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Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015
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Economia (e società) in Sardegna
Gianfranco Bottazzi Università di Cagliari
1. Aspetti generali: un’economia fragile e dipendente
Fig. 1 Contributo dei vari settori di attività al valore aggiunto regionale. Sardegna 2014.
Nel 2014, secondo i dati ufficiali dell’Istat, la ricchezza della Sardegna proviene per il 4,7%
dall’agricoltura, per il 16,5% dall’industria (poco più del 10% dall’industria in senso stretto e il 6%
dalle costruzioni) e per quasi l’80% dalle attività terziarie (cfr. tab. 1). La Sardegna, in Italia, è la
seconda regione con il maggior peso relativo del terziario dopo il Lazio.
Il quadro che questi dati disegnano contrasta abbastanza con alcune diffuse convinzioni di
senso comune. L’agricoltura risulta avere ormai un peso quasi inconsistente, sebbene, come diremo,
il peso economico e sociale del settore sia ben più ampio, al di là dei dati della contabilità regionale.
L’industria, rispetto anche ad un passato recente, risulta fortemente ridimensionata: l’industria
estrattiva, una volta centrale nella struttura economica sarda, è ormai scomparsa e residua con
qualche attività di cava o estrazione di materiali lapidei. Il terziario ormai incombe come il settore
dal quale proviene la parte assolutamente preponderante dei redditi e dell’occupazione della
Sardegna.
Il lettore può guardare alla tabella 1 per ulteriori commenti. Si noterà allora che su agricoltura
e industria insiste un numero di occupati proporzionalmente superiore al peso dei due settori in
termini di valore aggiunto. Data l’inconsistenza rispetto al passato dell’industria estrattiva,
l’industria manifatturiera, anno dopo anno, perde peso sia in termini di contributo al PIL regionale
che in termini di addetti. L’industria petrolifera (che praticamente si riduce alla raffineria Saras di
Sarroch) pesa, da sola, per circa un quarto del prodotto complessivo regionale; le industrie
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metallurgiche rappresentano circa un quinto, così come le industrie alimentari che, negli ultimi anni
sono diventate la branca di attività di maggior peso, superando anche l’industria petrolchimica.
Nel terziario, settore notoriamente composito, circa un terzo del valore aggiunto deriva dai
comparti del commercio, degli alberghi e pubblici esercizi e dei trasporti e comunicazione; un terzo
proviene dalle attività finanziarie immobiliari e servizi professionali; e, infine, un terzo è
rappresentato dalla pubblica amministrazione, dall’istruzione e dalla sanità. Considerando che si
tratta, in quest’ultimo caso, di attività in grande prevalenza di servizio pubblico, si può concludere
che le attività “fuori mercato” concorrono per il 25% circa alla produzione del reddito regionale e
occupano il 23% della popolazione attiva.
L’evoluzione recente della struttura economica sarda (Fig. 4) mostra con chiarezza il processo
di terziarizzazione dell’economia: mentre l’industria diminuisce significativamente il proprio peso,
così come le costruzioni (che risentono pesantemente degli effetti dell’ultima crisi iniziata nel
2007/2008), e l’agricoltura continua un declino iniziato già negli anni Cinquanta, i vari comparti del
terziario continuano a crescere, in particolare il settore dell’intermediazione finanziaria e
dell’immobiliare. In quest’ultimo caso, si tratta di una dinamica registrata in tutti i Paesi OCSE.
Non si può non osservare che, da un lato, la ricaduta in termini occupazionali è decisamente scarsa
(cfr. Tab. 1). Va anche detto che l’espansione del terziario non è spiegabile con lo sviluppo
innegabile del turismo, che pure è diventata in Sardegna un’attività di rilievo, sia in termini di
reddito che di occupazione. Autorevoli studiosi del comparto turistico, economisti, stimano che esso
– che come è noto non comprende soltanto le attività alberghiere e di ristorazione ma si allarga un
po’ a tutte le attività economiche, stimano che il contributo del turismo al PIL regionale sia
dell’ordine del 6%. Il che non toglie che si tratti di uno dei pochi “motori” dell’economia sarda.
Fig. 2 -Contributo delle varie branche di attività dell'industria manifatturiera (media 1995-2012
Industrie alimentari 18,8%
Raffinazione petrolio 24,3%
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Tab 1- Distribuzione del valore aggiunto regionale e dell’occupazione per branche di attività
Branca di attività
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Agricoltura, silvicoltura e pesca 4,7 6,9 12,5 Industria, di cui: 16,5 16,7 19,5 industria in senso stretto 10,4 9,6 8,6 industria estrattiva 0,3 0,3 industria manifatturiera 5,2 7,4 energia elettrica, gas e acqua 4,9 1,9 costruzioni 5,6 7,1 9,2 Servizi, di cui 78,7 76,4 68,0 commercio, riparazioni di autoveicoli e motocicli 11,2 15,5 14,8 servizi di alloggio e di ristorazione 4,8 6,5 5,0 trasporti e comunicazioni 8,4 5,7 5,5 finanza e assicurazione 3,5 1,9 1,7 immobiliari 12,9 0,5 0,5 servizi professionali 8,1 10,1 8,3 amministrazione pubblica 11,1 7,6 7,5 istruzione 6,0 7,0 8,1 sanità e assistenza sociale 8,2 8,7 6,9 attività artistiche, di intrattenimento e altri servizi 4,4 12,9 9,7 TOTALE 100,0 100,0 100,0
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat
Tab. 2 - Composizione (%) del valore aggiunto dell'industria manifatturiera per branche di attività Media del
periodo 1995-
2012 2012 industrie alimentari, delle bevande e del tabacco
18,8 27,3 fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio, fabbricazione di prodotti chimici e farmaceutici 24,3 15,0 industrie tessili, confezione di articoli di abbigliamento e di articoli in pelle e simili
1,8 2,4 industria del legno, della carta, editoria
10,5 9,2 fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche e altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi 10,9 10,9 fabbricazione di computer e prodotti di elettronica e ottica, fabbricazione di apparecchiature elettriche, fabbricazione di macchinari e apparecchiature n.c.a
3,6 4,0 attività metallurgiche; fabbricazione di prodotti in metallo, esclusi macchinari e
attrezzature 20,1 15,7 fabbricazione di mezzi di trasporto
0,3 0,2 fabbricazione di mobili; altre industrie manifatturiere; riparazione e installazione di
macchine e apparecchiature 9,7 15,3
TOTALE 100,0 100,0
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat
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È largamente noto che una delle caratteristiche principali dell’economia sarda (e italiana) è la
piccola e piccolissima dimensione d’impresa, spesso esaltata, erroneamente, come un fattore tout
court di successo per l’economia italiana. La deindustrializzazione che ha colpito la Sardegna e il
complessivo, profondo mutamento della sua struttura produttiva, dal 1951, ossia dal secondo
dopoguerra, ad oggi, si vede in filigrana nella tabella 3. Nell’industria manifatturiera, ad esempio, a
una piccola dimensione media di impresa degli anni Cinquanta, segno di una struttura ancora proto-
industriale, segue un aumento nei decenni successivi, per poi tornare significativamente a diminuire
negli ultimi decenni, segno soprattutto del ridimensionamento e soprattutto della scomparsa di
quelle medie imprese che avevano comunque rappresentato il portato di quel poco di
industrializzazione che si era avuta in Sardegna. Nelle costruzioni, la diminuzione della dimensione
media è ancor più marcata. A parte il commercio al dettaglio – nel quale vi sono stati processi di
concentrazione aziendale con l’espansione della grande distribuzione – la dimensione media
d’impresa diminuisce in tutte le branche.
