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LA MEMORIA,
EVOLUZIONE DELLA PREFABBRICAZIONE
D’EMERGENZA
CAPITOLO 5
LA MEMORIA, EVOLUZIONE DELLA PREFABBRICAZIONE D’EMERGENZA
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Cedric Price
Nel passato, soprattutto a livello teorico, personalità e movimenti dell’avanguardia architet-
tonica si sono interessati ed appassionati alle grandi potenzialità che offre un’architettura
leggera e mobile.
Basti pensare alle glorificazioni delle macchine delle avanguardie futuriste e costruttiviste o
ai sistemi urbani di Cedric Price dall’obsolescenza breve e programmata, fino alle deliranti
macrostrutture del gruppo inglese degli Archigram,
autori di proposte altamente innovative di unità di
abitazione semoventi o interi edifici, simili a giganteschi
ragni che si aggirano per le città concepite, anche
queste, su principi di tale mobilità, modificabilità,
smontabilità e trasformabilità, come la nota “città che
cammina” del 1964.
L’interesse per un’architettura caratterizzata dalla
temporaneità delle opere risale a molto tempo fa, quando
particolari strutture, anche di notevoli dimensioni, venivano concepite secondo criteri della
leggerezza, economicità, facilità di montaggio e smontaggio. I ponti a struttura reticolare in
legno, illustrati da Palladio nel suo trattato “I quattro libri dell’architettura”, sono esempi
molto significativi a riguardo, così come il Palazzo di Cristallo di Joseph Paxton, realizzato
nel 1951 in occasione dell’Esposizione Universale di Londra.
Una proposta di Casa Mobile appare per la prima volta nella manualistica italiana nelle edi-
zioni dell’Hoepli 1910.
Si tratta di una riproduzione in piccola scala di un’abitazione unifamiliare, ad una
elevazione, opportunamente sezionata in un numero di parti avente dimensioni tali da poter
essere trasportate su ruote, compatibilmente con la viabilità dell’epoca. Bisognerà attendere
gli anni trenta per dare avvio, nel nostro Paese, alle prime ricerche su strutture smontabili e
trasportabili; ricerche condotte nell’ambito del programma di intervento per il
ripopolamento delle colonie fasciste, durante l’occupazione etiopica.
Capitolo
5
LA MEMORIA, EVOLUZIONE DELLA PREFABBRICAZIONE D’EMERGENZA
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Crystal House
Intanto, negli anni venti, in Francia, Le Corbusier profetizzava la diffusione della “casa
macchina” e ideava la “Maison Voisin”, prototipo di una nuova tipologia di unità abitativa,
frutto dell’integrazione del concetto di alloggio minimo e quello di automobile.
Negli Stati Uniti, sin dai primi decenni del ‘900, vengono portate avanti innumerevoli
sperimentazioni sul tema della casa concepita come insieme di più parti assemblate, tra
queste si ricordano le cosiddette “case portatili Hodgson”, prodotte negli Stati Uniti a
partire dal 1982:
erano costruzioni a struttura lignea, eseguite con particolare sistema costruttivo che ne con-
sentiva la costruzione in fabbrica a sezioni.
Ogni sezione, larga 1,80 m era composta da cinque parti separate (due pannelli parete, due
pannelli copertura, un pannello pavimento), che venivano unite insieme sul posto. le
diverse sezioni, affiancate, venivano successivamente collegate per mezzo di un particolare
sistema a cunei.
Simili a queste sono le abitazioni in legno prodotte dall’agenzia Aladdin, articolate come
veri e propri Kits abitativi da ordinare su cataloghi; o i modelli abitativi realizzati negli anni
‘30 dalla General Houses Corporation, fino ai prototipi “House of tomorrow” e “Crystal
House”, presentati alla Century of Progress Exihibition di Chicago del 1933. La prima,
proposta dai fratelli Keck, era realizzata con telai metallici e pareti vetrate e dotata di un
sistema di riscaldamento e condizionamento dell’aria autonomo. La seconda unità abitativa
era invece caratterizzata da un particolare sistema strutturale che ne permetteva un facile e
veloce montaggio.
Com’era già accaduto con l’auto del futuro, nel 1927 Buckminster Fuller pensò bene di
cimentarsi nella “casa del futuro”, la 4-D Dymaxion House. E anche stavolta, nonostante
l’interesse destato agli inizi, si
ritrovò con un fiasco. In un’epoca in
cui quasi tutte le abitazioni avevano
ancora latrine esterne, Fuller ideò un
bagno di plastica fuso in un solo
pezzo, che riuniva tutti i sanitari in un solo metro quadrato e 1/2. Un altro congegno
avrebbe riunito insieme macchina da scrivere, calcolatrice, telefono, radio, fonografo,
fotocopiatrice, e perfino la TV. Un ennesimo aggeggio avrebbe lavato e asciugato i panni in
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A sinistra: modello di 4-D Dymaxion House, 1927. A destra: wichita house completata e bidone contenitore, 1946
tre minuti. All’inizio contemplò l’idea di una abitazione di forma esagonale, che, per
risparmiare sull’uso del terreno, era sospesa in aria, sorretta da cavi appesi ad un pilone
centrale, nel cui interno viene inserito l’impianto elettrico e le tubazioni di alimentazione e
distribuzione dell’aria e del calore e apposite lenti per utilizzare la luce ed il calore solare.
