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INDICE
Introduzione 4
I. Lo spettacolo1. Lo spettacolo come stadio ultimo dell’alienazione 12
II. Debord e Marx2.1 La merce e lo spettacolo 252.2 Il feticismo della merce e la critica del valore: il contributo di Debord 33
III. Debord e Lukács3.1 Il confronto con Storia e coscienza di classe 373.2 La questione del soggetto-oggetto 443.3 La condizione e il ruolo del proletariato nella società spettacolare 46
IV. I Commentari: l’avvento dello spettacolare integrato 51
V. Debord e il marxismo: novità e prospettive della teoria 56
Bibliografia 63
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Oh gentiluomini, la vita è breve…Se viviamo, viviamo per camminare sulla testa dei re.
Shakespeare, Enrico IV
La critica non è una passione del cervello,è il cervello della passione. Il suo pathos
essenziale è l’indignazione, il suo compito essenziale è la denuncia.
K. Marx
Chi non fa che guardare il mondo persapere il seguito, non agirà mai.
Guy Debord
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INTRODUZIONE
L’opera del francese Guy Ernest Debord, nato a Parigi nel 1931,
rappresenta, nel nugolo delle teorie critiche della società che hanno solcato il
corso del XX secolo, uno dei contributi più affascinanti e ricchi di implicazioni,
che, nel confronto con l’attualità, hanno avuto modo di rivelarsi assai profetiche.
Accostarsi alla figura di Debord, nel tentativo di stilare un’analisi
esaustiva del suo pensiero, è un’operazione sicuramente complessa. La sua stessa
collocazione, peraltro, deve tener conto di diversi ambiti, che spaziano dalla
produzione teorica all’attività politica, passando per realizzazioni di carattere
artistico e cinematografico, che mettono in evidenza la poliedricità dei suoi
interessi.
In questo senso, allora, oltre ad applicare la dovuta attenzione nel
presentare l’opera di Debord, occorre, per raggiungere risultati fecondi, mettere
in relazione quest’ultima con quella che fu la sua esperienza di vita. Vi è infatti un
nesso inscindibile tra gli scritti del pensatore francese e la sua singolare parabola
esistenziale. Ne è la prova una delle tante testimonianze riscontrabili nelle pagine
che compongono la sua autobiografia, dove egli ebbe modo di scrivere di sé in
questi termini: “Mi sono fermamente tenuto, dottore in niente, lontano da ogni
parvenza di partecipazione agli ambienti che passavano allora per intellettuali o
artistici”1. Evitando sempre di inserirsi negli ambienti accademici del suo tempo,
Debord rifiutò ogni compromesso con quelli che erano ritenuti comunemente i
canali della cultura ufficiale, pronunciandosi inoltre contro ogni tentativo di
1 G. Debord, Panegirico, Tomo Primo Tomo Secondo, tr.it. Roma, Castelvecchi, 2005, p.14.
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attribuirgli un ruolo preminente nel campo della contestazione del ‘68 : “Troverei
altrettanto volgare diventare un’autorità nella contestazione della società, che
divenirlo in questa stessa società”2. Se non si può allora affermare che Debord
facesse parte di una schiera di eminenti critici della società dotati di vasta e
metodica erudizione, se non si può parlare di lui come uno scrittore prolifico, si
deve dare atto tuttavia della coerenza e dell’onestà del suo percorso intellettuale,
come ricorda lo studioso Anselm Jappe : “Debord si presenta come un esempio di
coerenza personale, la quale non nasce, come in altri casi, da un ideale ascetico,
ma da un autentico disgusto per il mondo circostante”3.
Il carattere stesso delle sua opera più importante, La Société du Spectacle,
pubblicata nel 1967 - libro “più citato che letto”–, e il suo percorso sotterraneo
durante il periodo del Maggio Francese, se da un lato escludono inspiegabilmente
Debord dal dibattito ufficiale, nello stesso tempo contribuiscono a creare una
sorta di vero e proprio mito intorno alla sua figura.
Un percorso intellettuale, quindi, animato da coordinate sfuggenti, atipiche
rispetto all’itinerario di altri pensatori e a cui si aggiungono, in maniera decisiva,
due fondamentali esperienze: in primo luogo, l’incontro nel 1951 di Debord con i
lettristi di Isidore Isou , la cui fazione più radicale (con a capo lo stesso Debord e
Michelle Bernstein) si distaccherà per fondare L’“Internazionale Lettrista” (I.L.),
che a sua volta, alla luce dell’unione con “Il Movimento Internazionale per una
Bauhaus Imaginista” (M.I.B.I.) e il “Comitato Psico-Geografico di Londra”, darà
vita, il 28 luglio 1957, all’ Internazionale Situazionista (I.S.).
2 G. Debord, Opere cinematografiche, tr. it. Milano, Bompiani, 2004.3 A. Jappe, Guy Debord, tr.it. Roma, Manifesto Libri, 1999.
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Principale intento del movimento dell’I.S. è la creazione di situazioni,
definite come “momenti di vita concretamente e deliberatamente costruiti
mediante l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di
eventi”4. Si tratta di un processo che si avvale di diversi strumenti, quali il
Détournement5, la Deriva6 e l’ Urbanismo Unitario7.
Nell’ambito dell’I.S., oltre a esserne uno dei fondatori - insieme a
Gianfranco Sanguinetti, Melanotte, il pittore Pinot-Gallizio, ad artisti del gruppo
“COBRA”8 (tra i quali spiccano Costant e Jorn) e all’unione dei movimenti
sopracitati -, Debord è anche una figura di spicco e uno dei suoi massimi
esponenti teorici. Sarà lui, infatti, a redigere la piattaforma provvisoria della
nuova organizzazione, in un testo di circa venti pagine dal titolo Rapporto sulla
costruzione di situazioni e sulle condizioni dell’organizzazione della tendenza
situazionista internazionale, pubblicato nel 1957. Si tratta della prima
presentazione sistematica delle idee di Debord, dove vengono delineati i vari
compiti dell’I.S., con la comparsa per la prima volta della definizione del concetto
4 Internationale Situationniste, n.1, Parigi, Giugno 1958; tr.it. Internazionale Situazionista 1958-69, Torino, Nautilus, 1994.5 In maniera preliminare possiamo definire il dètournement (dirottamento) attraverso le parole dello stesso Debord: “il reimpiego di elementi artistici preesistenti in una nuova unità, una tendenza permanente dell’avanguardia attuale, precedentemente alla costituzione dell’I.S. come in seguito. Le due leggi fondamentali del dirottamento sono la perdita d’importanza di ogni elemento autonomo traslato e riconvertito (détourné); e, nello stesso tempo, l’organizzazione di un altro insieme significante, che conferisce a ogni elemento la sua nuova portata” (“Il détournement come negazione e come preludio”, Internationale Situationniste, n.3, Parigi, 1959); il détournement è il contrario della citazione, un frammento strappato dal suo contesto, dal suo movimento, e in definitiva dalla sua epoca. 6 La Deriva si presenta come “un modo di comportamento sperimentale legato alle condizioni della società urbana: tecnica di passaggio improvviso attraverso ambienti diversi. In particolare, si usa anche per designare la durata di un esercizio continuo di questa esperienza” (“Definitions”, Internationale Situationniste, n.1, Parigi, Giugno 1958).7 “Teoria dell’impiego globale delle arti e delle tecniche che concorrono alla costruzione integrale di un ambiente in rapporto dinamico con esperienze di comportamento” (“Definitions”, Internationale Situationniste, n.1, Parigi, Giugno 1958).8 Il nome è ricavato dalle iniziali delle tre città da cui provenivano i suoi artisti e rappresentanti: Copenaghen, Bruxelles, Amsterdam.
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centrale della sua teoria: lo spettacolo: “La costruzione di situazioni comincia al di
là del crollo moderno della nozione di spettacolo. È facile vedere in che misura
sia legato all’alienazione del vecchio mondo il principio stesso dello spettacolo: il
non-intervento”9. Nei dodici numeri della rivista Internationale Situationniste,
pubblicati tra il 1958 e il 1969, questo concetto assumerà man mano un posto
sempre più importante, fino a trovare il suo definitivo compimento nei 221
paragrafi dell’opera – come già accennato - più importante della produzione di
Debord, La Società dello Spettacolo. Essa si farà manifesto della “critica dello
spettacolo” maturata dall’I.S. a partire dagli anni sessanta e si proporrà come uno
dei testi cardine della teoria stessa, accanto al Trattato del saper vivere ad uso
delle giovani generazioni10 di Raul Vanegeim, pubblicato anch’esso nel 1967.
L’intento di questa tesi – senza alcuna pretesa di esaustività - sarà per
l’appunto lo studio dell’opera più famosa, plasmata dagli sviluppi teorici di
Debord e dell’I.S., destinata ad avere ampia risonanza nelle contestazioni del ’68 e
ad acquistare, come vedremo, il valore di strumento essenziale per comprendere
il mondo odierno.
Una ricerca che si occuperà innanzitutto di analizzare bene le fonti e le
influenze teoriche, memori delle parole dello stesso Debord (“Altri più sapienti di
me avevano ben spiegato l’origine di quanto è accaduto”11) cercando di giungere
a un’analisi chiara del concetto chiave di “spettacolo” e delle sue implicazioni,
allo scopo di evidenziare i contorni di un’attualità e di un’utilità per una teoria
critica della società contemporanea.
9 G. Debord, Rapporto sulla costruzione delle situazioni e sulle condizioni dell’organizzazione e dell’azione della tendenza situazionista internazionale, tr.it. Torino, Nautilus, 2007.10 Parigi, Gallimard 1967, Collection Folio 1992; tr.it. Firenze, Vallecchi, 1973.11 G. Debord, Panegirico, Tomo Primo Tomo Secondo, tr.it. Roma, Castelvecchi, 2005.
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Si dimostrerà, in partenza, che per comprendere in maniera adeguata le
teorie di Debord presenti ne La Società dello Spettacolo è indispensabile
determinare il suo posto nell’ambito delle teorie marxiste, riconoscendo la
presenza di uno stretto rapporto tra Debord e Marx. In particolare, questo studio
si occuperà della rilevanza dei concetti marxiani di “merce” e “feticismo della
merce”, ripercorrendo l’analisi che Debord fa di essi. In ciò si terrà conto anche
del rapporto del filosofo francese con quelle correnti minoritarie del marxismo
che si richiamano a tale parte del pensiero marxiano e che vedono nell’opera di G.
Lukacs, Storia e coscienza di classe12, uno dei riferimenti principali. Quest’ultima
aveva ripreso e rielaborato la critica marxiana del “feticismo della merce”
tenendo conto dei mutamenti che si erano verificati dopo Marx nella realtà
sociale.
Con tali strumenti teorici, Debord dimostrerà che lo spettacolo è la forma
più sviluppata della società basata sulla produzione di merci e del “feticismo
della merce” che ne deriva, portando avanti un doppio compito, quello di
comprendere e allo stesso tempo di combattere tale forma.
La teoria critica elaborata da Debord (e dai situazionisti) si inserisce
quindi nel complesso dibattito politico francese relativo al pensiero marxista e
non marxista della sua epoca, mostrandosi ora “controcorrente”, ora
oggettivamente vicino ad altri indirizzi teorico-critici. Infatti, negli anni sessanta,
molte delle teorie marxiste, o presunte tali, sembravano superate. Il capitalismo,
non si mostrava né incapace di sviluppare sempre più le forze produttive, né di
re-distribuire più equamente di prima la ricchezza e i suoi prodotti, smentendo
12 Der - Malik Verlag, Berlino, 1923; tr.it. Milano, SugarCo, 1967 (1991).
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così coloro che si aspettavano una prossima rivoluzione operaia. Sullo sfondo di
una società il cui potere appare nell’insieme come infinito, il singolo pare trovarsi
senza alcuna possibilità di gestire il suo mondo. Debord si distacca dalle
numerose interpretazioni che vedono in tutto ciò un rovescio inevitabile del
progresso, un destino dell’uomo che è senza rimedio. Egli legge gli eventi come
una conseguenza del fatto che l’economia ha sottomesso a sé la vita umana. Non vi
sarà nessun cambiamento finché non sarà l’economia stessa a passare sotto il
controllo cosciente degli individui. Alla luce di tali affermazioni, l’economia si
caratterizza come sfera separata, derivante da concetti quali la merce, il valore di
scambio, il lavoro astratto, la forma-valore.
Sarà questo un altro punto nodale della nostra analisi, che terrà pure conto
di quel filone minoritario del marxismo, che, a partire dalla prima guerra
mondiale, ha posto l’accento su tali concetti, rivalutando e assegnando
un’importanza centrale al problema dell’alienazione, considerandolo non un
epifenomeno dello sviluppo capitalistico, ma come il suo stesso nucleo. Debord si
inserirà in questa scia - qui ancora caratterizzata da una maniera molto teoretica
di concepire il problema, - partendo proprio dal risultato essenziale di queste
riconsiderazioni interpretative: lo sviluppo dell’economia resasi indipendente,
qualunque sia la sua variante, e – ciò che più occorre tenere presente – la sua
vittoria all’interno della società, tradotta ora dalla forma spettacolo.
