Post on 09-Aug-2015
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I fondamenti fisici e fisiologici del tocco nel pianoforte
(a proposito di un brevetto riguardante il pianoforte
verticale)
L’inferiorità del pianoforte verticale rispetto al
pianoforte a coda non è dovuta solo alle dimensioni ed al
volume di suono, ma anche ad altri motivi che spesso non
sono ben compresi. Alcuni pensano che la differenza stia
nella mancanza di dispositivi come la doppia ripetizione
o il doppio scappamento. Altri sentono la differenza tra
un tasto che “solleva” qualcosa ed uno che risponde solo
ad una qualche generica resistenza . Ma la causa reale è
ben più complessa, ed intreccia strettamente la fisica
dello strumento (acustica e meccanica) alla fisiologia
(soprattutto neuro-fisiologia) dell’esecutore. Tale causa è
senza ombra di dubbio il “tocco”, che è possibile nel
pianoforte a coda, ma di norma non è possibile nel
pianoforte verticale. Nel suo significato intuitivo, questa
parola indica una qualità del pianista che consiste nella
capacità di dare significati musicali al suono, ed anche di
dare un “bel suono” al pianoforte. La qualità che si
richiede invece al pianoforte è semplicemente di render
possibile tutto questo, ma tale qualità in realtà è molto
meno intuitiva, e non è stato facile definirla in termini
obbiettivi.
Esiste un problema di fondo per qualsiasi tipo di
pianoforte, come per qualsiasi tipo di strumento che
frapponga una struttura meccanica tra l’esecutore e
l’origine reale del suono (in pratica per gli strumenti a
tastiera). Questo problema riguarda il rapporto tra il
musicista e lo strumento musicale, e tocca l’idea stessa
del far musica. Con questo tipo di strumenti, c’è il rischio
di trovarsi di fronte, invece che ad una “voce” mediante
la quale il musicista può esprimersi, ad una “macchina
sonora”. Purtroppo nell’attuale pianoforte verticale il più
delle volte ci troviamo di fronte alla seconda ipotesi e le
conseguenze, sul piano musicale e sul piano didattico,
non sono di poco conto. E’ ragionevole infatti pensare
che, anche per un pianista di qualche esperienza, uno
studio condotto esclusivamente sul pianoforte verticale
possa compromettere, almeno in una qualche misura, i
processi inconsci che sono alla base dell’esecuzione
musicale, mentre in un principiante tali processi ben
difficilmente possono instaurarsi.
Nel cercare una soluzione del problema, ho a
lungo pensato (insieme alla maggioranza degli “addetti ai
lavori”) che si trattasse di un problema insuperabile. Per
fortuna la mia curiosità è stata più forte dell’insuperabile.
Osservando gli effetti (che inizialmente mi erano
sembrati casuali) di una modifica che avevo fatto
effettuare su un vecchio piano verticale (uno strumento di
grande formato e di ottima qualità, elemento questo non
secondario), ho deciso di continuare la ricerca, che dopo
parecchi anni mi ha portato a risultati inattesi. Le
intuizioni che mi hanno portato a tali risultati sono nate
dalla constatazione che il martello del pianoforte
verticale costituisce, insieme con le parti ad esso
rigidamente collegate (stiletto noce e nasello) una leva di
particolare struttura, il cui baricentro durante
l’esecuzione avanza verso la corda fino a superare la
verticale del perno. Ciò significa che la resistenza ad un
certo momento dopo una rapida diminuzione si annulla, e
quindi il martello scompare dalla percezione
dell’esecutore proprio nel momento decisivo della
percussione della corda. Il tocco diviene quindi
impossibile, e rimane possibile solo il controllo del
volume del suono, che il pianista può decidere con
l’energia iniziale del lancio, quando un momento, benché
inferiore a quello del pianoforte a coda, c’è ancora. Mi è
sembrato evidente che tutti i tentativi di “ricostruire”
artificialmente la resistenza finale del martello mediante
molle (come la molla di ritorno del martello) o magneti
non possono che peggiorare la situazione, proprio perché,
introducendo elementi automatici, diminuiscono la reale
possibilità di controllo da parte dell’esecutore anziché
aumentarla.
