatti, il 20% del capitale sociale è stato ceduto a titolo oneroso all’Università di
Verona.
32
Ne è seguito un accordo tra le due Università, ex art. 15, l. n. 241/1990 che prevede una serie di
impegni da attuarsi mediante modifica dello statuto e mediante direttive agli amministratori; si prevede,
infatti:
a) la futura modifica dello statuto societario per garantire “la strumentalità della società rispetto ai fini
istituzionali e strumentali di entrambe le Università”;
b) l’impegno delle Università a dare opportune istruzioni agli amministratori e a vigilare sul loro
operato, affinché la società realizzi la parte più importante della sua attività a favore degli enti soci.
In attuazione di tale accordo, il verbale di assemblea del 10 luglio 2006 ha approvato modifiche
statutarie.
L’art. 1.2. del nuovo statuto prevede che: “nel perseguimento del proprio oggetto sociale, la società
opera quale ente strumentale e servente dei propri soci, che intendono unire le sinergie e le specifiche
conoscenze relativamente alle problematiche dell’edilizia universitaria, per una più efficiente e adeguata
attività di progettazione”.
L’art. 3 quanto all’oggetto sociale prevede che “L’attività che costituisce l’oggetto sociale consiste nel
condurre, quale ente strumentale dell’università, lavori di particolare complessità, utili all’avanzamento
della ricerca e della riflessione teorica, essere luogo di tirocinio per gli studenti ed esercitare funzione di
promozione per giovani laureati e quindi nell’espletare tutte le attività di studio, ricerca, progettazione
ed organizzazione tecnica strumentali e connesse alla promozione, sviluppo e realizzazione di progetti
ed appalti nel settore dell’ingegneria, dell’edilizia, dell’urbanistica e delle infrastrutture, comprese le
opere ferroviarie, stradali, marittime, portuali ed aeroportuali, gli studi di impatto ambientale e di tutela
e sviluppo dell’ambiente naturale, sia in Italia che all’estero, e in particolare: “segue l’elenco dei compiti
già in precedenza attribuiti alla società”.
36.2. Peraltro, lo statuto e l’atto costitutivo, al di là della formale enunciazione della strumentalità della
società rispetto ai fini istituzionali universitari, non indicano con chiarezza i poteri di direttiva dei soci e
il potere di controllo della finalizzazione delle attività della società ai fini istituzionali dell’Università,
così come non è indicata con chiarezza la devoluzione degli utili al soddisfacimento dei fini istituzionali.
Permane inoltre la possibilità di ingresso nel capitale azionario di soci privati.
Residua quindi un margine di ambiguità, sembrando consentite attività in favore di committenza
privata, senza un adeguato controllo istituzionale. Né sono stati prodotti in giudizio patti parasociali che
delimitino l’ambito di operatività della società.
Del resto, i limiti dell’oggetto sociale e i poteri di direttiva e controllo dei soci devono essere evincibili
dall’atto costitutivo e dallo statuto, al fine dell’opponibilità ai terzi e della tutela di questi ultimi. Un
eventuale patto parasociale (soggetto a iscrizione solo nelle società quotate in borsa, ex art. 122, t.u. n.
58/1998) avrebbe efficacia solo tra le parti [Cass. civ., sez. I, 5 marzo 2008 n. 5963] ma non inciderebbe
sull’azione della società nei rapporti con i terzi.
33
37. Alla luce di quanto esposto gli atti prodromici impugnati sono illegittimi perché prevedono la
costituzione di una società commerciale di engineering senza prevedere limiti puntuali che ne
garantiscano la stretta strumentalità rispetto ai fini istituzionali dell’Università.
Invece, tali atti avrebbero dovuto prevedere:
(i) una stretta connessione tra l’oggetto sociale e le finalità istituzionali dell’Università;
(ii) adeguati meccanismi per assicurare la strumentalità, quali la previsione di una precisa definizione
della missione della società in ordine al tipo di progetti da svolgere (sulla base di incarichi provenienti
da committenza pubblica o privata, purché inerenti a opere che ponessero problematiche proficue per
la ricerca e la didattica), la previsione che la società avrebbe impiegato esclusivamente docenti e studenti
universitari, ovvero neolaureati entro un limite temporale massimo e la previsione delle modalità di
impiego di tali soggetti;
(iii) adeguati strumenti di controllo da parte dei soci sull’operato della società;
(iv) la destinazione degli utili ai fini istituzionali dell’Università;
(v) l’esclusione dell’ingresso di soci privati.
38. Quanto alla diversa censura della destinazione a tale società di una parte dei fondi destinati alla
salvaguardia del patrimonio architettonico, urbanistico e ambientale di Venezia (l. n. 798/1984), essa è
priva di adeguato supporto probatorio.
Invero, l’IUAV inizialmente acquistava un immobile e la società proprietaria di esso con una spesa di 6
miliardi di lire, di cui 4,5 miliardi di finanziamento statale e 1,5 miliardi di risorse proprie dell’Università,
nell’anno 1996.
Nel 2003 alla società di engineering risulterebbero destinati quasi tre miliardi di lire (lire 2.799 milioni).
Non risulta tuttavia provato l’assunto degli Ordini ricorrenti, né quanto all’esatto importo, né quanto
alla circostanza che l’importo deriverebbe dal finanziamento pubblico destinato ad altri scopi.
Infatti in occasione dell’operazione di scissione fu redatta una stima del patrimonio della società prima
della scissione, da cui si evince che:
- il patrimonio superava i sette milioni di euro;
- alla società di engineering venivano destinati quasi 500.000 euro e non lire 2799 milioni.
E’ allora evidente che l’iniziale valore investito di sei miliardi di lire, pari a poco più di tre milioni di
euro, risulta più che raddoppiato al momento dell’operazione di scissione.
34
Pertanto, non vi è prova che il patrimonio destinato alla società di engineering derivi da finanziamento
statale diretto ad altri fini, e non da utili conseguiti dalla società.
39. Quanto, infine, all’ulteriore censura in ordine alla distorsione del mercato derivante dal
finanziamento pubblico, formulata in termini più generali rispetto alla questione della destinazione di
fondi statali, il Collegio rileva che genericamente lo statuto prevede la possibilità di finanziamento della
società da parte dei soci pubblici, senza che sia chiaro se il finanziamento avvenga con risorse pubbliche
o invece con gli utili derivanti dalla società medesima.
40. Si deve ora passare all’esame dell’ultimo motivo degli appelli incidentali di Fondazione IUAV e ISP
s.r.l. (da pag. 19 a pag. 22 degli appelli incidentali), con cui si contesta la sentenza n. 794/2007 in
relazione al capo che ha disposto la trasmissione degli atti alla competente Procura regionale della Corte
dei conti.
40.1. Si lamenta la contraddittorietà della sentenza che da un lato dichiara i ricorsi di primo grado
inammissibili e dall’altro lato si spinge ad un sindacato di merito sull’operato dell’Università, per di più
basandosi non su fatti ma su mere illazioni dei ricorrenti.
40.2. La censura va disattesa.
Infatti la disposta trasmissione degli atti alla Procura della Corte dei conti, pur occupando una parte
della sentenza e quindi costituendo, formalmente, un capo di essa, non è suscettibile di appello.
Il giudice di primo grado ha esercitato un potere di denuncia che compete ai pubblici ufficiali, e che si
colloca a latere della sentenza, rispetto alla quale resta esterno anche se formalmente esercitato nel
corpo di essa e, che oltretutto, in quanto mera denuncia, è privo di autonoma portata lesiva [Cass. civ.,
sez. III, 26 gennaio 2010 n. 1542] e quindi non è suscettibile di sindacato in appello.
41. In conclusione:
- vanno respinti gli appelli principali nn. 24/2011 e 25/2011 A.P. (n. 3888/2005 e n. 3889/2005 r.g.);
- vanno accolti per quanto di ragione gli appelli principali nn. 26/2011 e 27/2011 A.P. (n. 5473/2007 e
6233/2007 r.g.) e per l’effetto vanno annullati gli atti amministrativi relativi all’operazione di scissione
impugnati con i ricorsi di primo grado;
- vanno respinti i quattro appelli incidentali proposti in relazione agli appelli principali nn. 26/2011 e
27/2011 A.P. (n. 5473/2007 e 6233/2007 r.g.).
42. La complessità e la novità delle questioni giustificano la compensazione integrale delle spese di lite
in relazione al doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
35
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (adunanza plenaria), definitivamente pronunciando sugli appelli in
epigrafe, già riuniti:
1) respinge gli appelli principali n. 24/2011 e n. 25/2011 A.P. (n. 3888/2005 e n. 3889/2005 r.g.);
2) accoglie gli appelli principali n. 26/2011 e 27/2011 A.P. (n. 5473/2007 e 6233/2007 r.g.) e per l’effetto annulla
gli atti amministrativi relativi all’operazione di scissione;
3) respinge i quattro appelli incidentali proposti in relazione agli appelli principali n. 26/2011 e 27/2011 A.P. (n.
5473/2007 e 6233/2007 r.g.);
4) compensa interamente tra le parti le spese e gli onorari di lite in relazione ad entrambi i gradi di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Corte di cassazione, Sezioni unite, sentenza del 12 ottobre 2011, n. 20929: Controversie in tema di
quote latte, giurisdizione del giudice ordinario e fondamento
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la regione Puglia censura la dichiarazione di giurisdizione dell'a.g.o.
assumendo che oggetto del giudizio non sono le norme privatistiche sulla titolarità dell'impresa
o sull'acquisto o il godimento dei fattori di produzione, ma le norme che disciplinano la
materia delle quote latte (L. n. 468 del 1992 e L. n. 5 del 1998), sulla base delle quali l'A.I.M.A.
ha revocato l'attribuzione delle quote latte in precedenza riconosciute. L'interesse del Di
Fonzo al mantenimento della titolarità delle quote latte avrebbe consistenza di interesse
legittimo e non di diritto soggettivo a fronte del riconoscimento all'autorità amministrativa di
un potere discrezionale a tutela dell'interesse pubblico alla stabilizzazione del mercato della
produzione del latte. Con il secondo motivo la ricorrente eccepisce il proprio difetto di
legittimazione passiva affermando di non avere alcuna competenza in materia di attribuzione
di quote latte e, comunque, di essere estranea all'adozione del provvedimento di revoca
dell'attribuzione della titolarità delle predette quote.
Con il terzo motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione della L. n. 5 del 1998, art. 2,
comma 2 e vizio di motivazione, la ricorrente afferma che se è vero che per il riconoscimento
della qualità di produttore di latte non è necessario essere proprietari dei capi di bestiame, la
norma indicata impone di accertare che i contratti con i quali è attribuito il diritto di
godimento del bestiame stesso siano validi, non simulati e non in frode alla legge. 2. Il ricorso
non merita accoglimento.
Con riferimento alla questione di giurisdizione, come questa corte ha già avuto modo di
rilevare (cass. sez. un. 4 febbraio 2009, n. 2635;
12 dicembre 2006, n. 26421), anche se la disciplina dell'attribuzione è connotata da numerosi
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profili pubblicistici, ai fini dell'individuazione del giudice munito di giurisdizione è necessario
avere specifico riguardo alla consistenza della situazione giuridica soggettiva dedotta in
giudizio, in quanto se la controversia ha ad oggetto la spettanza del diritto alla suddetta quota
di riserva, sulla base di criteri posti (o ricavabili) dalla legge e senza l'esercizio di discrezionalità
amministrativa la giurisdizione spetta al giudice ordinario, mentre la giurisdizione spetta al
giudice amministrativo solo ove sia contestato l'esercizio di poteri autoritativi della pubblica
amministrazione di natura discrezionale. Nella specie, come ha esattamente rilevato la corte
territoriale, la questione controversa attiene all'accertamento della qualità di imprenditore
agricolo del Di Fonzo e all'interpretazione, alla qualificazione giuridica e alla validità dei
contratti intercorsi tra privati aventi ad oggetto il bestiame. Rispetto a tali questioni
l'amministrazione non esercita poteri autoritativi discrezionali diretti a valutare la compatibilità
delle vicende contrattuali con interessi di ordine generale, rispetto ai quali il privato possa
invocare la tutela solo di posizioni di interesse legittimo, ma ha esclusivamente poteri di
accertamento dei fatti, in particolare di interpretazione dei documenti contrattuali, e della loro
qualificazione giuridica e pertanto la controversia avente ad oggetto l'esercizio di tali poteri,
rispetto ai quali il privato ha una posizione di diritto soggettivo, rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario.
3. La questione relativa alla legittimazione passiva della regione in materia di attribuzione di
quote latte risulta proposta per la prima volta in questa sede e, pertanto, indipendentemente
dalla fondatezza, la relativa eccezione è inammissibile perché sulla stessa si è formato il
giudicato implicito.
Non è fondata, infine, la censura diretta nei confronti dell'accertamento compiuto dalla corte
territoriale della sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della quota latte perché,
contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, la corte d'appello non si è limitata ad
accertare la qualità di imprenditore agricolo del Di Fonzo, ma, con specifico riferimento alla L.
n. 5 del 1998, art. 2, comma 2 ha anche esaminato e risolto, con motivazione corretta ed
esauriente, la questione della natura giuridica dei contratti aventi ad oggetto il bestiame e del
carattere effettivo e non illecito ne' simulato dei contratti stessi.
Il ricorso, in conclusione deve essere rigettato.
Nulla sulle spese non avendo gli intimati svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle sezioni unite civili, il 8 febbraio 2011.
Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2011
Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza del 29 luglio 2013, n. 17 : riparto di giurisdizione
in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni
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FATTO e DIRITTO
I) L’impresa ricorrente in primo grado è stata ammessa al beneficio di un contributo con il decreto n.
1522307 del 1° dicembre 2006, riguardante il progetto 'La nuova scocca per camper AZ”, relativo ad un
programma di sviluppo precompetitivo e d’industrializzazione (in applicazione della legge n. 488 del
1992).
Con il decreto n. 14 del 30 marzo 2012, la Direzione generale per l'incentivazione delle attività
imprenditoriali del Ministero per lo sviluppo economico ha disposto la revoca totale del provvedimento
che ha ammesso al beneficio, poiché, a seguito delle verifiche effettuate in sede di rendicontazione, è
stata considerata ‘inammissibile’ una prestazione rendicontata, conseguente ad una collaborazione della
società D.C.R., sua ausiliaria, con cui aveva stipulato un contratto chiavi in mano.
La mancata valutazione della medesima prestazione era dipesa dal fatto che, ad avviso
dell’amministrazione, la fornitura non assumeva un grado di complessità tale da giustificare il ricorso a
siffatta tipologia contrattuale, anche perché non era stata considerata comprovata la specifica
competenza tecnica e commerciale dell’ausiliaria D.C.R.
II) Con il ricorso di primo grado n. 3435 del 2012 (proposto dinanzi al T.a.r. per il Lazio), l’impresa ha
impugnato il decreto ministeriale n. 14 del 30 marzo 2012, emesso dal Direttore generale, chiedendo
altresì il risarcimento dei danni subiti.
Si è costituito in giudizio il Ministero intimato, eccependo la carenza di giurisdizione del giudice
amministrativo e l’incompetenza territoriale del T.a.r. Lazio.
III) Il T.a.r. Lazio, con ordinanza n. 6392 del 2012, ha rilevato la sussistenza della competenza del T.a.r.
per la Campania.
A seguito della riassunzione del giudizio, con la sentenza appellata il T.a.r. per la Campania ha
dichiarato il difetto della giurisdizione amministrativa, rilevando che l’atto di ritiro di un contributo
pubblico - per inadempimento del concessionario - inciderebbe su un diritto soggettivo, devoluto alla
giurisdizione del giudice civile.
IV) Con l’appello in esame, l’impresa ha chiesto che, in riforma della sentenza del T.a.r., sia rilevata la
sussistenza della giurisdizione amministrativa ed ha riproposto le censure già formulate in primo grado.
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Il Ministero appellato si è costituito in giudizio ed ha chiesto che l’appello sia respinto.
In particolare, il Ministero ha richiamato l’orientamento delle Sezioni Unite sulla sussistenza della
giurisdizione civile, quando vi sia un atto di revoca, incidente su un diritto soggettivo, di un precedente
atto concessivo di un contributo o di una sovvenzione (cfr. Cass. civ., sez. un., sent. n. 15618/2006).
Non si è costituito in giudizio l’istituto di credito delegato all’istruttoria, pure evocato.
Assunta la causa in decisione alla Camera di consiglio del giorno 18 dicembre 2012, la sezione VI, con
sentenza parziale e contestuale ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria n. 517/2013:
- ha respinto il primo motivo d’appello, con il quale l’impresa ha dedotto che il T.a.r. avrebbe
erroneamente dichiarato il difetto di giurisdizione, poiché - a seguito della declaratoria d’incompetenza
del T.a.r. per il Lazio e della susseguente riassunzione innanzi al T.a.r. per la Campania - si sarebbe
formato il ‘giudicato implicito’ sulla questione di giurisdizione;
- passando al secondo motivo d’appello (con cui si è dedotta la sussistenza della giurisdizione
amministrativa a conoscere della controversia), la Sezione ha ritenuto che il suo esame andasse deferito
all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99 del codice del processo amministrativo.
A questo proposito la Sezione VI premette che, nel caso in cui sia stato emanato un atto di revoca di un
provvedimento che abbia disposto un contributo pubblico, si è consolidato un risalente orientamento
delle Sezioni unite della Corte di cassazione, per il quale rilevano gli ordinari criteri di riparto, fondati
sulla natura delle situazioni soggettive azionate, con la conseguenza che, qualora la controversia sorga
in relazione alla fase di erogazione del contributo o di ritiro della sovvenzione, sulla scorta di
un addotto inadempimento del destinatario, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, anche
se si faccia questione di atti denominati come revoca, decadenza o risoluzione, purché essi si
fondino sull'asserito inadempimento, da parte del beneficiario, quanto alle obbligazioni
assunte di fronte alla concessione del contributo. A tale orientamento, aggiunge l’ordinanza di
rimessione, si è adeguata la prevalente giurisprudenza amministrativa, per la quale è
configurabile una situazione soggettiva d’interesse legittimo, con conseguente giurisdizione
del giudice amministrativo, solo ove la controversia riguardi una fase procedimentale
precedente al provvedimento attributivo del beneficio, o se, a seguito della concessione del
beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto
iniziale con il pubblico interesse (ma non per inadempienze del beneficiario: cfr. Cons. St., Sez. IV,
sent. 28 marzo 2011, n. 1875; Sez. VI, sent. 24 gennaio 2011, n. 465; Sez. V, sent. 10 novembre 2010, n.
7994. Nella specie, sottolineato in punto di fatto che le circostanze determinanti la contestata
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revoca sono emerse dopo il rilascio del provvedimento che ha disposto il beneficio non per vizi
riconducibili all’originario provvedimento ma per ragioni inerenti alla rendicontazione finale e
riguardanti la computabilità di spese che, ad avviso dell’amministrazione, non avrebbero
potuto essere computate (anche per l’inadeguatezza della capacità tecnica e commerciale dell’ausiliaria
D.R.C), l’ordinanza della Sezione VI ritiene che la consolidata giurisprudenza in materia (basata su
considerazioni generali circa la nascita di un diritto soggettivo a seguito del rilascio del contributo o
della sovvenzione) possa essere oggetto di una rimeditazione, ove si consideri che: a) il potere di
autotutela dell’amministrazione, esercitato con un atto di revoca (o di decadenza), in base ai principi del
contrarius actus, incide di per sé su posizioni d’interesse legittimo (come si evince dalla pacifica
giurisprudenza della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato attinente ai casi in cui una concessione
di un bene pubblico o di un servizio pubblico sia ritirata per qualsiasi ragione, anche nell’ipotesi
d’inadempimento del concessionario); b) l’art. 7 del codice del processo amministrativo dispone che il
giudice amministrativo ha giurisdizione nelle controversie “riguardanti provvedimenti, atti …
riconducibili anche mediatamente all’esercizio” del potere pubblico (e non è dubbio che il
provvedimento di ritiro di un precedente atto autoritativo a sua volta abbia natura autoritativa).
L’ordinanza ricorda ancora in proposito che la configurabilità di un potere autoritativo e di un
correlativo interesse legittimo, in presenza dell’esercizio del potere di autotutela, risulta più rispondente
alle esigenze di certezza del diritto pubblico (conseguendo l’atto di revoca la sua inoppugnabilità, nel
caso di mancata tempestiva impugnazione) ed a quelle di corretta gestione del denaro pubblico, poiché
l’esercizio del medesimo potere autoritativo agevola non solo il rapido recupero della somma in ipotesi
non dovuta, ma anche la conseguente erogazione dei relativi importi ad altri soggetti, con ulteriori atti
aventi natura autoritativa. Peraltro, secondo l’ordinanza stessa, la sussistenza della giurisdizione
amministrativa potrebbe anche essere affermata, in via esclusiva, in considerazione dell’art. 12 della
legge n. 241 del 1990, riguardante i ‘provvedimenti attributivi di vantaggi economici’, che disciplina la
“concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari”, attribuendo il nomen iuris di
concessione a qualsiasi provvedimento che disponga l’erogazione del denaro pubblico. Sotto tale
profilo, potrebbe risultare rilevante l’art. 133, comma 1, lettera b), sulla sussistenza della giurisdizione
esclusiva per le “controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di
beni pubblici”. Né, si conclude, la portata applicativa delle disposizioni di legge sopra richiamate
potrebbe essere riducibile in via interpretativa, per il rilievo da attribuire all’art. 44 della legge n. 69 del
2009, che ha condotto all’approvazione del codice del processo amministrativo, disponendo che il
riassetto del medesimo dovesse avvenire “alfine di adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della
Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, di coordinarle con le norme del codice di procedura
civile in quanto espressione di princìpi generali e di assicurare la concentrazione delle tutele”.
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In vista dell’odierna discussione parte appellante non ha depositato memorie illustrative, mentre parte
appellata ha espresso, con memoria in data 4 maggio 2013, un nuovo e diverso orientamento in ordine
alla controversa giurisdizione, in senso adesivo all’ordinanza di rimessione.
Alla Camera di consiglio del 27 maggio 2013 l’appello è stato trattenuto in decisione.
V) Ritiene l’Adunanza plenaria che l’appello sia fondato e vada accolto, restando peraltro a tal fine priva
di rilevanza la questione rimessa all’esame dell’Adunanza stessa.
Con il secondo motivo di appello, il cui esame è stato appunto deferito a questa Adunanza dalla
Sezione Sesta, si deduce invero che “la revoca disposta con riferimento alle agevolazioni concesse
ex Lege 19 dicembre 1992 n. 488 sia sempre riconducibile alla giurisdizione amministrativa,
anche quando venga disposta dopo la concessione provvisoria del finanziamento” ( pag. 9 app.
).
Rileva in proposito il Collegio che vertesi in tema di sovvenzioni e finanziamenti erogati dalla p.a. a
privati e, in particolare, di agevolazioni di cui al D.L. 22 ottobre 1992, n. 415, art. 1, comma 2,
convertito, con modificazioni, dalla L. 19 dicembre 1992, n. 488, destinate - sulla base di una
graduatoria formata dalla pubblica amministrazione - alle imprese operanti nei settori di attività
individuati dalle direttive emanate con delibera del CIPE del 27 aprile 1995, e con decreto del Ministro
dell'industria, del commercio e dell'artigianato del 20 luglio 1998 e successive modifiche e integrazioni,
ai sensi del D.L. n. 415 cit., art. 1, comma 2 e del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, art. 18, comma 1, lett.
aa); esse sono concesse ed erogate secondo le modalità e i criteri previsti dalle dette direttive, nonchè
secondo le disposizioni del D.M. 20 ottobre 1995, n. 527, che, nel prevedere all'art. 6, comma 7, la
'concessione provvisoria' del contributo - erogato con le modalità di cui all'art. 7 e revocabile ai sensi
dell'art. 8 - stabilisce che, all'esito della 'documentazione definitiva' di spesa inviata dall'impresa e
trasmessa dalle banche concessionarie al Ministero dell'industria, l'amministrazione provveda alla c.d.
concessione definitiva, disciplinata dal successivo art. 10.
Orbene, sul tema specifico all’esame la Corte regolatrice, premesso che il riparto di giurisdizione tra
giudice ordinario e giudice amministrativo deve essere attuato distinguendo le ipotesi in cui il
contributo o la sovvenzione è riconosciuto direttamente dalla legge ( e alla p.a. è demandato
esclusivamente il controllo in ordine all'effettiva sussistenza dei presupposti puntualmente indicati dalla
legge stessa ) da quelle in cui la legge attribuisce invece alla p.a. il potere di riconoscere l'ausilio previa
valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati in relazione all'interesse pubblico primario
apprezzando discrezionalmente l'an, il quid ed il quomodo dell'erogazione, ha affermato che “la
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controversia avente ad oggetto la revoca di un finanziamento disciplinato dal D.L. 22 ottobre 1992, n.
415, convertito in legge dalla L. 19 dicembre 1992, n. 488, appartiene alla giurisdizione del giudice
amministrativo, in quanto non riguarda una sovvenzione riconosciuta direttamente dalla legge, sulla
base di elementi da questa puntualmente indicati (per una fattispecie simile, v. Cass. Sez. Un. 25
novembre 2008 n. 28041); e ciò, ancorchè il finanziamento medesimo sia stato già riconosciuto in via
provvisoria a norma del D.M. n. 527 del 1995, art. 6, comma 7” ( Cassazione civile, sez. un., 16
dicembre 2010, n. 25398, in ipotesi di revoca del finanziamento già concesso in via provvisoria ed in
parte erogato, determinata dall’intervenuto accertamento di spese dichiarate non ammissibili in quanto
sostenute prima della domanda di ammissione ).