La forma delle stanze avrebbe seguito le diagonali dell’esagono.
Le pareti sarebbero state trasparenti, i pavimenti in gomma rigida e la struttura portante
sarebbe stata il alluminio.
Con lo stesso principio si sarebbero dovute erigere delle torri di 10 appartamenti (munite di
turbina eolica in cima per l’elettricità).
La sua intenzione era fabbricare questi alloggi in serie come le automobili, con dei tocchi
personali, e trasportarli con elicotteri. Durante la II Guerra Mondiale, in cui occorrevano
alloggiamenti immediati per le truppe, Fuller propose un modello di semplicissima
costruzione, chiamato Dymaxion Dwelling Machine, che poteva essere spedito ovunque
dentro un... barattolo e montato in poche ore. Un prototipo di 11 metri di diametro fu
finalmente costruito a Wichita nel 1946. Pur basandosi su principi simili ai precedenti,
invece che esagonale era rotondo, e anche il tetto era curvo. Le pareti non erano più
trasparenti, ma anch’esse d’alluminio, e l’impiantito di legno.
In realtà la Dymaxion House non avrebbe mai potuto essere qualcosa di più di una novità di
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Casa pieghevole
breve durata e, a quel tempo, fu forse azzardato da parte di Fuller pensare che avrebbe
potuto cambiare la tradizione del costruire.
In tutta la sua opera infatti si può scorgere la realizzazione di proposte architettoniche
futuriste ed una continua ricerca di soluzione abitative improntate su l’utopismo
tecnologico.
Il nome Dymaxion deriva da “Dynamic and Maximum Efficiency”, termini che
sottolineano il carattere avvenieristico del suo lavoro.
Nel 1948 Fuller e i suoi allievi ebbero l’idea di una casa pieghevole, lunga 25 piedi, e alta e
larga 8 piedi, da poter trainare come una roulotte. Una volta dispiegata, avrebbe potuto
ospitare confortevolmente sei persone, con camera da letto, soggiorno, cucina e perfino due
bagni. Sfortunatamente, mancavano muri e tetto.
Lo studio si può considerare come la prima idea di container, ampiamente utilizzato nel
settore del trasporto delle merci ed adottato successivamente anche dalla Protezione Civile.
La sua ricerca prosegui in questa direzione, fino ad arrivare, nel 1949, alla realizzazione di
un nuovo prototipo della Dymaxion House, nota con il nome di “Wichita House”, composta
da unità estremamente leggere da assemblare sul posto.
A differenza del vecchio modello, la casa è di forma cilindrica, con cupola.
Si tratta di una struttura in alluminio che si sviluppa su una superficie di 100 mq, con pianta
circolare di 12 mt. di diametro e di un peso inferiore a tre tonnellate.
I tremila pezzi che la costituiscono, raccolti in un unico contenitore cilindrico di acciaio,
potevano essere trasportati su un camion corredato di un braccio meccanico che avrebbe
consentito ad una decina di persone di montarla in due giorni.
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Wichita House recentemente restaurata
Le ricerche e le sperimentazioni che si susseguirono negli anni ‘30 e ‘40, basate sul
principio della transitorietà, mobilità, flessibilità, smontabilità, e dell’interazione con il
territorio e con l’ambiente, sono state effettuate sopratutto per conto delle forze armate o di
enti di protezione civile interessati ad edifici per utilizzazioni temporanee, in relazione alle
calamità naturali o a situazioni di emergenza, come quella verificatasi in occasione dello
scoppio della seconda guerra mondiale.
Il conflitto mondiale lascio infatti, tra le altre conseguenze, una grave crisi di alloggi dovuta
all’inattività edilizia del periodo bellico, al ritorno dei veterani e all’incremento di
matrimonio e natalità. Wilson Wyatt, nel 1946,
propone il Veterans’ Emergency Housing Act,
che prevedeva notevoli agevolazioni per i
produttori di case prefabbricate ad uso
temporaneo, ma nonostante ciò il programma
non ebbe il successo sperato e la produzione di
queste abitazioni non superò il 9%.
Il pubblico era diffidente nei confronti di queste
nuove tipologie abitative anche a causa del
cattivo ricordo delle case prefabbricate realizzate
durante la guerra, molto spesso con mezzi di fortuna e quindi inaffidabili.
Un esempio significati dell’impegno di progettisti e costruttori europei del dopoguerra sul
problema delle abitazioni è, senza dubbio, l’opera del francese Jean Prouvè.
