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LDB

Sarban

Ilrichiamodelcorno

TraduzionediRobertoColajanni

ConunaNotadi

MatteoCodignola

AdelphieBook

TITOLOORIGINALE:TheSoundofHisHorn

Quest’operaèprotettadallaleggesuldiritto

d’autoreÈvietataogniduplicazione,

ancheparziale,nonautorizzata

Incopertina:Franzvon

Stuck,LacacciaselvaggiaMuséeD’Orsay,Parigi

©MUSÉED’ORSAY,DIST.RMN-GRAND

PALAIS/PATRICESCHMIDT

Primaedizionedigitale2015

©1952THEESTATEOFJOHNWILLIAMWALL

Edizionepubblicatainaccordocon

PiergiorgioNicolazziniLiteraryAgency(PNLA)

©2013ADELPHIEDIZIONIS.P.A.MILANO

www.adelphi.it

ISBN978-88-459-7663-6

ILRICHIAMODELCORNO

1

«È il terrore che èindescrivibile».Guardammo tutti

AlanQuerdilion.Era laprima volta cheinterveniva nelladiscussione; quasi laprima volta che apriva

bocca dalla fine dellacena.Seneerarimastoseduto a fumare lapipa, lasciando vagarelo sguardo dall’unoall’altro degliinterlocutori, conquell’espressione dilieve stupore sul visoche sembrava ormaiessergli abituale:un’espressione che miricordava non tantol’innocenza di un

bambino, quanto lasemplicità di unselvaggio, per il qualelo strano suono dellatua voce è unameraviglia che lodistrae dal prestareattenzione al sensodelle tue parole. Dopoaver osservato per tregiorni quello sguardo,capii che cosaintendeva sua madrequando, confidandosi

con me, aveva dettocontristezzachequelloche i tedeschi avevanoliberato nel 1945 erasolounapartediAlan.Non lo vedevo da

quasi dieci anni, daquelgiornodel1939incui era partito perandarea imbarcarsi suunanavecometenentedella Royal NavalReserve. Forse troppospesso si dà per

scontatocheiltempoeuna dura guerra sianocausa di grandicambiamenti nelcarattere di unapersona, e in seguitomi stupii di aver datocosìpoca importanzaaquanto era cambiatoAlan. Perfino la suatrasformazionedall’esuberantegiovanottosicurodisé,vivace, pieno di

energia, che eccellevainogni sport, inquellacreatura silenziosa,apatica e insicura, miera sembrata soltantofar parte del generalestato di appiattimentoe di disfacimento delmondo edell’affievolirsi dellaforza e del morale dicui l’Inghilterraparevasoffrire fin dal 1939.Era facile dimenticare

che Alan non erasemprestatocosì.Fu facile anche per

me, almeno in queiprimi tre giorni aThorsway, finché suamadre non venne aparlarmi. Soltantoallora,quandoconariatriste mi chiesesommessamente checosa non andava inAlan, fui costretto ariconoscere il

mutamento che eraavvenuto in lui. Eracome se pensasse cheio, il suo miglioreamico ai tempi dellascuolaedell’università,possedessi la chiaveper liberare quellaparte della sua menteche era ancora tenutaprigionierachissàdoveochepotessipagarneilriscatto. Ecco comestavanolecoseper lei:

«Loro» avevanorimandato indietro ilsuo corpo, più o menosano, e con quel tantodicapacitàmentalichegli permetteva dioccuparsidell’amministrazionequotidianadellapiccolafattoria che suo padregliavevalasciato;masierano tenuti il resto.Che cosa gli avevanofatto? O che cosa lui

aveva fatto a se stessodurante i quattro annitrascorsiinquelcampodiprigionia?Tentai con fatica di

sottrarmi al ruolo dipsichiatra dilettante alquale questaconfidenza sembravainvitarmi. Proferiiqualche banalitàsull’esperienza dellaguerra e la monotoniadella vita di prigione –

luoghi comuni evocatidai ricordi di mieconversazioni con varialtri ex prigionieri diguerra; poi, forse pocodelicatamente,aggiunsi che in fondoerano passati diecianni, e chenonpotevapretendere che Alanrestassepersempreunragazzo. Lei scosse latesta. «È qualcosa dipiù profondo, e

soprattutto sono tristeper Elizabeth». Nonpotei fare altro cherassicurarla, anche sesenza troppaconvinzione, dicendochenonavevonotatoinlui un così grandecambiamento.Certo, tra i presenti

nel salotto in quellaserata invernalenessuno sembravameravigliarsi

dell’apatia edell’assenza di Alan,eppure lo avevanoconosciuto bene primadella guerra. E pensoche,comeme,nessunodi loro si aspettasse disentirlo intervenirenelladiscussione.C’erano gli Hedley e

la loro figlia Elizabeth.IlmaggioreHedleyeraun vecchio vicino deiQuerdilion ormai in

pensione che, comeAlan, faceval’agricoltore aThorsway. Poi c’eraFrank Rowan, uncugino di Alan cheinsegnava economia inun’università del Norde che come me stavapassando unasettimanadi vacanza acasa loro. Entrambiconoscevano Alan findabambinoe,seanche

pensavano che avessequalcosadistrano,conme non ne avevanofatto parola: davanol’impressione diconsiderarlo un uomosemplice, di buoncarattere, proprio iltipo che riesce a farfunzionare un trattoreriluttante o adaggiustare un motoremalandato, uno chepuò sorprenderti per

l’agilità con cui siarrampica sul tetto diun granaio o scavalcauna staccionata, macerto nonunuomodalquale aspettarsi unqualsiasi contributo auna discussione comequella che avevamointrapresodopocena.Eppure sua madre

avevaragione,equelladiscussione,piùdiognialtra cosa, mi rivelò

quanto fosse cambiato.Anche se non era maistato un cacciatore, icacciatori di volpi glipiacevano e amavatutti gli esercizi diabilitàedi forza fisica.Prima della guerra sierasempreiscrittoallaCaccia di Saxby, neidintornidiThorsway,esenonpartecipavaallebattute è solo perchéda sempre era più un

corridore che uncavallerizzo. ACambridge si eradistinto nella corsacampestre; era unatleta veramentecompleto, ma non erafatto per gli sport acavallo. Inquell’ambiente dicampagna facevapensare più aldiscendente di unastirpediagricoltoriche

non di nobiliproprietari terrieri, undiscendente diquell’antica razza dicontadini delLincolnshire chepreferivanoi levrieriaibracchi e amavanoaccompagnarli a piedia cacciare nelle landeventose. Ma gli sportcampestri ce li avevanelsangue.Eaivecchitempi, seFrankavesse

attaccato la cacciaallavolpe come fece quellasera, Alan sarebbestato il primo alanciarsiaspadatrattainsuadifesa.Inveceerarimasto in

silenzio per un’ora emezzo,mentre gli altribaccagliavano a piùnon posso. FrankRowan, che con farebellicoso si ostinava acombattere

retrospettivamente labattaglia persa dellalegge contro la cacciaalla volpe – proprio inquei giorni respintadalla Camera deiComuni –, erasarcastico, polemico,pungente, e a mioparere non proprioeducato nei confrontidellapadronadicasaedei suoi ospiti, quandosottolineava quanto

fosse basso il livellomorale e intellettualedi chi praticava oapprovava gli sportsanguinari.IlmaggioreHedley invece riunivain sé la sobrietà delbuon militare diprofessione e laconoscenza dellacaccia tipica dell’uomodi campagna; difese lacausa con competenzaerifiutòfermamentedi

farsi attirare là doveFrank potevasopraffarlo con le suearmi filosofiche epsicologiche.Non così Elizabeth

Hedley.Equellaera lacosa più strana, cheAlan non fossenemmeno indotto amormorare una parolain sua difesa, o adaccennareungestopersalvarladalgrovigliodi

contraddizioni e diincongruenze in cui latrascinavaFrankconlasua maligna dialettica.L’ardore di Elizabethavrebbe infiammatoanche un uomo assaimeno sensibile alfascino di una ragazzaanimosa di quanto nonlo fosse Alan ai vecchitempi; ora sembravasoltantoconfonderlo,o,come un paio di volte

mi parve di notare,spaventarlo.Elizabeth aveva

ventidueanni,erabellae piena di vita. Eranata e cresciuta aThorsway ed era statacompagna e devotaammiratricediAlanfinda prima della guerra,quandoeraancoraunabambina di undici ododici anni. I cavallierano sempre stati la

suagrandepassione, ele poche volte chel’avevo incontrata inquei tre giorni passatial villaggio avevamoparlato esclusivamentedi caccia, di mostreequine, di raduni alPony Club edell’allevamento deicuccioli di bracco. Sec’era qualcuno cheavrebbe dovutopreoccuparsi per il

cambiamento di Alan,era lei. Eppure, aquanto sembrava,aveva acconsentito asposarlo poco dopo ilsuo ritorno dallaprigionia e nessuno,eccetto la signoraQuerdilion, mi avevamai minimamenteaccennato che tra loronon filasse tutto liscio.Nell’atteggiamento diElizabeth verso Alan,

per quanto avevopotuto vedere, nonc’era neanche nulla dicompassionevole oprotettivo; nulla dellasollecitudine che unaragazza affettuosacome lei avrebbemostrato nei suoiconfronti se fossetornato dalla guerrainvalidoocieco.Ho detto che erano

fidanzati,manonsose

il fidanzamento fossemai stato annunciato;io lodavoperscontatodal modo in cui ilmaggiore, la signoraHedley e la madre diAlan parlavano dellacoppia. È vero, michiedevo perchétrascinassero la cosatanto per le lunghe,sebbene Elizabethavessesoltantodiciottoanni quando Alan era

tornato, ed era chiaroche i suoi preferivanoche aspettasse. Noncapivo però per qualemotivo non si fosserosposati nel corsodell’ultimoanno.Poi, osservando

Elizabeth nella foga diquelladiscussionesullacaccia alla volpe enotando la velataespressione di pauranello sguardo che il

povero Alan lerivolgeva, mentre leiindignata rimbeccavabrillantemente gliattacchi di Frank,dovetti dare atto a suamadrediaverintuitolaverità. Alan avevaperso tutto il suospirito;lasuavirilitàsiera spenta oaddormentata;qualcosa lo avevaalteratoatalpuntoche

la vivacità, lagiovinezza, l’ardore ela bellezza di quellaragazza lointimorivano. Avevasemplicemente pauradi lei, e ne conclusiche, sebbene gli altridessero il lorofidanzamento perscontato, in realtà nonloeranéperluinéperlei, perché Alan nonavevaosatochiederela

sua mano. Sua madresapeva che, se non sifosse ripreso, avrebbepersoElizabethe iomitrovai a condividere ilsuo timore. Sarebberostati davvero una bellacoppia; Elizabeth gliavrebbe dato proprioquello stimolo e quelsoffiodivitadicuiAlansembrava averebisogno.Mirifiutavodicredere che la sua

natura fosse mutata atal punto da renderloindifferente allabellezzafisicadilei;gliserviva soltanto unvecchio amico che glifacesse capire qualerischio correva,lasciando che questanuova insicurezzaprendesse ilsopravvento sui suoireali desideri... Primache la discussione

fosse terminata, avevoaccettato la parte chela signora Querdilionavevaprevistoperme.Lo scontro si

concluseinmanieradeltutto inaspettata.Frank,nesonocerto,loaveva prolungato piùper il gusto diprovocare Elizabethche non perché fosseseriamente contrarioalla caccia alla volpe.

La loro discussione,comehodetto,divennemolto accesa e a mioparere quasiingiuriosa, anche se,immagino, siconoscevanoabbastanza bene dapotersi prendere amale parole senzaoffendersi a vicenda.Eppure, dopo un po’,Frank cominciò amollare la presa e

lentamente trasformòquella disputa in unoscambio di battutescherzose, arrivandoalpunto di dire: «Be’,dopotutto nessuno hasaputo definire megliodi Oscar Wilde ilgentiluomo dicampagna inglese cheinseguealgaloppounavolpe: l’indescrivibile acacciadell’immangiabile».

A questo punto Alansitolselapipadiboccae disse con un tononaturale, di calmaconstatazione: «È ilterrore che èindescrivibile».La cosa che più ci

sorprese, oltre al fattoche Alan fosseintervenuto nelladiscussione, fuquell’osservazione cosìfuori luogo e

l’improvviso ritornoalla serietà. Frank e ilmaggiore avevanoun’aria assente, maElizabeth, dopo averlofissato senza capire,chiese bruscamente econ una nota dimalcelata ostilità nellavoce:«Terrore? Quale

terrore?».Alan si chinò in

avanti, con la pipa

stretta tra le mani, eguardò accigliato lagatta che se ne stavaplacidamenteraggomitolata sultappeto davanti alcamino. Gli era moltodifficile esprimere ciòche voleva dire e,almeno noi tre uomini,nonpotemmofarealtroche aspettare conindulgenza che sisbloccasse. Il

maggiore, dopo unprimo attimo disorpresa,orasembravadivertito e sorridevaincoraggiante, come sifarebbe con unbambino che hadifficoltà a iniziare lasua recita. «Vogliodire...» rispose infineAlan, sempre fissandola gatta «voglio dire ilterrorechesiprovaadessere cacciati: è

questo che èindescrivibile, è perquestochenoncisonoparole. Si puòdescriverelagente...».Elizabeth aveva

inarcatolesopraccigliae spalancato gli occhi.Tutto in lei esprimevaostilità e sfida; miaspettavo chesbottasse dicendo:«Sciocchezze!», e chelo assalisse con le

stesse veementiargomentazioni chequella sera aveva giàscagliato una dozzinadi volte contro FrankRowan;chedicessecheunamorteviolentaèlafinenaturaledituttelecreature selvatiche, eanche la piùmisericordiosa, e chegli animali non hannosufficiente fantasia perimmaginare l’orrore

della morte prima delsuo arrivo... Tutti iconsueti argomenti diquei cacciatori di volpiabbastanza imprudentida difendere il lorosport tentando diportare la volpe sulbanco dei testimoni.Erosicurocheavrebberibadito tutto questoanche ad Alan, perchéle espressioni del suoviso si potevano

leggere comequelle diun bambino:ma primache le parole leuscissero di bocca,evidentemente il corsodei suoi pensieri deviòd’improvviso, o cosìmiparve, verso un’altra edel tutto insolitadirezione. L’ostilità, ildesiderio di ribatterescomparvero dal suoviso;guardòfissoAlan,il cui atteggiamento

sembrava esprimereun’inquietudine e undisagio ancora piùgrandi mentre sicurvava in avanti,allontanando la testada lei, ed ebbil’impressione di vederapparire negli occhi diElizabeth, ancorasgranati, una specie diassortointeresse,diungenere chemi sarebbeparso naturale nella

gatta che stava traloro. Impossibile dire,inquelmomento,qualescoperta, quale nuovainterpretazione leavessero suggerito leparole di Alan. Potevosoltantoindovinarecheper lei l’oggetto delladiscussioneimprovvisamente nonera più la caccia allavolpe ma lo stessoAlan,echeintuisseche

la paura di cui luiparlava avesse perqualche strano verso ache fare con leipersonalmente;d’istinto era diventataguardinga, attenta anon lasciar trapelare isuoipensieri,erestavain attesa che uno deipresenti prendesse laparola.MalasignoraHedley