Tab. 3 - Struttura delle imprese: numero medio di addetti per impresa
1951 1971 1981 2001 2011
Agricoltura, silv. e pesca 5,6 7,0 6,2 4,0
Industrie estrattive 83,5 62,9 15,5 12,0 10,9
Industrie manifatturiere 2,1 5,3 6,0 4,7 4,4
Elettricità, gas e acque 12,2 14,6 19,8 29,6 20,6
Costruzioni 13,2 13,2 4,5 3,2 2,7
TOTALE INDUSTRIA 3,4 7,4 5,5 4,0 3,5
Commercio all'ingrosso 3,3 3,1 2,4 2,5
Commercio al dettaglio 1,7 1,8 2,2 2,4
TOTALE COMMERCIO 1,9 2,1 2,3 2,5
Albergi e ristoranti 2,5 3,0 3,0 2,9
Trasporti e comunicazioni 3,5 3,3 5,0 4,6
Credito e assicurazioni 0,8 5,3 3,2 2,5
Altre attivitià di servizi 2,1 2,2 2,9 2,0
TOTALE TERZIARIO EXTRA-
COMMERCIO 2,7 3,0 3,3 2,5
TOTALE GENERALE 3,4 3,2 3,2 3,1 2,7
Fonte: ns elaborazione su dati Istat, Censimenti dell’Industria….
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Tab. 4 - Distribuzione delle imprese per dimensione: % di addetti per ogni dimensione.
Sardegna
1 addetto < 2 < 5 < 10 < 50
Tutte le imprese 60,2 77,3 92,4 96,8 98,6
Manifattura 43,7 62,9 83,8 91,8 96,3
Costruzioni 54,4 71,3 90,2 96,3 98,7
Commercio 58,2 78,1 93,4 97,4 98,9
Italia
1 addetto < 2 < 5 < 10 < 50
Tutte le imprese 60,6 76,2 90,3 95,2 97,6
Manifattura 35,3 50,5 71,1 82,5 90,2
Costruzioni 60,3 75,4 90,2 95,7 98,2
Commercio 58,1 77,1 92,2 96,6 98,5
Il quadro di sostanziale debolezza dell’economia sarda si conferma se si guarda all’interscambio
con l’esterno. L’82% delle importazioni riguarda prodotti dell’estrazione di minerali, in larghissima
parte petrolio greggio (cfr. tab. 5 e 6). Questo alimenta le esportazioni, rappresentate per l’83% da
prodotti della raffinazione petrolifera. La Saras e collegate, nella raffineria di Sarroch, in sostanza
rappresenta i 4/5 del movimento export-import. In termini territoriali, ne consegue, che nella
provincia di Cagliari si concentra il 92% circa delle esportazioni sarde. Se escludiamo i prodotti
derivata dal petrolio, l’unica voce che registra un saldo export-import positivo sono i prodotti
lattiero-caseari, in sostanza il pecorino romano che, da tempo trova sbocchi sui mercati esteri,
soprattutto nord-americani. In generale, anche le produzioni alimentari mostrano un saldo
leggermente positivo, ma i prodotti agricoli e alimentari, dalla frutta agli ortaggi, alla carne e al
pesce, presentano saldi notevolmente positivi. È interessante (tab. 7) osservare quello che
proponiamo nella tabella 7, ossia quei prodotti per i quali si registra comunque un saldo positivo.
Mentre troviamo settori che tradizionalmente caratterizzavano la Sardegna (come il sughero, che
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peraltro appare in forte declino), emergono alcune attività alle quali guardare con attenzione perché
evidentemente rappresentano – pur nella limitatezza dell’interscambio – nicchie di qualità e di
specifiche competenze e capacità che possono indicare quelle attività sulle quali si può
ragionevolmente puntare per la crescita dell’economia sarda: si vedano, ad esempio, i materiali
lapidei e da costruzione, la meccanica e la metallurgia, l’industria nautica, e, come curiosità armi e
munizioni e rifiuti.
