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GRANDE E PICCOLA IMPRESA NELLA STORIA DELL’INDUSTRIA
ITALIANA
Franco Amatori, PAM, Università Bocconi
1. L’opinione comune e il “modellaccio”
L’Italia è un paese di piccole e medie imprese. È opinione corrente sia degli
studiosi sia del più vasto pubblico – opinione “sigillata” da un capitolo
dell’autorevole libro di Michael Porter Il vantaggio competitivo delle nazioni. In
effetti, fra le nazioni avanzate l’Italia ha un vero e proprio record con oltre il 60%
della forza lavoro che si concentra in imprese con un numero di addetti inferiore a
50. Il nostro problema è che questa opinione prevalente si è tradotta anche in una
prospettiva storiografica. Nell’introduzione al volume curato da Giannetti e Vasta,
L’impresa industriale italiana del Novecento, Vera Zamagni parla di vie diverse
alla crescita industriale intendendo la possibilità di competere attraverso le piccole
dimensioni di impresa. Pierangelo Toninelli scrive addirittura più
provocatoriamente di una industrializzazione senza energia, senza tecnologia,
senza industria. L’idea di fondo è che esiste un modello dei paesi avanzati e
l’Italia ne è fuori. Non sono d’accordo. Secondo me quello dell’Italia per dirla con
Giorgio Fuà è un “modellaccio”. L’Italia ha provato ad inserirsi nella corrente
delle nazioni di prima fila e stava per riuscire ma poi qualcosa è andato storto.
2. Il modello dei paesi avanzati
Nell’ultimo ventennio dell’800 si ha una grande discontinuità che concerne
essenzialmente lo stato dell’arte della tecnologia. Questa è un prodotto
profondamente umano, frutto di conoscenze scientifiche, di abilità tecniche, di
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attitudini socio-culturali che si riflettono nelle forme di mercato. Prodotto umano
che però ad un certo punto acquista una vita autonoma, è altro da noi. A fine ‘800
sotto tale punto di vista constatiamo l’avvento della Seconda Rivoluzione
Industriale, un complesso di innovazioni caratterizzato da alta intensità di capitale,
di energia, processo produttivo continuo e veloce, larga infornata. Sono le
produzioni di massa che colpiscono in particolare quattro settori: la metallurgia, la
meccanica, la chimica, l’industria elettrica. In questi settori funzionano le
economie di scala e di diversificazione, ovvero quelle che consentono di produrre
con uno stesso impianto beni diversi. Solo alcuni settori come quelli menzionati
subiscono le conseguenze di questa grande svolta. Essi divengono il motore dello
sviluppo. Ma attorno ad essi permangono rami ad alta intensità di lavoro nei quali
all’aumentare della produzione i costi unitari non cadono drasticamente e al cui
interno pertanto la piccola impresa resta competitiva. Perché questa opportunità
tecnologica si traduca in realtà economica è necessario un triplice investimento in
impianti alla giusta dimensione di scala, in legame fra produzione e distribuzione
tale da rendere fluido il rapporto fra fabbrica e mercato, nell’ampia assunzione e
promozione del management. È un passaggio difficile perché implica una
notevolissima socializzazione dell’impresa, un passaggio politico quindi. Tuttavia
se questa “mossa” riesce e viene ribadita nel corso del tempo, l’impresa acquista il
diritto ad una lunga sopravvivenza. Le dimensioni di questo first mover sono
quasi sempre settoriali; il che non significa che non possa essere sfidato, non però
da rivali di piccole dimensioni ma sempre attraverso il triplice investimento, che è
à la Taylor, l’unica via migliore. È da rimarcare il fatto che in questo modello la
crescita avviene per ragioni economiche ossia essenzialmente per tramutare l’alto
costo fisso in basso costo unitario.
