Post on 05-Aug-2015
description
transcript
1
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI L’AQUILA
Corso di Laurea in Scienze e Tecnologie per l’Ambiente
Tesi
La Geoingegneria, nuovi metodi artificiali
per contrastare il riscaldamento globale
Chiarissimo Prof. G. Visconti Laureando Brancaccio Alessio
Matricola 154859
Anno Accademico 2012 - 2013
2
3
4
5
Indice
I. Tecniche di Geoingegneria ................................................................................ pag.7
II. Il ciclo del carbonio ............................................................................................ pag.9
III. Tecniche di Geoingegneria CDR (Carbon Dioxide Remotion) ......................... pag.23
Fertilizzazione degli oceani con ferro e altre sostanze nutritive ................................... pag.23
Gestione ed uso del territorio: rimboschimento e prevenzione disboscamenti ........... pag.26
Sfruttamento della biomassa e del biocarbone (biochar) .............................................. pag.30
Accelerazione dei processi di disgregazione (meteorizzazione) ................................... pag.33
Separazione di CO2 dall’aria atmosferica ...................................................................... pag.38
Alberi artificiali per la cattura di CO2 ........................................................................... pag.56
Bioreattori ad alghe: cattura di CO2 in ambienti urbani ............................................. pag.58
IV. Il vulcanismo e la trasformazione ...................................................................... pag.62
V. Tecniche di Geoingegneria SRM (Solar Radiation Management) ................. pag.63
Aumento dell’albedo sulla superficie terrestre ............................................................. pag.67
Aumento dell’albedo mediante la creazione di nubi sul mare ..................................... pag.68
Gli aerosol: fonti ed accumuli ......................................................................................... pag.72
Immissione di aerosol nella stratosfera .......................................................................... pag.84
Installazione nello spazio di vele solari .......................................................................... pag.87
VI. Le differenze fondamentali tra metodi CDR ed SRM ....................................... pag.88
VII. Le future esigenze della Geoingegneria ............................................................. pag.91
Controllo .......................................................................................................................... pag.92
Ricerca e Sviluppo ........................................................................................................... pag.93
VIII. L’accettabilità pubblica della Geoingegneria ................................................. pag.93
Il cambiamento climatico e la Geoingegneria, il contesto politico .................. pag.94
6
Prefazione
Negli ultimi 100 anni, abbiamo assistito ad un incremento sempre maggiore delle concentrazioni di gas
serra nella nostra atmosfera che ha avuto, come principale effetto, quello di portare ad un radicale
cambiamento delle condizioni climatiche nel nostro Pianeta. Il progresso tecnologico, se da una parte ha
determinato un miglioramento delle condizioni di vita umane, dall’altra ha aumentato i livelli di
inquinamento atmosferico in maniera esponenziale, generando il fenomeno del Riscaldamento Globale
(Global Warming) che consiste in un aumento delle temperature medie globali derivanti dall’uso
eccessivo di energie non rinnovabili (come la combustione di idrocarburi, utilizzo di carbon fossile e gas).
Le conseguenze nel lungo termine saranno estremamente minacciose, soprattutto se le nazioni
continueranno a fare i propri interessi economici, sottovalutando la possibilità di cambiare lo stile di vita
nei prossimi decenni, attraverso l’utilizzo di energie rinnovabili dal Sole (energia fotovoltaica), dal vento
(energia eolica), dagli alberi (attraverso l’imboschimento). Infatti se questo cambiamento avvenisse
troppo lentamente, rischieremmo di vanificare tutti i nostri sforzi, innescando in questo modo un processo
irreversibile.
Attualmente, si stanno sperimentando nuove metodologie di approccio al problema, ma non lo stanno
risolvendo a pieno: ciò sta portando a prendere in seria considerazione un “piano-B”, il quale proverà a
contrastare le emissioni di gas serra attraverso l’introduzione della “Geoingegneria”, che consiste
nell’applicazione di tecniche artificiali, poste in essere dall’uomo, per modificare l’ambiente fisico
(atmosfera, oceano, biosfera, litosfera, idrosfera, criosfera), prevenendo situazioni di rischio ambientale
che possono incidere negativamente sulla salvaguardia delle popolazioni di un determinato territorio.
TECNICHE DI GEOINGEGNERIA
Ormai il cambiamento climatico è già in atto: i suoi impatti saranno gravosi e seri, se non si prenderanno
provvedimenti adeguati. Questi possono essere ridotti tramite la mitigazione, in modo da ridurre le
emissioni globali di gas serra. Nonostante tutto, gli sforzi compensativi per cercare di ridurre il fenomeno
del riscaldamento globale non sono ancora sufficienti e non danno fiducia: per raggiungere lo scopo si
spera che gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2, da dopo il 2012, incentiveranno un’azione più
ampia di mitigazione mirata allo sviluppo di meccanismi più efficaci, ma vi è il serio rischio che queste
azioni non possano essere introdotte in tempo, nonostante le tecnologie necessarie siano oggi disponibili e
convenienti.
Probabilmente il riscaldamento globale supererà i 2°C nel corso di questo secolo, a meno che le emissioni
di gas serra vengano ridotte del 50%, riportandole ai livelli del 1990. Nella comunità scientifica, non è
credibile lo scenario di emissioni in cui la temperatura media globale raggiungerà il suo massimo per poi
iniziare a diminuire entro il 2100: ed ecco che qui viene richiesta un’azione aggiuntiva di mitigazione e la
Geoingegneria, ancora in fase di sperimentazione, può rappresentare una valida alternativa al
raggiungimento degli obiettivi prefissati di abbattimento dei gas serra. I metodi di Geoingegneria possono
essere utili in futuro solo se l’umanità prenderà coscienza di come attuare uno stile di vita sostenibile, che
stimolerebbe lo stanziamento di fondi verso la ricerca di ulteriori studi, analisi e approfondimenti. La
tecnologia che serve a metterli in pratica si è appena evoluta e quindi vi sono grandi incertezze riguardo la
loro efficacia, costi e impatti ambientali.
Con i metodi di Geoingegneria si può intervenire in due modi diversi:
O attraverso la gestione della radiazione solare;
O attraverso la rimozione di anidride carbonica in atmosfera
7
Il primo metodo presenta rischi ed incertezze nelle previsioni sia a breve che a lungo termine.
Il secondo coinvolge minori incertezze e rischi, ma determinerebbe un effetto più lento nel ridurre la
temperatura globale e, a lungo termine, questo metodo potrebbe dare un importante contributo al
raggiungimento dello scopo.
L’accettabilità della Geoingegneria sarà determinata sia da questioni sociali, giuridiche, politiche sia da
fattori tecnici e scientifici: vi sono delle questioni serie di controllo che devono essere risolte se mai la
Geoingegneria dovesse assumere un ruolo fondamentale nel moderare i cambiamenti climatici in corso.
Sarebbe altamente inauspicabile che questi metodi comportanti attività o effetti influenti al di fuori dei
confini nazionali (oltre che semplicemente la rimozione dei gas serra), siano sperimentati prima che
meccanismi di controllo idonei vengano perfezionati.
Le principali raccomandazioni da mettere in atto sono queste:
1. Le parti che sottoscrivono la convenzione dovrebbero sforzarsi maggiormente verso la
mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico, in particolare per aver accettato la
riduzione delle emissioni globali di gas serra almeno del 70%, provvedendo a farle tornare ai
livelli del 1990 entro il 2025 e riducendole ancora successivamente;
2. Ulteriori ricerche e sviluppi delle diverse opzioni di Geoingegneria dovrebbero essere compiute
per verificare se i metodi a basso rischio possono essere resi disponibili in caso si renda
necessario ridurre il tasso di riscaldamento entro la fine di questo secolo;
Ciò dovrebbe includere le osservazioni del caso, lo sviluppo dei modelli climatici esistenti, e
sperimentazioni attentamente pianificate e riproducibili.
I metodi di Geoingegneria si dividono in due grandi categorie di classi fondamentali:
1. Tecniche di gestione della radiazione solare (metodi SRM - Solar Radiation Management)
2. Tecniche di rimozione dell’anidride carbonica (metodi CDR - Carbon Dioxide Remotion)
Figura 1. Rappresentazione schematica di varie proposte di ingegneria del clima (per gentile concessione B.Matthews)
8
Perché si discute di Geoingegneria?
La pubblicazione delle prime riflessioni su come modificare su vasta scala l’ambiente sulla Terra risale a
circa venti anni fà. Il primo approccio allo studio della Geoingegneria è iniziato nel 1990, dal
prof. David Keith dell’Università di Harvard, membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati
Uniti (US National Academy of Sciences - NAS) e della Commissione Scientifica della Royal Society,
che ha sede a Londra ed è composta da scienziati provenienti da tutto il mondo: tra i prestigiosi studi del
prof. Keith ricordiamo gli impatti della geoingegneria sul clima mondiale, la cattura diretta di CO2
dall’aria e la valutazione dell’impatto climatico dato dall’utilizzo di turbine eoliche.
Negli anni a seguire, la comunità internazionale si è resa conto che il cambiamento del clima e i suoi
effetti costituivano un problema globale e, nel 2006, il premio Nobel Paul Crutzen pubblicò un articolo
scientifico sul giornale New York Times, che riscosse un grande eco nei media: lo scienziato olandese,
esperto di Chimica atmosferica, discuteva l’alternativa di ridurre l’aumento globale della temperatura
immettendo negli strati superiori dell’atmosfera solfati sotto forma di aerosol. Come numerosi suoi
colleghi, egli era del parere che, malgrado gli evidenti rischi, bisognasse continuare a studiare i vari
metodi della Geoingegneria. Considerati gli scarsi progressi della politica climatica delle Nazioni Unite,
che non permettevano di sperare in una rapida riduzione delle emissioni di gas serra, la Geoingegneria
potrebbe risultare un giorno l’unica possibilità di limitare il riscaldamento del pianeta ad un livello
accettabile. Per favorire gli altri sforzi mirati di riduzione è inoltre ipotizzabile ricorrere in via provvisoria
a metodi che presentano un rischio relativamente contenuto: questi tipi di ponderazione, che tengano
conto in ugual misura del potenziale e dei rischi, sono ormai ampiamente diffusi negli ambienti scientifici
e vengono adottati in misura crescente anche nelle discussioni politiche e sociali.
IL CICLO DEL CARBONIO
Il ciclo globale del carbonio ha un ruolo importante nel mediare le concentrazioni di gas serra
nell'atmosfera e così influenza il tasso mediante il quale l’equilibrio può essere ripristinato.
Il carbonio viene scambiato naturalmente tra la terra, gli oceani e l'atmosfera, e grandi quantità sono
conservate nei “bacini” naturali sulla terra e negli oceani. Ogni anno 60-90 Gt di carbonio vengono
assorbite dall'atmosfera, dalla vegetazione , dalla superficie terrestre, dalla superficie degli oceani e un
importo pari viene rilasciato nell'atmosfera. Di gran lunga il più grande “serbatoio” di carbonio in questo
sistema si trova nelle profondità dell'oceano, dove esiste prevalentemente sottoforma di ioni bicarbonato
(HCO3-).
Prima della Rivoluzione Industriale, questi flussi erano vicini all’essere bilanciati, con un piccolo flusso
netto di una frazione di GtC/anno dall’atmosfera al suolo e dagli oceani all'atmosfera. Oggi c'è un flusso
di circa 2 GtC /anno dall'atmosfera verso il suolo e l’oceano: questo in parte viene compensato dall’uso di
combustibili fossili e dalla variazione della destinazione d'uso del rilascio di CO2 dalla terra all'atmosfera.
Negli oceani, l'assorbimento di questo aumento di CO2 atmosferica (Figura 2) ha portato ad una
diminuzione del pH medio delle acque superficiali oceaniche da 0,1 unità a partire dalla Rivoluzione
Industriale. Quest’acidificazione dell'oceano continuerà ad aumentare in futuro con l'aumento dei
livelli di CO2 (Fonte: Royal Society, 2005). La temperatura del pianeta è rilevata nella parte superiore
dell'atmosfera e si ottiene facendo il rapporto tra la radiazione solare assorbita e la radiazione ad onde
lunghe emessa verso lo spazio.
Qualsiasi squilibrio in questi flussi energetici costituisce una “forzatura radiativa” che provoca, in ultima
analisi, un adeguamento della temperatura media globale fino a quando l'equilibrio è ristabilito.
Ad esempio, le attività umane fin dai tempi pre-industriali sono stimate di aver prodotto una forzatura
radiativa netta di circa 1,6 W/m2. Circa la metà di questa è stata bilanciata dal riscaldamento globale di
0,8°C fino ad oggi, ma una simile quantità di ulteriore riscaldamento si avrebbe anche se i gas serra come
9
la CO2 e altri fossero stati immediatamente stabilizzati ai livelli attuali. Questo ritardo nella risposta della
temperatura media globale è dovuto principalmente alla grande capacità termica degli oceani, che si
scaldano solo lentamente. Il raddoppio della concentrazione di CO2 rispetto al valore pre-industriale di
550 ppm darebbe una forzatura radiativa di circa 4 W/m2 e un equilibrio al riscaldamento globale stimato
di circa 3°C (Gamma 2,0 - 4,5 °C) (Fonte: IPCC, 2007).
Figura 2. Rappresentazione del fenomeno di acidificazione delle acque oceaniche
Figura 3. Rappresentazione del ciclo globale del carbonio, dove i numeri e le frecce in nero rappresentano le
dimensioni dei flussi accumulati nello stato stazionario pre-industriale, mentre quelle in rosso rappresentano addizioni
dovute alle attività umane (in unità di GtC e GtC / anno, rispettivamente, adeguate al periodo 1990-1999). Ristampato
con l'autorizzazione di Sarmiento & Gruber (2002).
Accumuli di carbonio antropogenico. Physics Today55 (8): 30-36, 2002. American Institute of Physics.
10
Il ciclo del carbonio viene suddiviso in due sottocicli:
ciclo biologico (che riguarda il passaggio del carbonio dalle piante agli animali e all’ambiente);
ciclo geochimico o ciclo inorganico del carbonio (che riguarda il passaggio del silicio dalle rocce
sedimentarie superficiali, all’atmosfera, alla biosfera e all’idrosfera)
In entrambi i cicli gioca un ruolo fondamentale l’anidride carbonica (CO2): questo composto è presente
sottoforma di gas nella nostra atmosfera e viene assorbita dalle rocce quando queste vengono alterate sia
dai processi meteorici che dalle piante nel corso della fotosintesi; quest’ultima produce tutto il carbonio
organico dell’ecosfera, come mostrato dalla biochimica del ciclo del carbonio.
Il carbonio rimane immobilizzato per periodi più o meno lunghi nelle sostanze organiche degli organismi
morti e nei rivestimenti rigidi esterni, composti per lo più da carbonato di calcio (CaCO3), di molluschi o
di altre specie animali. Il carbonio viene così sottratto al serbatoio atmosferico man mano che questi
materiali si depositano sottoforma di sedimenti, che vengono a loro volta incorporati nella crosta terrestre.
Allo stesso tempo, sostanze organiche e calcari antichi vengono erosi e alterati chimicamente dagli agenti
atmosferici e, con l’ossidazione delle sostanze organiche e la dissoluzione dei carbonati, l’anidride
carbonica viene restituita al sistema dinamico e contribuisce a mantenerlo in equilibrio.
La quantità di anidride carbonica, CO2 in atmosfera è controllata attraverso una serie di meccanismi adatti
a diverse scale temporali: per esempio l’anidride carbonica che immettiamo in atmosfera bruciando
combustibili fossili (come la benzina o il gasolio per autotrazione) viene in parte assorbita dall’oceano in
meno di 10 anni, e in parte dalle piante in circa 20 anni. Su tempi decisamente più lunghi, e cioè
dell’ordine di qualche centinaio di milione di anni, c’è un altro meccanismo di controllo basato
sull’erosione delle rocce.
In questo caso, la sorgente principale di CO2 sono i vulcani: la pioggia che cade sulla Terra trascina con sé
anidride carbonica disciolta, che a contatto con l’acqua forma acido carbonico (H2CO3) che, a sua volta, a
contatto con le rocce superficiali formate da silicati di calcio (CaSiO3) va a formare carbonato di calcio
(CaCO3) e silice o ossido di silicio (SiO2 ):
I fiumi trasportano questi minerali al mare, dove vanno a formare i sedimenti sul fondo. Se non esistesse
un meccanismo per svuotare l’oceano da tali sedimenti, nel giro di circa 100 milioni di anni tutti gli
oceani verrebbero riempiti!
Questo meccanismo è fornito dalla teoria detta “Tettonica delle Zolle”, che descrive i movimenti della
crosta terrestre: lungo le fosse oceaniche, la crosta terrestre viene sepolta per tornare nelle profondità del
mantello allo stato fuso.
Laggiù, il carbonato di calcio viene riportato ai suoi costituenti principali, tra cui l’anidride carbonica, che
viene emessa naturalmente dai vulcani. Questo è un magnifico esempio del “sistema - Terra”, perché
presuppone un’interazione evidente tra atmosfera e interno della Terra. Peraltro, questo è un meccanismo
già suggerito negli anni ’80 del secolo scorso, in grado di regolare la temperatura terrestre in modo
completamente asettico. Se l’anidride carbonica, per qualche ragione, dovesse aumentare ancora, in un
primo tempo questo comporterebbe un innalzamento della temperatura: di conseguenza, si avrebbe
un’intensificazione del processo di evaporazione di acqua dagli oceani, che determinerebbe un aumento
dell’umidità atmosferica e dell’entità delle precipitazioni.
Con l’aumento delle piogge aumenta il processo di erosione, diminuisce la concentrazione atmosferica di
anidride carbonica e quindi si riduce anche la temperatura. Questo meccanismo di regolazione della
temperatura va visto alla luce del meccanismo di feedback del vapor d’acqua. In questo caso il
meccanismo funziona su scala temporale assai più lunga.
11
Immaginiamo una situazione in cui non vi siano più piogge o se le rocce superficiali fossero sottratte al
fenomeno dell’erosione: in questo caso non ci sarebbe nessun meccanismo in grado di rimuovere la CO2,
la quale seguiterebbe ad accumularsi in atmosfera, contribuendo al riscaldamento del pianeta in una
maniera abnorme (come nel caso del pianeta Venere, temperatura superficiale di 425°C, 698 K). C’è un
modo per sottrarre le rocce dall’erosione: queste dovrebbero essere ricoperte di ghiaccio per qualche
milione di anni, come accadrebbe nel caso di una Terra palla di neve o “Snowball”.
Figura 4. Schema di scambio del carbonio tra atmosfera, biosfera, litosfera ed idrosfera
Lo schema rappresenta, in sintesi, le direzioni dei flussi di carbonio (sottoforma di specie chimiche
diverse) tra le varie sfere che compongono il sistema Terra:
Atmosfera
Biosfera
Litosfera
Idrosfera
La molecola di CO2
E’ una molecola lineare caratterizzata da due doppi legami tra il carbonio centrale e i due ossigeni ai lati.
La sua struttura è apolare, termine che sta ad indicare che il baricentro delle cariche positive coincide con
quello delle cariche negative: il risultato di questa coincidenza è la neutralità della molecola.
12
Ha una massa che è 3,67 volte quella di un atomo di carbonio: per convertire le masse di carbonio in CO2
devono essere moltiplicate per 3,67. Per specificare meglio ciò vengono utilizzate le masse relative di
carbonio, in quanto la quantità di carbonio rimane la stessa indipendentemente dalla sua forma chimica
(carbonio, CO2, CH4, ecc.)
Bilancio di massa della CO2
Misure provenienti da carotaggi di ghiaccio mostrano che le concentrazioni atmosferiche di CO2 sono
aumentate da 280 ppmv nel periodo pre-industriale alle attuali 365 ppmv. Le continue misurazioni
atmosferiche effettuate dal 1958 dall’Osservatorio di Mauna Loa nelle Hawaii hanno dimostrato il
secolare aumento della CO2, in base alla figura seguente:
L'attuale tasso di crescita globale della CO2 atmosferica è di 1,8 ppmv/anno, corrispondente a 4,0
PgC/anno. Tale incremento è dovuto principalmente alla combustione di combustibili fossili: quando il
combustibile viene bruciato, quasi tutto il carbonio nel combustibile viene ossidato a CO2, che viene
emessa nell'atmosfera. Le statistiche di utilizzo del carburante per la stima dell’emissione di CO2
corrispondono attualmente a 6,0 ± 0.5 PgC/anno.
Un'altra fonte significativa di CO2 è la deforestazione nei tropici, in base ai tassi di invasione agricola
documentata da osservazioni satellitari, si stima che questa fonte è pari a 1,6 ± 1,0 PgC/anno.
Sostituendo i numeri di cui sopra in una equazione globale di bilancio di massa per la CO2 atmosferica:
Troviamo che la sommatoria delle fonti = 6.0 + 1.6 - 4.0 = 3.6 PgC/anno. Solo la metà della CO2 emessa
dalla combustione di combustibili fossili e dalla deforestazione in realtà si accumula nell'atmosfera.
L'altra metà è trasferita in altri serbatoi geochimici (oceani, biosfera, e suoli). Abbiamo bisogno di
comprendere i fattori che controllano gli accumuli, al fine di prevedere le tendenze future di CO2
atmosferica e valutare le loro implicazioni per il cambiamento climatico. Un accumulo nella biosfera
significherebbe che il combustibile fossile CO2 avrebbe un effetto fertilizzante, con possibili importanti
conseguenze ecologiche.
13
Fotosintesi
La vegetazione terrestre e i terreni contengono 3 volte più carbonio di quello contenuto nell’aria.
Ogni anno, con il processo fotosintetico, più di 100 PgC che esistono nell´atmosfera in forma di CO2 sono
catturati dalla biodiversità terrestre e più di 40 PgC dalla biodiversità marina. In questo modo in pochi
anni tutta la CO2 atmosferica può essere riciclata dall’attivitá vegetativa.
In maniera semplice la fotosintesi o reazione clorofilliana può scriversi nella seguente forma:
Dove CH2O rappresenta la combinazione molecolare base dello zucchero (per esempio la formula del
glucosio è C6H12O6).
Ogni molecola di CO2 dell´aria viene convertita in un atomo di carbonio organico (Corg) che passa a
formare parte di uno zucchero, e una molecola residua di ossigeno (O2) che passa nel serbatoio
dell’atmosfera. Per questo anche se in forma più schematica, la reazione della fotosintesi può scriversi
così:
Ossidazione
La fotosintesi ha la sua contropartita nella respirazione metabolica della maggior parte dei batteri, delle
piante e degli animali. La respirazione consiste chimicamente nell’ossidazione del carbonio organico,
reazione in cui rilascia CO2 e calore:
Concretamente la reazione completa di ossidazione di una parte di glucosio é:
In questo modo la maggior parte del Corg creato dalla fotosintesi si consuma velocemente e si ossida,
tornando a formare CO2, sia nella respirazione metabolica degli stessi organismi fotosintetici autotrofi che
lo hanno creato (batteri, alghe, piante), sia per la respirazione degli animali eterotrofi che si alimentano di
questi. L’animale uomo, che segua una dieta media di 2.800 kcal/giorno, produce più di 1 Kg di CO2.
Un’altra piccola parte è costituita dal carbonio contenuto nei resti e cadaveri di batteri, piante e animali,
che viene anche ossidato, in una reazione di decomposizione simile alla respirazione.
Se queste due reazioni biochimiche opposte, fotosintesi e ossidazione, fossero state sempre della stessa
intensità, non ci sarebbero in questo ciclo né perdite né guadagni di CO2 atmosferico, né si sarebbe
accumulato ossigeno nell’atmosfera. Il carbonio contenuto nella materia organica, creata nella fotosintesi,
vegetale e trasmessa dalla catena alimentare alla vita animale, sarebbe restituito all´atmosfera in forma di
CO2 con l’ossidazione derivata dalla respirazione metabolica e dalla putrefazione della materia morta. Ma
non tutto il carbonio formato nella fotosintesi viene consumato, poiché una certa quantità contenuta nei
resti fossili di piante e animali, resta interrato nelle rocce senza possibilità di essere ossidato e convertito
di nuovo in CO2.
14
Interramento del carbonio organico
Nei continenti, questa distinzione tra ossidazione e fotosintesi avviene quando la vegetazione morta è
interrata nei fondali di laghi, paludi e pianure deltaiche. Così il carbonio organico viene isolato
dall’ossigeno atmosferico, non si ossida e quindi fossilizza. Il carbonio resta lì senza potersi ossidare
completamente e in questo modo viene restituito all’aria: in parte si trasforma in idrati di carbonio e
idrocarburi.
L’interramento del carbonio organico è molto efficiente: solo lo 0,05 PgC/anno di un totale di 140
PgC/anno prodotto con la fotosintesi nei mari e continenti finisce nelle rocce sedimentarie.
La produzione netta di ossigeno dovuta a questo processo è anche molto poca: per ogni atomo di carbonio
interrato, con peso atomico 12, viene rilasciata una molecola di O2, con peso atomico 32, la fonte di
ossigeno è 0,05 x (32/12) = 0,13 Pg /anno, quantità piccola se la compariamo con l’ossigeno esistente
nell’atmosfera che è di 1:105 Pg .
Nelle epoche passate i ritmi di interramento possono essere stati superiori, il che spiega come alcuni
giacimenti di carbone superano a volte i 5.000 metri di spessore. Le condizioni topografiche ideali per la
formazione di questi depositi sono, oltre alla vegetazione abbondante e di ciclo rapido, l’esistenza di
conche collettrici e di inondamento lento e progressivo, dove possono accatastarsi grandi quantità di
materiale vegetale e dove penetra poco materiale erosivo e che non sia di tipo organico. Così in un lungo
e complesso processo biochimico di trasformazione, in cui intervengono anche i batteri, si formano acidi
organici e carbone. Nel corso della carbonizzazione si rilasciano per via chimico-fisica, acqua, metano e
gruppi idrossilici, che si formano dalla torba iniziale, dando luogo ad un carbone via via sempre più puro.
Pompe marine biologiche
Gran parte della fotosintesi nella biosfera è effettuata dal fitoplancton marino: circa 40 PgC annui. Il
fitoplancton vive nelle prime decine di metri della superficie oceanica, nella zona eufotica, lì fin dove
arriva la luce del Sole. Questi microscopici organismi trasformano i nutrienti in materia organica vegetale
che continuamente vengono raccolti e assunti dallo zooplancton: esso metabolizza l’alimento, respira e
restituisce all’acqua parte della CO2, producendo però anche residui organici che cadono nel fondo
marino in forma di espulsioni fecali.
La massa di questi residui, della materia organica e degli esoscheletri e carapaci del plancton morto e che
non è stata ossidata, rappresenta qualcosa come il 25% della biomassa prodotta. Questo fa sì che
diminuisca la pressione dell’anidride carbonica (pCO2) dell’acqua superficiale e che per pareggiarlo gli
oceani assorbino la CO2 dell´aria, per cui la concentrazione di CO2 atmosferica diminuisce quando
aumenta la produttività biologica marina.
Durante la caduta verso le profondità oceaniche, quasi tutta la materia organica che si calcola in circa
16 PgC annui viene inghiottita e ossidata dai batteri e microbi eterotrofici che, al tempo stesso, respirano
ed esalano CO2 (Fonte: Azam, 2001; Giorgio & Duarte, 2002). La concentrazione di CO2 all’interno degli
oceani si moltiplica per 3 rispetto alla superficie. Così, dopo l’esportazione del carbonio organico dalla
zona eufotica verso le profondità marine, che si suole chiamare “pompa biologica” seguita dalla
remineralizzazione del carbonio organico (riconversione del carbonio organico disciolto in forma di CO2),
fa sì che esista un gradiente verticale nella concentrazione di CO2 disciolta nell’acqua (DIC Dissolved
Inorganic Carbon), che aumenta con la profondità. In ogni caso una piccola quantità di materia organica
riesce ad arrivare sul fondo e rimane interrata, che è dell´ordine di circa 0,05 PgC/anno e passa a formare
parte delle rocce sedimentarie. In stati concentrati può formare depositi di idrocarburi gassosi (metano) o
liquidi (petrolio) che riempiono i pori delle rocce spugnose come l’arenaria o possono impregnare di
carbonio organico altri sedimenti minerali come le argille. Si chiama kerogeno questo carbonio organico
che non sedimenta in forma compatta fino a che impregna di carbonio gli altri sedimenti. Il Kerogeno
delle rocce nel suo complesso contiene più carbonio di tutti i giacimenti di carbone e petrolio, però si
15
trova molto sparso, impregnando diversi tipi di rocce, per cui il suo sfruttamento come combustibile è
molto più difficile.
Il “pompaggio biologico” dipende prima dall’attivitá del fitoplancton, e questa a sua volta, dipende dalla
maggiore o minore abbondanza di nutrienti in superficie, specialmente di nitrati, fosfati e ferro. Si pensa
che proprio il ferro sia il più importante elemento per lo sviluppo del fitoplancton: ciò significa che con
più ferro anche le zone che ne contengono poco, come il centro-sud del Pacifico con la sua fertilizzazione,
un giorno anche queste zone e altre potrebbero accelerare l´attivitá fitoplanctonica e fissare enormi
quantità di CO2 dall’atmosfera, riducendo così il fenomeno dell’ “inquinamento da CO2”.
Sono stati effettuati degli esperimenti in tal senso ma i risultati non sono stati così positivi come la teoria
diceva in principio ( Fonti: Boyd, 2000; Dalton, 2002; Zeebe, 2005).
Evoluzione della concentrazione di ossigeno
Attualmente la miscela di gas che compone l’aria è formata dal 21% di ossigeno (Fonte: Sleep, 2001) ma
adesso, in base a recenti ricerche, si pensa che sia stato un processo molto lento e che non arrivò a livelli
importanti fino a 600 milioni di anni fa, alla fine del Precambriano, come è stato provato dalla comparsa
in quel periodo di esseri viventi più complessi che necessitarono di più O2 e che poterono svilupparsi solo
grazie ad un volume adeguato di ossigeno. (Fonte: Lenton, 2004).
Quando abbonda l’interramento di materia organica, la reazione si sviluppa
producendo ossigeno che viene rilasciato in atmosfera: ma esso non è solo controllato dal ciclo
biochimico del carbonio ma anche da quello dello zolfo.
La materia organica del suolo aiuta la riduzione batterica dei solfati, la produzione di acido solfidrico e la
precipitazione della pirite (FeS2) come segue:
Dalle analisi risulta che negli ultimi 540 milioni di anni il contenuto di ossigeno nell’atmosfera è oscillato
tra il 15% e il 35% e il massimo si raggiunse durante il periodo detto Carbonifero finale, quindi, all’inizio
del periodo Permiano, circa 300 milioni di anni fa, poi scese bruscamente al 15% durante la transizione
tra il Permiano e il Triassico, circa 250 milioni di anni fa. La ragione della forte salita nel finale del
Carbonifero sembra essere legata ad un intenso e continuo interramento di materiale organico dovuto allo
sviluppo di piante legnose nei continenti (Fonte: Berner, 1999; 2003).
La successiva diminuzione di concentrazione di O2 che arrivò anche ad un solo 10% all´inizio del
Giurassico, (circa 200 milioni di anni fa) può essere dovuta ad un raffreddamento e ad un aumento della
siccità che diminuì lo sviluppo delle piante e quindi gli interramenti. Poi l’ossigeno aumentò fino alla
concentrazione attuale aiutando lo sviluppo dei grandi mammiferi (Fonte: Falkowski, 2005).
Quando appare un processo che rompe l’equilibrio, ne appare un altro che lo ristabilisce. Per esempio se
l´atmosfera guadagna ossigeno per una intensificazione della fotosintesi può succedere:
a) che si intensifichi anche l’ossidazione delle rocce con conseguente perdita di ossigeno;
b) che avendo più ossigeno prolificano nel suolo microorganismi eterotrofi che mangiano e ossidano la
materia organica interrata e che fa diminuire anche l’ossigeno dell’aria;
c) che con più ossigeno aumenta la probabilità di incendi giganteschi (come avvenne 400 milioni di anni
fa) e con la combustione si riduce di nuovo l’ossigeno ristabilendo l’equilibrio. I processi contrari e altri
avverrebbero se l’ossigeno diminuisse.
16
Aspetti marini
Il mare contiene in soluzione 50 volte più carbonio che nella CO2 dell’aria: 40.000 PgC e 750 PgC,
rispettivamente (1PgC = 1 Petagrammo Carbonio = 106 tonnellate di Carbonio). Tra la superficie del mare
e l´aria esiste, in entrambi i sensi, un continuo scambio di CO2. In alcune epoche il mare si comporta
come una fonte di CO2 atmosferico e in altre come un serbatoio.
L’abbondanza di carbonio nel serbatoio oceanico si spiega, in parte, per l’alta solubilità della CO2 e per la
sua facilità di reagire chimicamente con l’acqua. Infatti, l’anidride carbonica disciolta si combina con
l’acqua di mare formando acido carbonico (H2CO3), che immediatamente si dissocia in ioni di
bicarbonato (HCO3-) e di carbonato (CO3
2-). Quasi tutto il carbonio disciolto è nella forma di questi due
ioni: circa l’85% in forma di bicarbonato e circa il 15% in forma di carbonato, e solo lo 0,5% di tutto il
carbonio inorganico disciolto è nella forma di CO2 gassoso, e la concentrazione di acido carbonico
(H2CO3) è ancora minore.
La pressione della CO2 nell’acqua (pCO2) dipende direttamente dalla sua concentrazione e inversamente
dalla sua solubilità. Per esempio, quando l’acqua si raffredda, la solubilità della CO2 aumenta, perché i
gas sono più solubili in acqua fredda che calda, con questo diminuisce la pCO2 nell’acqua. Si produce uno
squilibrio tra le pressioni pCO2 della superficie dell’acqua e l’aria a contatto con questa, e allora l’acqua
assorbe più CO2 aumentando la sua concentrazione: come conseguenza, diminuisce la concentrazione di
CO2 nell’aria. Il processo inverso succede quando l’acqua si riscalda. Pertanto quando si raffreddano le
acque, l’oceano assorbe CO2 dall’aria e fa diminuire la sua concentrazione nell’atmosfera, e al contrario,
quando esse si riscaldano, l’oceano rilascia CO2 e aumenta la sua concentrazione nell’atmosfera.