si stava preparando ad

andarevia.Alansialzòesilenziosamenteandòad accendere le lucidell’ingresso, equandogli ospiti se ne furonoandati prese unalanterna e uscì unmomento in cortile. Lasignora Querdilion ciaugurò ben presto labuonanotte e ancheFrank,dopoaverrisoescherzato ancora unpo’, compiaciuto per il

suo successo nelladiscussione e divertitodallo strano interventodi Alan, se ne andò adormire. Non avendol’abitudine di andare aletto così presto, miversai un po’ di birra,spensi le luci delsalotto e ravvivai ilfuoconelcamino.La gatta saltò sul

bracciolo della miapoltrona e, ripiegando

le zampe anteriorisotto il petto, si misecon me a fissare itizzoniardenti.Unrumoredipassie

unacorrentefreddamirisvegliarono daltorpore, o meglio, dauna specie dicontemplazione, unalunga serie di ricordiche si susseguivanosenzavolerlonellamiamente come le

immagini di un sogno.Alan era rientrato; losentii sprangaresilenziosamente laporta d’ingresso. Mialzai per andare adaccendere la luce, mami scontrai con luirientrando nel salotto.Avevailrespirocortoemi afferrò per lagiacca, ma poi, nonappena mi sentìparlare, accennò una

breve risatina disollievo e lasciò lapresa.«Ho dimenticato la

gatta» disse. «È qui?Pensavo foste andatituttialetto».La sua voce

sembrava incerta.Accesi la luce e rimasiimpressionato nelvedere il suo viso cosìpallido per lo spaventoche gli avevo

procurato. Pieno dirammarico, mi scusaiper essere rimasto lìappostato nel buio.Farfugliò con evidenteimbarazzo che nondovevo farci caso eavanzò verso il caminofingendo di cercare lagatta, ma muovendosiascatti,nervosamente,e mettendoci troppotempoperriprendersi.Pensai che fosse

meglio dire qualcosa etornai senza esitazionesull’argomentoprincipaledellaserata.«Non mi

meraviglierei sestasera Elizabeth sifosse improvvisamenteresa conto che puòesserci qualcosa digiusto nella causaumanitaria contro lacaccia. È stato perquello che hai detto,

naturalmente; o percome l’hai detto. Misembra che l’abbiafattariflettere».Si volse bruscamente

verso di me. «È unavita che va a caccia,»disse «perché mai unacosa detta da medovrebbe fare qualchedifferenza?».Allora mi fu chiaro

comelalucedelgiornoche loro due ne

avevano già discussoprima – e ancheanimatamente.Immaginavo cheavessero litigatoe,perquanto insignificantepotessesembrarmiunadivergenza di opinionisu una faccenda delgenere tra dueinnamorati, potevocomprendere che perloro fosse importante,in un mondo in cui la

cacciavenivapresasulserio. Ma perché Alanavrebbe dovuto volerecheleinonandassepiùacaccia?«Mah, non so»

replicai. «Pensavo chela tua opinionecontasse qualcosa... Inogni caso molto più diquella di Frank. Untempo ogni tua parolaera come un oracoloperlei».

Si chinò e mise unaltrocepponelcamino,come se avessecompletamentedimenticato che pocoprimastavaperandarea letto. Rimase ancoraun po’ con le spallecurve, in silenzio,osservando il ceppofumante chelentamente siconsumava.Finalmente, senza

guardarmi e con vocecontrollata,midisse:«Mia madre ti ha

parlato di me eElizabeth,vero?».«Be’...» risposi «di

te... È un po’preoccupata.Pensacheci sia qualcosa che titormenta, credo.Personalmente nonvedo niente di diversoin te, a parte che avolte sembra che tu

abbiapersolalingua,eituoinervi,scusasetelo dico, non hannol’aria di essere inottimo stato. Non misembra che tu sia ingran forma, eppuredovresti esserlo, orache vivi in campagna.Non è per caso labottiglia,vero?».Rise. «Nei tre giorni

che sei stato qui hopensato che siamo

rimastiproprioquellidiun tempo, davvero.Vederti mi ha fattobene. Forse non sonocambiato così tanto,dopotutto».«Certo,» replicai «il

carattereegliaffettidiuna personadovrebbero restareinalterati, ma d’altraparte per l’uomo cisarebbe ben poco dasperare,sel’esperienza

non gli facessecambiarecomportamentoemododipensare.Haiseiannidiguerraediprigioniaalle spalle. E dopoun’esperienza similecapisco perfettamenteche un uomo abbiacambiatoideasumoltecose».«Sì,» disse «tu

potresti capire, o inogni caso ti

interesserebbe.Senti!». Si raddrizzòimprovvisamente e sivoltò. «Non sei stanco,vero? Ti dispiace se tiracconto una cosa?Lasciacheti riempia ilbicchiere, poisediamoci e tiracconteròunastoria».Versò della birra per

entrambi, spense laluce, poi riattizzò lebraci finché la fiamma

nonsiriaccese.«Riesco a parlarne

meglio così, alla lucedel fuoco,» dissesistemandosi nellapoltronadifronteame«e se ti annoi, puoitranquillamenteaddormentarti senzacheiomeneaccorga».Riempimmo lepipee

aspettai.«Non ne ho parlato

connessuno,»cominciò

«néconmiamadre,néconElizabeth.E primadiiniziarevogliochetusappia che si tratta diuna favola; solo di unafavola, capisci, che tiracconto perché pensopossa interessarti.Nonti chiedo di ascoltarmiper farmidire cosac’èche non va: lo soperfettamente dame enessuno può farciniente.Sitrattasolodi

aspettare e vedere sesuccede ancora. Ormaisonopassatitreannie,seriusciròasuperarneun altro senza che siripeta, sarò sicuro chenonaccadràpiùepotròtranquillamentechiedereaElizabethdisposarmi,etuttoandràbene. Lei potrà andareacacciaconibracchienonlitigheremopiùperquesto...almenofinché

non chiederà anche amediandarci.Esochenonlofarà».

2

Non sono pazzo,nobilissimo Festo. No,malosonostato.Enonintendo dire soloeccentrico osquilibrato, masplendidamentesuonato: è cosa

certificabile al di là diognidubbio.Orastodinuovo bene. Davverobene, credo. Ma dopoessere scivolato unavolta, cosìall’improvviso,dall’altra parte, so conquanta facilità erapidità questo possaaccadere di nuovo, e avolte qualcosa diinatteso mi spaventaper un attimo – finché

non ho di nuovo lacertezza di trovarmiancoradaquestapartedelmuro,percosìdire.Nonèraro,sisa,che

un uomo in un campodi prigionia possaperderelaragione.Puòaccadereachiunque,enon necessariamente aquelli più fragili o aipiù tormentati. Neavevo visti moltiimpazzire prima che

accadesse ame.Noi liconsideravamofortunati, e credo disapere il perché diquella loro ariastranamenteindifferente: è moltosemplice, non sannoche cosa succede inquesto mondo mentreloro sono cosìindaffarati nell’altro. Eci si sentestraordinariamente

sani,sai.Nelmiocaso,almeno,sonocertochequando mi trovavodall’altra parte la miamente fossedoppiamente attiva,doppiamente sensibilea quello che accadeva,di quanto non lo fosseal mio ritorno fra lagente normale, e dinuovoingabbia.Ero felice che fosse

una gabbia diversa.

Nessuno dei mieicompagni là dentrosapeva che ero uscitodisenno,equandoallafine fummo tuttiliberati, gli psichiatrimi giudicaronoperfettamentenormale.Anche se, ovviamente,a loro non raccontaimai quello che storaccontandoate.Fummobombardatie

affondati al largo di

Cretanel1941epassaidue anni in un campodi prigionia dellaGermania orientale:l’Oflag XXIX Z. Quelpiccolissimo mondo midivenne moltofamiliare: filo spinato,naturalmente,baracche fatiscenti,troppo fredded’inverno e troppocalde d’estate, i sudicilavatoi, le latrine

puzzolenti, la terrachiara e sabbiosa, lanera foresta di pini inlontananza, gli sgherrisulle torrette diguardia;etuttiipiccoliespedienti,itrucchi,gliaccorgimenti e leinvenzioni che cisembravano cosìimportanti – be’, chesono così importanti,quando il tuomondo èridotto a quelle

dimensioni.Mi illudevo di

sopportare la vita diprigione molto megliodellamaggiorpartedeimiei compagni.Ovunque io sia, nonsono mai veramenteinfelice se riesco atrovare qualcosa dafare con le mie mani,ed è sorprendentecome in similicircostanze ci si possa

trasformare in operosiartigiani, se solo se neha l’inclinazione. Sonoveramente fiero dialcune cose che sonoriuscito ricavare dadelle vecchie latte.Matenevo occupata anchela mente. Decisi diriprendereastudiareilgreco. Forse sarebbestato più sensatoimparareiltedesco,macredo che il greco mi

attirasse perché misembrava così puro efresco e non avevanienteachefareconilcampo.Bene, dico questo

solo per chiarire cheero un prigionieropiuttosto sereno.Naturalmente mimancavalagiustadosedi esercizio fisico, ma,considerando lapovertà della nostra

dieta, probabilmenteera già tanto laginnastica cheorganizzavamo. Inoltrenon avevo particolariproblemi familiari.Ricevevo lettere dacasa più spesso dichiunquealtroe,finchémia madre e Elizabethstavano bene, nonavevo nulla di cuipreoccuparmi. È vero,stare forzatamente in

compagnia solo digente del tuo stessosesso è una privazionechepuòmettereaduraprova l’equilibriomentale – ma nonsaprei: eravamo tuttinella stessa situazione.Certo, forse ti puòmancare il piaceredelle avventure, macredo che se prima diessere messo sottochiavehai avuto la tua

normale e giustarazione di questipiaceri, puoisopportarne l’assenzaconpiùfilosofia.Eranoi ragazzi a soffrirne dipiù, non quelli dellamiaetà.No, guardando

onestamente eobiettivamente a quelperiodo – e un campodi prigionia è un buonposto per misurare le

deviazioni da uncomportamentonormale – avreipensato di essere unodegli ultimi a perderela ragione. Ma ecco ilpunto, mi è successoproprio questo.D’accordo, può esserestata la scossa... lascossa elettrica, oquello che era, adessoci arrivo. D’altra parteinpassatoavevosubìto

shock molto peggiori.Ero stato silurato duevolte in tre mesi, nelMaredelNord,pernonparlare deibombardamenti.Questishock avevano messoalla prova ilmio corpoben più della scossache avevo preso allabarriera diHackelnberg, ma nonmiavevanosconvoltolamente.

Ah! Non puoiimmaginare quantevolteinquestidueanniho cercato le provedella mia salutementale, e con quantacura l’ho passata alsetaccio per scovareogni minima falla, ilsegnodiunadebolezzanascosta, senza mairiuscire a trovarlo.Dovevo, dovevoscoprireperchéperun

certo periodo sonouscito di senno:capisci, sarebbe statala prova migliore nonsoltanto della miasalute mentale, madella validità di tuttoquest’ordine in cuicrediamo, la naturalesequenzadel tempo, leleggi dello spazio edellamateria, la veritàdituttalanostrafisica.Perché vedi, se io non

ero pazzo, alloradoveva esserci nelloschema delle cose unafollia troppo grande eselvaggia perché unuomo avesse ilcoraggiodiaffrontarla.Elacosaparadossale

ècheeroconsideratoiltipo più solido, sano eaffidabile di tutto ilcampo. C’era ilComitato per leEvasioni: i migliori

cervelli tra gli ufficialianziani, capaci digiudicare un uomomeglio di qualsiasipsichiatra. Se c’eraqualcuno in grado discovare una falladentro di me eranoloro, con tuttal’esperienza cheavevano di piani folli.Invece presi parte, investe di consigliere oassistente,aquasitutti

i tentativi di fuga chefurono organizzati.Diventai una specie diconsulente, il tipo alcuiespertoconsigliocisi rivolgeva prima disottoporre il pianoall’approvazione delComitato. L’evasione,naturalmente, eral’elemento nel quale,per così dire, vivevanotuttiinostripensieri;lenostre piccole

occupazioni e idivertimenti erano leonde superficialidell’esistenza e lostudiodell’evasioneerailmarecheci tenevaagallaintuttoquellochefacevamo.In realtà tutti i piani

difuganoneranoaltroche varianti di unostesso sistema. C’eraun solo modo dirisolvere il problema

essenziale dioltrepassare il filospinato: bisognavatrasformarsi in talpe escavare una galleria.Presi parte allaprogettazione di moltitunnelefuimembrodimolti gruppi che sioccupavano di scavaree nascondere la terra.Ma nessuna evasionedall’OflagXXIXZ ebbesuccesso fino al

tentativo che facemmoioeilmioamico.Non starò a

descriverti i dettaglidelpianoedelloscavo,proverebberoproprioilcontrariodiciòchestotentandodidimostrarticon questa storia,perché quel tunnel fuprogettatoescavatofintroppo bene. Tutto ilcampo ci sostennenell’impresa.

Avvenne una notteversolafinedimaggio,un’ora prima delsorgere della luna. Losbocco del nostrocunicolo si trovava uncentinaiodimetrioltreil filo spinato e ciavrebbeportatoacircacinquantametridaunapropaggine dellaforesta di pini. La piùsemplice applicazionedeiprincìpidelloscavo,

pensavamo, ci avrebbegarantito maggioriprobabilità di riuscita.Lagranpartedeipianierano falliti perché iltunnel non arrivavaabbastanza lontano. Illavoroeracosìpesantee il tempo necessariocosì lungo che, unavolta giunti sotto larete, la tentazione dismettere di scavare edi rischiare una corsa

più lunga era troppoforteperresistervi.Manoi resistemmo eriuscimmo almeno araggiungere il buionascondiglio deglialberi senza chevenisse dato l’allarme.Avevamo usato comecopertura il vecchiosistema di inscenareunarissafraprigionieriin uno dei blocchi, inmodo da distrarre

l’attenzione delleguardie: un truccomolto vecchio, mafunzionò.Inoltre, avevamo

resistitoallatentazionedi pianificare i dettaglidelle fasi successive.Sia io sia Jim Longavevamo lenostre ideesul modo migliore perviaggiare in Germaniain tempo di guerra, eper questa ragione

avevamodecisodi fareognuno a modo suo.L’obiettivo daraggiungere eraStettino: là avremmopotuto metterci incontatto con qualcunodell’organizzazioneclandestina che davaassistenza agli evasi eimbarcarcisuunanavesvedese. Questo, agrandi linee, era ilnostro piano, e tale

rimase. Potevasembrare vago eottimistico, ma ilrisultato dimostrò chepoteva funzionare.Long arrivò a Stettinoin treno, rimase unasettimana in unapensione per marinai,fu imbarcatoclandestinamente suuna nave da caricosvedeseeriuscìafarlafranca. Io non fui così

fortunato.Entrambi ritenevamo

che fosse meglioviaggiare in treno, manoneravamod’accordosul luogo in cui salirci.Jim, che parlava moltobene il tedesco e ilfrancese, era dell’ideadi andare a piedi finoalla stazione più vicinaal campo, mostrare isuoi documenti falsi dilavoratore francese,

comprare il biglietto eaffidarsi all’assolutanormalità dellaprocedura. Il miopiano, invece, era diallontanarmi il piùpossibile dal campoprima di salire sultreno. Puntai suDämmerstadt, checontavodiraggiungerein due notti dicammino,nascondendomi nei

boschi durante ilgiorno. Avrei viaggiatoneipannidiunufficialedella Marinamercantilebulgaracheandava a raggiungerelasuanaveinunportobaltico:lamiauniformedella Marinabritannica,conqualchepiccola modifica,avrebbepotutopassareagli occhi di untedesco, pensavo, per