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3. L’Italia e la Seconda Rivoluzione Industriale
Se questo è il modello dei paesi avanzati, a cavallo del 1900 esso è constatabile
anche nell’evoluzione del sistema economico italiano. Come negli altri paesi
anche da noi la prima grande impresa è un’impresa ferroviaria, la Strade ferrate
meridionali, ovvero la cosiddetta Bastogi dal nome del suo fondatore Pietro
Bastogi, ministro delle finanze nel primo governo dello Stato unitario presieduto
da Camillo Cavour. La Bastogi costruisce la ferrovia che va da Ancona a Brindisi
entro il 1867 ed in seguito realizza la Napoli-Foggia, non senza scandali e
malversazioni. Nel 1905 quando le ferrovie vengono nazionalizzate essa riversa
gli indennizzi nell’emergente settore elettrico restando quindi una potenza
finanziaria di prima grandezza nel panorama economico italiano. Nel 1962,
nazionalizzata a sua volta l’industria elettrica, la Bastogi dirige le sue risorse
verso la chimica, ma in questo caso il diverso scenario competitivo rende il
passaggio molto più problematico. Nel 1884 nasce la Edison, la più grande
impresa elettrica italiana, presto raggiunta dalla Sip, la Sade e la Sme. Nel 1888 è
fondata la Montecatini che poi insieme alla Snia sarà di gran lunga la più
importante impresa chimica italiana. Già nel 1872 era nata la Pirelli. Nell’ultimo
anno del secolo viene fondata la Fiat che alla vigilia della prima guerra mondiale
produce la metà degli autoveicoli italiani per raggiungere subito dopo il conflitto
il controllo di quasi il 90% del mercato. Si costruisce intanto, sempre a cavallo del
XX secolo, la grande siderurgia con la Terni, l’Elba, l’Ilva, la Piombino e la
Falck; mentre la grande meccanica negli stessi anni ha come protagonisti di
assoluto rilievo l’Ansaldo e la Breda. Nel contempo si profila a livello settoriale il
predominio dell’Italcementi, mentre acquista consistenza un’impresa produttrice
di macchine per ufficio, l’Olivetti. Anche la grande distribuzione che ha
dimensioni e ritmi industriali nasce in questi anni. Sulle ceneri della ditta Bocconi
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nel 1917 è creata La Rinascente da cui a sua volta per mitosi nel 1931 ha inizio la
Standa. In definitiva, tranne ENI e Fininvest per evidenti motivi, sebbene con
nomi diversi e con pur notevoli trasformazioni societarie, all’inizio del secolo
sono presenti tutti gli attori che domineranno la scena industriale sino all’ultimo
decennio di esso. La presenza della grande dimensione è quindi simile a quella di
Stati Uniti, Inghilterra e Germania, con un’importante differenza però. In Italia la
struttura oligopolistica è ancora più ristretta data la relativa povertà del mercato
interno. Inoltre la concentrazione è spesso nascosta dalla forma a gruppo, che
porta a distinguere il soggetto giuridico da quello economico. Per questo motivo
capita di prendere non indifferenti “cantonate” a chi studia le imprese partendo dai
repertori delle società per azioni.
4 Gli attori
Se vista dall’alto la forma del sistema industriale non è diversa da quella delle
nazioni di prima fila, differenti sono invece gli attori dello sviluppo. L’Italia è il
terreno ideale per la verifica delle teorie di Alexander Gerschenkron il quale,
come è noto, postula l’esigenza di fattori sostitutivi (ovvero sostitutivi del
semplice imprenditore) per promuovere l’industrializzazione dei paesi late comer.
Essi sono la banca universale – se il ritardo è relativamente contenuto - e lo Stato
– se il grado di arretratezza è maggiore. Ora, in Italia attorno al 1900 è grande il
contributo della banca universale, soprattutto la Comit e il Credito Italiano, alla
fondazione di interi settori e alle più importanti iniziative industriali. Ma è
soprattutto lo Stato il fattore decisivo, quello al quale la stessa banca guarda come
rete protettiva di ultima istanza. Per l’Italia si è parlato giustamente di “precoce
capitalismo di Stato” nel senso che esso si caratterizza come il maggiore operatore
economico-finanziario sin dall’unificazione: per la creazione di debito pubblico,
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per la pressione fiscale, per il vasto processo di privatizzazione del territorio
nazionale (beni demaniali ed ecclesiastici) tutti strumenti con i quali finanziare
infrastrutture essenziali come le ferrovie, l’apparato amministrativo, le forze
armate, le opere pubbliche. In definitiva in Italia i primi grandi affari si effettuano
all’ombra dell’azione pubblica. Tuttavia, negli anni Ottanta dell'Ottocento il
potere politico compie una vera e propria forzatura verso la nascita di serie
iniziative industriali. La rivoluzione nelle comunicazioni e nei trasporti, notevole
esempio di globalizzazione, provoca la massiccia immissione sul mercato italiano
di prodotti agricoli provenienti da oltreoceano, “sommergendo” in tal modo il
modello di un’Italia esportatrice di beni del settore primario. Questa ragione oltre
che quelle relative ad esigenze di politica internazionale, porta nel 1884 alla
creazione della prima impresa industriale moderna del paese, la Terni. È un
episodio strategico della storia economica italiana perché alla Terni lo Stato non
concede solo sovvenzioni, commesse, protezionismo. Quando tre anni dopo la
nascita, nel 1887, l’impresa è sull’orlo della bancarotta lo Stato provvede al
salvataggio utilizzando la Banca Nazionale, in seguito Banca d’Italia, con
l’emissione di nuove banconote. Un’operazione di questo genere – il salvataggio
attraverso l’intervento della banca centrale – in mezzo secolo è attuata quattro
volte: nel 1887 viene salvata un’impresa, la Terni per l’appunto; nel 1911 è la
volta di un intero settore industriale, il siderurgico; nel 1922 il privilegio tocca alle
attività industriali afferenti a due grandi banche, la Banca Italiana di Sconto
(dentro c’è la maggiore azienda italiana, l’Ansaldo) e il Banco di Roma; infine,
nel 1933 l’ultimo e più grande salvataggio, quello delle imprese legate alle tre
grandi banche miste, la Comit, il Credito Italiano, il Banco di Roma. Nasce l’IRI,
ovvero lo Stato Imprenditore, ed è la fine della banca mista. Dopo l’Unione
Sovietica l’Italia è il paese che può vantare la maggiore estensione di proprietà
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industriale pubblica. La morale è evidente: per un'impresa ritenuta strategica per
gli interessi del paese, manca in Italia una libertà fondamentale in un sistema
capitalistico, quella di fallire.