Nei processi di interscambio tra mare e aria è importante tenere conto delle correnti termoaline, che fanno
sì che in alcune regioni le correnti marine, che portano con sé CO2 disciolto, affondano e in altre zone
affiorano. Attualmente in alcune regioni ad alte latitudini, mari nordici, del Labrador e mari costieri
antartici, l’acqua fredda superficiale, ricca di CO2, affonda portando con sé il carbonio che con le correnti
profonde oceaniche, si sparge ovunque negli oceani. In altre zone l’acqua marina profonda affiora in
superficie e riscaldandosi si sovrasatura, rilasciando la CO2 nell’aria. Le zone a ventilazione maggiore si
trovano nelle zone tropicali del Pacifico e nei mari del Sud.
L’affondamento (downwelling) e l’affioramento (upwelling) dell´acqua provocato da queste correnti
termoaline, i cui flussi globali di carbonio sono molto importanti e differenti, da circa 25 e 28 PgC/anno
rispettivamente, contribuiscono al riciclaggio della CO2 tra i mari e l’aria. La sua alterazione modifica i
flussi di interscambio e altera la concentrazione di CO2 nell’atmosfera: se l’intensità della ventilazione
rallenta, le acque oceaniche profonde non rilasciano la CO2 di cui sono composte nel pompaggio
biologico e, di conseguenza, la concentrazione di CO2 diminuisce nell’atmosfera. Al contrario, se il
circuito termoalino si intensifica, la ventilazione oceanica aumenta e la concentrazione di
CO2 nell’atmosfera aumenta anch’essa.
Chimica dei carbonati nell’oceano
L'anidride carbonica si dissolve nell'oceano per formare H2CO3 (acido carbonico), un acido diprotico
debole, che si dissocia a HCO3- (bicarbonato) e CO3
2- (carbonato). Questo processo è descritto dagli
equilibri chimici:
17
con costanti di equilibrio 3x10-2 M atm-1, = 9x10-7 M
(pK1 = 6.1) e
7x10-10 M (pK2 = 9.2). Qui è la costante di Henry, che
descrive l'equilibrio della CO2 tra la fase gassosa e acquosa, K1 e K2 sono la prima e la seconda costante
di dissociazione dell’acido carbonico. I valori indicati qui per le costanti sono tipiche dell’acqua di mare e
tengono conto delle correzioni della forza ionica, della formazione di complessi, e degli effetti di
temperatura e pressione.
Il pH dell’oceano è di 8.2. L'alcalinità del mare viene mantenuta dall’erosione delle rocce di base
(Al2O3, SiO2, CaCO3) sulla superficie dei continenti, seguita da deflusso degli ioni disciolti dai fiumi
verso l'oceano. pK1 < pH < pK2 la maggior parte della CO2 disciolta nell'oceano è in forma di HCO3- :
Speciazione del carbonato totale di CO2 (aq) in acqua di mare vs pH
Rappresentiamo la frazione atmosferica F di CO2 nel sistema atmosfera-oceano:
dove è il numero totale delle molecole di CO2 nell’atmosfera e è il numero totale di
molecole di CO2 dissolte nell’oceano come H2CO3, HCO3-, CO3
2-:
Le concentrazioni di CO2 nell'atmosfera e nell'oceano sono legati dall’equilibrio:
18
e è in relazione a al livello del mare attraverso la Legge di Dalton:
Dove P = 1 atm è la pressione atmosferica al livello del mare ed 1.8x1020
moli nel numero totale di
moli dell’aria.
Assumendo che l'intero oceano per essere in equilibrio con l'atmosfera, mettiamo in relazione a
[ ] per il volume totale Voc = 1,4 x 1018 m3 del mare:
E alla fine si ottiene per F:
Per un oceano avente pH di 8.2 e altri valori numerici sopra indicati si ottiene per F = 0,03. All'equilibrio,
quasi tutta la CO2 è disciolta nell’oceano, solo il 3% si trova in atmosfera. Il valore di F è estremamente
sensibile al pH. Nell’assenza di alcalinità oceanica, la maggior parte delle emissioni di CO2 sarebbero
partizionate in atmosfera.
Dipendenza dal pH della frazione F atmosferica di CO2 in equilibrio nel sistema atmosfera-oceano
In equilibrio, il 28% di CO2 emessa dall’oceano rimane nell'atmosfera e il resto è incorporato in esso. La
grande differenza rispetto al valore del 3% riflette previamente l’elevato feedback positivo che deriva
dall’aggiunta di CO2, che da luogo al fenomeno dell’acidificazione degli oceani.
Questo equilibrio non è in realtà realizzato a causa della miscelazione lenta dell'oceano. Qui di seguito si
mostra un modello semplice (box) per la circolazione oceanica.
19
Modello box per la circolazione di acqua nell'oceano. Le giacenze sono in 1015
m3 e i flussi sono in 10
15 m
3/anno
Il modello Box del ciclo del carbonio
Si presenta un modello a scatola del ciclo di carbonio in condizioni di equilibrio preindustriali.
L’assorbimento da parte della biosfera e degli oceani rappresentano serbatoi di grandezza paragonabili a
quelli relativi alla CO2 atmosferica, con conseguente tempo di residenza atmosferica di CO2 di 5 anni:
Il ciclo del carbonio preindustriale. Le giacenze sono espresse in PgC, mentre i flussi in PgC/anno
Come incide la Geoingegneria sul ciclo del carbonio?
E’ interessante riscontrare gli effetti che la Geoingegneria esercita sul ciclo del carbonio: essa infatti è in
grado di ridurre le concentrazioni di CO2 atmosferica e questo è previsto dalla natura duale di feedback
del ciclo del carbonio. La Geoingegneria permette ai serbatoi di carbonio naturali di stoccare anidride
carbonica senza avere gli svantaggi associati alle alte temperature e quindi questi accumuli diventano
20
molto importanti e si è riscontrato che il sequestro era dovuto quasi interamente nella terraferma, piuttosto
che nell’oceano:
Figura 5a. Grafico che mostra la variazione dei flussi di carbonio dall’atmosfera alla superficie terrestre,
considerando l’intervento della Geoingegneria
In questo grafico, i valori positivi indicano che la Terra è un “pozzo” di carbonio netto che assorbe CO2,
mentre i valori negativi indicano un rilascio di CO2. Notare i picchi di grandi dimensioni negative quando
la tecnica di geoingegneria non è attiva: la terra, come risposta al riscaldamento improvviso, butta fuori
la maggior parte del carbonio che aveva precedentemente assorbito.
All’interno della componente terrestre, si è scoperto che l’accrescimento del serbatoio di carbonio è
dovuto quasi interamente a quello presente nel suolo, invece di quello contenuto nella vegetazione.
Figura 5b. Grafico che mostra la variazione dei flussi di carbonio nel suolo, considerando l’intervento della
Geoingegneria
21
Questo grafico mostra il contenuto totale di carbonio parametrizzato rispetto ai flussi, inteso come
l’integrale del precedente grafico, senza considerare il carbonio contenuto nella vegetazione.
Figura 5c. Grafico che mostra la variazione del pH superficiale marino, considerando l’intervento della
Geoingegneria
Fonti grafici a,b,c: “Transient climate-carbon simulations of planetary geoengineering” D.Matthews, K.Caldeira,
Dipartimento di Ecologia globale, Università di Stanford, CA USA (2007)
Infine, la minore CO2 atmosferica, ha determinato un maggiore discioglimento di CO2 nel mare,
alleviando leggermente il fenomeno dell’acidificazione degli oceani. Questo beneficio viene a perdersi
rapidamente quando la Geoingegneria viene meno.
Si è studiato il potenziale di un’altra tecnica specifica di geoingegneria: il sequestro del carbonio
attraverso la meteorizzazione artificiale dei silicati mediante la dissoluzione di olivine. Questo
approccio non solo opera contro il rialzo delle temperature, ma si oppone anche all’acidificazione degli
oceani. Se vengono presi in considerazione dettagli della chimica marina, un nuovo rapporto di massa di
sequestro della CO2 di circa 1 per la dissoluzione di olivine, viene precedentemente assunto il 20% in
meno. Si calcola che questo approccio abbia il potenziale di sequestrare direttamente fino a 1 PgC/anno,
se le olivine venissero distribuite come polveri fini su aree terrestri umide dei tropici, ma questa
percentuale è limitata dalla concentrazione di saturazione di acido silicico. Questi tassi di sequestro limite
superiori provengono dal valore dei costi ambientali del pH nei fiumi che, per esempio, sale a 8,2 per
quelli dell'Amazzonia e del Congo (Fonte: Köhler et al., 2010).
Gli effetti secondari dell'input di acido silicico connesso con questo approccio conduce in un modello di
ecosistema (Re-COM2.0 in un modello GCM elaborato dal MIT) che spostano via le specie soggette a
calcificazione in direzione delle diatomee, alterando in tal modo le pompe di carbonio biologiche.
A tal proposito, uno studio condotto dai ricercatori della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli,
pubblicato sulla rivista Nature, rivela che una risposta all'effetto serra potrà venire proprio dalle diatomee,
alghe unicellulari reperibili in acque dolci e marine. Studiando il loro genoma della diatomea
Phaeodactylum tricornutum, hanno scoperto che questi organismi nel corso della loro evoluzione hanno
assorbito i geni di altre specie animali e vegetali e le loro caratteristiche nutrizionali più “vincenti”.
Secondo i ricercatori innescando una riproduzione di massa di queste diatomee, si potrebbe risolvere il
problema dell'anidride carbonica atmosferica in eccesso, che causa l'effetto serra, grazie alla loro
efficienza nell'assorbire CO2 e utilizzarla, come ogni vegetale, per il proprio sostentamento, liberando
ossigeno.
Nel corso della loro evoluzione queste alghe hanno acquisito molti geni vantaggiosi da batteri, animali e
22
piante, e proprio questi hanno loro consentito di svolgere il ruolo fondamentale che oggi ricoprono negli
oceani.
La dissoluzione in oceano aperto di olivine sequestrerebbe circa 1 Pg CO2 per Pg olivina di cui circa l'8%
sono causa di modificazioni apportate alle pompe biologiche (aumento delle esportazioni di materia
organica, diminuzione delle uscite di CaCO3). L'impatto chimico di scioglimento in mare aperto
dell’olivina (aumento dell’alcalinità in entrata) è dapprima quindi meno efficiente dello scioglimento
sulla terra, ma porta, a causa di impatti chimici ad un incremento del valore di pH sulla superficie per
contrastare l'acidificazione dell’oceano. Abbiamo finalmente osservato sui tassi in oceani aperti lo
scioglimento fino a 10 Pg di olivine ogni anno, corrispondente ai tassi di geoingegneria, che potrebbero
essere di interesse alla luce di future emissioni (con aumento delle stesse a 30 PgC/anno nel 2100 d.C.).
Questi tassi sarebbero sequestrati soltanto del 20% in meno rispetto alle emissioni fino al 2100, ma
potrebbero richiedere che l'attuale capacità disponibile di petroliere e navi da trasporto venisse utilizzata
per la dissoluzione di olivine dieci volte l'anno.
Tecniche di Geoingegneria CDR (Assorbimento dell’anidride carbonica dall’atmosfera)
Le tecniche CDR riducono la concentrazione atmosferica dell’anidride carbonica. Questo effetto viene
ottenuto in primo luogo manipolando gli ecosistemi al fine di aumentare in modo mirato l’assorbimento
dei gas serra nella biomassa terrestre o marina.
I metodi di CDR sono supportati da una serie di individui ed organizzazioni come l’IPCC
(Intergovernmental Panel on Climate Change), l’UNFCCC (United Nations Framework Convention on
Climate Change), il WWI (World Watch Institute), il WWF (World Wide Found for Nature) e il Centro
Lenfest per l’Energia Sostenibile presso l’Istituto della Columbia University e l’OCSE (Organizzazione
per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico).
Oltre a questi approcci, in parte noti da tempo, sono state proposte anche soluzioni nuove e puramente
tecniche per assorbire e immagazzinare la CO2.
Analizziamo una per una le tecniche CDR e i meccanismi di azione più importanti:
Fertilizzazione degli oceani con ferro e altre sostanze nutritive
Gli oceani svolgono un ruolo enorme nella definizione del clima planetario, sia attraverso il trasporto del
calore e fornitura di vapore acqueo, che attraverso l'assorbimento di una grande frazione di CO2 dei
combustibili fossili. Le stime relative all’accumulo netto nell'oceano di CO2 ammontano a circa il 40%
delle emissioni derivanti dai combustibili fossili (attraverso la reazione del gas CO2 con lo ione carbonato
contenuto sulla superficie dell' intero oceano, e basate su modelli derivati da Oeschger et al. 1975.), che
sono attualmente vicine a 3 GtC /anno mentre, recentemente, Tans et al. (1990) riportano un valore molto
più basso di 0,6 GtC/anno.
Il ruolo oceanico dipende quasi totalmente dal tasso di miscelazione e di alcalinità.
L'importo potenziale di carbonio totale che potrebbe essere utilizzato dalla fotosintesi oceanica è stato
stimato essere di 35 Gt/anno.
Nel 1984, tre gruppi di ricerca hanno pubblicato indipendenti ipotesi su questo fenomeno (Knox e
McElroy; Sarmiento e Toggweiler; Siegenthaler e Wenk). Ognuno è giunto alla conclusione che la chiave
è nelle concentrazioni di nutrienti, nelle regioni superficiali oceaniche polari. In settori come l'estremo
nord del Pacifico e l'oceano circumpolare antartico, sono inutilizzate alte concentrazioni di nitrati e fosfati
(gli ingredienti chiave per la crescita delle piante). I modelli del 1984 hanno dimostrato che, se questi
nutrienti sono stati assimilati, la conversione di CO2 in carbonio organico potrebbe facilmente spiegare il
segnale dell’era glaciale. Questi nutrienti possono essere considerati come un'importante capacità chimica
23
dell'oceano inutilizzata, uno di una scala che incide significativamente sull'equilibrio globale del
carbonio.
La fertilizzazione degli oceani con il ferro è un metodo proposto per far aumentare la quantità di
alghe per l'assorbimento di CO2. L’anidride carbonica necessaria per tale crescita viene fornita in parte
dall’atmosfera: quando le alghe muoiono e si depositano sul fondo marino, il carbonio presente nella
biomassa non si diffonde nell’atmosfera.
Questa metodica consiste nello scaricare in mare tonnellate di solfato di ferro, che si trova o nella
forma ferrosa FeSO4 oppure nella forma ferrica Fe2 (SO4)3. Per verificare la funzionalità di questo
metodo, alcuni scienziati indiani dell’Istituto Nazionale di Oceanografia in collaborazione con quelli
tedeschi dell’Istituto Alfred Wegener e altri 50 scienziati arrivati da diverse nazioni come la Spagna, Cile,
Francia, Gran Bretagna e anche dall’Italia, hanno preso parte ad un esperimento denominato Lohafex
(termine che deriva da “Loha” parola hindi che significa ferro e “fex” sta per esperimento di
fertilizzazione).
Il gruppo di scienziati dei 7 Paesi è salpato il 7 Gennaio del 2009 da Cape Town, in Sudafrica, sulla nave
Polarsten diretta verso il Mare di Scozia, in una zona a sud dell’Oceano Atlantico tra Argentina e la
Penisola Antartica. Lì sono state scaricate 20 tonnellate di solfato di ferro in 2 mesi e mezzo su una
superficie oceanica di 300 km2 attraverso cui gli scienziati hanno cercato di stimolare la crescita
delle alghe per aumentare così il loro assorbimento della CO2.
Nonostante le avverse condizioni meteo, gli scienziati hanno analizzato per 39 giorni gli effetti del
supplemento di ferro sul plancton e sulla chimica dell’oceano.
In un primo momento, tutto sembrava procedere come previsto: il ferro stimolava la crescita del
fitoplancton (la parte vegetale del plancton), che era raddoppiato in numero nel corso delle prime 2
settimane dello studio ma poi, improvvisamente, è intervenuto lo zooplancton (la parte animale), che per
mezzo della catena alimentare ha provveduto a riequilibrare il rapporto tra il numero delle prede e quello
dei loro predatori (principio ecologico di Lotka-Volterra). Questo fenomeno è stato spiegato dal dott.
Wajih Naqvi, del NIO (National Institute of Oceanography) indiano: “la crescente pressione di pascolo
dello zooplancton composto da piccoli crostacei (copepodi) ha impedito l’ulteriore fioritura di
fitoplancton”.
L’aumento abnorme della popolazione di zooplancton ha tenuto sotto controllo quella di fitoplancton,
impedendo un ulteriore assorbimento di CO2. Di conseguenza, solo una percentuale minima di carbonio è
stata sottratta agli strati superficiali per essere immagazzinata nelle profondità oceaniche.
Esperimenti effettuati negli anni passati avevano portato a risultati piuttosto diversi, in quanto
significative quantità di carbonio erano state spostate nelle profondità dell’oceano. Cos’era cambiato?
Secondo gli scienziati, le sperimentazioni avevano innescato fioriture di diatomee, un tipo di alga
composta da una conchiglia formata da ossido di silicio SiO2, sviluppata come arma difensiva contro
l’eccessiva proliferazione della popolazione di zooplancton. Quando le diatomee muoiono, la scarsità di
acido salicilico, componente principale del rivestimento esterno dell’alga, ha impedito loro di prosperare
nel sito dove è stato condotto l’esperimento Lohafex.
Nel frattempo, l’esperimento ha continuato a dare risultati stupefacenti, come dichiarato dal prof. Victor
Smetacek, dell’Istituto tedesco Alfred Wegener per la Ricerca Polare e Marina: “con grande sorpresa,
l’area fertilizzata con ferro ha attratto un gran numero di predatori dello zooplancton, appartenenti al
gruppo di crostacei noto come anfipodi”.
Dopo tre settimane di esperimenti, gli scienziati hanno versato altre quantità di ferro nella zona senza però
provocare alcun effetto sul fitoplancton, segno evidente che l’area ne era già satura.
La spedizione ha fatto ritorno a Bremerhaven, in Germania verso la fine di Maggio del 2009 e, come
espresso dal dott. Naqvi “l’esperimento ha rappresentato il primo esempio di collaborazione
internazionale nelle scienze oceaniche interdisciplinari”.
24
La fertilizzazione oceanica ha generato pareri piuttosto discordanti tra gli ambientalisti e i ricercatori: per
i primi, rappresentati dall’Africa Centre for Biosafety, l’esperimento Lohafex ha violato una moratoria
varata dalle Nazioni Unite, che bandisce le attività di fertilizzazione e permette di creare solo esperimenti
pilota su piccola scala, mentre per i ricercatori non vi è alcuna violazione.
I dati raccolti dall’esperimento hanno portato alla conclusione che, nonostante l’immissione di tonnellate
di fertilizzante ferroso nell’oceano, non c’è stato verso di far crescere ulteriormente il fito e lo
zooplancton, quindi sostanzialmente tutta la spedizione è stata un generale fallimento: ad oggi, la
fertilizzazione oceanica con ferro non è considerata ancora un valido sistema per catturare la CO2
dall’aria!
Figura 5. Nave “Polarstern” che ha condotto l’esperimento e relativo logo
Costi stimati
Ci sono due basi per il costo di fertilizzazione con ferro, uno basato sul lavoro di Martin, e l'altro sulla
base del laboratorio NRC (National Research Council): quello di Martin indicherebbe che la
fertilizzazione di tutti gli oceani del Sud potrebbe essere realizzata con solo 0,43 milioni di tonnellate di
ferro (Fe) per anno, l'importo necessario per supportare la rimozione di 2 o 3 GtC /anno (Fonte: Martin,
1990). Egli non dà alcun numero per la zona di oceano da fecondare e neanche alcuna forma chimica
specifica per il ferro.
Il laboratorio NRC suggerisce che la fertilizzazione con ferro possa rimuovere una media di 1,8 GtC
/anno per un periodo di 100 anni. Il laboratorio propone un'applicazione da 1 a 5 Mt Fe/anno sottoforma
di una soluzione di cloruro ferroso (FeCl2), "o magari in qualche altra forma," e definisce l'area da
fecondare come "circa 18 milioni di miglia quadrate".
I costi stimati saranno rappresentati dalle operazioni delle navi, e dal costo dei prodotti chimici.
Saranno prese in considerazione, per stimare gli effetti in un 1 milione di miglia nautiche quadrate, una
zona suddivisa in corsie da 1 miglio. Tutto ciò genera 1 milione di miglia di vapore ogni anno. Quindici
navi, ognuna delle quali emette vapore per 240 miglia al giorno (alla velocità di 10 nodi) per 300 giorni
all'anno, viaggerebbero per 1 milione di miglia. Quando viene considerato il tempo di rifornimento, è
possibile quantificare che 20 navi, ciascuna avente una capacità di 10 mila tonnellate, venga riempita
ognuna di vapore ogni 2 mesi.
Se si assume un costo di 100 milioni di dollari a nave, avente ognuna un costo di esercizio di 10.000
dollari al giorno, otteniamo un costo per la flotta intera di 2 miliardi di dollari, attribuendo un costo annuo
del capitale (ammortamento in 20 anni) di 0.10 miliardi di dollari e un costo operativo annuale di 73
milioni di dollari. Si arriva così ad un costo totale di esercizio annuo, di 173 milioni di dollari per una
copertura di
1 milione di chilometri quadrati. Per 18 milioni di chilometri quadrati il sistema deve essere aumentato in
dimensioni di un fattore pari a 18, dando circa 3 miliardi di dollari all'anno. Nell'Oceano Antartico
25
dobbiamo dare una concessione generosa per contingenze atmosferiche: in questo caso usiamo un fattore
pari a 3, dando una stima di 9 miliardi di dollari all'anno per le operazioni e i costi delle navi. A questo
possiamo aggiungere 1 miliardo di dollari all'anno per le operazioni generali di sistema, dando un costo
totale di operazioni di 10 miliardi di dollari all'anno.
Per le stime di valutazione si deve aggiungere il costo legato alla fertilizzazione con ferro. Di solito, la
forma di ferro che viene assorbita facilmente dagli organismi viventi è la forma ferrosa: il composto più
economico e facilmente disponibile è il solfato ferroso. Le 0,43 Mt di ferro stimate da Martin sono pari a
circa
1,2 milioni di tonnellate di solfato ferroso, che può essere acquistato in massa ad un costo che va dai 10
ai 15 dollari a tonnellata (Fonte: Reporter Marketing Chemical, 1991), per un totale da 12 a 18 milioni
di dollari all'anno.
Il cloruro ferroso, citato dal laboratorio NRC, è molto più costoso del solfato ferroso. Può essere
acquistato in massa per 220 dollari a tonnellata di Fe nel settore chimico (Fonti: Alfred M. Tenney,
Eaglebrook, Inc., private communication to Lynn Lewis, GM Research, 11 aprile 1991). La richiesta del
gruppo di lavoro del laboratorio NRC da 1 a 5 Mt Fe dà un costo di cloruro ferroso da 0,22 a 1,1 miliardi
di dollari all'anno.
In questo modo il range dei costi della chimica può essere compreso tra 0,012 e 1,1 miliardi di dollari
all'anno. Tuttavia, sia il solfato ferroso che il cloruro ferroso sono relativamente economici, perché sono il
prodotto di scarto del "decapaggio" dell’acciaio con l’acido.
L’attuale disponibilità di cloruro ferroso nel Nord America è stimata essere di circa 1,5x105 tonnellate di
ferro equivalente, e l'importo mondiale può ammontare ad un milione di tonnellate
(Fonte: Alfred M. Tenney, Eaglebrook, Inc., comunicazione a Lynn Lewis, GM Research, 1991).
Se assumiamo che il prezzo sarà inferiore a 100 volte il prezzo corrente di cloruro di ferro, si ottiene una
gamma totale dei costi per la fertilizzazione con esso di 0,010 a 100 miliardi di dollari all'anno.
Aggiungendo il costo delle operazioni a quello relativo dei fertilizzanti, otteniamo un range di costo
che va da 10 a 110 miliardi di dollari all'anno. Questo consentirà di mitigare da 1,8 a 3 GtC (usando il
range sia di Martin che del laboratorio NRC), equivalente alla riduzione di circa 7-11 GtCO2/anno,
ottenendo un range finale da circa 1 a 15 dollari per tonnellata di CO2/anno.
Gestione ed uso del territorio: rimboschimento e prevenzione disboscamenti
Con una gestione mirata dell’uso del territorio si ottiene un accumulo delle riserve di carbonio nella
biomassa e nel suolo.
Gli ecosistemi terrestri rimuovono circa 3 GtC/anno dall’ambiente attraverso la crescita netta, assorbendo
circa il 30% delle emissioni di CO2, provenienti da combustione dei combustibili fossili e dalla
deforestazione, mentre gli ecosistemi forestali del mondo immagazzinano più del doppio del carbonio
presente nell'atmosfera (Fonte: Canadell et al. 2007; Canadell & Raupach 2008). Semplici strategie basate
su protezione e gestione degli ecosistemi chiave, potrebbero fare molto per migliorare l’assorbimento
naturale di CO2 dall'atmosfera; eppure, attualmente le emissioni provenienti dai cambiamenti della
destinazione d’uso dei terreni, soprattutto quelle derivanti dalla deforestazione, rappresentano circa il
20% di tutte le emissioni serra di origine antropica e l'apporto è stato in continuo aumento durante i primi
anni del 21°secolo.
La deforestazione tropicale da sola apporta circa 1,5 GtC/anno (circa 16% delle emissioni globali) ed è la
fonte di emissioni più in rapida crescita (Fonte: Canadell et al. 2007).
Gli interventi per moderare l’aumento di CO2 atmosferica tramite la gestione degli ecosistemi hanno un
potenziale di assorbimento del carbonio e possono assumere varie forme tra cui l’evitata deforestazione,
l’imboschimento, il rimboschimento e la piantagione di colture o altri tipi di vegetazione
26
(Fonte: Royal Society 2001, 2008; Presentazione: Reay). Tali interventi non sono normalmente
considerati Geoingegneria, e hanno potenziale a lungo termine limitato (Fonte: Royal Society, 2011).
Sono comunque immediatamente disponibili, hanno spesso co-benefici significativi, possono essere
particolarmente utili nel futuro immediato, dato che sono familiari e forniscono un parametro utile per il
confronto con altri metodi.
Gli ecosistemi terrestri immagazzinano circa 2.100 GtC negli organismi viventi, lettiera e sostanza
organica del suolo, che è quasi tre volte superiore a quella attualmente presente in atmosfera.
Tra il mondo dei sette principali biomi, le foreste tropicali e subtropicali fissano la maggior quantità di
carbonio, quasi 550 GtC, e la deforestazione tropicale, quindi, contribuisce in modo sostanziale alle
emissioni globali di carbonio.
Le foreste temperate intaccate, specialmente quelle più antiche, inoltre hanno un alto potenziale di
stoccaggio del carbonio (oltre 500 tC/ha) e possono anche mostrare tassi annuali positivi molto elevati di
cattura del carbonio (Fonte: Naidoo et al., 2008).
Il bioma delle foreste boreali detiene la seconda più grande fonte di immagazzinamento di carbonio, la
maggior parte della quale è conservata nel suolo e nella lettiera. Lo svuotamento delle torbiere delle
foreste boreali, alcune pratiche forestali e gestione inadeguata degli incendi, possono causare perdite di
tutto il carbonio contenuto in questo ecosistema (Fonte: UNEP, 2009).
Circa un quarto della superficie terrestre mondiale è ora classificata come terreni destinati all’utilizzo
agricolo e, in zone temperate tendono ad occupare terreni fertili che, in passato, erano praterie o foreste. Il
disboscamento di terreni coltivati e pascoli ha pertanto notevolmente ridotto l’accumulo di carbonio in
superficie e le riserve di carbonio del suolo sono spesso esaurite, le pratiche agricole disturbano il suolo,
aprendolo agli organismi decompositori, generando condizioni aerobiche che stimolano la respirazione e
il rilascio di CO2.
I cambiamenti nell'uso del territorio negli ultimi 100 anni hanno quindi avuto un ruolo significativo nel
modificare le riserve e i flussi di carbonio nel suolo.
Invertire questa tendenza non è chiaramente un’opzione considerabile, poiché vi sono richieste continue
di nuove terre, da destinare soprattutto all'agricoltura.
Tuttavia, il potenziale di gestione del territorio non è da sottovalutare e può giocare un ruolo piccolo ma
significativo nel ridurre la crescita della concentrazione atmosferica di CO2. Ridurre le emissioni da
deforestazione e dal degrado forestale è una componente essenziale, ma anche il rimboschimento o il
reimpianto possono svolgere un ruolo significativo, soprattutto nel caso di terreni agricoli degradati.
L'istituzione di nuove aree boschive possono tuttavia creare conflitti con altre priorità ambientali e sociali,
in particolare la produzione alimentare e conservazione della biodiversità.
Il rimboschimento e la riforestazione dovrebbero quindi essere affrontate in maniera integrata,
considerando le richieste di competizione per i terreni.
Ci sono due scale di gestione che potrebbero utilizzare un migliore ecosistema e gestione del territorio per
ridurre le concentrazioni di gas serra.
Dalla scala locale a quella regionale, una maggiore adozione di un’efficiente gestione territoriale che
comprende diverse pratiche, compreso lo stoccaggio del carbonio, è in grado di inviare benefici
significativi. In Oregon (USA), lo stoccaggio del carbonio potrebbe essere raddoppiato mediante un
cambiamento di politiche di gestione dei terreni che otterrebbero un’ampia gamma di servizi economici
ed ecosistemici (Fonte: Nelson et al., 2009). Cambiamenti realistici di politica in questo settore
potrebbero potenzialmente aumentare l’accumulo del carbonio da 5 milioni di tonnellate su una superficie
di circa 3x104 km2. A livello globale, meccanismi volti sia alla riforestazione che alla riduzione della
deforestazione, sostenuti da efficaci meccanismi finanziari e dalle politiche, potrebbero raggiungere 0,4-
0,8 GtC/anno entro il 2030, ipotizzando prezzi del carbonio che variano dai 20 ai 100 dollari per
tonnellata di CO2 (Fonte: IPCC 2007; Canadell & Raupach, 2008) compensando dal 2 al 4% l’aumento
previsto delle emissioni nel periodo considerato.
27
Questi meccanismi possono essere incoraggiati, da un'efficace pianificazione territoriale e, nel caso di
evitata deforestazione, da nuove proposte per “ridurre le emissioni da deforestazione e degrado” (REDD)
nell'ambito della UNFCCC. L'effettiva attuazione dipenderà dal monitoraggio delle stime attendibili di
base e di esecuzione. Criticamente, per raggiungere utili benefici e istituire incentivi efficaci, la
pianificazione dell’uso del suolo, basata su soluzioni che richiederanno una pianificazione su più vasta
scala, i regimi di gestione, spesso superiori alle giurisdizioni nazionali, saranno volti al fine di ottenere i
benefici di scala.
Come riassunto nella tabella 1 questi metodi sono fattibili e sono a basso rischio, ma sono a lungo
termine e possono portare soltanto piccoli e medi effetti sulle concentrazioni atmosferiche di CO2 .
Diversi studi su scala regionale hanno dimostrato che, nel complesso, i benefici per l'economia e per altri
servizi ecosistemici, come la regimazione delle acque, i servizi, la conservazione della biodiversità e
l'agricoltura, possono portare al risultato di una pianificazione integrata territoriale, in grado di produrre
un maggiore aumento di CO2 con progettazione del suo stoccaggio verso il basso. Tuttavia, il carbonio
immagazzinato nella vegetazione non è di sicuro accumulabile nel lungo termine, poiché può essere
facilmente rilasciato dal fuoco, dalla siccità o dalla deliberata deforestazione (Fonte: Royal Society,
2011).
Le recenti tendenze
Le foreste ricoprono circa un terzo della superficie terrestre, che si estende dalle foreste sempreverdi nei
tropici umidi a vaste foreste boreali della regione subartica. I biomi terrestri ed i suoli rappresentano una
parte importante del ciclo del carbonio.
Essi consentono di accumulare 2,28x106 Mt (2.280 petagrammi) di carbonio rispetto ai 7,5x105 Mt
(750 petagrammi) di carbonio in atmosfera (Fonte: World Resources Institute, 1990). Anche se va notato
che la quantità di carbonio immagazzinato negli oceani e nella litosfera è molto più grande di quella
contenuta in entrambi i sistemi Terra e Atmosfera, le scale temporali su cui essi si equilibrano con
l'atmosfera sono molto grandi.
Gli Stati Uniti hanno perso quasi il 25% della loro copertura forestale, fenomeno iniziato dal continente
nordamericano ed essa continua ancora a diminuire. Tutto questo accade nonostante, nel tempo si siano
messi a dimora sempre più alberi (Figura 6). Il decremento dell’impianto di alberi del 1989 è dovuto ad
un declino degli stessi sotto il Conservation Reserve Program (CRP). Nello stesso anno, la messa a
dimora di alberi è aumentata nella Foresta Nazionale e in altre terre federali, ma è diminuita in terre
private, statali e pubbliche non federali. La ripartizione di impianto totale e di semina per categoria di
proprietà nel 1989 è indicato nella tabella seguente; fonti private hanno contribuito ad impiantare l’85%
degli alberi negli Stati Uniti nello stesso anno.
Figura 6: sintesi storica di coltivazione delle foreste degli Stati Uniti
Fonte: “Policy Implications of Greenhouse Warming: Mitigation, Adaptation, and the Science Base” National
Academies Press (NAP), pag.465)
28
Tabella 1. Piantagione e semina totale da ognuna delle categorie nell’anno fiscale 1989
La figura seguente mostra che la grande maggioranza degli impianti (76,3%) si trova nel sud degli Stati
Uniti.
Figura 7. Impianto e semina totale per regione nell’anno fiscale 1989.
Fonte: US Forest Service (1990).