V.1) Non contrastano peraltro con l’enunciato principio:
- né, come rilevato espressamente dalla medesima citata Ord. n. 25398 del 2010, il precedente della
stessa Corte 10 luglio 2006, n. 15618, che riguarda la giurisdizione non già sul provvedimento di revoca
dell'intera agevolazione, bensì sulla riduzione - in rapporto a spese non ammissibili - di un
finanziamento provvisorio già deliberato, in ordine al quale, sino a che il titolo non venga meno nelle
forme di legge, sussiste un diritto soggettivo del beneficiario;
- né il precedente costituito da Cass., Sez. un., 20 luglio 2011, n. 15867, nel quale si afferma la
giurisdizione del giudice ordinario in una controversia sulla revoca di un finanziamento erogato ai sensi
della legge n. 44 del 1986 per la promozione e lo sviluppo dell’imprenditorialità giovanile nel
mezzogiorno, per l’impossibilità del raggiungimento delle finalità perseguite con il beneficio finanziario
a séguito della dichiarazione di fallimento dell’impresa destinataria dello stesso e dunque in un caso in
cui, come sottolineato dall’ordinanza stessa, l’Amministrazione, nel revocare il contributo stesso o nel
dichiarare la decadenza da esso, non compie alcuna valutazione discrezionale, rispetto alla quale il
privato possa vantare una posizione di interesse legittimo; ma si limita piuttosto ad accertare il venir
meno di un presupposto previsto in modo puntuale dalla legge.
Ciò posto, nel caso in esame la revoca del finanziamento non è stata oggetto di un provvedimento
vincolato dall’intervenuto accertamento dell’insussistenza di un presupposto puntualmente indicato
dalla legge, ma in applicazione della previsione contenuta nel D.M. 20 ottobre 1995, n. 527, art. 8,
comma 1, lett. f), che la consente qualora “calcolati gli scostamenti in diminuzione degli indicatori di cui
all'art. 6, comma 4, suscettibili di subire variazioni, anche solo uno degli scostamenti stessi di tali
indicatori rispetto ai corrispondenti valori assunti per la formazione della graduatoria o la media degli
scostamenti medesimi superi, rispettivamente, i 30 o i 20 punti percentuali” ( del tutto analogamente,
dunque, al caso deciso dalla citata decisione delle Sez. Un. n. 25398 del 2010, concernente una ipotesi di
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applicazione della lett. e) dello stesso comma 1 ); e dunque nell’esercizio di un potere discrezionale ( in
relazione alla ammissibilità di alcune spese rendicontate che ha determinato uno scostamento del grado
previsto dall’indicata lett. f) ), in relazione al quale la posizione del privato è di interesse legittimo e la
giurisdizione è del giudice amministrativo.
VI. Deve pertanto conclusivamente affermarsi, in accoglimento dell’appello, la giurisdizione del giudice
amministrativo, in applicazione dei principii ripetutamente enunciati dalle Sezioni unite della Corte di
Cassazione in materia di contributi e sovvenzioni pubbliche; donde l’irrilevanza, nel presente giudizio,
della questione di diritto posta dall’Ordinanza di rimessione, postulante la sussistenza della giurisdizione
amministrativa sulla base del superamento nella materia de qua degli ordinarii criterii di riparto fondati
sulla natura delle posizioni soggettive azionate.
La causa va conseguentemente rimessa, ai sensi del comma 1 dell’art. 105 c.p.a., al giudice di primo
grado, dinanzi al quale le parti dovranno riassumere il processo con le modalità e nei termini, di cui al
comma 3 dello stesso articolo.
La sostanziale coincidenza delle posizioni delle parti quanto alla controversia questione di giurisdizione
induce il Collegio a compensare integralmente tra esse le spese della presente fase di appello.
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza Plenaria, definitivamente pronunciando
sul ricorso in appello, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, dichiara la
giurisdizione del giudice amministrativo.
3.2.1 Il comportamento amministrativo
Corte Costituzionale, sentenza n. 204 del 2004
..."Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n.
80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni
pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in
attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), come sostituito dall’art. 7,
lettera a, della legge 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa), nella
parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «tutte le
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controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli» anziché «le controversie in materia di
pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed
altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore
di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge 7 agosto 1990, n.
241, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei
confronti del gestore, nonché»;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 2, del medesimo decreto legislativo 31 marzo
1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera a, della legge 21 luglio 2000, n. 205;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 1, del medesimo decreto legislativo 31 marzo
1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera b, della legge 21 luglio 2000, n. 205, nella parte in cui
prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi
per oggetto «gli atti, i provvedimenti e i comportamenti» anziché «gli atti e i provvedimenti» delle
pubbliche amministrazioni e dei soggetti alle stesse equiparati, in materia urbanistica ed edilizia."
Corte costituzionale, sentenza n. 191 del 2006
Considerato in diritto
1.– Il TAR per la Calabria, sede di Catanzaro, solleva, con ordinanza n. 36 del 2005, in riferimento
agli artt. 25 e 102, comma secondo, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell'art. 53, comma 1, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), e con ordinanza n. 425
del 2005, in riferimento all'art. 103 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art.
53, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 (Testo unico delle disposizioni legislative
in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo B), disposizione trasfusa nell'art. 53,
comma 1, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, innanzi menzionato, nella parte in cui devolvono alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto i
«comportamenti» delle pubbliche amministrazioni, e dei soggetti ad esse equiparati, in materia di
espropriazione per pubblica utilità.
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Entrambe le ordinanze – emesse nel corso di giudizi nei quali era stata proposta domanda di
risarcimento dei danni per avere subìto, il fondo di proprietà dei ricorrenti, radicali trasformazioni
durante il periodo di occupazione disposta per la realizzazione di un'opera pubblica senza che fosse
intervenuto il decreto di esproprio – osservano che l'art. 53, comma 1, prevede la devoluzione alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie aventi ad oggetto (anche) «i
comportamenti» delle pubbliche amministrazioni, e cioè la medesima ipotesi che questa Corte – con
la sentenza n. 204 del 2004 – ha espunto, ritenendola costituzionalmente illegittima, dall'art. 34,
comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di
organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle
controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell'articolo 11,
comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), come sostituito dall'art. 7, comma 1, lettera b), della
legge 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa).
L'ordinanza n. 36 del 2005 precisa che il dubbio circa la conformità a Costituzione della norma de
qua non avrebbe ragion d'essere ove la dichiarazione di pubblica utilità ed urgenza fosse stata
pronunciata dopo l'entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001 (e cioè dopo il 30 giugno 2003: art. 1
del decreto legislativo n. 302 del 2002), dal momento che in tal caso opererebbe (ex art. 57 del
d.P.R. n. 327, come modificato dal citato art. 1 del decreto legislativo n. 302 del 2002) anche l'art.
43 del medesimo d.P.R., il quale attribuisce alla pubblica amministrazione il potere (certamente
sindacabile dal giudice amministrativo) di acquisire l'immobile, «modificato in assenza del valido ed
efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità», al patrimonio
indisponibile con «condanna al risarcimento del danno e con esclusione della restituzione del bene
senza limiti di tempo»; poiché nel caso sottoposto al suo esame la dichiarazione di pubblica utilità è
intervenuta «ben prima del 30 giugno 2003», la previsione (che sarebbe certamente di diritto
sostanziale) dell'art. 43 non potrebbe operare e, pertanto, ci si troverebbe in una situazione
perfettamente analoga a quella che era disciplinata dall'art. 34 (dichiarato incostituzionale dalla
sentenza n. 204 del 2004), del quale l'art. 53, comma 1, riproduce (aggiungendovi soltanto «gli
accordi») il contenuto.
2.– Va rilevato che mentre una ordinanza (n. 425 del 2005) vede nella dichiarazione di illegittimità
costituzionale dell'art. 53, comma 1, una sorta di completamento di quanto, ex art. 27 della legge n.
87 del 1953, già con la sentenza n. 204 del 2004 questa Corte avrebbe potuto fare; l'altra (n. 36 del
2005) osserva che il mancato utilizzo da parte della Corte dello strumento della dichiarazione
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consequenziale di illegittimità costituzionale si giustificherebbe per il collegamento, sopra ricordato,
della previsione di cui all'art. 53, comma 1, con quella di cui all'art. 43: sicché, ove tale collegamento
ratione temporis non operi, il riferimento ai “comportamenti” dovrebbe essere cassato come lo fu
quello contenuto nell'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998.
Ne discende che il petitum delle due ordinanze diverge in ciò, che l'una (n. 425) sollecita una
pronuncia che definitivamente espunga dalla norma censurata la locuzione “i comportamenti”,
mentre l'altra (n. 36) chiede che la Corte ciò faccia relativamente ai giudizi nei quali non potrebbe
trovare applicazione la norma (ritenuta) di diritto sostanziale (art. 43), che, sola, giustifica la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in quanto contempla un potere della pubblica
amministrazione sindacabile da parte di quel giudice.
3.– Questa Corte, con la sentenza n. 204 del 2004, ha giudicato di questioni di legittimità
costituzionale che investivano, da un lato, l'art. 33 (relativo ai pubblici servizi) e, dall'altro, l'art. 34
(relativo all'edilizia ed urbanistica) del d.lgs. n. 80 del 1998, come modificati dall'art. 7 (lettere a e b)
della legge n. 205 del 2000, in quanto con tali norme il legislatore aveva «sostituito al criterio di
riparto della giurisdizione fissato in Costituzione, e costituito dalla dicotomia diritti soggettivi-
interessi legittimi, il diverso criterio dei “blocchi di materie”» (punto 2.1. del Considerato in
diritto).La Corte ha osservato che le censure mosse dai giudici rimettenti «colgono nel segno nella
parte in cui denunciano l'adozione, da parte del legislatore ordinario del 1998-2000, di un'idea di
giurisdizione esclusiva ancorata alla pura e semplice presenza, in un certo settore dell'ordinamento,
di un rilevante pubblico interesse», laddove «è evidente che il vigente art. 103, primo comma, Cost.,
non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità
nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli
ha conferito il potere di indicare “particolari materie” nelle quali “la tutela nei confronti della
pubblica amministrazione” investe “anche” diritti soggettivi». «Tale necessario collegamento delle
“materie” assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle
situazioni soggettive – e cioè con il parametro adottato dal Costituente come ordinario discrimine
tra le giurisdizioni ordinaria ed amministrativa – è espresso dall'art. 103 laddove statuisce che quelle
materie devono essere “particolari” rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di
legittimità: e cioè devono partecipare della loro medesima natura, che è contrassegnata dalla
circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è
accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo», sicché, «da un lato, è escluso che la
mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la
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giurisdizione del giudice amministrativo […] e, dall'altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico
coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al
giudice amministrativo» (punto 3.2.).
Sulla base di tali premesse, questa Corte – dopo aver distinto nell'ambito dell'art. 33 le ipotesi in cui
la materia dei servizi pubblici era legittimamente devoluta al giudice amministrativo in quanto «la
pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo» da quelle prive di tale
connotato (punto 3.4.2.) – ha osservato che «analoghi rilievi investono la nuova formulazione
dell'art. 34», la quale «si pone in contrasto con la Costituzione nella parte in cui, comprendendo
nella giurisdizione esclusiva – oltre “gli atti e i provvedimenti” attraverso i quali le pubbliche
amministrazioni […] svolgono le loro funzioni pubblicistiche in materia urbanistica ed edilizia –
anche “i comportamenti”, la estende a controversie nelle quali la pubblica amministrazione non
esercita – nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti
intrinsecamente privatistici – alcun pubblico potere» (punto 4.3.3. del Considerato in diritto).
3.1.– Discende, dalla sommaria esposizione dell'iter argomentativo seguito dalla sentenza n. 204 del
2004, che non è corretta la premessa dalla quale implicitamente muovono entrambe le ordinanze di
rimessione, e cioè che, avendo questa Corte espunto dalla disposizione di cui all'art. 34 la locuzione
“i comportamenti”, tale espunzione non possa non estendersi all'identica locuzione impiegata
nell'art. 53, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001.
Tale tesi, infatti, si fonda esclusivamente sulla circostanza che, con il suo dispositivo, la sentenza n.
204 del 2004 ha inciso sul testo dell'art. 34, ma trascura del tutto non soltanto la motivazione che è
alla base di quel dispositivo, ma anche, e soprattutto, la valenza che la locuzione espunta aveva,
specie in relazione alla questione di legittimità costituzionale allora sottoposta alla Corte, nella
disposizione dell'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998.
Ed infatti, nell'affrontare la questione del se fosse costituzionalmente legittimo devolvere alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “blocchi di materie” ed in particolare l'intera
“materia urbanistica ed edilizia” (comprensiva, la prima, di “tutti gli aspetti dell'uso del territorio”),
questa Corte ha ravvisato – come risulta dalla motivazione della sentenza – nella locuzione “i
comportamenti” lo strumento utilizzato dal legislatore per operare l'indiscriminata devoluzione che
si andava a censurare: sicché l'espunzione di tale locuzione, per la funzione “di chiusura”
assegnatale dal legislatore nell'art. 34, valeva a ribadire che la “materia edilizia ed urbanistica” non
poteva essere devoluta “in blocco” alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ma
poteva esserlo nei limiti precisati nella motivazione.
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3.2.– La questione di legittimità costituzionale sulla quale questa Corte è ora chiamata a
pronunciarsi investe (non più la pretesa del legislatore ordinario di attribuire alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo “in blocco” la materia edilizia ed urbanistica, ma)
specificamente la conformità a Costituzione – e, segnatamente, agli artt. 25, 102, comma secondo, e
103 – della norma che, in tema di espropriazione per pubblica utilità, devolve «alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto», oltre che «gli atti, i
provvedimenti, gli accordi», anche «i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti
ad esse equiparati»; questione che, per quanto si è fin qui osservato, non può essere risolta
attraverso la semplice e meccanica estensione a questa disposizione dell'espunzione (solo perché,
allora, operata) della locuzione de qua dall'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998.
Va, altresì, precisato che, non essendo implausibile la tesi per cui l'art. 53, in quanto norma
processuale (e non anche l'art. 43, in quanto norma di diritto sostanziale), troverebbe applicazione
nei giudizi aventi ad oggetto fattispecie non governate, quanto al diritto sostanziale, dal d.P.R. n.
327 del 2001, la questione di legittimità costituzionale ora all'esame della Corte concerne l'art. 53,
comma 1, esclusivamente nella sua valenza di norma attributiva della giurisdizione al giudice
amministrativo, e pertanto senza che in alcun modo possa esserne coinvolta la norma nella parte in
cui – essendo applicabile l'art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001 – presuppone la possibilità che sia
sindacato dal giudice amministrativo l'esercizio, da parte della pubblica amministrazione, del potere
di acquisire al suo patrimonio indisponibile l'immobile modificato.
Peraltro la questione sollevata è rilevante nei giudizi a quibus perché, non essendo implausibile la
tesi dell'immediata applicabilità dell'art. 53, comma 1, quale norma processuale (specie a giudizi
incardinati nella vigenza dell'art. 34 del d. lgs. n. 80 del 1998, come modificato dalla legge n. 205 del
2000) e pendendo la causa davanti al giudice amministrativo, l'eventuale carenza di sua giurisdizione
a norma dell'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998 – a seguito dell'espunzione della locuzione “i
comportamenti” operata da questa Corte – legittimerebbe (ex art. 5 del codice di procedura civile)
una pronuncia declinatoria della giurisdizione solo ove fosse dichiarata costituzionalmente
illegittima la disposizione dell'art. 53, comma 1, che ex novo rende il giudice amministrativo munito
di giurisdizione: se è vero, infatti, che la giurisdizione si determina con riguardo alla legge vigente al
momento della proposizione della domanda, è anche vero che il sopravvenire della giurisdizione in
capo al giudice che originariamente ne era (o ne era divenuto) sfornito impedisce – per pacifica
giurisprudenza – la pronuncia declinatoria.
4.– Le questioni sono fondate nei limiti di seguito precisati.
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4.1.– Entrambe le fattispecie oggetto dei giudizi a quibus sono riconducibili alle ipotesi
tradizionalmente denominate (in giurisprudenza e dottrina) di occupazione appropriativa (ovvero,
anche, di accessione invertita o espropriazione sostanziale): il che si verifica quando il fondo è stato
occupato a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, e pertanto nell'ambito di una procedura di
espropriazione, ed ha subìto una irreversibile trasformazione in esecuzione dell'opera di pubblica
utilità senza che, tuttavia, sia intervenuto il decreto di esproprio o altro atto idoneo a produrre
l'effetto traslativo della proprietà.
Tale fenomeno viene contrapposto a quello cosiddetto di occupazione usurpativa, caratterizzato
dall'apprensione del fondo altrui in carenza di titolo: carenza universalmente ravvisata nell'ipotesi di
assenza ab initio della dichiarazione di pubblica utilità, e da taluni anche nell'ipotesi di
annullamento, con efficacia ex tunc, della dichiarazione inizialmente esistente ovvero di sua
inefficacia per inutile decorso dei termini previsti per l'esecuzione dell'opera pubblica.
Nel caso dell'occupazione appropriativa, perfezionandosi con l'irreversibile trasformazione del
fondo la traslazione in capo all'amministrazione del diritto di proprietà, il proprietario del fondo
non può che chiedere la tutela per equivalente, laddove, nel caso dell'occupazione usurpativa
(rectius: nelle ipotesi – in relazione a taluna delle quali non v'è unanimità di consensi – ad essa
riconducibili) il proprietario può scegliere tra la restituzione del bene e, ove a questa rinunci così
determinando il prodursi (dei presupposti) dell'effetto traslativo, la tutela per equivalente.
4.2.– È evidente che la soluzione della questione di legittimità costituzionale in esame non può che
muovere da quanto questa Corte, con la più volte citata sentenza n. 204 del 2004, ha statuito
riguardo all'art. 35 (come modificato dall'art. 7, lettera c, della legge n. 205 del 2000) del d.lgs. n. 80
del 1998; statuizione, va precisato, e non già obiter dictum, in quanto la Corte – investita della
questione di legittimità costituzionale della devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo dei “blocchi di materie” relative ai servizi pubblici ed all'edilizia ed urbanistica e del
potere, altresì, di giudicare di azioni risarcitorie riconosciutogli come attributo della giurisdizione
esclusiva – non poteva non considerare, quanto meno con riferimento al disposto dell'art. 35,
comma 1, se anche la tutela risarcitoria fosse configurabile come una “materia” devoluta in blocco
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
In proposito questa Corte ha statuito che «il potere riconosciuto al giudice amministrativo di
disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto
non costituisce sotto alcun profilo una nuova “materia” attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno
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strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare
per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione».
4.3.– I principi appena ricordati impongono di escludere che, per ciò solo che la domanda proposta
dal cittadino abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno, la giurisdizione competa al
giudice ordinario: ciò dicendo non intende questa Corte prendere posizione sul tema della natura
della situazione soggettiva sottesa alla pretesa risarcitoria, ovvero sulla natura (di norma secondaria,
id est sanzionatoria di condotte aliunde vietate, oppure primaria) dell'art. 2043 cod. civ., ma
esclusivamente ribadire che laddove la legge – come fa l'art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998 – costruisce
il risarcimento del danno, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice
amministrativo, come strumento di tutela affermandone – come è stato detto – il carattere
“rimediale”, essa non viola alcun precetto costituzionale e, anzi, costituisce attuazione del precetto
dell'art. 24 Cost. laddove questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi
ragionevoli.
In altri termini, al precedente sistema che, in considerazione della natura intrinseca di diritto
soggettivo della situazione giuridica conseguente all'annullamento del provvedimento
amministrativo, attribuiva al giudice ordinario «le controversie sul risarcimento del danno
conseguente all'annullamento di atti amministrativi» (così l'art. 35, comma 5, del d. lgs. n. 80 del
1998, come modificato dall'art. 7, lettera c della legge n. 205 del 2000), il legislatore ha sostituito
(appunto con l'art. 35 cit.) un sistema che riconosce esclusivamente al giudice naturale della
legittimità dell'esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi
anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per
l'illegittimo esercizio della funzione.
Da ciò consegue che, ai fini del riparto di giurisdizione, è irrilevante la circostanza che la pretesa
risarcitoria abbia – come si ritiene da alcuni –, o non abbia, intrinseca natura di diritto soggettivo:
avendo la legge, a questi fini, inequivocabilmente privilegiato la considerazione della situazione
soggettiva incisa dall'illegittimo esercizio della funzione amministrativa, a questa Corte competeva (e
compete) solo di valutare se tale scelta del legislatore – di collegare, cioè, quanto all'attribuzione
della giurisdizione, la tutela risarcitoria a quella della situazione soggettiva incisa dal provvedimento
amministrativo illegittimo – confligga, o non, con norme costituzionali; ciò che, con la più volte
ricordata sentenza n. 204 del 2004, questa Corte ha escluso.
5.– Le considerazioni fin qui esposte rendono palese che la questione di legittimità costituzionale
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sollevata dalle ordinanze de quibus non può risolversi in base al solo petitum, id est alla domanda di
risarcimento del danno, bensì considerando il fatto, dedotto a fondamento della domanda, che si
assume causativo del danno ingiusto.
Con espressione ellittica l'art. 53, comma 1, individua (anche) nei “comportamenti” della pubblica
amministrazione il fatto causativo del danno ingiusto, in parte qua riproducendo il contenuto
dell'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998 (come modificato dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000).
Tale previsione è costituzionalmente illegittima là dove la locuzione, prescindendo da ogni
qualificazione di tali “comportamenti”, attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo controversie nelle quali sia parte - e per ciò solo che essa è parte - la pubblica
amministrazione, e cioè fa del giudice amministrativo il giudice dell'amministrazione piuttosto che
l'organo di garanzia della giustizia nell'amministrazione (art. 100 Cost.).
Viceversa, nelle ipotesi in cui i “comportamenti” causativi di danno ingiusto – e cioè, nella specie, la
realizzazione dell'opera – costituiscono esecuzione di atti o provvedimenti amministrativi
(dichiarazione di pubblica utilità e/o di indifferibilità e urgenza) e sono quindi riconducibili
all'esercizio del pubblico potere dell'amministrazione, la norma si sottrae alla censura di illegittimità
costituzionale, costituendo anche tali “comportamenti” esercizio, ancorché viziato da illegittimità,
della funzione pubblica della pubblica amministrazione.
In sintesi, i principi sopra esposti – peraltro già enunciati da questa Corte con la sentenza n. 204 del
2004 – comportano che deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie relative a
“comportamenti” (di impossessamento del bene altrui) collegati all'esercizio, pur se
illegittimo, di un pubblico potere, laddove deve essere dichiarata costituzionalmente
illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di “comportamenti” posti in essere in
carenza di potere ovvero in via di mero fatto.
L'attribuzione alla giurisdizione del giudice amministrativo della tutela risarcitoria – non a
caso con la medesima ampiezza, e cioè sia per equivalente sia in forma specifica, che davanti al
giudice ordinario, e con la previsione di mezzi istruttori, in primis la consulenza tecnica,
schiettamente “civilistici” (art. 35, comma 3) – si fonda sull'esigenza, coerente con i principi
costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di concentrare davanti ad un unico giudice
l'intera tutela del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica (così
Corte di cassazione, sez. un., 22 luglio 1999, n. 500 ), ma non si giustifica quando la pubblica
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amministrazione non abbia in concreto esercitato, nemmeno mediatamente, il potere che
la legge le attribuisce per la cura dell'interesse pubblico.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 53, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 (Testo unico
delle disposizioni legislative in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo B), trasfuso nell'art. 53, comma 1,
del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), nella parte in cui, devolvendo alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative a «i comportamenti delle pubbliche
amministrazioni e dei soggetti ad esse equiparati», non esclude i comportamenti non riconducibili, nemmeno
mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere.
3.3 Corretto esercizio del potere pubblico : carenza / cattivo uso del potere
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza del 22 ottobre 2007, n. 12 : rifiuto della
tesi della carenza in concreto
Motivi della decisione.
I - La Sezione quarta, dubitando della permanente attualità – dopo la pubblicazione della sentenza
Corte Cost. 11 maggio 2006, n. 191 e delle correlate pronunce delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione - dei principi ripetutamente affermati dalla Adunanza Plenaria ha correttamente rimesso a
quest’ultima il rinnovato esame della individuazione del giudice amministrativo quale giudice cui spetta
di pronunciarsi in tema di c.d. accessione invertita, allorché la formale espropriazione intervenga dopo
la sopravvenuta inefficacia, per decorso del suo termine finale, della dichiarazione di pubblica utilità.
Correttamente, si è detto, alla stregua delle esigenze che, positivamente poste nei confronti del giudizio
per cassazione (art. 374 cod.proc.civ. come sostituito dall’art. 8 D.Lg.vo 2 febbraio 2006, n. 40),
derivano da generali principi di certezza del diritto e di economicità della funzione giurisdizionale che
ovviamente coinvolgono il processo innanzi al Consiglio di Stato, nel quale è per altro già prevista la
opportunità, qui di nuovo sottolineata, della rimessione in ordine a questioni di diritto che abbiano dato
luogo o possano dar luogo a contrasti giurisprudenziali ovvero allorché si renda necessaria la
risoluzione di questioni di massima di particolare importanza ( art. 45 co. 2 e 3 T.U. 26 giugno 1924, n.