5. Il capitalismo politico
Non si tratta tuttavia di un fatto solo quantitativo. La pervasiva presenza dello
Stato ha un forte impatto sull’agire imprenditoriale. Mentre nei paesi avanzati la
crescita è perseguita per ragioni squisitamente economiche, ovvero il taglio dei
costi unitari, non di rado in Italia si assiste a tentativi di espansione per meglio
contrattare con il potere politico. All’inizio del secolo gli imprenditori siderurgici
sono consapevoli del fatto che le caratteristiche del mercato non richiedono la
costruzione di nuovi impianti e tuttavia si espandono perché sanno che presto o
tardi si arriverà ad un accordo arbitrato dal governo; è meglio arrivarci più
“abbondanti” possibile. Allo stesso modo l’Ansaldo si lancia in un folle progetto
di integrazione verticale durante la prima guerra mondiale: dalle miniere alla
fabbricazione di tutte le più significative produzioni metalmeccaniche. Per i suoi
leader giustificare in senso economico quest’opera è compito dello Stato dato
l’interesse nazionale che essa rappresenta. Significativo è l’esempio della Terni
nel periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale. Vengono
meno le ragioni economiche della siderurgia bellica e il suo leader, Arturo
Bocciardo, la porta ad operare nel campo della produzione di energia elettrica e di
risulta in quello elettrochimico. La siderurgia bellica però viene mantenuta in
attività in quanto formidabile strumento di pressione nei confronti del governo
fascista. È un do ut des: la Terni continua ad offrire armamenti anche quando non
ha alcuna convenienza economica, ma il governo garantisce buone condizioni per
le forniture di energia elettrica, un terreno di prezzi amministrati, e buone
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posizioni all’interno dei cartelli chimici. Prendiamo anche l’esempio della
Montecatini: per acquisire una duratura supremazia nel fondamentale settore dei
concimi chimici, l’impresa di Guido Donegani si lancia nella produzione di azoto
sintetico con l’originale metodo Fauser che lo ricava da acqua, aria, elettricità. Ma
per un obiettivo del genere la società milanese deve attuare costosissimi
investimenti, ovvero la costruzione di centrali idroelettriche. Per giustificare un
impegno del genere Donegani ha bisogno del totale controllo del mercato interno.
Chiede quindi a Mussolini dazi che costituiscano barriere insuperabili e all’inizio
degli anni Trenta li ottiene. Del resto la Montecatini era l’epitome dell’impresa
fascista. In particolare per la produzione di azoto sintetico, che corrispondeva a tre
idee-forza del regime: ruralismo, bellicismo, e infine autarchia, dati gli ingredienti
necessari. Nulla viene dato per gratuito, però. In cambio della protezione tariffaria
il governo chiede alla Montecatini una serie di salvataggi: l’ACNA, impresa
produttrice di coloranti; la Montevecchio, che in Sardegna gestiva giacimenti
piombiferi; le maggiori aziende attive nel settore marmifero carrarese. Alla
Montecatini viene anche chiesto di tenere in vita produzioni obsolete, come la
lignite, o autarchiche, si veda il caso dello zinco con un impianto elettrolitico.
L’azienda di Donegani si appesantisce così con danno irreparabile nel differente
contesto del secondo dopoguerra. È questa l’origine del fallimento che porta nel
1966 alla disastrosa fusione con la Edison. Si ricordi infine la vicenda della
chimica italiana negli anni Settanta, quella che è all’origine del famoso processo
IMI-SIR. Tre aziende – Montedison, ENI e SIR di Nino Rovelli – costruiscono tre
impianti simili nello stesso luogo, Ottana, al centro della Sardegna. Non c’è
razionalità economica ma solo ragioni strategico-politiche. In totale, se il
capitalismo americano può essere definito manageriale, se quello inglese è un
capitalismo personal-famigliare, e se il tedesco può essere indicato come
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capitalismo cooperativo, non pare esagerato definire quello italiano un capitalismo
politico.
6. Il grande capitalismo privato
Non c’è solo questo in Italia. C’è anche una grande industria orientata al mercato.
Giovanni Battista Pirelli si consolida ed amplia la propria azienda sin dall’ultimo
ventennio dell’Ottocento rispondendo a commesse pubbliche nel settore dei cavi
telegrafici e telefonici. Pirelli tuttavia costruisce ben presto un’impresa che
compete sul mercato internazionale costruendo stabilimenti in Spagna, in Sud
America, addirittura in Inghilterra, nel cuore del capitalismo globale. La Fiat è
senz’altro un’impresa che “nasce bene”. Fra gli azionisti ci sono i migliori nomi
dell’aristocrazia e della borghesia torinese e all’inaugurazione del primo
stabilimento sono presenti due altezze reali. Tuttavia la Fiat è l’impresa egemone
dell’industria automobilistica italiana già alla vigilia della prima guerra mondiale
quando produce la metà dei veicoli nazionali, grazie ad un imprenditore, Giovanni
Agnelli, il primo a comprendere che l’automobile non è un giocattolo per ricchi
ma un tipico prodotto di massa della seconda rivoluzione industriale. Agnelli è
quindi capace di attuare una vasta operazione di integrazione verticale dalle
fonderie ai garage per la vendita che dà alla Fiat un incolmabile vantaggio sugli
altri competitori nazionali. Si consideri anche il caso della Falck che fabbrica
acciaio con una tecnologia flessibile come quella che consente il forno elettrico e
che punta su un mercato “normale” ovvero non legato a commesse militari, per la
meccanica e lo sviluppo urbano.