Nella mia ricerca, con tentativi e riflessioni che
hanno occupato lo spazio di parecchi anni, ho fatto
realizzare sullo stesso strumento altre modifiche, che
hanno alterato di poco l’impianto della meccanica
tradizionale, ma ne hanno modificato sostanzialmente la
dinamica, consentendo all’esecutore di percepire la
resistenza del martello anche nella fase finale della sua
corsa verso la corda quando, per capacità innate o
acquisite con lo studio, le sue dita decidono il tipo di
suono desiderato. Non si tratta di un completo
cambiamento della struttura stessa della meccanica, e
quindi la tipologia dello strumento è conservata, anche
nelle sue parti meccaniche. Proprio la modestia delle
modifiche apportate allo strumento mi ha indotto, quando
già avevo fatto i primi passi per il deposito all’ufficio
brevetti di una prima stesura del testo, ad una serie di
ulteriori verifiche. Temevo infatti che i risultati raggiunti
fossero dovuti a particolari caratteristiche del pianoforte
sul quale avevo effettuato gli esperimenti, o ad elementi
casuali di qualche altra natura. Tali verifiche hanno
richiesto ancora molto tempo, e competenze che in parte
non possedevo, 1)
e mi hanno aiutato anche a rispondere
al dubbio, che da qualche parte mi era stato avanzato, che
il tocco sia solo un problema psicologico del pianista.
Questa verifica dei termini scientifici del
problema mi ha consentito in primo luogo di definire i
risultati dell’invenzione in un sistema di rapporti di pesi e
misure sufficientemente ben definiti, e quindi
generalizzabili ed applicabili con diverse ipotesi
progettuali a pianoforti di nuova costruzione, ma
applicabili anche, c on modifiche da valutare caso per
caso, a buona parte dei pianoforti già costruiti. Ma
soprattutto, in secondo luogo, sul piano dei principi
scientifici la verifica mi è sembrata una sicura conferma
della validità dell’invenzione.
Vediamo dunque questi principi, che ci portano
sia nel campo della fisica (acustica e meccanica) che
della fisiologia (soprattutto neuro-fisiologia).
In primo luogo, dal punto di vista dell’acustica, il
tocco consiste nella determinazione del transitorio
d’attacco, cioè di quella fase di vibrazioni
apparentemente caotiche che precede l’onda stazionaria.
Nel pianoforte (a differenza che in uno strumento ad arco
o a fiato) l’esecutore non può influire sull’onda
stazionaria che si ha, dopo l’attacco del suono, nella sua
continuazione. Di conseguenza, la determinazione del
transitorio d’attacco mediante il controllo delle modalità
di incontro del martello con la corda è tutto quello che il
pianista può fare per influire sulla qualità del suono, se
prescindiamo dal volume. Ma questa possibilità è
importante, molto più che in altri strumenti. Nel
pianoforte infatti la differenza di intensità tra la
percussione e l’onda stazionaria è talmente grande che
tutto quello che succede dopo (a parte la durata del
suono) ha un significato tutto sommato secondario.
In secondo luogo, dal punto di vista della fisica
meccanica, è evidente che la capacità di un pianista di
esercitare il tocco è condizionata dalla possibilità di
controllare le caratteristiche della corsa del martello nelle
sue diverse fasi, cioè prima l’avvicinamento veloce del
martello alla corda e poi la caratterizzazione del suono
con la regolazione dell’impatto del martello secondo
l’intenzione dell’esecutore. Questa possibilità c’è nel
pianoforte a coda, dove le forze esercitate dalla mano del
pianista per sollevare, o meglio lanciare il martello verso
la corda vengono contrastate (oltre che dalle resistenze
dovute alla meccanica dello strumento, come del resto
nel pianoforte verticale), sopratutto dalla resistenza
dovuta alla forza di gravità che, dato il movimento
verticale del martello, genera una resistenza di valore
sostanzialmente costante nella sua corsa verso la corda.