Accumulo di carbonio negli alberi
L'analisi più completa di sequestro potenziale di carbonio negli alberi degli USA è quella intrapresa da
Moulton e Richards (1990) del Servizio Forestale degli Stati Uniti: questa rappresenta un’analisi
dettagliata del terreno a disposizione per l’impianto di nuovi alberi negli Stati Uniti, l'assorbimento di
carbonio che ci si potrebbe aspettare ed i costi attuali per ogni tipo di terreno da gestire. Secondo questi
due studiosi, è possibile sequestrare fino a 720 Mt di carbonio nei pascoli economicamente marginali ed
ecologicamente sensibili, nei terreni agricoli e boschivi non federali. Dopo aver analizzato il potenziale di
assorbimento di carbonio e il costo per tonnellata in 70 regioni e nei diversi tipi di terreni, Moulton e
Richards hanno classificato questi in ordine di costo per tonnellata e hanno costruito una curva di offerta
di carbonio fissato. L'analisi conclude che potrebbero essere sequestrate fino al 56,4% delle
emissioni di CO2 degli Stati Uniti, in alberi domestici a costi che vanno da 5,80 a 47,75 $ per
tonnellata di carbonio.
ACRI % DEGLI IMPIANTI
Governo Federale
Foreste nazionali 307,138 10.2
Dipartimento degli Interni 52,006 1.7
Altre agenzie federali 9,257 0.3
TOTALE 368,401 12.2
Pubbliche non federali
Foreste statali 57,133 1.9
Altre agenzie statali 6,013 0.2
Altre agenzie pubbliche 13,515 0.4
TOTALE 76,661 2.5
Private
Foreste industriali 1,248,565 41.3
Altre industrie 22,225 0.8
Altre padronali non industriali 1,306,096 43.2
TOTALE 2,576,886 85.3
GRAN TOTALE 3,021,948 100.0
29
L’analisi del Pannello di Mitigazione ammette che l'obiettivo del 10% descritto da Moulton e Richards è
un ragionevole obiettivo iniziale e quello della riforestazione economicamente marginale o
ecologicamente sensibile per pascoli, terreni agricoli e boschivi non federali per un totale di 28,7 Mha,
che potrebbe aver luogo ai costi descritti nella loro analisi. Si ritiene, in base ai dati precedenti, che 240
Mt di CO2 equivalente per anno potrebbe essere sequestrata a costi compresi tra 3 e 10 dollari per
tonnellata di CO2 (il costo medio è di 7,20 dollari /tCO2).
La Tabella 2 mostra le implicazioni derivanti dall’impianto di alberi, in ordine crescente in dollari per
tonnellata di carbonio per il sequestro di CO2 ai tassi del 10%, 20% e 56,4% delle attuali emissioni totali
di CO2 degli Stati Uniti. La tabella mostra che al livello del 10% la maggior parte dell'assorbimento
potrebbe essere realizzato modificando le pratiche di gestione ambientale su aree forestali attuali e
l’impianto su pascoli marginali, ma che, al fine di ottenere il massimo potenziale, sarebbe necessario
includere questa pratica su larga scala in terreni coltivati marginali.
Tabella 2. Costi di un Programma di riforestazione da una riduzione percentuale di emissioni di CO2
Fonte: File “NAP Geoengineering” pag.465
Tabella 3. Valutazione dell’uso del suolo e del rimboschimento:
Uso del suolo e ripopolamento forestale
Fonte: “Geoengineering the climate: Science, governance and uncertainity”pag.25 Royal Society, 2009
Sfruttamento della biomassa e del biocarbone (biochar)
La biomassa morta viene raccolta, eventualmente trasformata in biocarbone e mescolata con il suolo: in
questo modo la concentrazione di carbonio viene aumentata di continuo.
Come la vegetazione terrestre cresce, elimina grandi quantità di carbonio dall'atmosfera durante la
fotosintesi: quando gli organismi muoiono e si decompongono, la maggior parte del carbonio
immagazzinato viene restituito all'atmosfera. Ci sono quattro modi in cui la crescita della biomassa può
essere sfruttata per rallentare l'aumento di CO2 atmosferica (Fonte: Keith, 2001).
Bilancio di CO2 anno
(%/M di ton)
Richiesta di suoli
(M di acri)
Costi tot. annuali
(miliardi di $)
Costo medio
($/t di C) 5/72 36.9 0.7 9.72
10/143 70.9 1.7 12.02 20/286 138.4 4.5 15.73 30/429 197.6 7.7 17.91
EFFICACIA Potenziale limitato per la rimozione di carbonio BASSA
ACCESSIBILITA’
Economico da distribuire
MOLTO
ALTA
TEMPESTIVITA’
Pronto per la distribuzione immediata e
l’istantaneo inizio delle riduzioni di CO2
Lento a ridurre le temperature globali (metodo CDR)
MEDIA
SICUREZZA
Pochi effetti collaterali indesiderati, eccetto per l’uso conflittuale
potenziale del suolo e delle implicazioni della biodiversità
ALTA
30
a) Sprofondamenti del carbonio terrestre
Il carbonio può essere assimilato in situ nel suolo o come deposito di biomassa.
b) Bioenergia e biocarburanti
La biomassa può essere raccolta e usata come combustibile in modo che le emissioni di CO2, derivanti
dall'uso del carburante, vengano (approssimativamente) bilanciate dalla CO2, catturata nella coltivazione
delle colture energetiche. L'utilizzo della bioenergia e dei biocarburanti (Fonte: Royal Society, 2008) è
considerato un mezzo per ridurre le emissioni.
c) Bioenergia dalla cattura e assimilazione della CO2 (BECS - Bio Energetic Carbon Storage)
La biomassa può essere raccolta e usata come combustibile, con la cattura e assimilazione della CO2
derivante, ad esempio, dall’utilizzo della biomassa per ricavare idrogeno o energia elettrica, assimilando
così la CO2 risultante in formazioni geologiche.
d) Cattura della Biomassa
La biomassa può essere raccolta e assimilata come materiale organico, per esempio,
dall’interramento di alberi o dagli scarti dei raccolti, o come carbone (biochar).
La cattura di bioenergia con assimilazione di CO2 (BECS) si basa direttamente sulla tecnologia esistente
per la bioenergia/biocarburanti e per le tecnologie CCS, ed eredita i vantaggi e gli svantaggi di entrambe
queste tecnologie. Non vi è dubbio che sia tecnicamente fattibile, e ci sono già alcuni piccoli esempi del
mondo reale (Fonti: Keith, 2001; Obersteiner et al. 2001; IPCC, 2005).
La Geoingegneria è stata rivisitata in alcuni dettagli dall’IPCC (2005). Tuttavia, il BECS ha molto in
comune con altri metodi qui considerati, e pertanto è stato incluso per omogeneità di confronto.
La fissazione della biomassa e di carbone è stata proposta come un metodo per intervenire nel ciclo
naturale in modo che, parte o tutto il carbonio fissato dalla sostanza organica, può essere immagazzinato
nel suolo o altrove per centinaia o migliaia di anni. Ad esempio, è stato proposto di interrare il legno e
residui agricoli sia in terra che nelle profondità dell'oceano per immagazzinare carbonio, piuttosto che
permettere alla decomposizione di riportarlo in atmosfera ( Fonti: presentazione Marco Capron;
presentazione: Newcastle University; presentazione: Zeng Ning ; Strand & Benford, 2009).
I metodi che racchiudono l’interramento della biomassa nel suolo o nelle profondità oceaniche
richiederanno un aggiuntivo consumo di energia per i trasporti, interramento e la trasformazione. Più
gravemente, i processi coinvolti possono disturbare la crescita, il ciclo dei nutrienti e la sostenibilità degli
ecosistemi. Nelle profondità dell'oceano, per esempio, il materiale organico sarebbe decomposto e il
carbonio con le sostanze nutritive tornerebbero in acque poco profonde, in quanto l'ossigeno è
generalmente presente, a meno che sufficienti materiali siano stati depositati per creare condizioni
anossiche, che costituirebbero una perturbazione importante dell’ecosistema. Valutazioni complete non
sono ancora disponibili per valutare i costi e i vantaggi, ma sembra improbabile che questa sarà una
tecnica praticabile a qualsiasi scala, utile a ridurre il carbonio atmosferico.
Il biocarbone (noto anche dal termine inglese biochar) si crea quando la materia organica si
decompone, di solito attraverso il riscaldamento, in ambiente poco o per nulla aerobico
(Fonti: Lehmann et al 2006; Presentazione: Peter Read; Presentazione: Centro di Ricerca sul biocarbone,
Regno Unito). Conosciuta come pirolisi, il processo di decomposizione produce sia carbone che
biocarburanti (syngas e bio-olio). Visto che gli atomi di carbonio nel carbone sono legati insieme molto
più fortemente rispetto a quello contenuto negli elementi vegetali, il carbone è resistente alla
decomposizione da parte dei microrganismi e blocca il carbonio per periodi di tempo molto più lunghi. Il
carbone viene proposto, a volte, come una risposta ad una serie di problemi diversi, in quanto attira verso
31
il basso e blocca il carbonio atmosferico nei suoli: può migliorare i raccolti, produrre biocarburanti, ed è
quindi una fonte di energia rinnovabile.
Una delle questioni fondamentali riguardanti il carbone è se sia meglio “seppellirlo o bruciarlo?”. Resta
discutibile se pirolizzando la biomassa e interrando il carbone si abbia un impatto maggiore sui livelli
atmosferici di gas serra che semplicemente bruciano la biomassa in un impianto energetico, dislocando la
produzione intensiva di carbone (Fonti: Keith & Rhodes, 2002; Metzger et al. 2002;. Strand & Benford,
2009). Le argomentazioni di questo studio (Fonte: Centro di Ricerca Carbone del Regno Unito)
suggeriscono che la produzione di carbone in alcune circostanze può essere competitiva con l'uso della
biomassa come combustibile.
Il tempo di permanenza del carbonio convertito in carbone nei suoli, e l'effetto sulla produttività del suolo
di aggiungere grandi carichi di carbone è incerta (Fonte: sottoscrizione Biofuelwatch). Ad esempio è noto
da siti archeologici, che il carbone può avere un tempo di permanenza di centinaia o migliaia di anni nel
suolo. Tuttavia, le condizioni di pirolisi, possono colpire sia la resa di carbone che la sua stabilità a lungo
termine nel suolo (Fonte: presentazione, Centro Ricerche sul Biocarbone del Regno Unito).
I fautori dell’accumulo di biomassa sostengono che i tassi molto elevati di fissazione sono in linea di
principio raggiungibili: ad esempio, Lehmann et al. (2006), inserisce un livello potenziale di carbonio di
5,5-9,5 GtC/anno entro il 2100, un tasso più grande rispetto all’attuale fonte di combustibile fossile (e si
avvicina al 10% della produzione mondiale primaria proveniente dalle piante). Tali flussi fanno supporre
che vi sarà una crescita enorme delle risorse destinate alla produzione di biocarburanti, e che qualche
grande frazione di questo carbonio sarebbe convertito in carbone. L'uso di colture per carburanti
rinnovabili su tale scala potrebbe portare ad un conflitto con l'utilizzo di terreni agricoli per la produzione
di cibo e/o di biocarburanti.
Come riassunto nella tabella 4, l’assimilazione della biomassa potrebbe rappresentare un contributo
significativo su piccola scala ad un approccio di Geoingegneria, atto a migliorare l’interramento di
carbonio terrestre globale.
Tabella 4. Valutazione di accumulo e sintesi del carbonio BECS bioenergetico
Becs bioenergetico con accumulo di carbonio
Fonte: File pdf “Geoengineering the climate: Science, governance and uncertainity”pag.26 Royal Society, 2009
EFFICACIA
Limitata dalla produttività delle piante e conflitti oltre l'utilizzo del
territorio con l'agricoltura e per il trasporto di biocarburanti
Metodo di fissazione del carbonio molto più consistente rispetto al
carbone
DA BASSA A
MEDIA
ACCESSIBILITA’
Simili a biocarburanti (NB: i costi dei fertilizzanti e dei trasporti )
Più costosi dei combustibili fossili CCS (come combustibile è più caro)
Più economico del carbone e viene generata più bio-energia
DA BASSA A
MEDIA
TEMPESTIVITA’
Lenta a ridurre le temperature globali (metodo CDR)
La sostenibilità delle materie prime deve essere stabilita prima dell'uso
diffuso
MEDIA
SICUREZZA
Uso del territorio potenzialmente conflittuale (cibo rispetto alla crescita
della biomassa per il carburante)
ALTA
32
Accelerazione dei processi naturali di disgregazione (meteorizzazione)
Quando le rocce si disgregano sotto l’influsso degli agenti atmosferici viene sottratta anidride carbonica
all’aria circostante. Questi processi, che normalmente sono molto lenti, vengono accelerati, aumentando
così il consumo di CO2: i prodotti della disgregazione sulla terraferma o nel mare legano il carbonio che
altrimenti sarebbe nell’atmosfera ed essa perde CO2 nei lunghi periodi di tempo a causa della
meteorizzazione. Il processo di trasformazione dei sedimenti calcarei nei fondali oceanici, che suppone un
assorbimento di CO2 atmosferico, comincia con la meteorizzazione continentale: la meteorizzazione è la
disintegrazione chimica e fisica delle rocce dovuta alle piogge, venti e sbalzi termici. Qui parleremo solo
dei silicati, come CaSiO3, molto abbondante nella superficie terrestre, per la CO2 disciolta nell’acqua del
suolo in una reazione che si può schematizzare in questo modo:
In questa reazione, la CO2 non proviene direttamente dalla pioggia, ma dalla reazione dell’acqua
contenuta nel suolo con la CO2, che deriva dalla decomposizione della materia organica dell’humus
(respirazione microbatterica). La fonte di CO2 che entra nella reazione è anidride carbonica atmosferica,
ma dopo esser passata a far parte della materia organica, grazie alla fotosintesi delle piante, viene
restituita al suolo per la decomposizione microbica dell’humus (Fonte: Berner, 1977).
Il risultato è la formazione di due ioni bicarbonato e uno di ione calcio (oltre ad acido
silicico) i quali, disciolti nell’acqua dei fiumi arrivano poi nei mari.
La meteorizzazione può anche colpire il carbonato calcico CaCO3: in questo caso la reazione di
meteorizzazione fa perdere solo una molecola di CO2.
perdita che viene compensata in mare per la precipitazione di calcite e in cui non si ha né perdita né
guadagno di CO2 in atmosfera.
Precipitazione calcarea
Gran parte degli ioni disciolti e portati dalle acque dei fiumi arrivano al mare. Gli ioni si ricombinano
formando CaCO3 (calcare) e rilasciando di nuovo nell’atmosfera una molecola di CO2, secondo la
reazione:
per cui il risultato netto delle reazioni (meteorizzazione dei silicati e precipitazione del calcare) è la
perdita di una molecola di CO2 nell’atmosfera.
Abbiamo ancora un altro fattore da considerare per quanto riguarda i processi di precipitazione: le
numerose specie marine che costruiscono carapaci e scheletri protettori di silicio (Si) e carbonato
(CaCO3). Nella reazione non fotosintetica, precipitano ioni calcio ( ) assieme agli ioni carbonato
( o di bicarbonato (
. La maggior parte del carbonato di calcio oceanico viene prodotto dalle
alghe microscopiche del fitoplancton (cocolitofori) e dalle specie animali dello zooplancton (foramniferi e
pteropodi). La calcite o aragonite così formata costituisce lo scheletro e i carapaci per mezzo dei quali si
proteggono gran parte dei microrganismi che formano il fitoplancton costruendo carapaci silicei e non
calcarei.
33
Figura 8. Aspetto del ciclo marino del carbonio. Il carbonio si trova disciolto e forma l'anidride carbonica,
bicarbonati e carbonati in una proporzione tra loro che li mantiene in equilibrio
Quando gli organismi marini calcarei muoiono, il calcare cade nelle profondità marine. Nel processo di
precipitazione di carbonio organico, come succede nell’interramento di materia organica, la litosfera
restituisce carbonio agli altri serbatoi, mare e aria.
Lo fa ad un ritmo globale di circa 0,5 PgC/anno (PgC: Petagrammi di carbonio = 1015 tonnellate) .
Lungo tutta la storia geologica, il carbonio così accumulato, contenuto negli spessi strati di rocce
calcaree, ha creato il suo maggior serbatoio terrestre, dell’ordine di un milione di Petagrammi.
Ma non sempre il calcare arriva sul fondo poiché, ad una certa profondità, il carbonato di calcio CaCO3 si
dissolve di nuovo in ioni e ioni . In questa reazione, contraria a quella della precipitazione, si
assorbe la CO2 disciolta nell’acqua. Questa dissoluzione di calcare è dovuta a reazioni chimiche
complesse relazionate all’aumento in profondità dell’acidità dell’acqua che richiede più ioni carbonato
per neutralizzarla.
Il livello marino dove la quantità di CaCO3 che arriva è la stessa di quella che si dissolve (CCD:
Carbonate Compensation Depth) varia secondo gli oceani tra i 3000 e i 5000 metri di profondità.
L'anidride carbonica è naturalmente rimossa dall'atmosfera nel corso di migliaia di anni da processi che
coinvolgono gli agenti atmosferici (scioglimento) di rocce carbonatiche e silicatiche.
I silicati formano le rocce più comuni sulla Terra e reagiscono con CO2 per formare carbonati (e quindi
consumano CO2). La reazione può essere scritta schematicamente in questo modo e può portare alla
formazione di ioni calcio o magnesio :
Questi processi atmosferici hanno una grande influenza sulla concentrazione di CO2 sia nell'atmosfera che
negli oceani, e fanno diminuire lentamente la concentrazione atmosferica di anidride carbonica se viene
dato abbastanza tempo. Tuttavia, il tasso a cui avvengono queste reazioni è molto lento rispetto alla
velocità con la quale vengono bruciati i combustibili fossili.
L’anidride carbonica presente nell'atmosfera viene assorbita a meno di 0,1 GtC/anno, circa un centesimo
della velocità alla quale è attualmente in fase di emissione (Fonte: IPCC, 2005).
L'anidride carbonica può essere rimossa dall'atmosfera, accelerando la meteorizzazione naturale: la CO2
viene fatta reagire con i silicati, formando quindi carbonati e silicati solidi. Questa reazione consuma una
molecola di CO2 per ogni molecola di silicato atmosferica e accumula il carbonio come minerale solido.
34
Una variante di questo processo prevede la reazione delle rocce formate da silicati, ma invece di formare
minerali solidi, rilascia materiali disciolti negli oceani. Ciò potrebbe rimuovere CO2 dall'atmosfera
attraverso la reazione seguente:
2
Questa reazione ha il vantaggio che due molecole di CO2 vengono fissate nell’oceano per ogni molecola
di silicato atmosferica (rapporto 2:1). Non è possibile posizionare il materiale disciolto da nessuna parte
tranne nell'oceano, poiché nessun altro “contenitore” è abbastanza grande per le implementazioni su larga
scala. In pratica, la chimica è un po’ più complicata, con il risultato che un pò di CO2 potrebbe venire
immagazzinata meno in pratica che sulla carta.
Un approccio simile è quello di far reagire rocce carbonatiche (invece che quelle formate da silicati) con
CO2, con il risultato che anche altri materiali vengono rilasciati nell’oceano:
In questa reazione, i minerali carbonatici sono più facilmente solubili dei silicati, ma i carbonati possono
contenere carbonio ossidato, quindi solo una molecola aggiuntiva di CO2 viene trattenuta nel mare per
ogni molecola di silicato atmosferica.
In alternativa, la CO2 può essere immagazzinata negli oceani attraverso la produzione e l'aggiunta di basi
forti (soluzioni alcaline) come la calce.
Per esempio:
Tuttavia, le basi forti sono relativamente rare sulla Terra e ricavarle da sali può essere molto dispendioso
a livello energetico, la reazione produce acidità, come ad esempio:
Questo pone problemi di smaltimento, perché se l'acido venisse reimmesso in mare, la CO2 tenderà a
ritornare in atmosfera.
Metodi proposti per aumentare la meteorizzazione
Sono state suggerite una serie di proposte volte alla Geoingegneria, che puntano ad un aumento artificiale
dei tassi di queste reazioni. Non vi è alcun dubbio circa la capacità della chimica di migliorare la
meteorizzazione attraverso l’utilizzo dei carbonati e di silicati diminuendo le emissioni di CO2 e le sue
concentrazioni atmosferiche ma, i principali ostacoli alla diffusione di questo fenomeno, sono legati alla
scala, al costo e alle possibili conseguenze ambientali.
Tutti gli approcci chimici richiedono un responso molecola per molecola in base alla quantità di CO2
emessa: le molecole rappresentative di silicati e carbonati di solito pesano più di due volte le molecole di
CO2,quindi ci vorrebbero circa due tonnellate di roccia per rimuovere e fissare ogni tonnellata di CO2. La
scala industriale degli sforzi di mitigazione della CO2 sarebbe di conseguenza dello stesso ordine di
grandezza della scala del sistema energetico che produce la CO2. Questi metodi possono essere
relativamente costosi, anche se alcuni proposti possono essere in grado di competere sulla base dei costi
con la cattura del carbonio e altri metodi di accumulo.
35
Una proposta è quella di aggiungere abbondanti silicati nella forma di olivine ai suoli destinati all’utilizzo
agricolo (Fonte: Schuiling & Krijgsman 2006, Sottoscrizione: Schuiling). Grandi quantità di rocce
sarebbero dovute essere estratte, portate in superficie, trasportate, e poi distribuite sui campi.
Si stima che un volume di circa 7 km3 all'anno (circa il doppio del tasso attuale delle miniere di carbone)
di minerali terrosi come i silicati, reagiscono con la CO2 ogni anno, e permetterebbero di eliminare tanta
CO2 quanta attualmente stiamo emettendo. Si presuppone che l’anidride carbonica può essere
parzialmente immobilizzata nella forma ionica di carbonato e in parte come ioni bicarbonato in soluzione,
ma le conseguenze verso i processi del suolo non sono attualmente note.
In alternativa, è stato suggerito che la roccia carbonatica può essere trattata reagendo con le emissioni di
CO2 provenienti da impianti di ingegneria chimica (molto probabilmente con la CO2 concentrata e
catturata dalle centrali elettriche, per esempio). Le soluzioni di bicarbonato ottenute sarebbero state
rilasciate in mare (Fonti: Rau & Caldeira 1999; Rau, 2008).
Un approccio alternativo potrebbe essere quello di rilasciare i carbonati direttamente in mare
(Fonte: Harvey 2008). Essi, tuttavia, non si dissolverebbero fino a raggiungere livelli sotto-saturi nelle
profondità oceaniche, in modo da rendere il processo molto lento, per osservare un qualche effetto. In una
variante (“calce al mare”), che opererebbe più velocemente, le rocce calcaree carbonatiche sarebbero
riscaldate fino ad allontanare CO2 pura, (che deve essere catturata e fissata) per formare calce Ca (OH)2.
Questa sarebbe aggiunta agli oceani per aumentare la loro alcalinità, con conseguente assorbimento
supplementare di CO2 dall'atmosfera (Fonte: Kheshgi, 1995). Mentre questo processo richiede energia, il
costo intensivo per il fissaggio ammonterebbe a circa il doppio della quantità di CO2 per unità di
carbonato estratto. In alternativa, la velocità della reazione di CO2 con minerali di base, come basalti e
olivine potrebbe essere aumentata in situ nella crosta terrestre (Fonti: Kelemen & Matter 2008;
Presentazione: Sigurðardóttir & Gislason). Questa idea potrebbe anche richiedere concentrazioni elevate
di CO2 nei gas reagenti, e potrebbe essere pensata come una migliore tecnica di cattura della CO2, anziché
applicare i correttivi della Geoingegneria e come risultato finale del metodo potrebbe essere la creazione
di carbonati in situ. Kelemen e Matter suggeriscono che vi è la possibilità di sequestrare più di 1
GtC/anno di carbone in Oman solo adottando questo metodo. Ancora una volta, sono necessarie ulteriori
ricerche per sapere se è effettivamente praticabile a queste scale.
È stata anche proposta (Fonte: Casa et al., 2007) per accelerare la reazione dei silicati atmosferici,
l’utilizzazione dell’elettrolisi per dividere i sali marini in acidi e basi forti: quando le basi forti sono
disciolte in acqua provocano emissioni di CO2, quindi devono essere conservate in oceano nella forma
disciolta come osservato in precedenza. Essi propongono di utilizzare gli acidi forti per alterare le
rocce silicatiche: la loro alterazione può neutralizzare l'acido e formare un sale relativamente benigno che
potrebbe anche essere aggiunto nell’oceano. Questo approccio comporta alta intensità energetica e
richiede una grande quantità di manipolazione di massa, e quindi è probabile che sia più costoso rispetto
ai tradizionali approcci di CCS.
Impatto Ambientale dell’aumento dei metodi alterativi
L’aumento dei metodi alterativi ha chiaramente la capacità di diminuire la meteorizzazione, riducendo le
emissioni di CO2 o rimuovendola dall'atmosfera. Tuttavia, prima che diano i loro effetti collaterali, i costi
del ciclo di vita e gli effetti ambientali devono essere meglio conosciuti e presi in seria considerazione.
Ad esempio, il risultato finale di quasi tutti questi metodi sarebbe quello di aumentare le concentrazioni di
ioni bicarbonato (anioni), di calcio o di magnesio (cationi) e quindi l'alcalinità dell'acqua di mare. Anche
se la reazione climatica inizialmente ha avuto luogo, distribuita nei suoli (come olivina sopra, per
esempio), i prodotti chimici risultanti alla fine, sarebbero disciolti negli oceani.
L'acqua di mare già contiene concentrazioni sostanziali di questi ioni e sarebbe possibile prendere tutta la
CO2 atmosferica in eccesso senza aumentarla notevolmente. Tale aumento delle concentrazioni di
bicarbonato sarebbe ridotto piuttosto che aumentare l'acidità dell'acqua di mare, contribuendo a rallentare
36
il processo di acidificazione dell’oceano, apportando quindi benefici verso questi organismi e gli
ecosistemi, altrimenti minacciati dalla costante crescita di CO2 atmosferica. Non è ancora noto, tuttavia,
se tutti gli effetti combinati sulla chimica e la biologia dell’oceano siano trascurabili o benigni.
Inoltre, per essere quantitativamente importante, la maggior parte di queste proposte richiedono attività
minerarie di grandi dimensioni e attività di trasporto.
Queste attività sarebbero probabilmente dannose per l'ambiente a livello locale (e “locale” qui significa su
aree di grandi dimensioni, oggi paragonabili o superiori a quelli della produzione di cemento e del
carbone). Alcune opzioni richiedono grandi quantità di acqua, mentre altre richiedono energia
supplementare (elettrolisi per la produzione della calce), che avrebbe bisogno di provenire da fonti prive
di carbonio. Nel caso della produzione di grandi quantità di minerali solidi, ci sono anche problemi di
smaltimento o uso.
In sintesi, tutti i metodi di miglioramento alterativo utilizzano minerali naturali e reazioni che producono
prodotti stabili, che sono già presenti in grandi quantità nel suolo, negli oceani e possono quindi essere
considerati benigni in linea di principio. Essi operano nei terreni oppure rendendo il mare un po’ più
alcalino, che su scala globale riduce le emissioni di CO2, inducendo l’acidificazione degli ambienti
terrestri e marini. Tuttavia, i prodotti vengono generati in grandi quantità in modo più o meno localizzato,
e possono quindi avere un impatto sostanziale che avrebbe bisogno di essere gestito. Ci sono questioni
fondamentali riguardanti le dimensioni delle particelle, il tasso di dispersione, la diluizione e la
dissoluzione. Il pH dei suoli e delle acque superficiali oceaniche sarebbe aumentato a livello locale, con
possibili effetti (non necessariamente avversi) sulla vegetazione e nell’ambiente marino, e il potenziale
aumento delle precipitazioni dei carbonati ridurrebbe la loro efficacia. Inoltre, poiché questi approcci
chimici richiedono che ogni molecola di CO2 reagisca con i minerali disciolti, i requisiti di massa per gli
ingressi e le uscite di minerali supereranno ampiamente la massa di CO2 sequestrata. Questi approcci
richiedono maggiore estrazione mineraria e le operazioni di trattamento sono suscettibili ad essere più
costose riguardo l’operatività rispetto ai metodi convenzionali CCS (Fonte: IPCC, 2005): per esempio,
devono essere in grado di utilizzare fonti di energia a buon mercato, o devono essere intrapresi dove la
manodopera e altri costi sono bassi (vedere le due tabelle di seguito):
Tabella 5. Metodi di valutazione per l’efficacia terrestre della meteorizzazione
Aumento della meteorizzazione terrestre
EFFICACIA Potenzialmente molto grande per lo stoccaggio del carbonio nei suoli
I metodi CDR vengono indirizzati alla causa del cambiamento
climatico e dell’acidificazione dell’oceano
ALTA
ACCESSIBILITA’ Richiede l’estrazione, lavorazione e trasporto di grandi quantità di
minerali
Alcuni metodi possono richiedere grandi input di energia
BASSA
TEMPESTIVITA’
Lenta nel ridurre le temperature globali (metodo CDR)
Sarebbero necessarie costruzioni sostanziali di infrastrutture
Richiesta la ricerca per determinare gli impatti ambientali, l’efficacia e
la verifica
BASSA
SICUREZZA
Può avere pochi effetti collaterali gravi, ma gli effetti sul pH del suolo,
vegetazione, ecc necessitano di essere stabiliti a livello di applicazione
effettiva
MEDIA O
ALTA
37
Tabella 6. Metodi di valutazione per l’efficacia oceanica della meteorizzazione
Aumento della meteorizzazione oceanica
EFFICACIA
Potenzialmente molto grande per l’accumulo di C nell’oceano
I metodi CDR vengono indirizzati alla causa del cambiamento climatico
e dell’acidificazione dell’oceano
I metodi oceanici agiscono direttamente a ridurre o a invertire
l’acidificazione dell’oceano
ALTA
ACCESSIBILITA’ Richiede l’estrazione, lavorazione e trasporto di grandi quantità di
minerali
I metodi più veloci richiedono grandi input di energia (es: elettrolisi,
calcificazione)
BASSA
TEMPESTIVITA’
Lenta nel ridurre le temperature globali (metodo CDR)
Sarebbero necessarie costruzioni sostanziali di infrastrutture
Richiesta la ricerca per determinare gli impatti ambientali, l’efficacia e la
verifica
BASSA
SICUREZZA Effetti indesiderati reversibili di acidificazione dell’oceano, ma tuttavia si
potrebbero riscontrare effetti collaterali avversi in alcuni ambienti marini
MEDIA
O ALTA
Fonte: File pdf “Geoengineering the climate: Science, governance and uncertainity”pag.29 Royal Society, 2009
Separazione dall’aria atmosferica
La concentrazione odierna di CO2 è di circa 400 parti per milione (ppm): questo sta a significare che su
ogni milione di molecole d’aria, 400 sono di anidride carbonica. La quantità globale attuale di CO2
nell’atmosfera è di 3000 miliardi di tonnellate (3000 Gt ), dove una tonnellata (t) è pari a 1000 kg. La
concentrazione di CO2 e il suo importo totale sono proporzionali: ogni parte per milione corrisponde a 7.5
Gt di CO2.
Nel periodo preindustriale si attestava sui 280 ppm o 2200 Gt , mentre nelle zone ghiacciate e
profonde dell’Antartide, 60 mila anni fa, il valore era di 180 ppm (1400 Gt ). Le emissioni umane di
anidride carbonica negli ultimi 200 anni sono aumentate da 280 a 380 ppm, un incremento avvenuto nel
corso degli ultimi 10 mila anni dall’ultima glaciazione.
La combustione dei combustibili fossili oggi rilascia CO2 nell’atmosfera ad una velocità di circa
30 Gt /anno e la deforestazione tropicale aggiunge circa un altro 4 Gt /anno. La velocità
dell’aumento della quantità di CO2 è meno della metà più veloce, grazie alla presenza di accumuli di
anidride carbonica sia sulla terraferma che negli oceani. Il risultato delle emissioni e degli accumuli è un
aumento della concentrazione atmosferica attuale di , che in media, è di circa 15 Gt /anno (2 ppm
all’anno, 1,5% all’anno).
Supponiamo che nel mondo si decida di voler ridurre la concentrazione atmosferica di anidride carbonica
tramite una deliberata strategia di rimozione CDR della stessa. La cattura dall’aria mediante sostanze
chimiche, è una delle diverse strategie CDR possibili ed è utile per avere un obiettivo di riferimento in
modo da ottenere una riduzione della concentrazione di CO2 globale. Ipotizziamo, ad esempio, che il
mondo cerchi di ridurre la concentrazione di di 50 ppm o equivalentemente di 400 Gt , circa un
ottavo del suo valore attuale: l’obiettivo è quello di ottenere questa riduzione per più di 100 anni, con un
tasso di riduzione medio di 4 Gt /anno.
Le correnti oceaniche portano continuamente l’acqua in profondità che era stata in superficie centinaia di
anni prima, quando la concentrazione di anidride carbonica si trovava al valore preindustriale.
38
Come l’equilibrio viene stabilito nella superficie dell’oceano tra la CO2 dell’aria e quella disciolta
nell’acqua, questa distrugge la CO2 presente in atmosfera.
In questo modo, su una scala temporale di centinaia di anni, si ottiene una riduzione della concentrazione
di anidride carbonica, provocando l’aumento di acidità negli oceani.
La stessa esigenza di equilibrio nella superficie oceanica controlla l’effetto opposto che accadrebbe se la
concentrazione di CO2 in atmosfera si abbassasse un giorno mediante la sua rimozione deliberata: in
questo caso vi sarebbe un immediato trasferimento di compensazione della CO2 dall’oceano all’atmosfera
e, in conseguenza di questo, sarebbe necessario rimuovere più di una unità di anidride carbonica
dall’atmosfera, per ridurre la sua concentrazione di un’unità. Le risposte delle foreste aggiungono
complicazioni, come anche le correnti oceaniche profonde. Oggi, l’effetto congiunto dei risultati
provenienti dai “pozzi di assorbimento” di CO2 terrestri e marini, circa la metà delle rimanenti emissioni
di CO2 permangono in atmosfera, dopo essere state emesse dalla combustione dei combustibili fossili.
Pertanto, per semplicità di calcolo, si assumeranno contributi neutri terrestri e marini di anidride
carbonica, stabilendo un caso di riferimento per la rimozione di CO2 dall’aria, dove una media di 4
Gt /anno viene rimossa per 100 anni. Il sistema di riferimento di cattura diretta dall’aria rimuove CO2
dall’atmosfera ad un tasso di 1 Mt /anno.