7. Il mercato interno ristretto
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Perché questo capitalismo pur orientato al mercato non si trasforma in capitalismo
manageriale all’americana o famigliar-manageriale alla tedesca? Appare decisiva
in questo senso la ristrettezza del mercato interno che se all’inizio degli anni Venti
vede pari ad 1 il reddito pro capite italiano, deve assegnare il doppio a quello
inglese e francese e un 3,6 all’americano. Del resto quando i tecnici della Fiat
vanno a Detroit a studiare il funzionamento delle celebri catene di montaggio di
Ford, tornano con una relazione nella quale è scritto che il loro sistema appariva
impetuoso come un torrente di montagna a paragone del quale la catena del
Lingotto sembrava uno stagnante rigagnolo. E tutto ciò non sembra esagerato,
dato che alle 2000 automobili giornaliere della Ford ne corrispondevano 300 della
Fiat. È il paese, l’Italia, nel quale la maggiore impresa chimica, la Montecatini, ha
alla base dei suoi affari la produzione di concimi – “con la calciocianamide il
villano se la ride” recita un celebre slogan – mentre è ben visibile la debolezza
della chimica industriale. L’Italia è il paese in cui una catena di grande
distribuzione, la Rinascente, non può puntare sui magazzini di lusso e riesce
quindi a salvarsi dalla grave crisi dei primi anni Trenta con la riconversione verso
i negozi popolari della UPIM (Unico prezzo italiano Milano). È l’Italia in cui nel
1932 il direttore generale della Fiat, Vittorio Valletta, predica un fordismo grazie
al quale quattro operai comprano una Balilla, l’automobile meno cara della Fiat
sebbene costosa quanto un appartamento. Ai quattro ipotetici operai Valletta
chiedeva di recarsi al lavoro insieme con l’automobile acquistata e quindi di
godersela con la famiglia una domenica al mese ciascuno. Si potrebbe sostenere
che un’alterativa possibile era rappresentata dalle esportazioni, ad esempio la Fiat
collocava all’estero nel 1922 il 70% della propria produzione. Ma il mercato
internazionale si presentava caratterizzato da forti incertezze e fluttuazioni.
Quando nel 1926 il governo italiano decide di sostenere la lira probabilmente oltre
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i limiti del ragionevole, il settore automobilistico, ad esempio, riceve un durissimo
colpo.
8. Il settore elettrico cuore del potere economico
Alla vigilia della seconda guerra mondiale il capitalismo industriale italiano
sembra regredire verso forme feudali. È quanto afferma il magnate dell’industria
elettrica Ettore Conti in una celebre pagina del suo Taccuino di un borghese. In
essa si afferma che mentre in Italia si celebra un sistema politico ed economico
che va verso il popolo, la realtà dice di interi rami dell’industria governati da un
uomo, Agnelli, Pirelli, Donegani, Falck, Cini, Volpi. A fine anni Trenta Stato e
famiglie dominano la grande industria italiana e la loro azione converge nel
controllo del settore elettrico, un’industria resa possibile dall’eccellenza tecnica
dei nostri ingegneri ma che finisce per risolversi in un terreno di sicura rendita. I
capi dell’industria elettrica più che a top manager in senso anglosassone
assomigliano a funzionari, funzionari di un grande imprenditore pubblico come
Alberto Beneduce, o di eminenti famiglie, gli Agnelli, i Pirelli, i Crespi, i
Feltrinelli, i Borletti, i Marchi.
9. Un miracolo che viene da lontano
Pur in un percorso tutt’altro che lineare, quando inizia la seconda guerra mondiale
l’Italia è l’unico paese del Mediterraneo ad avere raggiunto uno stabile stadio di
industrializzazione. Non ce l’ha fatta la Spagna, ad esempio, che forse si è affidata
troppo alle multinazionali. Per l'Italia è la prima guerra mondiale con le commesse
della Mobilitazione Industriale il punto di non ritorno al termine del quale la
nazione è fra le otto più industrializzate del mondo. Ma già negli anni
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immediatamente precedenti la Grande Guerra il paese è autonomo per una
produzione essenziale come quella siderurgica, mentre un'impresa come l'Ansaldo
nonostante la megalomania dei suoi capi ha impianti che suscitano l'ammirazione
degli addetti militari tedeschi. Nel corso della prima metà del ventesimo secolo si
formano in Italia importanti forze produttive che si concretizzano soprattutto nella
costituzione di coorti manageriali. Sono ad esempio gli “uomini del Professore”,
ovvero i dirigenti della Fiat che affiancano Vittorio Valletta nella grande
performance degli anni Cinquanta. Quasi tutti entrano in azienda all'inizio degli
anni Venti per rispondere alle esigenze create dalla inaugurazione del Lingotto, il
più moderno impianto automobilistico d'Europa. Sono i “siderurgici” di Oscar
Sinigaglia, il “samurai” che ha individuato nell'acciaio la questione economica
fondamentale dell'economia italiana. Sinigaglia sin dal 1910 espone un lucido
programma di sviluppo e specializzazione degli impianti a ciclo integrale che
diano al paese prodotti siderurgici su vasta scala, di buona qualità e a basso
prezzo. Sinigaglia prosegue la sua azione per tutto il periodo considerato,
particolarmente importante è a sua opera all'interno della Sofindit, la finanziaria
che raggruppa le partecipazioni industriali della Banca Commerciale Italiana
all'inizio degli anni Trenta. E' qui che Sinigaglia ha un'influenza decisiva su un
manager come Agostino Rocca che alla fine degli anni Trenta realizzerà il primo
stabilimento a ciclo integrale di Cornigliano, presso Genova, un'esperienza che,
sebbene vanificata dai tedeschi nel 1943 è all'origine dei grandi successi degli
anni Cinquanta. Un terzo nucleo di assoluta rilevanza è costituito dai seguaci di
Francesco Saverio Nitti, l'uomo politico lucano, che riteneva solo
l'industrializzazione potesse risolvere la grande questione nazionale, quella del
Sud. Il più importante dei “nittiani” è Alberto Beneduce, l'ideatore della formula
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IRI, ovvero di un'insieme di imprese di proprietà pubblica ma caratterizzate da
uno stile manageriale privato.