In seguito a ricerche progettuali e sperimentazioni produttive, iniziate già negli anni trenta
su costruzioni industrializzate con prevalente impiego in lamiera di acciaio, Prouvè era in
grado di seguire tutte le fasi relative al progresso edilizio: progetto, produzione, trasporto,
montaggio, smontaggio.
Jean Prouvè è uno degli architetti che hanno basato le loro elaborazioni progettuali su un
approccio spiccatamente tecnologico, imperniando il loro lavoro sulla ricerca dei sistemi e
dei processi più idonei a soddisfare le richieste e le esigenze di un’utenza proiettata verso
modelli di vita e di comportamento non statici e cristallizzati ma dinamici e flessibili.
Prouvè, in particolare, propone soluzioni progettuali innovative progettando e
sperimentando l’impiego di componenti e semilavorati industriali per la produzione di
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Schizzo di Jean Prouvè
Papillon 6x6. Jean Prouvè
costruzioni per l’emergenza.
Il modulo abitativo, conosciuto come il Pavillon 6x6, è realizzato con una struttura di
lamiera in acciaio, piegata, composta di due mezzi portali collegati ad una trave reticolare
di colmo.
La copertura metallica si appoggia su puntoni in lamiera piegata ed è completata con una
controsoffittatura.
Il pavimento in legno, sollevato da terra, è sostenuto da una intelaiatura metallica.
Gli elementi di chiusura verticale sono
costituiti da pannelli in legno con anima
in alluminio, Anche se in alcune soluzioni
sono proposti anche pannelli metallici.
L’unità abitativa è stata concepita per
rispondere alle richieste di 450 abitazioni
provvisorie, avanzata dal Ministero della
Ricostruzione francese.
Il Pavillon, oggi restaurato, viene impiegato come mostra itinerante, con lo scopo di offrire
un’occasione di confronto con un manufatto edilizio concepito per essere reimpiegabile ed
adattabile a situazioni diverse e con i conseguenti aspetti progettuali, produttivi e costruttivi
ad esso connessi.
Transitorio-durevole, montabile-smon-
tabile, adattabilità abitativa: sono i para-
metri guida della sua attività progettuale,
volta al soddisfacimento delle esigenze
che ancora oggi costituiscono i temi
fondamentali dell’abitabilità transitoria
contemporanea.
Le tipologie a cassettiera, la copertura ad
ombrello o il tetto-trattino, caratteristico
delle abitazioni progettate per i climi
tropicali, sono soltanto alcune delle proposte mirate al benessere ed alla adattabilità
funzionale.
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Papillon 6x6 nella fase di restauro. Jean Prouvè
La Maison du Peuple di Cliché. Francia
Nel 1937 la Maison du Peuple di Clichy, in Francia, segna una data storica: l’edificio,
progettato con gli Architetti Beaudouin e Lods, è un meccano tecnologico ad assetto
variabile, interamente realizzato in officina, con lamiera d’acciaio pressopiegata e montato
a secco in cantiere.
Una delle figure più interessanti di architetti che si sono interessati allo studio di idonee
soluzioni dei problemi legati all’edilizia
provvisoria e Karl Koch.
Nel 1945 Koch progetta in
collaborazione con gli architetti
Callender e Jackson, la casa pieghevole
Acorn, concepita per una produzione di
serie da realizzare completamente in
officina.
Il progetto, di concezione rivoluzionaria per i tempi, partiva dall’idea di realizzare una casa
pronta all’uso e che costasse meno di una casa analoga costruita con metodi tradizionali.
L’originalità consisteva nel fatto che la casa, completa e ripiegata su se stessa, caricata su
un rimorchio e trasportata sul luogo prefissato, doveva soltanto dispiegata, facendo ruotare
le pareti ed il tetto su apposite cerniere e avvitando i punti di contatto. Si evitavano così gli
imballaggi dei vari
componenti, riducendo anche
al minimo il lavoro da
eseguire sul posto, che
consisteva soltanto nella
preparazione di otto piccoli
scavi per la posa dei plinti di
fondazione in calcestruzzo.
Ripiegata, la casa misurava
2,40 m di larghezza, 6,90 di lunghezza e 2,70 di altezza.
Negli anni ‘50 Andrew Geller comincia a progettare le sue “Beach Houses”: si tratta di
piccole abitazioni per vacanza, di minimo impatto ambientale e dall’architettura
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La casa pieghevole Acom di K. Kock
Beach Houses. Andrei Geller
avveniristica.
Facili da montare ed altrettanto facili da smontare alla fine della stagione. Il prototipo di
queste case è la “A-Frame” houses, conosciuta con il nome di Reese House.
A questa seguono le case-palafitte
Pearlroth House e Hunt House,
quest’ultima progettata in collaborazione
con Irving Hunt; la Lynn House, la Jossel
House e la Eileen Hunt House.