Quest’ultimo si presenterà come “il risultato e il progetto del modo di
produzione esistente” (SdS ¶ 6)13, stadio supremo dell’alienazione ed espressione
della categoria dell’economia che, intesa come una parte dell’attività umana
13 SdS = G. Debord, La Société du spectacle, Paris, Gallimard, 1992; tr.it. La Società dello spettacolo, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 1997. Cit. secondo i paragrafi (¶).
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complessiva, decreta il suo trionfo su tutti gli aspetti della vita all’interno della
società.
Una lettura approfondita de La Società dello Spettacolo, purificata dai
“saccheggi” e dalle banalizzazioni avvenute nel corso degli anni, metterà allora in
evidenza come essa abbia seguito un certo filone marxista, condiviso alcune delle
sue problematiche e approfondito certe tendenze. In ciò non si vuole certo
negare l’originalità di Debord, di cui il merito consiste nell’aver adeguato queste
teorie a un’epoca ben diversa, leggendo in una realtà ancora arcaica le luci della
società dello spettacolo, fornendo indicazioni e strumenti la cui validità si scopre
soprattutto oggi. Tra l’altro, per sottolineare la prospettiva comunque autonoma
nel dialogo con gli altri pensatori della sua epoca, possiamo notare come ne La
Società dello Spettacolo non si faccia largo uso di citazioni. Di sicuro non vi è un
intento “dichiarato”: molte frasi di Debord, infatti, sono détournements14 di
citazioni altrui, e la loro presenza è finalizzata a dar sostegno alle proprie tesi,
piuttosto che indicare le proprie fonti.
Tuttavia, in questo lavoro sarà inevitabile fare uso di citazioni. L’opera di
Debord si presta male alla parafrasi, sia per la bellezza dello stile, sia per il rischio
di svalutare il contenuto con delle interpretazioni troppo rigide e devianti.
Un’altra possibile motivazione sta nell’atteggiamento della produzione di
Debord, che ha scritto soltanto quando gli sembrava necessario, come ricorda lui
stesso15, estraneo a qualsiasi obbligo di tipo editoriale.
La sfida, quindi, per una lettura e un’interpretazione della sua opera,
risiede nel confine sottile che vede da una parte la sua succinta produzione che
14 (si veda la nota 6)15 G. Debord, Panegirico, Tomo Primo Tomo Secondo, tr.it. Roma, Castelvecchi, 2005.
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pretende di aver detto tutto l’essenziale, e dall’altra il desiderio,
paradossalmente, di non essere interpretata, bensì presa alla lettera.
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I. LO SPETTACOLO
1. Lo spettacolo come stadio ultimo dell’ alienazione
A prima vista, il concetto di “società dello spettacolo” può essere ridotto
esclusivamente all’ambito “massmediatico” : riferito cioè alla “tirannia” dei mezzi
di comunicazione in generale e della televisione in particolare. Ciò, tuttavia,
rappresenta soltanto un lato marginale del problema: lo stesso Debord, infatti,
considera tale aspetto dello “spettacolo” come “la sua manifestazione sociale più
opprimente” (SdS ¶ 24). Di conseguenza, non possiamo intendere lo “spettacolo”
come una semplice azione invasiva portata da uno strumento neutrale ed
esterno come la televisione - magari male utilizzato - all’interno della società,
poichè questa dinamica ne costituisce solo il lato apparente. Bisogna invece
approfondire la questione, andando oltre la convinzione che vede lo spettacolo
come una parte esteriore, distaccata dalla società. Debord ne è perfettamente
cosciente, e fin dall’inizio opererà questa precisazione, nella quale sono già insite
le coordinate che daranno vita alla sua critica. Lo spettacolo, allora, “non può
essere compreso come un abuso del mondo visivo, prodotto dalle tecniche di
diffusione massiva delle immagini.” (SdS ¶ 5). Lungi dall’esserne causa, i mezzi di
comunicazione sono in realtà una delle diverse espressioni della struttura delle
società spettacolari di cui essi fanno parte. Andando più a fondo, Debord precisa
che “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra
individui, mediato dalle immagini” (SdS ¶ 4). Decisivo appare in questo discorso
il ruolo dell’immagine: lo spettacolo, depurato da una visione meramente
superficiale, si presenta come il tipo di relazioni interpersonali costruito dalle
12
immagini, in cui la contemplazione passiva di queste ultime, che per giunta sono
state scelte da altri, soppianta il vivere e la capacità di determinare gli eventi in
prima persona.
La constatazione di questo fatto rappresenta il cardine del pensiero e
dell’attività pratica di Debord: la sua volontà, fin dall’inizio, di esprimere un’arte
che sia la creazione di situazioni, e non l’espressione di situazioni già esistenti, è
la prima e principale risposta della critica situazionista alla nozione di spettacolo
e al suo principio stesso: il non-intervento. Questo è, secondo Debord,
strettamente connesso al problema dell’alienazione16.
È da questo terreno che egli riparte, sviluppando alcune idee che prima di
lui avevano visto in Hegel, Feuerbach e Marx degli esponenti fondamentali, ma
che nella storia del marxismo hanno goduto di poca fortuna.
La visione di Debord sulla società muove da una critica della vita
quotidiana, mostrandone i caratteri di impoverimento dell’esperienza, della sua
disgregazione in ambiti sempre più separati con la perdita di ogni aspetto
unitario della società. L’alienazione, in questo senso, va ad assumere una
caratterizzazione nuova rispetto al primo stadio della sua evoluzione storica,
descritto da Marx. Se in precedenza essa era determinata da una degradazione
dell’ “essere” in “avere”, con lo spettacolo abbiamo un’ulteriore slittamento
generalizzato, dell’ “avere” in “apparire”. In una realtà che si mostra
frammentata, alienata, lo spettacolo consiste nella ricomposizione degli aspetti
separati sul piano dell’immagine. Nel primo capitolo de La Società dello
Spettacolo, intitolato, quasi emblematicamente, “La separazione compiuta”,
16 G.Debord, Rapporto sulla costruzione delle situazioni e sulle condizioni dell’organizzazione e dell’azione dell atendenza situazionista internazionale, Torino, Nautilus, 2007.
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Debord scrive: “Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una
rappresentazione” (SdS ¶ 1). Ed è proprio lo spettacolo il corso comune, l’insieme
di rappresentazioni indipendenti in cui si ritrova tutto quello che manca alla vita.
Un esempio lampante è dato dai personaggi famosi, attori o uomini politici , che
vanno a rappresentare quell’insieme di qualità umane e di godimento della vita
che è assente dalla vita effettiva di tutti, imprigionata in miseri ruoli.
La separazione, la perdita d’unità del mondo, è “l’alfa e l’omega dello
spettacolo” (SdS ¶ 25). Essa è il luogo d’origine, la piattaforma, il terreno dove
trova linfa questa unità, che ricompone gli individui - separati l’uno dall’altro -
sotto il dominio dell’immagine. Lo spettacolo, quindi, riunisce gli individui
separati, ma lo fa anche in quanto separati (SdS ¶ 29). Esso dà vita a un
linguaggio comune, a una rappresentazione, di una parte del mondo davanti al
mondo stesso, e che si rivela superiore. La comunicazione che si instaura è del
tutto a senso unico, unilaterale: lo spettacolo la accaparra tutta per sé, essendo
l’unico a parlare, mentre gli individui, gli “atomi sociali”, ascoltano soltanto. E il
messaggio che si impone è essenzialmente uno solo: l’ininterrotta giustificazione
della società esistente, il monologo elogiativo del potere che giustifica se stesso.
Lo spettacolo è il suo autoritratto, l’immagine del modo di produzione che lo ha
generato, l’incessante discorso di affermazione del capitalismo e delle merci da
esso prodotte. La facilità con cui tutto ciò trova risonanza è disarmante, perché
determinata da un argomento molto semplice: basta che sia solo lo spettacolo a
parlare, e che non siano concesse repliche. Di conseguenza, il presupposto dello
spettacolo è nello stesso tempo il suo risultato principale: ossia l’isolamento, la
passività della contemplazione. Si può facilmente notare come lo spettacolo sia
14
“il contrario del dialogo” (SdS ¶ 18), con l’individuo che è da parte sua ridotto al
silenzio, e non ha come altra destinazione che ammirare, contemplare le
immagini che sono state scelte per lui. L’altra faccia dello spettacolo è appunto la
passività, che porta a incarnare esclusivamente l’atteggiamento del pubblico, di
chi sta a guardare e non interviene, ponendosi come nient’altro che un
consumatore di immagini: lo spettacolo è “il sole che non tramonta mai
sull’impero della passività moderna” (SdS ¶ 13).
Tutto ciò mostra come lo spettacolo, pur prendendo le mosse dalla
frammentazione e dalla perdita d’unità del mondo, non sia soltanto uno
strumento d’unificazione. Esso si fa infatti portatore di una contraddizione,
poiché è allo stesso tempo un settore della società separato dagli altri, lo
strumento attraverso cui questa parte domina il tutto, concentrando ogni
sguardo e ogni coscienza, il che lo rende necessariamente falso e ingannevole. Nel
momento in cui si parla di unificazione, questa non assume certo dei connotati
positivi, ma si compie attraverso un linguaggio ufficiale di separazione
generalizzata che ripropone il suo presupposto.
La forza inquietante dello spettacolo risiede quindi nel fatto che esso non è
una semplice aggiunta al mondo, come a prima vista si potrebbe intendere, alla
luce della propaganda svolta dai mezzi di comunicazione. È tutta l’attività sociale,
nelle sue forme particolari, ad essere invece captata dallo spettacolo ai suoi fini.
Dall’informazione ai partiti politici di ogni schieramento, dalla pubblicità al
consumo diretto di distrazioni, dalla vita quotidiana alle passioni e ai desideri
umani, dovunque troviamo la sostituzione della realtà con la sua immagine. Lo
spettacolo “è il cuore dell’irrealismo nella società reale” (SdS ¶ 6) , non riflette
15
quest’ultima nella sua interezza, ma struttura le immagini secondo gli interessi
di una parte soltanto della società, con effetti che si possono riscontrare
sull’attività sociale di coloro che contemplano le immagini. Tutto viene relegato
alla sfera delle esigenze spettacolari, e la falsificazione della realtà rivela così
tutta la sua forza, al punto che Debord, richiamandosi a Hegel, arriva a invertire
la sua famosa affermazione, sostenendo che “nel mondo realmente rovesciato, il
vero è un momento del falso” (SdS ¶ 9). La menzogna si pone come il fulcro di
ogni potere, il suo strumento per governare, e lo spettacolo da questo punto di
vista è il potere più sviluppato, quindi il più menzognero.
In un mondo che si è trasformato in immagini, il senso umano privilegiato
e protagonista diviene ora la vista, che Debord definisce “il più astratto e
modificabile, corrispondente all’astrazione generalizzata della società attuale”
(SdS ¶ 18). Lo spettacolo, infatti, sfugge al semplice sguardo , si sottrae all’attività
e al controllo degli uomini. Non possiamo quindi considerare l’ “immagine” e la
“rappresentazione” soltanto in quanto tali, ma è necessario sottolinearne invece
il bisogno che la società ha di esse e l’indipendenza che raggiungono, escludendo
ogni dialogo dalla vita.
A questo punto appare chiaro come lo spettacolo sia la ricostruzione,
l’eredità, dell’illusione religiosa. Debord si richiama in questo senso a Feuerbach,
tra l’altro citando, come epigrafe del primo capitolo de La Società dello Spettacolo
un passo de L’Essenza del Cristianesimo. Gli uomini, secondo Feuerbach, hanno
proiettato la loro potenza e le proprie aspirazioni nella religione, in un dio che si
mostra come un’entità estranea, immaginaria. In ultima analisi, è l’uomo, per
Feuerbach, a creare dio a propria immagine e somiglianza. Lo spettacolo,
16
analogamente, non ha dissipato le nubi religiose, ma le ha soltanto riposte in una
base terrena. Così come avviene nell’immaginarsi una divinità superiore, così è
l’uomo a forgiare lo spettacolo, “a produrre una potenza indipendente”(SdS ¶
31), e nel momento in cui le riconosce sempre più potere, nello stesso tempo
sente aumentare la propria impotenza. La contemplazione di queste potenze,
rispettivamente nell’ambito della religione e in quello dello spettacolo, si situa in
un rapporto inverso a quanto il soggetto vive individualmente, al punto tale che
in questo mondo lo spettatore “non si sente a casa propria da nessuna parte,
perché lo spettacolo è dappertutto”(SdS ¶ 30). Ogni gesto, ogni idea, ogni
momento della vita trova quindi senso solo al di fuori di se stesso, palesando un
modo d’essere che è proprio dell’alienazione, sia nella religione, secondo la
visione di Feuerbach, sia nella sua forma ultima, quella “terrena”, dello
spettacolo.
Nel concepire lo spettacolo come l’ultima e suprema forma di alienazione,
Debord riscopre e sviluppa alcune idee che per Marx erano state una colonna
portante della sua speculazione, ma che nel dibattito marxista successivo hanno
trovato scarsa risonanza.