10. La grande impresa protagonista del miracolo
Gli anni a cavallo del 1960 sono ricordati come il periodo del “miracolo
economico” italiano. Indiscussi protagonisti sono imprenditori che giocano in
grande e non vedono il mercato frenato da vincoli insuperabili. Perseguono quindi
le economie di scala e di diversificazione lanciandosi nella costruzione di grandi
impianti e grandi organizzazioni. Non vedono nella contrattazione con il potere
politico l'essenza del proprio agire imprenditoriale. Questa è data piuttosto da
produzioni di massa che rendano accessibili beni essenziali alla maggioranza dei
consumatori. Si consideri Vittorio Valletta e il lancio della 600 nel 1955 e della
500 due anni dopo. Per l'Italia è il raggiungimento della motorizzazione con livelli
comparabili a quelli del grande paese d'oltreoceano. Un traguardo impensabile
pochi anni prima. Oscar Sinigaglia realizza un piano per la siderurgia degno di un
John Rockefeller. Costruisce un grande impianto a ciclo integrale presso Genova,
a Cornigliano appunto, secondo lo stato dell'arte della tecnologia. Specializza la
produzione degli altri impianti, chiude quelli obsoleti licenziando migliaia di
operai. Sinigaglia era molto sensibile ai costi sociali e a chi gli obiettava le
conseguenze della sua azione in questo campo rispondeva che offrendo acciaio di
buona qualità e a basso prezzo sviluppava potentemente l'industria meccanica
ottenendo quindi un massiccio incremento dell'occupazione. Altro grande “primo
attore” di questa fase è il leggendario Enrico Mattei, il fondatore dell'ENI, che
realizza a vantaggio dell'industria settentrionale una fitta rete metanifera mentre
attua un'efficace politica nel settore del petrolio grazie a geniali e rischiosi accordi
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con i paesi produttori. Mattei si avvale della sua posizione in campo metanifero
per strappare alla Montecatini, a vantaggio degli agricoltori italiani, la leadership
dei concimi chimici azotati. Nel 1956, infatti, costruisce a Ravenna un impianto
petrolchimico con un investimento di sessanta miliardi. Sei anni prima la
Montecatini aveva speso per un analogo stabilimento a Ferrara diciotto miliardi.
Le economie di scala realizzate dall'ENI sono imbattibili. Un quarto
indimenticabile protagonista è Adriano Olivetti, l'imprenditore più consapevole
delle conseguenze sociali dell'industrializzazione ma così concreto da realizzare
nel campo dei prodotti per ufficio una multinazionale da cinquantamila
dipendenti, tale da acquisire alla fine degli anni Cinquanta una delle maggiori
imprese americane del settore la Underwood. Importante è notare come non ci sia
differenza in questa golden age fra privato e pubblico (a questo proposito
potremmo aggiungere il caso dell'Alfa Romeo di Giuseppe Luraghi). Certo non
tutti vincono. Perdenti sono coloro che restano fermi alla cultura e al modo di
operare del periodo precedente, al capitalismo politico. La prova più chiara è la
vicenda della Montecatini che dopo il 1945 non muta la filosofia di do ut des con
il potere politico restando un'obsoleta conglomerata.