Nel ventennio compreso tra la metà degli
anni ‘60 ed i primi anni ‘80 si manifesta,
sia in Europa sia negli Stati Uniti, una
notevole fioritura di idee, progetti e
prototipi sperimentali entusiasmo che coinvolge i progettisti del periodo, sempre più
interessati ad una architettura svincolata dai canoni classici dell’oggetto di architettura
solido, conficcato nel terreno e destinato ai posteri immutato ed immutabile.
Alla base di questa nuova tendenza non vi è soltanto una motivazione di tipo funzionale,
legata al problema delle emergenze abitative,
ma una vera e propria rivoluzione ideologica
che coinvolge la società occidentale agli inizi
degli anni sessanta.
Si fa sempre più forte l’esigenza di un nuovo
stile di vita, svincolato dei tradizionali canoni
comportamentali e dai modi di vita consueti.
Un bisogno innovativo profondo, portatore di
istanze di libertà, autodeterminazione, mobilità, che rilanciano la tradizione nomadica
americana.
Tutto ciò ha una incidenza non indifferente sul pensiero architettonico del periodo,
influenzando le produzioni di numerosi progettisti, artefici di opere
fortemente innovative, concepite sui principi di totale mobilità.
Le esperienze condotte in questo periodo nell’ambito delle case ad assetto variabilediedero
una forte spinta all’innovazione dei processi costruttivi e delle tecnologie della
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Reese House. Fase di
montaggio e in una foto storica
Lynn House. Foto d’epoca
modificabilità.
Le esperienze condotte in questo periodo nell’ambito delle
case ad assetto variabile diedero una forte spinta
all’innovazione dei processi costruttivi e delle tecnologie
della modificabilità.
Questa tendenza, largamente influenzata dai lavori di Fuller,
ma in netto contrasto con la sua impostazione legata al mito
della macchina, della produzione industriale e delle
tecnologie avanzatissime, è basata sull’utilizzo di materiali e
tecnologie estremamente povere, per realizzare nuove
immagini urbane in cui l’abitazione ha sempre più un
carattere di provvisorietà; dalle intuizioni di Le Corbusier, con
il “casier à bouteilles” alle visioni utopistiche degli Archigram
con “Plug-in city”, da Paul Rudolph con i “mattoni abitati” a Moshe Shafdie con l’habitat
di Montreal, alle cellule ipersofisticate di Kisho Kurokawa, l’idea di un architettura che si
costruisce e ricostruisce continuamente come un
organismo vivente formato da cellule spaziali ad
obsolescenza programmata prodotto in serie
dall’industria, è stata ad un passo dal trasformarsi da
utopia a realtà.
La crisi energetica,soprattutto quella petrolifera,ed
ambientale che ad inizio anni 70 investe un po’ tutti i
paesi industrializzati e con essa la fine dell’illusione
di una crescita tecnologica senza limiti ed a basso
costo, porta ad un notevole ridimensionamento delle
ricerche sull’habitat provvisorio e più in generale sui
manufatti ad uso temporaneo.
Abbandonate le ipotesi più utopistiche, la ricerca
tecnologica si indirizza verso risposte concrete a esigenze della gente; il problema viene
quindi ricondotto ai settori che, verosimilmente, gli sono maggiormente propri, in cui
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Pearlroth House, Dune Road, Westmpton, NY 1958
Kurokama cellule abitative
la provvisorietà è una condizione ineluttabile: primo fra tutti l’emergenza.
Le sperimentazioni architettoniche europee
propongono soluzioni che sviluppandosi
dall’estetica del container, fanno propri
concetti quali la geometria variabile,
l’ampliabilità, la scomponibilità, la
modificabilità, la flessibilità,
l’integrabilità.
Di esempi di manufatti interamente
realizzati in fabbrica che, una volta giunti
sul luogo della calamità e posizionati sul terreno, modificano, con sistemi di cerniere e
carrelli, il loro aspetto, spesso con consistenti aumenti di volume abitabile, il panorama
progettuale degli anni ’70 ne offre molteplici.
Vanno sicuramente ricordati: la casa pieghevole in plastica di K.A. Rohe, la casa mobile di
M. Schiedhelm, le unità abitative di Alberto Roselli e Marco Zanuso (entrambe frutto di
una sperimentazione promossa dalla Fiat, insieme ad altri sponsor, e presentate al Museum
of Modern Art di New York, nel 1972), il “tilted box” di Kisho Kurokawa, vincitore nello
stesso anno del Concorso Misawa.
Interessanti sono anche le ricerche promosse, un po’
ovunque in Europa, all’interno di scuole ed università,
come la proposta dello studente Wilfred Lubitz alla
Werkkunstschule di Krefeld in Germania, basata proprio
sull’ampliabilità del container, del modulo trasportato; è
una casa perfettamente attrezzata, composta da due
container aggregabili, dotati di pareti ribaltabili che dalla
posizione verticale nella fase di trasporto assumono quella
orizzontale di copertura, consentendo in fase di esercizio un incremento di 1/3 del volume.