E’ quindi costante la percezione dell’esecutore nel sentire
un’opposizione all’azione del dito sul tasto, e poi nel
regolare il tocco, che può essere graduato fino alla fine
del movimento. Nel pianoforte verticale invece, a causa
della posizione verticale delle corde e della
conformazione conseguente della meccanica ed in
particolare della leva che comprende il martello, la
resistenza generata dal peso del martello stesso passa
rapidamente a zero e diventa addirittura forza traente
nell’ultima parte della corsa. Ciò significa che, in
presenza di variazioni repentine della resistenza e di
bassi valori (fattori questi che renderebbero comunque
problematica sia la percezione della resistenza sia la
regolazione del tocco) nella maggior parte degli attuali
pianoforti verticali, quando il baricentro del martello (o
meglio del sistema di cui il martello fa parte) oltrepassa
la verticale del perno, questi valori scendono al di sotto
dello zero, rendendo impossibile qualsiasi tipo di
controllo da parte dell’esecutore. La percezione della
massa del martello è possibile solo all’inizio della corsa
(il momento iniziale è pari a circa i 2/3 di quello del
piano a coda) ed anche allora le altre resistenze della
meccanica rischiano di prevalere nella percezione
dell’esecutore. Alla fine, praticamente tutta la resistenza
è dovuta solamente alle molle, e quindi tutta l’azione è
automatizzata.
Altri fattori, come la conformazione delle leve
che precedono il martello, tasto e cavalletto, oppure gli
inevitabili attriti nel funzionamento della meccanica, o
l’elasticità delle parti in legno, potrebbero avere una
rilevanza teorica. Ma io ho concentrato l’attenzione, ed
ho effettuato i calcoli, sulla dinamica del martello (anche
se, ovviamente non sono intervenuto solo sul martello),
assumendo come ipotesi di partenza una situazione
“standard” del pianoforte verticale che in effetti non è
lontana dalla realtà. Inoltre non sono certamente
irrilevanti i fattori che determinano la qualità della
meccanica e dello strumento, ed è abbastanza ovvio che
il tentativo di applicare le modifiche suggerite nel
brevetto ad uno strumento mediocre potrebbe dare
risultati deludenti.
Va invece affrontato il tema delle caratteristiche
meccaniche del feltro del martello, elemento questo di
importanza probabilmente decisiva per la sua
connessione con le dinamiche che determinano il tocco,
ed utile anche per comprendere il modo di ottenerlo. E’
un problema estremamente complesso, e non so quale
super-computer potrebbe analizzarlo, ma ritengo
sufficiente affrontarlo in modo intuitivo. Il feltro usato
per i martelli del pianoforte, benché sia particolarmente
compatto, mantiene una qualche deformabilità,
caratterizzata da una reazione elastica modesta e piuttosto
lenta. A lungo termine, manifesta una certa plasticità che
dà luogo a dei solchi in corrispondenza delle corde, ma è
una caratteristica di misura irrilevante per quel che
riguarda il tema che sto affrontando. E’ quindi evidente
che un impatto di breve durata con la corda metallica in
tensione non concede il tempo necessario ad una reazione
elastica del feltro, che quindi si comporta come se fosse
più duro di quanto non sia, rendendo possibile un suono
preciso e controllabile. Un impatto troppo lento
lascerebbe il risultato sonoro in balia delle reazioni
incontrollabili e forse in buona parte casuali del feltro.
Per questo la meccanica del pianoforte è concepita in
modo da ottenere, con l’azione di leve successive,
un’elevata velocità del martello.
A ciò si aggiunge una legge della fisica, di
importanza decisiva, che ci dice che la forza impulsiva
che produce il suono è data dalla differenza tra la
quantità di moto (cioè massa per velocità) finale e la
quantità di moto iniziale, divisa per la durata
dell’impulso. Un qualche calcolo fatto sulla base di
questa legge darebbe risultati sorprendenti. Per chiarire
meglio queste affermazioni, che potrebbero sembrare
astratte o difficilmente comprensibili, può essere utile
ricordare un esperimento che veniva descritto nei vecchi
libri scolastici. Un uomo armato di fucile spara una
candela contro una tavoletta di legno e la perfora. Poi
prende la candela e la preme contro la tavoletta con una
forza tale che la “quantità di moto” (cioè il prodotto della
massa per la velocità) sia la stessa. La candela non può
attraversare la tavoletta, al massimo si spiaccica o forse
anche si deforma solo un po’. La sorprendente differenza
dell’effetto delle due azioni si ha perché, data l’estrema
brevità dell’impulso, il fucile produce una forza di gran
lunga maggiore.