L’alienazione ha già un posto rilevante nella filosofia di Hegel, dove è
considerata come uno sviluppo del divenire dello Spirito. Essa è l’estraniarsi
dello Spirito a se stesso, e avviene quando questo, nell’oggettivarsi, si proietta al
di fuori di sé, divenendo natura, mondo oggettivo e sensibile. Questa fase
dell’alienazione è considerata da Hegel come negativa. In un secondo momento,
lo Spirito giunge a riconoscere il mondo oggettivo come prodotto del suo sé,
ritrovandosi infine in sé stesso e rivelando quindi la natura positiva del perdersi
17
nel mondo sensibile. La visione sintetica dell’alienazione ha quindi un risultato
positivo. Nella dialettica hegeliana, essa è però un fenomeno connaturato
all’essere stesso del pensiero, che oltre ad avere una preliminare accezione
negativa, va considerata come un arricchimento dello Spirito, o dell’Idea, in un
superiore stadio di sintesi.
I “giovani hegeliani”, come Feuerbach, Moses Hess, e il primo Marx,
accetteranno da Hegel la concezione dell’alienazione intesa come inversione di
soggetto e predicato, concreto e astratto. Ma, a differenza del filosofo di Jena, per
loro il vero soggetto non sarà lo Spirito, ma l’uomo nella sua esistenza sensibile e
concreta. È questo il punto di partenza della critica all’idealismo hegeliano, che
secondo Feuerbach, offre una visione capovolta della realtà, perché fa figurare ciò
che viene prima - il concreto, la causa, l’uomo – come ciò che viene dopo, cioè
l’astratto, lo Spirito. Per Feuerbach la filosofia “deve iniziare dal finito, dal
determinato, dal reale”17. L’uomo è alienato quando diventa il predicato di un
astratto, che lui stesso ha posto e che non riconosce più come tale, al punto da
apparirgli dunque come un soggetto. L’alienazione, secondo la visione di
Feuerbach, sarà, come già detto, nella proiezione della potenza umana nella
religione, che rende l’individuo impotente; essa però è riscontrabile anche nelle
astrazioni della filosofia idealista, per la quale l’uomo nella sua esistenza concreta
è solo una forma fenomenica dello Spirito e dell’universale.
In questo cambio di passo che vede la filosofia imporsi come critica
dell’esistente, rivalutando i caratteri e i bisogni dell’uomo concreto laddove con
17 L. Feuerbach, Tesi provvisorie per una riforma della filosofia, tr. in Principi della filosofia dell’avvenire, Torino, Einaudi, 1948, p.67.
18
l’idealismo non aveva trovato un riconoscimento adeguato, si inserisce l’ulteriore
e importante sviluppo apportato da Karl Marx.
Il punto di partenza del suo discorso si basa su una critica globale della
civiltà moderna e dello stato liberale, che rappresenta uno dei nuclei teorici più
importanti del marxismo. Nella Critica, e in maniera più rigorosa negli Annali
franco- tedeschi del 1844, Marx riprende la convinzione, mutuata da Hegel, che la
categoria del moderno si identifichi con quella della “scissione”, della
separazione quindi, che prende corpo tra società civile e stato. A differenza della
polis greca, dove l’individuo non conosceva distinzione tra ego pubblico ed ego
privato, tra sfera individuale e sfera sociale, ma si trovava in “un’unità
sostanziale” con la comunità di cui faceva parte, nello stato moderno egli è invece
costretto a vivere due vite: una in terra come “borghese”, nell’ambito cioè
dell’egoismo e degli interessi particolari della società civile, e l’altra in “cielo”
come “cittadino”, ovvero nella sfera superiore dello stato e dell’interesse comune.
Tuttavia il “cielo” dello Stato è puramente illusorio, poiché la sua pretesa di porsi
come organo universale che media gli interessi particolari della società è
verificabilmente falsa. Lo Stato, lontano dal perseguire mete generali, non fa
invece altro, secondo Marx, che riflettere gli interessi particolari dei gruppi e
delle classi più forti. La civiltà moderna si presenta, come rappresentante di una
società dell’egoismo e delle particolarità “reali” e al tempo stesso, della
fratellanza e delle universalità “illusorie”. La falsa universalità dello stato
moderno dipende dal tipo di società che si è formata nel mondo moderno. I suoi
tratti essenziali sono da scorgere nell’ “individualismo” e nell’ “atomismo”, ossia
nella “separazione” del singolo dal tessuto comunitario.
19
Il tema dell’alienazione, fondamentale in Marx, echeggia in tutta la sua
importanza nei Manoscritti economico-filosofici, composti a Parigi nel 1844, ma
dati alle stampe soltanto molto tempo dopo, nel 1932. Quest’opera segna il
primo decisivo approccio del filosofo tedesco all’economia politica, con
l’applicazione degli schemi critico-dialettici che adesso mirano al campo più
strettamente economico.
Nella sua critica all’economia classica, sviluppata nei Manoscritti, Marx
sottolinea come questa sia incapace di cogliere la contraddizione che
caratterizza il sistema capitalistico della società moderna, ovvero l’opposizione
reale tra capitale e lavoro salariato. L’impossibilità di pensare in maniera
“dialettica” il mondo borghese, da parte dell’economia politica, impediva di
mettere in luce queste contraddizioni e di celare in tal modo l’alienazione che
esiste tra l’operaio e il suo lavoro e la sua produzione, concetto fondamentale e
specchio della conflittualità insita nel mondo capitalistico - borghese.
Come abbiamo visto, la tematica dell’alienazione affonda le sue radici nella
filosofia tedesca precedente. Marx si rifà in questo senso soprattutto a Feuerbach,
da cui accetta la struttura formale del meccanismo dell’alienazione, intesa
appunto come una condizione patologica di “scissione”, di “dipendenza”, di
“autoestraniazione”. Ma, a differenza di Feuerbach, per il quale l’alienazione è un
fatto ancora puramente coscienziale, derivante da una errata interpretazione di
sé, in Marx essa diviene un fatto reale, di natura socio-economica, in quanto si
identifica con la condizione storica del salariato nell’ambito della società
capitalistica.
20
L’alienazione, quindi, è una caratteristica strettamente connessa al lavoro
nella società industriale moderna. Essa assume i caratteri del “diventare altro”,
del “cedere agli altri ciò che è proprio”. Nella produzione capitalistica
l’alienazione dell’operaio va ad assumere dei caratteri che Marx individua in
quattro tipi fondamentali. “L’operaio”, scrive Marx “diviene tanto più povero
quanto maggiore è la ricchezza che egli produce”18 , è alienato quindi rispetto al
prodotto della sua attività, in quanto, in virtù della sua forza-lavoro, produce un
oggetto che non gli appartiene e che “diviene di fronte a lui una potenza a sé
stante”19. La sua stessa attività è sinonimo di alienazione, in quanto lo vede
strumento di fini estranei, che coincidono con il profitto del capitalista, con la
grave conseguenza che l’uomo si sente “bestia” quando dovrebbe sentirsi
veramente “uomo”, cioè nel lavoro sociale. Il corollario che ne deriva è
l’alienazione del lavoratore rispetto al suo stesso Wesen, ossia la sua “essenza” o
“genere”: all’interno della società capitalistica il lavoratore è costretto a un lavoro
forzato, ripetitivo, unilaterale, a discapito di quello libero, creativo e universale
(in quanto egli “sa produrre secondo la misura di ogni specie”) che ne costituisce
la sua prerogativa “essenziale” che lo distanzia dagli animali20. Un’alienazione,
una separazione, dunque, che tocca il suo ultimo grado nella distanza che
caratterizza il proletario dallo suo stesso prossimo, poiché l’“altro”, per lui, è
soprattutto il capitalista, un individuo che lo tratta come uno strumento, un
mezzo, espropriandolo del frutto della sua fatica, facendo sì che il suo rapporto
con lui e con l’umanità in genere sia per forza conflittuale.
18 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, Einaudi, 1968; Einaudi, 2004, p.72.19 Ivi, p. 72.20 Ivi, p. 75.
21
Alla luce di tali caratteristiche, non è complicato intuire che, a parere di
Marx, la causa del meccanismo globale dell’alienazione risieda nella proprietà
privata dei mezzi di produzione, in forza della quale il proprietario della fabbrica
(il capitalista) può utilizzare il lavoro di una certa categoria di individui (i
salariati) per accrescere la propria ricchezza, secondo una dinamica che Marx,
nel Capitale, descriverà in termini di “sfruttamento” e “logica del profitto”.
È quindi la proprietà privata il fulcro di ogni tipologia di alienazione che
investe l’uomo nella società capitalistica. Essa frantuma quell’unità organica
dell’umanità che si realizza nell’attività e nei rapporti sociali, dando invece luogo
a una separazione dell’uomo dalle sue attività e dai prodotti di esse.
In una società basata sulla proprietà privata, vittima dell’alienazione, Marx
individua nel denaro il potere alienato dell’umanità: “quello che non posso come
uomo e quindi quello che le mie forze individuali non possono, lo posso mediante
il denaro. Dunque il denaro fa di ognuna di queste forze essenziali qualcosa che
essa in sé non è, cioè ne fa il suo contrario”21. Il denaro, nella società capitalistica,
caratterizzata da un’immensa accumulazione di merci, si presenta come ciò che
traduce tutti i desideri in realtà, trasformando ciò che è rappresentato in ciò che
è reale, rendendo, al contrario, ciò che è ascrivibile alla realtà in
rappresentazione. Echeggia in queste ultime parole l’affermazione di Debord
che, parlando dello spettacolo, lo definisce come l’ultimo e più compiuto sintomo
di una rappresentazione che ingloba tutto ciò che prima era direttamente vissuto
(SdS ¶ 1). Ed è innegabile da questo punto di vista la straordinaria influenza
21 Ivi, p. 154.
22
filosofica che Marx e il concetto di alienazione, da lui condotta sul piano reale ed
economico-politico, abbia avuto sul filosofo francese.
Il denaro è il simbolo dell’estraneazione ora divenuta economica,
“l’universale confusione e inversione di tutte le cose”22, il rovesciamento
dell’individualità. Infatti, senza la sua necessità sociale, l’uomo sarebbe
considerato come uomo, e il suo rapporto con il mondo, nient’altro che un
genuino rapporto umano in cui “potrai scambiare amore con amore, fiducia con
fiducia. […] Ognuno dei tuoi rapporti con l'uomo e la natura dev'essere una
manifestazione determinata e corrispondente all'oggetto della tua volontà, della
tua vita individuale nella sua realtà”23. Il denaro si presenta come il sintomo più
evidente del fatto che le attività dell’uomo non hanno uno scopo in sé, ma
servono esclusivamente a fargli raggiungere il prodotto che egli stesso ha creato
nella società industriale e che, pur dovendo essere un mezzo, si presenta come un
fine.
Il percorso dell’alienazione, snodatosi principalmente nelle coordinate
filosofiche di Feuerbach e Marx, ha raggiunto un grado di sempre maggiore
astrazione. In tutte le sue forme, infatti, l’uomo singolo e concreto ha valore solo
in quanto partecipa dell’astratto, cioè, in quanto possiede denaro, egli è cittadino
dello Stato, è uomo davanti a Dio, è un “sé” in senso filosofico.
Lo spettacolo, teorizzato da Debord, è il destinatario ultimo, lo sviluppo
più estremo di questa tendenza all’astrazione. Suonano in maniera chiara le
parole della sua opera, che dicono dello spettacolo che il suo “modo d’essere
concreto è precisamente l’astrazione” (SdS ¶ 29). Lo spettacolo si fa condottiero
22 Ivi, p. 155.23 Ivi, p. 156-157.
23
della svalorizzazione della vita che ha raggiunto i suoi massimi livelli,
coinvolgendo ogni aspetto dell’esistenza; e le astrazioni ipostatizzate non si
presentano neanche più come cose, ma sono diventate ancora più astratte,
essendo divenute immagini. Trascinando con sé tutte le vecchie alienazioni, la
scissione dello spettacolo le incorpora in sé: oltre a essere “la ricostruzione
materiale della religione” (SdS ¶ 20), essa è anche “inseparabile dallo Stato
moderno, prodotto della divisione del lavoro sociale e organo del dominio di
classe” (SdS ¶ 24), e “il denaro che si guarda soltanto” (SdS ¶ 49), l’equivalente
astratto, come vedremo, di tutte le merci.
24
II. DEBORD E MARX
2.1 La merce e lo spettacolo
Il vero punto di svolta nell’itinerario della concezione di alienazione -
intesa come astrazione - si ha negli scritti di critica dell’economia politica del
Marx maturo, in cui viene rivelata anche l’origine storica del processo di
astrazione. Nel primo capitolo del primo libro del Capitale, Marx analizza la
forma della merce e la pone come nucleo di tutta la produzione capitalistica,
dimostrando come il processo di astrazione sia il cuore stesso dell’economia
moderna, invece di mostrarsi come uno dei diversi risvolti spiacevoli. Inoltre,
l’aspetto importante da tenere presente è che in quest’analisi della forma merce,
Marx non parla ancora né del plusvalore, né della vendita della forza-lavoro, né
del capitale. Le forme più sviluppate dell’economia capitalistica derivano tutte da
questa struttura originaria della merce, la cosiddetta “forma di cellula”,
corrispondente alla “cellula del corpo”, e dalla contrapposizione tra concreto e
astratto, produzione e consumo, tra quantità e qualità, tra il rapporto sociale e la
cosa che questo produce.