quella della Marinamercantile bulgara, e inostri addetti aidocumenti mi avevanoprocurato un insiemeconvincente di carte,che includeva unpassaporto moltoesotico ebalcanicheggiante, incaratteri cirillici. Ilrischio più grande checorrevo era diimbattermiinqualcuno

che conoscesse ilbulgaro, ma calcolaiche le probabilitàfossero a mio favore.Perilrestoavevoviveriper quattro giorniforniti dai nostrisostenitori,unabussolaa bottone che itedeschi non avevanotrovato quando miavevano raccolto sullaspiaggia, un po’ didenaro tedesco e

l’abbozzodiunamappafornito dal ComitatoperleEvasioni.Jimeiocisalutammo

frettolosamentenell’oscurità deglialberi, mentre iltumulto della fintarissa continuavaall’internodelcampo.Icani abbaiavano comefurie e qualcuno deglisgherri urlava, manessuno puntò il

riflettore verso di noi,dall’altra parte del filospinato. La fasenumero duedell’operazionesembravaperfettamenteriuscita.Avevomemorizzatola

mappa e conoscevomoltobeneilpercorso.La prima parte dellaprima notte di viaggiosarebbe stata lapeggiore: significava

andaredritti versoest,attraverso la foresta dipini, fuori dai sentieri,per una distanza checalcolavo di circa treore di cammino. Poisarei arrivato a unastrada secondaria cheavrei dovuto seguireper quattro o cinquemiglia, più o menoverso nord-est, per poiprendere di nuovoverso est in modo da

evitare un villaggio, eproseguire per strettiviottoliconunpercorsoazigzagattraversounavasta pianura quasidisabitata fino aun’altra zona boscosache, secondo i mieicalcoli, avrei raggiuntoalle prime luci delgiorno. Là intendevonascondermi eriposare. La notteseguente avrei

continuato attraversoforesteeradurefinché,verso l’alba, avreiraggiunto la ferroviaproprio a sud diDämmerstadt.Non mi facevo

illusioni sulla difficoltàdiprocedereattraversola foresta di notte, ecercai di fare piùstrada possibile finchémisentivoalsicuro.Misembrava di poter

rischiare un incontrocondeicontadiniodeipoliziotti lungo lestradine di campagna,perché la notizia dellanostra fuga avrebbeprobabilmente tardatoa raggiungerli, econfidavoallegramentenella mia capacità diimitare in modopassabile un ufficialestraniero che, dopoessersi sbronzato,

aveva perso il treno, oera sceso alla stazionesbagliata e cercavaquella giusta. Neglianni ne avevoincontratidiversi.Una cosa va detta

sulle foreste di pini:sono di un buioinfernale,mamoltopiùsgombre di sottoboscorispetto alle foreste dilatifoglie. Non fuaffatto facile quel

primo pezzo dicammino,ecominciaiapensare di aversottovalutato l’effettoche due anni di dietacarceraria avevanoavuto sulla miaresistenza. Mi civollero quasi cinqueore per raggiungere lastrada, invece di tre,ma alla fine laraggiunsi, e – la cosaancora mi sorprende

quando ci ripenso –quasi nel punto esattoin cui avevo calcolatodi arrivare. È vero,avevo con me labussola,masoprattuttopenso di aver avuto,più di quanto mispettava, quello che inmarina vieneconsiderato l’ausiliopiù prezioso dell’uomodi mare: un po’ didannatafortuna.

Fu un sollievoritrovarmi sulla stradae avere qualche puntodi riferimento. Mifermai per un po’ emangiai qualcosa, manon osai prendermelacomoda, dal momentoche all’alba dovevorientrare nella foresta.Be’, puoi immaginartila sofferenza di quellacamminatanotturna:fupeggio di qualsiasi

altra escursione cheabbiamo fatto insiemeaivecchitempi.Ogni volta che

vedevo i fari diun’automobile dovevosgattaiolare in unfrutteto oaccovacciarmi in unfossato finché non erapassata e, conl’avanzare della notte,quelle continuedeviazioni dal mio

cammino faticoso eritmato divennerosemprepiùpenose.Unpaio di volte, mentremicostringevoausciredal fossato, pensai chenon sarei mai piùriuscito a muovere legambe, né a placare ildolore bruciante dellemie vesciche. Possodirtichequandoilcieloiniziò a ingrigire nonmiimportavapiùmolto

di quanto tempo ciavrebbero messo percatturarmidinuovo.Lasola cosa che miimportavaerasmetteredicamminareetrovaredabere.Questo fu il mio

secondo errore divalutazione:nonmieroportato dietro unabottiglia d’acqua pernon avere troppocarico. Avevo calcolato

che inEuropanon si èmai troppo lontani dauna fonte d’acquadiscretamentepotabile,ma non è così, per lomeno non sembra chesia così nell’Europaorientale. Evitavo ivillaggi, ovviamente, ein quella regionesabbiosa non ci sonoruscelli o stagni, masolo pozzi, e questinaturalmente stanno

dovesonolefattorie.Raggiunsi la

successiva zonaboscosa senza serimotivi dipreoccupazione, anchese quando ci arrivai ilsole era già alto.Potevo vedere unapiccola fattoria nonlontano e, in unrecinto, unabbeveratoiodall’aspetto molto

invitante. Ma non osaiinfilarmi nel recintoperbere:eragiàpienogiorno e anche seintorno non scorgevonessuno, dovevaesserci certamente uncane. Non potevo farealtro che rintanarminell’ombra dei pini eraccogliere carponi unpo’ di quella pallidaerba che crescevairregolarmente intorno

e sotto gli alberi, permasticarla.Miriposaipertuttoil

giorno nel posto piùfresco che trovai; erotroppo assetato estremato dalla faticaperpotermangiare,madormii, di quel sonnoagitato di chi è troppostanco. Le vesciche, imuscoli doloranti el’arsura della golasembravano stimolarmi

il cervello, ma lavolontà, o qualunquecosa sia ciò cheseleziona e disciplina ipensieri, era troppodeboleperimporsi.Saicosa si prova: è comese la mente fosse unproiettorecinematografico che,animatosiall’improvviso,assumesse il controllodell’azione

sostituendosiall’operatore, e simettesse a sfornaremetri e metri dipellicola solo per ilproprio diabolicodivertimento,accelerando sempre dipiù. Non ricordonessun dettaglio deisemi-incubi che ebbiquelgiornosullimitaredella foresta, maricordo come

gravavano sulla miamente, il loro numeroterrificante e lavelocità a cui sisusseguivano.Bene, fu forsequesto

a dare inizio a tutto:quell’enorme faticafisica e quel terribilestato di ansia che lasottendeva.Nonmieramai passato per lamentecheavreipotutonon essere abbastanza

forte. Forse non avreimai dovuto separarmida Jim Long.All’imbrunireritrovailacalma e mi rimisi inviaggio, ma quellanotte fu tutto moltodiverso.Avevopersolafiducia nella miacapacità fisica diportare l’impresa acompimento. Per laprima volta in tutta lamiavitailmiocorposi

era rifiutato di farequalcosa che gli avevochiesto, e questaribellione midemoralizzava. Invecedi cercare dirisparmiare le forzecontinuavoperversamente adabusarne, e non c’ètanto da meravigliarsise finii per perdermi.Dovevodirigermiversonord, ma più di una

volta mi imbattei instrette gole e dirupichemi portarono fuoristrada,avagaredaunaparte all’altra in cercadipassaggipiùfacili;avoltescorgevounalucein una radura e alloratrovavo ancora ilcoraggio e ladeterminazione pertentare una faticosadeviazione, invece diandare dritto verso di

essaearrendermi.Lamemoriainiziavaa

confondersi; le radureormai erano il miounico punto diriferimento e nonricordavo più quantene avessi passate, nériuscivo a identificarlesullamappa.Consumaitutti i fiammiferi percercare diraccapezzarmi, ma eroin un tale stato di

esaurimento e diangoscia che potevo amalapena leggere,figuriamociragionare.Alla fine arrivai su

una pista sabbiosa,illuminata dalla luceforte e chiara dellaluna. Sembravapuntareanord-est,maquellastradacosìlisciae tranquilla e quellaluce, dopo il buio el’asperità della foresta,

furonopermeunataletentazione che nonpotei resistereall’impulso di seguirla.Nella sabbia c’eranoimpronte di carri e dizoccoli. Immaginai chela pista conducesse auna fattoria, ma ormainon me ne importavapiù nulla, e miincamminai.Poco a poco, ricordo,

lamiamentesifecepiù

calma, e senza dubbioper la facilità delcammino e del passopiù regolare caddi inuna specie diautomatismo.Cominciai con quelgiochino infantile diripetere qualcosa cheandasse a tempo con imiei passi: dapprimafrasi senza senso, poiversi. Conosci laballata della fanciulla

dai capelli colornocciola?Quattro versicontinuavano amartellarmi il cervello,tan, tan, tan, come icolpi sordi di unmotore chemi portavaDio solo sa quantolontano:

Per un banditoquestaèlalegge,essere preso e poilegato,

senza pietà venireimpiccatoe dondolare sullaforcaalvento.

È ancora unmistero,

per me, come sottoquel meccanicomartellare di versi ioriuscissi di tanto intanto a pensare ancheal loro significato,avvertendo in essi unastrana e nuova

emozione.Quell’accostamento dimessaalbandoepietà:non ci avevo mai fattocasoprima.L’uomocheaveva scritto quellaballata sapeva che ifuorilegge non sonoeroi romantici, e chevoglionosolopietà.Ah,la crudeltà dellacondannachetichiudein faccia le porte dellapietà dell’uomo

comune!Se quello stretto

sentiero mi avessecondottoaunafattoria,penso che mi sareiappoggiatoconlatestacontro la porta e avreiimplorato la pietà diquei contadini;manonportava a nessunaabitazioneumana.Solo moltissimo

tempo dopo sentii chele buie pareti della

foresta si stavanoallontanandodame.Mifermai e cominciai adaccorgermi che ilsentiero mi avevaportato in cima a unbasso e ampio crinaleprivodi alberi, copertoda un’erba pungenteche mi arrivava alginocchio. Mi sonospesso domandatoquanto,dellascenachevidi quella notte, fosse

reale. Posso diresoltanto quello che hosaputo in seguito... ocreduto di sapere. Soesattamente come imiei occhi lo viderodall’altra parte – seriesci a capirmi –, madarei tutto per poterricostruireprecisamente cosa vidicon la mia vera vista,quella che uso ora. Ilproblema è, immagino,

che durante quellanotte, a poco a poco,avevopersolaragione.La fatica e l’ansiaavevano portato alloscoperto l’incrinaturache c’era in me eavevano continuato adallargarla, finché,quando raggiunsiquell’aperto crinale, lafrattura nella miamente era completa. Equando la terra ti si

apre sotto i piedi, checos’è che decide daqualelatodevisaltare?La luna era

abbastanza luminosa.Mi sembrò di vedereuna lunga crestaerbosa che correva danord-ovest verso sud-est. L’erba non erastata brucata nécalpestata. Era grigia,sotto la luna, e lespighe bianche

sembravano spargeresu di essa un chiarorelattescente. La miapista era svanita. Miero reso conto che daun po’ non seguivo leimpronte dei carri, manon riuscivo aricordare doveavessero cambiatodirezione.Dovevo aver

proseguito fino a metàdi quell’ampio sentiero

– un sentierotagliafuoco, pensavo,ma non ne ero certo –prima di fermarmi,perché vedevo laforesta dall’altra partesvanire in lontananza,giù per quel nudocrinale. Ma nessunvero chiaro di luna,almeno in Europa,potevaessere talmentefortedapermettermidivedere così

distintamente queglialtri boschi: era comese li vedessi in unfresco e gioiosomattino d’estate, equegli alberi, ah...com’eranodiversi!Nonuna nera, monotonapineta,maunaverdeesplendente foresta diquerce, faggi, frassini,con delicati e candidifiori di biancospino.Era un tale contrasto:

come fra il giorno e lanotte, la libertà e laprigione, la vita e lamorte.Eguardandogiùriuscivo a scorgere,proprio sopra le cimedegli alberi più vicini,una piacevole e vastaradura, e in quellaradura il pallidoscintillio dell’acqua diun laghetto. Ancorauna volta fu unasofferenza rimettere in

moto le gambe; eracomese imieimuscolifossero diventati dipietra; mami mossi, escesi verso quelbagliored’acqua.Ma c’era anche

un’altra cosa, e dinuovo darei tutto persapere con quali occhila vidi; perché ancoraadesso dentro di menon sono convinto chela scossa che ricevetti

fossereale.Sosolochenotai qualcosa laggiù,nel tratto che miseparava da queiboschi invitanti,qualcosa che siscontrava conl’esperienza, unfenomeno che sarebbestato abbastanzabanaleinunsogno,manon del tuttoimpossibile nellarealtà. Mentre

scendevo zoppicandoper quel dolce pendiomisembròdipercepiredi fronte a me, nelchiaroredellaluna,unaluce più debole, unazona di tenueluminescenza che siestendeva su entrambii lati.Nondritta,comeil raggio di unriflettore, maleggermente ondulata,come se seguisse il

contorno del crinale.So che è incompatibileconle leggidellafisicache un chiarore cosìdebole potesse esserevisibile nella luce piùforte della luna, ma tigiuro che io lopercepivo. Ero forsegià stato bandito,dunque, non dallalegge degli uomini madaquelladellaNatura?Nulla avrebbe potuto

trattenermi dal tentaredi raggiungerequell’acqua, e dopo unprimo momento disofferenza nelrimettere il corpo inmovimento, ancorazoppicante, mi lanciaiinunacorsadisperata.Devo essere andatoavanti come un cieco,con le braccia tese, atentoni,perchéfunellemanicheavvertiiperla

prima volta la scossa.Unbrucioreviolentomiattraversò i polsi, poiunlamposipropagòintutte le mie ossa e siaprì la strada versol’alto fuoriuscendodalla sommità delcranio; i miei occhifurono trafitti da unaluce gialla e il miocorpo, ormai privo dipesoedicoesione,salìturbinando in una

spirale verso l’alto,come un gasnell’oscurità.