1054 come sostituiti dall’art. 5 L.21 dicembre 1950, n. 1018 ).
II - La rimessione in parola, è necessario premettere ad ulteriore chiarificazione delle proposte questioni
pregiudiziali, concerne esclusivamente il ricorso 1284/2000 ed il ricorso 476/2005 e motivi aggiunti con
52
i quali Signori C. – M. e C. hanno proposto, siccome accertato dal Tribunale regionale amministrativo e
ritenuto dalla Sezione quarta, domanda risarcitoria.
Gli altri ricorsi inizialmente proposti risultano, infatti, oggetto di dichiarazione di estinzione per
rinunzia ovvero di improcedibilità per carenza di interesse, improcedibilità estesa, dal predetto
Tribunale, anche ai motivi del ricorso 1284/2000 relativi alla impugnazione per annullamento di alcuni
degli atti emessi nel corso del procedimento di espropriazione il cui atto conclusivo (decreto n. 3273/05
della Provincia) è stato espressamente annullato dal Tribunale, con connessa dichiarazione di
irreversibile trasformazione dei beni occupati.
In tale situazione la Sezione remittente ha ritenuto di superare le deduzioni della Provincia relative alla
pretesa non integrità del contraddittorio in primo grado e del G. relative alla omessa notifica
dell’appello a Regione, Comune, N. s.r.l. e Signori R. e V. I., mentre contro questi ultimi soggetti
nessuna domanda risarcitoria è proposta, né si configura alcun loro interesse e mentre Comune e
Regione sono stati intimati in primo grado ( il primo si è anche costituito) in relazione agli atti da loro
emessi (ric. 1544/97, 1548/97 e 257/99), ed hanno ricevuto notificazione della sentenza appellata, la
domanda risarcitoria fu proposta nei soli confronti della Provincia, ente espropriante, e concerne, una
volta definiti come s’è ricordato gli altri giudizi, esclusivamente i rapporti tra la stessa Provincia e,
ormai, il Signor G. ed i suoi danti causa.
Ne risulta l’infondatezza delle domande di integrazione del contraddittorio ritualmente instaurato e in
primo grado e in appello.
L’annullamento, poi, dell’atto finale della procedura di espropriazione e la pronuncia di intervenuta
accessione invertita, di per sé non impugnata dal Signor G., e per altro satisfattiva della richiesta tutela ,
rendono prive di rilievo le di lui deduzioni relative ad atti e comportamenti e della Regione e del
Comune, ormai irrilevanti a seguito del predetto annullamento, e della Provincia dalle quali mai
potrebbe conseguire la restituzione, e su questa non si insiste nelle conclusioni rassegnate il 7 marzo
2006 ed il 30 settembre 2007, delle aree coinvolte dalla costruzione della strada, pressoché terminata ed
aperta al traffico (v. note in atti del Responsabile del procedimento in data 25 febbraio 2004 e 19 aprile
2005) già al 25 febbraio 2004 e, comunque, “parecchi mesi prima dello stesso 19 aprile 2005” e, perciò,
nel corso dei termini della dichiarazione di pubblica utilità.
Dato atto di ciò, deve infine rilevarsi che il Tribunale non si è in alcun modo pronunciato sulla
domanda risarcitoria, proposta e perfino quantificata nel corso del relativo grado di giudizio (v. oltre
alle istanze notificate il 23 febbraio ed il 29 ottobre 2001 le ammissioni nelle memorie della Provincia
del 19 dicembre 2000 e del 11 aprile 2001 nonché l’istanza di sospensiva del giudizio indennitario dalla
stessa proposta alla Corte di Appello e la correlata ordinanza e v., ancora, il ricorso 11 aprile 2005
notificato il successivo 12 aprile), sulla quale ha soltanto disposto il completamento dell’istruttoria in
corso: sono, pertanto, intempestive le relative deduzioni della Provincia nonché degli appellati e perciò
inammissibili in questa sede le loro richieste.
III - Si rileva, venendo perciò al punto di diritto in contestazione, che permangono, nella
giurisprudenza più recente, significativi contrasti in tema di discriminazione della giurisdizione, contrasti
forse avvertiti con maggior disagio di quelli pur vivi nel secolo scorso ora che sussistono condizioni di
ulteriore sviluppo sociale ed economico, di correlato aumento della legislazione e delle discipline così
civili come amministrative e, perciò, di più forte richiesta di decisioni di merito pronte, facilmente
accessibili, coerenti con le esigenze operative e con le aspettative di tutela delle pubbliche
amministrazioni, delle imprese e di ciascun componente la comunità nazionale.
I recenti, ripetuti richiami della Corte Costituzionale ( v. da ultimo, sent. 12 marzo 2007, n. 77) ai
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precetti dell’art. 24 Cost. confermano un orientamento perseguito con ancor più determinata
convinzione; orientamento che, sottolineando il valore servente delle forme, pur ferme e vincolanti,
rispetto alle aspettative sostanziali, merita di essere condiviso e seguito, come pare sia condiviso dallo
stesso legislatore ( cfr., di recente, in tema di giurisdizione e di procedure, la L. 21 luglio 2000, n. 205 e,
puntualmente in tema di nullità, la L. 7 agosto 1990, n. 191 ) le cui rinnovate dichiarazioni di volontà
semplificatrice si traducono tuttavia, in qualche caso, in complicazioni di discipline di non sottile
spessore e di non agevole applicazione da parte di una Amministrazione costretta a troppo frequenti
mutamenti dei suoi complessi moduli organizzativi ed operativi ed a tal fine, specie in sede locale, non
sempre munita di necessari mezzi e di adeguate strutture.
In generale, ed omettendo analisi storiche altrove e da altri svolte con puntualità e completezza, la
discriminazione è positivamente fissata, nel quadro dei rigidi precetti posti dagli artt.24, 102,103, 111 e
113 Cost., dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, - in vigore dal 1 agosto 2000 e seguita dalla L. 11 febbraio
2005, n. 15 e dal D.Lg.vo 12 aprile 2006, n. 163 - , che, anche riformulando le disposizioni del D.Lg.vo
31 marzo 1998, n. 80, ha sostanzialmente definito il disegno innovatore avviato con l’art. 13 della L. 19
febbraio 1992, n. 142 ed organicamente posto dalla legge di delega 15 marzo 1997, n. 59:
Su questa disciplina è ripetutamente intervenuta e, per quanto qui rileva, specialmente con le sentenze
17 luglio 2000, n. 292, 6 luglio 2004, n. 204, 28 luglio 2004, n. 281, 11 maggio 2006, n. 191, 12 marzo
2007, n. 77 e 27 aprile 2007, n. 140, la Corte Costituzionale.
Punti fondamentali dell’assetto normativo che ne è derivato e che, salvo le integrazioni e le precisazioni
appresso indicate, vige attualmente sono: 1) resta fermo, e vincola lo stesso legislatore, che criterio
generale di discriminazione è quello fondato sulla natura della situazione giuridica di cui si chiede tutela,
nel senso che giudice dei diritti soggettivi è il giudice ordinario e giudice degli interessi legittimi è il
giudice amministrativo;
2) resta fermo che è nella, per così dire, ragionevole discrezionalità del legislatore attribuire alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in particolari materie (e non in blocchi indiscriminati
di materie) specialmente caratterizzate dalla compresenza o dalla difficile qualificazione di diritti
soggettivi ed interessi legittimi, anche la tutela di diritti soggettivi;
3) il giudice amministrativo conosce, nell’ambito della sua giurisdizione, sia essa di sola legittimità
ovvero, pur con differente dizione, esclusiva, “ anche di tutte le questioni relative all’eventuale
risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti
patrimoniali conseguenziali “ ;
4) il giudice ordinario, cui non spetta mai giurisdizione sugli interessi legittimi, non ha il potere di
annullare i provvedimenti amministrativi nè quello di risarcire il danno conseguente all’annullamento
degli stessi da parte del giudice amministrativo, e tuttavia, vertendosi in tema di lesione dei diritti
soggettivi non ricompresi nella cennata giurisdizione esclusiva, può disapplicare gli atti
dell’amministrazione e provvedere al risarcimento dell’eventuale danno.
IV - Con riferimento al nuovo assetto così sommariamente descritto si sono riproposti alla
giurisprudenza spinosi problemi interpretativi già vivi nel quadro della precedente disciplina ed ulteriori
questioni sostanziali e procedurali ha posto l’ampliamento della giurisdizione esclusiva e dei poteri del
giudice amministrativo.
Deve ricordarsi, al primo proposito, il permanere dalle difficoltà di discriminazione poste dalla
dicotomia diritto soggettivo – interesse legittimo nell’ambito di una legislazione che dalla
considerazione della loro natura il più delle volte prescinde preferendo enucleare dalle situazioni
soggettive e disciplinare puntualmente, con riferimento alla attività amministrativa, tal volta spezzoni
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qualificabili come facoltà, più spesso aspetti analitici solo mediatamente riferibili ad individuabili
situazioni di diritto o di interesse.
Si tratta, nell’uno e nell’altro caso, di situazioni mai direttamente definite dalla legge e di derivazione
dottrinale e giurisprudenziale spesso collegate ad esigenze di preconcetti ed immobili schemi sistematici
piuttosto che ad ordinamenti e norme i quali supporrebbero, nel loro continuo aggiornarsi, il continuo
aggiornamento di un “ sistema “ che, dismessa la pretesa di imporsi alla legge, da questa ricevesse la sua
necessaria legittimazione.
Il dibattito, in proposito, è continuo e basti segnalare, di recente, la distinzione proposta dalla Corte di
Cassazione (Sez. un. 1 agosto 2006, n. 17461 ) che rivendica la giurisdizione del giudice ordinario in
ogni caso quando si sia in presenza di “ posizioni soggettive a nucleo rigido “ (es. in tema di salute e di
ambiente ) che, a differenza di quelle “ a nucleo variabile “, sarebbero assolutamente incomprimibili.
Siffatta tesi, espressamente contraddetta dalla Corte Costituzionale (sent. 27 aprile 2007, n. 140 ), reca
in se il corollario della inesistenza del provvedimento amministrativo che, pur emesso in applicazione di
legge, siffatti incomprimibili diritti in concreto incidesse.
Corollario che sembra meritare attenti approfondimenti nel punto in cui pare prescindere e dalle
attribuzioni esclusive della Corte Costituzionale in tema di verifica della costituzionalità delle leggi e
dalle attribuzioni del giudice amministrativo in tema di provvedimenti che conformemente a legge
incidono su situazioni soggettive degradandole, come si è soliti ripetere, ad interesse legittimo.
Riconosciuta a quest’ultimo giudice, com’è doveroso per chiunque, “ piena dignità di giudice “ e tenuto
conto della compiuta effettività della sua tutela, organizzata positivamente come efficace e sollecita, non
si vede la ragione perché le regole di discriminazione della giurisdizione debbano essere, a fronte dei
diritti c.d. “ a nucleo rigido “, di categoria, cioè, suscettibile di estensione ben oltre i casi esemplificati,
né si comprende la sottesa, asserita pretesa di una minore incisività della giurisdizione amministrativa .
Di tale opinione non è, per altro, lo stesso legislatore che, in maniera espressa ed univoca, ipotizza, con
l’art. 21 co. 8 della L. 1034/71, come integrato dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, provvedimenti cautelari
del giudice amministrativo anche in tema di “interessi essenziali della persona quali il diritto alla salute,
alla integrità dell’ambiente, ovvero ad altri beni di primario rilievo costituzionale”.
E’ ben vero che allo stato si riscontra positivamente in relazione a talune situazioni soggettive del
genere di quelle indicate e di altre ancora una ordinaria e prevalente giurisdizione del giudice civile che
in nessun modo si contesta; epperò, mentre non può escludersi che in astratto ed in concreto si
profilino situazioni di interesse legittimo ovvero di attribuzione di giurisdizione esclusiva, è seriamente
controvertibile una tesi che, muovendo dalla categoria dei diritti soggettivi incomprimibili e varcando la
soglia della sola descrittività, sancisca aprioristicamente limiti assoluti e non costituzionalmente posti
alla giurisdizione amministrativa.
Ai fini della concreta verificazione di questa è necessario poi ribadire che configurano situazioni
soggettive di interesse legittimo non solo quelle che come tali originariamente nascono in capo al loro
titolare sibbene anche quelle che pur qualificandosi genericamente ed in astratto di diritto soggettivo
siano, in presenza di una norma che ciò consenta e di un procedimento ovvero di un provvedimento in
tal senso indirizzato, successivamente apprezzabili in concreto come di interesse legittimo. Certo è
necessario che procedimento e provvedimento siano svolti e decisi da un’autorità a ciò competente,
senza che concorrano violazioni di legge, senza che intervengano sviamenti e note carenze. Questi,
tuttavia, sono puntualmente i vizi rimessi allo scrutinio della giurisdizione amministrativa, individuabile
anche in base al fondamentale criterio, appresso approfondito, della riconducibilità della lesione sofferta
all’esercizio del potere autoritativo in astratto conferito all’autorità. Il criterio innovativo come
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innovativa è stata la citata legislazione, è per altro frutto anche del consapevole contributo di tutte le
riflessioni che, in più di un secolo di elevato e fertile impegno, dottrina e giurisprudenza hanno arrecato
: dalla distinzione delle norme di azione dalle norme di relazione, dalle dottrine del diritto condizionato
ed affievolito fino alla stessa rilevata notazione dei c.d. diritti a “nucleo rigido “ non v’è nulla di
totalmente superato ovvero di superabile con improvvisazione e in ogni riflessione si riscontra un
elemento di validità che è di ausilio per sciogliere nodi che legislazione e pronunce costituzionali
tendono oggi a rendere meno aggrovigliati nel contestuale riconoscimento della unitarietà, quoad
effectum, della giurisdizione, attribuita sì a giudici diversi, ma di uguale dignità, muniti di analoghi poteri
ugualmente compiuti ai fini della completezza delle tutele di merito loro commesse, ugualmente intesi
ad attuare i precetti degli artt. 24 e 111 Cost. (cfr. Cort. Cost., 12 marzo 2007, n. 77).
Questi aspetti unitari, che valgono ad attenuare, almeno nella concretezza delle vicende giudiziarie, il
rilievo di talune estreme questioni di giurisdizione, non consentono, tuttavia, di inferirne il corollario,
come avanti si vedrà in tema di “pregiudiziale amministrativa”, della necessità, formale e sostanziale,
della uguaglianza della tutela.
V - Si sono posti, al secondo proposito, con riferimento, cioè, al nuovo assetto come sopra descritto, il
problema della estensione della giurisdizione esclusiva, sia con riferimento a materie ritenute di solo
diritto soggettivo sia con riferimento a precisazioni del legislatore ordinario dell’ambito di cognizione
concreta del giudice amministrativo ed il problema, inoltre, della connessione tra la domanda di
annullamento e la domanda risarcitoria.
Su questi ed altri problemi, approfonditi in dottrina, è ripetutamente intervenuta, con puntuali
pronunce, la Corte Costituzionale che, con le sentenze innanzi citate ha precisato:
a) i confini della giurisdizione esclusiva relativa alla materia dei pubblici servizi e della giurisdizione
esclusiva relativa alla materia urbanistica ed edilizia e delle espropriazioni;
b) la natura del potere del giudice amministrativo di provvedere sulle domande risarcitorie e sugli altri
diritti patrimoniali consequenziali alla pronuncia di annullamento.
Così in materia di pubblici servizi, dalla quale sono state espunte controversie ritenute di diritto
soggettivo e, perciò, di pertinenza della giurisdizione ordinaria, come in materia di urbanistica ed edilizia
nonché delle espropriazioni, la Corte Costituzionale, confermata la nodale relazione tra l’esercizio di
poteri pubblici autoritativi e la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ha segnato il limite di
quest’ultima.
Ha cioè dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 33 co. 1 D.Lg.vo 31 marzo 1990, n. 80, come
sostituito dall’art. 7 lett. b. della L. 21 luglio 2000, n. 205, dell’art. 34 co. 1 del medesimo decreto,
nonché dell’art. 53, co.1, del D.Lg.vo 8 giugno 2001, n. 325 ( v. D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 53 )
nella parte in cui, devolvendo alla giurisdizione esclusiva le controversie relative a “ i comportamenti
delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti ad esse equiparati non esclude i comportamenti non
riconducibili, nemmeno mediamente, all’esercizio di un pubblico potere “ (così Cort. cost. 11 maggio
2006, n. 191 con riferimento alla giurisdizione esclusiva in tema di espropriazione per pubblica utilità e,
in precedenza, Cort. cost. 6 luglio 2004, n. 204 ).
Puntualizzato, da una parte, che l’aggettivo “ mediatamente “ si riferisce, come sopra ricordato, ai casi
in cui l’esercizio del potere si realizza nelle consentite forme negoziali, e , d’altra parte, che sussiste,
nelle motivazioni delle due sentenze, ancora riprese da quelle successive, un espresso legame sì che esse,
integrandosi costituiscono un unico, coerente disegno nei limiti del quale la Corte ammette la legittimità
costituzionale delle norme scrutinate, deve subito fissarsi un primo punto.
I “comportamenti”, cioè, che esulano dalla giurisdizione amministrativa esclusiva non sono
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tutti i comportamenti, ma solo quelli che, tenuto conto dei riferimenti formali e fattuali di ogni
concreta fattispecie, non risultano riconducibili all’esercizio di un pubblico potere.
Altrimenti detto, quando può affermarsi che nella specie sia rilevabile un oggettivo, e non
meramente intenzionale, svolgersi di un’attività amministrativa costituente esercizio di un
potere astrattamente riconosciuto alla pubblica amministrazione o ai soggetti ad essa
equiparati, sussiste ogni elemento sufficiente ad affermare la giurisdizione amministrativa.
Caratterizzante, perciò, non è la legittimità dell’esercizio del potere, che, se fosse richiesta,
finirebbe per privare di causa la tutela appunto prevista per i casi di incompetenza, violazione
di legge ed eccesso di potere, né lo è il maggiore o minore spessore della illegittimità ovvero
della situazione giuridica tutelata.
Caratterizzante è , invece, la mera emersione di un agire causalmente riferibile ad una funzione
che per legge appartenga all’amministrazione agente e che per legge questa sia autorizzata a
svolgere e che, in concreto, risulti svolta.
Se così è, l’in sé dell’esercizio del potere deve rilevarsi, prioritariamente, in materia
comportamentale, non tanto dalle intenzioni e dalla generiche dichiarazioni del soggetto
pubblico agente quanto dalle oggettive vicende procedimentali che, mentre nella grande
maggioranza dei casi precedono ed accompagnano il fenomeno comportamentale,
testimoniano esse, oggettivamente, della rilevanza e della finalità e della consistenza del
comportamento consentendo di individuarne la genesi e di distinguerlo dai casi di semplice
generica presupposta esistenza del pubblico interesse.
La illegittimità di questo o quel momento procedimentale , cioè di quella serie formale
strumentalmente rivolta a realizzare l’interesse pubblico e sintomatica dell’agire autoritativo
consentito dalla legge , può sì far concludere per la illegittimità e, nei congrui casi, per la
illiceità del comportamento con effetti anche analoghi o uguali a quelli propri della accertata
carenza del potere, ma tale conclusione spetta al giudice cui, con garanzie ed effettività di
certo non inferiori a quelle apprestate dal giudizio ordinario, compete alla stregua
dell’ordinamento: al “giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica “.
E a questo “giudice naturale “ compete, in diretta applicazione dei principi di effettività e di
concentrazione della tutela nonché delle norme poste dal legislatore ordinario, di conoscere
non solo delle domande intese all’annullamento dell’attività autoritativa e, comunque,
impugnatorie ma “di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno ingiusto,
anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali
consequenziali”; risarcimento che, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, è “disposto” con
procedure anche innovative (v. art. 7 e 8 L. n. 205 del 2000).
In proposito la Corte Costituzionale, chiarita la irrilevanza della natura giuridica intrinseca alla pretesa
risarcitoria, se di per sé di diritto soggettivo o meno, ha escluso la configurabilità della giurisdizione
ordinaria “per ciò solo che la domanda abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno” ed ha
dichiarato costituzionalmente legittimo il nuovo sistema di riparto che riconosce esclusivamente al
giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena
tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto
per l’illegittimo esercizio della funzione.
Ciò in quanto il potere di risarcire il danno ingiusto non costituisce una nuova materia attribuita alla
cognizione del giudice amministrativo ma uno “strumento di tutela ulteriore “ rispetto a quello
demolitorio, strumento che, in armonia con l’art. 24 Cost. ne completa i poteri “non soltanto per
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effetto della esigenza di concentrare davanti ad un unico giudice l’intera protezione del cittadino
avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica, ma anche perché quel giudice è idoneo ad
offrire piena tutela” oltre che agli interessi legittimi “ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente
garantiti coinvolti nell’esercizio della funzione amministrativa “ ( Cort. cost. 27 aprile 2007, n. 140).
L’illegittimità dell’esercizio del potere, nel senso sopra precisato, comporta, dunque, sempre nel caso di
lesione di interessi e, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, anche nel caso di lesioni di diritti
soggettivi, di qualsiasi spessore, la configurabilità della sola giurisdizione amministrativa così nel caso
che la domanda risarcitoria venga proposta congiuntamente a quella demolitoria come nel caso che
venga proposta autonomamente, derivandosi anche in tal caso la risarcibilità del danno dalla ipotizzata
illegittimità dell’attività amministrativa.
La Corte di Cassazione, pur convenendo su tali conclusioni generali (v. già Cass. 23 gennaio 2006, n.
1207), sottolinea ancora , non senza rimarchevoli oscillazioni, perplessità di non lieve momento.
Adducendo ora la perdurante vigenza della L. 20 marzo 1865, all. E, artt. 2 e 4, e non solo dei suoi
generali principi così come costituzionalmente recepiti, ora, con non felice espressione, una asserita
difficoltà del giudice amministrativo a penetrare le regole civilistiche sul risarcimento del danno
ingiusto, ora la individuabilità di diritti in assoluto riservati alla tutela ordinaria, la indicata Corte :
1) limita i casi in cui si è in presenza di “un concreto esercizio del potere“ ai casi in cui l’esercizio stesso
sia riconoscibile come tale perché a sua volta deliberato nei modi e in presenza dei requisiti richiesti per
valere come atto o provvedimento e non come mera via di fatto ( Sez. un. 13 giugno 2006, n. 13659)
“in consonanza con le norme che lo regolano “ (Sez. un. 15 giugno 2006, n. 13911; Cass. 7 febbraio
2007, n. 2691);
2) costruisce una categoria di diritti incomprimibili in maniera assoluta e perciò sempre da comprendere
nell’ambito della giurisdizione ordinaria ;
3) asserisce che la giurisdizione amministrativa è rifiutata ove, in presenza di autonoma domanda
risarcitoria, il giudice non provvede all’esame di merito per la ragione che nel termine per ciò stabilito
non sono stati chiesti l’annullamento dell’atto e la conseguente rimozione dei suoi effetti. In tali
circostanze avverte la Corte, il rifiuto si espone a cassazione ex art. 362, co. 1, cod.proc.civ. (Sez.un. 13
giugno 2006, n. 13659 e n. 13660; 5 gennaio 2007, n. 13; 19 gennaio 2007, n. 1139).
Si tratta, come ognuno vede, di perplessità gravi nella misura in cui sostanzialmente evocano, per via di
una definizione resa fortemente restrittiva dal suo carattere analitico, la dicotomia sussistenza del potere
– esercizio del potere nei termini, anch’essi ambigui , precedenti il nuovo assetto di riparto della
giurisdizione; nella parte in cui confliggono con le univoche dichiarazioni della Corte Costituzionale 27
aprile 2007, n. 140 in tema di c.d. diritti incomprimibili e 12 marzo2007, n. 77 in tema di limiti, ex art.
362 e 386 cod.proc.civ., inerenti il controllo dei confini esterni della giurisdizione; nella parte in cui,
varcando tali limiti, assoggetta a nuove forme di sindacato le sentenze del giudice amministrativo.
Al primo proposito si rileva che, proprio con riferimento alla materia delle espropriazioni, la Corte di
Cassazione, nel suo indirizzo più radicale (v. Sez. un. 7 febbraio 2007, n. 2688, 2689, 2691; 13 febbraio
2007, n. 3048; 19 febbraio 2007, n. 3723; 12 aprile 2007, n. 9323) che sembra attenuato da altro pur
recentemente confermato indirizzo (Sez. un. 20 dicembre 2006, n. 27190 e 27192), configura la
giurisdizione ordinaria non solo, com’è pacifico, nei casi in cui l’amministrazione agisce, fuori di ogni
schema procedimentale, in via di fatto, ma anche nei casi in cui la dichiarazione di pubblica utilità risulti
“radicalmente nulla “ per omessa indicazione dei termini per l’espropriazione o per scadenza degli
stessi, ovvero per imprecisioni nella indicazione delle aree.
In tali casi, ed inoltre nei casi di decreto di espropriazione emesso fuori termine, rilevandosi anche
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violazione dell’art. 42 Cost., si sarebbe, secondo la Corte, in presenza di vizi di spessore maggiore di
quelli che, in altri casi, inducendo il giudice amministrativo all’annullamento della dichiarazione di
pubblica utilità o del decreto di espropriazione, legittimerebbero, sia pure per sole esigenze di
concentrazione, la giurisdizione amministrativa (v. Sez. un. 2 luglio 2007, n. 14594).