Tab 5 - Importazioni ed esportazioni per gruppi di attività, media 2011-2013, Sardegna (milioni di
euro)
gruppi di attività
Imp
ort
azio
ni
Esp
ort
azio
ni
Sal
do
Imp
ort
azio
ni
(%)
Esp
ort
azio
ni
(%)
Prodotti dell'agricoltura 153,3 6,2 -147,1 1,6 0,1
Prodotti dell'estrazione di minerali 7911,5 80,7 -7830,8 82,5 1,5
di cui: petrolio 7532,4 0 -7532,4 78,6 0,0
Prodotti dell'industria alimentare 146,5 164,2 +17,7 1,5 3,0
di cui: lattiero-casearie 10,2 107,2 +97,0 0,1 2,0
Altre industrie manifatturiere 1363,9 5199,6 +3835,7 14,2 95,1
di cui: petrolio e petrolchimica 691,8 4582,6 +3890,8 7,2 83,8
Altre attività 9,9 17,7 +7,8 0,1 0,3
TOTALE 9585,3 5468,4 -4116,9 100,0 100,0
Tav. 6 - Importazioni ed esportazioni per gruppi di attività (escluso petrolio e prodotti della raffinazione), media 2011-
2013, Sardegna (milioni di euro)
gruppi di attività
Imp
ort
azi
on
i
Esp
ort
azi
oni
Sa
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Imp
ort
azi
on
i (%
)
Esp
ort
azi
oni
(%)
Prodotti dell'agricoltura, silvicoltura e pesca 153,3 6,2 -147,1 11,3 0,7
Prodotti dell'estrazione di minerali 379,1 80,7 -298,4 27,9 9,1
Prodotti dell'industria alimentare 146,5 164,2 +17,7 10,8 18,5
di cui: lattiero-casearie 10,2 107,2 +97,0 0,7 12,1
Altre industrie manifatturiere 672,1 617,0 -55,1 49,4 69,7
Altre attività 9,9 17,7 +7,8 0,7 2,0
TOTALE 1361,0 885,8 -475,2 100,0 100,0
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Tav. 7 - Principali prodotti per i quali si registra un saldo export-import positivo, media 2012-2014
(milioni di Euro)
Prodotti Importazioni Esportazioni Saldo
Pietra, sabbia e argilla 2,5 40,8 38,3
Prodotti delle industrie lattiero-casearie 10,2 107,2 97,0
Prodotti da forno e farinacei 0,8 8,1 7,3
Bevande 4,4 26,0 21,6
Filati di fibre tessili 0,1 1,6 1,5
Prodotti in legno, sughero, etc. 13,5 25,3 11,8
Articoli di carta e di cartone 1,7 4,3 2,6
Materiali da costruzione in terracotta 0,4 1,2 0,8
Cemento, calce e gesso 0,7 8,2 7,5
Prodotti in calcestruzzo, cemento e gesso 0,5 0,6 0,1
Pietre tagliate, modellate e finite 0,3 4,1 3,8
Elementi da costruzione in metallo, caldaie etc., prodotti in metallo 7,8 67,1 59,3
Armi e munizioni 9,8 28,4 18,6
Strumenti e apparecchi di misurazione, prova e navigazione 11,8 18,3 6,5
Macchine di impiego generale e per impieghi speciali 18,1 29,6 11,5
Navi e imbarcazioni 2,0 11,4 9,4
Rifiuti 8,2 12,1 3,9
TOTALE 92,8 394,3 301,5
Fonte: ns. elab. su dati Istat
Ad ogni modo, i dati sull’interscambio confermano quanto altri indicatori – e in particolare quelli
forniti dalla banca dati dell’Istat sigli Indicatori territoriali per le politiche di sviluppo – esprimono
con chiarezza: la Sardegna è caratterizzata da un’economia che fatica a competere con le aree più
dinamiche dell’Italia e dell’Europa. Negli ultimi anni (fig. 5) vi è un notevole declino della capacità
di esportare in settori a domanda mondiale dinamica. È necessario indagare per comprenderne
meglio le ragioni, ma è molto probabile che ciò dipenda dal processo di deindustrializzazione che la
Sardegna ha conosciuto. Sul fronte di attività più tradizionali, come le produzioni agro-alimentari, a
dispetto delle performances che sembrano interessare il settore negli ultimi anni, la Sardegna mostra
andamenti stagnanti rispetto alle dinamiche nazionali ed anche rispetto al Mezzogiorno (fig. 6).
Anche il comparto turistico, così importante in Sardegna, se paragonato con altre realtà mostra
alcuni dei problemi rispetto ai quali il turismo sardo possiede ampi margini di miglioramento: se,
infatti, l’utilizzo delle strutture ricettive è grosso modo in linea con la media nazionale e
decisamente più alta della media del Mezzogiorno (fig. 8), la durata della stagione turistica appare
ancora troppo limitata ai mesi estivi (fig. 9).
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La crisi del 2007-2008 ha indubbiamente avuto effetti su di un’economia e (e una società) che i dati
fin qui presentati delineano indubbiamente come debole. I numeri di Movimprese, che registrano
con regolarità gli andamenti delle iscrizioni di nuove imprese e le eventuali cancellazioni alla
Camere di Commercio (fig. 10) sono a questo proposito emblematici. Posto che la Sardegna registra
storicamente un alto numero di iscrizioni e un alto numero di cancellazioni (il che sta a significare
che non manca la vitalità imprenditiva, ma che le imprese faticano a crescere quel tanto che
consente loro la sopravvivenza; oppure che, come vedremo, la consistente presenza di attività
sommerse porta alla “formalizzazione” dell’impresa per un contratto o un appalto, salvo poi cessare
l’attività formale una volta il contratto o l’appalto terminato), gli effetti della crisi sono evidenti.
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Nelle attività manifatturiere, in realtà, la tendenza alla diminuzione delle imprese, soprattutto sotto
forma di nuove iscrizioni, era evidente già prima della crisi. Nelle costruzioni, invece diminuiscono
nettamente le nuove imprese e rimane elevato il numero delle cancellazioni annuali. Anche nel
commercio la crisi non fa che confermare una tendenza che la precede alla diminuzione di nuove
iscrizioni ed a cessazioni che eccedono sistematicamente il numero delle nuove imprese. Più
controverse le tendenze del comparto degli alberghi e pubblici esercizi, dove peraltro è evidente
l’effetto della crisi nella diminuzione delle nuove iscrizioni e l’aumento delle cessazioni.