Nel Capitale, come è noto, Marx sottolinea il duplice carattere della merce,
distinguendo tra “valore d’uso” e “valore di scambio”. La merce deve possedere
innanzitutto un valore d’uso (“l’utilità di una cosa fa che essa abbia un valore
d’uso”24), cioè una sua utilità, che si realizza nel consumo. Tuttavia, per essere
veramente tale, la merce deve possedere anche un valore che determina la
relazione in cui viene scambiata con altre merci (“esse sono merci soltanto
24 K. Marx, Il Capitale, tr. it. Roma, Newton Compton, 2005, vol. I, p. 54.
25
perché son qualcosa di duplice: oggetti d’uso e contemporaneamente depositari
di valore”25), il cosiddetto valore di scambio. La qualità concreta di ogni merce è
necessariamente diversa da quella di tutte le altre, che su questo piano risultano
tra loro incommensurabili. Tutte, però, hanno una sostanza comune, che
permette di scambiarle, in quanto rappresentano delle diversa quantità. Sulla
scia dell’equazione tra valore e lavoro, Marx individua “la sostanza del valore”
nella quantità di tempo di lavoro astratto che occorre per produrre la merce26. In
quanto valore, dunque, la merce non ha nessuna qualità specifica, ma ha il suo
criterio di differenza soltanto seguendo un punto di vista, un movimento
quantitativo. In questo modo, però, il valore del prodotto non è costituito dal
lavoro concreto di chi l’ha creato, ma da una mera quantità di lavoro indistinto,
astratto, con la perdita del carattere qualitativo dei diversi lavori che producono
prodotti diversi. Il valore della merce è la cristallizzazione del lavoro umano
indistinto, inteso come un “dispendio di cervello, muscoli, mani ecc.”, la cui unica
misura è il tempo speso. Nella formula apparentemente banalissima di “venti
metri di tela valgono quanto cinque chili di tè” Marx individua la forma più
generale di tutta la produzione capitalista: il lavoro astratto, che ingloba due cose
concrete e ha come forma finale il denaro.
Il fatto però che una merce debba avere comunque un valore d’uso e
soddisfare quindi un’esigenza, porta il suo valore a presentarsi necessariamente
sotto le spoglie di un valore d’uso che nel processo di scambio conta solo come
“portatore” del valore di scambio. In altre parole, all’utilità di una merce si
giunge soltanto attraverso la trasformazione di questa in valore di scambio, con
25 Ivi, vol. I, p. 55.26 Ivi, vol. I, p.56.
26
la mediazione del denaro. Il valore d’uso deve diventare “forma fenomenica del
suo contrario, del valore”. È facile notare come questo processo porti a un
passaggio per il quale il concreto diventa predicato dell’astratto. Un’operazione
che, secondo Marx, non è intesa più in senso antropologico, ma come
conseguenza di un determinato fenomeno storico. La capacità di una merce di
essere venduta e di trasformarsi in qualche altra merce, a discapito della sua
utilità, è un fenomeno tipico dell’economia dell’epoca moderna. La
subordinazione della qualità alla quantità e del concreto all’astratto è insita nella
struttura e nella società della merce, dove il lavoro concreto diventa sociale, utile
per gli altri solo spogliandosi delle qualità proprie e diventando valore di
scambio.
Così non era nella società medioevale, o nelle comunità umane come i
villaggi, dove si produceva soltanto ciò che era destinato all’uso, al bisogno, in
uno scambio occasionale e limitato solo alle eccedenze. In quest’ambito, Marx
sostiene che il legame sociale viene prodotto insieme con la produzione
materiale. Soltanto quando viene superata una certa soglia nello sviluppo e nel
volume degli scambi, la produzione si dirige allora essenzialmente alla creazione
di valore di scambio. Quindi, il valore d’uso del proprio prodotto sta allora nel
suo valore di scambio, tramite cui si accede agli altri valori d’uso. Il lavoro stesso
entra nel giogo della mercificazione, come forza lavoro da vendere. Al concreto si
accede allora soltanto tramite la mediazione dell’astratto, cioè del valore di
scambio, del denaro.
In una società come quella moderna, in cui singoli agiscono in una
produzione isolati e animati soltanto dai propri interessi, il legame sociale si può
27
stabilire soltanto a posteriori tramite lo scambio delle loro merci. Il loro essere
concreto, la loro soggettività, deve alienarsi alla mediazione del lavoro astratto
che cancella tutte le differenze. Ciò vuol dire che le caratteristiche della merce,
nell’ambito della produzione capitalistica, si estendono all’insieme della
produzione materiale, e soprattutto, dei rapporti sociali. Gli uomini si scambiano
unità di lavoro astratto, che si oggettivano in valori di scambio che possono poi
ritrasformarsi in valori d’uso. Ne deriva soprattutto un grande svantaggio: la
produzione non viene regolata dagli uomini secondo i loro bisogni, ma vi è
un’istanza anonima, il mercato, che regola la produzione post festum27. L’uomo
non è più il soggetto, ma lo è il valore, in quanto “soggetto automatico”.
Il fatto che il valore si presenti sempre sotto le sembianze di un valore
d’uso, rimandando cioè a una concretezza, fa nascere l’illusione che siano le
qualità concrete di un prodotto a decidere del suo destino. Questo è il famoso
“carattere di feticcio della merce e il suo arcano”28, che - attraverso un efficace
paragone con l’ illusione religiosa - porta Marx a sottolineare come i prodotti
della fantasia umana siano animati di vita propria. In una società in cui vi è
incontro, da parte degli individui, soltanto nello scambio, la trasformazione dei
prodotti e delle relazioni che ne presiedono, in qualcosa di “apparentemente
naturale”, comporta che tutta la vita sociale si riveli indipendente dalla volontà
umana, presentandosi come un’entità apparentemente autonoma che segue solo
le proprie leggi. Le relazioni sociali non solo appaiono, ma sono “rapporti di cose
fra persone e rapporti sociali fra cose”29.
27 Ivi, vol I, p. 79.28 Ivi, vol. I, p. 76.29 Ivi, vol. I, p. 77.
28
Ne La Società dello Spettacolo, l’”immagine” e lo “spettacolo” di cui Debord
parla, sono da intendere come un ulteriore sviluppo della forma merce. Con essa
hanno in comune la caratteristica di ridurre la molteplicità del reale ad un’unica
forma astratta ed uguale. La prima frase dell’opera di Debord, infatti suona:
“Tutta la vita della società nelle quali predominano le condizioni moderne di
produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli” (Sds ¶ 1),
che è chiaramente un détournement della prima frase dal Capitale: “Tutta la vita
delle società moderne nelle quali predominano le condizioni moderne di
produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci”30.
Infatti, nel secondo capitolo della sua opera, Debord analizza il processo
per il quale lo spettacolo si dimostra il destinatario ultimo delle conseguenze
della vittoria della merce all’interno del modo di produzione, ponendosi come
l’espressione del trionfo della categoria dell’economia in quanto tale all’interno
della società.
Secondo il filosofo francese, il principio del “feticismo della merce” -
introdotto da Marx - trova il suo compimento assoluto proprio nello spettacolo.
Ciò è una conseguenza della vittoria della merce all’interno del modo di
produzione, di cui lo spettacolo ne è il risultato e il progetto, “l’affermazione
onnipresente della scelta già fatta nella produzione e il suo consumo
conseguente” (SdS ¶ 6). La classe che ha instaurato lo spettacolo, la borghesia,
deve il suo dominio al trionfo dell’economia e delle sue leggi su tutti gli aspetti
della vita, secondo un processo che segue uno sviluppo quantitativo, così come la
30 Ivi, vol. I, p. 53.
29
merce aveva dimostrato di essere. La sua categoria, come sottolinea lo stesso
Debord, è il quantitativo, ciò in cui si sviluppa e può svilupparsi.
Lo spettacolo è l’espressione di questo processo, arrivato al suo
compimento: quello che fa vedere non è altro che il mondo della merce che si
pone su tutto ciò che è vissuto. Si afferma così il dominio della società mediante
“delle cose sensibilmente sovrasensibili”, dove il mondo sensibile viene
sostituito, con il movimento dello spettacolo, “da una selezione di immagini che
esiste ormai al di sopra di esso, e che nello stesso tempo diviene il sensibile per
eccellenza” (SdS ¶ 36). Con il suo carattere “fondamentalmente tautologico”
(SdS ¶ 13), lo spettacolo mira solo a riprodurre le proprie condizioni di esistenza,
interprete di una produzione economica che si è ormai trasformata da mezzo in
fine, rendendosi indipendente, dominando su ogni attività umana complessiva.
Ciò è avvenuto a causa del dispiegamento incessante che l’economia nella
forma della merce ha avuto nel corso della sua storia, modificando le condizioni
di esistenza dei gruppi umani. Infatti, se il progresso nella produzione di merci
ha risolto da una parte il problema della sopravvivenza immediata, liberando la
società dalla pressione della natura, dall’altra la questione della sopravvivenza in
senso lato si ripropone di nuovo e a un livello superiore, generando un surplus.
Questa eccedenza è data proprio dall’abbondanza della merce, che non cessa di
contenere la privazione, un richiamo al desiderio equipaggiato materialmente.
Con la rivoluzione industriale, la divisione manifatturiera del lavoro e la
massiccia produzione per il mercato mondiale, la merce appare, per Debord,
come una potenza che viene ad occupare realmente la vita sociale. Non solo il
lavoro, “trasfigurato in lavoro-merce, in salariato” (SdS ¶ 40), ma anche altre
30
attività umane, come il cosiddetto “tempo libero” sono organizzate in modo da
giustificare e perpetuare il modo di produzione regnante. In particolare,
assistiamo al rovesciamento della posizione del proletario rispetto alla fase
primitiva dell’accumulazione capitalistica: se in precedenza era considerato
soltanto come l’operaio che doveva ricevere il minimo indispensabile per la
conservazione della sua forza-lavoro, ora la classe dominante prende in
considerazione anche “i suoi svaghi, la sua umanità” (SdS ¶ 43), in forza di quel
grado di abbondanza raggiunto dalla produzione di merci. Improvvisamente
“lavato dal disprezzo totale”(SdS ¶ 43) l’operaio si ritrova ad essere trattato con
cortesia, assumendo le vesti del consumatore. E il consumo, da materiale,
primario, diventa sempre più immateriale, trovando la sua manifestazione
generale nello spettacolo, dove “il consumatore reale diviene consumatore di
illusioni” (SdS ¶ 47) . A questo punto della “seconda rivoluzione industriale”,
l’alienazione data dal consumo è un supplementare che si affianca a quello della
produzione alienata. Abbandonata la dimensione materiale, anche il lavoro,
smentendo la sua etimologia che implica sofferenza e fatica, diventa sempre più
consumo, ma anche contemplazione di quel mondo della merce divenuto
visibile31. La prova è data dal fatto che il tempo di lavoro socialmente necessario è
sempre più sostituito dal “tempo del consumo di immagini, medium di tutte le
merci” (SdS ¶ 153).
In questo senso, nella realtà rovesciata dello spettacolo, Debord individua
il modello vincente in quello che garantisce una scelta abbondante tra le varie
merci. Ciascuna di queste merci promette l’accesso a quella “soddisfazione, già
31 C. Freccero D. Strumia (a cura di), Introduzione alla Società dello spettacolo, in G. Debord, La Società dello spettacolo, Milano, Baldini Castoldi, Dalai, 1997, p. 24.
31
problematica, che si presume derivare dal consumo dell’insieme” (SdS ¶ 65) e nel
momento inevitabile della delusione è già pronta una merce che fa lo stesso
annuncio. Nella lotta tra vari oggetti, lotta in cui l’uomo è solo spettatore, la
singola merce si può logorare; lo spettacolo nel suo complesso si rafforza. Nel
mondo dello spettacolo, il valore di scambio ha finito per dirigere l’uso: il distacco
della merce da ogni autentico bisogno umano raggiunge un livello addirittura
pseudo-religioso con gli oggetti manifestamente inutili: Debord cita il
collezionismo di portachiavi pubblicitari, definendolo “l’accumulazione di
indulgenze della merce” (SdS ¶ 67). Ciò dimostra, secondo Debord, che la merce
possa a fare a meno del suo “nucleo” di valore d’uso - considerato necessario da
Marx - e che essa venga ormai consumata in quanto merce. Il valore di scambio
diviene quindi “il condottiero” del valore d’uso, secondo una delle espressioni più
significative de La Società dello Spettacolo. E se Marx ha parlato della legge della
caduta tendenziale del saggio del profitto, Debord parla di un abbassamento
tendenziale del valore d’uso come “costante dell’economia capitalista” (SdS ¶ 47),
cioè della subordinazione sempre più pronunciata di qualsiasi uso, anche del più
banale, alle esigenze dello sviluppo dell’economia.
A differenza di quanto sosteneva la teoria marxiana riguardo al denaro,
che, superando una soglia qualitativa, si trasformava in capitale, Debord sostiene
che l’accumulazione del capitale raggiunge un punto in cui diventa immagine
(SdS ¶ 34). Lo spettacolo infatti è l’equivalente non solo dei beni, come lo è il
denaro, ma di ogni attività possibile, rappresentante dell’equivalenza “di ciò che
l’insieme della società può essere e fare” (SdS ¶ 49), appunto perché essa è
diventata totalmente merce. Il carattere fondamentalmente tautologico dello
32
spettacolo riflette quello autoreferenziale del lavoro astratto, che mira a
produrre una massa di lavoro morto oggettivato, trattando la produzione di
valori d’uso come mero mezzo a questo scopo. Lo spettacolo, in ultima analisi,
viene concepito da Debord come la visualizzazione del legame astratto che lo
scambio istituisce tra gli uomini, così come il denaro ne è la materializzazione.