Ora la perplessità che tale indirizzo suscita non attiene soltanto alla identificazione di una categoria di
speciali vizi che non sembra trovare conforto positivo e che anzi contrasta con le disposizioni
analiticamente introdotte con l’art. 14 della L. 11 febbraio 2005, n. 15, ma nella sostituzione del criterio
della riferibilità dell’esercizio del potere all’agire autoritativo, riferibilità che come sopra si è visto chiama
in causa l’intero procedimento, con il criterio del sindacato concreto della legittimità del provvedimento
della cui applicazione si tratta, che non si vede come possa tal volta competere al giudice ordinario e tal
altra al giudice amministrativo.
In materia di espropriazione, poi, si prescinde del tutto – non solo dal nuovo regime della nullità
introdotto, ad integrazione della L. 7 agosto 1990, n. 241, dall’art. 14 della L. 11 febbraio 2005, n. 15 –
ma anche dall’entrata in vigore, il 30 giugno 2003, del T.U. approvato con D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327,
il cui art. 43 sembra, come si preciserà più avanti, avere apportato sul punto definitivi chiarimenti.
Dei diritti c.d. incomprimibili s’è detto.
VII - Quanto, infine, al problema della c.d. pregiudizialità amministrativa, istituto risalente nel tempo ed
utilizzato di recente in tema di appalti (v. art. 13 L. 19 febbraio 1992, n. 142 e, per qualche profilo
generale, Corte cost. 8 maggio 1998, n. 165), esso è estremamente complesso (v.Ad. plen. 26 marzo
2003, n. 4) e qui non pertinente se non per la sua connessione, già richiamata dalla Corte di Cassazione,
con la questione della giurisdizione.
Basti, perciò, enunciarne taluni profili problematici, relativi:
- il primo, alla struttura stessa della tutela del giudice amministrativo che, come si è visto è, specialmente
articolata sia in sede di giurisdizione di legittimità sia in sede di giurisdizione esclusiva, nel senso che il
provvedimento amministrativo lesivo di un interesse sostanziale (e non, perciò, il mero
comportamento) può essere aggredito e in via impugnatoria, per la sua demolizione, e
“conseguenzialmente” in via risarcitoria, per i suoi effetti lesivi, ponendosi, nell’ uno e nell’altro caso, la
questione della sua legittimità.
Il carattere “conseguenziale” ed “ulteriore” della tutela risarcitoria, espressamente ed inequivocamente
posto, in armonia con gli artt. 103 e 113 co. 3 Cost., dall’art. 35. co. 1 e 4 del D.Lg.vo 31 marzo 1988, n.
80 e confermato dal successivo co. 5 che comunque abroga “ogni disposizione che prevede la
devoluzione al giudice ordinario della controversie sul risarcimento del danno” ancora una volta visto
come “conseguente all’annullamento di atti amministrativi”, sembra invero incontestabile.
Ed è confermato dalla ritenuta riferibilità della pronuncia di condanna all’insieme dei poteri strumentali
attribuiti al giudice per rimediare compiutamente alla lesione della situazione soggettiva
concettualmente, prima ancora che positivamente, unica e ciò sia che l’esercizio dei poteri del giudice
sia chiesto contestualmente sia che, giudizialmente accertatasi la illegittimità, sia richiesto, per vero con
condivisa interpretazione estensiva non del tutto allineata, tuttavia, con le convenienze della
“contestualità”, l’esercizio di ulteriori poteri prima non sollecitati.
Non c’è traccia, nella pronunce della Corte Costituzionale di alcun sospetto di illegittimità
costituzionale di siffatto disegno ed, anzi, sembra agevole inferirne il contrario.
L’istituto, per altro, autorevolmente confermato da motivate pronunce della stessa Corte di Cassazione
(v. 10 gennaio 2003, n. 157; 27 marzo 2003, n. 4538; 23 gennaio 2006, n. 1207), ha, oltre a radici
storiche e letterali di univoco rilievo, ragioni del pari univoche.
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Deve considerarsi, in proposito, che diritto ed interesse, benché molto spesso partecipi di una
assimilabile pretesa ad un c.d. bene della vita, sono situazioni soggettive fortemente differenziate e tali
ritenute già a livello costituzionale.
Il primo, per dirla nei noti, riassuntivi termini, è assistito da una tutela tendenzialmente piena e diretta e,
nei suoi confronti, è sempre circoscritta la eventualità di condizionamenti esterni, anche se imputabili
ad una amministrazione pubblica e, perciò, ad interessi generali.
Il secondo origina da un compromesso, chiaramente solidaristico, tra le esigenze collettive di cui è
portatrice, ex art. 97 e 98 Cost.., la amministrazione stessa e la pretesa, di colui che dalla loro legittima
soddisfazione è coinvolto, di veder preservati quei suoi beni giuridici che preesistono all’attività
pubblica ovvero che nel corso di questa si profilino.
Ne deriva un coinvolgimento costante dell’interesse del singolo nell’interesse della collettività che si
esprime nell’attività, non libera, ma doverosa e funzionalizzata dell’amministrazione e questo legame
genetico spiega non solo la previsione di una giurisdizione a ciò specificamente deputata ma, insieme, le
differenze, che rimangono marcate, che possono individuarsi e in tema di discipline processuali e in
tema di connotati della tutela .
I commendevoli contributi acquisiti, in sede dottrinale e giurisprudenziale, in tema “giudizio sul
rapporto“, non sembrano condivisibili ove approdino al disconoscimento della natura principalmente
impugnatoria dell’azione innanzi al giudice amministrativo, cui spetta non solo di tutelare l’interesse
privato ma di considerare e valutare gli interessi collettivi che con esso si confrontano e, non solo di
annullare, bensì di “conformare” l’azione amministrativa affinché si realizzi un soddisfacente e legittimo
equilibrio tra l’uno e gli altri interessi.
Queste essenziali circostanze, mentre si riflettono sui diversi caratteri del giudizio amministrativo
rispetto a quello civile, nel quale si contrappongono pretese ascrivibili ad analoghe fonti e di regola
sottratte ad interferenze esterne da parte dell’autorità pubblica, sembrano spiegare e giustificare e la
priorità dell’azione impugnatoria, nel cui ambito soltanto è possibile e doveroso esercitare
compiutamente l’anzidetto vaglio di legittimità nonché misurare spessore e valenza così della dedotta
situazione soggettiva come della denunciata lesione, e la posta “conseguenzialità “ rispetto ad essa,
dell’azione risarcitoria.
Non si trascuri che il risarcimento del danno, oltre che “conseguenziale” è previsto, nell’ambito della
processualmente qualificante giurisdizione di legittimità, anche come “eventuale” con un attributo, cioè,
che mentre è di regola oggetto di ingiustificata pretermissione, riassume e sottopone alla
consapevolezza del giudice i travagli che le relative norme hanno inteso risolvere e che, in dottrina,
hanno persino indotto a configurare come “speciale” la figura in discorso.
Si ricorderà che la stessa Corte costituzionale aveva avuto modo, nel sottolineare l’urgenza di
“prudenti” soluzioni normative, di ipotizzare “scelte tra misure risarcitorie, indennitarie, reintegrative in
forma specifica e ripristinatorie” nonché la “delimitazione delle utilità economiche suscettibili di ristoro
patrimoniale nei confronti della pubblica amministrazione” (v.ord.8 maggio 1998, n, 165 e sent. 25
marzo 1980, n. 35) nella considerazione della inesistenza della copertura di rilievo costituzionale della
pretesa “regola generale di integralità della riparazione ed equivalenza al danno cagionato” (Cort. Cost.
2 novembre 1996, n. 369), con evidenti rilessi anche di natura processuale.
E’ su queste premesse che, rimasta inattuata la articolata delega di cui all’art. 20 co. 5, lett. h, della legge
15 marzo 1997, n. 59, il legislatore è, infine, pervenuto a stabilire, con formula che privilegia le ritenute
esigenze di concentrazione dei giudizi, il criterio della conseguenzialità - evidentemente inteso a
confermare la priorità del processo impugnatorio e in vista della prevalenza dell’interesse collettivo al
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pronto e risolutivo sindacato dell’agire pubblico e in vista della convenienza, per la collettività,
dell’esercizio del sindacato stesso secondo criteri e modalità che, essendo positivamente propri del
giudizio di annullamento, da esso non consentono di prescindere - ed il criterio della “eventualità “ del
risarcimento del danno arrecato all’interesse legittimo, criterio rafforzato dalla diversa prescrizione in
tema di giurisdizione esclusiva e che, perciò, non solo esclude automatismi ma impone i predetti
apprezzamenti specifici, possibili soltanto allorché sia in causa, siccome suo oggetto principale e diretto,
il provvedimento, con le sue ragioni ed i suoi effetti.
E’ su queste premesse, perciò, che dev’essere apprezzato il vulnus che si ritiene connesso alla c.d.
pregiudiziale amministrativa che, in effetti, da un lato corrisponde ad avvertite esigenze di controllo,
convenientemente sollecitate dalle azioni impugnatorie, della legittimità e della trasparenza dell’azione
autoritativa e, d’altra parte, consente il compiuto rilievo degli interessi collettivi e generali coinvolti,
rilievo certamente monco e claudicante anche con riferimento alla giurisdizione esclusiva, pur sempre
relativa anche ad interessi legittimi e a diritti “degradati”, nell’ambito di un processo di solo tipo
risarcitorio, nel quale, per altro, gli interessi economici coinvolti appaiono non più rilevanti degli
interessi spesso anche di libertà che si fanno valere, senza che la relativa decadenza sia motivo di
censura, nel processo di annullamento.
Lo stesso soggetto leso sembra avere convenienza, a fronte dei non gravissimi disagi correlati alla
previsione di decadenza, agevolmente superabili con il doveroso uso della diligenza media e certamente
più ridotti rispetto a quelli che la legislazione consente o impone in altre anche se diverse materie, a
sperimentare preventivamente l’azione di annullamento, nella cui procedura e nella cui finalità
strumentale, gli è consentito rilevare vizi ed approfondirne lo spessore con risultati ben utili ai fini
dell’accertamento compiuto dell’an e del quantum della richiesta riparazione.
Ragioni sostanziali, dunque, non meno che formali, sembrano assistere le conclusioni già raggiunte
dall’Adunanza plenaria;
- il secondo, alla c.d. presunzione di legittimità, che, mentre involge radicati poteri della pubblica
amministrazione e positivi caratteri dei suoi provvedimenti, come la efficacia e la esecutorietà,
emergenti da una legislazione costante nel tempo, si tramuta da relativa in assoluta allorché, nel termine
di decadenza, - certamente eluso in ipotesi di vanificazione della pregiudiziale - siasi omessa
impugnazione ovvero finchè, in presenza di discrezionale apprezzamento, non sia intervenuto
annullamento d’ufficio (v. L. 11 febbraio 2005, n. 15 );
- il terzo, alla articolazione della tutela sopra ricordata che, in entrambi i suoi casi, concerne la stessa
illegittimità del provvedimento strumentalmente invocata, “principaliter”, e ai fini del buon esito della
domanda impugnatoria e ai fini del buon esito della domanda risarcitoria con la conseguenza che,
costituisca il “danno ingiusto” fatto o, come sembra preferibile, fattispecie, esso non può essere
configurato a fronte di una illegittimità del provvedimento che, per l’assolutezza della cennata
presunzione, è, de jure, irreclamabile ;
- il quarto, alla incidenza della lamentata “decadenza” che attiene, a ben vedere, all’azione impugnatoria
invece che all’azione risarcitoria, impedita, piuttosto che dalla decadenza, dalla non configurabilità, in
presenza di un provvedimento inoppugnabile così come in presenza di un provvedimento inutilmente
impugnato, di una sua condizione che la contraddizione legittimità-illeceità rende essenziale, la formale
inesistenza, cioè, della ingiustizia del danno che è nucleo essenziale, anche se non sufficiente, della
illiceità;
- il quinto, alla concreta equivalenza del giudicato che, rilevando immediatamente la inesistenza della
appena ricordata condizione, dichiari la improponibilità della domanda col giudicato che,
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pronunciandosi, come si pretende, nel merito dichiari infondata – e questa volta con pronuncia
inequivocabilmente sottratta a verifica ex art. 362 cod.proc.civ. - la domanda per difetto della
denunziata illegittimità;
- il sesto, al reclamato potere regolatore della Corte di Cassazione ( Sez. un, 19 gennaio 2007, n. 1139; 4
gennaio 2007, n. 13 ) che, secondo il correlato avvertimento della Corte Costituzionale (sent. 12 marzo
2007, n. 77) , “con la sua pronuncia può soltanto, a norma dell’art. 111, comma ottavo, Cost., vincolare
il Consiglio di Stato e la Corte di Conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia, ma certamente
non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione “. Ad
analogo principio, prosegue la Corte Costituzionale “si ispira l’art. 386 cod. proc. civ. applicabile anche
ai ricorsi proposti a norma dell’ art. 362, comma primo cod. proc. civ., disponendo che “la decisione
sulla giurisdizione è determinata dall’oggetto della domanda e, quando prosegue il giudizio, non
pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda” ;
- il settimo, ma non ultimo, relativo alla correlata verifica degli eventuali limiti dell’indirizzo della Corte
di Cassazione secondo cui la inoppugnabilità dell’atto amministrativo, siccome relativa agli interessi
legittimi, non impedirebbe in nessun caso al giudice ordinario di disapplicarlo (v. Cass. 9 maggio 2006,
n. 10628 e Cass. 26 maggio 2006, n. 12646).
VIII - Quanto si è fin qui considerato consente di confermare l’attualità degli indirizzi già assunti
dall’Adunanza plenaria con riferimento alla questione da decidere, in merito alla quale la giurisdizione
amministrativa è affermata anche dalle Sezioni unite (v., da ultimo, 2 luglio 2007, n. 14954).
Già con pronuncia 30 agosto 2005, n. 4 l’Adunanza plenaria ha posto il principio secondo cui deve
configurarsi la giurisdizione amministrativa in ordine a “liti che abbiano ad oggetto diritti soggettivi
quando la lesione di questi ultimi tragga origine, sul piano eziologico, da fattori causali riconducibili
all’esplicazione del pubblico potere, pur se in un momento nel quale quest’ultimo risulta ormai mutilato
nella sua forma autoritativa per la sopraggiunta inefficacia disposta dalla legge per la mancata
conclusione del procedimento” e ciò anche se il risarcimento è autonomamente richiesto, nei limiti
temporali della prescrizione quinquennale (v. Ad. pl. 9 febbraio 2006, n. 2), di seguito all’intervenuto
annullamento del provvedimento degradatorio, anche in via di autotutela.
Nello stesso senso si è poi pronunciata Ad. plen. 16 novembre 2005, n. 9, che, anche richiamando
analoghi orientamenti delle Sezioni Unite ( ord. 22 novembre 2004, n. 21944 e sent. 31 marzo 2005,
n.6745), ha ritenuto compresa nella giurisdizione amministrativa quelle “condotte che si connotano
quale attuazione di potestà amministrative manifestatesi attraverso provvedimenti autoritativi che
hanno spiegato, secundum legem, i loro effetti pur se successivamente rimossi, in via retroattiva, da
pronunce di annullamento”.
Più di recente Ad. plen. 30 luglio 2007, n. 9 che, in fattispecie per più versi analoga, conclude che “nella
materia dei procedimenti di esproprio sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le
controversie nelle quali si faccia questione - naturalmente anche ai fini complementari della tutela
risarcitoria - di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di
pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all’interno del quale sono state espletate
non sia sfociato in un tempestivo atto traslativo ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi
dichiarati illegittimi”.
Infine Ad. plen. 30 luglio 2007, n. 10, ha statuito che pur nell’ambito della giurisdizione generale di
legittimità spetta al giudice amministrativo conoscere, ai fini risarcitori, dei danni conseguiti ad un
provvedimento amministrativo annullato per intervenuta scadenza del suo termine di efficacia (nella
specie : requisizione) anche se i danni stessi si sono verificati dopo la stessa scadenza.
62
Ne deriva, conclusivamente, che la domanda per cui è causa è stata correttamente compresa,
dal giudice di primo grado, nella giurisdizione del giudice amministrativo in quanto intesa a
rimediare, insieme in via impugnatoria e risarcitoria, ad una lesione che risulta conseguente ad
una serie procedimentale certamente svolta, dalla Provincia di Modena, nella sua veste di
Autorità nell’esercizio, sia pure illegittimo, del potere ad essa spettante.
Assumono particolare rilievo, ai fini della riconducibilità della lesione all’esercizio del potere
pubblico, i provvedimenti di variazione e di integrazione della pianificazione urbanistica, i
reiterati provvedimenti di dichiarazione di pubblica utilità, i conseguenziali provvedimenti di
occupazione e di determinazione e deposito delle indennità nonché lo stesso provvedimento di
trasferimento della proprietà che, benché adottato dopo la scadenza del termine fissato dalla
dichiarazione di pubblica utilità e perciò illegittimo e perciò annullato, da una parte non inficia
la dispiegata efficacia degli atti posti in essere precedentemente – atti giunti a configurare la
irreversibile destinazione del bene all’uso pubblico - e, d’altra parte, non vulnera la ritenuta
riconducibilità procedimentale dell’attività amministrativa all’esercizio di un pubblico potere
autoritativo.
IX - Si deve, infine, sottolineare – e la circostanza sembra avere chiari riflessi nella intera materia delle
espropriazioni per pubblica utilità - che, è intanto entrato in vigore, con decorrenza 30 giugno 2003, il
T.U. approvato con D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, (v. in merito all’art. 57, Ad. plen. 29 aprile 2005, n. 2
e Sez.un. 30 maggio 2005, n. 11336 e 2 luglio 2007, n. 14954) che, nel suo art. 43 detta una innovativa
disciplina in tema di fattispecie già inquadrate negli schemi, contrastati anche dalla Corte di Strasburgo,
della c.d. accessione invertita, derivi essa da occupazione acquisitiva o usurpativa.
In presenza di utilizzazione di un bene immobile per scopi di interesse pubblico - prescrive la norma -
che sia modificato “in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo di
pubblica utilità “ l’autorità cui risale l’utilizzazione “anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia
sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il
decreto di esproprio” può disporre che l’immobile stesso “vada acquisito al suo patrimonio
indisponibile” con provvedimento discrezionale che, verso determinazione e preventivo pagamento
della misura del risarcimento del danno, comporta il trasferimento del diritto di proprietà.
La norma, che rimette alla valutazione discrezionale dell’amministrazione di negare la restituzione del
bene e che attribuisce al giudice amministrativo di sindacare, nell’ambito della giurisdizione attribuitagli
ai sensi del successivo art.53, le ragioni del diniego - secondo alcuni con competenza non solo esclusiva
ma estesa al merito - sembra rilevare, per quanto qui interessa, sotto due aspetti.
Da una parte ed in generale essa conferma, infatti, quanto si è venuto esponendo in tema di positiva
priorità del criterio di discriminazione fondato sulla “riconducibilità” dell’esercizio del potere all’autorità
per altro estendendo la possibilità di accertarlo anche per via del solo accertamento della qualifica di
“autorità” del soggetto agente e delle strumentalità del suo agire ai fini della realizzazione degli “scopi di
interesse pubblico” la cui cura è ad essa commessa.
D’altra e più specifica parte la norma importa, ed i suoi compiuti effetti debbono essere ovviamente
verificati nel nuovo quadro definito dall’intero decreto, una profonda revisione degli istituti
dell’accessione invertita così come introdotti e sviluppati dalla giurisprudenza.
La fattispecie regolata resta per più di un verso analoga nei suoi tratti generali posto :
- che non è sufficiente il mero impossessamento del bene immobile altrui ma è necessario che lo stesso
immobile sia anche “modificato” ed “utilizzato per scopi di interesse pubblico”, che, cioè, si sia in
presenza e di un’attività materiale e di una sua obiettiva strumentalità;
63
- che permane l’esigenza della qualificazione del soggetto pubblico agente, che, dovendo configurarsi
come “autorità” deve agire, alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata, nel
riconoscibile esercizio dei suoi poteri autoritativi.
L’istituto è per altro innovato sia, come già rilevato, quanto ai modi di emersione di questo esercizio
rispetto ai quali appare fortemente recessiva la rilevanza dei momenti procedurali della dichiarazione di
pubblica utilità e del decreto di espropriazione e sintomatica, perciò,la sola astratta previsione del
potere; sia quanto all’estensione dell’ambito della discrezionalità amministrativa; sia quanto al
meccanismo del trasferimento della proprietà del bene immobile, del quale l’autorità può rifiutare la
restituzione nel solo ambito delle cennate garanzie giuridiche ed economiche, la cui esigenza è stata
specialmente sottolineata dalla Corte di Strasburgo; sia con riferimento alla tutela giudiziaria,
interamente attribuita, ora, con la sola eccezione delle “vie di fatto” materiali, al giudice amministrativo,
ben al di là, perciò, dei limiti precedentemente affermati.
Si realizza per tale maniera, nella materia delle espropriazioni (eccezion fatta per le questioni
indennitarie) quella estesa concentrazione della giurisdizione che è tra gli obiettivi prioritari della recente
legislazione e che, coerente con la acquisita pienezza dei poteri del giudice amministrativo, consente
ponderate riflessioni anche nelle altre materie che tuttora esprimono elementi di incertezza sul tema per
più versi centrale degli esposti criteri di discriminazione.
X - Ne deriva che, ritenuta e dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo, l’appello deve essere
respinto con assorbimento del ricorso incidentale.
Le spese del grado di giudizio, tenuto conto della complessità delle questioni esaminate e del relativo
esito, possono compensarsi.
Deve ordinarsi la rimessione degli atti di causa al Tribunale regionale amministrativo per la Lombardia,
sezione di Brescia, per la definizione del giudizio
P.Q.M.
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ritenuta e dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo,
respinge l’appello con assorbimento del ricorso incidentale.
Compensa le spese del giudizio di appello.
Ordina la rimessione della causa al Tribunale regionale amministrativo per la Lombardia , sezione di Brescia, per
la definizione del giudizio.
3.3.1 Riparto di giurisdizione e diritti inaffievolibili o a nucleo rigido
Corte Costituzionale, sentenza del 27 aprile 2007, n. 140: normativa in materia di impianti
di generazione di energia elettrica e incomprimibilità del diritto alla salute e alla salubrità
dell’ambiente
64
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale di Civitavecchia dubita, in riferimento agli articoli 103 e 25 della
Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 552, della legge 30 dicembre
2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -
legge finanziaria 2005), nella parte in cui devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo le controversie aventi ad oggetto le procedure ed i provvedimenti in materia di
impianti di energia elettrica di cui al decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7 (Misure urgenti per
garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 9
aprile 2002, n. 55 e le relative questioni risarcitorie.
2. – Sulle eccezioni di carattere preliminare sollevate da più parti si osserva quanto
segue.
(omissis)
3. – Con riferimento all’altro parametro, costituito dall’art. 103, primo comma, Cost., il
rimettente ricorda che l’art. 1, comma 552 della legge n. 311 del 2004 – nella parte in cui
dispone che «Le controversie aventi ad oggetto le procedure ed i provvedimenti in materia di
impianti di generazione di energia elettrica di cui al decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7,
convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2003 [recte: 2002], n. 55, e le relative questioni
risarcitorie sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo» – consente di
ricomprendere la fattispecie in esame, pur in considerazione delle peculiarità degli interessi fatti
valere con il ricorso introduttivo del giudizio cautelare. Ciò, sia perché la norma censurata
include espressamente le azioni risarcitorie (rispetto alle quali l’azione inibitoria promossa dal
Comune ricorrente si colloca in posizione anticipatoria), sia perché l’ambito delle controversie
riservate alla giurisdizione esclusiva del TAR risulta definito da una «endiadi (procedure e
provvedimenti in materia di impianti) non agevolmente delimitabile». In tal modo – a giudizio
del rimettente - la norma finisce con l’includere, in modo del tutto indipendente dalla natura
degli interessi lesi, qualsiasi controversia interferente con la progettazione, la realizzazione,
l’esistenza e il funzionamento di un impianto di energia elettrica. E ciò, in violazione dell’art.
103, primo comma Cost.
La questione non è fondata.
Il progetto di riconversione della centrale in questione prevedeva la realizzazione di un impianto
di potenza superiore a 300 MW termici, per la cui approvazione si era fatto ricorso al
procedimento di autorizzazione unica previsto dall’art. 1 del decreto- legge n. 7 del 2002,
convertito dalla legge n. 55 del 2002.
65
Secondo l’art. 1, comma 1, del citato decreto-legge, emanato in conformità con la
direttiva n. 96/92/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 dicembre 1996,
(concernente norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica), attuata con il decreto
legislativo 16 marzo 1999, n. 79, «la costruzione e l’esercizio degli impianti di energia elettrica di
potenza superiore a 300 MW termici, gli interventi di modifica o ripotenziamento, nonché le
opere connesse e le infrastrutture indispensabili all’esercizio degli stessi, sono dichiarati opere di
pubblica utilità e soggetti ad una autorizzazione unica rilasciata dal Ministero delle attività
produttive, la quale sostituisce autorizzazioni, concessioni ed atti di assenso comunque
denominati, previsti dalle norme vigenti [….] costituendo titolo a costruire e ad esercitare
l’impianto in conformità al progetto approvato»
Per effetto del comma 2 l’autorizzazione di cui al comma 1 è rilasciata «a seguito di un
procedimento unico, al quale partecipano le Amministrazioni statali e locali interessate, svolto
nel rispetto dei princípi di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n.
241 e successive modificazioni, d’intesa con la regione interessata».