Dove gli effetti della crisi sono però più evidenti e dove gli effetti sono più socialmente dirompenti
è nel campo dell’occupazione. Dal 2008, in maniera netta, si nota il costante aumento della
disoccupazione che raggiunge di nuovo quei tassi del 16-18% che non sono peraltro nuovi nella
storia sarda recente. Il fatto che a crescere siano soprattutto gli uomini ci dice con chiarezza che si
tratta dell’effetto, prima di tutto, della perdita di posti di lavoro conseguenza di chiusure o di crisi
aziendali. In effetti, a differenza di altri momenti della situazione socio-economica sarda, nei quali
l’aumento della disoccupazione era la conseguenza diretta dell’aumento delle forse di lavoro, dal
2008 al 2014 sono stati persi 53 mila e seicento posti di lavoro, pari a circa il 9% dell’intera
occupazione (cfr. tab. 8). I settori maggiormente colpiti sono stati le costruzioni, che hanno perso
più di un quarto degli addetti, l’industria manifatturiera (-18,4%). Agricoltura e servizi hanno perso
meno (in entrambi i casi addirittura si registra un aumento di occupazione negli ultimi due anni).
Questa dinamica, ovviamente, non fa che rafforzare la tendenza alla terziarizzazione già in
precedenza messa in evidenza.
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Il quadro complessivo sin qui delineato si riflette evidentemente sulle dinamiche del PIL regionale,
che, come in passato, risulta essere più basso sia della media italiana che, evidentemente, di quella
del Centro-Nord, rispetto al quale la ricchezza prodotta dalla Sardegna è circa il 60% (Fig. 13, 14 e
15). È una vecchia storia quella del divario con le regioni più avanzate, un vecchio e persistente
obiettivo da perseguire essendo quello della riduzione di questo divario e un target con il quale
misurare successi e insuccessi dell’economia sarda. Nel 1951 il PIL pro-capite della Sardegna era
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poco più dell’80% dell’equivalente valore medio italiano e poco meno del 70% del Centro-Nord.
Sessant’anni dopo, la situazione è leggermente peggiorata (ci riferiamo alla serie ricostruita dalla
SVIMEZ, Cent’anni di statistiche Nord e Sud; utilizzando altri dati, ad esempio Istat, i risultati
possono variare di qualche punto percentuale). Ciò che emerge dalla considerazione delle tendenze
storiche, in sostanza, è che la Sardegna si colloca a un livello certamente inferiore alle regioni del
Centro-Nord, ma decisamente superiore al Mezzogiorno. In secondo luogo, le posizioni relative
variano di pochissimo nel corso del tempo. Una considerazione è assolutamente necessaria a questo
proposito. Indubbiamente, la Sardegna non ha colmato il divario che, all’indomani della Seconda
guerra mondiale, la separava dalle regioni più avanzate del Nord, anzi ha leggermente peggiorato la
propria posizione (Fig. 15). Ma se si considera che l’Italia e, in particolare, le regioni del Nord-
Ovest e del Nord-Est sono tra quelle che, a livello mondiale, sono maggiormente cresciute (pur
manifestando un rallentamento negli ultimi due decenni), la Sardegna – pur “arrancando”
all’inseguimento dei più avanzati – ha pur sempre realizzato performances di crescita assolutamente
eccezionali.
Tuttavia, un dato che in più occasioni è stato sottolineato è che, rispetto ai consumi pro-capite, la
Sardegna risulta meno svantaggiata rispetto alla media nazionale e rispetto al Centro-Nord (Figg. 16
e 17). Il consumo pro-capite è infatti l’85% della media nazionale e il 76% del livello del Centro-
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Nord. Il reddito disponibile pro-capite è l’82,5% del valore nazionale. In sostanza, in Sardegna si
consuma più di quanto si produce, almeno stando ai dati della contabilità nazionale.
Si possono avanzare diverse spiegazioni a questa che potrebbe essere letta come una
preoccupante anomalia. Metto subito da parte, perché del tutto fuorvianti, quelle spiegazioni di
stampo “leghista” che vorrebbero la popolazione sarda “mantenuta” da trasferimenti di risorse
statali che raggiungerebbero l’Isola ben al di là di quanto le spetterebbe. Sull’inconsistenza di
questo argomento mi permetto di rimandare al mio Eppur si muove.
Vi sono tre spiegazioni che possono almeno in parte chiarire questa “anomalia”. In primo luogo,
una quota consistente di evasione fiscale. La Sardegna (tab. 9 e fig. 18) è una delle regioni italiani
dove si registra un maggiore scostamento tra redditi disponibili delle famiglie e livello dei consumi,
il che lascia propendere per una parte di economia e di società che “evita” di pagare le tasse dovute.
L’evasione è, a sua volta, legata a due altri fenomeni particolarmente diffusi in Sardegna:
l’economia sommersa o irregolare e l’economia informale.
L’economia sommersa, irregolare è quella che riguarda quelle attività o quelle prestazioni di
lavoro condotte senza rispettare le normative che le disciplinano. Quelle cioè, ad esempio, di
imprese regolarmente registrate o di professionisti che non emettono la documentazione prescritta
(fatture, scontrini fiscali) o che intrattengono rapporti lavorativi per i quali non si versano i dovuti
contributi. O quelle di attività, di impresa o professionali o di locazione svolte del tutto
irregolarmente senza licenza o autorizzazione e senza pertanto dar luogo al dovuto prelievo fiscale.
Si tratta di attività che non possono essere “rilevate” nel quadro delle rilevazioni statistiche su cui si
costruisce la contabilità regionale e nazionale. L’Istat (e altri enti di ricerca) stima in Italia un
«sommerso» pari al 18-20% del PIL. In Sardegna, sulla base di nostre stime, siamo su valori vicini
al 30% del PIL. Il tasso di lavoro irregolare, “nero”, è in Sardegna di circa il 20%, più del doppio di
quello del Centro-Nord e in linea con quello del Mezzogiorno (fig. 19).