3

Il corpo, con tutte lesue limitazioni, èqualcosa di certo e dirassicurante a cuirestareaggrappati.Eropassato dall’altraparte, non c’è dubbio,ma ero ancora

consapevole di quelche c’era da questa.Non avevo ricordiprecisi, che riuscissi aisolare con parole oimmagini, capisci,come si ricordano gliavvenimenti dellasettimana scorsa, o diun giorno di un annofa,maero coscientediunprima,diaveravutouna storia intensa ecomplicata prima di

svegliarmi inquel lettopulito e confortevole.Eranostatelemiemaniaoltrepassare il varco,erano le mie, ne erocerto, e ora mifacevano un po’ male.Rimasi a guardarle,appoggiatesullenzuolodavanti a me,accuratamentebendateedeltuttoinutilizzabili,maamemoltocare.A parte il leggero

dolore alle mani,raramente mi erosentito così bene,tranquilloefisicamentea mio agio come quelmattino, quandoper laprimavoltacominciaiadomandarmi dove mitrovassi. Sapevo chenonerailprimogiornoche avevo ripresoconoscenza. Ero sicurodi trovarmi già datempo in quella stanza

ariosa e piena di luce,con quel profumo difiori che si mescolavaall’odore più tenue dimedicinali,disinfettanteeceraperpavimenti.Laportaelafinestra dipinte dibianco, le graziosetendine e i mobili inlegno chiaro, tutto miera familiare, ealtrettanto familiari mierano i volti delle due

infermiere. Ormaidovevaesseredamoltochesiprendevanocuradi me, ma quel giornosieracompletatoilmiograduale passaggiodalla percezionepassivaall’osservazioneattiva.Se non fosse stato

per quelle infermierecon l’uniforme, avreipensato di trovarmi inuna casa privata più

che in un ospedale: lastanza era linda eaccogliente, troppopoco anonima pertrovarsi nel reparto apagamento di unqualsiasi ospedale. Lestoviglie, i bicchieri, ipiatti e tutti glistrumenti che usavanonon avevano quell’ariaconsumata che questecose hanno di solitonegliospedali;eilcibo

era troppo buono.Unaleggera brezza entravadalla finestra apertaspostandoletendinedilato, e quando almattino l’infermieravenne a sistemarmiappoggiandomi aicuscini vidi le verdicime degli alberi e ilcielo azzurro, e pertutto il giorno, dalleprime luci fino a sera,miaccompagnòilcanto

assordante degliuccelli.Non potevo usare le

mani per mangiare;l’infermiera di giornomisminuzzavailciboemi imboccava con uncucchiaio; mi radeva,milavavaemifacevailbagno, il tutto consicurezza professionaleeserenacompetenza.Avevo abbastanza

esperienza di

infermiere da sapereche quelle due nonavrebbero soddisfattofacilmente la miacuriosità, ma quelmattino decisi dichiedere all’infermieradi giorno dove mitrovavo, einevitabilmente ottennila solita pronta escherzosa risposta: «Aletto!». Credo siaconsuetudine, tra le

infermiere di tutto ilmondo, ritenere che ilpiù elementareesercizio d’intelligenzadapartediunpazientepossa essere diintralcio al lorocompito, o in qualchemodo comprometterelaloroautorità.Inognicaso feci un altrotentativo e le chiesicomesichiamava.«Nonhaimportanza»

rispose. «Mi chiamisoltanto infermiera digiorno».Nonostante tutto

quella rispostami offrìqualcosa su cuilavorare. Parlavainglese: un ottimoinglese, ma conaccento tedesco. Equesto consolidava ilponte chemi riportavaa quell’altra spondaancora così confusa e

lontana.Cominciai a

ragionare partendodalle mie osservazioni,inmanieramoltocalmae metodica.Immaginavo,ovviamente, che cosapoteva essermisuccesso, ma questononmiallarmòinalcunmodo. Saltai allaconclusione, ma poi lamisi da parte, come

una possibilità chesarebbe stataconfermata o meno atempo debito. Eroconvinto che avreiavutounlungoperiododiozio,e l’impressionedi aver trascorsoparecchi giorni in unostato di semicoscienzaeracosìfortedaesserediventataunacertezza;inoltre avevo la provatangibile che doveva

essere trascorso unperiodo ancora piùlungo dall’incidente,perché il dolore allemani si era ridotto apocopiùdiunpruritoeadellefitteoccasionali,mentrel’unicacosachericordavo constraordinaria chiarezzaera l’intensità deldolore che avevoprovato nel toccarequella barriera

infernale, o qualunquealtra cosa fosse. Leustioni dovevanoessere state moltogravi: ora erano quasicompletamenteguarite,esolounlungointervallo di tempoavrebbe potutopermetterlo. Il giornodopo aver recuperatola mia capacità diosservazione, se cosìvogliamochiamarla,mi

guardai attentamentele mani mentrel’infermiera di giornocambiava la fasciatura.Erachiarocheavevanosubìto delle brutteustioni, ma stavanoguarendo molto bene.Le cicatrici in effettisvanironotutte inpocotempo, e ora non sivedepiùnulla.Questo, in ogni caso,

mi dette una qualche

misuradel tempo.Nonavendo grandicognizioni dimedicina,non potevo fare unastima esatta, ma ilbuonsensoeunpo’diesperienza misuggerirono chedovevano esserepassate almeno tre oquattrosettimane.E lostato dei miei piedi,quandoliesaminai,melo confermò: le

vesciche erano tuttesparite, e so più omeno quanto tempo civuole perché unavescicaguarisca.Capire dove mi

trovavo non fualtrettanto facile. Sequelluogoeraunacasadi cura, comesospettavo, non potevosperare che alle miedomande fossero daterisposte precise. Le

infermiere miavrebberorifilatolepiùassurde bugie. Perciòera meglio starmenebuono e tenere gliocchi ben aperti,lasciar scorrere senzafretta le lunghegiornate, e cercare dimettereinsiemeipochiesparsielementidicuidisponevo fino adarrivare a unaspiegazioneplausibile.

Naturalmentecominciai dalleinfermiere – o meglio,da quella di giorno.L’infermiera del turnodi notte la vedevo soloper pochi minuti dopoil tramonto e a volte,fugacemente, almattino presto, perchéla notte dormivoprofondamente e nonavevo mai bisogno dichiamarla.L’infermiera

digiorno,comedicevo,era chiaramentetedesca, e altrettantochiaramenteun’infermieradiplomata; eppure nonriuscivo a credere chefosse soloun’infermiera di unospedale militare ocivile. C’era qualcosache non quadrava inlei. La sua eccellentepadronanzadell’inglese

rivelava un’istruzionesuperiore a quella chenormalmente hanno leinfermiere,manonerasolo questo. Dopotuttoil mondo è pieno digente bilingue. Credochefosseilmodoincuiera vestita, troppoelegante, troppopersonale, come delresto quella stessastanza. Eraun’uniforme, è vero,

sobria e curata,dall’aria immacolata easettica,maallostessotempo era graziosa,portatacongustoeconil palese intento diapparire attraente:qualcosa che nessunospedale, neanche unaclinica privata, perquanto ne sapevo,avrebbemaipermesso.Inoltre era certo chenessuna infermiera, in

un istituto pubblico,avrebbe potutodedicarmiun’attenzione cosìcostante, o trattarmicon tantaconsiderazione – neilimiti della suaprofessione,naturalmente. Quelledue non sembravanoaffattosovraccarichedilavoro; in realtà mi fupresto chiaro che non

avevano altri pazientioltre me. L’infermieradi giorno potevapassare con me untempo illimitato, e nonmi era mai neanchecapitato di sentirsuonare uncampanello. Anzi, oltrealle voci delle mieinfermiere, con i loropassi felpati sulpavimento di legnolucidato a cera, e al

cantodegliuccellifuoridalla finestra, perqualche tempo nonsentii provenire alcunrumore dal mondoesterno.Pensochesiastato il

silenzio così innaturaledi quei primi giorni aconvincermi che mitrovavo in una clinicaper malattie mentali.Optai per questainterpretazioneedecisi

di scoprire, sepossibile, sempre conlo stesso metodo diosservazione ededuzione, come fossiarrivato lì e perchévenissi trattato comeun facoltoso pazienteinvece che come unprigioniero di guerra,perché, capisci, non sitrattava di una veraamnesia: eroperfettamente

cosciente di essere unufficiale della Marinabritannica, e miricordavo il mio nome,la mia nave e il miocampodiprigionia.Interrogare

l’infermieranonmieradi nessuna utilità,sebbeneciprovassicontutta la sottigliezza dicui ero capace. Nonerauntipotaciturno,eanzi aveva la singolare

qualità di apparirevivaceeciarlierasenzadi fatto dire nulla chenon riguardassestrettamente il suocompito di occuparsidelle mie necessitàfisiologiche.Unsolofattoemerse:

il nome di quel luogo,mi disse, eraHackelnberg. E questomi offrì materia diriflessione per un

giorno intero. Era unfatto concreto,soddisfacente, ma nonmi portò a nessunaconclusione, o meglio,mi portò soltanto a unaltro fatto, senzatuttavia darmene unaspiegazione. Scoprii,con mio grandepiacere, che se miconcentravointensamente riuscivoa ricordare, poco a

poco, l’intero disegnodellamappa che avevoricevuto dal Comitatoper le Evasioni, ementre me ne stavo lìsdraiato, cercando divisualizzarla a occhichiusi,verificaichenonci fosse nessun nomeche assomigliava aHackelnberg. A quantosembrava dovevoessermi allontanatoparecchio dall’Oflag

XXIXZ,piùdiquarantamiglia, cioè il raggiodellamappa.Cercare di scoprire

se l’infermiera digiorno sapeva che eroun prigioniero diguerra inglese sarebbestato inutile. Daquando avevo ripresoconoscenza avevosempre parlato ininglese,esenzadubbioanche quando ero in

coma.Ildottoredovevaaverlo detto allapolizia, gli ufficiali delcontrospionaggiodovevano avermiesaminato – me liimmaginavo, unacoppia di giovani SSche rovistavano fra lemiepochecose, lemiecarte, la mappa, labussola a bottone, cheavrebbero rivelato lorotutta lamia storia, per

poi conferire con ildottore e infineaccettare la suadiagnosi sul mio statomentaleeandarsene.Già, ma andarsene

lasciandomiallecuredichi?A chi appartenevaquel luogo? E perchéchilodirigevaoneeraproprietario avrebbedovuto curarmi eaccudirmi? Luoghisimili in genere non

sono gestiti dafilantropi. Continuai arimuginare su questedomande per ore, conl’unico risultato digettare un’ombra didubbio sulla miainizialeconvinzionechequel luogo fosse unaclinica psichiatrica. Secosì era, allora laspiegazione piùprobabile dovevaessere che il mio caso

presentava per ildottore un particolareinteresse,echedunquelui mi curava e miteneva lì per motivi dicuriosità scientifica.Ma ora dovevoprendere inconsiderazione i «se»:perché, se quella nonera una clinica, potevasoltanto essere la casadi qualche ricco ecompassionevole

eccentrico, che dovevaanche avere unconsiderevoleascendente sulleautorità; forse luistesso – o lei stessa –un invalido: questoavrebbe spiegato lapresenza di infermierequalificate e al tempostesso il loro aspettocosìpocoistituzionale.Ho detto di un

«ricco»; e in effetti

tutta l’atmosfera diquel luogo emanavaricchezza.Nella stanzanon c’era nulla ditrasandato, leinfermiere, per esserecosì eleganti e cosìcurate, dovevanoessere ben pagate,l’impeccabile puliziadel pavimento e labrillantezza dei mobilidi legnolucidatiaceralasciavano presumere

uno stuolo di servitori,e sapevo che leinfermiere non sioccupavano in alcunmodo delle pulizie. Inrealtà, sebbene non ciavessifattocasofinchénonavevocominciatoaragionare in quelmodo, sapevo chifacevalepulizie.Lo avevo visto varie

voltelamattinapresto;eraungiovanerobusto,

silenzioso, che se nestavainginocchiotuttointento a strofinare illucidopavimento.Dopoquello che definirei ilmiocompletorisveglio,lo osservai piùattentamente. Erafloridoebennutrito, esebbene il più dellevolte fosse giratodall’altraparte,dalmioletto ero riuscitooccasionalmenteadare

una rapida occhiata aisuoi lineamenti. Avevaun viso regolare einespressivo, capellicastaniaspazzolaegliocchi di un azzurropallido. Il suo corpomassiccio,ilmutismoelosguardobovino,unitia quella postura daquadrupede,glidavanol’aspettodiungrossoemiteanimaledomestico–unmanzoounbueda

aratro; e tutto questoera accentuato dalmodoincuieravestito,quel mattino presto incuimimisiaosservarlopiù attentamente. Nonavevacamicia,soltantodei pantaloni piuttostostretti di un tessutomarrone dall’ariaresistente, e ai piediaveva un buon paio discarpechesembravanofatte interamente di

gomma, o forse di unaqualche specie di fintapelle che non avevomai visto prima. Midavanol’impressionediesseresolide,comodeeflessibili.Quelmattino,mentre

l’infermiera non c’era,provai a parlargli, malui non prestòattenzione alle mieparole più di quantononloavrebbefattoun

bue. In ogni caso nonera difficile indovinarechi poteva essere. Untedesco della sua etànon sarebbe mai statoimpiegato comedomestico: loavrebbero arruolatonell’esercito omesso alavorare in unafabbrica di munizioni.In un istituto militaredi qualsiasi altra partedel mondo sarebbe

stato evidente chequello era unprigioniero di guerra.Maero inGermania, econoscevo bene ilsistema che i tedeschiusavano per reclutareschiavi dai paesioccupati e metterli adisposizione di datoridi lavoro privati. Queltipo era chiaramenteun prigioniero diguerra slavo, ora

adibito ai lavoridomestici, e avevaproprio l’aria delmužik.Osservare le sue

scarpe e la stoffa deisuoi pantaloni contanta attenzione mispinse a esaminareancheglialtritessutiemateriali che avevointorno, e mi trovai difronte a qualcosa chemisorprese.Nonposso

dire di saperne moltoinfattodi tessutinédiessermene maioccupato tanto in vitamia, ma quelli micolpirono per esseretutti estremamentebelli e costosi. Il miopigiama, per esempio,era di seta, o diqualchealtrastoffachenon riuscivo adistinguere dalla seta;le lenzuola erano del

lino più pregiato e ilcopriletto anch’esso diseta; i piatti in cuimangiavodiporcellanafinissima; e quanto alvetro – be’, osservai ilbicchiere, i flaconidelle medicine e glialtri oggetti sulcomodino e giunsi allaconclusione che nonerano di vetro, ma diun qualche mirabilemateriale plastico che

poteva esserefinemente tagliatocome il vetro ealtrettanto brillante,ma che erainfrangibile. Me neaccertai facendocadereperterraconlamia mano fasciata unodei più delicatirecipienticheeranosulmio comodino, e nonsubìalcundanno.Sonopiccolecoseche

colpiscono, la provaindiscutibile diun’industria altamentesviluppata, di ungrande benesserematerialechepermettealle persone dimantenere tutto il loroequipaggiamentodomestico semprenuovo e perfetto. Itedeschi naturalmenteerano rinomati nelcampo dell’industria

chimica, della plastica,deimaterialisinteticiecosì via, ma trovareunataleabbondanzadicose simili dopo quasiquattro anni di guerrami lasciavasconcertato.I mobili e il

pavimentodellastanza,inognicaso,noneranodi formica o laminato,madilegnonaturale,lecui venature avevano

tutta la bellezza e lavarietà della foresta. Illegnoerastatosceltoelavorato da personeche lo amavano.Cominciai ad avere lasensazione diconoscerequalcosadelproprietario di quelluogo a Hackelnberg.Doveva essere ricco,ovviamente, forse unantico Junker o uno diquei principi del

vecchio impero che inazisti avevanoritenuto opportunolasciare in pace; unoche non solo si potevapermettere dicomprare i miglioriprodotti industriali,mache aveva anche ilgustodicombinarliconil meglio dellaproduzione artigianaleche utilizzava solomaterialilocali.Doveva

essere un vero cultoredellaforesta.Bene, tutto questo,

potrestidire,erafruttotanto di deduzionequanto di fantasia.Senza dubbio SherlockHolmes, con gli indiziforniti da una stanza eda tre persone,avrebbe fatto dimeglio, ma posso direcon un certo orgoglioche, in linea generale,

quello che avevoimmaginatoeraesatto.La prima conferma

mi venne dalla fontepiù impensata:l’infermiera di notte, acui dicevo a malapenabuongiorno ebuonasera. Ma quelloche si lasciò sfuggireeraalquantostrano.Ho accennato che il