Supponendo che l’installazione di ogni sistema DAC possa essere mantenuta indefinitamente e che
l’installazione di nuove strutture avvengano a ritmo costante, un tasso di rimozione medio di
4 Gt /anno per più di un secolo, corrispondente ad un tasso di capacità di cattura di 80 Mt /anno
oppure 80 di questi sistemi DAC di riferimento da 1 Mt /anno ogni anno: questo caso di riferimento è
mostrato nella figura 9.
Dopo 50 anni, 4 Gt vengono rimossi dall’atmosfera: i primi 50 anni del caso di riferimento sono stati
evidenziati.
La Figura 9a ha il fine di individuare che il tasso e la scala di attenuazione di una strategia mitigativa
corrisponde ad un “cuneo di stabilizzazione”.
Basandosi sui parametri del caso di riferimento per la rimozione di CO2 a fini climatici, si può vedere
perché le strategie di CDR vengono considerate “lente”, non affatto adattabili a qualsiasi esigenza di
reazione rapida ad una emergenza climatica.
Si supponga che gli scienziati fossero alla scoperta di un forte feedback positivo nel sistema climatico che
potesse accelerare enormemente il riscaldamento sulla superficie e si supponga, inoltre, che la risposta
necessaria alla compensazione fosse equivalente alla rimozione della metà della CO2 atmosferica in 10
anni.
Si ipotizzi, inoltre, che al momento dell’emergenza, la concentrazione di CO2 atmosferica fosse circa del
50% in meno rispetto ad oggi, in modo che il loro obiettivo, fosse stato pari ad una riduzione della
concentrazione di CO2 atmosferica da 600 a 300 ppm in 10 anni: tale impresa richiederebbe un tasso
medio di CDR pari a 30 ppm per anno o circa 240 Gt /anno, 60 volte più veloce rispetto al tasso
medio di rimozione per il caso di riferimento esplicato sopra (6 volte maggiore rispetto alla riduzione di
CO2, 10 volte più veloce). Ogni anno, negli ultimi dieci anni per poter permettere di rispondere alla crisi,
sarebbe necessario installare una nuova capacità di asportazione CDR di 48 Gt /anno: questo ritmo è
600 volte più veloce di quello del caso di riferimento (figura 9, pannello b). Come confronto, si immagini
di cambiare improvvisamente gli impianti a combustibili fossili: tali impianti oggi emettono 12
Gt /anno.
Il tasso di risposta alla crisi è equivalente alla decarbonizzazione mondiale delle centrali elettriche in soli
tre mesi! Nel caso particolare di un sistema che coinvolge la cattura dall’aria di tramite sostanze
chimiche seguito da stoccaggio sotto terra, i tassi di costruzione di impianti sopra e sotto terra sono quasi
sicuramente fuori portata. La domanda di materiali di costruzione, prodotti chimici, e lavoro potrebbe
essere superiore o maggiore rispetto a quelli di cui dispone l’intero mercato mondiale.
39
Per trovare strategie “veloci” da impiegare per rispondere ad un’emergenza climatica, si deve guardare in
altri metodi, come quelli basati sulla gestione della radiazione solare (SRM).
Figura 9. Due strategie di rimozione della : in (a) in 100 anni la concentrazione atmosferica di viene
diminuita di 50 ppm, corrispondente ad un totale di rimozione pari a 400 Gt ; questo rappresenta il caso di
riferimento per la rimozione di . In (b), la riduzione destinata a rappresentare una risposta ad una crisi è 300
ppm (circa 2400 Gt ) in 10 anni.
La terra e l’oceano sono assunti “neutri” da . L’andamento è la pendenza del triangolo. L’area ombreggiata nel
grafico (a) corrisponde ad un “cuneo di stabilizzazione”. La scala del pannello b è di 1/10 di quella del pannello a.
Fonte: “Direct Air Capture of CO2 with Chemicals, a Technology Assessment for the APS Panel on Public Affairs”,
Study Committee Members: R.Socolow, M.Desmond, R.Aines, J.Blackstock, O.Bolland, T.Kaarsberg, N.Lewis,
M.Mazzotti, A.Pfeffer, J.Siirola, K.Sawyer, B.Smit, J.Wilcox (pag.7, 2011)
Ora si tratti una strategia chimica riguardante un ciclo di assorbimento e desorbimento di CO2. Nella
prima fase il flusso di CO2 viene diluito attraverso un contattore e incontra un prodotto chimico a cui si
lega.
L’anidride carbonica viene rilasciata in forma concentrata e la chimica viene rigenerata nella seconda
fase. Quali caratteristiche fisiche quantitative di tale sistema sono necessarie per realizzare un dato
compito?
Si può iniziare prendendo in considerazione un semplice calcolo, introducendo alcuni parametri di
riferimento: si supponga che l’aria fluisca attraverso un contattore alla velocità di 2 m/s ed esso rimuova il
50% della CO2 che vi passa attraverso. La Figura 10A mostra una zona di aspirazione di 1m2 in questo
caso. Ogni metro cubo di aria a pressione atmosferica e a 25 °C contiene circa 41 moli di gas. Lo 0,04%
di questa è CO2, il cui peso molecolare è di 44 g/mol, un metro cubo di aria contiene circa 0,72 grammi di
CO2. Pertanto, ogni secondo, 1,44 grammi di CO2 passerà attraverso ogni metro quadro del contattore e
0,72 grammi verranno rimossi. Questo corrisponde a circa 20 tonnellate di CO2 all’anno (il tasso pro-
capite attuale di emissioni negli Stati Uniti).
Una scala di riferimento per un impianto di cattura della CO2 è 1Mt /anno: questa corrisponde alla
prima dimostrazione in scala reale di cattura e stoccaggio della CO2 costruita negli ultimi dieci anni ed è
abbinata alle condutture su scala commerciale e sui pozzi di iniezione.
Considerando il processo di CCS, una centrale a gas naturale di 500 MW è in grado di emettere
1,1x104 t /giorno (4x10
6 t /anno). La cattura diretta dall’aria è molto meno efficiente: per
esempio, assumendo una portata di aria di 2 m/s, catturando 1.1x104 tonnellate di CO2 al giorno
direttamente dall'aria richiederebbe una superficie di circa 1,33x105 m
2 per elaborare 2,31 × 10
10
m3 di aria al giorno.
40
A) B)
Figura 10. Rappresentazioni schematiche di A) un contattore avente un’area di 1m2 che cattura 20 t /anno, e B)
un impianto per la cattura di 1Mt /anno. L’impianto in B si compone di 5 strutture, ognuna alta 10 metri e lunghe
1 km, che potrebbero raccogliere 1Mt /anno se l’aria vi passa attraverso a 2 m/s e il 50% della è stata
raccolta. Le strutture sono distanziate tra loro di 250 metri, e l’ingombro del sistema è pari a 1,5 km2 . Circa sei di
questi sistemi sarebbero necessari per compensare le emissioni di un impianto a carbone di 1 GW.
Fonte: “Direct Air Capture of CO2 with Chemicals, a Technology Assessment for the APS Panel on Public Affairs”,
Study Committee Members: R.Socolow, M.Desmond, R.Aines, J.Blackstock, O.Bolland, T.Kaarsberg, N.Lewis,
M.Mazzotti, A.Pfeffer, J.Siirola, K.Sawyer, B.Smit, J.Wilcox (pag.8, 2011)
Per rimuovere 1 Mt /anno dall’atmosfera utilizzando assorbitori che eliminano 20 t /anno da ogni
metro quadrato di superficie frontale, sarebbe necessaria una struttura con una superficie totale di
5x104 m2 posta di fronte all’aria in ingresso.
Qual è la profondità di una qualsiasi struttura di cattura dall’aria nella direzione del flusso? Questa
variabile non è stata introdotta nella raffigurazione precedente, ma è critica. Se la velocità dell’aria
attraverso il contattore viene mantenuta costante sui 2 m/s, la profondità del contattore determina il tempo
di permanenza dell’aria che si muove attraverso esso: un contattore profondo 2 metri produrrebbe un
tempo di residenza di 1 secondo. Tempi più lunghi di permanenza si traducono in un maggiore contatto
tra il contattore e i prodotti chimici attivi dello stesso (assorbitori), ma anche la produzione annua per
unità di volume dell’impianto è inferiore.
Una variabile importante è data dalla spaziatura richiesta tra contattori in direzione del flusso d’aria.
Questa viene impoverita di CO2 sul lato a valle di un contattore ad una certa distanza prima di essere
alimentato dalla miscelazione con l’aria satura proveniente dai lati e al di sopra. Il problema legato alla
spaziatura di un impianto DAC assomiglia da vicino alla questione spaziale delle turbine eoliche
all’interno di un impianto che sfrutta l’energia del vento: esse devono essere collocate sufficientemente
distanti tra loro, in modo da permettere il recupero sottovento dalla turbina della maggior parte della
velocità del vento.
Oggi il candidato leader per lo smaltimento di CO2 a lungo termine è la formazione di strati geologici
profondi, cui si accede da un sistema di oleodotti e pozzi di iniezione.
L'energia, il calore e il lavoro sono fondamentalmente necessari per la cattura di CO2.
In un sistema di adsorbimento-desorbimento, tipicamente, forti richieste energetiche sono associate con la
movimentazione dell'aria attraverso il contattore, ma anche richieste di energia più grandi sono associate
a quella richiesta per staccare la CO2 e rigenerare l'adsorbente.
Oltre ai costi legati alle fonti di energia stesse, c'è il problema del “carbonio netto”. A seconda di come
l'energia viene procurata per qualsiasi sistema di cattura di CO2, ci possono essere notevoli emissioni
associate nell'atmosfera. La CO2 rimossa dall'aria che fluisce attraverso il sistema è chiamata " CO2
catturata" e il cambiamento netto della CO2 in atmosfera si chiama " CO2 evitata".
41
Un modo per aggirare il problema del carbonio netto, anche in una regione in cui i combustibili fossili
rappresentano una parte significativa del mix energetico, è quello di produrre energia e calore da
combustibili fossili nel sito DAC e catturare la CO2 in-situ da questi impianti.
I passi successivi comporterebbero un sistema unificato per trasportare e immagazzinare la CO2 catturata
da entrambi gli impianti: le centrali e il sistema DAC. Un altro approccio potrebbe utilizzare un carico di
base dell'energia da una fonte completamente decarbonizzata, ad esempio, una centrale nucleare, un
impianto geotermico, solare o termoelettrico con un associato accumulo di energia idroelettrica.
Anche quando tutta l'energia necessaria per la cattura dall’aria, termica, nonché elettrica, è fornita da fonti
energetiche a basso carbonio, apporti sostanziali produrranno una grande differenza tra le quantità lorde e
nette di CO2 rimosse dall'atmosfera.
Dato che la cattura dall'aria è altamente dispendiosa, si presume generalmente che ogni impianto DAC
debba operare a tempo pieno. Lackner ha proposto che l'energia per muovere l'aria attraverso il contattore
(una frazione del fabbisogno energetico totale) verrebbe fornita dal vento, e il sistema di cattura dall'aria
dovrebbe operare solo quando la velocità dello stesso aumenta di valore. Analoghe regole si applicano al
funzionamento delle turbine eoliche, dove ogni anno in media l'energia eolica è in genere un terzo di
quella di picco. Un sistema guidato dal vento deve operare non solo in modo intermittente, ma con una
caduta di pressione molto bassa con il contattore.
L'ubicazione di un impianto DAC è flessibile, poiché la cattura in qualsiasi luogo ha lo stesso impatto
climatico. Per esempio, può essere vicina a fonti energetiche a basso costo, o a siti di smaltimento di CO2
favorevoli. Tuttavia, l'ubicazione è vincolata alla geografia: le condizioni ambientali possono influenzare
le prestazioni DAC molto più delle prestazioni PCC (Post Combustion Capture).
Nell’aria esterna a 25 °C e al 50% di umidità relativa, ci sono quasi 40 molecole d'acqua per ogni
molecola di CO2 (un rapporto molto più alto rispetto ai fumi di combustione). Il vapore acqueo può
competere con CO2 per i siti reattivi su sorbenti, diminuendo la performance di cattura.
Il vapore acqueo può essere aggiunto alla massa termica di un sistema di assorbimento che deve essere
riscaldato durante la rigenerazione, aggiungendo così costi operativi.
Altri elementi che costituiscono l’aria possono creare difficoltà per i sistemi DAC: l'ossigeno nell'aria può
reagire con un sorbente e limitarne la durata, i contaminanti possono erodere le superfici, soprattutto nei
passaggi stretti del contattore.
La variabilità dei principali parametri ambientali può influire sulle prestazioni di un sistema di cattura
dall’aria ancor più rispetto ai loro valori medi annui. La loro variabilità può influenzare il fattore di
capacità di un sistema DAC e la frazione di tempo di funzionamento a pieno regime necessaria per
produrre la sua uscita effettiva annuale. Un fattore di capacità inferiore aumenta i costi di acquisizione.
Alcune regioni possono essere favorevoli in quanto mostrano una relativa stabilità stagionale e diurna
(per esempio, i tropici).
Durante il funzionamento, un sistema DAC produce un’uscita di aria impoverita di CO2 che può
influenzare la vegetazione a valle.
Altri effetti negativi si riscontrebbero se prodotti chimici altamente reattivi venissero utilizzati nei cicli di
adsorbimento-desorbimento e poi evaporassero nel gas di uscita o siano fisicamente trascinati in esso.
Le difficoltà connesse con lo stoccaggio della strategia di DAC non dovrebbero essere sottovalutate. La
ricerca da parte dei governi e delle industrie è in corso per imparare come iniettare CO2 in formazioni
geologiche di accumulo in modo efficiente, per tenerlo fuori dell'atmosfera per secoli. Lo stoccaggio della
CO2 è stato commercializzato fino ad oggi solo in combinazione con lo sviluppo dei giacimenti
petroliferi, dove essi stabiliscono i prezzi della CO2. Tuttavia, la capacità di accumulo associata alla
produzione di petrolio è ben inferiore di quello che si rende necessario per avere un impatto sostanziale
sul cambiamento climatico. La sua commercializzazione e lo stoccaggio per scopi climatici richiederà la
produzione e l’uso di formazioni porose non idrocarburiche (acquiferi salini), nonché di un quadro
normativo dove ci siano specifiche ricompense finanziarie per la conservazione della CO2.
42
Lo stoccaggio in formazioni geologiche non è l'unica via che si deve prendere in considerazione. Una
strategia alternativa consiste nella carbonatazione minerale, dove un flusso concentrato di CO2
viene fissato come carbonato attraverso la reazione con silicati naturali (molto abbondanti sulla terra)
o residui industriali alcalini. Un'alternativa allo stoccaggio di qualsiasi tipo è quello di riciclare la CO2
catturata tramite reazione con l'idrogeno per produrre combustibili liquidi e prodotti chimici. Ad
esempio, la reazione Fischer-Tropsch può essere usata per ottenere nafta per produzione chimica e
combustibile diesel. Un'altra opzione sarebbe quella di produrre metanolo per il mercato chimico o
utilizzarlo per la sintesi di olefine, composti aromatici, o benzina. I carburanti e/o le sostanze
chimiche possono riemettere CO2 dopo l'utilizzo, ma rimpiazzano il petrolio greggio o i prodotti derivati
dal gas naturale. Per quanto concerne i costi del sistema DAC le stime si aggirano intorno ai
600$/t . La tabella 7 mostra l'aggiunta al prezzo di energia primaria (gas naturale, petrolio e carbone)
e di energia secondaria (benzina, elettricità dal carbone, e l'elettricità da gas naturale) da imporre un
sovrapprezzo di tale entità. In alcuni modelli di ottimizzazione economica, gli impatti sui costi sono di
gran lunga al di là di qualsiasi previsione per i prossimi decenni.
Tabella 7. Effetto dell’aggiunta di 600$/t ai prezzi di carburanti ed energia
Costi di emissioni di CO2 “indirette” associate alla produzione, trasporto o trasmissione e distribuzione non sono
inclusi.
Nota: $ 600/tCO2 = $ 2200/tC. Unità di gas: scf è un piede cubo standard, Nm3 è un normale metro cubo.
Gas naturale: 1 Nm3 = 37,24 scf; 0,549 KgC / Nm3 di gas naturale
Petrolio greggio: 1 barile = 42 galloni USA, 1 m3 = 264,2 galloni degli Stati Uniti, 730 kgC/m3 di petrolio greggio
Carbone: 1 tonnellata USA = 907 kg, 0,71 KgC / kg di carbone
Benzina: 1 m3 = 264,2 galloni USA; 630 kgC/m3 benzina.
Energia proveniente da carbone: 29,3 GJ /ton metrica di carbone (12.600 Btu / libbra);efficienza di conversione del
40%
Energia da gas naturale: 55,6 GJ / tonnellata metrica di gas naturale; 0,75 KgC/ kg di gas naturale; efficienza di
conversione del 50%.
In realtà, oggi non si conoscono bene né i costi del DAC e né quelli relativi alle sue alternative: molto
dipende dai progressi della tecnologia del futuro, l’impatto ambientale, e l'accettazione del
pubblico. Tuttavia, sulla base di ciò che è noto oggi dal DAC, i costi probabili futuri porteranno a forti
conclusioni qualitative circa la futura competitività di questo sistema in tre settori:
Il DAC è un elemento coerente di gestione globale della CO2 associato alla quasi totalità delle
rimanenti strutture a combustibili fossili mondiali che catturano le loro emissioni di CO2;
Il DAC potrebbe avere un qualche ruolo per compensare le emissioni distribuite, in particolare
quelle che non sono ben abbinate all’energia elettrica o a combustibili a basse emissioni di
carbonio;
Il ruolo principale del DAC potrebbe essere quello di ridurre la concentrazione atmosferica
di CO2, in collaborazione con altre strategie di CDR.
Forma di energia Incrementi dei costi di 600$/t
Gas naturale $33/1000scf
Petrolio greggio $260/barrel
Carbone $1400/U.S. ton
Benzina $5.20/gallon
Elettricità dal carbone 48¢/kWh
Elettricità dal gas
naturale 21¢/kWh
43
Rimozione di CO2 dal gas naturale
In molte località in tutto il mondo, il gas naturale proviene dalla terra e contiene più CO2 di quanto
legalmente consentito in un sistema di condutture. Per essere pronto alla conduttura e vendibile, il gas
naturale deve avere un contenuto minimo di energia per unità di volume (ad es BTU per piede cubo), e la
CO2 deve essere rimossa per aumentare il contenuto di energia sufficiente a soddisfare questa specifica.
La caratteristica della struttura specializzata costruita per rimuovere CO2 in eccesso da una miscela di gas
è una coppia di alte torri cilindriche, come si vede nella figura sottostante (Figura 11). Nella prima torre,
la CO2 ricca di gas naturale (tipicamente > 5% o > 5x104 ppm CO2) fluisce verso l'alto attraverso
un’elevata area superficiale di materiale compresso, mentre una soluzione acquosa contenente CO2 e
reattivi chimici (ad esempio monoetanolammina (MEA) e/o altre ammine) scorre lungo la superficie
contro il flusso di gas. Con il tempo esso ha raggiunto la cima di questa torre di assorbimento, e ~ lo 0.3%
o ~ 3000 ppm di CO2 rimane nel gas naturale, che ora è adatto per il transito in conduttura.
Per recuperare il costoso reattivo chimico di CO2 in soluzione acquosa, l'ora solvente ricco di CO2 viene
poi pompato alla sommità di una torre secondaria di rigenerazione. Poiché i flussi di solvente scorrono
lungo questa torre, è riscaldato con vapore ad una temperatura sufficientemente elevata da provocare la
separazione termica di CO2 dal MEA. Quando il solvente raggiunge il fondo, quasi tutta la CO2 è stata
rilasciata dalla soluzione MEA, che viene poi pompata nella parte superiore della prima torre per ripetere
il ciclo.
La CO2 viene liberata dalle bolle di solvente all'inizio del rigeneratore ed è generalmente scaricata
nell'atmosfera. Tuttavia, in tre casi noti, nel giacimento di gas di In Salah in Algeria, presso il campo di
gas nell’offshore norvegese Sleipner, e il progetto Snøhvit nel Mare di Barents, la CO2 viene catturata e
fissata nel sottosuolo.
Figura 11. Cattura del gas naturale CO2 , nel giacimento di gas di In Salah, Algeria.
Fonte: “Direct Air Capture of CO2 with Chemicals, a Technology Assessment for the APS Panel on Public Affairs”,
Study Committee Members: R.Socolow, M.Desmond, R.Aines, J.Blackstock, O.Bolland, T.Kaarsberg, N.Lewis,
M.Mazzotti, A.Pfeffer, J.Siirola, K.Sawyer, B.Smit, J.Wilcox (pag.19, 2011)
Una sequenza di base di due fasi utilizzata per la cattura di CO2 da una miscela di gas comporta quindi
l'interazione in un contattore di un gas ricco di CO2 con alcune molecole contenenti sorbente che hanno
affinità per la CO2 e fisicamente o chimicamente associate ad essa, seguita dal separato desorbimento o la
rigenerazione in condizioni diverse, che rilascia la CO2 dal sorbente. La stessa sequenza di due fasi è
probabile che sia il nucleo comune della maggior parte dei sistemi progettati per catturare CO2 dai fumi di
una centrale a carbone, o da una a gas naturale o dall'aria. Importanti considerazioni operative
comprendono la natura delle interazioni tra le specie e il sorbente, la temperatura e come può essere
ottenuta una concentrazione residua delle specie nel sorbente.
44
La figura 12 mostra uno schema generico per qualsiasi sistema di cattura della CO2. La capacità di
assorbimento e rigenerazione sono inseriti all'interno di una rete di materiale e flussi di energia necessarie
per soddisfare l'energia (calore e lavoro) e fabbisogno idrico.
Figura 12. Un tipico sistema per la cattura di CO2. Un componente chiave è un sistema di
assorbimento/adsorbimento in cui la CO2 è chimicamente legata ad un'altra molecola, e rimossa dalla miscela di gas.
Fonte: “Direct Air Capture of CO2 with Chemicals, a Technology Assessment for the APS Panel on Public Affairs”,
Study Committee Members: R.Socolow, M.Desmond, R.Aines, J.Blackstock, O.Bolland, T.Kaarsberg, N.Lewis,
M.Mazzotti, A.Pfeffer, J.Siirola, K.Sawyer, B.Smit, J.Wilcox (pag.20, 2011)
Una scelta progettuale importante è l'assorbente reattivo utilizzato per legare la CO2: questa scelta
influenza la velocità alla quale viene rimossa CO2 dal gas elaborato e anche l'energia necessaria per
rigenerare l’adsorbente e il rilascio di CO2.
Un esempio di impianto a gas naturale a ciclo combinato di 400 MW è situato a San Severo (Fg),
realizzato dalla ditta Enplus e dà un rendimento del 57%, rispetto al 35-40%, che darebbe una centrale
termoelettrica tradizionale a carbone: questo significa, a parità di potenza, minori consumi e minori
emissioni in atmosfera. L’ubicazione della centrale, in un avvallamento naturale del terreno, lontana dal
centro abitato di San Severo (circa 7 km) e distante oltre 1,5 km dalla casa più vicina riduce l’impatto
visivo. L’effetto paesaggistico di questa centrale a turbogas è molto più contenuto rispetto alle centrali
elettriche fotovoltaiche o eoliche, che a parità di potenza occuperebbero una superficie enormemente più
estesa.
Figura 13. Emissioni specifiche di SO2, NOx, polveri, CO2 in atmosfera delle centrali italiane
Fonte: “Centrale Turbogas a ciclo combinato di San Severo”, Enplus, 2011
45
Cattura post-combustione della CO2 dalle emissioni del carbone utilizzando il MEA,
descrizione della tecnologia
Il caso di studio relativo alla cattura post-combustione di CO2 da una centrale a carbone si basa su di un
esempio di cattura al 90% ("Caso 1"), presentati in un rapporto del 2007 della National Energy
Technology Laboratory (NETL), "Cattura di anidride carbonica dalle attuali centrali che bruciano
carbone”.
La Tabella 8 descrive i parametri del processo di separazione. La cattura di CO2 si ottiene con un sistema
basato su di un’ammina. La capacità dell'impianto è di 434 MW prima del retrofit, e con un fattore di
capacità presupposto del 90% delle emissioni iniziali sono 3,11 MtCO2/anno o 7,2 MtCO2/anno per ogni
gigawatt di potenza di carbone installati. Il retrofit risultante nella cattura di 90% delle emissioni iniziali
dell’impianto, è di 2,79 MtCO2/anno. Il retrofit viene integrato con un esistente impianto di alimentazione
altamente regolato. La cattura post-combustione su questa scala non è ancora stata commercializzata e
porta ancora un aumento legato a rischi tecnici.
Tabella 8. Parametri relativi al sistema post-combustione di acquisizione NETL. L'unità di energia,
GJe, è di miliardi di joule di energia elettrica (1 GJ = 278 kWh)
Parametri di separazione PCC
SPECIFICHE
Capacità dell’impianto di catturare CO2 2.8 Mt/anno
Tasso di cattura della CO2 90%
Concentrazione in entrata di CO2 12.8% in vol
Concentrazione in uscita di CO2 1.3% in vol
Peso molecolare del gas 28.6 g/mol
Velocità del gas 3.0 m/s
Temperatura del gas 40 °C
Pressione del gas 1 bar
Densità del gas 1.1 kg/m3
Concentrazione dell’adsorbente 5 mol/L (MEA)
Densità del liquido 1,050 kg/m3
Rapporto gas-liquido 3.40 mol/mol
Caduta di pressione attraverso l’adsorbitore 170 Pa/m
Tempo di operatività 8000 ore/anno
ADSORBITORE
Sezione dell’adsorbitore 169 m2
Profondità dell’adsorbitore 38.5 m
Volume dell’adsorbitore 6,500 m3
BILANCIO DI MATERIALI
Flusso di gas attraverso l’adsorbitore 1.8 Mm3/ora
CO2 catturata 350 t/ora
Flusso del liquido attraverso l’adsorbitore 0.006 Mt/ora
ENERGIA
Ventola di assorbimento 0.033 GJe/tCO2
Pompaggio del liquido 0.0004 GJe/tCO2
Subtotale di elettricità (solo ventilatori e pompe) 0.033 GJe/tCO2
Fonte: “Direct Air Capture of CO2 with Chemicals, a Technology Assessment for the APS Panel on Public Affairs”,
Study Committee Members: R.Socolow, M.Desmond, R.Aines, J.Blackstock, O.Bolland, T.Kaarsberg, N.Lewis,
M.Mazzotti, A.Pfeffer, J.Siirola, K.Sawyer, B.Smit, J.Wilcox (pag.20, 2011)
Nella seguente figura 14, il processo implica un flusso che scorre attraverso due colonne operanti a
temperature diverse. Il sorbente chimico attivo è una soluzione acquosa di monoetanolammina, "MEA"
46
(formula bruta NH2CH2CH2OH, peso molecolare di 61 g/mol). Nella colonna a temperatura inferiore (la
"colonna di assorbimento"), la CO2 viene rimossa dal gas di combustione della soluzione MEA.
Nella colonna a temperatura più alta (lo "stripper"), la CO2 viene rilasciata. L’assorbimento ad una
temperatura e desorbimento ad un'altra è un esempio di "sbalzo termico".
Figura 14. Schema di un sistema di assorbimento di CO2 utilizzato per la cattura post-combustione sulla base della
relazione DOE/NETL-401/110907.
Fonte: “Direct Air Capture of CO2 with Chemicals, a Technology Assessment for the APS Panel on Public Affairs”,
Study Committee Members: R.Socolow, M.Desmond, R.Aines, J.Blackstock, O.Bolland, T.Kaarsberg, N.Lewis,
M.Mazzotti, A.Pfeffer, J.Siirola, K.Sawyer, B.Smit, J.Wilcox (pag.25, 2011)
Il processo inizia quando il gas di scarico viene introdotto in una colonna impaccata di assorbimento di
circa 40 metri di altezza per 10 metri di diametro . Le concentrazioni (frazioni molari) dei quattro
principali gas nella miscela di riferimento costituenti le emissioni e che entrano nel MEA sono
rispettivamente pari a 12,8% vol. CO2 , il 68,3% di azoto, 2,9% di ossigeno, 16,0% di vapore acqueo:
questi quattro componenti danno un apporto per quasi tutta la miscela di gas di combustione.
L'assorbimento avviene ad una temperatura di 40-60 °C. La soluzione acquosa di ammina fluisce giù
dalla sommità della colonna, e il gas di scarico fluisce dal basso. Il MEA è costituito dal 30% della
soluzione in peso (circa 5 moli di MEA per litro di soluzione). Il gas di combustione trattato (~ 1,3% in
volume di CO2) esce dalla parte superiore della colonna, e la soluzione ricca di ammina (~ 6% in peso di
CO2) viene trasferita allo stripper attraverso uno scambiatore di calore. La temperatura del solvente che
entra nell'adsorbitore viene scelta in modo da evitare una perdita netta di acqua dalla soluzione MEA.
Nello stripper, che opera a 100-140°C, la CO2 viene rilasciata dalla soluzione di ammina. La soluzione,
ora povera di CO2, viene ritrasferita nella colonna di assorbimento attraverso uno scambiatore di calore.
Una piccola quantità di MEA fuoriesce dallo stripper assieme alla CO2 e viene recuperata mediante
lavaggio con acqua e restituita all’adsorbitore. Tuttavia, alcune ammine vengono perse anche perché alla
temperatura di esercizio dello stripper esse degradano termicamente e, se esposte all'ossigeno, si ossidano.
Come risultato, nel caso del MEA, devono essere sostituiti da 0,5 a 3 kg per ogni tonnellata di CO2
catturata.
La MEA reagisce anche con SO2 e SO3 (collettivamente, chiamati "SOx") per creare sali che possono
portare alla perdita dell’adsorbitore di ammina. Così, la cattura post-combustione basata sulla MEA, per
avere successo, dovrebbe avvenire solo dopo che la maggior parte dei composti SOx siano rimossi dal gas
di scarico. Metodi standard di desolforazione delle emissioni che soddisfano i requisiti normativi, non sono
in genere sufficienti per soddisfare quelli del MEA. In alcuni metodi standard una melma calcarea umida
viene a contatto con il gas di scarico e rimuove il 97-98% del SOx, ma per questo uso del MEA la
concentrazione del SOx deve essere ridotta di ~ 10 ppm. Viene richiesto un assorbitore secondario di SOx
ed è un componente del costo del capitale complessivo necessario al retrofit della centrale energetica per la
cattura di CO2.
Il fabbisogno di energia del sistema di cattura dell’anidride carbonica riduce la capacità di esportazione
della potenza dell'impianto, aumentando i capitali, i costi operativi e riducendo le aggiunte nette di CO2
47
nell’atmosfera. Il calore necessario per la rigenerazione è fornito da più del 25% del vapore dell'impianto
disponibile e ammonta per più della metà al fabbisogno totale di calore ed energia.
Caso di studio PCC: analisi dei costi
La relazione NETL è la sorgente dei costi sostenuti per le apparecchiature acquistate e parametri operativi
utilizzati qui per generare un’analisi economica ad alto livello, che si traduce in un costo di CO2 catturata.
Il costo delle attrezzature acquistate per l'impianto PCC si presume essere dato dalla somma dei costi per
l'acquisto delle quattro unità principali che devono essere aggiunte ad un impianto a carbone
convenzionale per consentire l’utilizzo del PCC. Queste quattro unità sono:
• Un secondo treno assorbitore per il blocco delle emissioni di gas desolforato, per portare la
concentrazione SOx nei gas combusti al di sotto dei 10 ppm;
• Un sistema di cattura e di rigenerazione della CO2 basata su una soluzione MEA 5 molare (M);
• Un ulteriore allungamento della turbina per consentire al sistema- impianto a vapore di fornire calore
per la rigenerazione dell’ammina e rilasciare la CO2;
• Una disidratazione della CO2 e un’isola di compressione
Tabella 9. Le stime dei costi per un sistema PCC adottato da una centrale energetica a carbone
(costi in $/ton di CO2 sono in corsivo)
Cattura di post-combustione
CO2 catturata (tonnellate per anno) 2.790.000
STIMA DEI COSTI DI CAPITALE
Costi delle attrezzature acquistate (milioni di $) 113$
Costo di capitale complessivo per l’installazione (milioni di $) 500$
Ammortamento in 20 anni ($/ton di CO2 catturata) 9$
Ritorno dell’investimento pari al 7% (ROI) ($/ton di CO2 catturata) 13$
Ammortamento + ROI ($/ton di CO2 catturata) 22$
COSTI OPERATIVI
Manutenzione (milioni di $ all’anno) 20$
Lavoro (milioni di $ all’anno) 8$
Chimica (milioni di $ all’anno) 12$
Manutenzione, Lavoro e Chimica ($/ton di CO2 catturata) 14$
Consumo di carburante (milioni di BTU all’anno) 102.000
Costo del carburante ($ per milioni di BTU) 6$
Costo del carburante (milioni di $ all’anno) 1$
Costo del carburante ($/ton di CO2 catturata) 0.22$
Consumo di energia (MWh all’anno) 1.030.000
Costo dell’energia ($ per MWh) 71$
Costo dell’energia (milioni di $ all’anno) 73$
Costo dell’energia ($/ton di CO2 catturata) 26$
Costi operativi annuali totali (milioni di $) 114$
Costi operativi ($/ton di CO2 catturata) 40$
COSTI PER TONNELLATA DI CO2 CATTURATA
Costi di capitale ($/ton di CO2 catturata) 22$
Costi operativi ($/ton di CO2 catturata) 40$
Costi totali ($/ton di CO2 catturata) 62$
COSTI PER TON DI CO2
CO2 evitata come frazione di CO2 catturata nel dispositivo 0.77
Costi di capitale ($/ton CO2 evitata) 30$
Costi operativi ($/ton CO2 evitata) 50$
Costi totali ($/ton CO2 evitata) 80$
Fonte: “Direct Air Capture of CO2 with Chemicals, a Technology Assessment for the APS Panel on Public Affairs”,
Study Committee Members: R.Socolow, M.Desmond, R.Aines, J.Blackstock, O.Bolland, T.Kaarsberg, N.Lewis,
M.Mazzotti, A.Pfeffer, J.Siirola, K.Sawyer, B.Smit, J.Wilcox (pag.26, 2011)
48
Il costo maggiore di acquisto dell’attrezzatura è tratto dalla relazione NETL e ammonta a 110
milioni di dollari, un prezzo adeguato su di una recente stima all'inizio del 2009. Questo costo viene poi
moltiplicato per 4,5 per arrivare alla stima del costo finale del capitale installato, circa 500 milioni
di dollari. Una vita economica per l’impianto viene assunta, rispettivamente, con il 5% e il 7% dei costi
di capitale complessivi assegnati al valore annuale per l'ammortamento e il ritorno sugli investimenti.