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L’economia informale, tecnicamente parlando, comprende l’economia sommersa, in quanto non
rilevata (né rilevabile) dalle statistiche ufficiali. Ci riferiamo con “economia informale” a tutte
quelle attività che producono beni e servizi, in modo del tutto legale, che però non entrano nello
scambio di mercato (o almeno nello scambio ufficiale di mercato). Penso, ad esempio, a tutta
l’attività di fai-da-te, allo scambio di reciprocità, alle economie di vicinato, ma soprattutto alla sfera
dell’auto-consumo, quella che riguarda la produzione di prodotti alimentari per il consumo della
famiglia, produzione che si ha ragione di ritenere abbia in Sardegna una dimensione di rilievo. Non
siamo in grado di stimare quanto “reddito” reale questa economia – ché di “economia” si tratta –
produca. Ma si tratta sicuramente di una quota non irrilevante.
2. Al di là dei dati ufficiali
Economia e società come quella della Sardegna possono solo in parte essere esplorate e analizzate
con gli strumenti statistici oggi in uso e dominanti, come il PIL e la contabilità nazionale e regionale
da cui deriva. Il Prodotto Interno Lordo come indicatore è al centro, sin dalla sua introduzione negli
anni a cavallo della seconda guerra mondiale, di critiche serrate. Queste, nonostante l’indubbia
fondatezza, non hanno scalfito che in maniera minima l’egemonia dello stesso PIL nell’economia,
nella finanza, nella politica, nelle banche, tra giornalisti, sindacalisti, operatori economici, insomma
coloro che fanno il “governo” dei fatti economici.
Questa egemonia si fonda sul fatto che, attorno al PIL, si è costruito un modello della crescita
economica i cui presupposti sono quelli di un modello ideale cui tendere, … . Questo modello si
basa sull’idea di una società regolata dallo scambio di mercato, che si realizza in un’economia
totalmente monetizzata, nella quale il lavoro è tendenzialmente tutto lavoro salariato/stipendiato,
con un prelievo fiscale che alimenta un apparato statale sempre più importante e una spesa pubblica
che garantisce servizi di base, dalla sanità alla difesa, all’istruzione (Stato Sociale o Welfare State).
Il suo primum movens è l’aumento del consumo. Questo alimenta una domanda crescente, che
stimola una produzione crescente di beni e servizi e di conseguenza una crescita dell’occupazione
salariata. L’aumento dei redditi monetari che ne consegue produce un aumento dei consumi, ma
anche un prelievo fiscale (imposta sui redditi) che si esercita anche sui consumi (imposte come IVA
e accise varie) e che alimenta una spesa pubblica crescente che, a sua volta, produce nuova
occupazione e nuovi redditi salariali. Si tratta di un “circolo virtuoso” che, dal lato
dell’accumulazione si è realizzato pienamente con la società fordista che si è consolidata
all’indomani della seconda guerra mondiale. Il meccanismo, mirabile, non può fermarsi: l’economia
deve crescere con continuazione. Questo è indubbiamente avvenuto, nel mondo occidentale, nel
cosiddetto “trentennio glorioso”, dal 1945 fino alla metà degli anni Settanta, quando il modello
fordista entra in una crisi prolungata e senza ritorno. Fig. 20 – Schema dell’”economia della crescita” (fordismo)
+ consumi + produzione + domanda di beni e servizi
+ occupazione + reddito
monetario
+ prelievo
fiscale
+ spesa
pubblica
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La modernizzazione è quel profondo e rapido processo di trasformazione delle strutture sociali ed
economiche che accompagna il passaggio da una realtà prevalentemente agricola-rurale, nella quale
la grande maggioranza della popolazione è occupata in agricoltura, ad una realtà urbano-industriale,
nella quale una consistente quota della popolazione lavora nelle industrie, per finire con una società
“dei servizi”, che vede una netta prevalenza dell’occupazione terziaria. Non si tratta solamente di un
grande mutamento delle strutture produttive, ma anche di un più generale altrettanto profondo
cambiamento delle strutture sociali, degli stili di vita, dei modelli di consumo, dei valori e dei
comportamenti, della sfera della personalità.
Come abbiamo avuto modo di argomentare altrove (Eppur si muove), la Sardegna ha seguito
un percorso di modernizzazione con alcune evidenti peculiarità (rispetto al modello canonico
seguito da paesi e regioni cosiddetti “avanzati”), che hanno pesato e ancora pesano sulle
caratteristiche della struttura socio-economica dell’Isola. Rispetto al modello fordista sopra
brevemente richiamato, la Sardegna ha conosciuto una sorta di “fordismo incompiuto”. Molto
schematicamente, le peculiarità della modernizzazione sarda attengono ai seguenti aspetti:
- Estrema rapidità del mutamento: in Sardegna, si è prodotto in 30 anni lo stesso cambiamento
strutturale che altrove (Francia, Germania, Italia Nordoccidentale) ha richiesto tempi molto
più lunghi, generalmente ben oltre un secolo. Le strutture sociali non mutano
istantaneamente e richiedono tempo per adattarsi armonicamente al cambiamento.
- Una industrializzazione tardiva e molto limitata che non ha avuto tempo per diffondere
quella “cultura industriale” e quegli habitus della modernità che potessero supportare la
nascita di comportamenti imprenditoriali e di professionalità adeguate. La Sardegna è
diventata “post-industriale” senza mai essere stata “industriale”.
- Una terziarizzazione precoce e largamente supportata da una spesa pubblica che, data la
limitatezza dei settori produttivi agricolo e industriale, ha finito per svolgere un ruolo
importante nel sostegno dei redditi, ma anche nel diffondere aspettative e comportamenti
passivi nella popolazione (assistenzialismo).
Le figure 21 e 22, che mettono a confronto Sardegna e Lombardia, dal 1951, relativamente
all’evoluzione dei tre settori produttivi, sono particolarmente istruttive rispetto a queste peculiarità
del processo di modernizzazione sardo.