silenzio irreale cheregnava in quel luogo

era uno degli elementialla base delle miesupposizioni. E questosiaccordavaancheconl’altra ipoteticaspiegazione,ecioèchefossi ospite, un ospiteprigioniero sepreferisci, in una casadi campagna. Laproprietà dovevaessere ovviamentemolto estesa. Quantograndenonavevoidea,

perché anche quando,in assenza delleinfermiere,sgattaiolavo fuori dalletto emimettevo allafinestra,nonriuscivoavedere nulla inlontananza: gli alberiche costeggiavanol’edificio erano troppoalti, il fogliame troppofittoperpermettermidiscorgerequalcosaaldilà di quel verde

groviglio. Non sisentiva, in ogni caso,nessun rumore ditraffico, neppure il piùlontano suono diclacson, o il fischio diuna locomotiva. Nonsentii passarenemmeno un aereo, equesto,nellaGermaniadel 1943, mi sembròmolto strano. È anchevero che, datal’espansione che aveva

allora raggiunto, ilTerzo Reich era unpaese molto più vastodell’Inghilterra; e lepistediatterraggionondovevano esserenecessariamente cosìfitte sul suolo dellaGermania orientalecome lo erano a queltempo per esempionell’Inghilterraorientale. E supponevoche Hackelnberg fosse

abbastanza a est datrovarsi fuori dallaportata dei radar deinostri bombardieri;nella mia stanza nonc’erano tendeoscuranti, né era maistata presa alcunaprecauzioneperevitareche la luce uscisse, enei discorsi delleinfermiere nullalasciava trapelare chesapessero anche solo

lontanamente che laGermania era inguerra. Tutto questoera voluto,naturalmente: facevaparte del loro compitodi accudirmi evitandoargomenti cheavrebbero potutoagitarmi. Ogni voltache nominavo laguerra, l’infermiera digiorno faceva finta dinon capire, mi diceva

di smetterla diriempirmi la testa conquelle vecchie cosepassate e cercava diattirare la miaattenzionesuifiori.Poi, circa una

settimana dopo il miocompleto risveglio,cominciai a udirequalcosa. Le mie manierano quasi del tuttoguarite emi sentivo inottima forma. Volevo

alzarmi; stare tutto ilgiorno a lettocominciava adannoiarmi,eilrisultatoera che la notte nonriuscivo più a dormireprofondamente. Inprincipio pensai chequei suoni fosseroparte di un sogno,perché li sentii neldormiveglia; poi miriaddormentai,emenericordai soltanto al

mattino. Erano suonitalmente remoti eisolati, così lontani daquella vita chiusa ecircoscritta che sisvolgeva intorno ame.Erano le note di uncorno da caccia,suonate a lunghiintervalli, ognuna cosìsolitaria nel buio e nelsilenzio assoluto, comeun’unica vela su unvasto oceano. Mi era

capitato di sentire deisuoni di tromba nelbuio e nella solitudinedel mare, e una voltaavevo udito il corno diuncacciatoreinglese,eso bene quanto quellamusicapossaserrartiilcuorecomeunamorsa.Ma queste note eranodiverse.Nonriuscivoaimmaginarmi in qualescenario potevanoessere suonate,

riuscivo soltanto asentirne la profondamalinconia, e laselvaggia stranezza;parlavano attraverso iltorpore del miodormiveglia con undolore e una penadesolanti.Il ricordo di quel

suono così triste miaccompagnò a lungoper tutta quell’allegragiornata, e la notte

seguentemi ritrovai inascolto,completamentesveglio nell’oscurità,attendendoloe insiemesperando di nonsentirlo.Una notte lo sentii

anche prima diaddormentarmi.Questavolta non potevatrattarsi di un sogno.Era una notte chiara,conlalunaquasipiena,e soltanto qualche

piccola isola di nubibianche. Scivolai fuoridal letto e mi misi inascolto davanti allafinestra aperta. Unvento leggero giocavacon le note del corno,ora sollevandole fino ame, ora girando etrasportandolelontano;e quell’irrompere esvanire sembrava darealla loro musica unaqualità differente. La

tristezza e il dolorec’erano ancora, maadesso dominavaqualcosa di selvaggio.Sembrava che il cornovagabondasse per iboschi battendoliavanti e indietro,lanciando il suorichiamo come allaricerca di qualcosa,talvolta con incalzanteferocia, talvolta conuna lunga e trattenuta

notadisconfitta.Lanotteerapienadi

rumori, la forestainsonnecome l’oceano.Il vento squassava ifaggi fuori dallafinestra; gli albericonversavano in unamoltitudine di lingue;l’intera orchestra delbosco suonava, e ilcorno conduceva. Misembrava di sentireogni sorta di voci e di

strumenti in quellaselvaggiaconversazione, la miaimmaginazione potevatrasformare il gemitodei rami ondeggiantinel guaito di cani dacaccia, e l’improvviso,sonoro stormire dellefoglie cherabbrividivanoal ventonello scalpiccio dellaloro corsa. Rimasi lì alungo, in ascolto,

attentosopraognialtracosa al suono delcorno, e sentii unastrana agitazionemontare dentro me;non era più tristezzaquella che sentivo, maunostatodiangosciaedi apprensione, queldebilitante senso dipericolo che capita avolte di provare primadi capire da qualeparte e da quale arma

sièminacciati.Restai ancora in

ascolto finché il suonodel corno non fusvanito in lontananzaeil mio orecchio non fupiù in grado didistinguerlodall’irrequietomormorio degli alberi,poimiinfilaidinuovoalettoerestai lìa lungodisteso, guardando ilriquadro della finestra

illuminato dalla luna,ancora in attesa delsuono di quelle note;ma alla fine miaddormentai.Alle prime luci

dell’alba ero già fuoridal letto, strappato dicolpo al sonno dalsuono del cornofortissimo e vicino. Ilvento era caduto, laluna tramontata; lamattina era grigia e

silenziosa; ed ecco ilcorno risuonarearrogante nel lividochiarore dell’alba, conuna insistente nota ditrionfo.Mi sporsi dallafinestra cercando dipenetrare con losguardo oltre labarriera degli alberi;gli squilli si ripeteronopassando per i boschinon lontano dalla miafinestra, svanendo

chissà dove alla miadestra.Con la coda

dell’occhio intravidiuna formabiancanellapenombra della miastanzaesobbalzaidallapaura prima diriconoscerel’infermieradinotte.«Aletto!»sussurrò,e

il tono basso epressante della suavoce suonò più

perentorio di quantonon lo avessi maisentito.Venneavanti esifermòdandolespallealla finestra, come perimpedirmi di gettarmidisotto,enotaicheerasempre intenta adascoltare le spavaldeed esultanti note delcorno, che oraandavanoaffievolendosi mentresi inoltravano nella

foresta.«Che cos’è?»

domandai, dopo averleubbidito ed essermirimesso sotto lelenzuola.La sua risposta seria

edirettamigiunsedeltuttoinaspettata.«ÈilContechetorna

acasa».Era vero, ne ero

certo; per un attimoaveva dimenticato che

erounpazienteeavevalasciato che dalla suavoce trapelasse quelvago sgomento che iostessoavevoprovatolanotteprecedente.«Il Conte?»

domandai. «Chi è ilConte?».Siavvicinòeabbassò

losguardoversodime;potevo appenadistinguere i suoilineamenti nella luce

grigiastra che entravadallafinestra.Mormoròqualcosa in tedesco,poidisseininglese:«Il Conte Johann von

Hackelnberg».«E chi è?» insistei,

determinato a trarre ilmassimo da quellaopportunità,oracheleisembravaspaventataalpunto da trattarmicome una personasana. Ma esitò, e mi

scrutò ancora unmomento prima dirispondere, come se lamiadomandaleavessericordatochedopotuttonon ero una personanormale; ma alla finerispose:«È il Gran Maestro

delle Foreste delReich».«Davvero?» risposi.

«Pensavo che la caricafosse del maresciallo

Göring».Seavessipronunciato

ilnomedellamiagattasarebbe stata la stessacosa.Capiicheormaiilsuo momento disincerità era finito, edera tornata a fingereche ilmondo intorno anoinonesistesse–unafinzionechesupponevofacessepartedellamiaterapia.Sembrava molto

perplessa, e ripeté unpaiodivoltequelnomecon aria assente,pensandoevidentemente atutt’altro. Poi, con unosforzo, tornò alle sueattività e si rimise asistemarmiicuscini.«Venga, ora» ordinò.

«Deve dormire. Nondeve svegliarsi cosìpresto. Non le fabene». E rapidamente

uscìdallastanza.Riesaminai tutta la

faccenda alla luce delsole, con una certasoddisfazione.Finalmente avevo inmano qualcosa diconcreto. Non sapevoche Hermann Göringavesserinunciatoaunadelle sue cariche, maera più che probabileche all’Oflag XXIX Znonneavremmoavuto

notizia. L’unica cosacerta era che mitrovavoaessereospitedelGranMaestrodelleForeste, e questo misembrava spiegare piùcose di quante non nelasciasse inesplicate.Ma che bizzarropersonaggio dovevaesserequestoGrafvonHackelnberg, perandare a caccia nellaforesta al chiaro di

luna.Robadarompersiil collo, devo averpensato;poimiricordaile storie che siraccontano su certieccentrici inglesi delSettecento. Potevabenissimo non essereuna caccia quella cheavevo sentito, ma unacavalcata di ubriachi,unagazzarradigiovaninazistifradicidivino,eil vecchio Conte che li

incalzava con il suocorno. Era plausibile,ma non mi convincevadeltutto.Ilcornoavevasuonato troppo spesso,troppo a lungo, e unabanda sfrenata digiovani ubriachi nonavrebbe potutoprovocarenell’infermiera unsimile turbamento; ilsuono di quel cornoche tornava a casa le

era familiare; avevapaura di qualcosa checonoscevamoltobene.

4

L’infermieradigiornoentrò indaffarataportando la colazione,e nei suoi modi notaisubito un nettocambiamento. Avevaun’aria tesa, altezzosae intollerabilmente

autoritaria, e non fuiper niente sorpresoquando, dopo averportato via il vassoio erimesso a posto inmaniera impeccabilegli oggetti sul miocomodino,miannunciòche stava arrivando ildottore. L’importanzaesagerata cheattribuiva a quellavisitamiinnervosì,ma,poco prima del suo

arrivo, quasi percompensarmi di queimodi bruschi, mi disseinconfidenzache,se ildottore fosse rimastosoddisfatto della visita,mi avrebbe fattoalzare. Mi lavò e misbarbò, mi cambiò ilpigiamaerifeceilletto.Lastanza,giàsenzaungranello di polvere,venne di nuovospolverata, furono

portatideifiorifreschi,e il pavimentosplendente fuulteriormente lucidatodal corpulentoservitore,chesimiseallavoro puntuale comeun orologio. Infinel’infermierami tolse lebende dalle mani,preparò losterilizzatore e varialtri strumentiluccicanti,equandoda

fuori si sentì unleggerorumoredipassiscattò sull’attenti aipiedidelmioletto.Il dottore entrò

canticchiando unallegromotivetto,detteuna rapida occhiataalla stanza e si rivolseall’infermiera, chesembravacongelatasulposto,conunosguardovitreo negli occhi.Avevo visto delle

infermiere, inInghilterra, eccederecon i loro «sissignore-nossignore» davanti aun chirurgo, e avevoavuto modo diconoscere un po’ delladisciplina germanica,ma questa le superavatutteinprussianità.Untimoniere che rispondea un ammiragliodurantel’ispezionenonera nulla in confronto

all’infermieradigiorno;sembrava fredda erigida comeuna figuradivetro,elesuerapiderisposte schioccavanocome colpi di frusta. Ildottore, invece, nonaveva affatto l’ariadell’ufficiale: anzichérestare in piedi si eramesso comodamenteseduto, e mentreinterrogaval’infermiera, la

squadrava pigramentedalla testaaipiedi,piùinteressato alle sueforme e al suoabbigliamento che aquello che gli diceva.Era un uomo giovane,con un viso slavato eun’aria abbastanzaintelligente,maconunche di vizioso eautoritario.Portavadeipantalonibianchieunacamicia di seta color

crema, e aveva unfoularddaicolorivivaciannodato connoncuranza intorno alcollo. A guardarlo sipotevaimmaginarecheavesse appena lasciatola racchetta da tennisfuoridallaporta.Dopoaverascoltatoil

resocontodell’infermiera e datoun’occhiataalla tabelladella temperatura,

venne avanti e miguardò aggrottandoper un attimo lesopracciglia,poiscossela testa con un certocompiacimento. Lavisita fu sbrigativa; miauscultò il cuore, sentìil polso, mi sollevò lepalpebre ed esaminògli occhi, e dopoun’ultima attentaosservazione delle miemani si raddrizzò e

disse in un ottimoinglese:«Adesso si può

alzare. Venga a faredue chiacchiere nelmioufficio».Nonappenaildottore

fuuscitol’infermierasiscongelò, e per ilsollievo di aversuperato la provadivenne quasiespansiva. Mi portòuna sontuosa vestaglia

dibroccatoeunpaiodipantofole, della stessamorbida pelle sinteticadelle scarpe che avevovisto addosso alservitoreslavo.Per quanto bene mi

sentissi, le mieginocchia,naturalmente, eranoancora molto debolidopo una così lungadegenza,efuilietochel’infermiera mi offrisse

ilbraccio.Eralaprimavolta che uscivo dallamia stanza e dovettisforzarmiperfrenareildesiderio di guardarmiintorno. Ma potei daresoltanto una rapidaocchiata, perché lostudio del dottore eramolto vicino, bastavaattraversare un’ampiaveranda. Tuttavia,riuscii a vedere che lamia stanza si trovava

all’angolo di unospazioso edificio dilegno a un piano, chepoggiava su un’altabase di mattoni. Laforesta arrivava moltovicino; non c’era ungiardino, soltanto iprati che crescevanonelleradure.Lastanzadeldottore

era più ombreggiatadagli alberi rispettoallamia.Vientravauna

luce verdastra, ma ilbiancodelleparetie lalucentezzadeimobililafacevano apparireluminosa. Era una viadimezzotraunostudioe un ambulatorio; allepareti si alternavanolibrerie e armadiettiper gli strumenti, e alcentro c’eraungrandetavolo di legno. Ildottore mi feceaccomodare in una

poltrona accanto allascrivaniaefeceruotarelasuasediainmododaavermi di fronte,congedandol’infermiera con uncenno.Quella mattina credo

di aver parlato moltopiù di quanto unprigioniero di guerranon dovrebbe. Dopoaver sopportato ilfrustrante

atteggiamento delleinfermiere, checontinuavano adassecondarmi come sifaconunmatto,eraungrande sollievoparlarecon qualcuno che,almenoapparentemente,sembravaconsiderarmiunapersonanormaleesana di mente. Senzadubbio fu ingenuo daparte mia, ma non mi

passòperlatestacheildottore miincoraggiasseaparlarealloscopodistudiarmi;credetti soltanto cheavesse voglia di fareuna chiacchierata. Midava l’impressione diannoiarsi, e che glifacessepiacereparlarecon un estraneo. Nonpensai a quante cosepotevagiàsaperesudime. Non so quante

norme di sicurezzaviolai, ma con il suoincoraggiamento, estimolato dal suointeresse, gli raccontaituttalastoriadellamiafuga, nascondendoglisoltanto che Jim Longera fuggito insieme ame. Mentre parlavo,faceva degliscarabocchi con unamatita su un taccuinoche aveva davanti, ma

senza prendereappunti. Poi, quandoebbi finito, mi fissò alungo. Fu soltantoallora, credo, quandotornaiaguardarlonegliocchi,chemiresicontoche c’era qualcosa dicalcolato nel suocomportamento,qualcosa di piùcomplesso eingannevole di quantononavessi inizialmente

creduto.«Senta,» dissi senza

riflettere «perché nonmi consegna allapolizia?Hoammessodiessere un prigionieroinglese».«La polizia?» replicò

con aria pensierosa.«Non è necessario. IlGran Maestro hagiurisdizione sulleforestedelReich».«Ma io sono un

prigioniero di guerra»insistei.«Dovreiesseresottoposto alla leggemilitare».«Ja, ja» disse.