Il procedimento seguito nel caso di specie s’inquadra perfettamente nella formulazione
della norma denunciata che parla di «procedure e […] provvedimenti in materia di impianti di
generazione di energia elettrica», proprio per indicare quel procedimento complesso, in ragione
del coinvolgimento di più soggetti pubblici, il quale si conclude con i provvedimenti specifici
riguardanti le singole modalità attuative degli interventi inerenti gli impianti in questione.
La norma censurata, d’altronde, è conforme all’orientamento espresso nelle sentenze n. 204 del
2004 e, soprattutto, n. 191 del 2006 di questa Corte. Secondo tali pronunce, l’art. 103 Cost.,
pur non avendo conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata
discrezionalità nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua
giurisdizione esclusiva, gli ha riconosciuto il potere di indicare «particolari materie»
nelle quali la tutela nei confronti della pubblica amministrazione investe «anche» diritti
soggettivi. Deve trattarsi tuttavia, di materie determinate nelle quali la pubblica
amministrazione agisce nell’esercizio del suo potere.
La richiamata giurisprudenza di questa Corte esclude, poi, che la giurisdizione possa
competere al giudice ordinario per il solo fatto che la domanda abbia ad oggetto
esclusivo il risarcimento del danno (sentenza n. 191 del 2006). Il giudizio amministrativo,
infatti, in questi casi assicura la tutela di ogni diritto: e ciò non soltanto per effetto
dell’esigenza, coerente con i princípi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di
concentrare davanti ad un unico giudice l’intera protezione del cittadino avverso le
modalità di esercizio della funzione pubblica, ma anche perché quel giudice è idoneo
66
ad offrire piena tutela ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti, coinvolti
nell’esercizio della funzione amministrativa.
Nella fattispecie disciplinata dal censurato comma 552 dell’art. 1 della legge n. 311 del 2004
ricorrono tutti i presupposti che questa Corte ha ritenuto sufficienti a legittimare il
riconoscimento di una giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo. L’oggetto delle
controversie è rigorosamente circoscritto alle particolari «procedure e provvedimenti», tipizzati
dalla legge (decreto-legge n. 7 del 2002), e concernenti una materia specifica (gli impianti di
generazione di energia elettrica).
Né osta - va ribadito - alla validità costituzionale del «sistema» in esame la natura
«fondamentale» dei diritti soggettivi coinvolti nelle controversie de quibus, su cui pure
insiste il rimettente, non essendovi alcun principio o norma nel nostro ordinamento che
riservi esclusivamente al giudice ordinario - escludendone il giudice amministrativo - la
tutela dei diritti costituzionalmente protetti. Peraltro, l’orientamento – espresso dalle
Sezioni unite della Corte di cassazione – circa la sussistenza della giurisdizione del giudice
ordinario in presenza di alcuni diritti assolutamente prioritari (tra cui quello alla salute) risulta
enunciato in ipotesi in cui venivano in considerazione meri comportamenti della pubblica
amministrazione, e pertanto esso è coerente con la sentenza n. 191 del 2006, con la quale questa
Corte ha escluso dalla giurisdizione esclusiva la cognizione del risarcimento del danno
conseguente a meri comportamenti della pubblica amministrazione. Nel caso in esame, invece,
si tratta di specifici provvedimenti o procedimenti «tipizzati» normativamente.
Deve, dunque, concludersi che legittimamente la norma censurata ha riconosciuto
esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione
pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche una tutela risarcitoria,
per equivalente o in forma specifica, per il danno asseritamente sofferto anche in
violazione di diritti fondamentali in dipendenza dell’illegittimo esercizio del potere
pubblico da parte della pubblica amministrazione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 552, della
legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005), sollevata, in riferimento all’art. 25 della
Costituzione, dal Tribunale di Civitavecchia, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
67
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dello stesso articolo 1, comma
552, della legge n. 311 del 2004 sollevata, in riferimento all’art. 103 della Costituzione, dal
Tribunale di Civitavecchia, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 30 marzo 2011, n. 7186 : procedure
selettive e violazione del divieto di discriminazione
In tema di azione ai sensi dell'art. 44 del T.U. sull'immigrazione (d.lgs. n. 286 del 1998), il legislatore, al fine di
garantire parità di trattamento e vietare ingiustificate discriminazioni per "ragioni di razza ed origine etnica", ha
configurato una posizione di diritto soggettivo assoluto a presidio di un'area di libertà e potenzialità del soggetto, possibile
vittima delle discriminazioni, rispetto a qualsiasi tipo di violazione posta in essere sia da privati che dalla P.A., senza che
assuma rilievo, a tal fine, che la condotta lesiva sia stata attuata nell'ambito di procedimenti per il riconoscimento, da parte
della P.A., di utilità rispetto a cui il privato fruisca di posizioni di interesse legittimo, restando assicurata una tutela
secondo il modulo del diritto soggettivo e con attribuzione al giudice del potere, in relazione alla variabilità del tipo di
condotta lesiva e della preesistenza in capo al soggetto di posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo a determinate
prestazioni, di "ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo,
secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione". Ne consegue che è devoluta alla giurisdizione del giudice
ordinario l'azione promossa contro la decisione dell'amministrazione datrice di lavoro di escludere dalle procedure di
stabilizzazione, previste dalla legge finanziaria del 2007, alcuni lavoratori extracomunitari perché privi della cittadinanza
italiana, dovendosi ritenere che le questioni relative a dette procedure riguardino solo la fase successiva all'esercizio
dell'azione antidiscriminatoria, restando esclusa ogni asserita violazione del principio del giudice naturale.
RITENUTO IN DIRITTO
1. I due ricorsi, diretti a contestare la giurisdizione del giudice ordinario relativamente allo
stesso giudizio, devono essere riuniti. Tuttavia si prenderà in considerazione in primo luogo il
ricorso proposto dall'Azienda ospedaliera in via autonoma. 2. Hanno un rilievo centrale
rispetto alla questione di giurisdizione in esame le disposizioni di natura processuale introdotte
al fine di consentire una più efficace attuazione concreta delibi norme di carattere sostanziale
di divieto di discriminazioni basate sulla razza, la religione, l'origine etnica, la cittadinanza, ecc,
e cioè la speciale azione disciplinata dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44 (t.u. delle
disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero), nel quadro delle previsioni di carattere sostanziale di cui all'art. 43, che, in relazione
alla materia regolata dal t.u., delinea in maniera molto circostanziata la disciplina di divieto
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delle discriminazioni (rispetto alla quale possono assumere rilievo anche le varie disposizioni
dello stesso testo normativo circa i diritti e i doveri dello straniero, comprese ora le
disposizioni di cui agli artt. 9 e 9 bis, nel testo di cui al D.Lgs. n. 3 del 2007, art. 1, comma 1,
emanato per dare attuazione alla direttiva 2003/109/CE sullo status di cittadini di paesi terzi
soggiornanti di lungo periodo). Il modello di azione delineato dall'art. 44 cit. è richiamato, poi,
con taluni secondari adattamenti, dal D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215, artt. 4 e 4 bis (il secondo
inserito dal D.L. n. 59 del 2008, art. 8 sexies, convertito con modificazioni dalla L. n. 101 del
2008) e dal D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 4, testi normativi che, dando attuazione,
rispettivamente, alla direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone
indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica e alla direttiva 2000/78/CE sulla parità di
trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, formano con lo stesso d.lgs.
286/1998 (oltre che con altre disposizioni di carattere generale o settoriale -cfr. per esempio il
D.Lgs. n. 67 del 2006 di contrasto alle discriminazioni delle persone con disabilità, il cui art. 3
fa analogamente rinvio al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44 -, nonché con fonti sovranazionali e
in particolare comunitarie) un complesso normativo antidiscriminatorio di lettura non del tutto
agevole, a causa della tecnica adottata della successiva integrazione e ripetizione, sotto
prospettive parzialmente diverse, delle previsioni antidiscriminatorie. 3. È utile riportare il
testo dei primi dieci commi del citato D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44 (tenendo presente
l'intervenuta sostituzione del tribunale in funzione monocratica al pretore):
1. Quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una
discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza
diparte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro
provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione.
2. La domanda si propone con ricorso depositato, anche personalmente dalla parte, nella
cancelleria del pretore del luogo di domicilio dell'istante.
3. Il pretore, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede
nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai
presupposti e ai fini del provvedimento richiesto.
4. Il pretore provvede con ordinanza all'accoglimento o al rigetto della domanda. Se accoglie la
domanda emette i provvedimenti richiesti che sono immediatamente esecutivi.
5. Nei casi di urgenza il pretore provvede con decreto motivato, assunte, ove occorra,
sommarie informazioni. In tal caso fissa, con lo stesso decreto, l'udienza di comparizione delle
parti davanti a sè entro un termine non superiore a quindici giorni, assegnando all'istante un
termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale
udienza il pretore, con ordinanza, conferma, modifica o revoca provvedimenti emanati nel
decreto.
6. Contro i provvedimenti del pretore è ammesso reclamo al tribunale nei termini di cui
all'articolo 739, secondo comma, del codice di procedura civile. Si applicano, in quanto
compatibili, gli articoli 737, 738 e 739 del codice di procedura civile.
7. Con la decisione che definisce il giudizio il giudice può altresì condannare il convenuto al
risarcimento del danno, anche non patrimoniale.
8. Chiunque elude l'esecuzione di provvedimenti del pretore di cui ai commi 4 e 5 e dei
provvedimenti del tribunale di cui al comma 6 è punito ai sensi dell'art. 388 c.p., comma 1.
9. Il ricorrente, alfine di dimostrare la sussistenza a proprio danno del comportamento
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discriminatorio in ragione della razza, del gruppo etnico o linguistico, della provenienza
geografica, della confessione religiosa o della cittadinanza può dedurre elementi di fatto anche
a carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle
mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti
dell'azienda interessata. Il giudice valuta i fatti dedotti nei limiti di cui all'art. 2729 c.c., comma
1.
10. Qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un comportamento discriminatorio di
carattere collettivo, anche in casi in cui non siano individuabili in modo immediato e diretto i
lavoratori lesi dalle discriminazioni, il ricorso può essere presentato dalle rappresentanze locali
delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. Il giudice, nella
sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato ai sensi del presente
articolo, ordina al datore di lavoro di definire, sentiti i predetti soggetti e organismi, un piano
di rimozione delle discriminazioni accertate (seguono il comma 11 prevedente sanzioni nei
confronti di imprese beneficiarie di agevolazioni o appalti pubblici e il comma 12
sull'istituzione su base regionale di centri di osservazione e di assistenza riguardo ai fenomeni
di discriminazione nei confronti degli stranieri). 4. Queste Sezioni unite hanno avuto
l'occasione di precisare, sulla base di un esame approfondito della questione, che il riportato
art. 44 ha introdotto e disciplinato un procedimento cautelare con funzione anticipatoria della
pronuncia di merito, al quale si applicano, in quanto compatibili, le norme sul procedimento
cautelare uniforme regolato dal codice di procedura civile e in particolare la disposizione
dell'art. 669 octies, comma 6, sulla esclusione dell'onere di iniziare il giudizio di merito entro
un termine perentorio (Cass. S.U. n. 6172/2008. a cui ha prestato adesione la recente sentenza
Cass. S.U. n. 3670/2011). Nella specie risulta seguito un iter procedurale conforme a tale
modello ricostruttivo e, in particolare ne discende l'ammissibilità del regolamento di
giurisdizione proposto dall'Azienda ospedaliera nel corso del primo grado del giudizio di
merito.
5. Il relativo ricorso si basa in sostanza sulla tesi secondo cui l'introduzione dello speciale
procedimento ex art. 44 cit. non può avere influenza sulle attribuzioni giurisdizionali del
giudice amministrativo secondo le generali previsioni al riguardo e sulla natura della posizione
soggettiva di cui fruisce il privato in relazione alla natura dei vari procedimenti amministrativi e
dei poteri esercitati dalla p.a. nell'ambito degli stessi. Con riferimento alla specie, si sostiene
che il procedimento di stabilizzazione di lavoratori a termine implica lo svolgimento di
procedure concorsuali ricadenti nella disciplina in punto di giurisdizione di cui al D.Lgs. n. 165
del 2001, art. 63, comma 4, con attribuzione della controversia alla giurisdizione
amministrativa e qualificabilità come interesse legittimo della posizione dei soggetti
partecipanti alla selezione concorsuale o comunque aspiranti a parteciparvi, senza che possa
farsi alcuna distinzione nel caso in cui si controverta circa l'operatività o meno del requisito
della cittadinanza italiana.
La qualificazione come concorsuale del procedimento di stabilizzazione dei lavoratori precari è
contestata dai controricorrenti.
La Corte ritiene però che la qualificabilità o meno come concorsuale della procedura di
stabilizzazione in questione non sia decisiva nella presente sede, stante il ruolo concretamente
assorbente della questione logicamente e giuridicamente preliminare relativa alla rilevanza t
anche sul piano della giurisdizione della disciplina sostanziale e processuale antidiscriminatoria.
70
3. Questa problematica è stata già affrontata di recente da questa Corte, sia pure in relazione
ad un procedimento promosso a norma del D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 4 bis. Si è osservato
che la chiarezza del dato normativo non consente dubbi riguardo all'attribuzione alla
giurisdizione ordinaria della tutela contro gli atti e i comportamenti ritenuti lesivi del principio
di parità e, in particolare della parità di trattamento dovuta, a norma del D.Lgs. n. 215 del
2003, art. 3, "senza distinzione di razza ed origine etnica (...) a tutte le persone sia nel settore
pubblico che privato", per la cui attuazione viene fatto i. -rinvio dagli artt. 4 e 4 bis -
quest'ultimo diretto ad assicurare la speciale tutela processuale nel caso di ritorsioni nei
confronti di attività dirette a perseguire la parità di trattamento - al procedimento D.Lgs. n.
286 del 1998, ex art. 44 (Cass. S.U. n. 3670/2011 cit). Nella stessa occasione, circa il rapporto
tra situazioni sostanziali e modi di tutela processuale, si è osservato che costituiscono oggetto
di tutela veri e propri diritti assoluti, derivanti dal fondamentale principio costituzionale di
parità (art. 3 Cost.) e dalle analoghe norme sovranazionali, in attuazione delle quali il legislatore
nazionale ha emanato le normative in esame; e circa l'attribuzione al giudice ordinario anche
del giudizio di merito, si è rilevato in particolare che comporterebbe l'introduzione di una
palese anomalia sistematica ammettere la possibile attribuzione al giudice amministrativo del
giudizio di merito, con interruzione del nesso tra giudizio cautelare, finalizzato ad assicurare
interinai mente o ad anticipare gli effetti del giudizio di merito, e quest'ultimo.
4. Tali rilievi sono condivisibili e sono recepiti in questa sede. In presenza di normative che, al
fine di garantire parità di trattamento, in termini particolarmente incisivi e circostanziati, e
correlativamente vietare discriminazioni ingiustificate, con riferimento a fattori meritevoli di
particolare considerazione sulla base di indicazioni costituzionali o fonti sovranazionali
articolano in maniera specifica disposizioni di divieto di determinate discriminazioli
contemporaneamente istituiscono strumenti processuali speciali per la loro repressione,
affidati lai giudice ordinario, deve ritenersi che il legislatore abbia inteso configurare, a tutela
del soggetto potenziale vittima delle discriminazioni, una specifica posizione di diritto
soggettivo, e specificamente un diritto qualificabile come "diritto assoluto" in quanto posto a
presidio di una area di libertà e potenzialità del soggetto, rispetto a qualsiasi tipo di violazione
della stessa.
Il fatto che la posizione tutelata assurga a diritto assoluto, e che simmetricamente possano
qualificarsi come fatti illeciti i comportamenti di mancato rispetto della stessa, fa sì che il
contenuto e l'estensione delle tutele conseguibili in giudizio presentino aspetti di atipicità e di
variabilità in dipendenza del tipo di condotta lesiva che è stata messa in essere e anche della
preesistenza o meno di posizioni soggettive di diritto o interesse legittimo del soggetto leso a
determinate prestazioni. Di ciò si trova riscontro nel dettato normativo, secondo cui il giudice
può "ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro
provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione"
(D.Lgs. n. 2876 del 1998, art. 44, comma 1), oltre che condannare il responsabile al
risarcimento del danno (comma 7).
Risulta quindi spiegabile, in particolare, come, in relazione a discriminazioni del genere di
quelle in esame, anche quando esse siano attuate nell'ambito di procedimenti per il
riconoscimento da parte della pubblica amministrazione di utilità rispetto a cui il soggetto
privato fruisca di una posizione di interesse legittimo e non di diritto soggettivo, la tutela del
privato rispetto alla discriminazione possa essere assicurata secondo il modulo del diritto
71
soggettivo e delle relative protezioni giurisdizionali. L'inquadramento nell'ambito del diritto
assoluto spiega efficacia, infatti, ai fini e nei limiti delle esigenze di repressione della (in ipotesi)
illegittima discriminazione, anche se non possono essere predeterminati in astratto i termini
della tutela accordabile giudizialmente, dovendosi tenere conto delle specificità di ogni
situazione e del riferimento delle disposizioni di legge anche ad ipotesi di discriminazione
indiretta (cfr. il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43, comma 2, lett. e), e il D.Lgs. n. 215 del 2003,
art. 2, comma 1, lett. b)).
D'altra parte è lo stesso testo del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, con il suo riferimento
incondizionato ai comportamenti sia dei privati che della pubblica amministrazione (comma
1), che non consente di escludere l'esperibilità delle azioni ivi previste solo perché la p.a. ha
attuato la discriminazione in relazione a prestazioni rispetto a cui il privato non fruisce di una
posizione di diritto soggettivo. Anche il D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 3, precisa che il relativo
principio di parità di trattamento opera sia nel settore pubblico che in quello privato (comma
1), e fa particolare riferimento all'accesso all'occupazione e al lavoro "compresi i criteri di
selezione e le condizioni di assunzione" (lett. a) e all'accesso a ogni tipo di prestazione sociale
(lett. e) e seguenti), mentre l'unica eccezione alla giurisdizione del giudice ordinario è prevista
in favore della giurisdizione amministrativa esclusiva - in quanto tale estesa alla tutela dei diritti
soggettivi - relativa al personale alle dipendenze della pubblica amministrazione in regime di
diritto pubblico a norma del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 3, comma 1, (comma 7 del cit. art. 3).
Nella specie non risulta alcuna esorbitanza dell'oggetto del giudizio rispetto alle finalità di
repressione delle asserite discriminazioni in ragione della cittadinanza, visto che il giudizio di
merito ha ad oggetto la conferma o meno delle statuizioni adottate nella fase cautelare,
contenenti l'ordine di ammettere anche i lavoratori di cittadinanza extracomunitaria alle
procedure di stabilizzazione, salva la verifica di ogni altro requisito.
5. La proposta eccezione di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44 è
qualificabile come manifestamente infondata, in relazione alle già evidenziate ragioni che
spiegano e giustificano l'attribuzione della relativa azione al giudice ordinario. Quanto al
confronto con le tutele in giudizio previste in caso di discriminazioni di genere, premesso che
il testo del D.Lgs. n. 198 del 2006, artt. 36 e segg. che risente delle formulazioni della più
antica L. n. 125 del 1991, essendosi proceduto in sostanza alla redazione di un testo unico a
norma della L. n. 246 del 2005, art. 6, non fornisce elementi univoci a conferma della tesi che i
riferimenti alla competenza del tribunale amministrativo regionale riguardino ipotesi ulteriori
rispetto ai casi di rapporti di pubblico impiego in atto, deve comunque rilevarsi che non
potrebbe costituire un idoneo elemento di comparazione ai fini in esame la disciplina relativa
ad uno specifico elemento di discriminazione, in (ipotesi) disomogenea rispetto ad un coerente
e costituzionalmente giustificato indirizzo adottato in genere dal legislatore con riferimento
alle discriminazioni particolarmente qualificate per essere relative a fattori specificamente presi
in considerazione dalla Costituzione o da altre fonti qualificate riguardo alla protezione dei
diritti della persona.
6. Deve osservarsi infine che appartiene al merito - incidendo sulla configurabilità o meno di
una illegittima discriminazione in ragione della nazionalità - e non rileva ai fini della
giurisdizione, la soluzione della questione relativa alla applicabilità o meno del requisito della
cittadinanza italiana ai fini della partecipazione alle procedure in questione di stabilizzazione di
lavoratori precari, funzionali alla assunzione da parte di soggetto della pubblica
72
amministrazione con contratto di lavoro a tempo indeterminato. 7. Deve in conclusione
dichiararsi la giurisdizione del giudice ordinario, restando assorbita ogni questione circa
l'ammissibilità della richiesta di regolamento fatta dal prefetto.
8. Le spese del giudizio vengono poste a carico della parte ricorrente, che ha contestato la
riconosciuta giurisdizione del giudice ordinario.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; dichiara la giurisdizione del giudice ordinario; condanna l'Azienda
Ospedaliera San Paolo a rimborsare le spese del giudizio di cassazione ai controricorrenti,
liquidate nella somma complessiva di Euro duecento per esborsi ed Euro tremila per onorari.
Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2011.
Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2011
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 15 febbraio 2011, n. 3670: concessione del
bonus bebè e violazione del divieto di discriminazione
L'azione proposta in relazione alla denunziata natura ritorsiva del provvedimento con cui un Comune - dopo l'istituzione di un c.d.
"bonus bebè" riservato a famiglie con almeno un genitore italiano, ed a seguito di ordine giudiziale di estenzione del beneficio anche
alle famiglie composte da genitori stranieri - aveva, viceversa, deliberato di revocarlo per tutte le famiglie, sia italiane che straniere,
appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, sia nella fase cautelare rivolta all'ottenimento di un provvedimento anticipatorio
urgente, sia nella successiva fase della cognizione piena, così come previsto nell'art. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, in considerazione
del quadro normativo costituzionale (art. 3 Cost.), sovranazionale (Direttiva 2000/43/CE) ed interno (art. 3 e 4 del d.lgs. 9
luglio 2003, n. 215 nonché l'art. 44 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) di riferimento, che configura il diritto a non essere
discriminati come un diritto soggettivo assoluto; né la giurisdizione può essere negata ai sensi degli artt. 4 e 5 del r.d. n. 2248 del
1865 all. E, in quanto il giudice ordinario è tenuto alla disapplicazione incidentale del provvedimento emesso in violazione del
principio di parità ai fini della tutela dei diritti soggettivi controversi, pur non interferendo nella potestà della P.A..
(pdf)
Corte di cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 6 settembre 2013, n. 20577 : la giurisdizione del
g.o. in merito alla domanda di annullamento dell’atto amministrativo di diniego di autorizzazione ad
effettuare cure specialistiche praticate all’estero
La controversia relativa al diniego dell'autorizzazione ad effettuare cure specialistiche presso centri di altissima specializzazione
73
all'estero appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario giacché la domanda è diretta a tutelare una posizione di diritto
soggettivo - il diritto alla salute - non suscettibile di affievolimento per effetto della discrezionalità meramente tecnica attribuita in
materia alla P.A., senza che rilevi che, in concreto, sia stato chiesto l'annullamento dell'atto amministrativo, il quale implica
solo un limite interno alle attribuzioni del giudice ordinario, giustificato dal divieto di annullamento, revoca o modifica dell'atto
amministrativo ai sensi dell'art. 4, legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, e non osta alla possibilità per il giudice di
interpretare la domanda come comprensiva della richiesta di declaratoria del diritto ad ottenere l'autorizzazione ad effettuare le
cure all'estero.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- Sul presupposto che con istanza del 12 marzo 2012 fosse dal Galli domandato "il rimborso
delle cure mediche all'estero" (quarta e quinta riga di pag. 2 del ricorso per regolamento) e che
sia stato dato "parere negativo al rimborso delle cure mediche all'estero" (sesta e settima riga di
pag. 3 del ricorso) la Fondazione ricorrente chiede che sia dichiarata la giurisdizione del
giudice ordinario sulla scorta delle enunciazioni di Cass., sez. un., n. 2867/2009, la quale ha
affermato:
"in materia di rimborso delle spese sanitarie sostenute dai cittadini residenti in Italia presso
centri di altissima specializzazione all'estero, per prestazioni che non siano ottenibili in Italia
tempestivamente o in forma adeguata alla particolarità del caso clinico (...), la giurisdizione
spetta al giudice ordinario, sia nel caso in cui siano addotte situazioni di eccezionale gravità ed
urgenza, prospettate come ostative alla possibilità di preventiva richiesta di autorizzazione, sia
nel caso in cui l'autorizzazione sia stata chiesta e si assuma illegittimamente negata, giacché
viene comunque in considerazione il fondamentale diritto alla salute, non suscettibile di
affievolimento per effetto della discrezionalità meramente tecnica riconosciuta alla P.A. in
ordine all'apprezzamento dei presupposti per l'erogazione delle prestazioni". 2.- Benché nella
specie non sia stato chiesto il rimborso di spese affrontate per cure specialistiche praticate
all'estero pur in mancanza di autorizzazione, ma invece l'annullamento dell'atto amministrativo
di diniego di autorizzazione ad effettuarle, non di meno va dichiarata la giurisdizione del
giudice ordinario, essendo la domanda diretta a tutelare una posizione di diritto soggettivo,
senza che assuma rilievo in contrario il contenuto concreto del provvedimento richiesto, il
quale può implicare soltanto un limite interno alle attribuzioni del giudice ordinario,
giustificato dal divieto di annullamento, revoca o modifica dell'atto amministrativo ai sensi
della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 4, all. E (ex multis, Cass., sez. un., nn. 23284/2010,
4633/2007, 9005/1993). 3.- Resta peraltro salva la possibilità per il giudice ordinario, innanzi
al qual le parti vanno rimesse, di interpretare la domanda nel senso che sia in essa compresa la
richiesta di declaratoria del diritto ad ottenere l'autorizzazione ad effettuare le cure all'estero
sulla base delle valutazioni non discrezionali, ma meramente tecniche, attribuite in materia alla
pubblica amministrazione. Le spese del regolamento possono essere compensate in relazione
alle singolarità del caso.