11. Un approdo “giapponese”?
Un reddito nazionale che in vent'anni (1950-1970) cresce mediamente del 6%
annuo; la Fiat quinta impresa automobilistica mondiale potenzialmente in grado di
competere sul mercato internazionale con l'esperienza acquisita nel segmento
delle small cars; la Olivetti che primeggia sui mercati internazionali con le sue
macchine per scrivere e con le sue calcolatrici tanto da acquisire una corporation
americana di primo rango; Enrico Mattei protagonista della politica petrolifera
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internazionale; la siderurgia che passa dal nono al sesto posto nel mondo; il
nucleare che vede il paese all'avanguardia in Europa; la formazione di nuovi
settori industriali come quello degli elettrodomestici e il generale irrobustimento
della struttura produttiva cosicché i sarti diventano industriali dell'abbigliamento, i
falegnami mobilieri, i calzolai calzaturieri. Tutto questo dava la sensazione che
l'Italia potesse spingersi sino alla frontiera dell'economia mondiale, come il
Giappone, un paese certo lontano ma per molti versi vicino data la
periodizzazione del suo sviluppo industriale, dato il ruolo giocato in esso
dall'attore pubblico. La chiave per comprendere i diversi esiti dei due paesi è
nell'elemento politico-istituzionale. Negli anni Trenta in Giappone l'azione dello
Stato è troppo pervasiva: una selva di leggi e regolamentazioni finisce per
ingessare l'economia nazionale. Il Giappone dove la burocrazia è forte mentre
debole è la politica, apprende la lezione. Nel secondo dopoguerra si assiste al
ritiro dell'intervento pubblico diretto; i grandi ministeri dirigono la politica
industriale grazie a guidelines, a moral suasion. Si delinea una sorta di quadratura
del cerchio per cui lo Stato protegge e sostiene le grandi imprese ma le obbliga a
confrontarsi con il mercato globale. In un tentativo di storia controfattuale si
potrebbe dire che in Italia lo Stato avrebbe dovuto ritirarsi dall'intervento diretto e
dedicarsi alla creazione di un quadro di regole all'interno delle quali la grande
impresa potesse prosperare. Sarebbe stata necessaria quindi un'efficace protezione
degli investitori in Borsa; la promozione di investitori istituzionali; la revisione
della legge bancaria con il ripristino della cosiddetta haus bank; una legislazione
antitrust; il governo delle trasformazioni sociali e del conflitto.
12. Uno Stato politicizzato
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Quella italiana è una società che, date le caratteristiche del processo che ha portato
alla formazione dello Stato unitario, si è sempre contrassegnata per la sua
frammentazione localistica tale da non sopportare un rapporto diretto fra Stato e
cittadini, necessitando invece di una mediazione da parte della politica. Quando si
parla di pubblico in Italia, quando si parla di Stato, è sempre necessario
intravedere l'azione e la discrezionalità della politica. Si prenda il caso di quello
che diverrà il sistema delle Partecipazioni Statali. La formula Beneduce –
proprietà pubblica e stile managerial-imprenditoriale privato – era la brillante
soluzione di un nodo storico, la discrepanza fra le necessità di investimenti
industriali e la disponibilità di capitali. Ma i rischi non erano di poco conto. La
fase della “negligenza benigna” da parte dei politici non dura molto a lungo. Già
alla metà degli anni Cinquanta si intravede uno spoil system che segnerà
pesantemente l'intera costruzione. E dato il cosiddetto bipartitismo polarizzato che
la natura del maggiore partito di opposizione, il Partito Comunista Italiano, rende
inevitabile, si tratta di uno spoil system a senso unico che finisce per rendere
irresponsabili governo ed opposizione. Lo Stato Imprenditore diviene sempre più
uno strumento per il consenso, ovvero cresce per incrementare l'occupazione
sicuro grimaldello del successo elettorale. Nel 1956 con la nascita del Ministero
delle Partecipazioni Statali viene creata una catena di comando che nel corso degli
anni si rivelerà micidiale. Prendiamo il caso siderurgico. Alla fine degli anni
Cinquanta era necessario incrementare sostanzialmente la capacità produttiva.
Viene effettuata una indagine fra i maggiori dirigenti della Finsider, la finanziaria
siderurgica dell'IRI, il responso è quasi unanime e prevede il raddoppio dello
stabilimento di Piombino, un sito di antica industrializzazione. Il Ministero insiste
perché un nuovo impianto sorga a Taranto, la città pugliese in crisi per lo stato dei
suoi cantieri. I capi della Finsider vi si recano e, constatata la grave situazione di
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disagio sociale, si convincono a costruire a Taranto il quarto centro siderurgico
dopo quelli di Genova, Piombino, Bagnoli. Ma gli allievi di Oscar Sinigaglia non
potevano non confrontarsi con le esigenze del mercato. Propongono quindi di
costruire un impianto che realizzi grandi tubi per metanodotti e lamiere per navi,
ovvero prodotti ad alto valore aggiunto. Ancora una volta prevalgono i politici e
impongono il dissennato incremento della produzione con la costruzione di diversi
altiforni. E' la produzione di massa a basso costo per la quale si va a sicura
sconfitta da parte dei concorrenti asiatici. L'occupazione aumenta ma per la
Finsider è l'inizio della fine, che arriva con la “bancarotta” del 1988, un debito di
25.000 miliardi. Una sorte simile rischia l'ENI, che, obbligata a salvataggi da leggi
del parlamento – un vero e proprio metodo sovietico di esproprio delle prerogative
di impresa – viene trasformata di fatto da azienda a ente per lo sviluppo. Pasquale
Saraceno . accademico ma anche fra i maggiori dirigenti dell'IRI, testimone e
protagonista della sua vicenda – afferma l'esigenza per l'impresa pubblica di
perseguire il concetto di “economicità”, ovvero la dialettica fra massimizzazione
del profitto e istanze politico-sociali. E' quanto di fatto avviene con i cosiddetti
oneri impropri, ovvero indicazioni politiche di investimenti per le imprese
pubbliche e vincoli localizzativi che il parlamento compensa con un fondo di
dotazione. E' un metodo che finisce per rendere irresponsabile il management
pubblico. L'economicità di Saraceno è un concetto affascinante ma che non regge
alla prova dei fatti.