Le due unità-container, trasportabili per via di terra e di mare, sono tra loro complementari;
l’una dotata di attrezzature fisse, bagno, cucina e letto, l’altra di attrezzature mobili per il
soggiorno pranzo.
Sul finire degli anni ‘70, contemporaneamente a concorsi di progettazione, si iniziano ad
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Kurokama Ingresso “tilted box”
organizzare, soprattutto in Inghilterra e Stati
Uniti, conferenze internazionali sulla tematica dei
manufatti provvisori da impiegare in caso di
emergenza, e più in generale sui problemi della
relief culture, una sorta di cultura della Protezione
Civile.
In particolare sono importanti da annoverare
quella tenutasi ad Istanbul nel 1977, organizzata
da The Scientific and Technical Research Council
of Turkey e dal Buiding Research Institut, in cui,
per la prima volta, in un assise internazionale, è
sancita la formulazione strategica dell’intervento
di soccorso abitativo in aree disastrate,
individuando l’esigenza di un’organica
correlazione revisionale tra tempi, modalità e
caratteri dell’intervento in riferimento al tipo, alle dimensioni, alla natura stessa dell’evento
e l’International Conference on Disaster and Small Dwelling tenutasi ad Oxford, l’anno
successivo.
In quest’occasione il tema centrale della conferenza è proprio lo Shelter after disaster,
inteso come ricovero, copertura di primo soccorso, in grado di proteggere i sinistrati dal
momento del disastro fino alla sistemazione in un alloggio temporaneo.
Particolarmente interessante è la conclusione cui giunge il prof. Ian Davis, direttore fin dal
1973 del “Disaster and Settlementy Unit” dell’University College di Oxford, che tende a
scoraggiare lo sviluppo di ulteriori ricerche nella direzione delle tipologie chiuse,
dell’oggetto finito, per indirizzare invece gli sforzi verso possibili strategie progettuali
tendenti all’impiego libero di sistemi ed attrezzature aperte ed autonome.
I risultati di queste conferenze portano, sul finire degli anni ’70, al superamento della logica
dell’oggetto finito, del manufatto che, interamente assemblato in officina, una volta
posizionato sul luogo della calamità consente solo configurazioni tipo “lager”, in cui manca
totalmente l’articolazione tra i singoli manufatti ed una logica integrazione di questi ultimi
con l’ambiente circostante.
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Si passa in maniera graduale di sistema, con la progettazione di sistemi residenziali
integrati composti da unità funzionali, morfologicamente e tecnologicamente differenti tra
loro, dove i requisiti quali aggregabilità e modificabilità, ritenuti indispensabili,
garantiscono la possibilità di molteplici configurazioni insediative, capaci di rappresentare
la complessità dell’abitare e l’adattabilità al luogo ed alle esigenze dell’utenza.
Dunque “concepire l’insediamento provvisorio non come insieme risultante della
provvisorio non come insieme risultante della sommatoria di singoli manufatti eterogenei
ma come sistema integrato di unità funzionali complementari in grado di costituirsi come
habitat.
Esempi emblematici di questo nuovo approccio alla problematica dei manufatti temporanei
per l’emergenza, sono gli esiti di sue ricerche progettuali condotte in Italia tra gli anni ’70
ed ’80, da docenti dell’area della Tecnologia dell’Architettura e finanziate, novità non
trascurabile, dal mondo della produzione. Il Ca.Pro Provvisorie progettato nel 1978 dal
gruppo Donato, Guazzo, Platania, Vittoria su commissione della Tecnocasa ed il Sapi,
Sistema abitativo di pronto impiego, nato quattro anni dopo più tardi, nel 1982, da un’idea
di P.L. Spadolini, con i finanziamenti del gruppo industriale IRI-Italstat.
Nel progetto Ca.Pro l’obiettivo principale era riuscire a ottenere livelli prestazionali
massimi sia in fase di esercizio che di trasporto, quindi a far corrispondere a fasi di
massima concentrazione dei volumi, una fase, quella di utilizzo del manufatto, di massima
espansione degli stessi. Sostanzialmente si trattava di avere volumi trasportati che non
fossero delle scatole vuote, ma tutt’altro degli organismi in grado di generare altro spazio
utile in quantità sufficiente da soddisfare le esigenze dello standard abitativo desiderato. In
definitiva il Ca.Pro tende a coniugare gli aspetti positivi del container con quelli della
tenda, generando un manufatto composto da elementi rigidi di sostegno e di contenimento
delle attrezzature, derivati appunto dal container e corrispondenti ai moduli di trasporto, e
di elementi di chiusura, di tamponamenti degli spazi autogenerati derivati dalla tenda con
caratteristiche di massima leggerezza e flessibilità.