P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE, A SEZIONI UNITE, dichiara la giurisdizione del giudice
74
ordinario, innanzi al quale rimette le parti, e compensa le spese del regolamento.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 11 giugno 2013.
Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2013
4. Casistica: la giurisdizione sui danni cagionati dagli amministratori delle società pubbliche
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 19 dicembre 2009, n. 26806: Società a partecipazione pubblica , azione di responsabilità nei confronti degli amministratori o dei dipendenti e giurisdizione della Corte dei conti
Spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione
pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti (nella specie, consistenti nell'avere accettato indebite
dazioni di denaro al fine di favorire determinate imprese nell'aggiudicazione e nella successiva gestione di appalti), non essendo in tal
caso configurabile, avuto riguardo all'autonoma personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente
pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la
giurisdizione della Corte dei conti. Sussiste invece la giurisdizione di quest'ultima quando l'azione di responsabilità trovi fondamento
nel comportamento di chi, quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia
colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione, ovvero in
comportamenti degli amministratori o dei sindaci tali da compromettere la ragione stessa della partecipazione sociale dell'ente
pubblico, strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed implicante l'impiego di risorse pubbliche, o da arrecare direttamente
pregiudizio al suo patrimonio. (Nell'affermare l'anzidetto principio, le S.U hanno altresì precisato che in quest'ultimo caso l'azione
erariale concorre con l'azione civile prevista dagli artt. 2395 e 2476, sesto comma cod. civ).
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.1. Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi.
Con il primo motivo dei rispettivi ricorsi, sostanzialmente simili, i ricorrenti Craparotta,
Giuffrida e Caressa G., lamentano, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 1, la violazione della L. n. 20
del 1994, art. 1, L. n. 97 del 2001, artt. 3 e 7, del R.D. n. 2440 del 1923, art. 81, e R.D. n. 1234
del 1214, art. 52, per avere la Corte dei conti affermato la sussistenza della responsabilità
amministrativa di essi amministratori di s.p.a. a partecipazione pubblica, mentre tale
responsabilità non era ipotizzabile, segnatamente tenuto conto che l'Enel svolgeva attività di
impresa su mercati liberi e concorrenziali, esercitata con finalità di lucro e senza finalità
pubblicistiche, con conseguente difetto di giurisdizione della Corte dei Conti.
1.2. Con il primo motivo del ricorso incidentale l'Atzori lamenta la violazione delle norme che
disciplinano la giurisdizione della Corte dei Conti (L. n. 20 del 1994, art. 1, L. n. 97 del 2001,
75
artt. 3 e 7, del R.D. n. 2440 del 1923, art. 81 e R.D. n. 1234 del 1214, art. 52), assumendo il
difetto di giurisdizione del giudice contabile nei confronti di esso incaricato di una s.p.a., per
quanto facente parte di un gruppo societario la cui capogruppo, sempre una s.p.a., sia
qualificabile come impresa pubblica.
2. Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi a norma dell'art. 335 c.p.c..
Il problema che si pone è quello relativo alla questione se agli amministratori e dipendenti di
una s.p.a. cosiddetta "in mano pubblica" si applichino le norme di diritto societario o se dalla
presenza di capitali pubblici consegua invece l'assoggettamento di questi soggetti alle norme
proprie della responsabilità amministrativa, con la conseguente giurisdizione della Corte dei
Conti.
Il problema non è quello di definire se, come e quando una s.p.a. "pubblica" risponda, come
persona giuridica per danno erariale ad una P.A., ma si tratta di stabilire sulla base di quale
statuto gli amministratori o i dipendenti di una s,p.a. "pubblica" rispondano dei danni ad essa
direttamente prodotti ed indirettamente riflessi sulla p.a., in quanto titolare della partecipazione
azionaria. La differenza è rilevante, se si considera che nel primo caso la s.p.a. "pubblica" è il
soggetto responsabile del danno che deve risarcire con il proprio patrimonio sociale, nel
secondo caso essa diviene il soggetto danneggiato il cui patrimonio deve essere reintegrato.
Vanno, quindi, fissati alcuni principi generali.
3.1. Com'è noto, il limite esterno della giurisdizione della Corte dei conti, sul quale le sezioni
unite della Corte di cassazione sono chiamate a pronunciarsi, ha rilevanza costituzionale:
discende dal disposto dell'art. 103 Cost., comma 2, a tenore del quale "la Corte dei conti ha
giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge".
Al di fuori delle materie di contabilità pubblica, e quindi anche in tema di responsabilità,
occorre dunque che la giurisdizione della Corte dei conti abbia il suo fondamento in una
specifica disposizione di legge.
In termini generali, il contenuto ed i limiti della giurisdizione della Corte dei conti in tema di
responsabilità trovano la loro base normativa nella previsione del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214,
art. 13, secondo cui la corte giudica sulla responsabilità per danni arrecati all'erario da pubblici
funzionari nell'esercizio delle loro funzioni. Tali limiti sono stati successivamente ampliati della
L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, comma 4, che ha esteso il giudizio della Corte dei conti alla
responsabilità di amministratori e dipendenti pubblici anche per danni cagionati ad
amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza. La giurisdizione di detta
corte non è quindi circoscritta alla sola ipotesi di responsabilità contrattuale dell'agente, ma
può esplicarsi anche in caso di responsabilità aquiliana.
3.2. In passato i limiti esterni della giurisdizione della Corte dei conti, al pari di quella del
giudice amministrativo, erano però (relativamente) più agevoli da tracciare: la più netta
distinzione tra l'area del pubblico e quella del privato, la normale corrispondenza tra la natura
pubblica dell'attività svolta dall'agente ed il suo organico inserimento nei ranghi della pubblica
amministrazione, la conseguente più agevole demarcazione di confini tra l'agire
dell'amministrazione in forza della potestà pubblica ad essa spettante e per le finalità
tipicamente a questa connesse ed il suo agire invece iure privatorum: erano tutti elementi che
facilitavano anche l'individuazione dei limiti esterni della giurisdizione in esame.
La più recente evoluzione dell'ordinamento ha reso ora questi confini assai meno chiari, da un
lato incanalando sovente le finalità della pubblica amministrazione in ambiti tipicamente
76
privatistici, dall'altro affidando con maggiore frequenza a soggetti privati la realizzazione di
finalità una volta ritenute di pertinenza esclusiva degli organi pubblici.
In quest'ottica anche le sezioni unite della Cassazione, per evitare il rischio di un sostanziale
svuotamento - o almeno di un grave indebolimento - della giurisdizione della corte contabile in
punto di responsabilità, ha teso a privilegiare un approccio più "sostanzialistico", sostituendo
ad un criterio eminentemente soggettivo, che identificava l'elemento fondante della
giurisdizione della Corte dei conti nella condizione giuridica pubblica dell'agente, un criterio
oggettivo che fa leva sulla natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse finanziarie a
tal fine adoperate.
Si è perciò affermato che, quando si discute del riparto della giurisdizione tra Corte dei conti e
giudice ordinario, occorre aver riguardo al rapporto di servizio tra l'agente e la pubblica
amministrazione, ma che per tale può intendersi anche una relazione con la pubblica
amministrazione caratterizzata dal fatto di investire un soggetto, altrimenti estraneo
all'amministrazione medesima, del compito di porre in essere in sua vece un'attività, senza che
rilevi nè la natura giuridica dell'atto di investitura - provvedimento, convenzione o contratto -
ne' quella del soggetto che la riceve, sia essa una persona giuridica o fisica, privata o pubblica
(Sez. un. 3 luglio 2009, n. 15599; 31 gennaio 2008, n. 2289; 22 febbraio 2007, n. 4112; 20
ottobre 2006, n. 22513; 5 giugno 2000, n. 400; Sez. un., 30 marzo 1990, n. 2611, ed altre
conformi).
L'affidamento da parte di un ente pubblico ad un soggetto esterno, da esso controllato, della
gestione di un servizio pubblico integra quindi una relazione funzionale incentrata
sull'inserimento del soggetto medesimo nell'organizzazione funzionale dell'ente pubblico e ne
implica, conseguentemente, l'assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti per
danno erariale, a prescindere dalla natura privatistica dello stesso soggetto e dello strumento
contrattuale con il quale si sia costituito ed attuato il rapporto (Sez. un. 27 settembre 2006, n.
20886; 1 aprile 2008, n. 8409; 1 marzo 2006, n. 4511; 19 febbraio 2004, 2004, n. 3351), anche
se l'estraneo venga investito solo di fatto dello svolgimento di una data attività in favore della
pubblica amministrazione (Sez. un. 9 settembre 2008, n. 22652) ed anche se difetti una
gestione del danaro secondo moduli contabili di tipo pubblico o secondo procedure di
rendicontazione proprie della giurisdizione contabile in senso stretto (Sez. un. 12 ottobre 2004,
n. 20132). Lo stesso dicasi per l'accertamento della responsabilità erariale conseguente
all'illecito o indebito utilizzo, da parte di una società privata, di finanziamenti pubblici (Sez. un.
5 giugno 2008, n. 14825, e Sez. un., n. 4511/06, cit.); o per la responsabilità in cui può
incorrere il concessionario privato di un pubblico servizio o di un'opera pubblica, quando la
concessione investe il privato dell'esercizio di funzioni obiettivamente pubbliche,
attribuendogli la qualifica di organo indiretto dell'amministrazione, onde egli agisce per le
finalità proprie di quest'ultima (Sez. un., n. 4112/07, cit.). Nella medesima ottica, a partire dal
2003, le sezioni unite di questa l'hanno ritenuto spettare alla Corte dei conti, dopo l'entrata in
vigore della L. n. 20 del 1994, art. 1, u.c., la giurisdizione sulle controversie aventi ad oggetto la
responsabilità di privati funzionar di enti pubblici economici (quali, ad esempio, i consorzi per
la gestione di opere) anche per i danni conseguenti allo svolgimento dell'ordinaria attività
imprenditoriale e non soltanto per quelli cagionati nell'espletamento di funzioni pubbliche o
comunque di poteri pubblicistici (Sez. un., 22 dicembre 2003, n. 19667). Si è sottolineato che si
esercita attività amministrativa non solo quando si svolgono pubbliche funzioni e poteri
77
autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall'ordinamento, si perseguono le finalità
istituzionali proprie dell'amministrazione pubblica mediante un'attività disciplinata in tutto o in
parte dal diritto privato; con la conseguenza - si è precisato - che, nell'attuale assetto
normativo, il dato essenziale che radica la giurisdizione della corte contabile è rappresentato
dall'evento dannoso verificatosi a carico di una pubblica amministrazione e non più dal quadro
di riferimento - pubblico o privato - nel quale si colloca la condotta produttiva del danno (Sez.
un., 25 maggio 2005, n. 10973; 20 giugno 2006, n. 14101; 1 marzo 2006, n. 4511; Cass. 15
febbraio 2007, n. 3367).
3.3. Se quanto appena osservato vale certamente per gli enti pubblici economici, i quali restano
nell'alveo della pubblica amministrazione pur quando eventualmente operino
imprenditorialmente con strumenti privatistici, è da stabilire entro quali limiti alla medesima
conclusione si debba pervenire anche nel diverso caso della responsabilità di amministratori di
società di diritto privato partecipate da un ente pubblico. Le quali non perdono la loro natura
di enti privati per il solo fatto che il loro capitale sia alimentato anche da conferimenti
provenienti dallo Stato o da altro ente pubblico.
Il codice civile dedica alla società per azioni a partecipazione pubblica solo alcune scarne
disposizioni, oggi contenute nell'art. 2449 (come modificato dalla L. 25 febbraio 2008, n. 34,
art. 13, a seguito della pronuncia della Corte giustizia delle Comunità europee, 6 dicembre
2007, n. 463/04), essendo stato il successivo art. 2450 ormai abrogato dal D.L. 15 febbraio
2007, n. 10, art. 3, comma 1, convertito con modificazioni dalla L. 6 aprile 2007, n. 46. Ma
siffatte residue disposizioni del codice non valgono a configurare uno statuto speciale per dette
società (spesso, viceversa, interessate da norme speciali, non sempre tra loro ben coordinate),
salvo per i profili inerenti alla nomina e revoca degli organi sociali, specificamente ivi
contemplati, ne' comunque investono il tema della responsabilità di detti organi, che resta
quindi disciplinato dalle ordinarie norme previste dal codice civile a questo riguardo, com'è
confermato dalla immutata indicazione del comma 2 del citato art. 2449, a tenore del quale
anche i componenti degli organi amministrativi e di controllo di nomina pubblica "hanno i
diritti e gli obblighi dei membri nominati dall'assemblea". Nè pare dubbio che quest'ultimo
principio valga anche per le società a responsabilità limitata eventualmente partecipate da un
ente pubblico, in difetto di qualsiasi specifica disposizione del codice che se ne occupi. Se ne è
desunto - anche alla luce di quanto espressamente indicato nella relazione ("È lo Stato
medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurare alla propria
gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici") - che la scelta della
pubblica amministrazione di acquisire partecipazioni in società private implica il suo
assoggettamento alle regole proprie della forma giuridica prescelta. Dall'identità dei diritti e
degli obblighi facenti capo ai componenti degli organi sociali di una società a partecipazione
pubblica, pur quando direttamente designati dal socio pubblico, logicamente perciò discende la
responsabilità di detti organi nei confronti della società, dei soci, dei creditori e dei terzi in
genere, nei medesimi termini - contemplati dagli artt. 2392 c.c. e segg. - in cui tali diverse
possibili proiezioni della responsabilità sono configurabili per gli amministratori e per gli
organi di controllo di qualsivoglia altra società privata. 3.4. È innegabile, nondimeno, che si
possano determinare dei problemi quando il modello giuridico - formale prescelto entra in
tensione con il fenomeno economico sottostante, come non di rado accade proprio nel caso in
cui lo Stato o altro ente pubblico assume una partecipazione in una società per perseguire in
78
tal modo finalità di rilevanza pubblica.
Ne è testimone, in certa misura, la sentenza delle sezioni unite 26 febbraio 2004, n. 3899, che,
dopo aver ribadito il principio per cui una società per azioni costituita con capitale
maggioritario del comune in vista dello svolgimento di un servizio pubblico ha una relazione
funzionale con l'ente territoriale, caratterizzata dall'inserimento della società medesima nell'iter
procedimentale dell'ente locale e dal conseguente rapporto di servizio venutosi così a
determinare, ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti nelle controversie in materia
di responsabilità patrimoniale per danno erariale riguardanti gli amministratori ed i dipendenti
di una siffatta società. La portata di tale affermazione non risulta però del tutto univoca:
perché nella medesima sentenza si ha cura di specificare, per un verso, che l'elemento
determinante della decisione era costituito, in quel caso, dal rapporto di servizio intercorrente
tra la società privata ed il comune (piuttosto che dal rapporto partecipativo e dal conseguente
investimento di risorse finanziarie pubbliche nel patrimonio della società privata) e, per altro
verso, che la questione se il danno subito dal comune partecipante alla società fosse diretto, o
meramente riflesso, rispetto a quello arrecato al patrimonio sociale, costituiva un profilo
estraneo al giudizio sui limiti della giurisdizione. Proprio quest'ultimo profilo sembra invece
meritare un ulteriore approfondimento, potendo assumere carattere decisivo ai fini che qui
interesano.
3.5. In primo luogo, non sembra si possa prescindere dalla distinzione tra la posizione della
società partecipata, cui eventualmente fa capo il rapporto di servizio instaurato con la pubblica
amministrazione, e quella personale degli amministratori (nonché dei sindaci o degli organi di
controllo della stessa società): i quali, ovviamente, non s'identificano con la società, sicché
nulla consente di riferire loro, sic et simpliciter, il rapporto di servizio di cui la società
medesima sia parte. Quanto appena osservato non vale però a chiudere ogni possibile spazio
alla giurisdizione della Corte dei conti in ordine ad eventuali comportamenti illegittimi
imputabili agli organi delle società a partecipazione pubblica, dai quali sia scaturito un danno
per il socio pubblico.
S'è già prima accennato vuoi alla possibilità che tale giurisdizione sia riferita anche ad ipotesi di
responsabilità aquiliana, vuoi alla possibilità che essa si configuri pure in difetto di una formale
investitura pubblica dell'agente. Entra allora in gioco un ulteriore importante elemento
normativo, cui finora non si è fatto riferimento ma che occorre adesso prendere in
considerazione. Si allude alla disposizione della L. 28 febbraio 2008, n. 31, art. 16 bis, (che ha
convertito il D.L. 31 dicembre 2007, n. 248), così concepita: "Per le società con azioni quotate
in mercati regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre
amministrazioni o di enti pubblici, inferiore al 50 per cento, nonché per le loro controllate, la
responsabilità degli amministratori e dei dipendenti è regolata dalle norme del diritto civile e le
relative controversie sono devolute esclusivamente alla giurisdizione del giudice ordinario".
Tale norma, benché la sua applicazione ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della
legge di conversione sia espressamente esclusa, assume un evidente significato retrospettivo,
nella misura in cui lascia chiaramente intendere che, in ordine alla responsabilità di
amministratori e dipendenti di società a partecipazione pubblica, vi sia una naturale area di
competenza giurisdizionale diversa da quella ordinaria.
Non si capirebbe, altrimenti, la ragione per la quale il legislatore ha inteso stabilire che, per
l'avvenire (e limitatamente alle società quotate, o loro controllate, con partecipazione pubblica
79
inferiore al 50%), la giurisdizione spetta invece in via esclusiva proprio al giudice ordinario.
Resta però da verificare entro quali limiti, al di fuori del ristretto campo d'applicazione della
disposizione da ultimo richiamata, sia davvero configurabile la giurisdizione del giudice
contabile che il legislatore ha in tal modo presupposto in rapporto ad atti di mala gestio degli
organi di società a partecipazione pubblica.
In difetto di norme esplicite in tal senso (e fatta salva la specificità di singole società a
partecipazione pubblica il cui statuto sia soggetto a regole legali sui generis, come nel caso
della Rai), è ai principi generali ed alle linee portanti del sistema che occorre aver riguardo. Ed
è proprio in quest'ottica che assume rilievo decisivo la già accennata distinzione tra la
responsabilità in cui gli organi sociali possono incorrere nei confronti della società (prevista e
disciplinata, per le società azionarie, dagli artt. 2393 e segg. e, per le società a responsabilità
limitata, dell'art. 2476 c.c., commi 1, 3, 4 e 5) e la responsabilità che essi possono assumere
direttamente nei confronti di singoli soci o terzi (prevista e disciplinata, per le società azionarie,
dall'art. 2395 c.c., per le società a responsabilità limitata, del cit. art. 2476 c.c., comma 6).
3.6. In tale ultimo caso la configurabilità dell'azione del procuratore contabile, tesa a far valere
la responsabilità dell'amministratore o del componente di organi di controllo della società
partecipata dall'ente pubblico quando questo sia stato direttamente danneggiato dall'azione
illegittima, non incontra particolari ostacoli (nè si pongono difficoltà derivanti dalla possibile
concorrenza di siffatta azione con quella ipotizzata in sede civile dai citati art. 2395 c.c. e art.
2476 c.c., comma 6, poiché l'una e l'altra mirerebbero in definitiva al medesimo risultato). Non
importa qui indagare sulla natura dell'indicata responsabilità: se essa abbia carattere
extracontrattuale (come la giurisprudenza è per lo più incline a ritenere: si vedano, tra le altre,
Cass. 5 agosto 2008, n. 21130; 25 luglio 2007, n. 16416; e 3 aprile 2007, n. 8359) o se pur
sempre presupponga la violazione di un preesistente obbligo di corretto comportamento
dell'amministratore e del componente dell'organo di controllo anche nei diretti confronti di
ciascun singolo socio (onde alcune autorevoli voci di dottrina ravvisano anche in tal caso
un'ipotesi di responsabilità almeno lato sensu contrattuale).
Quel che appare certo è che la presenza dell'ente pubblico all'interno della compagine sociale
ed il fatto che la sua partecipazione sia strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed
abbia implicato l'impiego di pubbliche risorse non può sfuggire agli organi della società e non
può non comportare, per loro, una peculiare cura nell'evitare comportamenti tali da
compromettere la ragione stessa di detta partecipazione sociale dell'ente pubblico o che
possano comunque direttamente cagionare un pregiudizio al patrimonio di quest'ultimo.
Tipico esempio di questa situazione è il danno all'immagine dell'ente pubblico (su cui si veda
Sez. un. 20 giugno 2007, n. 14297) che derivi da atti illegittimi posti in essere dagli organi della
società partecipata: danno che può eventualmente prodursi immediatamente in capo a detto
ente pubblico, per il fatto stesso di essere partecipe di una società in cui quei comportamenti
illegittimi si siano manifestati, e che non s'identifica con il mero riflesso di un pregiudizio
arrecato al patrimonio sociale (indipendentemente dall'essere o meno configurabile e risarcibile
anche un autonomo e distinto danno all'immagine della medesima società).
Nessun dubbio, quindi, sulla sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti in un'ipotesi
siffatta; e se ne trae conferma anche dal disposto del L. 3 agosto 2009, n. 102, art. 17, comma
30 - ter, (quale risulta dopo le modifiche apportate dal D.L. in pari data, n. 103, convertito con
ulteriori modificazioni nella L. 3 ottobre 2009, n. 141), che disciplina e limita le modalità
80
dell'azione della magistratura contabile appunto in caso di danno all'immagine, nelle ipotesi
previste dalla L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 7, ossia in presenza di una sentenza irrevocabile di
condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nel precedente art. 3 della stessa
legge, compresi quelli evidenti a prevalente partecipazione pubblica". Non si vede come la
medesima regola stabilita per i dipendenti non debba valere anche per gli amministratori e gli
organi di controllo della società a partecipazione pubblica. 3.7. Ad opposta conclusione si deve
invece pervenire nel caso in cui l'azione sia proposta per reagire ad un danno cagionato al
patrimonio della società.
Non solo, come detto, non è configurabile alcun rapporto di servizio tra l'ente pubblico
partecipante e l'amministratore (o componente di un organo di controllo) della società
partecipata, il cui patrimonio sia stato leso dall'atto di mala gestio, ma neppure sussiste in tale
ipotesi un danno qualificabile come danno erariale, inteso come pregiudizio direttamente
arrecato al patrimonio dello Stato o di altro ente pubblico che della suindicata società sia socio.
La ben nota distinzione tra la personalità giuridica della società di capitali e quella dei singoli
soci e la piena autonomia patrimoniale dell'una rispetto agli altri non consentono di riferire al
patrimonio del socio pubblico il danno che l'illegittimo comportamento degli organi sociali
abbia eventualmente arrecato al patrimonio dell'ente:
patrimonio che è e resta privato.
È certo vero che il danno sofferto dal patrimonio della società è per lo più destinato a
ripercuotersi anche sui soci, incidendo negativamente sul valore o sulla redditività della loro
quota di partecipazione; ma - fatte salve le limitate eccezioni oggi introdotte dall'art. 2497 c.c.
(come modificato dal D.Lgs. n. 6 del 2003), in tema di responsabilità dell'ente posto a capo di
un gruppo di imprese societarie, che qui non rilevano - il sistema del diritto societario impone
di tener ben distinti i danni direttamente inferti al patrimonio del socio (o del terzo) da quelli
che siano il mero riflesso di danni sofferti dalla società.
Dei danni diretti, cioè di quelli prodotti immediatamente nella sfera giuridico - patrimoniale del
socio e che non consistano nella semplice ripercussione di un danno inferto alla società, solo il
socio stesso è legittimato a dolersi; di quelli sociali, invece, solo alla società compete il
risarcimento, di modo che per il socio anche il ristoro è destinato a realizzarsi unicamente nella
medesima maniera indiretta in cui si è prodotto il suo pregiudizio (principio pacifico: si
vedano, ex multis, Cass. 5 agosto 2008, n. 21130; 3 aprile 2007, n. 8359; 27 giugno 1998, n.
6364; e 28 febbraio 1998, n. 2251).
Si capisce, allora, come il danno inferto dagli organi della società al patrimonio sociale, che nel
sistema del codice civile può dar vita all'azione sociale di responsabilità ed eventualmente a
quella dei creditori sociali, non è idoneo a configurare anche un'ipotesi di azione ricadente
nella giurisdizione della Corte dei conti:
perché non implica alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto
privato (appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e
non certo ai singoli soci - pubblici o privati - i quali sono unicamente titolari delle rispettive
quote di partecipazione ed i cui originar conferimenti restano confusi ed assorbiti nell'unico
patrimonio sociale.