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Queste “anomalie” della modernizzazione si ripercuoto evidentemente anche sul modello fordista
che, in Sardegna, appare, come s’è detto, “incompiuto”: l’industria viene da fuori (come verrà da
fuori, almeno all’inizio, la valorizzazione turistica), l’agricoltura è “sopportata” più che
“supportata”, anche perché la scarsa industrializzazione fa sì che una delle caratteristiche del
modello fordista, la piena occupazione, rimanga in Sardegna un’utopia anche negli anni migliori
dell’esperienza della Rinascita. Il settore pubblico e la spesa pubblica assumono da subito una
importanza decisiva nel garantire il circuito dei redditi, nel quale lo spazio dell’economia informale,
legittima o irregolare, si espande tanto più quanto, come negli anni della crisi successiva al 2007-
2008, le occasioni di reddito e di lavoro nell’economia formale diminuiscono fortemente.
L’immagine è quella di una società (e di un’economia) che si arrangia. Il comparto agricolo reale
pesa in realtà molto di più, socialmente ed economicamente, di quanto lasciano credere i dati sulla
contabilità regionale. Un flusso importante di beni agricoli, garantisce la sopravvivenza di chi
ancora dispone di qualche appezzamento di terra, di qualche orto, di qualche pianta di olivo e di
qualche filare di vigna o di qualche capo di bestiame allevato negli interstizi dell’economia
pastorale. Questo flusso raggiunge le città e il consumo attraverso un fitto reticolo di rapporti
familiari, parentali, amicali che intercorrono tra chi è rimasto nei campi e chi invece si è trasferito in
città. Analogamente, la seconda casa costruita in economia o acquistata negli anni buoni, è la base
per un’integrazione importante del reddito, rigorosamente in nero, se affittata nei mesi estivi. Una
grande quantità di “servizi” vengono letteralmente “inventati” stagionalmente e consentono di
integrare redditi comunque minimi.
3. Sardegna e post-fordismo (verso una seconda modernizzazione)
La crisi del fordismo, manifesta a metà degli anni Settanta, assume principalmente in Sardegna il
carattere della crisi della petrolchimica – che, è bene ricordare, non è tanto la crisi di una
petrolchimica esistente quanto piuttosto il suo aborto prematuro prima ancora di nascere, un
comparto cioè che entra in crisi quando gli impianti previsti erano spesso ancora in costruzione.
Quello che viene dopo il fordismo è oggetto da decenni di un dibattito serrato, ampio, polemico,
alla ricerca della definizione di un modello economico e sociale dell’accumulazione che il termine
post-fordismo sintetizza, ma non spiega se non, evocativamente, segnalando qualcosa che viene
“dopo”. Una letteratura ricchissima ha peraltro descritto un processo complesso, multiforme,
contradditorio, sul quale tuttavia alcuni punti incontrano un accordo quasi generale, per quanto
divergente nelle valutazioni. Già dagli anni Ottanta si afferma, in opposizione al lungo periodo di
prevalenza di orientamenti keynesiani e “socialdemocratici”, l’egemonia di una visione neo-
liberista, inaugurata negli USA e Gran Bretagna dalla reaganomics e dal thatcherismo.
Anche in conseguenza della cosiddetta “crisi fiscale” degli Stati, il potere pubblico si
indebolisce e si ritira in gran parte dall’economia, si succedono privatizzazioni e deregolazioni, la
circolazione dei capitali è totalmente liberalizzata e diventa “globale” (ma, naturalmente non
altrettanto accade per la circolazione del lavoro, delle persone), lo Stato Sociale viene sottoposto ad
attacchi sempre più serrati e viene lentamente eroso nella sua capacità di redistribuzione dei redditi.
Il “mercato” diventa il punto di riferimento assoluto, l’unica forma legittima di regolazione
economica e sociale e il darwinismo sociale, “politicamente non corretto” nel precedente periodo
dei diritti sociali, viene “sdoganato”. Istruzione, sanità, previdenza, in misura maggiore o minore a
seconda dei Paesi, vengono sempre più privatizzati: chi può si paga la scuola, la salute, la pensione,
chi non può … peggio per lui!
La parola d’ordine dell’organizzazione del lavoro diventa “flessibilità”, sindacati e diritti dei
lavoratori sono sottoposti ad attacchi concentrici, quasi una vendetta rispetto al periodo precedente,
nel quale il sindacato aveva un ruolo importante. Delocalizzazioni e deindustrializzazioni
indeboliscono ancor più un sindacato già indebolito nei suoi poteri contrattuali da una
disoccupazione crescente. Nell’economia, un ruolo sempre più importante viene svolto dalla
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finanza: dal 1980 al 2007, alla vigilia della grande crisi finanziaria mondiale (il PIL mondiale
raddoppia più o meno, gli attivi finanziari crescono di quasi 9 volte) e assume sempre più il
carattere di una economia della rendita (rent economy).
Dal punto di vista sociale, l’erosione dei diritti, la perdita di posti di lavoro e la diffusione di
forme di lavoro precario e sempre più mal pagato, riducono ampiezza e certezze delle classi medie,
fanno crescere le famiglie in condizioni di povertà (emergono i cosiddetti working poors, persone
che pur lavorando a tempo pieno precipitano in una condizione di povertà), portano a livelli in
precedenza sconosciuta le diseguaglianze sociali (come testimoniano istituzioni non sospette come
l’OECD). Tab. 10 – Attivi finanziari e PIL mondiale (1980 e 2007).
1980 2007
Attivi finanziari 27 trilioni 241 trilioni
PIL mondiale 27 trilioni 54 trilioni NB – 1 trilione = 1.000.000.000.000.000.000 (1 miliardo di miliardi)
Dal punto di vista più squisitamente sociologico, diversi autori (Ulrich Beck, Zygmunt Bauman)
pongono l’accento sulla dinamica di una seconda modernizzazione che ha al suo centro
l’approfondimento di una caratteristica che viene da lontano, quello della individualizzazione
progressiva dei rapporti sociali. Si tratta di un processo cominciato diversi secoli fa, che ha subito
una accelerazione fortissima, perché la società industriale (e lo stato sociale con lei) si basava
sull’unità familiare. …
La «seconda modernità» impone individui interamente affrancati da legami. La flessibilità e la
mobilità, con l’accesso delle donne al lavoro, creano una contraddizione tra produzione e
riproduzione, impongono una visione longitudinale della biografia individuale. Il mercato ha
bisogno di manodopera, ma nello stesso tempo distrugge le basi della riproduzione degli individui.