«Capisco. Ma non c’èfretta.Primadobbiamorimetterlainsesto».Mi resi conto con

rabbia che aveva lostesso atteggiamentodelleinfermiere,quellochedisolitosiusaconi matti, e dissi in tono

disfida:«Leipensache io sia

pazzo,vero?».«Mio caro amico,»

rispose, e qualcosa miurtòneltonodisinvoltocon cui pronunciòquella frase col suoaccento tedesco «miocaro amico, non pensoaffatto che lei siapazzo. Del resto nonavrebbe moltaimportanza per me, se

lei lo fosse. Il suocasomihainteressatodaunpunto di vista clinico.Lei è stato colpito dairaggiBohlen.Ingeneresono fatali, ma lei hareagito bene alla miacura. E questo mirallegra.Dalmiopuntovista lei è guarito. Habisogno soltanto di unpo’ di tempo e diesercizio fisico perrecuperare

completamente l’usodeimuscoli».«In ogni caso pensa

che io sia unosquilibrato» insistei.«Anche se non leinteressa, lei è pursempreunmedico;esaquandounoèpazzo.Iolosono?».Guardò fuori dalla

finestra, storcendo lelabbra come setrovasse la mia

domanda fuori luogo osenza possibilità dirisposta. Poi, con tonoannoiato e sbrigativo,disse:«Deve esserci stata

senz’altro qualcheinterferenza cerebrale.Un’amnesiatemporanea sarebbedel tutto normale, e cisipotrebberoaspettareanche delleallucinazioni. Nel suo

caso sembra simanifestino nellaconvinzionedivivereinun periodo storicoprecedente. Immaginocheleiabbialettomoltilibri di storia, sullaGuerra dei DirittiGermanici e così via,nonèvero?».«Di storia?» dissi

sbigottito.«Sì...».Mi interruppe, con

l’aria di non dare peso

alla cosa: «Non mipreoccuperei,passerà». Mi guardòcon quella stessaespressione diindolenteapprezzamento con cuiaveva squadratol’infermiera,interessato soltanto almio stato fisico. «Ecosa importa, poi, senon passa?» domandò.«Lei ha riacquistato

l’uso del suo corpo. Edubito che qui troveràqualcuno che siaparticolarmenteinteressato alla suamente».Ancheseormaiavevo

capito quanto fosseillusoria la sua inizialecordialità, la brutalitàdi questa osservazionemi colpì. Per quantofossi sconcertato eallarmato per quello

che aveva detto aproposito delle mieallucinazioni, dentro dimeeroancoraconvintodi essere sano dimente, e decisi direagireconcalma.«Dottore, non sono

così presuntuoso dapensare che la miamente possainteressare qualcunooltre me, ma vorreiringraziarlaperessersi

preso tanta cura delmio corpo; adesso misento bene, la miaunicapreoccupazioneèsapere che cosa leiintenda fare di questomio corpo, ora che loha riparato. Verròtrattato come unprigioniero di guerra ono?».Mise i gomiti sul

tavolo, poggiando ilmento sulle mani

incrociate, e inarcò lesopracciglia,guardandomi conun’espressioneinquietante estranamentecompiaciuta.«Lei mi è simpatico,

lo sa?» disse. «Trovogradevole conversareconlei.Ecredochesiaanche un buonascoltatore; saràun’ottima cosa per me

esercitareunpo’ilmioinglese. Non ho laminima idea di cosaintenda fare di lei ilGraf,maqui, inquestomio piccolo ospedale,io sono il Führer – equesto,nel caso la suaepoca non arrivassefino ai nostri giorni,significa Dio –, e dalmomento chemi piacela sua compagnia, faròdituttopertenerlaqui

ilpiùalungopossibile.Lei non ha idea diquanto possa esseredeprimente per unintellettuale solitariocome me trovarsicircondato soltanto dasportivi e da schiavi.Sono certo che lei mispingeràafareungrannumerodi osservazionisu questo istituto efortunatamentelasua–ehm – infermità mi

permetterà diesprimerle restandorelativamentealsicuro.Potrà tenere la suacamera finché non neavrò bisogno per unaltro paziente, ma lapregodionorarelamiatavola. Cercherò dimostrarle qualcosa diquesta tenuta, quandonecapiteràl’occasione,ma devo metterla inguardia: non vada in

giro da solo,soprattuttodinotte.Miaddolorerebbe moltoche il mio primopaziente guarito consuccesso dagli effettidei raggi Bohlenvenisse dissezionato inmodo così pocoprofessionale dai canidacacciadelGraf,odaun’altra di quellecreaturechealleva».Si alzò in piedi, e

venendo rapidamentedalla mia parte midette una pacca sullaspalla sorridendomicordialmente.«Coraggio, Herr

tenente, accetti il fatodella guerra come unsoldato di quei tempieroici in cui vive, econdivida un piatto dicacciagione e unabottiglia di bordeauxcon il suo nemico, alle

dodici e trenta inpunto. Ach,dimenticavo!»esclamò.«Devo trovarlequalcosadamettersi. Isuoi vestiti devonoessere finitinell’inceneritore».Si chinò e parlò a

bassa voce in unpiccolo apparecchioche aveva sullascrivania. Mentre eraoccupato,mialzaiemi

misi a guardare ilbell’orologio elettricochestavasullalibreria,e che il dottore avevaindicato invitandomi apranzo. Era unmagnifico strumento,composto di unorologio, untermometro e unbarometro,echeinpiùaveva delle cifrecollocate in piccoleaperture illuminate di

cui sul momento nonriuscii a interpretare ilsignificato. Poi capiiche una dellecombinazioni dovevaindicare il giorno delmese. Evidentementeera il ventisette diluglio. Ma sotto,isolato,c’era ilnumero102.Mentre continuavo a

fissarlo, il dottore siavvicinò.

«Allora,» disse «lepiace il miocronometro? Comeufficiale dell’anticaMarina britannicadovrebbe interessarla.Checos’è che la lasciaperplesso?».Indicaiilpiccolo102.«Ach, ja» disse. «C’è

anche l’anno. Alquantosuperfluo,direi».«L’anno?» ripetei

fissandolo.

Gettòindietrolatestae scoppiò in unafragorosa risata; poi siscusò con esageratacortesia.«Ahimè, è difficile

accordarsi quando duepersone vivonocontemporaneamenteinduesecolidiversi.Miperdoni, devoinformarla –naturalmente solo percomodità – che io

aderisco allaconvenzionesecondolaquale noi viviamonell’annocentoduesimodel primo millenniogermanico, comestabilito dal nostroprimo Führer eimmortale Spirito delGermanesimo, AdolfHitler».

5

Ancora oggi nonriesco a spiegarmicome sia riuscito arestare cosìimperturbabilmenteconvinto della miasalute mentale, pertutto il tempo che

rimasi a Hackelnberg.Forse ci riusciioperando una sorta disospensione delgiudizio: mi trovavoimmerso in un insiemedi strane circostanze,delle quali non ero ingrado di darminell’immediato unaspiegazionesoddisfacente, masapevo che unaspiegazione doveva

esserci, e sentivo chealla fine l’avrei trovatagrazieal ragionamentoe a un’osservazionepaziente. Sentivodentrodimeun’infinitariserva di pazienza.Forse era un’ereditàdelcampodiprigionia:senza pazienza non sipuò progettare erealizzare lo scavo diun tunnel. Eppure èsorprendente con

quanta facilità ioabbiaperso di vista tutta laquestione cronologica.Il dottore era convintodi vivere un centinaiodiannidopo laguerra,iodistarci inmezzo: iltempo avrebbemostrato chi di noiaveva ragione. Iltempo, sì,ma anche lospazio. Se solo avessipotutoandareunpo’ingiro e vedere gli altri

abitanti diHackelnberg, avreisubito saputo comestavanolecose.Tuttavia, ragionavo

dentro di me, anchesupponendo che ildottoreavesseragione,questononprovavacheio fossi pazzo. Ildottore pensava chesoffrissi di innocueallucinazioni, ma forsec’era un’altra

spiegazione: nonpoteva il mio stato diincoscienza esseredurato un secolo? Nonpotevo aver dormitoper cento anni nellaforesta ora chiamataHackelnberg come RipVan Winkle sullemontagne di Catskill?D’accordo,probabilmentemi diraiche, se riuscivo aconsiderareseriamente

questa spiegazione,non c’era dubbio sulmio stato mentale. Mache cosa può pensareun uomo quando sisente così bene, cosìsano ed equilibrato, esoprattutto quando isuoi sensi funzionanoin modo così perfettoed è così pieno diinteresse per tuttoquelloche locirconda?Mai, in vita mia, ero

stato così deciso aosservare e amemorizzare tuttoquellochevedevo.E ticonfesso che il ricordodi quello che vidi aHackelnberg, di quelloche provai e feciquando ero lì, è moltopiù vivo e reale nellamia mente di qualsiasialtra parte della miavita.Tutto era così vero e

– per quanto possasembrarebizzarrovistoquellocheèaccaduto–cosìintrigante.Non voglio dire che

tutte le mie scopertefurono piacevoli.Nienteaffatto.Anzi,nesarei rimasto sconvoltose avessi continuato afare avanti e indietroper quello scartotemporale, se cosìposso chiamarlo, e a

guardare tutto con gliocchidel1943.Manonlo feci. Accettai lastoria degli ultimicento anni così comeveniva raccontata aHackelnberg, e piùtardimiconvinsichelafuga non era avvenutanel tempo, ma nellospazio. Ilproblemaeraattraversare di nuovoquella barriera diraggi.

Dopotutto, a essereonesti, chi, a metà del1943, avrebbe potutobiasimare un poverotenente della Marinamilitare britannica peraver in cuor suoaccettato l’idea che laGermania avrebbevintolaguerra?Pernoiche eravamo chiusi inquelcampodiprigioniaera come se l’avessegià vinta. E se l’aveva

vinta e quella vittoriaera consolidata da uncentinaio d’anni, allorai nazisti dovevanoessere letteralmente isignori del mondo. E icapi nazisti, come tuttisapevamo, avevano lastoffa dei piùincredibili tiranni, lecui dispotichestravaganze, se ilmondofossestatoloro,avrebbero fatto

apparire gli annalidegli imperatoriromani e dei khanmongoli come registriparrocchiali.Purtroppo, se si

guardano le cose daquesto punto di vista,ero finito in unaregione isolatadell’Impero germanico,una riserva privatadalla quale non avevoalcuna possibilità di

vedere che cosa fosseaccaduto al resto delmondo. Potevosolamente immaginarel’immenso, assolutopoteredeisignoridellaRazzasuperiore.Ufficialmente ero il

prigioniero-paziente –ospite, preferivachiamarmi lui – delloHerr Professor DoktorWolf von Eichbrunn,ma non avevo dubbi

cheallafineadisporredella mia personasarebbe stato il GranMaestro delle Foreste,il Conte Johann vonHackelnberg. Non mipiaceva il modo in cuitutto il personaledell’ospedaleabbassava la voce eassumeva un’ariavagamente servile nonappena venivapronunciatoilnomedel

Conte. E mi tornavanoin mente le parolesussurrate con tono diterrore dall’infermieradi notte, quando miaveva sorpreso adascoltare il suono delcorno.Soltanto il dottore

sembrava parlare condisinvoltura del GranMaestro delle Foreste,ma dietro quella suaostentata superiorità

coglievo un profondodisagio, e quando siprendeva gioco dellarigidadisciplinacheluistesso imponeva nelproprio ospedale,attribuendone la colpaal sistema, la suaipocrisia diventavapalese. Presto, quandoero a tavola con lui,iniziai a fare sempremeno caso alle suesaccenti osservazioni,

concentrando la miaattenzione sulpersonale. Avevoscoperto che solo lametà delle ragazzeerano infermiere,mentre le altre seierano semplicicameriere, sebbenefosse difficile capirequale lavoro dovesserosvolgere, a parteservire a tavola, dalmomento che in quel

luogoc’eraalmenounadozzina di uomini –tutti giovani estraordinariamentesimilipercorporaturaeaspettoaquel tipochefaceva le pulizie nellamiastanza.Duediloroportavano i piatti dallacucina alla sala dapranzo del dottore epoi restavano in piedidavanti alla credenza,mentre due cameriere

prendevano il loroposto e ci servivano atavola. Gli uominierano sempre a torsonudo, e così poteiosservare i loro corpilisci e ben nutriti; ipantaloni della livrea,di stoffa verde omarrone, erano cosìaderenti da modellarefianchi e gambe; siaveva l’impressioneche avessero tutti

tendenza a ingrassare,e che fosseromantenuti in formasoltanto grazie a unabuona dose di durolavoro, anche senessuno di lorodimostrava più diventidue anni. Tutti,notai, portavano unsottileelucentecollaredi metallo intorno alcollo.«Sono più economici

delle macchine» fu ilcommento del dottore,quando dissi qualcosasu di loro. «E poi ilGraf è contrario allameccanizzazione. Puòtollerarla al massimonelle armi didistruzione, mapreferisce darmi treschiavipiuttostocheunaspirapolvere».«Chi sono? Da dove

vengono?»domandai.

«Slavi, suppongo»disse scrollando lespalle. «Non mi sonomai interessato moltoalla loro provenienza.Perquantomiriguardanon sono altro cheesemplari diun’indifferenziatarazzainferiore.Oggivengonoallevati su larga scalanel Gau della Russiameridionale. Presumocheilpiccolointervallo

che la separa dalnostro mondo l’abbialasciataall’oscurodellescoperte di Wesslersulla fecondazionemeccanica, esull’applicazione delmetodo Röder-Schwabper l’accelerazionedello sviluppo. È bello,noncrede,pensarecheil padre di questi duemanzi sia lo stessopezzodifilodirame.E

quanti anni crede cheabbiano?».Circa ventidue,

pensavo.«Non più di quindici,

probabilmente dodici.Bambini precoci, noncrede? Mafortunatamente, direi,la loro precocità èsoltantofisica».«Adireilverononso

se sarei così felice diavere al mio servizio

dodici bestioni con ilcervello di unbambino»osservai.Il dottore ridacchiò.