Queste percentuali sono adatte durante la procedura di screening del progetto preliminare. Il costo
annualizzato del capitale risultante è di 60 milioni di dollari all'anno, o 22$/tCO2.
L'uso del fattore 4,5 è una tecnica di stima utilizzata nelle industrie chimiche e di raffinazione per
convertire i costi di acquisto delle apparecchiature al costo finale di installazione.
Cattura di CO2 dall’aria utilizzando idrossido di sodio, descrizione della tecnologia
L'impianto di riferimento per questo caso di studio si basa su di uno schema pubblicato da Baciocchi et al.
Questo è stato scelto perché la tecnologia esistente si basa in gran parte sui bilanci di materiali ed
energetici e fornisce informazioni dettagliate che sono necessarie ad un’analisi dei costi del processo
industriale. Il sistema funziona con flusso in controcorrente attraverso un sistema di molte torri cilindriche
basse e larghe (ognuna di 2,8 m di altezza e 12 di diametro) e cattura 1 MtCO2/anno. Dei ventilatori
guidano l'aria attraverso un letto di assorbimento contenente idoneo materiale di imballaggio e una
soluzione di idrossido di sodio scorre contro corrente al flusso d'aria. Il sistema di cattura è composto da
due cicli intrecciati: un ciclo a base di sodio (con idrossido e carbonato di sodio) e un ciclo di base di
calcio (coinvolge carbonato, ossido e idrossido di calcio). Il processo completo di assorbimento e
rigenerazione è illustrato schematicamente nel diagramma entalpico sottostante e comporta quattro
reazioni: l'asse verticale indica le entalpie relative dei quattro stati, con la scala di entalpia arbitrariamente
impostata a zero per la miscela iniziale (NaOH, CO2 e Ca(OH)2), mentre le reazioni chimiche guida di
ogni transizione sono illustrate a ciascun livello.
La CO2 viene catturata da una soluzione acquosa di NaOH e convertita in una soluzione di carbonato di
sodio (Na2CO3). Come mostrato nella Figura 9a, il passaggio 1 è esotermico da -109,4 kJ /mol, o
-105 kJ/mol compresa l’energia di solvatazione. L’ Na2CO3 nella soluzione è altamente solubile e si
ritiene preferibile perché l’accumulo (scaling) sulle superfici interne della colonna di assorbimento viene
evitato.
Nella fase 2, viene convertito in carbonato di calcio (CaCO3) precipitato tramite l’aggiunta di idrossido di
calcio (Ca(OH)2). Questo passo è esotermico da solo -8 kJ/mol o -5,3 kJ/mol compresa l’energia di
solvatazione, ma l'equilibrio viene spinto verso la formazione del CaCO3 attraverso la sua precipitazione.
La Fase 2 rigenera la soluzione NaOH per il ritorno all'adsorbitore. Nella Fase 3, il precipitato viene
convertito in CaCO3 CaO (calce viva) e CO2 attraverso il processo di calcinazione. Questa reazione di
decomposizione di CaCO3 è endotermica da 179,2 kJ /mol e richiede alte temperature (T > 800°C), quindi
calore ad alta temperatura, per rendere possibile il rilascio della CO2 ad una pressione abbastanza vicino a
quella atmosferica.
La CO2 viene quindi compressa per il trasporto al sito di stoccaggio e, nella fase 4, il solido CaO si
trasforma in una sospensione di Ca(OH)2 da reazione con acqua in uno slaker.
49
Figura 15a. Diagramma di entalpia del livello di assorbimento di CO2 e rigenerazione da idrossido di sodio (NaOH).
Si noti che ogni livello ha lo stesso insieme di atomi. Nel sistema qui studiato, alcune molecole non partecipano a
specifici processi fisici, per esempio, idealmente, NaOH non viene trasportato al calcinatore, né
Ca(OH)2 partecipa all’assorbimento.
Figura 15b. Schema di un impianto per la cattura di CO2 dall’aria che utilizza NaOH come assorbitore. L'industria
della cellulosa e della carta chiama il reattore con l'etichetta da "abbattitore" a "causticizzatore." In questo reattore,
il carbonato di calcio precipita e l’idrossido di sodio (comunemente chiamato "soda caustica" e "lime") viene
rigenerato.
Fonte: “Direct Air Capture of CO2 with Chemicals, a Technology Assessment for the APS Panel on Public Affairs”,
Study Committee Members: R.Socolow, M.Desmond, R.Aines, J.Blackstock, O.Bolland, T.Kaarsberg, N.Lewis,
M.Mazzotti, A.Pfeffer, J.Siirola, K.Sawyer, B.Smit, J.Wilcox (pag.30, 2011)
50
La CO2 viene catturata dal contatto con idrossido di sodio (NaOH) in soluzione per formare carbonato di
sodio (Na2CO3):
ΔH = - 105 KJ/mol
L'energia di legame molto forte associata a questa reazione fornisce il potenziale per carichi elevati di
CO2 in un ampio campo di condizioni operative del sistema e dei progetti, ma significativamente
comporta più lo svantaggio associato del fabbisogno energetico altrettanto elevato, per rilasciare la CO2
durante la fase di rigenerazione.
La rigenerazione inizia con l'aggiunta di idrossido di calcio, Ca(OH)2, la soluzione ricca di carbonato di
sodio lascia l’adsorbitore, che determina la formazione di un precipitato di carbonato di calcio e rigenera
la soluzione di idrossido di sodio:
ΔH= -8 kJ/mol
Il precipitato viene poi riscaldato per rimuovere l'acqua in eccesso tramite calore residuo dal calcinatore
(fornace) che viene poi utilizzata per decomporre il carbonato di calcio. L'idrossido di calcio si rigenera in
due fasi. In primo luogo, il carbonato di calcio viene riscaldato in una fornace per liberare la CO2 e
produrre ossido di calcio, CaO.
ΔH = 179 kJ/mol
Questa è la fase a più alto consumo energetico, poiché è necessario un grande dispendio di energia per
annullare il legame forte presente nella molecola di CO2.
Il carbonato di calcio viene riscaldato ad oltre 900 °C per portare la reazione verso il desorbimento della
CO2. Poi, l'ossido di calcio prodotto dalla calcinazione reagisce con vapore in un slaker per rigenerare
l'idrossido di calcio.
ΔH = - 65 kJ/mol
Al fine di promuovere il buon trasferimento di calore e l'efficienza, l'energia per la decomposizione del
carbonato di calcio può essere fornita da gas naturale, bruciata in aria o tramite ossigeno. La combustione
produce CO2 ad elevata purezza dopo la rimozione del vapore acqueo negli effluenti, ma ha lo svantaggio
che essa richiede un’unità di separazione dell'aria a monte, con un’ulteriore dispendio di energia e costi
associati.
Una variabile di progetto importante è la concentrazione di NaOH in soluzione acquosa (sue "molarità,"
moli di NaOH per litro di soluzione). La reazione di cattura aumenta ad alta molarità, ma la soluzione è
anche più viscosa e più aggressiva, quindi più difficile da gestire. La molarità riguarda anche il bilancio
idrico del collettore, perché, assieme all'umidità relativa e alla temperatura dell'ambiente aria, determina
la misura in cui, durante il contatto dell'aria con l'idrossido di sodio, l'umidità evapora dalla soluzione
all'aria.
51
Figura 16. Grado di saturazione (equivalentemente, umidità relativa) dell’aria in equilibrio con una soluzione di
NaOH, in funzione della molarità della soluzione di idrossido di sodio. Vi sono curve quasi identiche per 0 °C e 20
°C e mostrano che il grado di saturazione è essenzialmente indipendente dalla temperatura nella regione di interesse.
Fonte: “Direct Air Capture of CO2 with Chemicals, a Technology Assessment for the APS Panel on Public Affairs”,
Study Committee Members: R.Socolow, M.Desmond, R.Aines, J.Blackstock, O.Bolland, T.Kaarsberg, N.Lewis,
M.Mazzotti, A.Pfeffer, J.Siirola, K.Sawyer, B.Smit, J.Wilcox (pag.33, 2011)
Caso di studio DAC: bilancio di materiali e input energetici
Come primo passo verso un progetto di riferimento, ci si basa su un'analisi per Baciocchi et al. che
esplora i due cicli interconnessi a base di sodio e di calcio, fornendo bilanci energetici e di massa
semplificati, basati sulle attuali tecnologie commerciali.
Questo sistema di riferimento cattura 1 MtCO2/anno, che è più o meno uguale alle emissioni annuali di
CO2 di una centrale elettrica a gas naturale con un ciclo combinato di 300 MW o una centrale a carbone
di 150 MW. Tale sistema è abbastanza grande da sfruttare economie di scala nel trasporto e stoccaggio
della CO2. L'estremità anteriore di questo sistema è un contattore, costituito da assorbitori molti operanti
in parallelo. La struttura del contattore e degli interni, comprese le tubature e l’imballaggio, costituiscono
la componente più importante del costo delle attrezzature acquistate.
Il contattore di riferimento rimuove il 50% delle emissioni incidenti di CO2 nell'aria che si presume di
avere una concentrazione iniziale di 500 ppm. Baciocchi et al. propongono un assorbitore cilindrico di 12
m di diametro e 2,8 m di lunghezza, una soluzione di NaOH 2 M, e una velocità dell’aria di 2 m/s
attraverso l'assorbitore. Un allineato confronto dei dati di processo degli assorbitori DAC e PCC è
mostrato nella Tabella 10.
52
Tabella 10. Parametri per il sistema di cattura post-combustione NETL (sistema di cattura
precedentemente mostrato nella Tabella 9) e i corrispondenti parametri per il sistema di cattura
dall’aria di riferimento.
Parametri di separazione PCC DAC
SPECIFICHE
Capacità dell’impianto di catturare CO2 2.8 Mt/anno 1 Mt/anno
Tasso di cattura della CO2 90% 50%
Concentrazione in entrata di CO2 12.8% in vol 0.050% in vol
Concentrazione in uscita di CO2 1.3% in vol 0.025% in vol
Peso molecolare del gas 28.6 g/mol 28.8 g/mol
Velocità del gas 3.0 m/s 2.0 m/s
Temperatura del gas 40 °C 25 °C
Pressione del gas 1 bar 1 bar
Densità del gas 1.1 kg/m3 1.2 kg/m3
Concentrazione dell’adsorbente 5 mol/L (MEA) 2 mol/L (NaOH)
Densità del liquido 1,050 kg/m3 1,080 kg/m3
Rapporto gas-liquido 3.40 mol/mol 1.44 mol/mol
Caduta di pressione attraverso l’adsorbitore 170 Pa/m 100 Pa/m
Tempo di operatività 8000 ore/anno 8000 ore/anno
ADSORBITORE
Sezione dell’adsorbitore 169 m2 37,000 m2
Profondità dell’adsorbitore 38.5 m 2.8 m
Volume dell’adsorbitore 6,500 m3 104,000 m3
BILANCIO DI MATERIALI
Flusso di gas attraverso l’adsorbitore 1.8 Mm3/ora 268 Mm3/ora
CO2 catturata 350 t/ora 125 t/ora
Flusso del liquido attraverso l’adsorbitore 0.006 Mt/ora 0.28 Mt/ora
ENERGIA
Ventola di assorbimento 0.033 GJe/tCO2 0.63 GJe/tCO2
Pompaggio del liquido 0.0004 GJe/tCO2 0.07 GJe/tCO2
Subtotale di elettricità (solo ventilatori e pompe) 0.033 GJe/tCO2 0.70 GJe/tCO2
Fonte: “Direct Air Capture of CO2 with Chemicals, a Technology Assessment for the APS Panel on Public Affairs”,
Study Committee Members: R.Socolow, M.Desmond, R.Aines, J.Blackstock, O.Bolland, T.Kaarsberg, N.Lewis,
M.Mazzotti, A.Pfeffer, J.Siirola, K.Sawyer, B.Smit, J.Wilcox (pag.35, 2011)
La bassa concentrazione di CO2 richiede la movimentazione di grandi volumi d’aria attraverso il sistema di
assorbimento, ovvero 10 miliardi di moli di aria all'ora. Per mantenere gestibile la caduta di pressione
attraverso l'assorbitore, viene scelto un progetto di un assorbitore basso e largo, che viene utilizzato in
condizioni che portano a una caduta di pressione di circa 100 Pa/m.
I requisiti energetici associati al contattore DAC guidano l'aria e la soluzione di NaOH continuamente
attraverso gli assorbitori.
L'estremità posteriore dell'impianto DAC comporta la formazione di un precipitato di carbonato di calcio e
la successiva decomposizione dello stesso per liberare la CO2. Prima di arrivare nella fornace dove avviene
la calcinazione, il carbonato di calcio deve essere filtrato, essiccato e riscaldato alla temperatura di
calcinazione. La Tabella 11a presenta i parametri di processo e dei saldi di materiali e di energia per questi
passaggi stimati per il Caso B da Baciocchi et al. Il caso B assume che il carbonato di calcio viene
precipitato in un reattore a pellet che consente un’efficace disidratazione e riduce il contenuto di umidità
residua nei pellet solidi al 10% in peso, convogliati poi nel calcinatore.
53
Tabella 11a. Materiali e bilanci energetici per il recupero di CO2 in regime di riferimento DAC, caso B
Parametri di recupero DAC della CO2 DAC
SPECIFICHE
Temperatura della fornace 900 °C
Pressione di CO2 dopo la compressione 100 bar
Umidità residua dei pellets di CaCO3 nella fornace 10% in peso
Tempo di operatività 8000 ore/anno
BILANCIO DI MATERIALI
Flusso di liquido nel precipitatore 280,000 t/ora
Flusso di liquido dallo slaker 773 t/ora
Pellets nella fornace (90% in peso di CaCO3) 305 t/ora
CaO solido dalla fornace allo slaker 154 t/ora
Combustibile a metano nella fornace 18 t/ora
Ossigeno da Unità di Separazione dall’Aria (ASU) alla fornace 81 t/ora
CO2 allo stoccaggio 171 t/ora
BILANCIO ENERGETICO (PER TON CO2 CATTURATA)
Precipitatore e slaker 0.11 GJe/tCO2
Separazione dall’aria (ASU) 0.55 GJe/tCO2
Compressione di CO2 0.42 GJe/tCO2
Elettricità subtotale 1.08 GJe/tCO2
Riscaldamento di CaCO3 2.2 GJt/tCO2
Asciugatura di CaCO3 0.9 GJt/tCO2
Calcinazione di CaCO3 4.5 GJt/tCO2
Riscaldamento dell’aria 0.8 GJt/tCO2
Recupero di calore totale -2.3 GJt/tCO2
Subtotale di energia termica 6.1 GJt/tCO2
Fonte: “Direct Air Capture of CO2 with Chemicals, a Technology Assessment for the APS Panel on Public Affairs”,
Study Committee Members: R.Socolow, M.Desmond, R.Aines, J.Blackstock, O.Bolland, T.Kaarsberg, N.Lewis,
M.Mazzotti, A.Pfeffer, J.Siirola, K.Sawyer, B.Smit, J.Wilcox (pag.36, 2011)
Come visto nella tabella 11a, quasi tutti i requisiti di energia termica derivano dalle operazioni di
essiccazione e la decomposizione del CaCO3 per rilasciare CO2. Solo l'alto grado di calore nel processo si
presume essere recuperabile, cioè il calore associato al raffreddamento della calce solida e quello associato
al gas di combustione della fornace. Il risultato è un recupero di calore, la quantità negativa contenuta nella
tabella.
Il fabbisogno netto di energia termica per l'impianto di DAC è stimato a 6,1 GJ per ogni tonnellata
di CO2 catturata. Questa energia si presume che debba essere fornita al 75% di efficienza termica dalla
combustione del gas naturale nella fornace a combustione di ossigeno, con conseguente ingresso totale di
energia termica di 8.1GJ (7,7 milioni di BTU) per tonnellata di CO2 catturata.
54
Caso di studio DAC: analisi dei costi
Tabella 11b. Costi stimati per un sistema DAC usando idrossido di sodio/calcio e costi comparati col
sistema PCC di un impianto a carbone (i costi in $/ton CO2 sono rappresentati in corsivo)
Cattura di
post
combustione:
energia dal
carbone
Cattura dall’aria:
adsorbitore
idrossido
(Ottimistico)
Cattura dall’aria:
adsorbitore
idrossido
(Realistico)
CO2 catturata (tonnellate per anno) 2.790.000 1,000,000 1,000,000
STIMA DEI COSTI DI CAPITALE
Costi delle attrezzature acquistate (milioni di $) 113$ 480$ 480$
Costo di capitale complessivo per l’installazione
(milioni di $)
500$ 2,200$ 2,900$
Ammortamento in 20 anni ($/ton di CO2 catturata) 9$ 110$ 150$
Ritorno dell’investimento pari al 7% (ROI) ($/ton di
CO2 catturata)
13$ 150$ 200$
Ammortamento + ROI ($/ton di CO2 catturata) 22$ 260$ 350$
COSTI OPERATIVI
Manutenzione (milioni di $ all’anno) 20$ 70$ 90$
Lavoro (milioni di $ all’anno) 8$ 20$ 30$
Chimica (milioni di $ all’anno) 12$ 4$ 4$
Manutenzione, Lavoro e Chimica ($/ton di CO2
catturata)
14$ 90$ 120$
Consumo di carburante (milioni di BTU all’anno) 102,000 7,600,000 7,600,000
Costo del carburante ($ per milioni di BTU) 6$ 6$ 6$ Costo del carburante (milioni di $ all’anno) 1$ 46$ 46$
Costo del carburante ($/ton di CO2 catturata) 0.22$ 46$ 46$
Consumo di energia (MWh all’anno) 1,030,000 490,000 490,000
Costo dell’energia ($ per MWh) 71$ 71$ 71$ Costo dell’energia (milioni di $ all’anno) 73$ 35$ 35$
Costo dell’energia ($/ton di CO2 catturata) 26$ 35$ 35$
Costi operativi annuali totali (milioni di $) 114$ 170$ 200$
Costi operativi ($/ton di CO2 catturata) 40$ 170$ 200$
COSTI PER TONNELLATA DI CO2 CATTURATA
Costi di capitale ($/ton di CO2 catturata) 22$ 260$ 350$
Costi operativi ($/ton di CO2 catturata) 40$ 170$ 200$
Costi totali ($/ton di CO2 catturata) 62$ 430$ 550$
COSTI PER TON DI CO2
CO2 evitata come frazione di CO2 catturata nel
dispositivo
0.78 0.70 0.70
Costi di capitale ($/ton CO2 evitata) 30$ 370$ 500$
Costi operativi ($/ton CO2 evitata) 50$ 240$ 280$
Costi totali ($/ton CO2 evitata) 80$ 610$ 780$
Fonte: “Direct Air Capture of CO2 with Chemicals, a Technology Assessment for the APS Panel on Public Affairs”,
Study Committee Members: R.Socolow, M.Desmond, R.Aines, J.Blackstock, O.Bolland, T.Kaarsberg, N.Lewis,
M.Mazzotti, A.Pfeffer, J.Siirola, K.Sawyer, B.Smit, J.Wilcox (pag.39, 2011)
Il costo stimato di acquisizione di questo sistema DAC è da sette a nove volte superiore a quello
stimato di un sistema di riferimento di cattura post-combustione (PCC), e il costo evitato è stimato
da otto a dieci volte maggiore. I costi sono stimati sia per il particolare sistema DAC, che per un
particolare sistema PCC adattati ad una centrale a carbone. Questi sono rispettivamente da 430 a 550
dollari e 60 dollari per tonnellata di CO2 catturata, utilizzando parametri per il processo di DAC alla
fine ottimistici in un intervallo realistico.
55
Il costo della CO2 catturata corrisponde anche al costo di CO2 evitata, se non ci sono emissioni di CO2
provenienti dalle fonti di energia associate, assumendo che tutti gli altri costi rimangano invariati.
Questi si aggirano, rispettivamente, dai 610 a 780 dollari e 80 dollari per tonnellata di CO2 evitata, in
base all’intensità di anidride carbonica emessa dall’attuale rete energetica statunitense
(circa 610 kgCO2/MWh).
• La fornitura di energia elettrica per un impianto DAC incide fortemente sul "carbonio netto".
Nella progettazione DAC di riferimento, la spesa energetica stimata è di 0,49 MWh/tCO2 catturata
risulta nell’emissione di circa 300 kg di CO2 nelle centrali energetiche per ogni tonnellata di CO2 rimossa
dall'aria, se l’energia proviene da un impianto medio della griglia energetica attuale degli Stati Uniti. Una
griglia decarburata consentirebbe la conversione del costo di CO2 catturata in costo di CO2 evitata. Una
strategia alternativa potrebbe essere quella di produrre in-situ energia e di catturare la CO2 emessa dalla
sorgente di alimentazione, come avviene per il gas naturale che fornisce l'energia termica nel progetto
DAC di riferimento. La CO2 supplementare associata all’elettricità in loco darebbe un ulteriore aumento
della domanda energetica del compressore e del volume di stoccaggio della CO2.
• La maggiore incertezza nei costi legati al DAC è quella relativa al contattore con l’aria. Un
contattore è un dispositivo fisico di cattura della CO2 che contiene all’interno una soluzione chimica
adsorbente. Sarebbe molto meno costoso se un processo operabile potesse essere progettato con un
sistema più aperto, come viene usato nelle torri di raffreddamento. La praticità di tale sistema dipende dalla
capacità di fornire un buon contatto tra l'aria e il sorbente, minimizzando le perdite fisiche della soluzione
adsorbente attraverso meccanismi come la nebulizzazione o reazioni chimiche con particelle e gas acidi
nell’aria.
Figura 17. Processo di cattura dall’aria della CO2
Fonte: Carbon Engineering
Alberi artificiali per la cattura di CO2
I cambiamenti climatici hanno stimolato l’interesse di alcuni scienziati a proporre nuovi metodi artificiali
atti alla riduzione dei tassi di CO2 in atmosfera.
In occasione della settimana dedicata alla cattura dall’aria di CO2, indetta dall’Institution of Mechanical
Engineers (IME) con sede a Londra, un team di ricercatori britannici ha pubblicato uno studio in tal
senso: l’idea consiste nella creazione di alberi artificiali che possano assorbire questo gas serra e viene
dal prof. Klaus Lackner, docente di Geofisica dell’Università della Columbia di New York, mentre un
gruppo di professori del Rutherford Appleton Laboratory dell’Oxforshire (Regno Unito), guidato dal prof.
Benjamin Drumm, ha proposto di impiantare queste apparecchiature ad albero lungo le autostrade,
intorno alle città o in riva al mare.
L’albero artificiale è prodotto dalla GRT (Global Research Technologies) di Tucson, Arizona: esso
trattiene l’anidride carbonica grazie ad un rivestimento assorbente, formato da acqua e calce ma, a
56
differenza di un albero naturale, non è in grado di rilasciare ossigeno. L’energia necessaria che serve al
funzionamento potrebbe essere ricavata da generatori eolici posti nei pressi degli alberi artificiali stessi.
Una foresta di 105 alberi artificiali, potrebbe, nell’arco di 10-20 anni, essere una delle soluzioni possibili
per risolvere il problema dell’effetto serra. Esistono già “prototipi avanzati dal punto di vista del design,
dell’automazione e dei componenti usati che potrebbero, in tempi relativamente brevi, essere prodotti in
grande quantità e messi in funzione” come è emerso da una dichiarazione del responsabile del rapporto
Tim Fox, aggiungendo che gli alberi artificiali sarebbero in grado di catturare 1t di CO2 al giorno,
un tasso decisamente superiore a quello di un albero vero, che si attesta dai 20 ai 45 kg di CO2
all’anno!
Si prevede che questo progetto, già dal 2018, potrebbe essere attivo trattenendo dall’aria CO2 per poi
riutilizzarla in processi industriali o immagazzinandola al sicuro nel sottosuolo, in appositi siti di
stoccaggio come vecchie miniere dismesse.
Uno strumento questo che, se commercializzato, potrebbe contribuire notevolmente all’abbassamento dei
livelli di gas alteranti il sistema climatico, mitigando le conseguenze e gli effetti sul clima stesso.
“Per la realizzazione della tecnologia non ci sarà bisogno di finanziamenti eccessivi, piuttosto di una
strategia condivisa con i piani governativi di lotta all’inquinamento”.
Stando alle affermazioni dei ricercatori britannici della IME, un albero artificiale costerebbe circa
20.000 dollari e sarebbe in grado di assorbire fino a 10 tonnellate di CO2 al giorno: un albero medio
naturale ne assorbe, invece, come dicono le stime, solo tra 60 e 100 grammi al giorno. Si è calcolato
che un faggio, nel corso della sua intera vita di 120 anni, può assorbirne solo circa 3,5 tonnellate. In tutta
la Gran Bretagna occorrerebbero circa 100.000 alberi artificiali per assorbire tutta la CO2 dovuta al
traffico motorizzato dell’isola. I costi di ogni tonnellata di CO2 catturata sarebbero di circa 100
dollari.
Il problema del sistema restano i costi che sono alti perché la concentrazione di CO2 nell’atmosfera non è
molto elevata. Secondo altri studiosi, sarebbe economicamente più conveniente captare la CO2
direttamente nelle centrali termoelettriche. Si stima che, in questo caso, il sequestro di una
tonnellata del gas serra costerebbe tra 20 e 30 dollari e non 100 come calcolato nel caso della
cattura dall’aria. In certi casi particolari, il sequestro della CO2 dall’atmosfera può però anche
convenire, quando cioè i costi scendono sotto i 100 dollari/tonnellata e quando la non emissione di una
tonnellata risulterebbe ancora più costosa.
Facendo riferimento al protocollo di Kyoto del 1997, non restano dubbi in merito alla necessità di
percorrere anche la strada della riduzione del consumo di combustibili fossili, soprattutto consapevoli
della forte domanda di energia in arrivo dai paesi in via di sviluppo e dei seri danni ambientali in cui
incorreremmo, qualora non riuscissimo a riequilibrare i nostri consumi energetici entro pochi anni.
Per gli autori dello studio, la Geoingegneria offre in primo piano l’opportunità di guadagnare tempo fino
al momento in cui sarà ancora possibile reagire efficacemente al riscaldamento globale che pone molti
problemi non sufficientemente approfonditi, per esempio l’importanza degli aerosol e l’influenza del sole
sul clima.
57
Institution of Mechanical Engineers Institution of Mechanical Engineers
Alberi artificiali e rotori eolici lungo un’autostrada Alberi artificiali nel mare accanto a generatori eolici
Bioreattori ad alghe: cattura di CO2 in ambienti urbani
A causa dell’aumento vertiginoso dei livelli di smog negli ambienti urbani si rende necessario, ora più che
mai, realizzare un nuovo modello ecosostenibile attraverso un progetto che consiste nell’introduzione di
bioreattori ad alghe in strutture architettoniche nuove o preesistenti, edifici che hanno come obiettivo
quello di azzerare l’impatto ambientale.
Il progetto è un sistema a circuito chiuso che si concentra su tre diversi livelli di riduzione di anidride
carbonica:
sequestro del carbonio direttamente dall'aria;
l'assorbimento attraverso la fotosintesi vegetale;
nuove strutture di raccolta di energia naturale
Guardando dall'alto, due impianti di depurazione di anidride carbonica azionati da turbine eoliche
catturano CO2 dall'aria, filtrandola prima di rilasciare l'ossigeno di nuovo nell'atmosfera. I bioreattori ad
alghe produrranno energia sufficiente per le esigenze operative dell'edificio.
Un sistema modulare di tubi algali girano intorno alla parte sommitale delle torri e una delle rampe di
parcheggio sarà in grado di assorbire la radiazione solare per la produzione di biocarburante. Inoltre,
l’altra rampa di parcheggio sarà trasformata in un dispositivo gravitazionale di fitorisanamento per il
riutilizzo dell’acqua pulita. I balconi semicircolari che ruotano attorno all'esterno serviranno come
armatura per l’installazione di pannelli fotovoltaici e solari termici, generando una fonte supplementare di
energia elettrica, nonché l’opportunità di sviluppare l'agricoltura in verticale.
Una ditta di bioarchitettura è stata contattata direttamente dal Ministero delle Infrastrutture della
Repubblica Socialista del Vietnam che ha deciso di finanziare questo progetto: la ditta in questione è la
francese Influx Studio che ha sede a Parigi.
58
Progetto di bioreattori ad alghe nei grattacieli delle nostre città
Bioreattori ad alghe: un nuovo modello di ecosostenibilità per le generazioni future?
Fonte: Xay Dung (Ministry of Construction of Socialist Republic of Vietnam)
Schema della parte sommitale di un bioreattore ad alghe contenuto in un grattacielo
Un altro degno esempio di bioreattori algali adattati in un contesto urbano è dato da un grattacielo che si
trova nell’isola di Taiwan, nella città di Taichung.
L’isola geograficamente è molto vicina alla Cina e risente delle continue emissioni di combustibili fossili
che quest’ultima riversa nell’atmosfera e quindi anche Taiwan necessita di tutto l’aiuto possibile per
aspirare la CO2 in eccesso. Tutto questo, combinato con le celebrazioni del centenario dell’indipendenza
dall’Impero Manciù cinese (1912) hanno ispirato il celebre architetto francese Vincent Callebaut nella
progettazione dell’Arco Biotico, il grattacielo più “verde” mai realizzato prima d’ora, come parte
integrante dell’Active Gateway City di Taichung. La torre è composta da diverse facciate e da molti
59
giardini verticali che conferiscono una connotazione di un gigantesco cespuglio. Esso riceve tutta la sua
energia elettrica da fonti energetiche solari, eoliche e biologiche.
Infatti, l’Arco Biotico rilascia zero emissioni nell’ambiente e aiuta il comune di Taichung a raggiungere
gli obiettivi imposti dalle politiche di riduzione delle emissioni globali. Il nuovo edificio è stato progettato
per creare un ponte di collegamento tra l’eredità storica della città e un nuovo stile di vita più ecologico,
la cultura e il rispetto per la biodiversità. Callebaut ha creato inoltre altri quartieri verdi vicini che
costringono quasi ad una convivenza cooperativa e pacifica, fattori essenziali per l’affermazione delle
comunità urbane sostenibili. Poiché l’espansione demografica delle città crescerà maggiormente nei
prossimi decenni, le proposte intelligenti come queste ci aiuteranno ad adattarci ai cambiamenti che
avverranno.
Arco Biotico realizzato dall’architetto francese Vincent Callebaut a Taichung, Taiwan
Fonte: Influx Studio bioarchitecture
Anche la NASA (National Aeronautics and Space Administration), il prestigioso ente di ricerca spaziale
americano, si è espresso in maniera favorevole all’utilizzo dei bioreattori ad alghe come alternativa valida
per la produzione di energia pulita, in una nota resa pubblica il 18 Novembre 2009 da PhysOrg.com.
Il NASA Ames Research Center di Moffett Field in California, ha inventato dei tubi flessibili in plastica
chiamati foto-bioreattori nei quali vi sono contenute alghe che crescono nelle acque reflue urbane per la
produzione di biocarburanti e altre varietà di prodotti.
Figura 18. Foto-bioreattori dotati di condutture ad alghe sviluppati dalla NASA Ames Research Center della
California
Fonte: NASA (National Aeronautics and Space Administration)
60
Il bioreattore della NASA è un contenitore offshore a membrana per la crescita di alghe (Offshore
Membrane Enclosure for Growing Algae - OMEGA), un bioreattore che non sarà in competizione con
l’agricoltura, fertilizzanti o acqua dolce.
L’Ames Research Center della California ha brevettato questi foto-bioreattori e ha concesso la licenza
all’Algae System LLC di Carson City nel Nevada, il quale provvederà all’impianto di queste
apparecchiature nella città di Tampa Bay, in Florida. La società prevede di perfezionare e integrare la
tecnologia NASA in bioraffinerie per la produzione di prodotti derivanti da energie rinnovabili, inclusi il
diesel e i carburanti per i jet.
"La NASA ha una lunga storia di grande successo per quanto riguarda lo sviluppo di dispositivi di
conversione dell'energia e dei nuovi sistemi di supporto vitale", ha detto Lisa Lockyer, vice direttore delle
Nuove Iniziative Imprenditoriali e Direzione della Comunicazione dell’Ames Research Center . "La
NASA è entusiasta di sostenere la commercializzazione di un bioreattore potenziale ad alghe per la
fornitura di energia rinnovabile qui sulla Terra. "
Il sistema OMEGA consiste in grandi sacchetti di plastica con inserti di membrane ad osmosi
avanzata che accrescono le alghe d'acqua dolce nelle acque reflue trasformate dalla fotosintesi
(Fonte: NASA Ames Research Center) . Usando l'energia dal sole, le alghe assorbono anidride carbonica
dall'atmosfera e i nutrienti dalle acque reflue per la produzione di biomassa e ossigeno. Come le alghe
crescono, le sostanze nutritive sono contenute negli inserti, mentre l'acqua dolce pulita viene rilasciata
nell'oceano circostante attraverso le membrane ad osmosi avanzata.
"La tecnologia OMEGA ha poteri di trasformazione. Può convertire acque reflue e l’anidride
carbonica in carburanti abbondanti e poco costosi" (Citazione: Matthew Atwood, Presidente e
Fondatore della ditta Algae Systems). "La tecnologia è semplice e scalabile abbastanza per creare una
fornitura di energia locale poco costosa che sostenga anche la creazione di posti di lavoro".