Beck ha molto insistito sulla progressiva crisi della famiglia, con l’aumento senza precedente di
nuclei single. L’amore come sentimento che sta alla base e lega la famiglia è sempre più confluent
love: si sta insieme per periodi di confluenza delle biografie. Poi ciascuno per la sua strada. Il
principio guida del confluent love è il “si vedrà”. Il matrimonio o, sempre più spesso, la convivenza,
è “programmaticamente soggetto a revoca”. La conclamata fine delle ideologie, e in sostanza di
ogni idealità – ha scritto Ocone sul Corriere della Sera a proposito di seconda modernità– ha
lasciato libero spazio e sfogo all’ultima e più pericolosa di esse, quella del liberismo sfrenato e
senza regole.
Soprattutto Bauman ha descritto mirabilmente questi processi con il concetto di “modernità
liquida”: tutto, dall’amore alla religione, dalla politica all’amicizia è oggi personalizzato e sempre
negoziabile, l’impegno e la responsabilità individuali sono sempre più valori relativi. Anche perché,
nella seconda modernità, il soggetto è costretto a costruire la propria biografia attraverso l’azione,
Guy Standing: la stratificazione del mercato del
lavoro nella globalizzazione
• The Global Elite
• The Salariat
• The Proficians
• The Core: a Withering Working Class
• The Precariat
• The Unemployed
• The Detached
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diventa un progetto che ciascuno si deve scrivere da sé. La biografia non è più iscritta nella classe,
nella famiglia in cui si nasce, ma deve essere prodotta in un funambolico “fai da te”, in una vita da
trapezisti. Da qui, come osserva Bauman, un politeismo di valori spesso contradditori tra di loro e,
soprattutto, labili.
Su questi generali processi sul terreno della personalità, diremmo dell’antropologia, si base,
anche, la profonda egemonia che l’ideologia neo-liberista riesce ad esercitare. E da qui deriva, da un
lato, la frantumazione e la sostanziale sparizione di quelle identità di classe e di ceto che
garantivano una rappresentatività sociale e politica, sia pure conflittuale. La società è sempre più
atomistica, i rapporti sociali sui quali si basa la partecipazione politica sono fragili e soprattutto
labili e instabili. E qui affonda anche, non si può non accennarne, quella crisi che appare
irreversibile della politica, come capacità di gestire regole, sistemi di solidarietà, predominio
dell’interesse collettivo nel breve e nel lungo periodo piuttosto che dominio dell’interesse o della
pressione del momento. Oggi sono i “mercati”, le “leggi dell’economia” che diventano “leggi
naturali” che decidono. Nella migliore delle ipotesi, il politico, anche se animato da una grande
onestà e dedizione al bene pubblico, è un buon amministratore di risorse di cui non decide.
Come la si voglia chiamare, il post-fordismo, la globalizzazione, l’epoca del neo-liberismo
trionfante, la seconda modernizzazione, la Sardegna è stata investita dai venti del cambiamento che,
ancora una volta, vengono da fuori. La perdita di peso delle componenti principali di quella che
normalmente viene chiamata “economia reale” (agricoltura, industria, costruzioni) è evidente anche
in Sardegna (Fig. 23). Dal 1980, l’industria e le costruzioni passano dal 35% circa del valore
aggiunto regionale al 16%, mentre l’agricoltura, già ridotta a poca cosa, resta su valori attorno al
5%. Nello stesso periodo, analogamente a quanto avvenuto nella totalità dei paesi occidentali
avanzati, le attività finanziarie e immobiliari passano dal 13% al 25% circa. E continua a crescere se
pur di poco il peso delle altre attività di servizio. È probabile che questo incremento – che sembra
soprattutto interessare le attività immobiliari – sia collegato alle attività turistiche, che pure
fortunatamente crescono in Sardegna, e agli effetti di una bolla immobiliare (che, in Sardegna come
altrove sia pure non ai livelli della “bolla” americana alla base della crisi dei subprime, si è
indubbiamente manifestata). Ma è comunque un dato che dà a pensare, non foss’altro perché le
ricadute occupazionali di questa fonte di reddito sono proporzionalmente ridotte (si veda la tab. 1
precedente).
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D’altra parte, come si è visto in precedenza, l’insufficienza dei posti di lavoro rispetto all’offerta di
lavoro appare come una delle conseguenze più gravi delle debolezze dell’economia sarda, anche
considerando che la precarietà dell’occupazione risulta costantemente in aumento. È noto che la
misura precisa della precarietà del lavoro è difficile, quasi impossibile, a causa delle numerose
forme contrattuali atipiche che il lavoro assume, ma se si guarda semplicemente all’occupazione
dipendente a tempo determinato il suo peso è cresciuto costantemente dagli anni Novanta e riguarda
negli ultimi anni circa il 25% degli occupati (contro un valore di poco superiore al 10% a livello
nazionale). Le difficoltà occupazionali si presentano particolarmente preoccupanti per i giovani ad
elevato titolo di studi che in misura crescente abbandonano la Sardegna alla ricerca di
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un’occupazione all’altezza della qualificazione formale raggiunta: è una perdita grave di risorse
formate nell’Isola, a spese della Sardegna, che tolgono potenzialità alla possibilità strategica di
introdurre innovazione, produttività, sviluppo tecnologico, in una economia che ne ha un disperato
bisogno.
Pur in assenza di misure precise (come ad esempio l’indice di Gini, non disponibile a livello
regionale), le diseguaglianze sono certamente aumentate. Un indicatore in questo senso è il tasso di
povertà relativa che, in Sardegna aumenta negli ultimi anni nonostante l’impegno consistente degli
enti locali, in Sardegna tra i più attivi sul piano delle politiche sociali.
Quanto all’”ideologia”, all’antropologia della seconda modernizzazione, tutto lascia credere che,
forse con intensità ancora minore rispetto ad altre aree più al centro dei cambiamenti correnti, anche
in Sardegna la seconda modernità sta arrivando, e non può che essere così. Costumi, abitudini,
modelli di consumo, musiche, spettacoli, social network, separazioni e divorzi, eccetera, sono anche
in Sardegna sempre più globali.