«Oh, ma alcuneprecauzioni fisichevengono prese, e coltempo, non ne dubito,verranno prodotti solocon gli organistrettamentenecessari;per il momento gliallevatori asportanosubito dopo la nascita

solo quelli chepotrebbero creare lorodeiproblemi.Hanotatoche non parlano? IlGrafritienechesiapiùpratico sottoporli a unpiccolo intervento allecorde vocali prima diprenderli».Spostai lo sguardo

dai servi alle dueragazze in eleganteuniforme verde ebianca che ci

servivano, e chiesi seanche loro erano delleschiave.«No di certo!»

rispose, guardandolecon orgoglio. «Purarazza germanica. IlGraf fa uso di molteschiave, ma io nonvorreiaverletraipiedi.Se si educano bene lebambine tedesche, ladisciplina è un fattoautomatico: qualora

una ragazzatrasgredisca a unaregola, le altreimmediatamente ladenunciano.Selbstzüchtigung!1 Disolito è la stessacolpevole la prima adenunciare il proprioerrore e a proporre lagiusta punizione».Passò lo sguardo sulledue linde, giovani

cameriere, e quasiavesse l’acquolina inbocca aggiunsecompiaciuto: «E poinon sono così ingenueda proporre troppopoco!».Più vivevo in quel

luogocuratoeasettico,in quell’atmosfera dischiavitù cosìrigidamentedisciplinata, più lacaccia notturna del

Conte, nella suaeccentricità, miattirava. Di tanto intanto sentivo ancora ilsuo corno nei boschi emi lasciava semprequello strano senso diinquietudine e di vagaapprensione;ma finoaquel momento nonavevo visto traccia dilui o della sua corte.Sapevo, dalle miequotidiane passeggiate

con una delleinfermiere intornoall’edificiodell’ospedale, che loSchloss, come lochiamavano, si trovavaverso nord, poco al dilà degli alberi, mapoiché non mi erapermesso di uscire dasolo, ovvero senzaavere intorno uno diqueglischiavimutichemi controllavano a

vista, non feci alcuntentativo diattraversare la cinturadelbosco:ildottoremiaveva detto che cosasarebbe successo allaragazza se mi avessepersodivista.Il massimo che potei

fare fu di protestarecon von Eichbrunndicendo che quelmotocosì limitato per menon era sufficiente.

Ribatté cheeraquantone faceva lui. Ma eraun tale tormentoavereunacosìgrandeforestaa portata di mano edessere privato dellalibertà di andarci cheinsistei finché ungiorno, dopo avermiascoltato perl’ennesima volta confastidioeimpazienza,ildottoresirassegnò.«Capisco» disse «che

se non soddisfo la suacuriosità lei finirà perfare qualche grossastupidaggine, comecercare di fuggirseneda solo. Immagino cheabbiainmentequalcheromantica eavventurosa storiaanglosassone, non èvero? E se è così nonposso certo aspettarmiche la trattenga quelsuo senso di cavalleria

d’altri tempi verso lemie Mädel, né unqualcheriguardoperlasua pelle. Bene, sel’unica cosa che puòsoddisfarla è vedereHans von Hackelnbergsarà meglio che io laaccompagni alloSchloss.Megliochesialei, amico mio,» dissescandendo le parolecon grande enfasi«meglio che sia lei a

vedere lui, che non luiavederelei».Mentre pronunciava

queste ultime parolericordo che rovesciò ilvino – un bordeauxrosso–emisembròungesto deliberato.Poteva essere unalibagione, unapreghiera agli dèiperché siinterponesserotraluieunapotenzamalefica;o

un gesto teatrale, unespediente retoricosulla cui efficacia nonpotevo ingannarmi,mentre fissavo quellarossa pozza cheluccicava sul legno inmezzoanoi.Unadellecameriere la asciugòsubito con untovagliolo e lui spinseindietrolasediaconunsorrisoimbarazzato.«Ach, bene» disse

dopounapausa,conuntono più leggero eamichevole.«Organizzerò io lacosa.Ja,lefaròsapere.Dopodomani il Conteospiterà il Gauleiter diGuascogna e alcunisuoi amici.Farannoungiro nella foresta eandranno un po’ acaccia. Lo Schlossresterà vuoto per tuttala mattina. Ja, posso

mostrarle lo Schloss, eforse anche dellaselvaggina;sonosicurocheleinonhamaivistoselvagginacomequellacheilConteriservaperi suoi ospiti. E piùtardi, forse – ma badibene, non glieloprometto –, le lasceròdare un’occhiata aHans von Hackelnbergnelsuopalazzo».

1. Autocorrezione[N.d.T.].

6

Von Eichbrunnmantenne la parola.Due mattine dopo fuisvegliato molto presto,e prima ancora cheavessi finito diindossare gli abiti chemi aveva mandato per

il nostro giro nellaforesta, lo sentiichiamare dallaveranda. Era un belmattino fresco, e ilprofumo dolce epungente della forestaera inebriante. Quellanottenonavevosentitoil suono dei corni; ilmio sonno era statoininterrotto e senzasogni, e ora il cantosonoro degli uccelli, il

fremito dei boschi chesi risvegliavano e laluce che battevasempre più forte sullefoglie, sui tronchi e leradure erbose midavano un senso dieuforia.La tenutadeldottore

consistevainunpaiodipantaloni aderentiverde scuro con unlargo gallone dorato,stivali bassi di un

materialesimileapellescamosciata e un giletchesembravadidaino,riccamente guarnito dialamari e oro. Portavaun cappello di vellutoverde con una vistosapiuma di airone, eappeso alla cinturaavevaunlungospadinoda caccia conl’impugnatura inavorio. Il completo chemi aveva prestato era

dello stesso tipo, masenzaleguarniture.Miguidòlungounodi

quei sentieriserpeggianti che sisnodavanodall’ospedale, e notaiche ci aveva fattoseguire da dueservitori slavi. Nonavevamo percorso piùdi un quarto di miglio,quando scorgemmo iprimi edifici dello

Schloss. È difficile perme descrivere quelluogo, perché non neebbi mai una visioned’insieme. In effettisarebbe statoimpossibilevederloperintero, perché laforesta non solo glicresceva tutto intorno,madentroicortilieneivialetti,equaelàglisiinarcava sopra comeuna tenda. Era ben

lontano dall’essere ilcastello che mi eroimmaginato. Gli edificierano tutti bassi,costruiti per metà ointeramenteinlegno,ediformeestremamenteirregolari, come se gliarchitetti fossero statiobbligati a nonabbattere un soloalbero,maal contrarioa adattare i loroprogetti alla forma e

alla posizione delleradure e di tutti glialtri spazi aperti delluogo. E in certi puntienormi faggi o querceerano letteralmenteinglobati nellastrutturadegliedifici,epiccole stanze etorrette erano stateprogettate comefosseronidiinmezzoailororamirigogliosi.Qualcosa di strano e

segreto emanava daquel luogo in quelleprime, silenziose oredel mattino. Non erasoltanto perché in girononc’eraanimaviva:aquesto ero preparato.Penso piuttosto chel’aspetto austero,curato e luminosodell’ospedalemiavessefatto immaginare chelo Schloss fossequalcosa di simile, e

invece mi trovai difronte a una sorta dicapricciomedioevale,auna contorta eindecifrabilefantasmagoria.Gli edifici bassi e

irregolari, con i lorotetti spioventi e gliabbaini, lesporgenzeele nicchie, le stranefinestre e le porteincassate, sembravanoessersi insinuati

spontaneamente fraglialberi alla ricerca diombraedipace, comeanimaliselvatici.Eranovere e proprieabitazioni silvestri, edalle travi alle assi,dallacalceall’intonaco,daibasamentidipietraai gradini davanti alleporte, tutto provenivadallaterracheavevanointorno. Facevanoparte della foresta

come un teepeeirochese o la capannadiunselvaggio;eppurenon avevano nulla dirudimentale. C’eraqualcosa di moltoingegnoso nellamaniera in cui eranocostruite, nella lorosconcertanteirregolarità; il loromodo di fuggire, percosì dire, daproporzioni e schemi

abituali, aveva in séuna destrezza e unamaestria gotiche.Penetrammo in undedalo di cortili estrettisentieriricopertidimuschioediciottoli,avanzando in punta dipiedi lungo corridoirivestiti di pannelli egallerie di legno diquercia, mentrecresceva dentro di mel’impressione di

attraversarefurtivamenteunpiccoloe sperduto borgotedesco del Medioevoche la foresta avevaricoperto, ma che iltempomiracolosamenteavevapreservatodallarovina.Von Eichbrunn

parlavapocoeabassavoce, rispondendo soload alcune delle miedomande,e limitandosi

apoche,conciseparoledi spiegazione mentremi mostrava leabitazioni, i dormitori,le cucine, i canili e lescuderie. Mi sarebbepiaciuto fermarmi aguardare i cavalli e ibracchi, le carrozzenelle rimesse e lerastrelliere con leantiche armi e gliequipaggiamenti dacacciachesitrovavano

in alcune gallerie, malui mi metteva fretta,ansioso, pensavo, ditornare all’aperto,semprecheunaforestapossaconsiderarsitale.Potei soltantoconstatare che il GranMaestro delle Forestedel Reich possedevaunanotevolevarietàdicanidacaccia:unmutadicanidacervobianchie neri della razza

francese di Saint-Hubert, dei segugi edelle grosse bestiecomegli alani dal pelocorto e striato,straordinariamenteforti e feroci cometigri, che al nostropassaggio siavventarono contro lesbarre del canileringhiandoselvaggiamente. Nonavevo mai visto una

simile malvagità, unatale determinazione adattaccare, nemmenonei cani-poliziotto chele sentinelle tenevanonel nostro campo diprigionia.Il dottore si

mantenne il piùpossibile alla largadalle loro zanne e dailoro occhi chiari eferoci. La furia cheavevamo attirato su di

noi sembrava averloinnervosito a tal puntoda fargli perdere lastrada. Superate legabbie degli alani,eravamo sbucati in uncortiletto oscurato dalfogliame degli alberisovrastanti,dalqualesidiramavano diversipiccoli passaggi bui.Von Eichbrunn tornòindietro, esitando suquale prendere, poi si

voltò e fece un cennointerrogativoaunodeiservi che ci avevanoseguito. Ma prima chel’altro avesse il tempodi rispondere, da unodei passaggi una voceimperiosa ci intimò difarci riconoscere. VonEichbrunn ebbe unsussulto, poi, con unsorriso forzato, siprecipitò in quelladirezione,

trascinandomi con sé.Subito dopo, varcataunaporta,entròinunalunga stanza luminosa,con una finestra chedava sul cortile cheavevamo appenalasciato, mentre lealtre,postepiù inalto,lasciavano intravedereil cielo azzurroattraversolecimedeglialberi.Vidichequellocheci

aveva intimato difermarci era ungiovane vestito più omeno come il dottore,fatta eccezione per ilgilet, che avevapoggiato di latorestando inmanichedicamicia. Mentre loosservavo da dietro lespalle del dottore, misembrò un esemplarefin troppo perfetto diquello che eravamo

soliti considerare iltipico giovane nazista:non era di corporaturamassiccia,maqualcosanell’aspettoenelmododi atteggiarsi facevapensare a un pugile; icapellielecigliaeranodi un biondo cosìchiaro che, se nonfossestatopergliocchigrigi, avrebbe potutotranquillamentepassare per un albino;

un viso che nell’attimoprima di riconoscerevon Eichbrunn, conquell’aria sprezzante einquisitoria, era unamaschera di ostentataarroganza e freddaautorità, ma ora, dopoche il giovane avevabrevemente ricambiatoil saluto del dottore,sembrava esprimeresoltanto indifferenza escherno,conunapunta

di incurante brutalitànegli occhi e nellabocca.Parlavano in tedesco

e il dottoreevidentemente glistava spiegandoqualcosa a mioriguardo. Mi sentivoaddosso gli occhi delgiovane e li evitaiaccuratamente, dandoun’occhiata in giro perla stanza. Doveva

appartenere a unguardiano o a uncacciatore, perchéconteneva il piùbizzarro degli arsenali:tutti gli oggettiavevanol’ariadiessereusati abitualmente,erano ben tenuti,dispostiinbell’ordineea portata di mano.Perfino le lance per lacaccia al cinghialerisplendevano nelle

loro rastrelliereappoggiate al muro,pronte per essereusate. Era questa lastranezza del luogo: lamaggior parte diquell’attrezzatura nonquadrava per nientecon la cronologia divon Eichbrunn. Checosaci facevanoquellefile di balestreluccicanti, con le lorocordenuovee robuste,

quelle lance, quellespade, e più in là, infondo alla stanza,disposte su deisupporti di legno,quella serie di stranearmature chesembravano fatte dicuoio spesso, o di unmaterialesimile,inveceched’acciaio?Il Graf von

Hackelnberg dovevaessere un fervente

medioevalista. C’erauna sola concessionealla modernità: unarastrelliera di cortifuciliaunacannadiuncalibro molto grosso –di gran lunga piùgrosso dei nostricalibro otto o diqualsiasi altro calibroavessi mai visto usareper la caccia ai volatili–edellepilediscatoledi metallo, che

immaginavocontenessero cartucce.Infine degli accessoridi un genere che iltempo può modificareben poco: guinzagli eaccoppiatoi per cani,collariefrustini.C’era una vera

panoplia in quellastanza, ed ebbi solo iltempo di osservare lecose più evidenti. Nonc’erano trofei, teste di

cervo o di volpe e cosìvia,comeci si sarebbepotuti aspettare inunastanza del genere, maappese in fondo allaparete, vicino allestrane armature, notaidelle pelli, o parti dipelli, tutteapparentemente dellostesso tipo. Non eranoesposte come trofei,maappeseaunafiladiganci. Riuscivo a

vedere le loro codepenzolantiemiparverosimili a pelli dileopardo, o piuttosto aquelle striate del gattoselvatico; in effetti misembrava abbastanzaplausibile che unagrande foresta comequella di Hackelnbergnefosseinfestata.Ma c’era

qualcos’altrocheavevonotato: il giovane

biondo era rimasto inpiediaccantoalgrandetavolo al centro dellastanza,atrafficareconun aggeggio che stavain mezzo a millecianfrusaglie. Poi sispostò leggermente dilato per parlare con ildottore e posòl’oggetto sul tavolo.Era un piccoloapparecchio metallicoche stava lavorando

con una lima. Miavvicinai lentamente emi accorsi che sitrattava di uno stranocongegnofattodigancid’acciaiodisposti comefossero le dita di unamano,piùomenodelledimensioni della mia.In effetti facevapensare vagamente alguanto di un’armaturamedioevale, ma senzapolsino. Ce n’erano

parecchidiquelgeneresul tavolo, alcunimunitidicinturini,einunaltromomentoavreipotuto avvicinarmiabbastanza daprenderlo in mano edesaminarlo, ma ildottore mi afferrò perun braccio e mi portòfuoriconsé.Sembrava aver

placato i sospetti delgiovane guardiano,

perché quando quellouscì fuori con noi simise a chiacchierareaffabilmente con vonEichbrunn, anche se ame non rivolse unaparola. Senza dubbioparlava solo il tedesco,eperquanto,comesai,iocon il tedescoriescaa cavarmela e anche acapirlo se parlatolentamente, non loavevomai fatto sapere

avonEichbrunn.Il guardiano ci fece

attraversare il piccolocortileecicondusseinuna specie di parco,con delle file di alberidistanziatiuniformemente. E quipotei dare un’occhiatadisfuggitaaquellochemisembròl’edificiopiùgrandecheavessivistofinoaquelmomento.Sebbene fosse quasi

nascosta dagli alberi,riuscii a scorgere unamaestosa costruzionedipietrainstilegotico,daltettospiovente,conpinnacoli e torrette euna complessaornamentazione, quasiuna fantasiosariproduzione di unRathaus della RenaniadelCinquecento.Mi sarebbe piaciuto