L'esattezza di tale conclusione trova conferma anche nell'impossibilità di realizzare, altrimenti,
un soddisfacente coordinamento sistematico tra l'ipotizzata azione di responsabilità dinanzi
giudice contabile e l'esercizio delle surriferite azioni di responsabilità (sociale e dei creditori
81
sociali) contemplate dal codice civile. L'azione del procuratore contabile ha presupposti e
caratteristiche completamente diverse dalle azioni di responsabilità sociale e dei creditori
sociali contemplate dal codice civile: basta dire che l'una è obbligatoria, le altre discrezionali;
l'una ha finalità essenzialmente sanzionatoria (onde non implica necessariamente il ristoro
completo del pregiudizio subito dal patrimonio danneggiato dalla mala gestio
dell'amministratore o dall'omesso controllo del vigilante), le altre hanno scopo ripristinatorio;
l'una richiede il dolo o la colpa grave, e solo in determinati casi è esercitabile anche contro gli
eredi del soggetto responsabile del danno; per le altre è sufficiente anche la colpa lieve ed il
debito risarcitorio è pienamente trasmissibile agli eredi.
D'altronde, almeno in tutti i casi nei quali vi siano anche soci privati la cui partecipazione è
suscettibile di subire danno per effetto del comportamento illegittimo degli organi sociali,
sarebbe impossibile escludere l'esperibilità degli ordinari strumenti di tutela approntati dal
codice civile a beneficio della società (e dei soci privati, nonché eventualmente dei creditori). E
però, se si ipotizzasse il possibile concorso tra l'azione del procuratore contabile e l'azione
sociale di responsabilità contemplata dal codice civile, occorrerebbe poter individuare il modo
di disciplinare tale concorso, stante la descritta diversità delle rispettive caratteristiche delle
differenti azioni. L'assenza del benché minino abbozzo di coordinamento normativo in
proposito suona palese conferma della non configurabilità, in simili situazioni, di un'azione
diversa da quelle previste dal codice civile, che sia destinata a ricadere nella giurisdizione del
giudice contabile. 3.7. Giova ancora aggiungere che l'esclusione dell'ipotizzata giurisdizione del
giudice contabile per l'azione di risarcimento di danni cagionati al patrimonio della società
partecipata da un ente pubblico neppure provoca, a ben vedere, il rischio di una lacuna nella
tutela dell'interresse pubblico coinvolto nella descritta situazione.
Nell'attuale disciplina della società azionaria - ed in misura ancor maggiore in quella della
società a responsabilità limitata - l'esercizio dell'azione sociale di responsabilità, in caso di mala
gestio imputabile agli organi della società, non è più monopolio dell'assemblea e non è più,
quindi, unicamente rimessa alla discrezionalità della maggioranza dei soci. Una minoranza
qualificata dei partecipanti alla società azionaria (art. 2393 - bis c.c.) ed addirittura ciascun
singolo socio della società a responsabilità limitata (art. 2476 c.c., comma 3) sono infatti
legittimati ad esercitare tale azione (anche nel proprio interesse, ma a beneficio della società)
eventualmente sopperendo all'inerzia della maggioranza.
Ne consegue che, trattandosi di società a partecipazione pubblica, il socio pubblico è di regola
in grado di tutelare egli stesso i propri interessi sociali mediante l'esercizio delle suindicate
azioni civili. Se ciò non faccia e se, in conseguenza di tale omissione, l'ente pubblico abbia a
subire un pregiudizio derivante dalla perdita di valore della partecipazione, è sicuramente
prospettabile l'azione del procuratore contabile nei confronti (non già dell'amministratore della
società partecipata, per il danno arrecato al patrimonio sociale, bensì nei confronti) di chi,
quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per
esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio ed abbia perciò
pregiudicato il valore della partecipazione. Ed è ovvio che, con riguardo ad un'azione siffatta,
vi sia piena competenza giurisdizionale della Corte dei conti.
4.1. Sulla base dei suddetti principi la questione della giurisdizione ha semplice soluzione.
La Corte dei conti ha pronunziato sentenza nei confronti degli attuali ricorrenti Craparotta,
Giuffrida, e Caressa G. per danni diretti al patrimonio delle Società, conseguenti
82
all'aggiudicazione delle gare d'appalto, a condizioni meno vantaggiose per l'impresa appaltante
ovvero al recupero da parte dell'impresa aggiudicataria della dazione illecita nel corso
dell'esecuzione del contratto ovvero mediante la c.d. retrocessione dei corrispettivi contrattuali
convenuti, nonché per il danno patrimoniale da disservizio costituito dalle spese sostenute
dalle società (Enelpower o Enel produzione) per ripristinare l'efficienza lesa.
Quanto all'Atzori, questi egualmente è stato condannato al risarcimento di danni subiti
direttamente dal patrimonio della società Enelpower in relazione a consulenze, ad aoutsorcing
e ad un contratto dell'Enelpower con la società croata Centro Promed Doo. Tutti e quattro i
ricorrenti sono stati poi condannati al pagamento del danno all'immagine subito Enel s.p.a.,
Enel Produzione S.p.a. ed Enelpower s.p.a..
Si tratta, all'evidenza, di tutti danni direttamente subiti dalla società.
4.2. Ne consegue che per le domande relative a tali danni va esclusa la giurisdizione della corte
dei conti, dovendosi affermare la giurisdizione del giudice ordinario.
La giurisdizione della Corte dei conti era configurabile nei confronti di chi, all'interno dell'ente
pubblico partecipante, avesse omesso di adottare, essendo chiamato a farlo, un
comportamento volto all'esercizio da parte del socio - pubblica amministrazione- dell'azione
sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori, con conseguente danno della
società partecipata e, dunque, dell'ente pubblico partecipante.
5.1. Invece va affermata la giurisdizione delle Corte dei conti solo relativamente alla condanna
di risarcimento del danno all'immagine subita dal Ministero dell'Economia e delle Finanze.
Rientra nella giurisdizione della Corte dei conti l'azione di responsabilità per il danno arrecato
all'immagine dell'ente da organi della società partecipata. Infatti, tale danno, anche se non
comporta apparentemente una diminuzione patrimoniale alla pubblica amministrazione, è
suscettibile di una valutazione economica finalizzata al ripristino del bene giuridico leso (Cass.
civ., Sez. Unite, 02/04/2007, n. 8098).
5.2. Non può essere accolta la tesi sostenuta dai ricorrenti Giuffrida e Caressa G., secondo cui,
in applicazione del D.L. n 103 del 2009, art. 1, contenente modificazioni al D.L. n. 78 del
2009, va dichiarato il difetto di giurisdizione per ogni tipo di danno all'immagine, in quanto
tale danno potrebbe essere liquidato solo nei casi e nei modi di cui alla L. n. 97 del 2001, art. 7,
e cioè in presenza di una sentenza penale irrevocabile di condanna per delitto contro la p.a.,
che nella fattispecie mancherebbe. Infatti, a parte altri rilievi, come rilevano gli stessi ricorrenti
la norma nella sua formulazione letteraria fa salvi gli atti posti in essere dalla procura della
Corte dei Conti nel caso in cui, alla data di entrata in vigore del decreto legge convertito, fosse
già intervenuta una sentenza nell'ambito del giudizio sottoposto alla cognizione del giudice
contabile.
6. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente Craparotta lamenta la violazione dell'art. 360
c.p.c., della L. n. 20 del 1994, art. 1, L. n. 97 del 2001, artt. 3 e 7, R.D. n. 2440 del 1923, art. 81
e del R.D. n. 1234 del 1214, art. 52.
Assume il ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che egli fosse stato
dipendente anche di Enelpower, avendo svolto solo funzioni per Enel produzione. 7.11
motivo è inammissibile.
Anche dopo l'inserimento della garanzia del giusto processo nella formulazione dell'art. 111
Cost., il sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni della Corte dei
conti in sede giurisdizionale continua ad essere circoscritto al controllo dell'eventuale
83
violazione dei limiti esterni della giurisdizione del giudice contabile, ovvero all'esistenza dei vizi
che attengono all'essenza della funzione giurisdizionale e non si estende al modo del suo
esercizio. (Cass. Sez. Unite, 16/02/2007, n. 3615). Nella fattispecie il ricorrente prospetta
profili che attengono al merito del giudizio promosso davanti alla Corte dei Conti, negando il
rapporto di servizio intrattenuto con Enelpower e la sua partecipazione agli illeciti in danno di
società del gruppo Enel, nonché il nesso causale tra la sua condotta ed i plurimi eventi
dannosi. I vizi lamentati attengono, quindi, a pretesi errores in iudicando della Corte dei Conti,
per cui la loro prospettazione è inammissibile in questa sede.
8. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente incidentale Atzori lamenta la carenza di
giurisdizione della Corte dei conti per violazione delle disposizioni che disciplinano l'ambito
della giurisdizione contabile nei confronti di collaboratori esterni consulenti di s.p.a. aventi
natura pubblicistica (L. n. 20 del 1994, art. 1; L. n. 97 del 2001, artt. 3 e 7, R.D. n. 2440 del
1923, art. 81; R.D. n. 1214 del 1934, art. 52).
Assume il ricorrente che all'epoca dei fatti oggetto di causa egli non era dipendente di EPW,
ma era legato ad essa solo da un contratto di collaborazione e poi di consulenza, donde il
difetto di giurisdizione della Corte dei conti nei suoi confronti. 9.1.11 motivo è infondato.
In tema di responsabilità per danno erariale, l'esistenza di un rapporto di servizio, quale
presupposto per un addebito di responsabilità al detto titolo, non è limitata al rapporto
organico o al rapporto di impiego pubblico, ma è configurabile anche quando il soggetto,
benché estraneo alla Pubblica Amministrazione, venga investito, anche di fatto, dello
svolgimento, in modo continuativo, di una determinata attività in favore della Pubblica
Amministrazione, con inserimento nell'organizzazione della medesima, e con particolari
vincoli ed obblighi diretti ad assicurare la rispondenza dell'attività stessa alle esigenze generali
cui è preordinata. (Cass. Sez. Unite, 12/03/2004, n. 5163; Cass. S.U. n. 19661/2003).
9.2. Nella fattispecie la sentenza impugnata ha ravvisato tale inserimento dell'Atzori
nell'organizzazione della s.p.a. Enelpower, con l'assunzione di vincoli ed obblighi funzionali,
poiché questi agiva nell'espletamento dell'attività consulenziale per conto di Enelpower, sulla
base di lettera di incarico e di due disposizioni interne.
Ne consegue che le censure mosse dal ricorrente sul punto attengono a vizi in iudicando che
non possono trovare ingresso in questa sede, poiché rientrano nei limiti interni della
giurisdizione, estranei al sindacato di questa Corte di cassazione(Cass. civ. (Ord.), Sez. Unite,
16/12/2008, n. 29348).
10. In definitiva va accolto, nei termini di cui in motivazione, il primo motivo di ricorso, per
cui va dichiarato il difetto di giurisdizione della Corte dei Conti in merito alla domanda
proposta dalla Procura della Corte dei Conti limitatamente ai soli danni attinenti alle società,
con esclusione della domanda attinente al risarcimento del danno all'immagine subita dal
Ministero dell'Economia e delle Finanze.
Vanno rigettati i restanti motivi dei ricorsi del \Craparotta\ e dell'\Atzori\. Va cassata senza
rinvio, in relazione al motivo accolto, l'impugnata sentenza.
Esistono giusti motivi per compensare per intero tra le parti, le spese del giudizio di
cassazione.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi. Accoglie, nei termini di cui in motivazione, il primo motivo di ciascun
84
ricorso. Dichiara il difetto di giurisdizione della Corte dei Conti limitatamente ai soli danni
attinenti al patrimonio delle società. Rigetta i restanti motivi dei ricorsi del Craparotta e
dell'Atzori. Cassa senza rinvio, in relazione al motivo accolto, l'impugnata sentenza.
Compensa per intero tra le parti, le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2009.
Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2009
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 3 maggio 2013, n. 10299: giurisdizione del
giudice ordinario in ordine all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione
pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti.
Spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a
partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti (nella specie, consistenti
nell'avere accettato indebite dazioni di denaro al fine di favorire determinate imprese nell'aggiudicazione e nella successiva
gestione di appalti), non essendo in tal caso configurabile, avuto riguardo all'autonoma personalità giuridica della società,
né un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato
allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti. Sussiste invece la giurisdizione
di quest'ultima quando l'azione di responsabilità trovi fondamento nel comportamento di chi, quale rappresentante
dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i
propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione, ovvero in comportamenti degli
amministratori o dei sindaci tali da compromettere la ragione stessa della partecipazione sociale dell'ente pubblico,
strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed implicante l'impiego di risorse pubbliche, o da arrecare direttamente
pregiudizio al suo patrimonio.
Considerato in diritto
1.- I ricorsi vanno riuniti.
2.- A sostegno della carenza di giurisdizione della Corte dei conti e della sussistenza di quella del giudice
ordinario i ricorrenti invocano le disposizioni normative di cui agli artt. 102 e 103 Cost., 2393 e 2393 bis
cod. civ., 53 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214 e 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, nonché il principio
enunciato da Cass., sez. un., 19 dicembre 2009, n. 26906 (e dalla successiva conforme giurisprudenza)
nel senso che 'spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all'azione di risarcimento dei danni
subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei
85
dipendenti (nella specie, consistenti nell'avere accettato indebite dazioni di denaro al fine di favorire
determinate imprese nell'aggiudicazione e nella successiva gestione di appalti), non essendo in tal caso
configurabile, avuto riguardo all'autonoma personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio
tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o
ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti. Sussiste invece la
giurisdizione di quest'ultima quando l'azione di responsabilità trovi fondamento nel comportamento di
chi, quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso,
abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore
della partecipazione, ovvero in comportamenti degli amministratori o dei sindaci tali da compromettere
la ragione stessa della partecipazione sociale dell'ente pubblico, strumentale al perseguimento di finalità
pubbliche ed implicante l'impiego di risorse pubbliche, o da arrecare direttamente pregiudizio al suo
patrimonio'.
3.- Il principio è stato reiteratamente ribadito (da Cass., sez. un., nn. 519/2010, 4309/2010,
10063/2011, 14655/2011, 14957/2011, 20941/2011, 3692/2012) dando luogo ad un consolidato
orientamento del quale la Procura contabile sollecita la revisione.
Rappresenta come condizionamenti di carattere politico finiscano col rendere altamente improbabili
iniziative degli organi societari davanti al giudice ordinario, dando luogo ad un sostanziale esonero da
responsabilità di soggetti che pure arrecano danno a società sostanzialmente pubbliche, in quanto
totalmente partecipate dai Comuni, di cui costituiscono longa manus per l'attuazione delle relative
decisioni strategiche ed operative.
Richiama tra l'altro:
- i riferimenti alle società in house da parte dell'art. 25, comma 1, nn. 5 e 6, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1
(convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27), il cui art. 1 prevede la
responsabilità amministrativa in caso di stipulazione, da parte di talune società a totale partecipazione
pubblica, di contratti conclusi in violazione delle previste modalità di approvvigionamento;
- l'art. 4, comma 12, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95 (convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 7 agosto
2012, n. 135, recante: 'Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica...'), laddove stabilisce
che 'le amministrazioni vigilanti verificano sul rispetto dei vincoli di cui ai commi precedenti; in caso di
violazione dei suddetti vincoli gli amministratori esecutivi e i dirigenti responsabili della società
rispondono, a titolo di danno erariale, per le retribuzioni ed i compensi erogati in virtù dei contratti
stipulati';
- l'art. 6, commi 3 e 4, del citato d.l. n. 95/2012, che estende alle società a totale partecipazione pubblica
il potere ispettivo attribuito agli organi statali nei confronti delle amministrazioni pubbliche (comma 3)
e prevede che comuni e province alleghino al rendiconto della gestione una nota informativa
contenente la verifica dei crediti e dei debiti reciproci tra ente e società partecipate e, in caso di
discordanze, adottino senza indugio i provvedimenti necessari ai fini della riconciliazione delle partite
debitorie e creditorie (quarto comma);
86
- l'art. 3 del d.l. 10 ottobre 2012, n. 174 (convertito in legge dalla L. 7 dicembre 201, n. 213, che ha
inserito l'art. 147 ter nel testo unico degli enti locali, prevedendo penetranti controlli da parte dell'ente
pubblico partecipante ed un bilancio consolidato riguardante le 'aziende non quotate partecipate'.
Tutto ciò - conclude in memoria la Procura contabile - dovrebbe indurre a ritenere 'irragionevole che
siano sottoposti alla giurisdizione contabile gli amministratori di un'azienda speciale, quelli di una
società concessionaria, la giunta comunale ed i consiglieri comunali che approvano il conto consolidato
e controllano la società partecipata e non anche coloro che l'hanno gestita causando direttamente un
danno erariale'.
4.- Il ricorso, nella misura in cui invoca l'applicazione al caso di specie dei principi già enunciati dalla
giurisprudenza di questa corte nelle citate decisioni delle Sezioni unite nn. 26806/2009, 519/2010,
4609/2010, 10063/2011, 14655/2011, 14957/2011, 20941/2011 e 3692/2012 (cui adde, da ultimo,
l'ordinanza n. 8352/2013), appare fondato.
Infatti, alla luce di quei principi, che non occorre qui ripetere essendo stati già dianzi richiamati, non è
dato ravvisare la giurisdizione della Corte dei conti in controversie che abbiano ad oggetto la
responsabilità per mala gestio imputabile ad amministratori di società a partecipazione pubblica, ove il
danno di cui si pretende il ristoro sia riferito al patrimonio sociale, cioè ad un patrimonio che, non
potendosi quello della società confondere con quello dei soci, appartiene alla società medesima, la quale
non diviene essa stessa un ente pubblico sol per il fatto di essere partecipata da un ente pubblico.
La sollecitazione rivolta dalla Procura contabile a questa corte affinché riveda il proprio suaccennato
orientamento, quando la società di cui si tratta abbia le caratteristiche della c.d. società in house
providing, non può trovare riscontro in questa sede, per l'assorbente ragione che lo statuto della AMT-
Azienda Municipalizzata Trasporti s.p.a., allegato agli atti di causa, non evidenzia caratteristiche di tal
genere. È vero infatti che, secondo un orientamento da tempo affermatosi (benché a fini diversi da
quelli della disciplina del riparto tra giurisdizioni) nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea,
e talora richiamato anche dalla Corte costituzionale (si veda, in particolare, da ultimo, la sentenza n. 46
del 2013), le società in house costituirebbero null'altro che una longa manus dell'amministrazione; ma
ciò in quanto vi si ravvisi la contemporanea presenza di tre condizioni: a) l'essere la società a totale
partecipazione pubblica, b) la sua destinazione statutaria ad operare in via esclusiva o prevalente in
favore dell'amministrazione pubblica partecipante, c) l'esistenza di quello che si è ormai soliti definire
come 'controllo analogo', ossia una forma di direzione e controllo sulla gestione societaria, da parte
della pubblica amministrazione partecipante, analoga a quella che la medesima amministrazione
eserciterebbe su una propria articolazione interna.
Nel caso in esame lo statuto della società prevede che la partecipazione del Comune di Verona al
capitale sociale non possa essere inferiore al 51%, ma non che debba essere totalitaria. L'oggetto sociale,
pur facendo riferimento a 'servizi pubblici', non implica che l'impresa possa operare solo nei confronti
della pubblica amministrazione partecipante (comprendendo invece, ad esempio, anche l'attività di
trasporto turistico privato). I poteri di gestione dell'impresa, al pari di quelli di vigilanza sulla medesima
gestione e sulla contabilità, sono attribuiti ai competenti organi sociali secondo criteri del tutto
corrispondenti a quelli di regola previsti nelle normali società azionarie di diritto privato, con la sola
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previsione, quanto ai budgets, ai prezzi ed alle tariffe, di un generico riferimento ad un documento di
indirizzo approvato dal Consiglio comunale di Verona; riferimento che evidentemente non vale ad
integrare gli estremi del 'controllo analogo' cui sopra si è fatto cenno.
Per il resto le argomentazioni svolte nelle difese della Procura contabile non offrono elementi decisivi,
tali da indurre a modificare l'indirizzo giurisprudenziale già menzionato, alla stregua del quale, peraltro,
non v'è ragione per dubitare della giurisdizione del giudice contabile in ordine all'azione proposta nei
confronti del sindaco e dell'assessore comunale, restando evidentemente poi rimessa a quel medesimo
giudice, in sede di merito, ogni valutazione circa la possibilità d'individuare nel caso di specie un danno
imputabile ad azioni o omissioni di quei soggetti e riferibile (non già al patrimonio della società
partecipata, bensì) direttamente all'ente pubblico comunale.
5. In conclusione, pertanto, va dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice contabile nei confronti
dei convenuti diversi dal sindaco e dall'assessore sopra menzionati.
Sussistono giusti motivi per compensare tra tutte le parti le spese del regolamento.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, pronunciando sui ricorsi riuniti, dichiara il difetto di
giurisdizione della Corte dei conti nei confronti dei convenuti diversi da S.M.M. e D.G.L. ;
compensa le spese del regolamento.
Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 25 novembre 2013, n. 26283 : giurisdizione della
Corte dei Conti sull’azione di responsabilità esercitata dalla Procura della Repubblica presso detta corte
quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per danni da essi cagionati
al patrimonio di una società in house.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Le sezioni unite sono nuovamente chiamate a stabilire se sussista, ed eventualmente entro
quali limiti, la giurisdizione della Corte dei conti nei confronti di soggetti che abbiano svolto
funzioni amministrative o di controllo in società di capitali (nella specie una società per azioni)
costituite e partecipate da enti pubblici, quando a quei soggetti vengano imputati atti contrari
ai loro doveri d'ufficio con conseguenti danni per la società.
Su tale questione, come più diffusamente si dirà tra un momento, questa corte è già intervenuta negli
ultimi anni con molteplici pronunce. Conviene dire subito, però, che la fattispecie ora in esame presenta
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una connotazione particolare, cui solo di sfuggita v'era stata occasione di far cenno in alcune precedenti
occasioni: cioè che la società asseritamente danneggiata dai propri gestori ed organi di controllo
presenta le caratteristiche di una cosiddetta società in house.
Cosa con tale espressione debba intendersi e perchè ciò rilevi ai fini della giurisdizione lo si chiarirà
meglio in seguito. Qui giova sottolineare che la qualifica della ETM come società in house del Comune
di Civitavecchia discende da un accertamento in fatto compiuto dal giudice di primo grado, il quale ne
ha dato dettagliatamente atto nella propria sentenza (si vedano, in particolare, le pagg. 9 e 10), nella
quale è infatti puntualizzato: che l'anzidetta società è stata costituita dall'ente pubblico comunale, il
quale ne è l'unico socio e le cui azioni non possono essere neppure parzialmente alienate a terzi; che
essa ha per oggetto l'esercizio del servizio di trasporto pubblico locale e di altri servizi inerenti alla
mobilità urbana ed extraurbana (quali il servizio degli ausiliari della sosta e quello dei parcheggi); che la
parte più importante dell'attività sociale è svolta in favore del comune partecipante; e che sulla
medesima società detto comune esercita un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.
A tali accertamenti non risulta siano state mosse contestazioni specifiche negli atti di gravame proposti
dagli interessati contro la sentenza di primo grado, nè il giudice d'appello li ha rimessi in discussione, in
punto di fatto, sicchè (pur non risultando possibile in questa sede l'esame diretto dello statuto della
società ETM, non prodotto agli atti del giudizio di cassazione) si può tenere senz'altro per fermo che la
società di cui si discute presenta le caratteristiche sopra riferite.
2. Si è già ricordato all'inizio come sul tema della giurisdizione contabile in materia di responsabilità di
gestori ed organi di controllo delle società partecipate da enti pubblici le sezioni unite di questa corte si
siano già ripetutamente espresse, sin da quando ha cominciato ad avere grande diffusione il fenomeno
dell'uso dello strumento societario privato da parte delle pubbliche amministrazioni anche per la
realizzazione di finalità tipicamente pubblicistiche, e poi con crescente frequenza negli ultimi anni.
Sarebbe inutile ripercorrere qui le diverse tappe di questo iter giurisprudenziale, al quale ovviamente
anche la dottrina ha dato il suo apporto critico, pur manifestando posizioni talora alquanto divaricate.
Converrà solo richiamare brevemente i punti salienti dell'orientamento da ultimo consolidatosi,
diffusamente esposti nella sentenza n. 26806 del 2009 (alla quale anche la giurisprudenza successiva si è
allineata quasi senza eccezioni: si vedano, ad esempio, Sez. un. 10299/13, 7374/13, 20940/11,
20941/11, 14957/11, 14655/11, 16286/10, 8429/10, e 519/10).
2.1. Premesso che l'art. 103 Cost., comma 2, impone, al di fuori delle materie di contabilità pubblica, di
trovare il fondamento della giurisdizione della Corte dei conti in una specifica disposizione di legge
(rinvenibile all'origine nella previsione del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, art. 13, secondo cui la Corte dei
conti giudica sulla responsabilità per danni arrecati all'erario da pubblici funzionari nell'esercizio delle
loro funzioni, con il successivo ampliamento dovuto alla L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, comma 4, che
ha esteso il giudizio della stessa Corte dei conti alla responsabilità di amministratori e dipendenti
pubblici anche per danni cagionati ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza),
la richiamata pronuncia delle sezioni unite muove da un duplice rilievo: anzitutto che nell'attuale assetto
normativo il perseguimento delle finalità istituzionali proprie della pubblica amministrazione si realizza
anche mediante attività disciplinate in tutto o in parte dal diritto privato, onde il dato essenziale che
radica la giurisdizione della corte contabile è rappresentato dall'evento dannoso verificatosi a carico
della stessa pubblica amministrazione e non più dal quadro di riferimento - pubblico o privato - nel
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quale si colloca la condotta produttiva del danno; in secondo luogo, che le società di capitali
eventualmente costituite o comunque partecipate da enti pubblici per il perseguimento delle finalità loro
proprie non cessano sol per questo di essere delle società di diritto privato, la cui disciplina, se non
diversamente disposto, riposa tuttora sulle norme dettate dal codice civile, come confermato anche dal
dettato dell'art. 2449 dello stesso codice (nella cui relazione accompagnatoria è detto infatti
espressamente che 'è lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per
assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici').