Se il progetto Ca.Pro non è riuscito a pervenire alla fase della sperimentazione su prototipi,
quindi non è stata possibile una reale verifica delle prestazioni effettivamente rese, esito
ben diverso ha avuto il Sapi che, progettato nel 1982 da P.L. Spadolini, è stato
effettivamente realizzato,ed è ancora oggi considerato da alcuni responsabili della
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Progetto Sapi. Prelievo del modulo
Protezione Civile, come il fiore all’occhiello degli alloggi provvisori per l’emergenza
disponibili in Italia.
Il progetto, in cui sono chiaramente riconoscibili riferimenti alle proposte fatte
nell’immediato dopoguerra da Jenneret e Prouvè con l’Emergency Housing e da Rudolph
con l’alloggio per studenti sposati, mira a conciliare perfettamente la massima qualità
ambientale desiderabile
con i limiti dimensionali imposti dai mezzi di trasporto, per ottenere un’unità edilizia in
grado di concentrare in una tutte le fasi dell’emergenza successive alla prima.
L’idea innovativa è di non trasportare volumi vuoti, ma moduli attrezzati ampliabili in fase
di esercizio in grado una volta giunti sul luogo della calamità di aumentare, con semplici
operazioni manuali, il volume abitabile.
Molto simile al Sapi come esito figurativo e nell’idea di una configurazione variabile in
fase di esercizio, il progetto proposto nel 1986 da un altro docente dell’area della
Tecnologia dell’Architettura, Marco Zanuso: il Sistema Spazio.
Si tratta di un modello base impacchettato in 120x240 cm, espandibile sia sui lati lunghi, a
destra e sinistra, che sul tetto; gli elementi di chiusura sono realizzati in pannelli sandwich
in fibra di legno impregnato con espansi e
rivestimento melaminico.
A partire dalla fine degli anni ’80 nella
progettazione di manufatti temporanei per
l’emergenza, in conseguenza ai grossi cambiamenti
che più in generale stavano investendo il mondo
dell’architettura, si iniziano a prendere in
considerazione nuovi requisiti, fino ad allora
considerati marginali; requisiti come
l’autocostruzione, secondo il principio del “do it yourself”, ossia la possibilità di un’attiva
partecipazione, nella realizzazione in sito degli insediamenti provvisori, delle stesse vittime
della calamità, l’utilizzo di materiali riciclati e riciclabili, facilmente reperibili, di
tecnologie “povere”, utilizzabili ovunque in qualunque contesto senza l’impiego di
macchinari complessi e manodopera specializzata.
Si passa quindi lentamente dai sistemi dispiegabili ed integrabili, interamente realizzati in
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Paper Log Houses. Fase di montaggio. Shigerun Ban
officina ed in grado, una volta giunti sul luogo della calamità, di modificare la propria
configurazione con consistenti aumenti di volume, ai kit da assemblare in sito con l’utilizzo
di macchinari semplici e tecnologie povere.
Sintesi di tutto ciò, è il progetto della Paper Log House, la casa dei tronchi di carta, che nel
1995, il giovane architetto giapponese Shigerun Ban, realizza per i terremotati di Kobe.
Un alloggio provvisorio estremamente innovativo progettato nella logica di una
ricostruzione dei manufatti
permanenti estremamente
rapida, capace di ridurre
notevolmente, magari a pochi
mesi, i tempi di permanenza
nelle case provvisorie; ma
innovativo e perché no atipico
anche perché fortemente
caratterizzato da requisiti quali
l’utilizzo di materiali riciclati e
riciclabili, cassette di birra, tubi
di cartone, sacchetti di sabbia, e di una tecnologia estremamente povera in grado di
garantirne la realizzazione in poco meno di sei ore e, soprattutto, senza l’utilizzo di
manodopera specializzata e macchinari pesanti.
Ban inizia a lavorare nell’ambito dell’emergenza e ad ipotizzare l’utilizzo del cartone e più
in generale di materiali riciclati per la realizzazione di case provvisorie intorno al 1994
quando l’UNHCR, l’alto commissariato delle Nazione Unite per i rifugiati, lo coinvolge in
un progetto per il Ruanda.
Il problema delle Nazioni Unite riguarda la fornitura di un adeguato supporto per i teli in
Pvc che erano stati dati ai rifugiati come riparo.
Inizialmente le popolazioni locali, avendo ottenuto solamente le tende di quattro metri per
sei senza alcun elemento di sostegno, avevano secondo logica utilizzato dei pali di legno,
ricavati dalle foreste vicine; causando nel giro di pochi mesi un rapido disboscamento della
zona.
A questo punto, l’UNHCR, nel tentativo di evitare ciò, fornisce alle migliaia di rifugiati dei
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Paper log Houses. Fase di
montaggio ed assonometria
tubolari in alluminio da utilizzare sostituzione del legno.
Il tentativo, però, fallisce miseramente; la popolazione, ormai alla fame, preferisce vendere
l’alluminio considerato in quelle zone un materiale pregiato,
ritornando all’utilizzo di pali di legno.