Non si tratta di un insieme di immagini ma di “un rapporto sociale fra individui,
mediato dalle immagini” (SdS ¶ 4).
2.2 Il feticismo della merce e la critica del valore: il contributo di
Debord
Il concetto di “feticismo della merce” non ha goduto di molta fortuna nella
discussione marxista. Nelle poche volte in cui se n’è parlato, è stato sempre
trattato come un fenomeno appartenente alla sola sfera della coscienza, cioè
come una falsa rappresentazione della “vera” situazione economica.
Probabilmente, la sua rimozione dalla centralità del dibattito marxista è stata
determinata dal fatto che “il feticismo della merce” e dei suoi derivati – denaro,
capitale, interesse – occupano quantitativamente uno spazio molto ristretto
nell’opera di Marx, e non si può dire che egli stesso l’abbia messo come cardine
della sua teoria. Oltre questo aspetto, ve n’è uno più importante. Il concetto di
“feticismo” vuol significare – piuttosto - che l’intera vita umana è subordinata alle
leggi che risultano dalla natura del valore, e prima di tutte quella del suo continuo
bisogno di accrescersi. Il lavoro astratto, rappresentato nella merce, è totalmente
indifferente ai suoi effetti sul piano dell’uso. Il suo obiettivo è quello di produrre
alla fine del suo ciclo una quantità più grande di valore – sotto forma di denaro –
33
di quanto vi fosse all’inizio32. Questo significa che già nella doppia natura della
merce è contenuta la caratteristica del capitalismo di essere necessariamente un
sistema di crisi permanente.
Come sottolinea lo studioso Anselm Jappe, il valore, lungi dall’essere -
come credevano i marxisti del movimento operaio - un dato “neutrale” che
diventa problematico solo quando porta all’estorsione di “plusvalore”, conduce
invece in maniera inevitabile a una collisione tra ragione “economica” (creazione
di sempre più valore, al di là del contenuto concreto) ed esigenze umane33.
Si comprenderà che il valore non è una categoria “economica”, ma una
forma sociale totale che determina essa stessa la scissione della vita sociale in
diversi settori. L’”economia” non è dunque, come la terminologia di Debord può
far pensare, un settore che subordina gli altri ambiti della società, ma è essa
stessa costituita dal valore.
Nella sua critica del valore, Marx ha messo a nudo “la forma pura” della
società della merce, dando vita a quella che a suo tempo era soltanto una
coraggiosa anticipazione, mentre è soltanto oggi che può cogliere effettivamente
la realtà sociale. Marx stesso non era consapevole - e tanto meno i suoi
successori marxisti - del contrasto tra la critica del valore e il contenuto della
maggior parte della sua opera, quella in cui esamina le forme empiriche della
società capitalista della sua epoca. Egli non poteva sapere quanto questa fosse
ancora piena di elementi precapitalistici, di modo che le sue forme erano ancora
lontane o opposte a ciò che sarebbe derivato dal trionfo della struttura della
32 Secondo la nota formula tautologica di produzione del valore: D (denaro) – M (merce) – D’ (più denaro) descritta ne Il Capitale.33 A. Jappe, Guy Debord, Roma, Manifesto Libri, 1999, p. 25.
34
forma-merce. Per questo motivo, Marx considera come tratti essenziali del
capitalismo degli elementi che in verità erano dovuti alla sua forma ancora
imperfetta, quale la creazione di una classe necessariamente esclusa dalla società
borghese e dai suoi “benefici”. Il marxismo del movimento operaio ha tenuto in
considerazione solo questaAbb parte della teoria di Marx, pur avendo ragione nel
richiamarsi ad essa, perché questa corrispondeva effettivamente alla fase
ascendente del capitalismo, quando si trattava ancora di imporre le forme
capitalistiche contro quelle preborghesi.
Negli anni settanta si è assistito invece a una crisi che non è determinata
da elementi di imperfezione presenti nel sistema della merce, bensì dalla sua
totale vittoria. Viene allora alla luce la sua contraddizione di base derivante dalla
struttura della merce.
In quest’ottica si inserisce il contributo di Debord e il particolare più
attuale del suo pensiero. Egli è stato probabilmente tra i primi a interpretare la
situazione odierna alla luce di una critica marxiana del valore; mentre i suoi lati
più deboli e le sue contraddizioni si trovano là dove è rimasto troppo attaccato al
marxismo del movimento operaio. Debord si trovava in un certo senso in una
posizione intermedia: ultimo rappresentante di un filone di critica sociale, e
primo interprete del suo nuovo stadio.
Due sono le conseguenze che Debord ha saputo cogliere con molto
anticipo dalla critica del feticismo. In primo luogo, lo sfruttamento economico
non è l’unico male nel capitalismo, dato che quest’ultimo è necessariamente la
negazione della vita stessa in tutte le sue manifestazioni concrete. Di
conseguenza, e qui veniamo al secondo punto, nessuna delle varianti all’interno
35
dell’economia basata sulla merce può operare un cambiamento decisivo.
Sarebbe vano aspettarsi una soluzione positiva dallo sviluppo dell’economia,
poiché l’alienazione e lo spossessamento sono il nucleo stesso dell’economia
mercantile, che non potrebbe funzionare diversamente, con il risultato che i
progressi di quest’ultima sono necessariamente i progressi di quelli. Ciò
costituiva un’autentica riscoperta, considerando che tanto la scienza borghese
quanto il “marxismo” non facevano della “critica dell’economia politica”, ma della
semplice economia politica in cui consideravano il lavoro soltanto dal suo lato
astratto e quantitativo, senza vederne la contraddizione con il suo lato concreto.
Questo “marxismo” aveva considerato la subordinazione della vita alle esigenze
economiche come un fatto puramente ontologico, interiorizzandolo,
considerandolo come un dato naturale di cui si poteva discutere il più o il meno e
soprattutto il “per chi”, la cui messa in evidenza e la contestazione dell’esistenza
in sé sembravano addirittura un fatto rivoluzionario.
36
III. DEBORD E LUKACS
3.1 Il confronto con Storia e coscienza di classe
Il pensiero di Marx, come abbiamo visto, rappresenta una constatazione
della riduzione di tutta la vita umana al valore, cioè all’economia e alle sue leggi.
Tuttavia, per molti decenni, ogni analisi del feticismo è stata inglobata
nella più vasta categoria di alienazione, intendendolo come un fenomeno della
coscienza, una falsa opinione o valutazione delle cose in qualche modo
collegabile alla tanto discussa “ideologia”34. Generazioni di avversari e sostenitori
di Marx hanno inteso questa constatazione come un’ apologia di tale riduzione.
Il ritorno del concetto di “feticismo della merce”, a partire dagli anni
cinquanta non dovrebbe far dimenticare la vita difficile che esso ha avuto tra i
“marxisti”. Dalla morte di Marx fino agli anni venti cade in un oblio totale:
l’ultimo Engels, Rosa Luxemburg, Lenin e Kautsky non ne fanno mai menzione.
La condanna del capitalismo è per loro determinata dalla crescente
pauperizzazione, dalle difficoltà di accumulazione o dalla caduta del saggio di
profiitto.
Sarà Gyorgy Lukacs, con la sua opera Storia e coscienza di classe,
pubblicata nel 192335, a riprendere in termini seri il concetto di “feticismo”, a cui
si affianca un punto di vista interpretativo del pensiero di Marx molto simile a
quello che avrebbe avuto Debord. Lukacs ritiene che ciò che distingue in maniera
decisiva il marxismo dalla scienza borghese non sia il predominio delle
34 A. Jappe, “Le sottigliezze metafisiche della merce”, Ágalma, n° 1, Giugno 2000.35 Bisognerebbe ricordare anche un testo allora passato quasi inosservato, pubblicato nel 1924 in Unione Sovietica, che ha ugualmente ripreso questa tematica: I.I. Rubin, Saggi sulla teoria del valore, tr. it. Milano, Feltrinelli, 1976.
37
motivazioni economiche nella spiegazione della storia, ma il punto di vista della
totalità36: una lettura molto simile a quella del filosofo francese, che, come si è
visto, concepiva la sfera economica come opposta alla totalità della vita.
Le vicende di Storia e coscienza di classe seguono un percorso tortuoso e
avvincente: la pubblicazione del libro desta scalpore, al punto da essere
condannato l’anno seguente dalla Terza Internazionale. Pochi anni dopo, lo
stesso Lukacs prende le distanze dalla sua opera, e questa diventa tanto
leggendaria quanto introvabile, di modo che solo pochi hanno l’occasione di
subirne l’influenza. Con la fine ufficiale dello stalinismo e la conseguente ricerca
di un “marxismo” diverso, alcuni capitoli del “libro maledetto del marxismo”
vengono pubblicati nel 1957 e 1958 sulla rivista francese Arguments.
Successivamente, nel 1960, esce la traduzione francese integrale, contro la
volontà di Lukacs, che, non potendo più impedire la riscoperta del suo testo,
acconsente nel 1967 a una riedizione tedesca.
Negli anni sessanta Storia e coscienza di classe diviene un vero e proprio
libro di culto, esercitando un notevole influsso su Debord. Qui, infatti, si trova il
nucleo della direzione in cui egli sviluppa gli spunti marxiani. Debord sottolinea
poco questa filiazione: le citazioni da Lukacs si limitano a due frasi, poste come
epigrafe del secondo capitolo de La Società dello Spettacolo, mentre tra le teorie
ricordate esplicitamente vi è quella che concepisce il partito come “la mediazione
finalmente trovata tra la teoria e la pratica” dove i proletari cessano di essere
“spettatori”; e Debord afferma che così Lukacs descrisse “tutto ciò che il partito
bolscevico non era” (SdS ¶ 112).
36 G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, tr.it. Milano, SugarCo, 1967, p. 35.
38
Inoltre, Lukacs viene citato anche sulle pagine della rivista Internationale
Situationniste, una sola volta, ma in maniera significativa: “Il dominio della
categoria della totalità è il portatore del principio rivoluzionario della scienza”37.
La categoria della totalità si rivela centrale tanto in Lukacs quanto in Debord.
Lo spettacolo, nella concezione di Debord, è allo stesso tempo economico e
ideologico, un modo di produzione e un tipo di vita quotidiana. Per i situazionisti,
quindi, è necessario portare avanti un giudizio di tipo globale che non si faccia
catturare soltanto da alcune delle diverse opzioni che apparentemente esistono
all’interno dello spettacolo; essi rifiutano perciò ogni cambiamento parziale. Per
questo motivo, ne La Società dello Spettacolo, Debord scrive che il grado di
alienazione degli operai ha raggiunto un punto tale che essi sono posti
“nell’alternativa di rifiutare la totalità della loro miseria, o niente” (SdS ¶ 112).
I vari aspetti in cui si presenta lo spettacolo (tendenze politiche diverse,
stili di vita e concezioni artistiche contrapposte) stimolano gli spettatori a
scegliere e a esprimere giudizi tra le alternative a disposizione, affinchè non
venga mai posto in dubbio l’insieme. I situazionisti, invece, sottolineano il loro
rifiuto in blocco delle condizioni esistenti, facendone un principio
epistemologico: “La comprensione di questo mondo non può fondarsi che sulla
contestazione. E questa contestazione possiede verità e realismo solo come
contestazione della totalità”38. Quest’affermazione è senza dubbio ripresa dalle
teorie di Lukacs, per il quale il pensiero borghese, più riesce a comprendere i
singoli “fatti” della vita sociale, meno è capace di afferrarne la totalità, con una
conseguente frantumazione dell’attività sociale e una parcellizzazione crescente
37 Internationale Situattioniste, n° 4, p. 31, Torino, Nautilus, 1994.38 Ivi, n° 7, pp. 9-10.
39
del lavoro. Un difetto, quest’ultimo, non solo della scienza borghese, ma anche di
un certo “marxismo volgare” tipico della Seconda Internazionale, che si fa
ingannare dalle apparenti contraddizioni tra sfera economica e sfera politica. A
detta di Lukacs, solo il marxismo autentico - con un metodo esplicitamente di
derivazione hegeliana - riconosce in tutti i fatti isolati dei momenti di un processo
complessivo e totale.
La scienza borghese, che prende per vero l’apparente autonomia delle
“cose” e dei “fatti” - studiandone le leggi -, rimane invischiata in quel feticismo
della merce che la vera critica deve dissolvere. Risulta evidente allora, perché,
secondo Storia e coscienza di classe il capitolo del Capitale sul “carattere feticcio
della merce cela in sé tutto il materialismo storico”39: un’affermazione inaudita
nel 1923. Questo effetto del feticismo, che trasforma i processi in cose, viene
chiamato da Lukacs “reificazione”.