In ossequio ad un principio comune a tutti gli enti dotati di personalità giuridica, la società si configura
come un soggetto di diritto pienamente autonomo e distinto, sia rispetto a coloro che, di volta in volta,
ne impersonano gli organi sia rispetto ai soci, ed è titolare di un proprio patrimonio, riferibile ad essa
sola e non a chi ne detenga le azioni o le quote di partecipazione. Pertanto, non solo risulta impossibile
imputare personalmente agli amministratori o ad altri soggetti investiti di cariche sociali la titolarità del
rapporto di servizio intercorrente tra l'ente pubblico e la società cui sia stato affidato l'espletamento di
compiti riguardanti un pubblico servizio, ma soprattutto non può dirsi arrecato alla pubblica
amministrazione il danno che gli atti di mala gestio, posti in essere dagli organi sociali, abbiano inferto
al patrimonio della società.
La responsabilità nei confronti della società, dei soci, dei creditori e dei terzi in genere che grava sugli
organi sociali, assoggettati alle medesime norme sia quando designati dai soci secondo le regole generali
dettate in proposito dal codice sia quando eventualmente designati dal socio pubblico in forza dei
particolari poteri a lui spettanti (art. 2449 cit., comma 2), opera quindi sempre nei termini stabiliti
dall'art. 2392 c.c. e segg., non diversamente che in qualsivoglia altra società privata.
Di conseguenza il danno cagionato dagli organi della società al patrimonio sociale, che nel sistema del
codice civile può dar vita all'azione sociale di responsabilità ed eventualmente a quella dei creditori
sociali, non è idoneo a configurare anche un'ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte
dei conti: perchè non implica alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto
privato (appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo ai
singoli soci - pubblici o privati - i quali sono unicamente titolari delle rispettive quote di partecipazione
ed i cui originari conferimenti restano confusi ed assorbiti nel patrimonio sociale medesimo. E
l'esattezza di tale conclusione trova conferma anche nell'impossibilità di realizzare, altrimenti, un
soddisfacente coordinamento sistematico tra l'ipotizzata azione di responsabilità dinanzi al giudice
contabile e l'esercizio delle azioni di responsabilità (sociale e dei creditori sociali) contemplate dal codice
civile.
Risulta viceversa configurabile l'azione del procuratore contabile quando sia volta a far valere la
responsabilità dell'amministratore o del componente di organi di controllo della società partecipata
dall'ente pubblico che sia stato danneggiato dall'azione illegittima non di riflesso, quale conseguenza
indiretta del pregiudizio arrecato al patrimonio sociale, bensì direttamente. Si è allora innegabilmente in
presenza di un cosiddetto danno erariale, ossia di un danno provocato dall'agente al patrimonio
dell'ente pubblico, come ad esempio accade nel caso del danno all'immagine della pubblica
amministrazione, la cui riconducibilità entro i parametri della giurisdizione del giudice contabile è
confermata dal disposto della L. 3 agosto 2009, n. 102, art. 17, comma 30 ter, (quale risulta dopo le
modifiche apportate dal d.l. in pari data, n. 103, convertito con ulteriori modificazioni nella L. 3 ottobre
90
2009, n. 141). E' in questo quadro di principi generali che deve essere perciò letta anche la disposizione
della L. 28 febbraio 2008, n. 31, art. 16 bis, (che ha convertito il D.L. 31 dicembre 2007, n. 248), la
quale ha introdotto per le società quotate un'eccezione alla giurisdizione contabile da riferire, appunto,
alla sola area in cui detta giurisdizione risulterebbe altrimenti applicabile.
L'azione del procuratore contabile appare poi anche configurabile nei confronti (non già
dell'amministratore della società partecipata, per il danno arrecato al patrimonio sociale, bensì) di chi,
quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia
colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, così pregiudicando il valore della
partecipazione. Ciò che ben può accadere quando il socio pubblico, in presenza di atti di mala gestio
imputabili agli amministratori o agli organi di controllo della società partecipata, trascuri
ingiustificatamente di esercitare le azioni di responsabilità alle quali egli sia direttamente legittimato, ove
ne sia derivata una perdita di valore della partecipazione.
3. Il collegio è persuaso che l'orientamento ora richiamato, ispirato dall'esigenza di ricondurre la
soluzione del problema di giurisdizione entro un quadro coerente di principi giuridici che sono a
fondamento del sistema ordinamentale, debba essere in via generale tenuto fermo, anche alla luce della
normativa sopravvenuta. Normativa alla quale il carattere spesso frammentario e l'esser frutto di
esigenze contingenti impediscono di assumere una valenza sistematica, che vada oltre il dettato della
singola disposizione, onde parrebbe quanto mai azzardato il voler trarre da essa argomenti di ordine
generale, tali da incidere sui principi giuridici su cui è basata la citata giurisprudenza di questa corte in
materia, o anche solo indici dell'esistenza di principi in tutto o in parte diversi da quelli. La disciplina
speciale dettata per le cosiddette società pubbliche - come anche la più attenta dottrina non ha mancato
di rilevare - non ha tuttora assunto le caratteristiche di un sistema conchiuso ed a sè stante, ma continua
ad apparire come un insieme di deroghe alla disciplina generale, sia pure con ampio ambito di
applicazione.
Ciò dicasi, in particolare, per l'inclusione delle società a partecipazione pubblica nel novero delle
amministrazioni pubbliche cui si estende l'opera di supervisione, monitoraggio e coordinamento
nell'approvvigionamento di beni e servizi, demandata al commissario straordinario nominato dal
Governo a norma del D.L. 7 maggio 2010, n. 52, art. 2, (convertito con modificazioni dalla L. 6 luglio
2012, n. 94), inclusione ovviamente ispirata dall'esigenza di evitare aggravamenti anche solo indiretti
della spesa pubblica, ma che non consente certo sol per questo di qualificare ad ogni effetto come enti
pubblici le società a partecipazione pubblica cui detta norma si riferisce; e lo stesso dicasi per
l'assoggettamento delle società partecipate a vincoli economici derivanti dal c.d. patto di stabilità e per i
conseguenti maggiori controlli, da parte degli enti pubblici partecipanti, a tal fine imposti dall'art. 147
quater del testo unico sugli enti locali (articolo introdotto dal D.L. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito
con modificazioni dalla L. 7 dicembre 2012, n. 213).
Analogamente le disposizioni contenute nel D.L. 6 luglio 2012, n. 95, art. 4, (convertito con
modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 135), nel dettare regole particolari in tema di nomina e di
compensi spettanti ai componenti dei consigli di amministrazione ed ai dipendenti delle società a
partecipazione pubblica, non si discostano dalla logica da cui è già ispirato il citato art. 2449 c.c. - che s'è
visto essere coerente con l'inquadramento generale di tali enti, per tutto il resto, nel novero delle società
azionarie soggette alla disciplina privatistica - ed, anzi, il comma 13 del medesimo art. 4 ribadisce
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espressamente che, 'per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica
comunque (alle società a partecipazione pubblica) la disciplina del codice civile in materia di società di
capitali'. Il che dimostra con evidenza come non possa essere in alcun modo attribuita una valenza di
ordine generale, che vada al di là della specifica portata di tale disposizione eccezionale, neppure alla
previsione del precedente comma 12, per la quale gli amministratori ed i dirigenti delle anzidette società,
in caso di violazione dei vincoli di spesa stabiliti dai commi precedenti, 'rispondono, a titolo di danno
erariale, per le retribuzioni ed i compensi erogati in virtù dei contrati stipulati'.
Nè in virtù di tali disposizioni, nè di altre altrettanto frammentarie e disorganiche che sono sparse
nell'ordinamento e delle quali sarebbe qui superfluo dare dettagliatamente conto, è dato insomma
sottrarsi alla drastica alternativa già precedentemente segnalata: alternativa per la quale, fin quando non
si arrivi a negare la distinzione stessa tra ente pubblico partecipante e società di capitali partecipata, e
quindi tra la distinta titolarità dei rispettivi patrimoni, la giurisdizione della Corte dei conti in tema di
risarcimento dei danni arrecati dai gestori o dagli organi di controllo al patrimonio della società
potrebbe fondarsi soltanto: o su una previsione normativa che eccezionalmente lo stabilisca,
quantunque si tratti di danno arrecato ad un patrimonio facente capo non già ad un soggetto pubblico
bensì ad un ente di diritto privato - previsione certo possibile, ma che allo stato non appare
individuabile in termini generali nell'ordinamento - ; oppure sull'attribuzione alla stessa società
partecipata della qualifica di ente pubblico, onde il danno arrecato al suo patrimonio potrebbe
qualificarsi senz'altro come danno erariale. Soluzione, quest'ultima, che appare però ben difficilmente
predicabile, perchè trova un solido ostacolo nel disposto della L. 20 marzo 1975, n. 70, art. 4, a tenore
del quale occorre l'intervento del legislatore per l'istituzione di un ente pubblico; e pare difficile dubitare
che siffatta norma esprima un principio di ordine generale, ove si consideri la molteplicità e la rilevanza
degli effetti giuridici potenzialmente implicati nel riconoscimento della natura pubblica di un ente. Di
modo che, se in via di principio può ammettersi che un siffatto riconoscimento sia desumibile anche
per implicito da una o più disposizioni di legge, occorre nondimeno che la volontà del legislatore in tal
senso risulti da quelle disposizioni in modo assolutamente inequivoco. Ma, quanto alle società a
partecipazione pubblica, lungi dal ravvisarsi disposizioni normative che inequivocabilmente
attribuiscano loro la qualifica di ente pubblico, s'è già visto come il legislatore si sia preoccupato a più
riprese di ribadirne, in via generale e fatta salva l'applicazione di singole regole speciali,
l'assoggettamento alla disciplina dettata dal codice civile per le società di diritto privato, con le già
richiamate conseguenze in punto di riparto di giurisdizione (solo in presenza di società di fonte legale,
regolate da una disciplina sui generis di chiara impronta pubblicistica, quale ad esempio la Rai, è parso
necessario pervenire a conclusioni diverse: si vedano Sez. un. 22 dicembre 2009, n. 27092).
4. Nelle considerazioni ora svolte assume un ruolo centrale, come s'è già sottolineato, la distinzione tra
la società di capitali (soggetto di diritto privato) ed i propri soci (ancorchè eventualmente pubblici).
Distinzione che - è appena il caso di ricordarlo - in via di principio non vien meno neppure
nell'eventualità in cui la società sia unipersonale ed il capitale sociale appartenga quindi ad un unico
socio, in base alle regole di matrice comunitaria introdotte nel nostro ordinamento prima per le sole
società a responsabilità limitata e poi anche per le società azionarie.
E' proprio partendo da questo profilo che si manifesta, però, la necessità di un'ulteriore riflessione
quando ci si trovi in presenza di quel particolare fenomeno giuridico, al quale si è già dovuto far cenno
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all'inizio di questa sentenza, che ha trovato ampia diffusione negli ultimi decenni e che va sotto il nome
di in house providing.
4.1. La direttiva 2006/123/Ce, relativa ai servizi nel mercato interno, lascia liberi gli Stati membri di
decidere le modalità organizzative della prestazione dei servizi d'interesse economico generale (art. 1,
par. 6). E' perciò certamente consentito che, in conformità ai principi generali del diritto comunitario,
gli enti pubblici scelgano se espletare tali servizi direttamente o tramite terzi e che, in quest'ultimo caso,
individuino diverse possibili forme di esternalizzazione, ivi compreso il l'affidamento a società
partecipate dall'ente pubblico medesimo. In tale ambito, peraltro, si possono dare ipotesi ben distinte:
l'affidamento a società totalmente estranee alla pubblica amministrazione, l'affidamento a società con
azionariato misto, in parte pubblico ed in parte privato, ed infine l'affidamento a società c.d. in house.
Solo in quest'ultimo caso la Corte di Giustizia Europea (sin dalla nota sentenza Teckal del 18 novembre
1999, n. 107/98) ha escluso la necessità del preventivo ricorso a procedure di evidenza pubblica,
muovendo dal presupposto che non sussistono esigenze di tutela della concorrenza quando la società
affidataria sia interamente partecipata dall'ente pubblico, eserciti in favore del medesimo la parte più
importante della propria attività e sia soggetta al suo controllo in termini analoghi a quelli in cui si
esplica il controllo gerarchico dell'ente sui propri stessi uffici. Siffatte indicazioni sono state pienamente
recepite, in ambito nazionale, sia dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (si vedano tra le tante, a
mero titolo d'esempio, le pronunce n. 7636/04, 962/06, 1513/07, 2765/09, 5808/09, 7092/10 ed
1447/11), sia da ultimo dalla Corte dei conti (si veda la sentenza n. 546/13). Anche queste stesse
sezioni unite hanno avuto occasione, sia pur fuggevolmente, di farvi recentemente riferimento (si
vedano le ordinanze del 5 aprile 2013, n. 8352, e del 3 maggio 2013, n. 10299) se ne è occupata più
volte, infine, la Corte costituzionale (da ultimo nella sentenza 20 marzo 2013, n. 46, sulla quale si dovrà
poi brevemente tornare).
Pur trattandosi all'origine di una figura di stampo eminentemente giurisprudenziale, la società in house
non ha tardato ad acquisire cittadinanza anche nella legislazione nazionale. Se ne trova menzione in
molteplici sparse disposizioni normative, talvolta con mero richiamo alle caratteristiche richieste dalla
citata giurisprudenza Europea, altre volte con più specifica indicazione dei requisiti occorrenti perchè
tale figura ricorra. Particolare risalto assume, in questo contesto, il disposto dell'art. 113, comma 4, del
testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti a locali (D.Lgs. n. 267 del 2000), come riformulato dal
D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 14, (convertito con modificazioni dalla L. 24 novembre 2003, n.
326), che, in presenza di determinate condizioni, consente espressamente l'affidamento di servizi
pubblici, anzichè ad imprese terze da individuare mediante procedure di evidenza pubblica, a società di
capitali costituite per quello scopo e partecipate totalitariamente da soci pubblici, purchè esse realizzino
la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti che le controllano e purchè questi
ultimi esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.
E' dunque possibile considerare ormai ben delineati nell'ordinamento i connotati qualificanti della
società in house, costituita per finalità di gestione di pubblici servizi e definita dai tre requisiti già più
volte ricordati: la natura esclusivamente pubblica dei soci, l'esercizio dell'attività in prevalenza a favore
dei soci stessi e la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici
sui propri uffici. Ma s'intende che, per poter parlare di società in house, è necessario che detti requisiti
sussistano tutti contemporaneamente e che tutti trovino il loro fondamento in precise e non derogabili
disposizioni dello statuto sociale.
93
4.2. Poche brevi osservazioni paiono ancora opportune per meglio puntualizzare le tre caratteristiche
salienti della società in house.
In ordine alla prima di esse giova ricordare come già la giurisprudenza Europea abbia ammesso la
possibilità che il capitale sociale faccia capo ad una pluralità di soci, purchè si tratti sempre di enti
pubblici (si vedano le sentenze della Corte di giustizia 10 settembre 2009, n. 573/07, Sea, e 13
novembre 2008, n. 324/07, Coditel Brabant), e come nel medesimo senso si sia espresso, del tutto
persuasivamente, anche il Consiglio di Stato (si vedano, tre le altre, le pronunce n. 7092/10 ed
8970/09). E' quasi superfluo aggiungere che occorrerà pur sempre, comunque, che lo statuto inibisca in
modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle partecipazioni societarie di cui gli enti pubblici
siano titolari.
Il requisito della prevalente destinazione dell'attività in favore dell'ente o degli enti partecipanti alla
società, pur presentando innegabilmente un qualche margine di elasticità, postula in ogni caso che
l'attività accessoria non sia tale da implicare una significativa presenza della società quale concorrente
con altre imprese sul mercato di beni o servizi. Ma, come puntualizzato da Corte cost. 23 dicembre
2008, n. 439 (anche sulla scorta della giurisprudenza comunitaria: si veda, in particolare, la sentenza
della Corte di Giustizia 11 maggio 2006, n. 340/04, Carbotermo), non si tratta di una valutazione
solamente di tipo quantitativo, da operare con riguardo esclusivo al fatturato ed alle risorse economiche
impiegate, dovendosi invece tener conto anche di profili qualitativi e della prospettiva di sviluppo in cui
l'attività accessoria eventualmente si ponga. In definitiva - e segnatamente per quel che interessa ciò che
si andrà a dire in ordine alla reale natura delle società in house ai fini del riparto di giurisdizione - quel
che soprattutto importa è che l'eventuale attività accessoria, oltre ad essere marginale, rivesta una
valenza meramente strumentale rispetto alla prestazione del servizio d'interesse economico generale
svolto dalla società in via principale.
Quanto infine al requisito del cosiddetto controllo analogo, quel che rileva è che l'ente pubblico
partecipante abbia statutariamente il potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della
società in house, i cui organi amministrativi vengono pertanto a trovarsi in posizione di vera e propria
subordinazione gerarchica.
L'espressione 'controllo' non allude perciò, in questo caso, all'influenza dominante che il titolare della
partecipazione maggioritaria (o totalitaria) è di regola in grado di esercitare sull'assemblea della società e,
di riflesso, sulla scelta degli organi sociali; si tratta, invece, di un potere di comando direttamente
esercitato sulla gestione dell'ente con modalità e con un'intensità non riconducibili ai diritti ed alle
facoltà che normalmente spettano al socio (fosse pure un socio unico) in base alle regole dettate dal
codice civile, e sino a punto che agli organi della società non resta affidata nessuna autonoma rilevante
autonomia gestionale (si vedano, in tal senso, le chiare indicazioni di Cons. Stato, Ad. plen., 3 marzo
2008, n. 1, e della conforme giurisprudenza amministrativa che ne è seguita).
4.3. Le caratteristiche ora sommariamente descritte - e soprattutto la terza - bastano a rendere evidente
l'anomalia del fenomeno dell'in house nel panorama del diritto societario.
E' già anomalia non piccola il fatto che si abbia qui a che fare con società di capitali non destinate (se
non in via del tutto marginale e strumentale) allo svolgimento di attività imprenditoriali a fine di lucro,
così da dover operare necessariamente al di fuori del mercato. Forse entro certi limiti una siffatta
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anomalia la si potrebbe ancora giustificare, in un contesto storico nel quale la causa lucrativa delle
società di capitali è andata via via sbiadendosi in favore di una concezione che vede in quelle società dei
modelli organizzativi utilizzabili per scopi diversi. Ma ciò che davvero è difficile conciliare con la
configurazione della società di capitali, intesa quale persona giuridica autonoma e distinta dai soggetti
che in essa agiscono e per il cui tramite essa stessa agisce, è la totale assenza di un potere decisionale
suo proprio, in conseguenza del totale assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell'ente
pubblico titolare della partecipazione sociale.
Si potrebbe obiettare che il fenomeno della eterodirezione di società non è certo sconosciuto al diritto
societario, e che anzi, dopo la riforma attuata col D.Lgs. n. 6 del 2003, esso ha trovato esplicito
riconoscimento nell'art. 2497 c.c. e segg.. Ma non è la stessa cosa. Nei gruppi societari il potere di
direzione e coordinamento spettante all'ente capogruppo attiene all'individuazione delle linee
strategiche dell'attività d'impresa senza mai annullare del tutto l'autonomia gestionale della società
controllata. Gli amministratori di quest'ultima sono perciò tenuti ad adeguarsi alle direttive loro
impartite, ma conservano nondimeno una propria sfera di autonomia decisionale (giacchè, pur con gli
adattamenti resi necessari dall'esser parte di un gruppo imprenditoriale più vasto, continua ad applicarsi
alla singola società il disposto dell'art. 2380 bis c.c., comma 1) nè, soprattutto, essi possono prescindere
dal valutare se ed in qual misura quelle direttive eventualmente comprimano in modo indebito
l'interesse della stessa società controllata: interesse di cui sono garanti ed in virtù del quale hanno il
dovere, se del caso, di discostarsi da direttive illegittime. La disciplina della direzione e del
coordinamento dettata dai citato art. 2497 e segg., insomma, è volta a coniugare l'unitarietà
imprenditoriale della grande impresa con la perdurante autonomia giuridica delle singole società
agglomerate nel gruppo, che restano comunque entità giuridiche e centri d'interesse distinti l'una dalle
altre. Altrettanto non sembra potersi dire invece per la società in house, sia per la già ricordata
subordinazione dei suoi gestori all'ente pubblico partecipante, nel quadro di un rapporto gerarchico che
non lascia spazio a possibili aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso, sia per l'impossibilità
stessa d'individuare nella società un centro d'interessi davvero distinto rispetto all'ente pubblico che la
ha costituita e per il quale essa opera.
Allo stesso modo, ove si abbia a che fare con una società a responsabilità limitata, non sembra possibile
ricondurre sic et simpliciter il 'controllo analogo', caratteristico del fenomeno dell'in house, ad uno dei
'particolari diritti riguardanti l'amministrazione' che l'atto costitutivo può riservare ad un socio (art. 2468
c.c., comma 3): giacchè neppure siffatti diritti speciali di amministrazione sono equiparabili, in presenza
di un amministratore non socio, ad un rapporto di natura gerarchica da cui quest'ultimo sia vincolato,
restando comunque intatto il suo primario dovere di perseguire l'interesse sociale, che conserva pur
sempre un qualche grado di autonomia rispetto a quello personale del socio.
La società in house, come in qualche modo già la sua stessa denominazione denuncia, non pare invece
in grado di collocarsi come un'entità posta al di fuori dell'ente pubblico, il quale ne dispone come di una
propria articolazione interna. E' stato osservato, infatti, che essa non è altro che una longa manus della
pubblica amministrazione, al punto che l'affidamento pubblico mediante in house contract neppure
consente veramente di configurare un rapporto contrattuale intersoggettivo (Corte cost. n. 46/13, cit.);
di talchè 'l'ente in house non può ritenersi terzo rispetto all'amministrazione controllante ma deve
considerarsi come uno dei servizi propri dell'amministrazione stessa' (così Cons. Stato, Ad. plen., n.
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1/08, cit.). Il velo che normalmente nasconde il socio dietro la società è dunque squarciato: la
distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva.
L'uso del vocabolo società qui serve solo allora a significare che, ove manchino più specifiche
disposizioni di segno contrario, il paradigma organizzativo va desunto dal modello societario; ma di una
società di capitali, intesa come persona giuridica autonoma cui corrisponda un autonomo centro
decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse suo proprio, non è più possibile parlare.
5. Alla luce di quanto fin qui detto si comprende bene come le conclusioni cui questa corte è pervenuta
nell'individuare i limiti della giurisdizione del giudice contabile nelle cause riguardanti la responsabilità
degli organi di società a partecipazione pubblica non possano valere, tal quali le si è esposte nei
paragrafi 2 e 3 della presente sentenza, anche quando si tratti di società in house.
Non possono valere perchè - ciò sia detto quanto meno ai limitati fini del riparto di giurisdizione -
queste ultime hanno della società solo la forma esteriore ma, come s'è visto, costituiscono in realtà delle
articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano e non dei soggetti giuridici ad essa
esterni e da essa autonomi.
Ne consegue che gli organi di tali società, assoggettati come sono a vincoli gerarchici facenti capo alla
pubblica amministrazione, neppure possono essere considerati, a differenza di quanto accade per gli
amministratori delle altre società a partecipazione pubblica, come investiti di un mero munus privato,
inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società. Essendo essi preposti
ad una struttura corrispondente ad un'articolazione interna alla stessa pubblica amministrazione, è da
ritenersi che essi siano personalmente a questa legati da un vero e proprio rapporto di servizio, non
altrimenti di quel che accade per i dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall'ente pubblico.
L'analogia tra le due situazioni, che si è visto essere una delle caratteristiche salienti del fenomeno dell'in
house, non giustificherebbe una conclusione diversa nei due casi, nè quindi un diverso trattamento in
punto di responsabilità e di relativa giurisdizione.
D'altro canto, se non risulta possibile configurare un rapporto di alterità tra l'ente pubblico partecipante
e la società in house che ad esso fa capo, è giocoforza concludere che anche la distinzione tra il
patrimonio dell'ente e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale, ma non
di distinta titolarità.
Dal che discende che, in questo caso, il danno eventualmente inferto al patrimonio della società da atti
illegittimi degli amministratori, cui possa aver contribuito un colpevole difetto di vigilanza imputabile
agli organi di controllo, è arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile all'ente
pubblico: è quindi un danno erariale, che giustifica l'attribuzione alla Corte dei conti della giurisdizione
sulla relativa azione di responsabilità.
6. Il ricorso deve quindi esser accolto, in base al principio di diritto qui di seguito enunciato: 'La Corte
dei conti ha giurisdizione sull'azione di responsabilità esercitata dalla Procura della Repubblica presso
detta corte quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per danni da
essi cagionati al patrimonio di una società in house, per tale dovendosi intendere quella costituita da
uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente tali enti possano esser
soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui
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gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici
sui propri uffici'.
La sentenza impugnata va quindi cassata, con rinvio della causa alla Corte dei conti per un nuovo
giudizio.
P.Q.M.
La corte accoglie il ricorso e cassa l'impugnata sentenza, dichiarando che la Corte dei conti ha
giurisdizione sulla presente causa, che rinvia alla medesima Corte dei conti.