Ban, sollecitato a trovare una soluzione, avvalendosi della
collaborazione della Ove Arup in Gran Bretagna e della
Svizzera, propone l’uso di tubi di cartone da realizzare
direttamente sul posto, con l’uso di carta riciclata e di un
macchinario sufficientemente piccolo.
Il progetto tuttavia si arena immediatamente, causa il
catastrofico terremoto che nel gennaio del 1995 colpisce la
città di Kobe in Giappone.
Ban decide di sospendere momentaneamente la sua attività in
Ruanda per recarsi sul luogo della calamità, con la
convinzione che l’utilizzo dei tubi di cartone possa, anche in
questo caso, essere utile.
In particolar modo, il progettista giapponese prende a cuore
la problematica di una piccola comunità vietnamita che non
volendosi allontanare dalla sua originaria zona di residenza,
per timore di perdere il posto di lavoro e quella integrazione che con grossa fatica aveva
conquistato nella chiusa società nipponica, continuava a vivere nelle tende sistemate nei
parchi in condizioni assolutamente inaccettabili;con allagamenti nei giorni di pioggia e
quasi 40 gradi in quelli di sole.
La soluzione, che Ban ipotizza è perfettamente esplicitata nelle sue parole: “Per ovviare
drasticamente a questa precarietà ho pensato ad un edificio da realizzare a mie spese,
seguendo criteri ed offrendo soluzioni differenti rispetto ad altri tipi di abitazioni
provvisorie.
Ho immaginato delle case esteticamente accettabili a basso costo, di facile e rapida
costruzione, realizzate con materiali termoisolanti, semplici da smontare e riciclabili.
E così è nata l’idea della Log House di carta, o casa di tronchi di carta, con la base
LA MEMORIA, EVOLUZIONE DELLA PREFABBRICAZIONE D’EMERGENZA
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Paper Log Houses. Vista
Paper log houses. Casette di birra usate come fondazioni
composta da casse di bottiglie di birra
riempite con sacchetti di sabbia, una
tenda come tetto e le pareti, appunto,
di carta.
Credo che la Log House potrà
risolvere i numerosi problemi che
ogni Ente locale ha finora incontrato
nelle situazioni di emergenza.
Infatti è assai semplice procurarsi i
materiali, quando e quanto è necessario, come è avvenuto in Ruanda, dove i tubi di carta
sono stati prodotti in loco, con una macchina non troppo grande e facile da trasportare.
La superficie di ogni unità, 16 metri quadrati, è stata adottata seguendo l’esempio delle
tende che l’ONU ha messo a disposizione dei rifugiati africani, anche se in quel clima si
vive perlopiù all’aperto e le dimensioni erano quindi in funzione di nuclei familiari di
cinque persone.
Qui a Kobe alle famiglie con prole cresciuta sono state destinate due log house di carta,
ciascuna di sedici metri quadrati, affiancate in modo da sfruttare come spazio comune,
protetto da una copertura,
l’intercapedine di due metri
ricavata fra le due unità”.
Risulta evidente, quindi, dalle
sue stesse parole che il progetto
è fortemente caratterizzato da
requisiti quali la riciclabilità,
l’utilizzo di materiali e tecniche
costruttive povere, in grado di
garantire economicità, rapidità
di realizzazione del manufatto e soprattutto, l’impiego nella costruzione di personale non
specializzato, magari delle stesse vittime della calamità.
Tutte le ventuno Paper Log House realizzate a Kobe, ad un costo di circa 250.000 yen per
unità, furono messe in opera da volontari, perlopiù studenti di architettura, in tempi che non
LA MEMORIA, EVOLUZIONE DELLA PREFABBRICAZIONE D’EMERGENZA
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Paper Log Houses. Vista
superavano le sei ore.
Le dimensioni di un singolo alloggio sono di
sedici metri quadrati, distribuiti su di una
pianta quadrata di quattro metri per quattro,
secondo uno standard previsto dall’ONU.
Morfologicamente il progetto è estremamente
semplice, secondi un’immagine classica
dell’architettura; un parallelepipedo con una
apertura posizionata simmetricamente su
ognuno dei quattro prospetti e sormontato da un tetto spiovente.
Per le fondazioni ma forse, vista la provvisorietà dell’intervento, è più lecito parlare di
basamento, Ban utilizza una serie di cassette di plastica per lattine di birra, sistemate con il
lato maggiore lungo tutto il perimetro del quadrato e riempite con sacchetti di sabbia al fine
di garantire una maggiore stabilità.
Il pavimento è affidato ad un tavolo di legno, poggiato su tubi di cartone lunghi quattro
metri e sistemati orizzontalmente su una serie di travi rompitratta in legno.
Tra un tubo e l’altro viene sistemato un sottilissimo nastro di spugna impermeabile per
evitare, ove possibile, la risalita dell’umidità dal terreno.
Tutti i tubi di cartone utilizzati nel progetto hanno le stesse dimensioni, per diametro e
spessore, 108 e 4 millimetri, e vengono preventivamente spalmati con poliuretano liquido
per garantirne una perfetta impermeabilizzazione.