Se distribuito in aree contaminate e "zone morte" costiere, questo sistema può aiutare a recuperare queste
zone rimuovendo e utilizzando le sostanze nutritive che provocano questi effetti. Le membrane ad osmosi
avanzata utilizzano quantità relativamente piccole di energia esterna rispetto ai metodi convenzionali di
raccolta di alghe, che sono caratterizzate da un processo energetico intensivo di disidratazione.
I potenziali vantaggi includono la produzione di petrolio dalle alghe raccolte e la conversione delle acque
reflue urbane in acqua pulita prima di essere rilasciate in mare. Dopo che l'olio viene estratto dalle alghe, i
resti algali possono venire utilizzati nella produzione di fertilizzanti, mangimi, cosmetici, o altri prodotti
pregiati.
Questa esplosione di successo della tecnologia derivata dalla NASA aiuterà a sostenere lo sviluppo
commerciale di una nuova industria di biocarburanti basata sulle alghe e il trattamento delle acque reflue.
Figura 19. Progetto OMEGA System
Fonte: sito web NASA (National Aeronautics and Space Administration)
61
Gli obiettivi del progetto della NASA sono di studiare la fattibilità tecnica di un sistema unico per la
coltivazione delle alghe e aprire la strada ad applicazioni commerciali. Una ricerca di scienziati e
ingegneri hanno dimostrato che OMEGA è un modo efficace per far crescere la popolazione di
microalghe e trattare le acque reflue su piccola scala.
La NASA sta conducendo degli studi sul progetto al fine di valutare il nuovo metodo come un
processo alternativo per la produzione di carburanti. Potenziali implicazioni di sostituzione dei
combustibili fossili sono la riduzione del rilascio di gas serra, diminuzione dell'acidificazione degli
oceani, e miglioramento della sicurezza nazionale.
Il sistema è stato studiato anche nei laboratori del Westside di Santa Cruz, da un altro team di ricercatori
della NASA, coordinato da Jonathan Trent, che sta conducendo degli studi su come sfruttare le alghe per
la produzione di biocarburanti, il cui costo si aggira sui 10 milioni di dollari.
Secondo alcuni scienziati i bioreattori ad alghe costituiscono una valida alternativa nella creazione di
edifici a zero impatto ambientale, ottimizzando anche il consumo energetico utile al funzionamento degli
stessi; altri si sono espressi in maniera molto critica a riguardo, definendo i fotobioreattori delle “leggende
urbane”.
E’ stato riscontrato che in una megalopoli ad alta densità di traffico, il tenore di CO2 nell’aria è
dell’ordine delle parti per milione (citazione: Mario Rosato, ingegnere esperto in ambiente ed energie
rinnovabili). Il vero problema risiede nel pretendere di far funzionare i fotobioreattori in grande scala,
perché ciò consuma più energia di quanta se ne possa ricavare (Fonte: Architetturaecosostenibile).
Tabella 12. Riepilogo dei metodi di CDR
METODI TERRA OCEANO
BIOLOGICI Rimboschimento e uso del suolo
Accumulo di biomassa e stoccaggio
di CO2
Fertilizzazione con Fe, P, N
Aumento dell’upwelling
FISICI Cattura della CO2 atmosferica
“cattura dall’aria”
Modifica ribaltamento della circolazione
CHIMICI Carbonatazione in situ di silicati
Minerali di base sul suolo (incluse
olivine)
Incremento dell’alcalinità
(rettifica, dispersione e scioglimento di calcare,
silicati o idrossidi di calcio)
IL VULCANISMO E LA TRASFORMAZIONE
I vulcani emettono naturalmente in atmosfera, grazie alle eruzioni vulcaniche, grandi quantità di anidride
solforosa SO2 e di anidride carbonica CO2. Durante il trascorrere della storia geologica, i camini vulcanici
e le crepe tettoniche hanno proiettato la CO2 dall’interno della Terra verso l’atmosfera. Il ritmo di
emissione è proporzionale all’attività tettonica ed è variabile anche in base alla velocità di separazione o
di scontro tra le placche (Teoria della deriva dei continenti).
Eruzione esplosiva del vulcano “Tambora”
62
Secondo una teoria classica (Fisher, 1981) questa degassificazione di CO2 proveniente dall’interno della
Terra e prodotta dal vulcanismo, è stata fondamentale per i cambiamenti climatici, quando viene
considerata a livello di ere geologiche. Si è provato che negli ultimi 500 milioni di anni è esistita una
correlazione anche se non perfetta, tra le epoche di clima caldo, con le epoche in cui vi sono state
maggiori emissioni di rocce vulcaniche, le quali rappresentano un ottimo indice di emissione di CO2.
Fisher suggerì che durante i decenni e centinaia di milioni di anni, la Terra è passata da periodi di
riscaldamento a periodi di raffreddamento repentini in seguito all’emissione di anidride carbonica
corrispondente ai maggiori periodi di eruzioni. Stiamo parlando di concentrazioni di CO2 pari ad alcune
migliaia di ppm e non certo delle concentrazioni attuali! Inoltre, ad altissime concentrazioni di CO2, vi è
un alto tenore di vapore acqueo, il quale fa in modo che questi periodi vengano chiamati “periodi sauna”.
Però non sempre i calcoli della temperatura coincidono con quelli della concentrazione di CO2 come
hanno calcolato i geologi dell’Università del Nuovo Messico, i quali hanno dedotto che la concentrazione
di anidride carbonica 400 milioni di anni fa era 15 volte superiore all’attuale, ma si ebbe ugualmente una
glaciazione.
Al contrario altri geologi, studiando l’era del Pleistocene (3,5 milioni di anni fa) hanno scoperto che la
concentrazione di CO2 era molto simile a quella attuale: questo periodo geologico era presumibilmente
caldo, con le calotte antartiche ridotte della metà in estensione.
Figura 20. Grafico che mostra l’andamento della CO2 tra le diverse ere geologiche terrestri. Da notare l’altissima
concentrazione (pari a 6000 ppm) rinvenibile nel Fanerozoico (circa 500 milioni di anni fa).
Fonte: Progetto GEOCARB
TECNICHE DI GEOINGEGNERIA SRM (Gestione della Radiazione Solare)
Le tecniche SRM (Solar Radiation Management) consentono di deviare dalla superficie terrestre la
radiazione solare a onde corte (radiazione UV dai 100 ai 400 nm), oppure aumentano il potere riflettente
attraverso l’albedo della superficie terrestre, delle nuvole o dell’atmosfera in generale. L’effetto è quello
di ridurre la radiazione solare che giunge sulla Terra.
La maggior parte della radiazione in ingresso passa attraverso l'atmosfera per raggiungere la superficie
terrestre, dove una parte viene riflessa e la maggior parte viene assorbita, causando quindi il
riscaldamento della superficie. Una parte della radiazione termica uscente emessa dalla superficie
terrestre viene assorbita dai gas serra nell'atmosfera (vapore acqueo di origine naturale e CO2) e anche
dalle nuvole, riducendo l’emissione di calore verso lo spazio, così anche il riscaldamento dell'atmosfera e
della superficie terrestre. Solo circa il 60% della radiazione termica emessa dalla superficie
eventualmente lascia l’atmosfera.
63
I contributi della radiazione termica uscente aumentano fortemente con la temperatura superficiale del
pianeta: questo crea un forte feedback negativo, perché le temperature della superficie e dell'atmosfera
aumentano fino a quando la radiazione in uscita e in entrata sono in equilibrio, per poi stabilizzarsi.
Albedo
L’albedo è un valore che misura il grado di riflettività della radiazione solare riemessa dalla
superficie della Terra: l’albedo massima è 1, quando tutta la luce incidente viene riflessa, mentre
l'albedo minima è 0, quando nessuna frazione della luce viene riflessa. In termini di luce visibile, il primo
caso è quello di un oggetto perfettamente bianco, l'altro di un oggetto perfettamente nero.
L’albedo risulta massimo nelle regioni polari dove sono abbondanti sia la copertura nevosa che di nubi e
dove l’angolo zenitale è grande. Massimi secondari sono visibili anche nelle regioni tropicali e sub-
tropicali dove prevalgono nubi convettive spesse oppure sulle aree desertiche. I minimi di albedo si
registrano invece sulle aree oceaniche tropicali, dove sono presenti poche nubi. La superficie oceanica ha
un albedo piuttosto basso; ne consegue che in assenza di nubi (o ghiaccio marino) l’oceano mostra un
albedo planetario dell’ordine del 10%.
Figura 33a. Distribuzione globale dell’albedo planetario (media annuale)
Temperatura di emissione di un pianeta
La temperatura di emissione di un pianeta è per definizione la temperatura di corpo nero con la quale esso
deve emettere per raggiungere il bilancio energetico, ovvero l’equilibrio tra energia incidente ed emessa.
E’ quindi la temperatura per cui:
radiazione solare assorbita = radiazione emessa dal pianeta
Per calcolare la radiazione solare assorbita, partiamo dalla costante solare S0 che rappresenta l’energia per
unità di area e di tempo che raggiunge una superficie perpendicolare posta alla distanza di 1 u.a. (unità
astronomica = 1.496x108 km). Quindi l’energia incidente sul pianeta è data dal prodotto della costante
solare per l’area che il pianeta espone alla radiazione incidente perpendicolarmente ad essa
(nell’approssimazione che i raggi solari siano paralleli, approssimazione valida in quanto il diametro dei
pianeti è molto minore della loro distanza dal sole). Tale superficie si chiama “area d’ombra”, fig.33b.
64
Figura 33b. Area d’ombra per un pianeta sferico
Al top dell’atmosfera terrestre giungono S0 = 1367 W/m2 i quali vedono un’area d’ombra di πR2p , con
Rp = raggio del pianeta, (in altri termini l’area associata all’emisfero illuminato), tenendo conto
dell’albedo:
Radiazione assorbita =
Nell’arco dell’intera giornata, a causa della rotazione terrestre, questa potenza è distribuita su tutta
la sfera (globo terrestre), quindi si deve dividere per la superficie della sfera 4 πR2p ottenendo:
Radiazione (potenza) media assorbita = quantità espressa in W/m2
L’insolazione media al top dell’atmosfera è di 1367/4 = 342 W/m2, l’albedo planetario medio è del 30%,
quindi solo il 70% della radiazione viene assorbita, equivalente a 240 W/m2 e i restanti
102 W/m2 devono tornare verso lo spazio.
Per determinare la temperatura di emissione del pianeta Terra devo quindi eguagliare la radiazione
assorbita appena calcolata a quella emessa da un corpo nero alla temperatura Te, che si ricava dalla legge
di Stefan-Boltzmann:
Radiazione emessa = quantità espressa in W/m2
Per il pianeta Terra, si ottiene:
Questa temperatura media per il pianeta Terra è molto minore di quella media osservata, pari a
288K ≈ 15°C: questo è dovuto alla presenza dell’effetto serra.
Il sistema Terra - atmosfera non può essere semplicemente considerato come un corpo nero che emette
alla temperatura della superficie terrestre, in quanto parte della radiazione emessa viene assorbita
dall’atmosfera stessa. La temperatura di emissione così ottenuta risulta però essere in buon accordo con la
temperatura della tropopausa (circa 12 km di altitudine).
Effetto serra
Per illustrare questo effetto, si tende a considerare un semplice modello energetico di equilibrio radiativo
(Modello Monodimensionale), figura 33c.
Consideriamo un’atmosfera costituita da un unico strato a temperatura TA che si comporti come un
65
corpo nero nei confronti della radiazione terrestre, ma che sia trasparente alla radiazione solare (in analogia al
comportamento della serra). L’atmosfera risulta quindi in grado di interagire in modo assai differente con la
radiazione terrestre (onda lunga, IR) e solare (onda corta, VIS e vicino IR).
Calcoliamo il bilancio energetico per questo sistema Terra - atmosfera - Sole.
Bilancio al top dell’atmosfera
Il bilancio è dato dalla radiazione solare incidente e dall’emissione del pianeta:
(1)
L’atmosfera del modello assorbe tutta la radiazione terrestre ed emette come un corpo nero,
l’unica radiazione emessa verso lo spazio sarà quella atmosferica:
(2)
La temperatura dell’atmosfera in equilibrio deve essere quella di emissione del pianeta Te
affinché il bilancio energetico sia raggiunto.
Bilancio per lo strato atmosferico
Si ottiene eguagliando la radiazione assorbita a quella emessa sia verso l’alto che verso il basso:
che diviene:
(3)
Di conseguenza, la temperatura superficiale Ts è più calda della temperatura di emissione Te.
Bilancio alla superficie terrestre
Si eguaglia la radiazione assorbita (solare + proveniente dall’atmosfera) e quella emessa dal suolo:
(4)
Figura 33c. Diagramma dei flussi di energia per un modello di atmosfera composta di un
solo strato trasparente alla radiazione solare e totalmente opaco alla radiazione terrestre
(Modello Monodimensionale)
Fonte: ISAC, CNR
L’effetto serra dell’atmosfera riscalda la superficie terrestre in quanto l’atmosfera stessa è relativamente
trasparente alla radiazione solare, mentre assorbe ed emette la radiazione terrestre in modo efficiente.
66
Per calcolare la temperatura superficiale della Terra, occorre introdurre un nuovo parametro, l’efficienza
di assorbimento f:
(5)
Si ottiene così l’equazione del bilancio energetico applicata allo strato atmosferico:
(6)
Si sostituisce l’eq.6 nella 5 ottenendo così:
)
(7)
Raccogliendo a fattor comune si ha:
(8)
Con f = 0.77 si ottiene circa 15°C
Tabella 16. Variazione della temperatura superficiale in base all’albedo
ALBEDO (α) TEMPERATURA (TS)
0.1 306 K = 33 °C
0.2 298 K = 25 °C
0.3 288 K = 15 °C
0.4 277 K = 4 °C
Aumento dell’albedo della superficie terrestre
La variabilità del clima può essere causata da cambiamenti nell’albedo terrestre. Gli elementi del sistema
climatico che influiscono maggiormente su questo parametro sono le nuvole, superfici ghiacciate,
innevate e le foschie. Variazioni in altri fattori di albedo stanno introducendo fluttuazioni caotiche nel
clima.
L’estensione e la variazione nella copertura nuvolosa globale non è stata ancora ben compresa: le nuvole
rappresentano un ruolo centrale nel sistema climatico, che conosciamo molto poco su scala globale. Una
variazione dell’1% della copertura nuvolosa potrebbe essere molto significativa in termini di condizioni
climatiche rispetto alla variazione della luminosità solare negli ultimi due secoli.
La superficie della Terra non è molto riflettente: l’albedo oceanico assume un valore in media di 0.1;
regioni ad intensa vegetazione hanno un albedo poco più alto 0.2; i deserti e le terre aride possono avere
un valore di albedo pari a 0.4; ghiaccio e neve hanno una riflettività maggiore, valore pari a 0.9 e oltre in
caso di innevamento fresco e abbondante (Fonte: Isac, CNR), (Bibliografia: “Fondamenti di fisica e
chimica dell’atmosfera G.Visconti, CUEN 2001).
67
La frazione di terraferma e oceani coperti dal ghiaccio rappresentano contributi importanti all’albedo
medio globale. Nei climi più freddi, una grande copertura di neve e ghiaccio incrementa l’albedo
superficiale: questo, infatti, rafforza il raffreddamento in un processo di feedback positivo, espandendo i
margini ghiacciati e innevati verso latitudini e montagne più basse. Il sistema non è instabile ma, anche
durante i periodi glaciali più severi, i ghiacci si ritirano di nuovo. Tuttavia, i periodi interglaciali sono
stati più corti (approssimativamente da 10 mila a 20 mila anni) rispetto a quelli glaciali (100 mila anni),
fenomeno che suggerisce come i climi ghiacciati sono resistenti al riscaldamento.
Quando il clima raffredda e la criosfera si espande, cambia anche la copertura nuvolosa e la vegetazione
terrestre. Nell’età dei climi ghiacciati, i deserti si espansero e i tropici divennero aridi.
La complessa interconnessione tra tutti questi elementi e l’effetto netto sull’albedo sono difficili da
prevedere. I modelli che sono stati sviluppati e testati vanno contro le osservazioni sperimentali.
Oltre a fenomeni naturali, l’albedo può essere modificato anche da tecniche artificiali: una di queste
prevede l’imbiancamento delle superfici antropiche negli agglomerati urbani, cereali modificati e riflettori
artificiali nelle regioni desertiche.
Institution of Mechanical Engineers
Aumento dell’albedo mediante la creazione di nubi sul mare
Studi indipendenti hanno stimato che un aumento di circa il 4% della copertura di nubi marine
(stratocumuli) sarebbe sufficiente a compensare il raddoppio di CO2 (Fonte: US- NSF).
Gli stratocumuli, diffusi sopra gran parte degli oceani, esercitano un chiaro effetto refrigerante sul clima.
Questo effetto viene rafforzato spruzzando nelle regioni poco nuvolose dell’acqua marina nebulizzata da
navi e altri impianti (di solito aerei), in modo che i nuclei di condensazione (CCN - Cloud Condensation
Nuclei) costituiti dalle goccioline possano dare origine a nuvole.
E’ stato proposto che le emissioni CCN dovrebbero essere rilasciate al di sopra degli oceani, che la
liberazione dovrebbe produrre soltanto un aumento dell’albedo negli stratocumuli e che le nuvole
dovrebbero rimanere alle stesse latitudini sopra l'oceano, dove l'albedo superficiale è relativamente
costante e piccolo.
La nuvolosità in una regione oceanica tipica è limitata dal numero esiguo di CCN: in media il 31,2% del
globo è coperto da nubi stratiformi marine (Fonte: Charlson et al., 1987). Se non sono presenti nubi
di alto livello, il numero n dei CCN, che devono essere aggiunti al giorno è di 1,8 × 1025
CCN. La
massa di un CCN è uguale a 4/3πr3 × la densità, e si presume che il raggio medio r è pari a 0,07 × 10-4
cm. Poiché la densità di acido solforico (H2SO4) è di 1,841 g/cm3, la massa di CCN è pari a 2,7 × 10
-15
g. Il peso totale di H2SO4 da aggiungere al giorno è di 31 × 103 t se essa viene convertita in SO2 di
CCN.
Per mettere questo numero a confronto, una centrale a carbone di potenza media degli Stati Uniti emette
circa tutta questa SO2 in un anno. Di conseguenza, le emissioni equivalenti di 365 centrali elettriche a
carbone statunitensi, distribuite in modo omogeneo, sarebbero necessarie per produrre sufficienti CCN.
68
Per stimare direttamente il valore dello zolfo, il peso totale di SO2 da aggiungere al giorno sarebbe uguale
a 32 × 103 t, o circa 16 x 103 t di zolfo al giorno, che è equivalente a circa 6 x 106 tS/anno. Equiparare il
costo annuale delle 300 parti per milione in volume (ppmv) di CO2 necessarie per la piena compensazione
dà $ 580 × 106/anno/(3890 × 106 tC/ppmv CO2 × 300 ppmv di CO2), o una frazione di 1 cent/t CO2.
Un aumento del 4% della nuvolosità è stata quindi equiparata ad una diminuzione di circa 300 ppm
di CO2, che si traduce in una riduzione di 1200 GtC o 4400 Gt di CO2 (1 mole di C pesa 12 g e 1
mole di CO2 ne pesa 44.
Questo può essere spiegato introducendo un parametro denominato forcing radiativo (ΔF) molto usato in
climatologia e definito come “un agente radiativo forzante che influisce sul sistema superficie-troposfera,
a causa della perturbazione indotta da un agente esterno (per esempio, un cambiamento delle
concentrazioni di gas serra) che determina una variazione netta dell’irradianza (in più o in meno, in
W/m2) nella tropopausa, che consente di ripristinare le temperature della stratosfera in condizioni di
equilibrio radiativo, con temperature superficiali e troposferiche fissate ad un valore imperturbabile”
(Fonte: IPCC, Second Assessment Report, 1996). Il forcing radiativo può assumere valori positivi o
negativi, a seconda se si tratti di un riscaldamento o di un raffreddamento della temperatura media
globale. Di seguito, viene riportata la relazione che lega il forcing radiativo, all’albedo e alla
concentrazione di CO2:
Fonte: “The radiative forcing potential of different climate geoengineering options” (Lenton-Vaughan, 2009)
Dove:
= 5.35 W/m2 (Fonte: IPCC, 2001)
= 400 ppm
= 278 ppm (Concentrazione di CO2 preindustriale, risalente al 1800)
= 1367 W/m2
Con albedo (α = 0.3):
Con albedo (α = 0.312, aumentato del 4%):
La differenza è data da un forcing radiativo pari a 235 – 239 = - 4 W/m2.
Calcoliamo la concentrazione di CO2 con un albedo aumentato del 4%, pari a 0.312:
69
La differenza tra la prima concentrazione e la seconda dà:
ppm CO2 = 400 - 132 = 268 ppm
Un aumento del 4% della nuvolosità è stata quindi equiparata ad una diminuzione di circa 300 ppm
di CO2, che si traduce in una riduzione di 1200 GtC o 4400 Gt di CO2 (1 mole di C pesa 12 g e
1 mole di CO2 ne pesa 44).
Stabiliamo quindi la seguente proporzione: 12 gC : 44 gCO2 =1200 GtC: x GtCO2
Quindi abbiamo che:
Il costo di questo processo comporta il meccanismo di distribuzione di SO2 nell'atmosfera nel luogo
corretto. Se si considera una flotta di navi, gestite da un centro di controllo che utilizza i dati satellitari
meteo per pianificare tutto il lavoro, ciascuna trasportante zolfo e che portino un inceneritore adatto,
sarebbero necessarie 16 × 103 t al giorno o 6 × 106 t/anno. Lo zolfo costerà altri 0,6 miliardi di dollari
all'anno, e 2 milioni di dollari per nave all'anno per sostenere i costi operativi, che ammontano a
10.000 dollari al giorno per il funzionamento, per un costo totale di 2 miliardi di dollari all'anno.
Esteso per un periodo di oltre 40 anni (fino al 2030), questo dà un costo di 80 miliardi di dollari, o
approssimativamente 100 miliardi di dollari. (Fonte: NAP Geoengineering)
Questo mitiga continuamente 103 Gt, per un costo di $ 0,10/tC/anno, o $ 0,025/tCO2/anno. Questo
fornisce una stima dei costi nell'intervallo da 0,03 a $ 1/tCO2, che rappresenta un costo annuo di 2
miliardi di dollari all’anno.
La SO2 potrebbe anche essere emessa da centrali elettriche: questi impianti potrebbero essere costruiti in
mezzo all'oceano vicino all'equatore e potrebbero fornire energia nei luoghi vicini. La trasmissione o l'uso
dell’energia in forma di materiali raffinati o forse potrebbero essere considerati l'uso di sistemi
superconduttori a trasmissione energetica. Probabilmente essi richiederebbero otto grandi impianti che
utilizzerebbero carbone "a spillo" ( che contiene 4 volte la quantità normale di zolfo), ad un costo che va
dai 2 ai 2,5 miliardi di dollari ad impianto.
È stato argomentato che un aumento del 50-100% della concentrazione di goccioline in tutte le
nuvole stratiformi marine darebbe luogo ad un aumento dell’albedo planetario di 0.005
(Fonti: Latham, 2002; Bower et al, 2006).
Tuttavia, per compensare un forcing radiativo di 3,71Wm-2 provocato dal raddoppio di CO2 previsto, è
stato calcolato come necessario un aumento di albedo planetario di 0.074 (Fonte: Latham et al., 2008).
In ogni caso molte sono le incertezze sul calcolo delle concentrazioni di goccioline nelle nubi marine
sufficienti allo scopo. Altrettanto incerta è la stima dell’estensione e della durata della copertura nuvolosa
sugli oceani: la produzione meccanica di spray con quale sistema e soprattutto con quale energia e a quali
costi verrebbe aumentata?
Ci sono proposte “artistiche” di barche con dei camini che spruzzerebbero l’acqua nebulizzata dal mare
verso l’alto, verso l’atmosfera libera e una di queste è di John MacNeill, che consiste nella costruzione di
enormi “zattere” galleggianti alimentate ad energia solare. Si stima che una flotta di 1500 navi abbia un
costo di 600 milioni di dollari per le prime 300, e di altri 100 milioni all’anno.
Una delle idee alternative è stata proposta nel 1990 da John Latham dell’Università di Manchester, in
collaborazione con Steve Salter, dell’Università di Edimburgo e dell’NCAR: essa implica lo sfruttamento
dell'effetto Twomey per aumentare la riflettività degli stratocumuli marini. Twomey ha mostrato che la
riflettività di uno strato di nubi dipende dalla distribuzione dimensionale delle gocce d’acqua.
Considerando lo stesso quantitativo di acqua liquida un gran numero di piccole gocce riflettono di più
70
rispetto ad un minor numero di grandi. Anche se l'umidità relativa di una massa d'aria supera il 100%, le
gocce non possono formarsi senza una qualche forma di inseminazione, nota come nuclei di
condensazione della nuvola. Sulla terra ci sono molti di questi, 1.000 - 5.000 in ogni centimetro cubo di
aria. Ma nelle masse d'aria medio-oceaniche il numero è molto più basso, spesso inferiore a 100 e, a volte
sotto i 20. La carenza di nuclei significa che l'acqua liquida nella nube deve essere presente in grandi
gocce, fino a 30 micron di diametro. Latham ha suggerito che si devono spruzzare gocce microscopiche
di acqua di mare nel fondo dello strato limite marino. Esse dovrebbero evaporare rapidamente ed i residui
di sale verrebbero dispersi dalla turbolenza attraverso lo strato limite superiore con alte nubi arricchite
dove agirebbero come nuclei di condensazione ideali. L'effetto Twomey è stato scoperto in seguito
all’osservazione di rotte navali che talvolta si originano quando le strisce di gas solfatici forniscono nuclei
di condensazione. L'effetto può essere dimostrato con recipienti pieni di sfere di vetro di diverse
dimensioni. La quantità di energia di tensione superficiale necessaria per creare una goccia è di molti
ordini di grandezza inferiore rispetto alla quantità di energia solare extra che si riflette verso lo spazio. Il
rapporto dipende dalla profondità della nuvola, la profondità dello strato limite, il contenuto di acqua
liquida, la vita della goccia ma soprattutto dal valore della concentrazione iniziale dei nuclei di
condensazione. Se i valori ragionevoli per questi parametri sono utilizzati con le equazioni di Twomey,
essi prevedono che un tasso di spruzzo globale inferiore a 10 metri cubi al secondo potrebbe invertire gli
effetti termici di tutte le emissioni di origine antropica a quelle contenute nel periodo pre-industriale e che
meno di 70 metri cubi al secondo dovrebbero annullare i 3,71 W/m2 attesi per un raddoppio di CO2 pre-
industriale. Tre modelli climatici indipendenti hanno confermato il grande guadagno energetico e
attualmente stanno ancora lavorando, in particolare il Rasch, l’NCAR e i Laboratori del Nord-Ovest
Pacifico stanno producendo risultati in base allo spruzzamento in vari luoghi. Le stime del tempo di vita
di una goccia variano da un giorno a due settimane. Un tempo di vita breve ha il vantaggio che il processo
può essere provato su scala ridotta, controllato localmente e fermato molto rapidamente se si rende
necessario. Tuttavia, ciò significa anche che deve essere fatto continuamente fino a quando le sostituzioni
dell’energia proveniente da fonti a combustibili fossili verranno messe in atto.
Sappiamo che la posizione dei migliori siti di spruzzo varia con le stagioni. Ciò mette in evidenza le fonti
mobili a spruzzo, la necessità di rimanere in loco per lunghi periodi suggerisce l'uso del vento come fonte
energetica di processo. Le comunicazioni moderne via satellite consentono la navigazione telecomandata
non presidiata che rimuove i problemi di fornitura di cibo e acqua in molti punti medio-oceanici. Il
sistema di propulsione Flettner, usato la prima volta nel 1926, formato da un facile sostituto
computerizzato per le vele munite di corde, il quale conferisce anche eccellenti prestazioni
aerodinamiche. Le imbarcazioni a spruzzo guidate dal vento sono in grado di generare energia
trascinando turbine come un sistema di propulsione ad eliche attraverso l'acqua. Diversi anni di lavori di
progettazione hanno portato a piani per un trimarano di 300 tonnellate con una linea di galleggiamento
lunga 45 metri e la potenza stimata dell’impianto di 150 kW che potrebbe essere in grado di polverizzare
30 kg d'acqua al secondo da tre sistemi a spruzzo alloggiati nei rotori Flettner. Il problema principale è la
progettazione di un potente ed efficiente sistema di generazione a spruzzo. La presente proposta è quella
di costruire e testare in laboratorio, un modello di generazione spray che possa essere testato in mare su di
una nave convenzionale e potrebbe successivamente inserire dei supporti per le attrezzature pianificate
alle navi guidate dal vento.
Figura 34. llustrazione delle possibili navi erranti negli oceani con
camini nebulizzatori dell’acqua di mare, alimentati a energia solare (John MacNeill)
71
Gli Aerosol: Fonti ed accumuli
Gli aerosol provengono dalla condensazione di gas e dall'azione del vento sulla superficie della Terra. Le
particelle fini (meno di 1 mm di raggio) provengono quasi esclusivamente dalla condensazione dei gas
precursori. Una composizione chimica tipica di fine aerosol in troposfera inferiore viene mostrato nella
Figura 21.
Figura 21. Composizione tipica dell’aerosol fine continentale, adattato da J. Heintzenberg, Tellus 41B pag.149-160
(1989)
Un gas precursore chiave è l’acido solforico (H2SO4), che è prodotto in atmosfera per ossidazione
dell’anidride solforosa (SO2) emessa dalla combustione di combustibili fossili, i vulcani, e da altre fonti.
L’H2SO4 ha una bassa pressione di vapore sopra una soluzione acquosa di acido solforico, che condensa
in tutte le condizioni atmosferiche per formare particelle acquose di solfati. La composizione di queste
può essere modificata mediante condensazione di altri gas con vapore a bassa pressione compresi
NH3,HNO3, e composti organici. Il carbonio organico rappresenta una frazione importante dell’aerosol
fine (Figura 21) ed è un contributo principale derivante dalla condensazione di idrocarburi grandi di
origine biogenica e antropogenica. Un altro componente importante dell’aereosol fine è la fuliggine
prodotta dalla condensazione di gas durante la combustione: essa comprende sia il carbonio elementare
che aggregati organici neri.
L'azione meccanica del vento sulla superficie della Terra emette sale marino, polvere dal suolo e detriti di
vegetazione nell'atmosfera. Questi aerosol sono costituiti principalmente da particelle grossolane,
da 1 a 10 mm di raggio. Le particelle più fini di 1 mm sono difficili da generare meccanicamente perché
hanno grandi rapporti di superficie-volume e quindi la loro tensione superficiale di aereosol per unità di
volume è alta. Le particelle più grossolane di 10 mm non vengono facilmente sollevate dal vento e hanno
brevi tempi di vita in atmosfera a causa della loro grande velocità di sedimentazione.
La figura seguente illustra i vari processi coinvolti nella produzione, la crescita, ed eventuale rimozione di
particelle di aerosol atmosferiche. Le molecole di gas hanno dimensioni nel campo di 10-4- 10-3 µm.
L’aggregazione di molecole di gas (nucleazione) produce aerosol ultrafini nell'intervallo 10-3- 10-2 µm.
Figura 22. Ciclo di emissione e deposizione degli aerosol
Fonte: Introduction to Atmospheric Chemistry, Daniel J. Jacob, January 1999
72
Questi aerosol ultrafini crescono rapidamente nel campo della misura da 0,01 a 1 µm di diametro
attraverso la condensazione dei gas e per mezzo della coagulazione (collisioni tra particelle durante i loro
movimenti casuali). La crescita di oltre 1 µm è molto più lenta perché le particelle sono ormai troppo
grandi per crescere rapidamente tramite condensazione dei gas e, di conseguenza, il moto lento casuale
delle particelle grandi riduce la velocità di coagulazione.
Il particolato è emesso dall’azione del vento e similmente rimosso dalle precipitazioni. Inoltre esso
sedimenta a una velocità significativa. La velocità di sedimentazione di queste particelle di 10 mm al
livello del mare è 1,2 cm/s, rispetto a 0,014 cm/s per una particella di 0,1 mm.
La maggior parte dell'aerosol atmosferico è presente nella bassa troposfera, che riflette il breve tempo di
permanenza nei confronti della deposizione (circa 1-2 settimane). Le concentrazioni di aerosol nell'alta
troposfera sono in genere di 1-2 ordini di grandezza inferiori a quelle nella bassa troposfera. La stratosfera
contiene tuttavia un onnipresente strato di aereosol di H2SO4 acquoso a 15-25 km di altitudine, che svolge
un ruolo importante per la chimica dell'ozono stratosferico. Questo strato deriva dall’ossidazione di
solfuro carbonile ( ), un gas biogenico con un tempo di vita atmosferico sufficientemente lungo per
penetrare nella stratosfera. Questo viene aumentato episodicamente dall'ossidazione di SO2, scaricato
nella stratosfera dalle grandi eruzioni vulcaniche. Sebbene la fonte stratosferica di H2SO4 derivante
dall’ossidazione del è meno dello 0,1% rispetto alla fonte di H2SO4 troposferico, il tempo di
permanenza di aerosol nella stratosfera è molto più lungo di quello in troposfera a causa della mancanza
di precipitazioni.
Riduzione della visibilità
La visibilità atmosferica è definita dalla capacità dei nostri occhi di distinguere un oggetto dallo sfondo
circostante. La dispersione della radiazione solare da aerosol è il processo principale che limita la
visibilità nella troposfera (Figura 25). In assenza di aerosol, la gamma visiva sarebbe di circa 300 km,
limitata dalla dispersione delle molecole d'aria. Gli aerosol di origine antropica in ambiente urbano in
genere riducono la visibilità di un ordine di grandezza rispetto alle condizioni incontaminate. Il degrado
della visibilità da aerosol di origine antropica è anche un grave problema nei Parchi Nazionali in USA
come quello del Grand Canyon e le Great Smoky Mountains. La riduzione di visibilità è maggiore alle
alte umidità relative, quando gli aerosol si accrescono per l’assorbimento di acqua, aumentando l'area
della sezione trasversale per la dispersione; questo è il fenomeno noto come foschia.