13. L'approdo mancato
L'incapacità di raggiungere i risultati del Giappone si concretizza in cinque
grandi episodi.
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1. La degenerazione dello Stato Imprenditore, di cui si è parlato proprio ora;
2. Il fallimento dei progetti di frontiera tecnologica. E' l'Olivetti che dopo
l'improvvisa scomparsa del suo leader Adriano Olivetti non riesce a
concretizzare l'occasione della pionieristica produzione di computer, una
iniziativa i cui costi andavano ben oltre le disponibilità di una impresa
famigliare. E' l'abortire del grande progetto di dotare il paese di una rete di
impianti nucleari, che solo una determinata e unitaria politica industriale
poteva rendere realistico.
3. Le conseguenze della nazionalizzazione dell'energia elettrica. E' il risultato
della decisione caldeggiata dal governatore della Banca d'Italia Guido Carli di
indennizzare le aziende e non gli azionisti. Carli pensava di ripetere
l'operazione del 1905 quando gli indennizzi della nazionalizzazione delle
ferrovie si erano riversati nell'emergente industria elettrica. Ora si pensava alla
chimica ma il contesto competitivo era ben diverso né esisteva una Borsa per
sanzionare i comportamenti negativi degli imprenditori né una haus bank tale
da indirizzarli correttamente. Il risultato più rilevante di questo snodo è la
disastrosa fusione fra Montecatini ed Edison.
4. La crisi delle grandi famiglie che si verifica diffusa negli anni Sessanta fra
vecchie e nuove dinastie industriali. Del resto nel 1976 viene pubblicata una
ricerca dello studioso italo-americano Robert J. Pavan, dalla quale emerge
l'incapacità di crescere e di competere sui mercati internazionali della grande
impresa famigliare italiana all'interno della quale i dirigenti risultano giudicati
più per la fedeltà che per le performances.
5. Il “lungo autunno”. E' il periodo che inizia con la vertenza Fiat del settembre
1969 e che si conclude sempre alla Fiat con la cosiddetta marcia dei
quarantamila nell'ottobre del 1980. E' un periodo di importanti conquiste
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sociali ma anche di tragici conflitti come la diffusione del terrorismo. Ciò che
risalta è l'incapacità di incanalare politicamente e istituzionalmente giustificate
rivendicazioni, alla maniera tedesca con la cogestione.
Sono sconfitte dalle quali la grande impresa non si riprenderà più, nonostante i
ruggenti anni Ottanta, del resto profondamente contrassegnati dall'assenza di
regole. Carlo De Benedetti quota in Borsa quattro volte la stessa società; la Fiat
vende le azioni libiche con metodi non proprio trasparenti. Raoul Gardini acquista
la Montedison con i soldi della Montedison. Una vera e propria fortuna per l'Italia
è rappresentata dalla piena adesione al progetto europeo, dall'accordo di
Maastricht. Esso porta non solo alla moneta unica ma anche all'instaurazione
finalmente di regole, come l'antitrust, il rafforzamento della Consob, la legge sulle
SIM, la nuova legge bancaria, la legge sulla corporate governance. Ma “i buoi
sono scappati”. La grande impresa è irrimediabilmente depotenziata. Nel 1997 la
Montedison cede le attività chimiche. Quasi nello stesso periodo la Fiat entra in
una crisi di cui è difficile prevedere la conclusione, mentre le prime imprese
italiane risultano quelle come l'ENI e la Telecom che nella realtà usufruiscono di
forti posizioni di rendita.