Nello spessore rimasto tra il pacchetto pavimentato, travi, tubi, tavole, e le cassette di birra
viene posizionata una fascia in legno laminato, elemento di fissaggio per i tubi della parete
esterna.
Quest’ultima viene montata a piè d’opera, con i tubi incollati a pressione l’un l’altro,
bloccati con l’utilizzo di un tondino d’acciaio da sei millimetri, ed in seguito, sistemata,
grazie ad appositi giunti, sulla fascia di base. Porta e finestre, in compensato, sono aggiunte
in un secondo momento, collegando direttamente, con viti e bulloni, i telai ai tubi.
Ultimate, le pareti sono chiuse superiormente da una sorta di cornice, su cui viene avvitata
una fascia in legno laminato, di circa quarantacinque cm, per il posizionamento dei giunti di
base della copertura.
LA MEMORIA, EVOLUZIONE DELLA PREFABBRICAZIONE D’EMERGENZA
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Progetto CLEA. Vista dall’alto
Quest’ultima è formata da due tende, una posizionata orizzontalmente come soffitto, l’altra
a falde, con funzione di tetto, in modo da creare una camera d’aria per migliorare il comfort
all’interno dell’alloggio.
I prototipi realizzati a Kobe hanno subito nel corso degli anni alcune piccole modifiche
necessarie a migliorarne le prestazioni.
In Turchia, ad esempio, dove sono stati
utilizzati in seguito al devastante
terremoto del 1999, i tubi di cartone delle
pareti esterne sono stati riempiti con carta
riciclata, per incrementare il più possibile
l’isolamento termico.
Particolare interessante è che l’operazione
di riempimento è stata eseguita
direttamente sul posto e con l’ausilio
spontaneo dei tanti bambini vittime del
terremoto.
Su un principio molto simile, la
possibilità di avere un manufatto per uso
temporaneo sotto forma di un kit di montaggio da assemblare interamente in sito con
tecnologie semplice e l’utilizzo di manodopera non specializzata, si basa il progetto
C.L.E.A. ( Casetta in Legno per Emergenze Abitative) nato nel 1999 dalla collaborazione
tra la Cispel Toscana, da sempre impegnata in interventi di protezione Civile, l’INRL,
l’Istituto Nazionale per la Ricerca sul Legno del CNR e l’Arsia (Arsia è l’Agenzia
Regionale per lo Sviluppo Agricolo Forestale).
L’idea di partenza è di giungere alla realizzazione di un alloggio provvisorio, da utilizzare
in caso di emergenza e non, di dimensioni non inferiori ai quarantacinque-cinquanta mq, ed
in grado di consentire un passaggio pressoché immediato dalla tenda o da una prima
sistemazione di fortuna ad una soluzione abitativa funzionale per un periodo medio lungo.
Il risultato è un manufatto che, nonostante esteticamente ricordi molto i prefabbricati
leggeri in legno, è caratterizzato da un’estrema facilità e rapidità di montaggio e
smontaggio; la struttura modulare, costituita da soli 120 elementi e facilmente stivabile in
LA MEMORIA, EVOLUZIONE DELLA PREFABBRICAZIONE D’EMERGENZA
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Progetto CLEA
un container di sei metri, può essere montata e smontata da quattro persone non
specializzate, magari la stesse vittime della calamità, coordinate da un sovrintendente, in
poco meno di una giornata; più precisamente dieci/dodici ore per il montaggio, sei/otto ore
per lo smontaggio.
Tutti i moduli utilizzano pannelli autoportanti e coibentanti con scaglie di legno per le
pareti esterne, le tegole realizzate con materiali compositi legno/plastica per la copertura
spiovente
le travi di fondazione in legno massiccio e quelle di copertura in lamellare sono composti
da elementi il cui peso non supera i
quarantacinque kg; il tutto per renderli
facilmente maneggiabili da due persone
senza l’utilizzo di mezzi meccanici di
sollevamento.
L’attrezzatura indispensabile per il
montaggio e successivo smontaggio del
kit è riducibile a due avviatori a batteria o
ad aria compressa, due ponteggi mobili
piccoli, alti non più di due metri, una
livella e delle viti autofilettanti a testa
conica autofresante.
Altra grossa particolarità del progetto
C.L.E.A. è il tipo di materiale impiegato; si tratta per un buon ottantacinque % di legno,
logica conseguenza di una progettazione affidata all’IRL-CNR, utilizzato sotto forma di
legno massiccio, legno lamellare incollato e pannelli a base di legno, ma di un tipo
decisamente anomalo: il legno così definito, a fine vita.
C’è infatti da parte dei progettisti, la chiara volontà di recuperare i legnami derivati
dall’attività di manutenzione del patrimonio boschivo toscano, circa il 40 % della superficie
regionale; utilizzando così un materiale di recupero, senza dover impiegare speciali risorse
ma valorizzando materiali altrimenti destinati alla distruzione.