Questi due dati, cioè da un lato l’estrema velocità
con la quale il martello deve colpire la corda perché il
feltro non soffochi il suono e dall’altro l’estrema brevità
dell’impulso necessaria perché questa velocità sia
raggiunta con il minimo impegno muscolare definiscono
l’unico modo corretto di usare il pianoforte: il dito deve
lanciare il tasto, in modo che questo agisca sul martello,
per mezzo del cavalletto, come una fionda. Ma, a
differenza dell’esempio della fionda, il dito non deve mai
“perdere” il proiettile (cioè il martello), ma ne deve
controllare la corsa fino a pochi millimetri dalla fine,
quando tale corsa diviene libera per via del sistema di
scappamento.
Tutto questo contrasta evidentemente con la
diffusa opinione che sia necessario produrre uno sforzo
per produrre un suono forte, e che comunque suonare
richieda forza fisica, per la necessità di scaricare peso
sulla tastiera, premendo o percuotendo il tasto, nella
convinzione che il volume, o la “solidità” del suono
dipenda dalla massa con la quale si colpisce o si preme il
tasto. E ciò sembra intuitivo osservando un certo modo
“atletico” di suonare che appare come l’immagine stessa
della forza muscolare. Ma questa impressione contrasta
in modo evidente con la fisica, sia per quanto abbiamo
detto finora, sia perchè la meccanica del pianoforte,
verticale o a coda che sia, è costituita da un sistema di tre
leve, sostanzialmente indipendenti l’una dall’altra. Il
tasto lancia il cavalletto che lancia il martello, ma
ciascuna delle leve conserva la sua massa e (a differenza
di quel che riguarda la velocità) non può trasmetterla, e
quindi aggiungerla, alla successiva. Quindi qualsiasi sia il
peso che viene scaricato sulla tastiera, la massa che
colpisce la corda è sempre esattamente la stessa, cioè il
peso del martello, (o meglio della leva di cui il martello
fa parte) e su questo fatto il pianista non ha
assolutamente nessuna possibilità di intervenire. E ciò
rivela un fatto sorprendente, cioè che la meccanica del
pianoforte, sia verticale che a coda, ha un in realtà un
funzionamento contro-intuitivo, del tutto diverso
dall’idea che hanno molti ascoltatori abituali di musica,
ma anche, talvolta, pianisti e insegnanti, del modo di
suonare il pianoforte. Spesso si insegna a premere per
“marcare” la melodia, ma più si preme e meno espressivo
è il suono, oppure si insegna a usare spalla, braccio o
polso per suonare più forte, ma ciò inevitabilmente
rallenta l’azione e rende più difficile controllare il suono.
Molti criticano il pianista che “pesta”. Ma pochi sanno
che il suo brutto suono dipende dal fatto che le vibrazioni
delle corde sono immediatamente soffocate e distorte dal
feltro che impedisce loro di espandersi liberamente. I
suoi muscoli uccidono la sua musica, e questo è sempre
inevitabile quando si suona forzando, anche di poco,
l’azione muscolare.