Figura 25. Riduzione della visibilità per mezzo dell’aerosol. La visibilità di un oggetto viene determinata dal suo
contrasto con lo sfondo (2 contro 3). Questo contrasto viene ridotto dalla dispersione aerosol della radiazione solare
nel punto di vista (1) e dalla dispersione della radiazione dall’oggetto fuori dal punto di vista (4)
Fonte: Introduction to Atmospheric Chemistry, Daniel J. Jacob, January 1999
73
Perturbazione del clima
La dispersione della radiazione solare da aerosol aumenta l'albedo della Terra perché una frazione della
luce dispersa viene riflessa verso lo spazio. Il conseguente raffreddamento della superficie terrestre si
manifesta a seguito di grandi eruzioni vulcaniche, come quella del Monte Pinatubo nel 1991, che iniettano
grandi quantità di aerosol nella stratosfera. L'eruzione del Pinatubo è stata seguita da una sensibile
diminuzione delle temperature superficiali medie per i successivi 2 anni (Figura 26) a causa del lungo
tempo di permanenza degli aerosol nella stratosfera. Sorprendentemente, la profondità ottica dell’aerosol
stratosferico seguita da una grande eruzione vulcanica è paragonabile a quella relativa all'aerosol
antropogenico nella troposfera. L'esperimento naturale offerto dai vulcani in eruzione in maniera così
forte, implica che gli aerosol di origine antropica esercitino un significativo effetto di raffreddamento sul
clima terrestre.
Figura 26. Cambiamento osservato della temperatura superficiale media globale terrestre seguito dopo l’eruzione del
Monte Pinatubo (Settembre 1991). Adattato da Climate Change 1994, Cambridge University Press New York, 1995
Fonte: Introduction to Atmospheric Chemistry, Daniel J.Jacob, January 1999
Consideriamo un semplice modello per stimare l'effetto climatico di uno strato di dispersione di aerosol a
profondità ottica δ. Si stima che la media globale della profondità ottica di dispersione degli aereosol è di
circa 0,1 e che il 25% di tale spessore ottico è un contributo di aerosol di origine antropica.
Il forcing radiativo dallo strato di aerosol antropogenico è:
Dove ΔA è l'aumento associato all’albedo della Terra (si noti che quando ΔF è negativo, l'effetto è quello
di raffreddamento). Abbiamo bisogno di mettere in relazione δ per ΔA.
Figura 27. Dispersione della radiazione attraverso uno strato di aerosol
Fonte: Introduction to Atmospheric Chemistry, Daniel J. Jacob, January 1999
74
In Figura 27, si decompone il flusso di radiazione solare incidente sullo strato di aerosol ( ) in
componenti trasmesse attraverso lo strato ( ), disperso in avanti ( ), e diffusa all'indietro ( ).
Poiché δ = << 1, possiamo fare l’approssimazione in Il flusso di radiazione dispersa
è data da:
L’albedo dello strato di aerosol è definito come:
Come illustrato in figura, una particella di aerosol è più probabile che sia dispersa nella direzione in
avanti (fasci A, B, D) che nella direzione all'indietro (fascio C). Osservazioni sperimentali e teoriche
indicano che solo una frazione β 0,2 della radiazione totale diffusa da una particella di aerosol è diretta
all'indietro.
L’albedo è definito come:
Che produce 5x per l’albedo globale dell’aerosol antropogenico:
Figura 28. Riflessione della radiazione solare attraverso due strati di albedo sovrapposti A* e A0.
Una frazione A* della radiazione solare in entrata Fs viene riflessa dallo strato alto nello spazio (1). La frazione
rimanente 1-A* si propaga sullo strato inferiore (2) dove una frazione A0 viene riflessa verso l’alto (3).Una parte di
quella radiazione riflessa viene propagata attraverso lo strato più alto (4) mentre la rimanente viene riflessa (5).
Ulteriore riflessione tra lo strato alto e quello basso si aggiunge alla radiazione totale riflessa al di fuori nello spazio
(7).
L’attuale incremento del valore di albedo ΔA è inferiore ad A* a causa della sovrapposizione orizzontale
dello strato di aerosol con altre superfici riflettenti come nuvole o ghiaccio. Gli aerosol presenti sopra o
sotto una superficie bianca non apportano alcun contributo all’albedo terrestre. Prendiamo in
considerazione questo effetto in Figura 28 sovrapponendo la riflessione della radiazione solare in arrivo
dallo strato di aerosol di origine antropica A* e da contributi naturali all’albedo della Terra (A0). Si
assumono sovrapposizioni spaziali casuali tra A* e A0.
75
L’albedo totale AT degli strati sovrapposti ad albedo A* e A0 è la somma dei flussi di tutti i fasci di
radiazione riflessa verso l'alto nello spazio, diviso per il flusso in entrata verso il basso del flusso di
radiazione :
Il forcing radiativo dagli aerosol antropogenici è definito come:
L’aerosol di origine antropica può spiegare almeno in parte perché la Terra non è stata sempre calda come
ci si sarebbe aspettato da concentrazioni crescenti di gas serra. Una delle maggiori difficoltà nel valutare
l'effetto radiativo degli aerosol è che le loro concentrazioni sono molto variabili da regione a regione, a
seguito del loro breve tempo di permanenza. I record delle temperature nel lungo termine suggeriscono
che le regioni industriali degli Stati Uniti orientali e quelle dell’Europa, dove sono alte le concentrazioni
di aerosol, potrebbero aver riscaldato meno nel corso del secolo passato rispetto a remote regioni del
mondo, coerentemente con l’effetto albedo negli aerosol. Recenti osservazioni indicano anche una grande
profondità ottica dalle polveri di aereosol dei suoli emesse dalle regioni aride, e ci sono prove che questa
fonte è in aumento come effetto della desertificazione nei tropici. A causa delle loro grandi dimensioni, le
particelle di polvere non solo disperdono la radiazione solare ma assorbono anche quella terrestre, con
implicazioni complesse per il clima.
Il particolato atmosferico
Il particolato (particulate matter, PM) o polveri totali sospese (PTS) è costituito da una complessa
miscela di sostanze, organiche ed inorganiche, allo stato solido o liquido che, a causa delle loro piccole
dimensioni (diametro compreso tra qualche nanometro (nm) e decine/centinaia di micrometri (m))
restano sospese in atmosfera per tempi più o meno lunghi; tra queste troviamo sostanze diverse come
sabbia, ceneri, polveri, fuliggine, sostanze silicee di varia natura, sostanze vegetali, composti metallici,
fibre tessili naturali e artificiali, sali, elementi come il carbonio o il piombo.
Nel 1996, Marconi ha classificato in base alla natura e alle dimensioni delle particelle:
gli aerosol, costituiti da particelle solide o liquide sospese in aria e con un diametro inferiore a 1
micron (µm);
le foschie, date da goccioline con diametro inferiore a 2 micron;
le esalazioni, costituite da particelle solide con diametro inferiore ad 1 micron e rilasciate
solitamente da processi chimici e metallurgici;
il fumo, dato da particelle solide di diametro inferiore ai 2 micron e trasportate da miscele di gas;
le polveri, costituite da particelle solide con diametro fra 0,25 e 500 micron;
le sabbie, date da particelle solide con diametro superiore ai 500 micron.
Le particelle aerodisperse in atmosfera presentano forme irregolari e fanno riferimento al diametro
aerodinamico equivalente (dae), definito come il diametro di una particella sferica avente densità unitaria e
76
un comportamento aerodinamico, in base alla velocità di sedimentazione, uguale a quello della particella
considerata nelle medesime condizioni di temperatura, pressione e umidità relativa.
Il concetto di diametro aerodinamico equivalente delle particelle è utile ai fini della classificazione del
particolato in categorie; in tal senso si può ricorrere ai seguenti termini:
PTS (Particelle Totali Sospese): sono le particelle di dimensioni tali da restare in sospensione per un
tempo sufficiente ad essere raccolte e classificate tramite un sistema di campionamento rispondente a
specifiche caratteristiche geometriche in relazione a determinati flussi di prelievo. In pratica sono le
particelle con diametro aerodinamico inferiore a 100 µm.
PM10: è la frazione di particolato raccolta da un sistema di campionamento tale per cui le particelle con
diametro aerodinamico uguale a 10 µm sono campionate con efficienza del 50%.
PM2,5: è la frazione di particolato raccolta da uno specifico sistema di campionamento tale per cui le
particelle con diametro aerodinamico uguale a 2,5 µm sono campionate con efficienza del 50%,
rappresentano circa il 60% delle PM10.
E’ convenzione, inoltre, suddividere il particolato atmosferico in funzione del diametro aerodinamico
nelle seguenti frazioni:
ultrafine (ultra-sottile): diametro aerodinamico compreso tra 0,01 e 0,1 µm; generalmente queste
particelle sono costituite dai prodotti della nucleazione omogenea dei vapori sovrasaturi (SO2, NH3,
NOX e prodotti della combustione);
fine (sottile): diametro aerodinamico compreso tra 0,1 e 2,5 µm; la loro formazione avviene per
coagulo di particelle ultrafini e attraverso i processi di conversione gas-particella - processo di
nucleazione eterogenea , oppure per condensazione di gas su particelle preesistenti nell’intervallo di
accumulazione. I maggiori costituenti di queste particelle nelle aree industrializzate sono solfati, i
nitrati, lo ione ammonio, il carbonio elementare e quello organico; a questi si aggiungono particelle
di origine biologica come spore fungine, lieviti, batteri ecc.
coarse (grossolana): diametro aerodinamico compreso tra 2,5 e 100 µm; essenzialmente prodotte da
processi meccanici (erosione, risospensione meccanica o eolica, macinazione), esse contengono
elementi presenti nel suolo e nei sali marini; essendo inoltre relativamente grandi esse tendono a
sedimentare in tempi di poche ore o minuti, ritrovandosi spesso vicino alle sorgenti di emissione in
funzione della loro altezza.
La seguente figura, (Fonte: Marconi, 2003) rappresenta la distribuzione dimensionale in termini di
massa o volume delle particelle aerodisperse, l’origine e la reazione dinamica tra le particelle ed il
mezzo in cui sono sospese:
77
Le particelle fini con dae < 1 µm hanno una concentrazione in atmosfera compresa tra 10 e 10.000
particelle/cm3, mentre quelle che superano 1 µm di diametro hanno un concentrazione minore di 10
particelle/cm3.
Le particelle con dae < 2,5 µm rappresentano numericamente oltre il 95% delle particelle totali; quelle di
dimensioni maggiori, in particolare con dae tra 5 e 50 µm, essendo più pesanti, rappresentano la maggior
parte della massa del particolato presente in ambiente urbano.
Le dimensioni delle particelle rappresentano il parametro più importante per la descrizione del loro
comportamento e della loro origine; la composizione chimica, la rimozione, ed il tempo di permanenza
nell’atmosfera sono tutte caratteristiche correlate con le dimensioni delle particelle
(Fonte: Marconi, 2003).La seguente figura mostra una rappresentazione schematica della distribuzione
nell’ambiente del particolato in funzione del suo diametro:
78
Figura 29. Distribuzione del numero di particelle e del loro volume in funzione del diametro aerodinamico.
Fonte: (Whitby KT, Sverdrup GM. 1980)
La tabella che segue fa riferimento alle particelle che derivano da sorgenti naturali o antropiche: negli
ambienti interessati da una forte urbanizzazione le particelle aerodisperse derivano essenzialmente dai
processi di combustione delle sorgenti mobili, come veicoli a motore e di sorgenti fisse, come gli impianti
per la produzione di energia (Fonte: USEPA,1999).
Si evidenziano le principali sorgenti di PM naturali ed antropiche:
Tabella 13. Sorgenti naturali ed antropiche di PM10
Fonte: Marconi (2003)
La composizione del particolato dipende dall’area di provenienza e dalla tipologia di sorgente di
emissione (Fonte: Facchini, 2001).
Le sorgenti di PM sono comunemente riunite sotto due grandi categorie: le sorgenti naturali e quelle
antropiche.
Sorgenti naturali: sono ad esempio le particelle di roccia e di suolo erose, sollevate o risospese dal vento,
il materiale organico e le ceneri derivanti da incendi boschivi o da eruzioni vulcaniche, le piante (pollini e
residui vegetali), le spore, lo spray marino, i resti degli insetti;
Sorgenti antropiche: sono invece legate principalmente all’uso di combustibili fossili (produzione di
energia, riscaldamento domestico), alle emissioni degli autoveicoli, all’usura dei pneumatici, dei freni e
del manto stradale, a vari processi industriali (raffinerie, processi chimici, operazioni minerarie,
cementifici), allo smaltimento di rifiuti (inceneritori) ecc.
Grandi quantità di polveri si possono inoltre originare in seguito a varie attività agricole.
79
Tabella 14. Le sorgenti del particolato atmosferico
Fonte: (IAR, 2002)
Figura 30: Emissioni globali dei principali componenti dell’aerosol atmosferico
Fonte: (Lou J.C et al, 2005)
Figura 31. Emissioni globali dei principali componenti dell’aerosol atmosferico
Fonte: (Lou J.C et al, 2005)
80
Molti studi dimostrano che la concentrazione tipica di particelle antropogeniche presente in un’area
urbana può rappresentare un serio rischio per la salute dell’uomo (Fonti: Sesana, 2004.; Raes et al., 1999,
ECC).
A tal fine assumono rilevanza considerevole il monitoraggio e la caratterizzazione di tali zone e la
quantificazione del contributo dato da ciascuna sorgente, in modo da individuare provvedimenti specifici
di controllo, mitigazione e di politica ambientale, atti al conseguimento di uno sviluppo sostenibile.
Una volta immesse in atmosfera, le particelle vanno incontro ad un’evoluzione a opera di diversi
meccanismi, quali condensazione, evaporazione, coagulazione e attivazione, ma la loro concentrazione in
aria, che in condizioni di aria pulita, è dell’ordine di 1-1,5 µg/m3, viene comunque limitata dalla naturale
tendenza alla deposizione per effetto della gravità e/o per deposizione secca o umida (Fonte: Hemond et
al, 2000). La deposizione secca è il trasferimento diretto alla superficie terrestre e procede senza
l’intervento delle precipitazioni.
La deposizione umida, al contrario, comprende tutti i processi che comportano il trasferimento alla
superficie terrestre in forma acquosa (come pioggia, neve o nebbia).
Inoltre la permanenza in atmosfera è fortemente condizionata dalla natura dei venti , dalle precipitazioni e
dalle dimensioni delle particelle. In quest’ultimo caso le particelle con un diametro superiore a 50 µm,
visibili in aria, sedimentano piuttosto velocemente, causando fenomeni di inquinamento su scala molto
ristretta, mentre le più piccole possono rimanere in sospensione per molto tempo; alla fine gli urti casuali
e la reciproca attrazione le fanno collidere e riunire assieme, raggiungendo così dimensioni tali da
acquistare una velocità di caduta sufficiente a farle depositare al suolo.
Il trasporto a lunga distanza, invece, è governato principalmente dall’azione del vento. Si è osservato che
particelle con diametro minore di 10 µm sono capaci di coprire distanze superiori ai 5000 km, soprattutto
sopra regioni marine.
Tale fenomeno è stato osservato analizzando campioni di aerosol raccolti lungo le coste dell’Atlantico
occidentale, in cui è stata trovata polvere proveniente dal deserto del Sahara (Fonte: Brasseur et al,
1999).Il particolato atmosferico, in generale, contiene solfati, nitrati, ammonio, materiali organici, specie
crostali, sali marini, ioni idrogeno e acqua. Gli ioni inorganici solubili in acqua costituiscono uno dei maggiori componenti del particolato
atmosferico: Cl–, NO3–, Na+, Mg2+ e Ca2+ predominano nel particolato grossolano, invece, SO4
2– e NH4+ si
trovano preferibilmente nel particolato fine (Fonti: Seinfeld e Pandis; Van Dingenen et al, 2004).
La composizione chimica del particolato dipende dall’area di provenienza e dalla tipologia delle sorgenti
di emissione dominanti, cioè dal tipo di insediamenti della zona, e, poiché le particelle possono rimanere
sospese nell'aria per parecchi giorni e quindi trasportate anche a grandi distanze, il loro carico in una città
dipende non solo dalle fonti locali, ma anche dalla quota trasportata.
Figura 32. Composizione percentuale tipica dell’aerosol in località urbane, continentali rurali e marine
81
Tabella 15. Componenti chimiche delle polveri e loro effetti biologici
Componente Principali sottocomponenti Effetti biologici
Metalli Ferro, vanadio, nickel, rame, platino e
altri.
Possono innescare processi infiammatori, causare danni al DNA e
alterare la permeabilità delle pareti cellulari attraverso la produzione di
composti reattivi dell'ossigeno (soprattutto radicali liberi idrossilici) nei
tessuti.
Composti organici
Possono essere adsorbiti sulla superficie delle particelle; alcuni
composti organici volatili o semivolatili possono formare particelle essi stessi.
Possono causare mutazioni al DNA, cancro; altri sono irritanti e possono
indurre reazioni allergiche.
Origine biologica
Virus, batteri e loro endotossine (lipopolisaccaridi), frammenti di origine
animale o vegetale (ad esempio i frammenti di polline), spore fungine.
I pollini possono scatenare risposte allergiche nelle vie respiratorie dei soggetti sensibili; i virus ed i batteri
possono provocare risposte immunitarie a difesa delle vie
respiratorie.
Ioni
Solfati (1) (di solito sotto forma di ammonio solfato), nitrati (2) (di solito
sotto forma di nitrato di ammonio o di sodio), ioni idrogeno (H+).
L'acido solforico può, a concentrazioni relativamente alte, danneggiare la
clearance mucociliare e aumentare le resistenze delle vie respiratorie nei soggetti con asma; gli ioni idrogeno possono modificare la solubilità (e la
biodisponibilità) dei metalli e degli altri composti adsorbiti sulle particelle.
Gas reattivi Ozono, perossidi, aldeidi. Possono adsorbirsi sulle particelle ed
essere trasportate nelle basse vie respiratorie causando lesioni ai tessuti.
Parte centrale della particella
Materiale carbonioso.
Il carbone causa irritazione dei tessuti polmonari, proliferazione delle cellule epiteliali e, per esposizioni croniche,
fibrosi.
Fonte: (Health Effects Institute, 2000, 2001, 2002)
Qualità dell’aria: PM10
Il particolato atmosferico viene correntemente misurato come PM10, che è definito dalla normativa
italiana come “la frazione di materiale particolato sospeso in aria ambiente che passa attraverso un
sistema di separazione, in grado di selezionare il materiale particolato di diametro aerodinamico di 10
μm con una efficienza di campionamento pari al 50%” (Fonte: Ministero dell’Ambiente, 2002).
Secondo il censimento Ecosistema Urbano 2006 la presenza di polveri sottili nell'aria è ormai un
emergenza, lo dimostra il fatto che il monitoraggio sistematico del PM10, fino agli ultimi anni piuttosto
scarso, ha ormai quasi raggiunto la stessa diffusione di CO e NO2. L'inquinamento da polveri sottili
mostra infatti una criticità diffusa: in 41 comuni su 79 (52%), almeno una centralina ha registrato un
valore medio annuo superiore al valore limite per la protezione della salute umana di 41,6 µg/m3 previsto
dalla direttiva comunitaria per il 2004.
82
Le situazioni più critiche si registrano in particolar modo nelle città della pianura padana (Torino, Milano,
Verona, Vicenza) come pure Roma, Firenze e Genova.
Al PM10 fanno riferimento alcune normative (fra cui le direttive europee sull’inquinamento urbano
(1999/30/CE e 96/62/CE e quelle sulle emissioni dei veicoli), tuttavia tale parametro si sta dimostrando
relativamente grossolano dato che sono i PM25 e i PM1 ad avere i maggiori effetti negativi sulla salute
umana.
Nell’Aprile 2008, l’UE ha adottato definitivamente una nuova direttiva (2008/50/CE) che detta limiti di
qualità dell’aria con riferimento anche alle PM25, stabilendo una durata di due anni nei quali gli Stati
avrebbero avuto tempo per recepirla ed adattarla alle loro rispettive normative nazionali.
Effetti del particolato atmosferico su clima, microclima, ecosistemi, piante e materiali
Le particelle di PM possono agire indirettamente a favore di un raffreddamento del pianeta in quanto
fungono da nuclei di condensazione per le nuvole, aumentando la probabilità di formazione delle stesse;
infatti se da un lato esse riflettono la luce solare, rendendo la riflessione più efficiente rispetto a quella
degli oceani e delle terre emerse e portando ad un raffreddamento della superficie della Terra, dall’altro
possono avere però anche rivestire un ruolo nei fenomeni d’assorbimento della radiazione infrarossa
terrestre, contribuendo positivamente al riscaldamento della Terra.
Il particolato ha effetti anche sul microclima urbano: infatti, nei centri urbani l’inquinamento dell’aria
contribuisce all’effetto “isola di calore”, creato dall’elevata cementificazione delle città, inibendo la
perdita di radiazioni infrarosse ad onde lunghe durante la notte.
Oltre a questo, il particolato presente su città di grandi dimensioni può ridurre anche di più del 15% la
quantità di radiazione solare che raggiunge il suolo, effetto evidente soprattutto quando il Sole è basso
sull’orizzonte perché il cammino percorso dalla luce attraverso l’aria inquinata aumenta al ridursi
dell’altezza del Sole. Quindi, a una data quantità di particolato, l’energia solare sarà ridotta in modo più
intenso in città poste ad alte latitudini e nei periodi invernali.
Rispetto alle zone rurali circostanti, l’umidità relativa delle città è generalmente più bassa del 2-8%; ciò è
dovuto al fatto che le città sono più calde e che le acque meteoriche scorrono via rapidamente, ma
nonostante ciò sulle città le nubi e la nebbia si formano frequentemente grazie alle attività umane, che
nelle aree urbane producono grandi quantità di particelle che fungono da nuclei di condensazione,
favorendo appunto la formazione di nubi e nebbie e, quando i nuclei igroscopici sono numerosi, il vapor
d’acqua condensa rapidamente su di essi, a volte anche in situazioni di sottosaturazione, determinando
così un aumento delle precipitazioni sulle città dovuto proprio al particolato atmosferico (Fonte: Lutgens
et al., 1995).
Esso, in seguito a deposizione secca o umida, può contribuire ai processi di acidificazione (associati in
particolare ad H2SO4 e HNO3) e di eutrofizzazione (associata ai sali di nitrati) degli ecosistemi terrestri e
acquatici.
L’acidificazione dei suoli può portare al rilascio di elementi tossici come l’alluminio provocando seri
danni alle piante e alle varie forme di vita acquatica.
Il clima e l’inquinamento atmosferico, interagendo tra loro, degradano il patrimonio artistico,
architettonico ed archeologico, ed è stato osservato che i danni ai materiali sono legati soprattutto alla
composizione chimica e allo stato fisico dell’inquinante. Un primo danno indiretto è causato
dall’annerimento dei materiali dovuto alla sedimentazione del particolato il quale può, inoltre, fungere da
serbatoio di acidi provocando corrosioni.
Il particolato inoltre danneggia i circuiti elettrici ed elettronici, macchia gli edifici, le opere d’arte e
riduce la durata dei tessuti.
83
Immissione di aerosol nella stratosfera
Questo processo replica l’effetto refrigerante delle grandi eruzioni vulcaniche, durante le quali grandi
quantità di aerosol solfatici vengono proiettati nella stratosfera inferiore, ossia nell’atmosfera oltre i 10
km di altitudine: un esempio in tal senso è costituito dall’eruzione del vulcano Pinatubo avvenuta nel
1991.
Le emissioni di gas di zolfo da entrambe le fonti naturali e artificiali influenzano fortemente la chimica
dell'atmosfera: per valutare l'importanza relativa di queste fonti sono state combinate le misurazioni dei
gas e dei flussi di zolfo nel corso degli ultimi dieci anni per creare un inventario delle emissioni globali
(Fonte: Journal of Atmospheric Chemistry, 1992) (Citazione: Bates et al., NOAA/Pacific Marine
Environmental Laboratory, Seattle USA). L'inventario, che è diviso in 12 aree di latitudine, tiene conto
della dipendenza stagionale delle emissioni di zolfo provenienti da fonti biogeniche. Le emissioni totali
provenienti da fonti naturali sono circa 0,79 x 1012
mol S/ anno. Queste emissioni rappresentano il 16%
del totale nell'emisfero Nord e il 58% nell’emisfero Sud. I risultati mostrano chiaramente l'impatto delle
emissioni antropogeniche di zolfo nella zona compresa tra i 35°e 50° di latitudine Nord.
Gli aerosol presenti nell'atmosfera hanno diversi effetti ambientali rilevanti e sono un pericolo per
la salute respiratoria in alte concentrazioni, soprattutto nei grandi centri urbani. Essi influenzano il
clima della Terra sia direttamente (per dispersione e l'assorbimento di radiazione) che
indirettamente (come nuclei di condensazione per la formazione delle nuvole).
Ramaswamy e Kiehl (1985) stimarono che un carico di polvere di aerosol di 0,2 g/m2 con un raggio di
circa 0,26 µm aumenta l’albedo planetario del 12%, con conseguente diminuzione del 15% di flusso
solare che raggiunge la superficie (forcing radiativo).
Il carico richiesto può essere leggermente maggiore di 0,02 g/m2 utilizzato per ottenere una variazione
dell’1% del forcing radiativo. In questo caso, la massa di polveri necessaria per ridurre 1000 GtC
(4000 GtCO2) è di 1010
kg: così un chilogrammo di polvere nella stratosfera mitiga l'effetto serra di
CO2 in atmosfera di circa 100 tC.
Nel 1989, per mitigare l’effetto serra della CO2 equivalente degli Stati Uniti (8 × 109 t), sono state
necessarie 2 × 107 kg di polveri.
La polvere nel modello Ramaswamy e Kiehl è distribuita tra i 10 e i 30 km nella stratosfera, in modo
uniforme su tutto il globo.
Le polveri atmosferiche sono in grado di riscaldare la stratosfera, e l'effetto di tale riscaldamento è
incluso nel calcolo di Ramaswamy e Kiehl. Un possibile effetto potrebbe essere quello di cambiare la
chimica atmosferica per aumentare o distruggere l'ozono stratosferico. Esperimenti di laboratorio
condotti a temperature stratosferiche sembrano indicare che si verificano reazioni simili sulla superficie di
soluzioni di acido solforico (e presumibilmente avverrebbero sulle superfici composte da acido solforico e
sulle particelle di polvere), ma sono da 100 a 1000 volte più lente (Fonte: Tolbert et al., 1988).
Sembra che la distruzione dell'ozono stratosferico accada a causa di reazioni chimiche innescate
dall’aggiunta di polvere o aerosol nella stratosfera e rappresenta un effetto collaterale possibile che deve
essere considerato e interpretato prima della sua possibile mitigazione, opzione che deve essere presa in
considerazione per l’uso. Il National Research Council (1985) riporta dei trattati di Cadle et al. (1976) e
Mossop (1963, 1965) che danno la quantità di particelle silicatiche emesse dall'eruzione del Monte Agung
nel 1963 aventi dimensioni tra 0,2 e 2,0 µm come 1 × 1010 kg. Il tempo di dimezzamento di questa
polvere non è stato dato, ma la vita di un aerosol solfatico avente dimensione da 0,2 a 0,45 µm e una
altezza della colonna di 23 km è di circa 1 anno (Fonte: National Research Council, USA).
La quantità necessaria di aerosol solidi viene immessa di continuo a 10-12 km di altitudine avvalendosi di
proiettili o giganteschi palloni aerostatici. Una volta nella stratosfera le particelle di aerosol, riflettono una
parte della luce solare.
84
Un altro metodo per immettere in atmosfera aerosol solfatici è quello di utilizzare opportuni aerei
attrezzati allo scopo: il fine è quello di aumentare il grado di riflettività delle nubi in modo da disperdere
in maniera più efficiente la radiazione solare.
Come si possono utilizzare gli aeroplani per rilasciare aerosol nella stratosfera?
Immettendo zolfo nel carburante (kerosene), ma fatta eccezione per l’Artico, gli aerei non volano così in
alto di routine. Di solito si tratta di aerei cisterna e di cacciabombardieri militari che lo spargono nella
stratosfera (aerei tanker).
Penner et al. (1984) ha suggerito che le emissioni dell’1% della massa di carburante della flotta
dell'aviazione commerciale intesa come particolato, tra 40 mila e 100 mila piedi (da 12 a 30 km di
quota) per un periodo di 10 anni, cambierebbe l'albedo planetaria sufficientemente a neutralizzare
gli effetti di un raddoppio equivalente di CO2. Essi hanno proposto che rimappando i sistemi di motore
a combustione per bruciare in maniera più ricca durante i voli commerciali di alta quota comporterebbe
una perdita di efficienza trascurabile. Utilizzando le stime RECK dei coefficienti di estinzione per il
particolato (Fonte: Reck, 1979; 1984), hanno stimato un fabbisogno di circa 1,168 × 1010
kg, rispetto
alla stima nel pannello di 1010
kg, sulla base di Ramaswamy e Kiehl.
Hanno poi stimato che se l'1% del combustibile degli aerei vola sopra i 30.000 piedi (9 km di altezza)
viene emesso sotto forma di fuliggine e corrisponderebbe alla massa richiesta di materiale particolato nel
corso di un periodo di 10 anni. Tuttavia, le attuali flotte di aerei commerciali volano raramente al di sopra
dei 40.000 piedi (12 km), e la permanenza delle particelle alle quote di funzionamento sarà molto più
breve di 10 anni. Una stima effettuata dal National Research Council nel 1985 relativa all'emivita del
fumo è 1,4 × 10-7s. Questo dà un tempo di dimezzamento di 83 giorni, o poco meno di un quarto di un
anno. Pertanto la quantità di carburante da essere trasformata in fuliggine continuamente per la
mitigazione completa (1012 tC) è del 40%, ma se invece viene utilizzato l'1 per cento del carburante,
potrebbero essere mitigate circa 25 × 109 t CO2/anno. Il costo approssimativo delle emissioni di
particolato dei motori a reazione per la mitigazione di CO2 negli Stati Uniti del 1989, le emissioni
equivalenti ammonterebbero a circa 7 milioni di dollari, o circa $ 0,001/tCO2/anno più i costi di
capitale provenienti dall’adeguamento dei motori aeronautici. Questo fornisce una gamma di costi da
0,001 a $ 0,1/tCO2/anno. Nel 1987, le compagnie aeree nazionali hanno fatto volare 4.339 milioni di
tonnellate di merci per miglio per un espresso totale e ricavi operativi del trasporto merci di 4.904 milioni
di dollari (US Bureau of the Census, 1988). Questo dà un costo di poco più di 1 dollaro per tonnellata-
miglio di merci trasportate. Se una missione di distribuzione di polvere richiede l'equivalente di un
volo di 500 miglia (circa 1,5 ore), il costo per la distribuzione delle polveri è di $ 500/t, $ 0,50/kg.
Gli aerei più comunemente utilizzati sono:
F-15 C EAGLE
Quota operativa: 20 km
Capacità: 8 tonnellate di gas
Costo: 30.000.000$ (1998)
con 3 voli al giorno è operativo per 250 giorni all’anno, avrebbe bisogno di 167 aerei per fornire 1 Tg di
gas all’anno nella stratosfera tropicale.
Per 500 voli l’anno si avrebbe un costo di 4 miliardi di $/anno.
(Fonte: Robock et al., 2009)
85
KC-135 STRATOTANKER
Quota operativa: 15 km
Capacità: 91 tonnellate di gas
Costo: 39.600.000$ (1998)
Con 3 voli al giorno, che operano 250 giorni all'anno avrebbe bisogno di 15 aerei per fornire 1 Tg di gas
all’anno nella stratosfera artica.
KC-10 EXTENDER
Quota operativa: 12.73 km
Capacità: 160 tonnellate di gas
Costo: 88.400.000$ (1998)
Con 3 voli al giorno, che operano 250 giorni all'anno avrebbe bisogno di 9 aerei per fornire 1 Tg di gas
all’anno per la stratosfera artica.
Fonte: “Is Geoengineering a Solution to Global Warming?” Alan Robock, Rutgers University, USA 2011
I costi del personale, manutenzione, emissioni di CO2 potrebbero dipendere dalla strategia di attuazione.
Ogni KC-135 costa $ 4,6 milioni di euro all'anno per le operazioni totali di supporto, incluso il
personale, carburante, manutenzione e parti di ricambio.
Le riduzioni delle emissioni di CO2 sono soprattutto il risultato di lunghi studi volti al risparmio
energetico. Dal 2002, Boeing ha ridotto le emissioni del 31% su di una base rapporto di rivisitazione -
aggiustamento e del 10,1% su di una base assoluta.
Per calcolare le emissioni di CO2 presso le sedi principali degli Stati Uniti, Boeing utilizza misurazioni
del consumo di energia elettrica, l'uso del gas naturale e di olio combustibile.
86
Figura 35. Sintesi dei criteri delle emissioni di gas per test eseguiti con il KC-135 Stratotanker
Fonte: Boeing Environment Report, 2010
Cannoni navali
Anche le navi sono state vagliate come ipotesi per rilasciare in stratosfera gli aerosol fino ad un’altitudine
di 20 km attraverso cannoni da artiglieria di 41 cm di diametro (National Academy of Sciences, 1992).
Sono state utilizzate polveri di alluminio (Al2O3) nella stratosfera per un totale di 1010
kg di polvere
atmosferica. L'economia di mantenere 1010 kg di polvere nella stratosfera è determinata dal tempo di
permanenza della polvere in alto e dai mezzi utilizzati per mettere il materiale in quella zona atmosferica:
si presume un tempo di permanenza della polvere nella stratosfera di 2 anni, richiedendo la
collocazione di 1010
kg nella stratosfera per 20 volte in 40 anni fino al 2030; il progetto ha lo scopo
di mitigare
1012
t di C in continuo, pari a 4 × 1012
t di CO2. I costi di non attuazione in 40 anni sono di 5 $/tC o di
1$/tCO2 mitigata. Il costo annuale di non attuazione è di 0,125 $/tC/anno o 0,03$ /tCO2/anno.