Individuando nella struttura della merce la questione a cui deve essere
rimandato ogni problema relativo a questo grado di sviluppo dell’umanità,
Lukacs “presuppone” l’analisi che ne ha fatto Marx, mentre il suo contributo sta
nel considerare la merce come “la categoria universale dell’essere sociale
totale”40 . Il passaggio della merce da scambi occasionali alla sua produzione
sistematica non era soltanto di carattere quantitativo, come avevano creduto gli
economisti borghesi. Si trattava di un passaggio qualitativo, in cui la merce da
mediazione dei processi produttivi si trasformava in elemento centrale.
La grande novità di Lukacs sta nell’aver accentuato il carattere
“contemplativo” del capitalismo, in cui la funzione dell’individuo si riduce a
39 G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, tr.it. Milano, SugarCo, 1967, p. 224.40 Ivi, p. 111.
40
quella di un ruolo passivo all’interno del calcolo produttivo, riconoscendo
soltanto un’infima parte del mondo come suo prodotto, mentre tutto il resto
rimane al di fuori dell’attività cosciente, nonostante tutto ciò non escluda una
qualche attività, anche frenetica e spossante.
Rispetto alle altre epoche, nel capitalismo sviluppato esiste tra le varie
classi sociali solamente una differenza di grado nella reificazione. Reificato non è
soltanto l’operaio, che deve vendere la sua forza-lavoro come una cosa, ma anche
l’imprenditore, che contempla l’andamento dell’economia e lo sviluppo della
tecnica, oppure il burocrate che nella vendita offre le sue capacità psichiche. Nel
capitalismo tutti si limitano a cogliere un vantaggio in un sistema che è già pronto
e “definito una volta per tutte”41. Una situazione per cui l’uomo diventa sempre
più spettatore dell’automovimento delle merci, il quale gli appare come una
“seconda natura”42.
La contemplazione è senza dubbio legata alla separazione, dato che il
soggetto può contemplare solo ciò che gli si oppone come separato da lui. Molto
più di Marx, Lukacs collega la reificazione con la divisione del lavoro, in cui è
pressoché impossibile produrre un legame sociale che veda gli uomini
incontrarsi nella loro individualità e concretezza.
Il filo comune che lega in modo specifico Debord e Lukacs è la netta
condanna di ogni forma di contemplazione, nella quale essi vedono
un’alienazione del soggetto. Identificando il soggetto con la sua attività, Debord
vede nella contemplazione il non-intervento, l’esatto contrario del vivere. Infatti,
41 Ivi, pp. 127-128.42 Ivi, p. 168.
41
“non può esserci libertà al di fuori dell’attività, e nel quadro dello spettacolo ogni
attività è negata” (SdS ¶ 27).
La critica della natura contemplativa della società capitalista viene
ampliata da Lukacs con una dura messa in discussione della “dualità
contemplativa” tra soggetto e oggetto, in cui scorge l’errore fondamentale della
filosofia borghese. La filosofia precedente a Hegel, come già accennato,
considerava l’oggetto come entità a sé, separata e indipendente dall’attività del
soggetto. Solo la dialettica hegeliana ha scoperto come ambedue si risolvano nel
processo, poi identificato da Marx con il concreto processo storico che “sopprime
realmente l’autonomia già data e la rigidità delle cose”43. Lukacs sostiene che,
mentre la scienza non fa che cercare le leggi “che si realizzano nella realtà
oggettiva senza l’intervento del soggetto”, perpetuando la scissione tra soggetto e
oggetto, la lotta di classe invece ricostruirà l’unità di soggetto e oggetto,
ricomponendo l’uomo totale.
Nello spettacolo, la società frammentata viene illusoriamente ricomposta,
ed è questo il punto in cui Debord va oltre Storia e coscienza di classe. Si
confrontino, a questo proposito, due affermazioni, la prima di Lukacs: “La
meccanizzazione della produzione trasforma i lavoratori […] in atomi
astrattamente isolati che non si trovano più in una relazione reciproca, organica e
immediata, per via delle loro operazioni lavorative: la loro coesione è invece
mediata con crescente esclusività dalle leggi astratte del meccanismo nel quale
sono inseriti”44, la seconda invece di Debord: “Con la separazione generalizzata
del lavoratore e del suo prodotto, si perde ogni punto di vista unitario sull’attività
43 Ivi, p. 190.44 Ivi, p. 117.
42
compiuta, come ogni comunicazione personale diretta fra i produttori[…] l’unità
e la comunicazione diventano attributo esclusivo della direzione del sistema”
(SdS ¶ 26). Qui le leggi “astratte” non sono più una mera mediazione, ma si sono
ricomposte in un sistema coerente. Di fronte alla denuncia della perdita di ogni
totalità di Lukacs, Debord afferma come anche in seguito la banalizzazione
continui a governare il mondo (SdS ¶ 59), ma ormai in maniera da presentarsi
come falsa ricostruzione della totalità, una dittatura totalitaria del frammento.
Un modo apparente di inglobare la totalità che è particolarmente evidente
nell’estensione della reificazione oltre la sfera del lavoro. Già il giovane Marx
aveva rimproverato all’economia politica di non vedere l’uomo, ma solo
l’operaio, e di interessarsene solo quando lavora. Lo spettacolo invece si prende
“cura” dell’uomo intero, riservandogli nella sfera del consumo e del tempo libero
quell’attenzione che gli viene negata nel lavoro come altrove (SdS ¶ 49). Perfino
la ribellione e il malcontento possono diventare ingranaggio del meccanismo
spettacolare (SdS ¶ 59).
Ricomporre la scissione è un processo che non può avvenire sul piano del
solo pensiero: l’attività supera in maniera unica la contemplazione e l’uomo può
conoscere solo quello che ha fatto. Il valore della teoria del proletariato sta
proprio nel fatto che è una “teoria della praxis”, che Lukacs sostiene debba
diventare una “teoria pratica che trasforma la realtà”45. L’Internazionale
Situazionista, allo stesso modo, sottolineava l’importanza fondamentale di una
partecipazione pratica, rimproverandone l’astensione a tutti quelli che si
dipingevano come detentori di verità più o meno esatte. Il giudizio di Debord, a
45 Ivi, p. 271.
43
questo riguardo, è chiaro: “la teoria della prassi si conferma divenendo teoria
pratica” (SdS ¶ 90). L’unica possibile negazione dell’ordine esistente può essere
data soltanto dalla pratica rivoluzionaria.
3.2 La questione del soggetto-oggetto
La tesi filosofica di Storia e coscienza di classe è l’identificazione di
soggetto e oggetto, ossia l’esigenza che il soggetto non ammetta un oggetto
indipendente al di fuori di sé. Una concezione che Lukacs definirà idealista e che
lo porterà in seguito, come abbiamo visto, a rinnegare il suo testo. Questa
identificazione, secondo il filosofo, vuole abolire, insieme con l’alienazione, ogni
oggettività. Nella prefazione all’edizione del 1967, Lukacs spiegherà che tale
concetto accetta, senza accorgersene, l’identificazione hegeliana dei due termini
non tenendo conto della definizione marxiana di oggettivazione come “modo
naturale – positivo o negativo – di dominio umano nel mondo, mentre
l’estraneazione è un tipo particolare di oggettivazione che si realizza in
determinate circostanze storiche”46. Lavoro e linguaggio, ad esempio, sono
oggettivazioni, ma l’estraneazione nasce solo quando l’essenza dell’uomo si
oppone al suo essere. Con l’identificazione dei due concetti, Storia e coscienza di
classe ha involontariamente determinato l’estraneazione come una conditio
humana; Lukacs successivamente, vedrà in esso “un grossolano errore” che ha
contribuito in notevole misura al successo dell’opera.
Debord ha cercato di evitare quel grossolano e fondamentale errore e
ricorda che Marx si era liberato “dal percorso dello Spirito hegeliano che muove
46 Ivi, p. XL.
44
incontro a se stesso nel tempo, la cui oggettivazione equivale alla sua
alienazione” (SdS ¶ 80). Debord, infatti, non vede l’oggettivazione come qualcosa
di necessariamente cattivo, anzi rivendica come propriamente umano il perdersi
del soggetto nelle mutevoli oggettivazioni apportate dal tempo e da cui torna
arricchito. Ben diversa è invece quell’alienazione in cui il soggetto si trova di
fronte a delle astrazioni ipostatizzate come un qualcosa di assolutamente altro:
Debord contrappone all’alienazione necessaria del tempo, individuata da Hegel,
un’ alienazione spaziale, quella per lui dominante, dove “la società che separa alla
radice il soggetto dall’attività che gli sottrae, lo separa innanzitutto dal suo
tempo” (SdS ¶ 161). Come già era stato per Lukacs, la spazializzazione del tempo
è uno dei modi fondamentali della reificazione. Pertanto, “all’inquieto divenire
della successione del tempo, che è un’alienazione necessaria” (SdS ¶ 170) si
oppone lo spazio, caratterizzato per il suo non-movimento. I situazionisti, in
effetti, hanno sottolineato in molte occasioni come il loro atteggiamento dovesse
identificarsi con il passaggio del tempo.
Debord deve presumere che la reificazione si infranga contro un soggetto
che nella sua essenza è irriducibile alla reificazione, portatore cioè di esigenze e
desideri diversi da quelli appartenenti a essa. Il sospetto che il soggetto possa
essere all’interno eroso dalle forze dell’alienazione sembra assente dalle pagine
sia di Storia e coscienza di classe, sia de La Società dello Spettacolo. Dalle parole di
Debord, notiamo come egli concepisca lo spettacolo come una forza che agisce
dall’esterno sulla “vita”, affermando che esso è al contempo una parte della
società ed è la società intera (SdS ¶ 3). Per quanto lo spettacolo tenda poi a
invadere materialmente la “realtà vissuta” (SdS ¶ 8), questa ne è distinta e ne è
45
addirittura l’opposto. Deve dunque esistere un soggetto sostanzialmente “sano”,
altrimenti non si potrebbe parlare di falsificazione della sua attività. Alienato non
è il soggetto stesso, ma il suo mondo, quando quest’ultimo ne è il riflesso
“infedele” (SdS ¶ 16). Il mondo oggettivo, però, qualora non fosse che il “riflesso
fedele” del suo produttore, non avrebbe esistenza autonoma: vi ritroviamo
dunque la teoria del soggetto-oggetto identico.
3.3 La condizione e il ruolo del proletariato nella società spettacolare
Sia Debord che Lukacs individuano nel soggetto resistente alla reificazione
il proletariato, definendo la sua essenza non nelle condizioni economiche, ma
nella sua opposizione alla reificazione. La coscienza di classe, secondo Lukacs,
non è un dato empirico immediatamente riscontrabile nella classe, ma un dato in
sé che va ascritto di diritto alla classe stessa. Se la reificazione coinvolge tutte le
classi, la borghesia si trova però a suo agio, essendo quello della merce il suo
dominio. L’operaio, invece, si trova ad essere sempre e comunque un oggetto
dell’accadere: dovendo vendere la sua forza lavoro come merce, è sempre lui la
merce principale del capitalismo. Quindi, l’unica classe interessata al
superamento della reificazione è il proletariato, che, ridotto a semplice oggetto
del processo lavorativo, riconosce di esserne il vero autore : la sua coscienza è l’
“autocoscienza della merce”47. La reificazione è destinata ad essere superata
quando raggiunge il suo grado più alto: quando ogni aspetto umano si sarà
allontanato dalla vita del proletariato, questo può riconoscere in ogni
oggettualità un rapporto tra uomini, mediato da cose48. Dalla forma di
47 Ivi, p. 222.48 Ivi, p. 232.
46
reificazione più evidente - il rapporto tra capitale e lavoro salariato - il
proletariato scoprirà tutte le altre forme di reificazione, ricostituendo la totalità,
ossia quel “processo complessivo nel quale la processualità arriva ad affermarsi
senza falsificazioni, la cui essenza non è intorpidita da alcuna fissazione [e che]
rappresenta una realtà più vera e più alta”49.
Superando gran parte degli osservatori degli anni sessanta, Debord
sostiene che il proletariato continui ad esistere, definendolo come “l’immensa
maggioranza di lavoratori che hanno perduto l’impiego sulla loro vita”, incapaci
di “modificare lo spazio-tempo sociale che la società concede loro di consumare”.
Sia Lukacs che Debord sono accomunati dalla convinzione che la condizione del
proletariato stia diventando quella della società intera. La sottomissione della
vita alla merce e alle sue regole di calcolabilità e quantificazione, ha fatto della
reificazione “il destino generale dell’intera società”50 , dando luogo a una vera e
propria “proletarizzazione del mondo” (SdS ¶ 26) che Debord vede come il
risultato della vittoria del sistema economico della separazione. Anche il lavoro
delle classi medie si svolge ormai in condizioni proletarizzate.
Una situazione che vent’anni più tardi nei Commentari alla Società dello
Spettacolo, Debord capovolgerà: se prima aveva annunciato la sparizione delle
classi medie nel proletariato, ora queste occupano tutto lo spazio sociale, con il
regno dello spettacolo espressione. Le loro condizioni si sono proletarizzate, nel
senso di privazione di ogni potere sulla vita, ma manca loro la coscienza di classe
del proletariato.