Mi pare che il processo che ho descritto quando
ho parlato della meccanica del tocco dimostri questa
necessità, ma nello stesso tempo si pone il problema di
chiarire come la complessa azione che questo processo
meccanico richiede al pianista, in tempi estremamente
brevi, sia possibile. Solitamente a questo riguardo si parla
della necessità del rilassamento muscolare, ma questa
espressione è troppo generica e non spiega in modo
sufficientemente preciso gli elementi fisici che rendono
possibile questa azione. Come si possano controllare le
ultime fasi della corsa del martello, decidendo con quale
velocità o accelerazione lanciarlo verso la corda è una
cosa che sfugge ad ogni ipotesi di misura. In effetti la
complessità dell’atto da compiere e l’estrema brevità del
tempo in cui lo si compie rientrano nelle capacità del
nostro cervello, che possiamo considerare praticamente
illimitate. Ma non sono illimitate le capacità degli
strumenti di cui il cervello si serve, vale a dire le varie
parti e le varie funzioni del nostro corpo. Sta di fatto che
continuamente dobbiamo dare all’organo fondamentale
del nostro corpo istruzioni per le azioni che desideriamo
compiere. Se queste istruzioni sono sbagliate, le
“capacità illimitate” si riducono più o meno
drasticamente o addirittura scompaiono.
Dare istruzioni corrette in realtà è possibile solo
costruendo immagini percettive che diventano sempre
più dettagliate e nitide man mano che si procede nel
corso di uno studio che certamente non ha tempi brevi, e
ciò può avvenire sulla base di certi criteri. Ci sono,
intanto, ragioni ben chiare per cui il martello deve essere
lanciato con il dito e non con altre parti del corpo come
spalla , braccio o polso. Accanto alla fisica, che ci dice
che lanciare grandi masse (cosa assolutamente inutile,
come ho dimostrato prima) rallenta un’azione nella quale
la velocità è di un’importanza decisiva, le ragioni
fisiologiche sono altrettanto chiare, perché le piccole
muscolature delle dita sono molto più veloci e sensibili.
Sono più veloci perché composte in prevalenza di fibre
muscolari rosse, dotate di una velocità di reazione tripla
non solo delle altre cellule muscolari ma anche degli
organi della vista e dell’udito, ed anche perché si tratta di
moltissime fibre muscolari che si inseriscono sulle
falangi con angolazioni diverse permettendo movimenti
in diverse direzioni. E’ quindi evidente che la possibilità
di ottenere una elevata velocità del dito esige il totale
disimpegno dalle grandi muscolature, ma d’altra parte va
detto che è fondamentale il totale riposo dopo ogni
singola azione, per evitare l’accumulo delle tensioni, e
quindi la fatica, che può giunger fino al blocco
muscolare. Solo questo riposo (potremmo dire questa
reale conclusione dell’azione) dà la possibilità di suonare
velocemente, che dipende dalla capacità di modulare il
tono e la contrazione della muscolatura con estrema
rapidità tra un’azione e l’altra. Sono inoltre più sensibili
perché ogni singola fibra muscolare è dotata di una
innervatura, e quindi il rapporto tra il numero di
terminazioni nervose ed il numero di fibre muscolari è
addirittura migliaia di volte più favorevole rispetto alle
grandi muscolature, che assolutamente non sarebbero in
grado di compiere un’ azione sofisticata come il controllo
del tocco. Ma questa sensibilità è possibile solo con la
libertà da qualsiasi interferenza di segnali estranei sulla
formazione delle percezioni (penso sia qualcosa di simile
al problema del rapporto segnale-disturbo negli impianti
di ascolto ad alta fedeltà). Tra questi segnali intendo
sopratutto la sensazione di impegno muscolare, anche se
minima. Penso che un allenamento alla fatica muscolare
non risolva questo problema (visto che una sospensione
di tale tipo di allenamento, anche per pochi giorni, lo
ripropone), ma che invece con tali sistemi lo sforzo
continui ad accompagnare l’azione muscolare, e ne venga
solo mascherata o attenuata la percezione. Naturalmente
con certi tipi di allenamento la muscolatura può
aumentare di volume ed esprimere più forza, ma le
terminazioni nervose aumentano anch’esse? Certamente
ci sono casi diversi, date le diverse attitudini individuali
ed i diversi livelli dell’attenzione prestata, più o meno
spontaneamente, agli aspetti musicali del lavoro che si fa.
Ma in generale, è elevato il rischio che un certo tipo di
studio sul pianoforte in realtà diminuisca la sensibilità
muscolare, e quindi la tecnica. Purtroppo un’azione
corretta del dito (ed in realtà di tutto il corpo, messo per
così dire al servizio delle dita) è qualcosa di estraneo,
nella massima parte dei casi, ai nostri abituali processi
motori, e quindi va costruita con un lungo e paziente
lavoro, che non può essere del tutto abbandonato neppure
dopo una lunga esperienza.