14. La scoperta della piccola impresa
L'Italia degli anni Settanta è un mistero. Sembra afflitta da tutti i mali e da tutte le
crisi ma continua a crescere seconda solo al Giappone fra i paesi dell'OCSE. Si
“riscopre” allora la piccola impresa, spesso organizzata nella forma del distretto
industriale - un territorio definito dedicato alla produzione di un bene per la quale
viene realizzata una divisione del lavoro sia orizzontale sia verticale, ovvero oltre
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al bene si fabbricano anche le macchine per la sua realizzazione. Nel 1991 quando
il parlamento approva una legge che intende tutelarli, vengono censiti 199 distretti
che possono contare 2.200.000 addetti, ossia il 45% dell'occupazione
manifatturiera complessiva. Sono i distretti che indirizzano le proprie risorse
verso la produzione di beni per la persona e per l'abitazione ad essere protagonisti
nell'ascesa del “made in Italy”. I distretti si formano in un processo di lungo
periodo. Se la causa scatenante è l'emergere di un mercato nazionale e
internazionale nel secondo dopoguerra, le origini sono senz'altro remote. Un forte
ruolo è giocato dalla tradizione corporativa come dal retaggio mezzadrile con
l'etica del lavoro, le tante abilità manuali, lo “spirito imprenditoriale”. Importanti
sono anche l'antica consuetudine di raffinata domanda urbana e l'attitudine al
commercio cosmopolita. In ogni caso, quello dei distretti è un successo che non si
spiega solo con la quantità e qualità dei fattori individuali. Decisivo è l'apporto di
un'istituzione come la famiglia per aziende nelle quali padroni ed operai sono
spesso parenti. Così come in primo piano è la comunità locale, per cui la
concorrenza è bilanciata da un senso di solidarietà e le conoscenze tecniche e
professionali sono “nell'aria”. Altrettanto importanti sono le istituzioni locali sia
con interventi positivi, come ad esempio nel campo dell'istruzione e della
costruzione di infrastrutture, ma anche con la tolleranza verso comportamenti
discutibili (evasione fiscale). Si consideri infine l'elemento relativo alla
omogeneità politica: i distretti fioriscono in aree o fortemente “rosse” o a netta
prevalenza cattolica. In questo modo è possibile attenuare il lacerante conflitto
sociale che caratterizza la grande impresa. Tutte queste virtù non possono
nascondere lati oscuri come la sottocapitalizzazione, la sclerosi produttiva, la
volatilità dei mercati al cui interno i distretti operano, mercati soprattutto di beni
voluttuari, come si è già detto, la diffusa piaga dell'evasione fiscale. Un quadro di
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luci e di ombre quindi che in definitiva riesce a catturare la grande vitalità del
paese.
15. Il quarto capitalismo
Dai distretti emergono non di rado imprese che in essi creano precise gerarchie.
Tali attori vengono definiti “quarto capitalismo” perché non possono essere
identificati né con la grande impresa privata né con quella pubblica né con la
piccola impresa. Alla fine degli anni Novanta sono attive in Italia un migliaio di
aziende che fatturano fra i trecento e i tremila miliardi di lire. Una parte di esse ha
origini che risalgono al periodo successivo alla prima guerra mondiale, altre sono
figlie del miracolo economico, altre ancora nascono proprio con la crisi degli anni
Settanta. Due le caratteristiche fondamentali: grande abilità tecnica di origine
addirittura artigianale - si pensi a Leonardo Del Vecchio e alla sua Luxottica -
oppure una straordinaria capacità commerciale come nel caso della Divani e
Divani di Pasquale Natuzzi. La formula del successo di questo quarto capitalismo
è la concentrazione su una nicchia ma a livello globale, come sanno i produttori
fabrianesi di cappe aspiranti. Il quarto capitalismo ha fatto scrivere che l'Italia più
che un declino stia subendo una metamorfosi. In realtà questo nuovo protagonista
deve affrontare due nodi irrisolti. Il primo riguarda quella che oggi viene definita
governance, ovvero il modo in cui si rende armonico il rapporto fra proprietà,
controllo e gestione d'impresa. Il quarto capitalismo è nettamente dominato da
imprese famigliari, con tutti i problemi che questo assetto comporta. Il secondo
riguarda i settori in cui esso opera – tessile, abbigliamento, calzature, pelli e
cuoio, legno e mobili, ceramiche e marmo, oreficeria, gioielleria, strumenti
musicali, articoli sportivi, giocattoli – ovvero quelle produzioni a cui si accennava
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in precedenza riferendosi ai distretti, produzioni che non sono certo quelle di
frontiera.
16. Conclusione
Teniamoci stretto il quarto capitalismo ed i distretti, che almeno - mi si permetta
infine di usare una metafora sportiva – ci consentono di giocare in serie B. Per la
serie A in un libro pubblicato qualche anno fa dal dean della Sloan School
dell'MIT, Lester Thurow, le sette industrie chiave del XXI secolo erano indicate
nella microelettronica, nei computer e nel software, nelle telecomunicazioni, le
biotecnologie, le nuove scienze dei materiali, la robotica e le macchine utensili,
l'aviazione civile: questi sono inequivocabilmente affari della grande impresa. In
un brillante articolo pubblicato in un volumetto nel 1998 l'illustre economista
Giacomo Becattini ripensando alla storia economica italiana e all'emergere negli
ultimi decenni dei distretti industriali scriveva che in fondo poteva andarci peggio.
A conclusione di un lavoro realizzato con il collega Andrea Colli ritenevo di
opporgli un “si poteva fare meglio”. Certo, c'è da chiedersi se la dimensione
nazionale sia oggi l'unità d'analisi più adeguata. Penso che un discorso su grande e
piccola impresa debba essere inquadrato almeno all'interno del processo di
integrazione europea. Se questo si realizzerà senza riserve, potremo accettare
quello che Porter definisce il nostro vantaggio competitivo. Se invece gli stati
nazionali resteranno protagonisti allora le regole del gioco saranno quelle del
secolo scorso. In questo caso forse forse dalle vicende raccontate si potrà trarre
qualche insegnamento.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI
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cura di), Storia d'Italia. Annali, vol. 1, Dal feudalesimo al capitalismo, Einaudi, Torino, 1978
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periodo, in L. Cafagna e N. Crepax (a cura di), Atti di intelligenza e sviluppo economico. Saggi per
il bicentenario della nascita di Carlo Cattaneo, Il Mulino, Bologna, 2001