Anche con l’avvertenza di non lasciarsi troppo impressionare dagli indicatori ufficiali, siamo
dunque in presenza di un’economia debole, dipendente, con poche punte di qualità, precaria. Credo
tuttavia che si siano elementi per non lasciarsi andare al pessimismo più nero, a condizione che i
problemi non si nascondano sotto il tappeto e che si abbia la consapevolezza che il cambiamento
richiede tempo. Nonostante tutto la Sardegna è molto cambiata, in meglio, e continua a cambiare.
Due appaiono oggi i settori sui quali potenzialmente è possibile puntare, agro-industria e turismo. In
agricoltura, uno dei comparti che presenta margini di miglioramento più alti, vi sono segni di
processi innovativi, di investimenti, di ritorno dei giovani. Naturalmente, su questo terreno la sfida è
quella di un collegamento con un industria manifatturiera, agro-industriale, che superi la diffidenza
anche culturale che oggi accompagna qualunque riferimento all’industria. Ancora oggi, la
manifattura è una condizione cardine per imboccare la via della crescita e dello sviluppo. Non sta
scritto da nessuna parte che l’industria debba necessariamente essere inquinamento e distruzione
dell’ambiente. Nel turismo la Sardegna è sicuramente ben avviata: il problema è come superare
alcune strozzature, come quella della stagionalità del settore, sul quale si può ragionevolmente
sperare che, sia pure lentamente, si possano avviare processi virtuosi, soprattutto coinvolgendo
quelle aree interne – problema sul quale torniamo più in basso – che ancora troppo poco ricavano
dalle indubbie potenzialità che la Sardegna possiede come sede di mete turistiche apprezzate e
ricercate.
C’è tuttavia un’altra considerazione che necessariamente occorre fare. La crisi del 2007-2008
ha richiamato l’attenzione su di un dibattito antico, in economia, a proposito della “stagnazione
secolare della crescita” e, più in generale, sulla sostenibilità della crescita così come l’abbiamo
conosciuta nella seconda metà del Novecento. Le figure 24 e 25 mostrano l’andamento del tasso di
crescita del PIL per la Sardegna, dal 1951, e per i Paesi dell’area OCSE, ossia i paesi cosiddetti
sviluppati. Le due figure si commentano da sole (dal 2011 la crescita mondiale è ripartita, ma a
livelli molto più bassi che in passato, lo stesso per la Sardegna dal 2014). A parte l’opera notevole
di Piketty, che prevede in sostanza la “fine” della crescita, altri autori meno eterodossi (Summers,
Gordon, ad esempio) convergono su conclusioni analoghe, anche se lasciano aperta la porta a
possibili rimedi che possano rilanciare la crescita stessa. Non possiamo, qui, soffermarci su di una
questione complessa e tutt’altro che agevole da riassumere, ma possiamo avanzare l’ipotesi che sia
necessario abituarsi a una economia che non crescerà più comunque, che sia necessario tornare a
guardare alla economia “reale”, fatta di beni e servizi tangibili, che si debba produrre più beni e
servizi collettivi piuttosto che il consumo privato, che si debba sbarazzarsi dell’idea che si possa,
per sempre, avere sempre di più (e lavorare sempre di meno). Come sopra ricordato, alcune
tendenze sono promettenti, dall’agro-industria al turismo (per quanto possano apparire “spontanee”,
non bisogna comunque dimenticare lo sforzo e le risorse che la Regione Sardegna ha dedicato nel
tempo ai due comparti, come ad esempio le risorse, forse eccessive e mal utilizzate se si vuole,
destinate con l’Esit al turismo quando pochi credevano che questa potesse essere una potenzialità
economica!).
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Sul quadro certo non ottimistico sin qui tratteggiato incombe un ultima incognita, questa sì
veramente inquietante. La Sardegna ha imboccato un cammino di declino demografico, come
l’Italia, come l’Europa. Se il tasso di fecondità necessario alla riproduzione della popolazione è 2,1,
in Italia il valore è 1,45, in Sardegna 1,15. Nascono sempre meno bambini e se, negli ultimi
decenni, la popolazione non è diminuita, lo si deve al contributo degli immigrati, che in Sardegna
sono poco più del 2% della popolazione residente. Le prospettive sono tutt’altro che buone.
Secondo le previsioni della popolazione dell’Istat, da qui al 2050 la Sardegna perderà il 10% della
popolazione, nonostante una crescita degli immigrati che rappresenteranno l’8% circa della
popolazione. L’invecchiamento della popolazione che ne consegue avrà (peraltro già ha
attualmente) effetti pesanti sulle strutture sanitarie e sul mercato del lavoro.
A fianco di questa questione generale, purtroppo del tutto trascurata dai decisori politici, vi è
un altro fenomeno altrettanto preoccupante. Negli ultimi cinquanta anni, rovesciando una tendenza
plurimillenaria, l’insediamento della popolazione sarda, che rifuggiva le coste malariche e insicure
per vivere nell’interno, si è progressivamente spostato verso le coste, determinando una sorta di
“effetto ciambella”, vuoto al centro e pieno attorno. Anche in questo caso, si tratta di un fenomeno
noto e denunciato almeno dagli anni Novanta. Oggi, 204 comuni, con il 26,3% della popolazione,
sono a grave o gravissimo malessere demografico; altri 67 comuni, con il 20% della popolazione, in
condizione di salute demografica precaria. In sostanza il 65% della superficie con quasi la metà
della popolazione sarda sono a fortissimo rischio, in qualche caso, di vera e propria desertificazione
demografica: il numero dei morti eccede sistematicamente il numero dei nati, l’invecchiamento sale
vertiginosamente e anche la possibilità peraltro improbabile che un vigoroso intervento dall’esterno,
con programmi di sviluppo e investimenti sostanziosi in infrastrutture, prenda forma è sempre meno
garanzia che si trovino in loco le forze umane necessarie almeno a rallentare il declino demografico.
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