Ritengo ora necessario chiarire un ultimo
problema, che in realtà è il problema di fondo, che ha
determinato tutta la mia ricerca ed in particolare il lavoro
sul brevetto. Cioè se si possa definire in termini
obbiettivi il rapporto tra una certa struttura della
meccanica del pianoforte e le possibilità del pianista di
esercitare il tocco. La risposta è che certamente nessun
pianista può controllare le qualità del suono, fatta
eccezione per il volume, se il momento angolare è
insufficiente, o addirittura pari o inferiore a zero nel
momento in cui il martello viene lanciato sulla corda dal
sistema di scappamento. Non potrebbe controllare
nemmeno il volume del suono se il momento fosse nullo
anche alla partenza del martello. Esistono quindi
certamente delle condizioni fisiche dello strumento che
rendono possibile tale controllo, e che possono essere
definite e misurate. Ma queste misure sono uguali per
tutti, o dipendono dalla sensibilità o dall’esperienza
dell’esecutore?
Per rispondere è necessario definire il tocco da un
punto di vista soggettivo, cioè nella percezione del
pianista, come prima l’ho definito dal punto di vista
fisico. Il controllo del tocco è un processo a “feedback”,
e cioè una certa azione muscolare determina un certo
effetto sonoro, e questo influenza in tempo reale l’azione
muscolare successiva, e così di seguito fino a creare un
automatismo che è alla base della capacità di dare
significati musicali al suono. Ma questo processo parte
solo da una certa soglia cioè dal minimo necessario del
livello percettivo. Ciò significa che, se le dita del pianista
non “sentono” il martello a causa dei limiti dello
strumento, l’orecchio non può sentire una variazione di
timbro tale da influenzare l’azione motoria. Al di sotto di
una soglia così definita, evidentemente non è possibile
nessun feedback, e ciò obbiettivamente significa che lo
strumento in quanto tale non possiede, o più esattamente
non consente il tocco. Si tratta di una soglia soggetta solo
ad una variabilità individuale di modesta misura (e tale
variabilità è largamente compresa nei limiti di misura
previsti nel brevetto).
Altra cosa è la capacità di distinguere
consapevolmente le sfumature timbriche del suono
ottenuto, capacità che non dipende da una soglia
percettiva ma va piuttosto definita come un’attitudine,
talvolta almeno in parte spontanea, ma che di norma si
sviluppa con lo studio, che se correttamente impostato
porta ad un continuo affinamento della sensibilità
musicale. E evidente che questo affinamento può
avvenire solo su un pianoforte che consente il tocco.
Spero che questo divenga ora possibile anche sul
pianoforte verticale.
Paolo Pancino
(pancino.paolo@libero.it)
1) Per l’impostazione del problema in termini fisici, e per tutta la mia
ricerca, è stata essenziale la collaborazione di Elena Pancino, ricercatrice
presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica, (osservatorio di Bologna), mentre
per la verifica delle ipotesi scientifiche concernenti la fisica e la revisione
del testo debbo ringraziare Sandro Maluta, ingegnere meccanico, già docente
presso il politecnico di Milano ed ora Amministratore Delegato in una
importante azienda internazionale. Dal punto di vista fisiologico, sia per la
verifica di tutte le mie affermazioni che per la revisione e l’integrazione del
testo, anche dal punto di vista terminologico, debbo essere grato a Paola
Cesari, titolare della cattedra di Scienze Motorie presso l’omonima facoltà
dell’Università di Verona e ricercatrice nel dipartimento di Scienze
Neurologiche e della Visione della stessa Università, che ho potuto
incontrare grazie alla cortesia di Giuseppe Moretto, direttore dell’unità
operativa di Neurologia dell’ Azienda Ospedaliera Universitaria di Verona.
A Giuseppe Moretto devo anche alcuni utili orientamenti sul piano
neurologico.