49 Ivi p. 243.50 Ivi, p. 118.
47
Lo spettacolo non garantisce mai al proletariato una vita ricca in termini
qualitativi, dato che alla sua base vi è la quantità e la banalità. Nella società
spettacolare vi è stato un aumento dell’estensione della classe proletaria, e,
nonostante possano essere soddisfatte le sue richieste economiche, lo spettacolo
lo ha privato di tutte le possibilità di ricchezza umana di cui crea le basi,
impedendolo di usare per un libero gioco ciò che l’economia spettacolare utilizza
per un continuo incremento della produzione alienata e alienante. Per questo
motivo il proletariato si trova ad essere “il negativo all’opera”, il nemico
dell’esistente, che, dinanzi alla totalità dello spettacolo, non può che
contrapporre un’azione progettuale a sua volta totale. Una “redistribuzione delle
ricchezze” o una “democratizzazione” della società sarebbe poca cosa.
La vera contraddizione sociale è allora tra chi vuole - o piuttosto deve -
mantenere l’alienazione e chi vuole abolirla. In altre parole, tra coloro che non
possono andare oltre la separazione tra soggetto e oggetto, e coloro che invece vi
tendono.
Secondo Debord, si può supporre che il proletariato sia rivoluzionario
nella sua essenza, in sé: se lo dimostra poco, questo è dovuto al fatto che non è
ancora pervenuto al suo essere per sé, alla coscienza del suo vero essere, minata
dalle illusioni e da chi le maneggia per il proprio tornaconto. La questione “non è
sapere cosa gli operai sono attualmente, ma che cosa possono diventare: solo così
si può comprendere quello che sono già”51. Una tale definizione è evidentemente
molto lontana da quella di Marx, per il quale il proletariato è la classe
rivoluzionaria non per via della sua insoddisfazione, ma poiché il suo posto nel
51 G. Debord, La veritable scissions dans l’Intenrnationale, Paris, Artheme Fayard, 1997, p. 122.
48
processo di produzione, la compattezza e la massiccia partecipazione in pochi
luoghi, gli danno i mezzi per rovesciare l’ordine esistente.
La figura concreta che il proletariato assume in quanto soggetto-oggetto
identico sono i Consigli operai attraverso i quali i proletari possono prima
condurre la lotta e poi amministrare una futura società libera. Nei Consigli sarà
centrale l’attività in prima persona, che sostituirà finalmente la contemplazione
delle azioni di un partito o di un capo. Sarà il luogo dove il movimento proletario
“è il proprio prodotto, e questo prodotto è il produttore stesso” (SdS ¶ 117) , e
verrà abolita ogni separazione e specializzazione, a favore della concentrazione
di tutte le funzioni di decisione e di esecuzione. I Consigli operai, lungi
dall’essere un’istituzione sociale che supera quelle borghesi, sono in realtà
qualcosa di più: la costituzione della comunità umana in cui tutto il mondo
oggettuale sarà creazione del soggetto52.
Se Debord vede nel processo storico l’identificazione in sé di soggetto e
oggetto, sarà invece la lotta storica a costituire lo sforzo per farli coincidere per
sé. Il soggetto della storia non può essere che il vivente che produce se stesso,
diventando in tal modo signore e padrone del suo mondo. Questo “farsi signore”
non può essere inteso nel senso di uno sviluppo delle forze produttive che porti
prima al potere la borghesia e poi il proletariato. Qui sta la maggiore critica che
La Società dello Spettacolo muove a Marx: quella di aver ceduto “dai tempi del
Manifesto” a una concezione lineare della storia, che identifica “il proletariato con
la borghesia dal punto di vista della conquista rivoluzionaria del potere” (SdS ¶
86). Debord invece sottolinea come “la borghesia è la sola classe rivoluzionaria
52 A. Jappe, Guy Debord, Roma, Manifesto Libri, 1999, p. 40.
49
che sia mai stata vincitrice” (SdS ¶ 87), poiché la sua vittoria nella sfera politica
era una conseguenza della sua precedente vittoria nella sfera della produzione
materiale. Il proletariato non può impossessarsi degli strumenti della borghesia,
visto che la sua economia e il suo Stato non sono altro che un’alienazione e una
negazione di ogni vita cosciente. Il rischio sarebbe una nuova schiavitù, come è
avvenuto in Russia e in altri paesi.
Debord rifiuta una spiegazione solo scientifica della storia: il vero motore
della storia è la lotta di classe, la quale non è un mero riflesso dei processi
economici. Bisogna invece organizzare le “condizioni pratiche della coscienza”
(SdS ¶ 90) dell’azione proletaria, e non affidarsi a uno sviluppo che avviene come
un processo naturale.
IV. I COMMENTARI: L’AVVENTO DELLO SPETTACOLARE INTEGRATO
50
Nel 1988, poco più di vent’anni dopo l’uscita de La Società dello Spettacolo,
Debord ritorna con i Commentari sulla società dello spettacolo, in cui porta avanti
e conclude le argomentazioni della sua prima opera. Il punto centrale dei
Commentari è la constatazione dell’ avvento dello “spettacolare integrato”. Infatti,
se ne La Società dello Spettacolo Debord aveva distinto due forme di spettacolo -
quello “diffuso”, proprio delle democrazie occidentali, dominate dal consumismo,
e quello “concentrato” dei regimi totalitari -, con lo “spettacolare integrato”
assistiamo a una fusione di entrambe in un’unica forma, che ha conosciuto il suo
trionfo in Italia e Francia.
A differenza dei due precedenti stadi, allo “spettacolare integrato” non
sfugge più nessuna parte della società reale: questa non gli sta più dinanzi come
qualcosa di estraneo, ma viene ricostruita dallo spettacolo a suo piacimento (“il
senso dello spettacolare integrato è che si è integrato nella realtà stessa man
mano che ne parlava”53). Il successo raggiunto dallo spettacolo sta dunque nella
sua continuità, che non risiede in un perfezionamento della sua strumentazione
mediale, ma nel fatto che ha potuto “allevare una generazione sottomessa alle sue
leggi”54. Ciò comporta che chi vi è cresciuto parli il linguaggio dello spettacolo,
anche se le sue intenzioni soggettive fossero completamente diverse. In un
sistema di governo così perfetto, le stesse aspirazioni a prenderne il possesso
sono regolate dagli stessi metodi spettacolari.
Nei Commentari assistiamo alla scomparsa dei toni ottimistici che pur
avevano accompagnato Debord sino al 1979. Come premessa alle sue
osservazioni egli sosterrà che “questi commentari non considerano ciò che è
53 G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 1997, p. 194.54 Ivi, p. 193.
51
auspicabile o semplicemente preferibile. Si limiteranno a rilevare ciò che
esiste”55. Debord non vede più alcuna forza all’opera organizzata contro lo
spettacolo, anche se non esclude la possibilità che esse possano rinascere, dato
che soltanto i governi sono fermamente convinti dell’assenza di condizioni per
una rivoluzione. D’altra parte, le lotte in corso nell’epoca dello spettacolare
integrato sono frequenti, ma la loro caratteristica è di celare l’essenziale
attraverso il segreto e la falsificazione. Di regola si tratta, secondo Debord, di
cospirazioni in favore dell’ordine esistente, ma che assumono i connotati di
controrivoluzione preventiva, come nel caso del terrorismo, alimentato per far
apparire, in confronto, lo Stato come male minore. In una situazione del genere,
la cosiddetta “concezione poliziesca della storia”, sintesi delle cospirazioni,
dell’attività dei servizi segreti e delle macchinazioni della polizia, passa da mera
visione riduttiva a “piattaforma centrale girevole” delle società spettacolari: sono
i servizi segreti, e tante altre formazioni che lavorano in quest’ambito, a
diffondere una grande quantità di informazioni contrastanti su ogni aspetto della
vita, con la conseguenza che è impossibile farsi un’idea precisa su qualsiasi cosa.
L’individuo, in tal senso, è in contatto con il mondo solo attraverso immagini che
sono state scelte da altri, i quali vi possono inserire qualsiasi contenuto.
Lo spettacolo lotta con il passato storico, cancellandone ogni traccia
autentica e creando un presente perpetuo, sperando così di farsi accettare, per
mancanza di confronto, come l’unica possibilità. In queste condizioni, con la
scomparsa di ogni memoria storica a favore di una continua ripetizione di
pseudo-novità, si assiste alla dissoluzione di ogni logica, non solo di quella
55 Ivi, p. 191.
52
dialettica, ma anche di quella semplicemente formale.56 La verità è ora dettata
dallo spettacolo (“ciò di cui lo spettacolo può smettere di parlare per tre giorni è
uguale a ciò che non esiste”57) nella sua sequela di ripetizioni, pronte a
rimodellare anche il passato o l’immagine pubblica di una persona, e,
nell’occasione, a scagliare l’accusa di “disinformazione” nel caso in cui la verità
dovesse venire a galla58.
In una miriade di informazioni e falsificazioni che si sovrappongono le une
alle altre (spesso molte di queste sono “trappole” per distogliere da
qualcos’altro) diventa perciò impossibile una lettura genuina, con la conseguenza
che non può formarsi più neppure “un’opinione pubblica”. Nessuno scandalo
desta più implicazioni rilevanti, e quelli che prendono decisioni dicono anche “ciò
che ne pensano”59. L’essenza stessa dei “cittadini” è ormai compromessa, e così
anche la critica sociale, che rientra tra le vittime di questa opera di falsificazione.
Lo spettacolo elabora “una critica sociale da allevamento”, atta a soddisfare la
curiosità di coloro che non si accontentano delle solite spiegazioni, ma a cui
manca ugualmente l’essenziale.
“Chi non fa che guardare per sapere il seguito, non agirà mai: proprio così
deve essere lo spettatore”60: è questa, forse, la frase che più sintetizza l’ultimo
stadio raggiunto dallo spettacolo, un meccanismo deplorevole in cui anche
l’economia non riesce a far valere le proprie leggi di razionalità, togliendo allo
spettacolo ogni visione strategica, in un’azione che va sempre di più contro la
stessa sopravvivenza dell’umanità, come nel caso del nucleare. 56 Ivi, pp. 206-209.57 Ivi, p. 201.58 Ivi, pp. 220-221.59 Ivi, p. 192.60 Ivi, p. 203.
53
Nonostante il pessimismo che aleggia nei Commentari, Debord non sembra
dichiarare in maniera esplicita la vittoria finale dello spettacolo, momento in cui
la forma-merce completa la sua occupazione della società. Anzi, lo spettacolo si
regge invece su una “perfezione fragile”, in cui non è riformabile nessun dettaglio.
Infatti, l’abbandono totale di ogni razionalità rende difficile la gestione della
società anche ai suoi stessi amministratori, in un sistema dove ormai si è
smarrito qualsiasi - benché minimo - riferimento. Inoltre, la contestatissima
affermazione di Debord, secondo cui le opposizioni siano ormai scomparse,
poiché tutti starebbero “dentro” il sistema, risiede nel fatto che si sono
definitivamente esaurite le opposizioni immanenti, come il classico movimento
operaio o “i movimenti di liberazione” del Terzo Mondo. Il ruolo delle opposizioni
immanenti finisce quando è il sistema della merce in quanto tale a entrare in
crisi. Parlando di “dissoluzione evidente dell’insieme del sistema”, Debord
individua nella crisi della forma-valore diverse conseguenze. Tra le più rilevanti
vi è sicuramente l’esaurirsi della “società del lavoro”: per mandare avanti la
produzione è necessaria solo una minima quota di lavoro, ma di contro vi è
bisogno di fortissimi investimenti di capitale fisso, possibile solo ai paesi più
progrediti. In tal modo, gran parte del mondo è già tagliata fuori dalla
competizione, poiché, nonostante crei beni d’uso, non riesce invece a impiegare il
lavoro vivo in modo da produrre valore di scambio sul mercato mondiale. Il
problema di straordinaria attualità che si pone oggi al capitale, riguarda proprio
cosa fare con la grande maggioranza dell’umanità di cui non ha bisogno come
lavoro vivo.
54
Le affermazioni di Debord potevano apparire sorprendenti all’uscita dei
Commentari: in una critica che ha spinto tanto lontano la ricerca dei meccanismi
del potere, una concezione quasi “primitiva” del dominio - fatta di spie e di
intrighi - poteva apparire banale e riduttiva. Tuttavia, se si va al riscontro coi
fatti, è innegabile che Debord abbia trovato numerose conferme negli anni a
venire. Il lettore italiano, in particolare, è forse quello che ha meno bisogno di
ulteriori spiegazioni per rendersi conto della preveggenza dei Commentari: lo
stretto connubio tra mafia e politica, sommerso di logiche clientelari e avente
come base versioni contraddittorie, ne è una dimostrazione. Lo stesso si può
affermare per “Le Stragi di Stato” e, più recentemente, per le implicazioni
connesse all’avvento del “belusconismo” nella situazione politica italiana.
L’intento di Debord era quello di sottolineare la commistione tra antichi e
moderni metodi di dominio, e in Italia ne possiamo trovare un esempio
lampante61.
V. DEBORD E IL MARXISMO: NOVITÀ E PROSPETTIVE DELLA TEORIA
61 A. Jappe, Guy Debord, Roma, Manifesto Libri, 1997, p. 144.
55
Nei paragrafi precedenti si è messo in evidenza come la teoria critica di
Debord sia strettamente collegabile con le riflessioni della filosofia di Marx. È
opportuno allora considerare il posto di Debord e della critica situazionista
nell’ambito del dibattito marxista francese, al fine di individuarne possibili
assonanze e divergenze con i vari indirizzi di pensiero che ne hanno fatto parte.