Questo sistema navale solleva polvere nella stratosfera ad un costo da circa 10 a 30 $/kg di polvere.
Si suggerisce che sia ragionevole l’incertezza per quanto riguarda le nuvole e la densità di polvere
necessarie per un effetto dell’ 1% sul forcing radiativo e di mettere questi costi nella gamma da
0,03 $ a 1 $/tCO2 mitigata.
I costi, compresi di munizioni, cannoni, stazioni e il personale è stato stimato essere di 20 miliardi di
dollari.
Razzi
Il costo del lancio di razzi dalla nave Nike Orion, ammonta a circa 25.000 dollari per trasportare un
carico utile di 500 libbre, ed è di circa 100 $/per kg di polvere sollevata, 5 volte il costo stimato per
sparare le polveri in alto con grandi cannoni. Queste cifre sono riferite a lanci a 70 km di altitudine.
Installazioni nello spazio di vele solari
Delle vele solari deviano la radiazione solare e riducono l’energia radiante che giunge sulla Terra. Dato il
suo raggio equatoriale (6600 km), il raggio della sfera in cui la vela solare deve essere collocata è 6,6 ×
103 km. Quindi l'area della sfera che avvolge completamente la terra è 5,5 × 1014 m2.
Per compensare completamente il riscaldamento da effetto serra derivante da un raddoppio della
concentrazione di CO2 nell'atmosfera, l'ombrellone deve coprire l'1% della superficie terrestre,
87
o 5,5 × 1012 m2. Una serie di piccoli specchi possono essere considerati, ciascuno manovrato come vela
solare in orbita terrestre e cambiando l'angolo di incidenza verso il Sole, l'orbita di ogni vela potrebbe
essere controllata.
Se ogni vela è di 108 m2, sarebbero necessarie 55.000 vele. Questo rappresenta un problema di controllo
molto difficile, se non ingestibile. Tuttavia, se la richiesta per la mitigazione di 8 Gt di CO2 equivalente
(nel 1988 le emissioni di gas serra degli Stati Uniti), sarebbe necessario un ombrellone avente un’area di
circa 500 volte più piccola, pari a 110 vele solari.
Ad un costo ottimistico di 1.000 $/kg, il costo per sollevare il materiale in orbita sarebbe di 5,5
miliardi di dollari. Tale ombrellone attenuerebbe circa 1000 Gt di carbonio (o 4000 GtCO2) di
emissioni, ad un costo di circa $ 1,5/tCO2: ai costi attuali di lancio pari a 10.000 dollari/kg, il costo
sarebbe di $ 15/tCO2. Ramanathan sostiene che un incremento dell'albedo planetario dello 0,5% è
sufficiente a dimezzare l'effetto di un raddoppio della concentrazione di CO2. La variazione totale di gas
serra che si è riscontrata da prima della Rivoluzione Industriale fino al 2030 può essere equivalente a circa
3,3 W/m2, o poco meno dell'1% di 349 W/m2 di radiazione solare. Per lo sviluppo e l’approntamento delle
installazioni orbitanti nello spazio si prevedono parecchi decenni. Peraltro, la Royal Society ritiene che il
tempo necessario per renderle operative costituisca uno svantaggio tale da superare i probabili vantaggi : vi
sarebbe un effetto refrigerante uniformemente distribuito su tutto il Pianeta.
Figura 36. Vele solari da installare al di fuori del nostro Pianeta in modo da bloccare la radiazione solare in entrata
LE DIFFERENZE FONDAMENTALI TRA CDR E SRM
Le tecniche CDR combattono direttamente la causa di fondo dei cambiamenti climatici, riducendo
la concentrazione atmosferica del più importante gas serra antropogenico (CO2).
L’effetto sulla temperatura media globale si sviluppa solo lentamente, nel corso di alcuni o molti
decenni.
Le tecniche SRM agiscono nel giro di anni o pochi decenni e, in caso di emergenza, rappresentano
l’unica possibilità per ridurre a breve termine il riscaldamento climatico. Tuttavia, il loro impiego
non influirebbe in alcun modo sulle concentrazioni di gas serra. Tutti gli altri problemi ambientali, causati
dall’elevato tenore di anidride carbonica nell’atmosfera (in particolare la progressiva acidificazione degli
oceani) resterebbero insoluti. In generale, si ritiene che le tecniche SRM siano più economiche da
sviluppare e da gestire rispetto ai metodi CDR.
88
Figura 37. Grafico che confronta le tecniche di CDR ed SRM in base alla loro efficacia ed accessibilità
Fonte: “Geoengineering, The Climate” Science, governance and uncertainty pag.63 cap.5, Royal Society 2009
Valutazione dei rischi e delle incertezze dei metodi di Geoingegneria
Nessuno dei metodi di Geoingegneria valutati offre una soluzione immediata al problema dei
cambiamenti climatici, poiché lo stato attuale delle conoscenze è senza alcun dubbio insufficiente per una
valutazione esaustiva dei rischi che derivano dalla Geoingegneria.
Per molti aspetti, i metodi relativi alla riduzione dell’anidride carbonica (CDR) sembrano comportare
meno rischi e incertezze riguardo alle tecniche di gestione della radiazione solare (SRM), poiché
inducono i fenomeni climatici ad indirizzarsi maggiormente verso il loro stato naturale. In linea di
principio questi metodi consentono addirittura di generare “emissioni negative” e, al contrario, la
presenza di elevate concentrazioni di gas serra nell’atmosfera e una temperatura diminuita tramite
tecniche SRM, costituisce per il Pianeta uno stato nuovo, dinamico, caratterizzato da notevoli incertezze.
Tra queste vanno ricordati i valori soglia sconosciuti e i meccanismi di reazione del sistema terrestre,
come pure le conseguenze dell’acidificazione degli oceani, che in questo caso progredirebbe in modo
illimitato. Gli effetti di alcune tecniche SRM variano da una regione all’altra e hanno ripercussioni per
esempio sulle precipitazioni, intensità dei venti e correnti oceaniche. L’applicazione delle metodiche
SRM comporterebbe perciò ulteriori rischi generando costi aggiuntivi. Queste non possono essere
considerate una soluzione sostenibile, perché non si conosce bene il momento e il modo di abbandonarle
correttamente. Infatti, in base a quanto risulta dai modelli matematici, l’interruzione improvvisa
dell’applicazione di una tecnica SRM comporta il rischio di un improvviso e intenso riscaldamento
(Termination Problem), derivante da un meccanismo di feedback o di retroazione negativo.
Oltre a queste considerazioni di carattere generale, ogni singolo approccio di Geoingegneria implica
anche rischi particolari. A titolo di esempio si citano due processi molto discussi:
Per quanto riguarda l’applicazione della tecnica CDR di fertilizzazione degli oceani, allo stato attuale
delle conoscenze, si possono prevedere massicci effetti collaterali sulla biodiversità marina. La
comprensione del problema viene ulteriormente ostacolata dal fatto che i risultati sperimentali in
parte si contraddicono. In determinate condizioni la degradazione delle alghe che si depositano sul
89
fondo, pare favorire la formazione di protossido di azoto N2O (il gas esilarante), un potente gas serra,
così che alla fine si otterrebbe l’effetto opposto.
L’immissione continua di aerosol sulfurei nella stratosfera, nell’ordine di grandezza di parecchi
milioni di tonnellate all’anno, secondo molti fautori della Geoingegneria sarebbe l’opzione SRM
più indicata, che potrebbe ridurre rapidamente la temperatura media globale. Una volta nella
stratosfera, le particelle di aerosol riflettono una parte della luce solare disperdendola nello spazio
(scattering), contribuendo a raffreddare il pianeta, diminuendo così l’effetto serra. Osservazioni e
studi su modelli indicano, altresì, che il ricorso a tale tecnica influirebbe sul quadro globale delle
precipitazioni e indebolirebbe i forti monsoni estivi, mettendo eventualmente a rischio
l’approvvigionamento alimentare di miliardi di persone in Asia e in Africa. Inoltre, le particelle di
aerosol potrebbero indebolire lo strato di ozono, che nella stratosfera assorbe le radiazioni
ultraviolette UVc della luce solare, pericolose per gli esseri viventi. Lo strato di ozono si è già
indebolito dalla seconda metà del Novecento in poi, fino ai giorni nostri. Scoperta grazie ai satelliti
artificiali, il fenomeno era più evidente sull’Antartide, ma in misura minore riguardava tutta
l’atmosfera terrestre. L’ozono è una speciale forma di ossigeno: la sua molecola anziché essere
costituita da due atomi, è formata da tre atomi a struttura aperta. Una molecola semplice ma preziosa:
l’ozono ferma nella stratosfera i raggi ultravioletti del Sole, in particolare gli UVb e gli UVc, cioè i
più energetici. Questa radiazione produce mutazioni nelle cellule umane che possono dare origine a
melanomi, tumori maligni della pelle.
Negli Anni 80 il fenomeno del “buco nell’ozono” venne scoperto da un chimico statunitense, Frank
Sherwood Rowland, diventando un vessillo per le battaglie degli ambientalisti e segnò la crescita di una
“coscienza ecologica” su scala mondiale. Non fu però un percorso in discesa: la tesi di Rowland era
contestata da molti suoi colleghi e a lungo rimase controversa. La stessa sorte toccò a Paul Crutzen e a
Mario Molina, che svilupparono gli studi di Rowland e condivisero con lui il premio Nobel nel 1995. Le
multinazionali produttrici di clorofluorocarburi davano, com’è ovvio, manforte agli scettici soprattutto per
i loro interessi economici, e il gioco era facile perché, nonostante il fortunato slogan «buco nell’ozono», il
percorso logico che va dallo spray alla stratosfera, e torna a terra causando melanomi, non è di immediata
comprensione.
Tuttavia poco per volta la scoperta di Rowland, sostenuta dagli studi di Crutzen e Molina, riuscì ad
affermarsi a livello popolare e i politici furono costretti ad occuparsene. Il risultato fu un Protocollo per la
messa al bando dei clorofluorocarburi firmato a Montreal, in Canada, il 15 settembre 1987, poi più volte
aggiornato fino al 1999. Intelligente fu la scelta di graduare la messa al bando. Tra i maggiori produttori
di clorofluorocarburi c’erano l’Unione Sovietica e alcuni Paesi in via di sviluppo. Per questi furono
concessi rinvii nell’applicazione del Protocollo, in modo di dar loro il tempo necessario per ammortizzare
gli impianti industriali e avviare la produzione di gas sostitutivi non dannosi per l’ambiente, come gli
idrofluorocarburi (HFC).
Gli effetti benefici del bando si videro già alla fine degli Anni 90, quando il «buco» incominciò a dare
segni di restringimento. Si capì intanto che nella sua formazione ha un ruolo importante anche l’attività
solare, e quindi possono esserci temporanee rarefazioni che interferiscono con il processo di “ricucitura”.
Tornando ai rischi in ambito della Geoingegneria, considerazioni etiche si impongono anche per
quanto concerne la responsabilità generazionale: chi punta sulla Geoingegneria costringe le
generazioni future a continuare le misure già avviate, nel peggiore dei casi ancora per parecchi
secoli, a costi elevati e con effetti avversi per gli ecosistemi globali che, al momento, sono ancora
imprevedibili.
In uno scenario di questo tipo, le generazioni a venire non disporrebbero più di una libera scelta, come è
invece ancora possibile attualmente.
90
I metodi per la rimozione del biossido di carbonio (CDR), attraverso la cattura di CO2 dall’aria e la
manipolazione della meteorizzazione, presentano il vantaggio di non perturbare i sistemi naturali e
di avere meno effetti collaterali. Il sistema climatico, attraverso le precipitazioni contribuisce alla
fissazione del carbonio nel suolo, (come il biocarbone), che può dare contributi utili su piccola scala. Gli
effetti collaterali derivanti dalla fertilizzazione dell’oceano su vasta scala non sono ancora chiari.
Rispetto ai metodi per la rimozione del biossido di carbonio, le tecniche di gestione della radiazione
solare (SRM) sembrano essere relativamente più economiche e agiscono più a breve termine sulla
riduzione del riscaldamento globale. Questi metodi possono essere utilizzati al fine di incentivare la
mitigazione convenzionale, ma vi sono notevoli incertezze riguardo le loro conseguenze e rischi
aggiuntivi, anche se, nel tempo, è possibile che possano essere ridotti. L’adozione su vasta scala dei
metodi di gestione di radiazione solare creerebbe un equilibrio artificiale approssimativo e potenzialmente
delicato tra le concentrazioni di gas serra e la ridotta radiazione solare, anche per molti secoli. Sarebbe
possibile che tale equilibrio diventi sostenibile per così lunghi periodi di tempo se le emissioni di gas
serra aumentassero? Il metodo SRM adottato su vasta scala introdurrebbe ulteriori rischi, che potrebbero
essere ridotti soltanto se, per un periodo di tempo limitato, venisse impiegato in parallelo con il metodo
CDR.
Il clima che si ottiene dai metodi della gestione della radiazione solare conferisce variabilità a livello
regionale, in particolare per parametri critici diversi dalla temperatura (come le precipitazioni), la velocità
del vento e le correnti oceaniche. Tali involontari effetti ambientali dovrebbero essere valutati
attentamente, utilizzando modelli climatici migliorati, come quelli disponibili al momento. Quindi, poiché
le tecniche di gestione della radiazione solare, dovrebbero anche essere oggetto di ulteriori indagini
scientifiche per migliorare la conoscenza nel caso in cui tali interventi diventino urgenti e necessari.
C'è ancora molto da sapere sui loro effetti climatici, ambientali e le conseguenze sociali, prima che essi
siano presi in considerazione per l’impiego su larga scala.
Dei metodi di gestione della radiazione solare in esame, gli aerosol stratosferici sono attualmente i
più promettenti, perché i loro effetti sarebbero più uniformemente distribuiti, rispetto ai metodi di
gestione localizzati della radiazione solare e potrebbero essere molto più facilmente attuati rispetto
a metodi basati sulle tecnologie spaziali, in quanto entrerebbero in funzione a breve termine
(massimo entro un anno o due dall’impiego).
Sarebbe rischioso intraprendere l'esecuzione di qualsiasi metodo di gestione della radiazione solare su
larga scala, che non può essere sostenibile nel lungo termine e che non risolverebbe nulla circa il
problema dell’acidificazione dell'oceano, senza una strategia di uscita chiara e credibile.
I metodi di Geoingegneria di entrambi i tipi dovrebbero essere solo considerati come parte di un
pacchetto più ampio di opzioni per affrontare il cambiamento climatico. I metodi di rimozione
dell’anidride carbonica devono essere considerati come preferibili ai metodi di gestione della radiazione
solare come un modo per aumentare la continua azione di mitigazione a lungo termine. Tuttavia, i metodi
di gestione della radiazione solare possono fornire un backup potenzialmente utile a breve termine per
attenuare l’effetto delle radiazioni solari. In caso di una rapida diminuzione delle temperature globali, è
necessario che:
• I metodi per la rimozione dell’anidride carbonica considerati sicuri, efficaci, sostenibili e
ragionevoli, siano schierati al fianco dei convenzionali metodi di attenuazione;
• I metodi di gestione della radiazione solare non siano applicati, a meno che non vi sia la necessità
di limitare o ridurre rapidamente le temperature medie globali. A causa delle incertezze sugli effetti
collaterali e la sostenibilità siano applicati solo per un periodo di tempo limitato e, se usati,
accompagnati da programmi aggressivi di mitigazione convenzionali e/o di rimozione dell’anidride
carbonica, in modo che il loro effetto possa essere interrotto durante l’uso.
91
LE FUTURE ESIGENZE DELLA GEOINGEGNERIA
Se la Geoingegneria deve avere un ruolo nel futuro, deve essere applicata in modo coordinato,
responsabile ed efficace: si rende quindi necessario un lavoro di collaborazione per migliorare le
conoscenze, sviluppare i meccanismi di controllo e concordare i processi decisionali.
Per garantire che i metodi di geoingegneria possono essere adeguatamente valutati e applicati in modo
responsabile ed efficace in caso di necessità,si raccomandano tre principali programmi di lavoro:
1. Ricerca coordinata a livello internazionale e sviluppo tecnologico sui metodi più promettenti
identificati in questa relazione;
2. Attività di collaborazione internazionale per esplorare e valutare la fattibilità, i benefici, gli
impatti ambientali, i rischi, le opportunità presentate dalla Geoingegneria e i relativi aspetti
attinenti al controllo;
3. Lo sviluppo e l'attuazione di metodi di controllo per orientare sia la ricerca che lo sviluppo nel
breve termine e la possibile distribuzione a lungo termine, compreso il coinvolgimento delle parti
interessate, attraverso un dibattito pubblico.
Controllo
I meccanismi internazionali non hanno ancora sviluppato quadri normativi che regolano i metodi di
Geoingegneria e che valutano i loro impatti sull’ambiente.
Le più grandi sfide per la corretta distribuzione della Geoingegneria potrebbero essere le questioni sociali,
etiche, giuridiche e politiche connesse con il controllo, piuttosto che problemi scientifici e tecnici.
Fino ad ora, nessuno dei metodi menzionati è stato collaudato su vasta scala, né applicato a livello
operativo: alcuni metodi di Geoingegneria potrebbero però essere presto applicati unilateralmente da un
Paese o addirittura da organizzazioni di tipo privato.
Per alcuni metodi, come la cattura di CO2 dall’aria, i meccanismi nazionali preesistenti possono essere
sufficienti. Per altri, invece, come la fertilizzazione dell’oceano, i meccanismi internazionali esistenti
possono essere utili, ma richiedono alcune modifiche. Si potranno adottare comunque alcuni metodi, in
particolare quelli che richiedono attività transfrontaliere, o che hanno effetti tali, per esempio quelli
inerenti gli aerosol stratosferici o l’installazione di vele solari nello spazio.
I meccanismi di controllo idonei alla distribuzione devono essere stabiliti prima che i metodi di rimozione
di CO2 o di gestione della radiazione solare siano effettivamente messi in pratica. Ciò richiede di valutare
se i meccanismi internazionali esistenti, regionali e nazionali siano adeguati per la gestione della
Geoingegneria, aprendo un dibattito internazionale che coinvolga la comunità scientifica, politica,
commerciale e non-governativa.
Le sfide di controllo poste dalla Geoingegneria dovrebbero essere analizzate nel dettaglio da un
organismo internazionale come la Commissione ONU per lo Sviluppo Sostenibile che stabilisca delle
procedure per lo sviluppo e detti le linee guida per risolverle.
Pertanto è urgente e necessario istituire strutture di controllo nazionali e internazionali, con chiare
responsabilità e direttive vincolanti per la ricerca, lo sviluppo, e l’applicazione della Geoingegneria
(International Governance).
Nel 2010 ci sono stati due sviluppi degni di nota, su iniziativa di un gruppo di scienziati critici, sono
stati formulati i cosiddetti Oxford Principles: tali principi comprendono cinque impegni volontari,
come per esempio l’informazione e la partecipazione pubblica nel processo decisionale, i controlli
indipendenti dell’attività di ricerca e il principio secondo cui la decisione di applicare la
Geoingegneria è accettabile solo dopo la creazione di solide strutture di controllo (Governance).
92
Si sono spinti oltre i partecipanti alla conferenza nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sulla
Biodiversità, che si è svolta nell’Ottobre del 2010, i quali hanno sancito un’ampia moratoria sui progetti
di Geoingegneria, ad eccezione degli esperimenti condotti su piccola scala in condizioni controllate.
Ricerca e Sviluppo
E’ necessaria un’attività di ricerca e di controllo per orientare lo sviluppo sostenibile e responsabile, in
modo da garantire che la tecnologia possa essere applicata, se diventa necessaria. Dovrebbero essere
sviluppati codici di comportamento per la comunità scientifica e un processo di progettazione, con
l'attuazione e l’avvio di un quadro formale di controllo. L'attività di ricerca dovrebbe essere più aperta,
coerente e coordinata possibile a livello internazionale ed esperimenti transfrontalieri dovrebbero essere
soggetti a qualche forma di controllo internazionale.
Le esigenze principali di ricerca e sviluppo a breve termine sono indirizzate sugli studi di modelli molto
migliorati basati su esperimenti effettuati in laboratorio su piccola e media scala e in seguito provati sul
campo. E’ necessario un maggior investimento per lo sviluppo dello studio dei modelli climatici e la
relativa valutazione degli impatti ambientali, interessati dai metodi di Geoingegneria.
La Royal Society, in collaborazione con le altre maggiori organizzazioni internazionali scientifiche,
dovrebbe elaborare un protocollo per la ricerca sulla Geoingegneria e fornire raccomandazioni alla
comunità scientifica internazionale per un quadro di controllo della ricerca anche volontaria, nel settore
pubblico e privato. Esso dovrebbe includere:
a. un regolamento che riguardi i tipi e le scale di ricerca, inclusi convalida e monitoraggio;
b. la creazione di uno standard minimo per regolare la ricerca;
c. guida sulla valutazione dei metodi tra cui criteri pertinenti, l'analisi del ciclo del carbonio e dei
modelli climatici.
Un rilevante dipartimento del governo britannico (DECC1 & DEFRA2) in collaborazione con il
Consiglio di Ricerca del Regno Unito (BBSRC3, ESRC4, EPSRC5 e NERC6) dovrebbero finanziare in
maniera congiunta un programma di 10 anni di ricerca sulla Geoingegneria ad un costo che si aggira
nell’ordine di 10 milioni di sterline all'anno. Questo dovrebbe contribuire attivamente al programma
internazionale di cui sopra ed essere strettamente legato ai programmi di ricerca del clima.
L'ACCETTABILITA’ PUBBLICA DELLA GEOINGEGNERIA
L’atteggiamento delle persone nei confronti della Geoingegneria e il pubblico impegno nello sviluppo di
metodi individuali proposti, avranno un impatto critico sul suo futuro. La percezione dei rischi, i livelli di
fiducia in coloro che intraprendono la ricerca o l’attuazione e la trasparenza di azioni, finalità e interessi,
determinerà la sua fattibilità politica.
La Royal Society, in collaborazione con altri Enti istituzionali, dovrebbe avviare un processo di dialogo e
impegno per esplorare gli atteggiamenti della società pubblica e civile, le preoccupazioni e le incertezze
riguardo la Geoingegneria come risposta al cambiamento climatico.
La risposta politica internazionale sulla necessità di ridurre le emissioni è stata molto lenta sino ad oggi e
non c’è ancora un accordo sulle riduzioni di emissioni necessarie dopo il 2012. Come risultato le
emissioni globali hanno continuato ad aumentare di circa il 3% all'anno (Fonte: Raupach et al., 2007), un
tasso superiore a quello previsto dall’International Panel on Climate Change (IPCC) (IPCC 2001) e
considerando uno scenario più intensivo nell’utilizzo di combustibili fossili, in cui si avrebbe un
aumento della temperatura media globale di circa 4 °C (il range è da 2,4 a 6,4 °C), previsto entro il
2100 (Fonte: Rahmstorf et al. 2007).
93
C’è preoccupazione da parte della comunità scientifica in merito alle emissioni in questione, che non
scenderanno sotto al tasso prestabilito dalla Comunità Internazionale necessario per mantenere l'aumento
globale della temperatura media sotto i 2 °C (sopra i livelli pre-industriali ) entro il 2100.
Il cambiamento climatico e la Geoingegneria, il contesto politico
Il contesto politico della Geoingegneria non è un'idea nuova ed è stato riconosciuto come una possibilità
fin dai primi studi dei cambiamenti climatici.
La prima modificazione meteo risale almeno indietro al 1830, quando le proposte del meteorologo
americano James Pollard Espy, che consistevano nello stimolare la pioggia bruciando le foreste in
modo controllato, lo ha portato a essere conosciuto come lo “Storm King”.
Più di recente il “Progetto Stormfury” degli Stati Uniti, consiste nel modificare il percorso degli
uragani spargendoli con ioduro d'argento e questa pratica è stata utilizzata per due decenni. La
proposta della Geoingegneria di modificazione del clima, specificamente progettata per contrastare
l'effetto serra, è datata almeno 1965, dopo il rilascio di una relazione del Presidente della Science
Advisory Council degli Stati Uniti.
Gli studi preliminari sono stati condotti in tutto il 1970 e 1990 (Fonti: Budyko 1977, 1982; Marchetti
1977; US National Academy of Sciences, 1992), e la Geoingegneria è stata più recentemente discussa nel
corso di un progetto convocato dal Tyndall Centre, l'Istituto di Cambridge in collaborazione con il MIT
(Massachusetts Institute of Technology) nel 2004. Tuttavia, negli anni 1980 e 1990 l'accento delle
discussioni della politica sul cambiamento climatico si è spostato alla mitigazione, soprattutto a causa
degli sforzi a livello delle Nazioni Unite per costruire un consenso globale sulla necessità di controllo
delle emissioni.
La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) impegna gli Stati
contraenti a stabilizzare le concentrazioni dei gas serra a livelli tali che a breve causerebbero
“pericolose interferenze antropogeniche” nel sistema climatico (Fonte: Mann, 2009). Il Protocollo di
Kyoto dell'UNFCCC (1997), istituisce un quadro per il controllo e la riduzione delle emissioni di
gas serra attraverso il perseguimento degli obiettivi e dei meccanismi sensibili.
Mentre la quantità di riscaldamento globale che corrisponde a “Pericolose interferenze antropogeniche”
non è stata formalmente decisa, vi è un consenso diffuso che un aumento di circa 2°C sopra il livello
pre-industriale è un ragionevole obiettivo, e questo è stato formalmente adottato dall'Unione Europea
come un limite superiore e, più recentemente, dal gruppo delle nazioni del G8 (Fonte: G8, 2009).
Secondo recenti studi (Fonte: Allen et al 2009; Meinshausen et al., 2009; Vaughan et al., 2009) anche
gli scenari in cui a livello mondiale le emissioni di gas serra, come la CO2 e altri, saranno ridotti di
circa il 50% entro il 2050 e daranno solo una possibilità 50:50 che il riscaldamento rimarrà
inferiore a 2°C entro il 2100. Inoltre, non c'è uno scenario realistico in base al quale sarebbe possibile
ridurre sufficientemente le emissioni di gas serra al punto tale da portarle ad un picco ed a un successivo
declino delle temperature globali in questo secolo (a causa di ritardi nella ricerca sul sistema climatico).
I modelli climatici indicano in genere che la stabilizzazione della CO2 atmosferica a 450 ppm
sarebbe necessaria per evitare il riscaldamento superiore a 2°C (Fonte: Allen et al., 2009).
Attualmente, le concentrazioni atmosferiche di CO2 sono già maggiori di 380 ppm e sono tuttora in
costante aumento e sembra sempre più probabile che le concentrazioni superino 500 ppm entro la
metà del secolo, avvicinandosi ai 1000 ppm entro il 2100. Inoltre, vi è la perdurante incertezza sui
parametri fondamentali come la sensibilità del clima (Fonti: IPCC 2007; Allen et al., 2009) l'esistenza e
la probabile posizione in soglie di “punti critici” nel sistema climatico (Fonte: Lentini et al., 2008). Alcuni
impatti climatici possono accadere prima di quanto previsto (ad esempio, il basso dell'estate artica del
ghiaccio marino nel 2007 e 2008), di cui le cause sono sconosciute, e le conseguenze ancora molto
incerte. Esiste la possibilità di feedback positivi (a causa del rilascio di CH4 e/o la riduzione dell'albedo
94
derivanti dalla riduzione di ghiaccio marino), che siano credibili, ma non ancora pienamente
quantificabili. Secondo Hansen et al. (2008), l'effetto di ulteriori feedback positivi a lungo termine, a
causa del ciclo del carbonio e l'estensione della calotta di ghiaccio/effetto albedo, porterebbe ad un
maggiore livello di sensibilità del clima su scala temporale millenaria: questo significa che potrebbe
essere necessario ridurre nuovamente i livelli di CO2, per il futuro, a circa 350 ppm anziché
stabilizzarli sui 450 ppm.
Sono state espresse preoccupazioni che queste proposte potrebbero ridurre il fragile supporto politico e
pubblico per la mitigazione e sottrarre quindi risorse di adattamento (a volte questo è denominato
“l'argomento rischio morale”), che pongono significativi potenziali rischi ambientali e grandi incertezze
in termini di efficacia e fattibilità.
Recentemente questo è diventato un problema, in quanto le organizzazioni hanno mostrato interesse per le
potenzialità di interventi come la fertilizzazione dell'oceano per la cattura del carbonio e beneficiare dello
stesso attraverso la certificazione nell'ambito del Clean Development Mechanism del Protocollo di Kyoto.
Il coinvolgimento commerciale negli esperimenti di fertilizzazione dell'oceano ha provocato una risposta
rapida e vocale della comunità internazionale politica, scientifica e delle organizzazioni ambientali non
governative (ONG).
I responsabili politici hanno bisogno di consulenza ben informata e autorevole fondata su solide
basi scientifiche. Infatti, vista la crescente preoccupazione che le proposte di Geoingegneria promosse da
alcuni come una possibile “soluzione” al problema dei cambiamenti climatici, si rischia che gli
esperimenti di queste nuove tecnologie vengano effettuati, in alcuni casi in violazione delle leggi
nazionali o internazionali e che gli investimenti sul loro sviluppo e collaudo siano già in corso.
A tal fine la Royal Society ha deciso di intraprendere una revisione indipendente scientifica del soggetto.
Conduzione degli studi
La Royal Society ha stabilito un gruppo di lavoro di esperti internazionali nel 2008 sotto la guida del
Professor John Shepherd. Lo scopo del progetto è quello di provvedere ad una verifica bilanciata di
diverse proposte sulla Geoingegneria, per aiutare i creatori a decidere se, quando e quali metodi
dovrebbero essere ricercati e sviluppati: il contenuto di questo rapporto è stato soggetto a un controllo
esterno e a carico del Consiglio della Royal Society.
Alcune delle attività di Geoingegneria comunque sono state già ben trattate in alcune pubblicazioni
scientifiche e includono:
Lo sviluppo (e impiego su larga scala) delle fonti di energia a basse emissioni di carbonio
(Fonte: Royal Society, 2008),Ekins & Skea (2009); Il Consiglio Tedesco sul Cambiamento Climatico
(WGBU 2009); Royal Society (2009);
Metodi per ridurre le emissioni di gas serra,come il Carbon Capture Storage (CCS)
(Fonte: IPCC 2005);
Rimboschimento convenzionale e deforestazione evitata (Fonte: IPCC, 2000; Royal Society,2001).
95
Vi è una serie di criteri con i quali le proposte di Geoingegneria dovrebbero essere valutate, che possono
essere sostanzialmente suddivise in criteri tecnici e criteri sociali.
Le caratteristiche delle due classi sono introdotte e discusse, la loro fattibilità e l'efficacia valutata per
quanto possibile nei confronti di quattro criteri tecnici:
1. Efficacia: compresa la fiducia nella base scientifica e tecnologica, la fattibilità, la scala spaziale e
l'uniformità degli effetti realizzabili.
2. Tempestività: compreso lo stato di preparazione di attuazione (e in che misura le esperienze necessarie
e/o modellizzazione sono state completate) e la velocità con cui l'effetto desiderato si verifica sul
cambiamento climatico;
3. Sicurezza: tra cui la prevedibilità e la capacità di verifica degli effetti desiderati, l'assenza di
prevedibili o non voluti effetti collaterali negativi e gli impatti ambientali (in particolare gli effetti sui
sistemi biologici di per sé imprevedibili), e basso potenziale su larga scala;
4. Costo: sia di implementazione che di funzionamento, per un dato effetto desiderato (per esempio
quello relativo ai metodi di CDR, a quello per ogni GtC, quello relativo ai metodi SRM e quello per
W/m2) valutati su scale temporali secolari. In pratica, le informazioni disponibili sui costi sono
estremamente incerte, incomplete, e sono solo possibili stime di ordine di grandezza.
Sulla base di questi criteri i probabili costi, impatti ambientali e le possibili conseguenze indesiderate
sono identificate e valutate per quanto possibile, al fine di informare le priorità della ricerca e della
politica. Un ulteriore criterio molto importante è la reversibilità tecnica e politica di ogni proposta, cioè la
capacità di un metodo di cessare i suoi effetti (compresi eventuali impatti negativi indesiderati) di
risolverli in breve tempo, se dovesse essere necessario farlo. Tutti i metodi qui considerati sono
suscettibili ad essere tecnicamente reversibili entro un decennio o due, e quindi questo criterio non
consente di discriminarli tra loro. Vi sono anche criteri non tecnologici, con i quali tali proposte
dovrebbero essere valutate: si tratta di problemi come l'atteggiamento del pubblico, l'accettabilità sociale,
la fattibilità politica e la legalità, che possono variare nel tempo.
96
Bibliografia e documenti di riferimento
Richard P. Turco, “Earth Under Siege”, Oxford University Press, (1977)
K. Lackner, Institution of Mechanical Engineers (IME), “Alberi artificiali per la cattura di
CO2” (2010)
P. Read, J. Lermit, “Bioenergy with Carbon Storage (BECS): a sequential decision
approach to the treath of abrupt climate change” (2001)
R. Socolow et al., “Direct Air Capture of CO2 with chemicals – a technology assessment for
the APS Panel on Public Affairs” (2011)
K. Bracmort, R. Lattanzio, E. Barbour, “Geoengineering: governance and technology
policy” (2001)
J. Latham, T. Lenton, S. Salter, N. Vaughan, “Geoengineering: the climate science,
governance and uncertainty”, Royal Society (2009)
A. Robock, “Is Geoengineering a solution to Global warming?” (2011)
National Academies Press (NAP), “Policy implications of Greenhouse warming:
mitigation, adaptation and science base”, Washington D.C., USA (1992)
J. Trent, National Aeronautics and Space Administration (NASA) Ames Research
Center, “Project- OMEGA” (2011)
P. Kohler, J. Abrams, C. Voler, D.A. Wolf-Gladrow, J. Hartmann “Impact of
Geoengineering with olivine dissolution on the carbon cycle and marine biology” (2012)
T. Lenton, N. Vaughan, “The radiative Forcing potential of different climate
Geoengineering options” University of East Anglia, UK (2009)
Enplus “Centrale turbogas a ciclo combinato di San Severo per un impianto
eco-efficiente” (2011)