Bisogna innanzitutto dire che il marxismo francese ha privilegiato alcuni
aspetti dell’opera di Marx rispetto ad altri. Infatti, si è sempre dato un posto più
rilevante al Marx critico dell’ “alienazione dell’essenza umana”, piuttosto che al
Marx della “critica dell’economia politica”. Ciò perché i marxisti francesi
preferivano attenersi alla sfera sociale e alla “sovrastruttura”, dando luogo ad
analisi più di carattere astratto e filosofico, con accenti talvolta etici ed estetici
(come Sartre, Lefebvre, Althusser). Alla base di questo atteggiamento vi era
l’equivoco insito nel rifiuto del determinismo economicistico, che, identificato
spesso con lo stalinismo, portava a confondere il carattere deterministico del
capitalismo con la sua approvazione. In tal modo, considerando il soggetto come
indipendente e l’autonomizzazione delle leggi economiche come pura parvenza, i
marxisti francesi non riuscivano però a fornire una valida risposta al carattere
feticistico della società della merce.
Debord non si sottrae a questa visione. Il suo pensiero è riconducibile a un
“soggettivismo” che crede di riportare l’automatismo del valore all’azione
cosciente di soggetti presupposti. Proprio da questa concezione è intuibile come
il pensiero di Debord sia radicalmente diverso da quello predominante negli
anni sessanta (che era anti-hegeliano, anche quando si voleva marxista),
presentando invece molte assonanze con la generazione filosofica degli anni
56
cinquanta, in particolare con la matrice esistenzialistica. Il marxismo umanista e
storicista di Sartre, ad esempio, presenta molti punti in comune con le idee dei
situazionisti, nonostante questi lo disprezzino a tal punto da definirlo un
“imbecille”62.
È innegabile, tuttavia, che i temi della situazione, del progetto, del vissuto,
della prassi, tanto cari ai situazionisti, sono presenti anche in Sartre, anche se in
termini diversi. La ferma convinzione che l’uomo crei nella storia il proprio
destino, la contrapposizione tra le cose e gli uomini, il ruolo centrale di un
soggetto forte, trovano dei riscontri effettivi in Debord.
Inoltre, gli equivoci relativi alla comprensione di Marx erano determinati,
in Francia, da una resistenza culturale nei confronti di Hegel. Quando il suo
pensiero è entrato a far parte del mondo intellettuale francese, lo ha fatto solo in
quanto “esistenzialista”. Così, in un ambiente in cui spesso essere marxisti
significava non essere hegeliani (e viceversa), Debord resta uno dei pochi hegelo-
marxisti francesi. La dimostrazione non sta soltanto nelle citazioni hegeliane
sparse nelle sue opere, ma anche e soprattutto nell’influenza dell’interpretazione
di Hegel fornita da Alexander Kojéve nei suoi corsi degli anni trenta. Questi
tendeva a sottolineare, nella filosofia hegeliana, il valore della lotta e dell’aspetto
tragico, in un’interpretazione centrata sull’uomo e sulla sua storia. Secondo
Kojéve, la direzione dell’agire umano sta nel desiderio, che si esprime come
consapevolezza di una mancanza, di un negativo. Nel negare la datità delle cose,
l’uomo crea, e crea pure la verità, giacchè anch’essa è un prodotto dell’agire
storico.
62 Internationale Situationniste, Paris, Arthème Fayard, 1997; tr.it. Torino, Nautilus, 1997, n.10, p.79.
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In questo senso è possibile rintracciare anche in Debord e nei situazionisti
un rapporto con il negativo, che, seppur complesso e non privo di critiche, lo
pone come caposaldo della loro riflessione sull’agire. La negazione è infatti
intesa come distruzione dell’ordine esistente, processo necessario prima di
ricostruirne un altro.
Una tale concezione permette di comprendere anche le discordanze della
teoria di Debord con lo strutturalismo, definita “la principale ideologia
apologetica dello spettacolo” (SdS ¶ 196), che intende fissare le condizioni attuali
della società in strutture immutabili, nell’idea di una “storia senza soggetto”. Se
però sono le strutture, o il linguaggio, o le pulsioni libidinali (come nella critica
dei situazionisti alla psicanalisi) a essere il soggetto della storia, non può esistere
un’“essenza” dell’uomo a cui attentano strutture sociali inadatte. Infatti,
individuare le cause del male in fenomeni generalissimi e non in fenomeni storici
concreti (come lo Stato e l’economia mercantile) sarebbe insensato, soprattutto
nel momento in cui sia doveroso proporre il loro superamento.
Un altro grave errore sta nell’annettere Debord alle teorie “postmoderne”
centrate sulla comunicazione, l’immagine e la simulazione. Identificare lo
spettacolo con la dipendenza dai mezzi di comunicazione e ascrivere Debord a
“profeta” delle teorie dei mass-media può davvero indurre in confusione.
Il problema non sta soltanto nell’infedeltà dell’immagine a ciò che
rappresenta, ma nello stesso stato della realtà da rappresentare. È importante
distinguere la falsa rappresentazione della realtà data da una concezione
superficiale del feticismo della merce dalla distorsione che interviene nella
produzione della realtà da parte dell’uomo. Ciò che Debord condanna non è
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l’immagine in quanto tale63, ma la forma-immagine in quanto sviluppo della
forma-valore. Come quest’ultima, la forma-immagine precede ogni contenuto e
fa sì che le lotte tra i diversi attori sociali non siano altro che lotte distributive.
D’altro canto, l’effettiva novità della teoria di Debord sta nell’aver posto
l’accento sul ruolo fondamentale dello scambio e del principio di equivalenza
nella società contemporanea. Ne è un esempio il ruolo centrale che aveva già per
i giovani lettristi il potlatch64, forma che voleva presentarsi come alternativa
all’economia di scambio. Costruire quindi una teoria che ruotasse attorno alla
categoria dello scambio era un importante progresso rispetto al marxismo del
movimento operaio, che teneva conto solo dello scambio “sbilanciato” costituito
dalla vendita della forza-lavoro. Secondo l’ottica di questi marxisti, la centralità
dello scambio dà rilevanza alla sfera sociale e ai rapporti intersoggettivi, a scapito
della relazione tre l’uomo e la natura, cioè dell’oggettività, a cui indurrebbe
invece l’analisi della produzione.
Se assunto da tale prospettiva, lo spettacolo sembra assolutizzare ciò che
si può chiamare la sovrastruttura, la sfera del consumo, il sociale. Tuttavia,
Debord, nonostante l’importanza data alla “sovrastruttura” nelle sue analisi,
respinge ogni tentativo di questo tipo, ricordando come lo spettacolo sia “un
63 In questo senso, Debord è molto chiaro: “Gli inganni dominanti dell’epoca sono sul punto di farci dimenticare che la verità può essere vista anche nelle immagini. L’immagine che non è stata intenzionalmente separata dal suo significato aggiunge molta precisione e certezza al sapere. Nessuno ne ha dubitato fino a pochissimi anni fa.” (Panegirico, Tomo secondo)64 Il potlatch è una pratica di alcune tribù canadesi, esistente all’inizio del secolo e rintracciabile in forme simili anche in molte altre culture. Si tratta di una particolare forma di scambio in cui vi si afferma il prestigio della persona o del gruppo tramite un dono fatto al rivale. Questo risponde a sua volta con un dono più grande, in un gioco al rialzo che sovverte il concetto stesso di valore. Invece che sull’equivalenza, il potlatch si basa sullo sperpero delle proprie risorse che vengono date via senza la certezza, o addirittura con il desiderio segreto, di non riceverne un valore equivalente. Il concetto fu introdotto nell’etnologia da Marcel Mauss (Saggio sul dono, 1924) e ripreso nella discussione francese da George Bataille (La parte maledetta, 1949).
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momento dello sviluppo della produzione della merce” negando l’affermazione
secondo la quale “la produzione della fantasmagoria comanda quella delle merci”.
Il concetto di spettacolo analizza il modo in cui l’astrazione trasforma
tanto il pensiero quanto la produzione, andando in tal modo nella direzione di un
superamento dell’opposizione dualistica tra “base” e “sovrastruttura”, tra
“apparenza” ed “essenza”, peculiarità di un “marxismo” che non aveva compreso
che il valore è “un fatto sociale totale”, origine delle stesse divisioni in diverse
sfere. Il rifiuto di questa distinzione, della “dialettica” con cui questo marxismo
definiva i rapporti vicendevoli tra le diverse sfere, non è un difetto dei
situazionisti, ma un progresso teorico che si può a ragione richiamare a Hegel e
Marx. A questo si affianca la negazione di mettere alla base della propria teoria il
“lavoro”, inteso come “ricambio organico con la natura”, come affermato da
Lukacs nel 1967. Una concezione del genere trasforma in un’eterna necessità
ontologica ciò che è una caratteristica specifica del capitalismo. Se inteso invece
come modalità di organizzare questo ricambio, il lavoro è invece un dato storico,
impostosi a larga scala con l’avvento del capitalismo e potenzialmente superato
dal suo stesso sviluppo. Lo “scambio” di unità di lavoro oggettivate in merci
sarebbe superfluo in un modo di produzione immediatamente socializzato. Il
modo di produzione presente lo è già largamente sul piano materiale, ma non
riesce a liberarsi da un sistema in cui il singolo partecipa al prodotto complessivo
solo tramite la sua quota di lavoro individuale. In ciò Debord e i situazionisti
hanno anticipato, da una prospettiva marxista, un fenomeno attualissimo.
La novità apportata da Debord ha anche una motivazione, per così dire,
storiografica. Le sue idee sono state favorite dal fatto di essere partite da
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considerazioni sull’arte, caratteristica frequente nella tradizione francese, che
generalmente privilegia l’aspetto sociale rispetto all’economia. In ciò si
nasconde, inoltre, una giustificata opposizione a un “marxismo” che si era ridotto
a garante della modernizzazione economica. Dall’estraneità e dalla frattura con
la critica sociale antecedente, Debord e i situazionisti sono riusciti a individuare
alcuni aspetti della teoria di Marx che nel dibattito marxista erano da tempo
seppelliti, vittime di un’eccessiva sofisticazione teorica. In tal modo, essi hanno
potuto dire qualcosa di nuovo in quell’ambito, inserendosi nel solco di una
continuità della riflessione su Marx in grado di aprire prospettive originali e di
straordinaria preveggenza. Ciò è riscontrabile nella convinzione che anche le idee
di Marx dovevano essere sottoposte a détournement, essere cioè stravolte e
inserite in un nuovo contesto. Una predisposizione che affonda le proprie radici
molto prima che Debord riflettesse sulla teoria marxista, nell’esperienza della
decomposizione delle arti. Questa origine artistica ha poi incontrato delle
difficoltà quando si è trattato di passare dalle parole ai fatti, o meglio, dalla
semplice setta a movimento di massa.
I diversi marxisti, inoltre, si sono mossi sempre all’interno di una
socializzazione creata dal valore, limitandosi a chiedere un’organizzazione più
giusta e una liberazione promessa per un lontanissimo futuro, solo dopo aver
esteso alla popolazione le forme sociali create dalla merce. È soltanto nelle
avanguardie artistiche, invece, che si è espressa, per quanto ingenuamente,
l’esigenza di una liberazione dal concreto che rimandasse oltre la società
industriale, oltre le categorie create dalla forma-merce. L’effettivo merito di
Debord e dei suoi amici situazionisti sta nell’essere arrivato là dove non erano
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giunte altre iniziative di rivalutazione marxista, che lungo la strada avevano
dimenticato l’importanza di una critica della forma-valore o del feticismo,
assimilando elementi presi da altre discipline, quali l’antropologia o la psicologia.
Debord è stato uno dei pochi in grado di portare la critica sociale oltre le diverse
varianti del marxismo da movimento operaio che aveva vissuto i suoi ultimi
successi nel ’68 prima che il processo di modernizzazione si portasse verso la
catastrofe. Capire che quasi tutte le opposizioni al capitalismo avevano centrato
soltanto aspetti estranei a quello della forma-valore si è rivelata un’intuizione
non facile, in cui i meriti delle avanguardie artistiche, con la loro funzione critica
di distruzione delle forme tradizionali, rivendicano un posto di rilievo.
L’attualità di Debord sta nell’aver dato un nuovo fondamento
all’osservazione del giovane Marx secondo cui l’economia politica è “la negazione
totale dell’uomo”. Con due libri di irata sapienza, Debord è riuscito a tendere un
filo che riporta Marx nella riflessione contemporanea, nelle conseguenze che più
di trent’anni dopo l’avvento de La Società dello spettacolo sono diventate note
agli occhi di tutti. La necessità, dettata dai tempi, di una nuova teoria critica, e di
una prassi conseguente, non disdegnerà affatto di tener conto del valore del
contributo di Debord.
BIBLIOGRAFIA
62
Scritti di Guy Debord
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- http://www.filosofico.net/socspettdebord.htm (A.Pesce, La Società dello spettacolo, da Pierpaolo Pasolini a Guy Debord: la metamorfosi neo-capitalistica in attività contemplativa).
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