guardarla più da

vicino,madinuovovonEichbrunnmiportòvia:quello che ilguardacaccia stavapermostrarci si trovava inun’altra direzione. Cicondusse lungo piccolisentieri, tra siepi dialberi potati, in mezzoaungruppodirecinti–la sua riserva diselvaggina, immaginai,datocheirecintieranopieni, per quanto

potevo vedere, didocilissimi caprioli,daini,alci,cervimaschie femmine, vitelli ecerbiatti. Al suorichiamo accorsero dalfolto degli alberi e daicespugli per mangiaredalla sua mano, e luipalpò loro i dorsi e ifianchi come uncontadino che soppesaunmaiale.AlGraf nonsarebbe mai mancata

lacacciagione,pensai.Nonriusciiascoprire

quanto fosse grandequell’allevamento, maaltri recinti, nascostidalle alte siepi,dovevano racchiuderecreature menomansuete, perché a untratto, mentreaccarezzavamo ilmusodiqualchecerbiattodalpelo fulvo, si sentì unostrano lamento a poca

distanza da noi. Icerbiatti subito sispaventaronoecorseroal riparo, il guardianoaccennò un rapidosorriso, ma vonEichbrunn sembròinnervosirsi comequando eravamopassativicinoalrecintodegli alani, e per unistante pensai chevolesse darsela agambe anche lui. Era

un suono strano etutt’altro chegradevole:hodettocheera un lamento, masomigliava più a ungrido soffocato emodulato, con unbarbugliare disottofondo che sialternava a striduliululati di avidaeccitazione, chesembravano quasiumani ma erano del

tutto ferini. Nonsembravano affatto deicani,eppureprovavolanettissima sensazionediavergiàsentitoqueisuoni,ediaverpensatochefosserodeicanidacaccia. Solo qualcheminuto dopo che fucessato, mi ricordaidove lo avevo giàsentito, omi era parsodi sentirlo: era lostesso suono che,

mescolatoallostormiredegli alberi, avevosentito la notte in cui,alla finestra della miacamera,erorimastoadascoltare il corno diHansvonHackelnberg.Allora avevoimmaginato che fosseuna muta di cani dacaccia,poi,ragionando,avevo pensato chedoveva essere il vento.Manon eranoné l’uno

nél’altro,neerocerto.Non osai fare

domande prima che ilguardacaccia ci avessecondotto fuori dal suoallevamento.Imboccammo unsentiero nella forestache il dottore,evidentementesollevato dal fatto ditrovarsinuovamentedasolo conme, si mise apercorrere a passo

veloce, camminando insalita. Poi, alla miarichiesta di andare avedere il palazzo,grugnì brevemente un«Nein», senza dareulteriori spiegazioni,finché non arrivammoin cima alla collina. Siappoggiòaunpinoesiasciugò la fronte,perché era unagiornata molto calda enoneraabituatoatutto

quel movimento. «No»disse con malumore.«Ne ho avutoabbastanza delloSchloss a stomacovuoto. Franck, ilguardacaccia, mi hadetto che la comitivadel Gauleiter pranzeràal padiglioneKranichfels, che è auna buona ora dicamminodaqui.Esaràun pranzo

maledettamentebuono:a quanto dicono, queigrassoni hannol’abitudine dirimpinzarsi, e ho tuttal’intenzione diprendermilamiaparteprimachetorninodallacaccia. Poi fuggirò daquesto verfluchte2caldo eme ne andrò adormire».«Pensavo che mi

avrebbefattovedereloSchloss»gliricordai.«Ja, non ne dubito»

replicò. Poi, facendosimeno irritabilemano amano che sirinfrescava, disse: «Sequesto pomeriggio mipromette di nonscappare,stasera forsela farò entrare dinascosto nel palazzo.Ma badi,» conclusebruscamente «non

rispondo delleconseguenze!».Ormai avevo iniziato

a capire il dottore;bisognavaprenderlounpo’ come un bambino,e così gli risposi concalma che certo, lui sisarebbe protetto daogni possibileconseguenza; quanto ame, ero pronto acorrere il rischio. Suqueste basi

proseguimmo per lanostrastrada.Dopounpo’ripresea

parlare, con la suasolita aria altezzosa enoncurante, ma questavolta non riuscii aresistere allatentazione di fargliabbassare la cresta:malgrado tutto il suodisprezzo verso queisemplici e atleticiguardacaccia, gli feci

notare, doveva purriconoscere cheavevano qualchecapacità che a luimancava – per nonparlare del coraggio –,seriuscivanoatenereabadadellebestie comequegli alani cheavevamo visto pocoprima.La sua reazione mi

colse di sorpresa. Siscostò bruscamente,

poi fece un respiroprofondo e dissequalcosaintedescochesuonava come unamaledizione sul giornoin cui si era assuntoquell’incarico; infine,con molta calma,aggiunse: «Sì, i canisonocattivi,èvero,macheDiociproteggadaigatti».Rimasi stupefatto

dall’autentico terrore

che percepii nella suavoce. «Si riferisce aquelle creature cheabbiamo sentito urlarequando stavamoguardando i cervi?»domandai.Ma si era offeso

perché lo avevocostrettoadammetterela sua paura, econtinuò a camminareinuncuposilenzio.Quelle poche miglia

furonodigrandeutilitàperme.C’erabenpocavita intorno a noi: inquel tratto di forestanon c’erano animali, aparte un paio discoiattoli rossi equalche uccello, ma ioero tutto intento aosservare laconformazione delterreno,amemorizzarela strada che avevamopreso, a imprimermi

nella mente ogniminuscolo sentiero eogni albero o rocciache attirasse la miaattenzione.Attraversammounpaiodi ruscelli, da cui ognivoltaildottoresifermòa bere, poicontinuammo a salirelentamente per quellungo pendio fino a uncrinale dovecrescevano fitti

cespugli. Lì, a pocadistanza da noi, sentiiimprovvisamentel’abbaiare di un cane.Von Eichbrunn sembrònon farci caso, ma unattimodoposobbalzòelanciòun’imprecazione.Un uomo era saltatofuori silenziosamentedaunnascondigliotraicespugli e ci avevasbarratoilcammino.Era un guardaboschi

vestitodiverde,con inmano una balestraleggera, un ragazzo diaspetto per nientesgradevole, chescambiòqualcheparolacon von Eichbrunn epoi rimase a guardarlocon aria divertita,mentre il dottorebrontolava irritato perquello che avevaappena sentito.Immaginavo più o

meno che cosa fosseaccaduto, e la miaipotesi fu confermataquando il dottore, pernulla disposto arinunciare al suopranzo, interrogò dinuovo la giovaneguardia. Eravamoarrivati troppo tardi. Aquantoparevalacacciaera iniziata, e seavessimo proseguitoper quella strada

avremmo rischiato difarallontanareleprededaifucilideicacciatori.La guardia,evidentemente, erapiazzatalìperriportareindietro la selvagginache fosse uscita fuoridalle linee diappostamento finendosulnostrocammino.Il cane abbaiò di

nuovo; la guardiainclinò la testa e

rimase in ascolto. Sisentìuncolpodi fucilevicinoanoi,daqualcheparte alla nostrasinistra. Il ragazzorestò in attesa ancoraperunmomentoepoi,con un sorriso, sollevòla balestra,immaginando di avereuncervosotto tiro,masubito dopo scosse latesta con rammarico:«Se quello lo avesse

mancato,» sembravadire «sarebbe statomio». Improvvisamentesi girò verso vonEichbrunne,daquantopotei capire, gli chieseperchénonandasseadaspettareall’appostamentovicino, dal momentoche la battuta nonsarebbe durata ancoraalungo.VonEichbrunnscosse la testa, ma il

giovane rise e,mettendosi un dito inbocca, feceun’imitazione cosìrealistica del botto diuntappodichampagneche il dottore siconvinse subito e silasciò guidareattraverso i cespuglisenza opporreresistenza.Lagiovaneguardiaci

condussegiùperl’altro

versante del crinale,facendoci passare peruna specie di galleriatortuosanell’intricodelsottobosco. Eraimpossibile vedere piùin là di un paio dimetri, e i cespugli daentrambi i lati eranotalmente fitti eaggrovigliati che astento una puzzolaavrebbe potuto farsistrada attraverso di

essi. Immaginai chequel luogo fosse statoscelto e adattatoproprioaquelloscopo,in modo che laselvaggina fossecostretta a seguire itracciatiprevisti, lungoi quali si sarebberonascosti i cacciatori. Equando arrivammoall’appostamento vidiche in effetti era così.Era di un genere che

nessun guardacacciainglese avrebbe maiarchitettato. Unboschetto ceduo, il cuicentro era statoaccuratamente ripulitodel sottobosco,lasciando intatti glialberelli, eracircondato da unterrapieno dove l’erbaarrivava all’altezza delpetto e al di sopra delquale correva una

bordura di bassicespugli. La parteanterioredell’appostamentoformava unamezzaluna, e loschermo dei cespugliaveva delle aperturedisposte in modo taleche da ognuna ilcacciatore potesseavere una completavisuale della raduraantistante.Inrealtàpiù

che di una radura sitrattavadiunapista,odi un vialetto, perchésul lato opposto c’erauna siepe ininterrottadi spessi cespuglidall’aspetto naturale,ma senza dubbiocoltivata e intrecciataad arte, allo scopo diconfinare la selvagginanella radura ecostringerla a passareproprio davanti

all’appostamento,rimanendo sempre atiro. Ci trovavamo inuna valle, e la pista,che la attraversavalongitudinalmente, siinterrompeva dove ilterreno diventava piùripido e dove duespondedi rocciagrigiaconvergevanolasciando soltanto unostrettissimopassaggio.Era chiaro che la

selvaggina, convogliataverso la valle lungoquesto o altri sentieri,una volta sfuggita aifucili dei cacciatorisarebbe stata bloccatadagli scoscesi dirupi ecostretta a tornareindietro davanti aifucili, o uccisa daiguardiani chestazionavano in fondoalla valle. Vedevamonitidamentegranparte

di quel triangoloformato dalle rocce,perché lì c’eranopochialberi, e quanto alsentiero da cui dovevaarrivare la selvaggina,correva dritto per uncentinaiodimetri, cosìi cacciatori avrebberoavuto tutto il tempo diavvistare le prede espararenelmomentoincuisitrovavanoatiro.Dei cervi

addomesticatiavrebbero garantito ilsuccesso al peggioredei tiratori. E, dopoaver visto chi era ilprincipale occupantedell’appostamento,capii che per lo piùdoveva essere quello ilgenerediospiteacuiilGran Maestro delleForeste dovevaprovvedere. Era unuomo basso,

disgustosamentegrasso, con un paio diLederhosen3 nuovi dizecca, bretellesgargianti, calzettonibianchi e una camiciaricamata. Era quasicalvo, con una testaquadrata e delleguance cascanti; unospesso rotolodigrassogli usciva dal collettosulla nuca, e il suo

posteriore sembravauna grossa chiatta.Non avrei saputoimmaginare uncontrastopiùgrottescocon le tre o quattrogiovani guardieforestali che insieme aluioccupavano il luogodi appostamento, conquei corpi così asciuttie in forma e quel loroabbigliamento in verdee oro, sfarzoso ma

insieme pratico per laforesta. Il pallidogonfiore delle suegambe e delle suebraccia cozzavatalmente con il loroaspetto atletico eabbronzato chesembravanoappartenere a duespeciedifferenti.Quando dal retro

entrammonell’appostamento si

voltò e ci guardò conaria ottusa attraversogli occhiali senzamontatura, poi tornò asorvegliare la radura.Era seduto davanti auno dei varchi fra icespugli, su unosgabello pieghevole ilcui sedile scomparivasottolepieghedeisuoilucidi pantaloni dipelle, e appoggiatisull’erba al suo fianco

c’eranodueotrefucili,uno dei quali simile aquelli digrossocalibroche avevo visto nelloSchloss, mentredavanti al varcosuccessivo c’era unasentinella con unabalestra, che vigilavasulla radura esull’ospite.VonEichbrunneioci

ritirammo sul fondodell’appostamento,

dove il dottore fuaccolto dalle altreguardie con unmormorio di saluti. Là,su un ampio lettoerboso,sottounatendadi foglie verdi, ildottore si sdraiòcomodamente,circondato dafiaschette con cuiristorarsi e da capacirecipienti per ilghiaccio; così io ebbi

modo di osservare checosastavaaccadendo.L’ospite doveva

essersi già dato unpo’da fare, perché da unramo di betullapendeva un dainosventrato da poco.Evidentemente, però,aveva mancato piùvolte il bersaglio,perché sul terrenodietro di lui giacevanotre o quattro bossoli.

Anche i suoi compagnivolevano prendersi laloro parte e, a breviintervalli e a variedistanze da noi,sentivamo i latrati diun cane e degli spari,al di là del foltoboschetto che siallungava impedendocidivederelavalle.Il nostro uomo

sembrava annoiato.Prese una scatola di

sigari e stava peraccenderne unoquando la guardiaforestale incaricatafece un cenno.L’attendentedell’ospitegli passò il fucile e logirò rispettosamentenella direzione giusta.Ilragazzoaccantoamemi dette una leggeragomitata e, dopoessersi alzato, miindicò il punto da cui

dovevo guardare al dilà del terrapieno peravere una buonavisuale della radura.Una coppia di bracchicorreva nella nostradirezione abbaiandoall’inseguimentodiunapreda;poiuncervocherisalivatranquillamentelavalleapparve all’orizzonte.Si fermò a cinquantametri

dall’appostamento, unpo’ sospettoso, madopoaver fiutato l’ariae scosso la testaproseguì al trotto,passandoaunaventinadi metri da noi. Nonsembrava affaticato daun lungo e accanitoinseguimento, e avevaun’ariamansueta–cosìfiduciosa che se fossistato sul punto disparare avrei

abbassatoistintivamente il fucile.Ma il nostro ospiteiniziò a sparare araffica. Ormai il cervoera uscito dal miocampo visivo e nonpotei vedere l’effettodei tre o quattro colpisparati dal nostrouomo, ma, mentre glialtri giovani saltavanofuoridall’appostamento, vidi

il capo delle guardieforestali nascondersidietro un albero perricaricare furtivamentela balestra. Poi sicongratulòsolennemente conl’ospite e quando iragazzi portaronodentro il cervoraggiunse vonEichbrunnesimiseroachiacchierare.«Das ist der Letzte»

lo sentii dire. «JetzthabenwirnurnochdieVögel, dannwollenwirsehen ob’s was zuessengibt».4Mentre alcuni

sventravano eappendevano il cervo,due dei ragazzipreparavanodeipaninie una bibita ghiacciataper l’ospite che,provato dal suo

striminzito sgabello dacaccia, affondò consollievo nel morbido efresco tappeto erbososul retrodell’appostamento. Iragazzi lo adulavanosenza ritegno, masebbene rispondesseconchiassosagiovialitàe ostentata cordialità,era palese che per luiquella mattinata nonera stata molto

soddisfacente. Tuttaviail suo interesse sirisvegliò quando ilgiovane capoguardia,dopo aver imbracciatolo strano fucile digrosso calibro eavergliene illustrato ilfunzionamento, si misea spiegargli la partesuccessiva delprogramma. Nonriuscii ad afferrarequello che si dicevano,

perché mi ero messounpo’ indisparte,nonvolendo attirarel’attenzione dell’ospite,e anche perché eromoltopiùinteressatoainuovi e straordinariarrivi nel nostroappostamento.Erano spuntati

silenziosamente daicespuglidietrodinoieavevano preso postonella parte alta del

terrapieno, dove,nascosti dal folto dellavegetazione, eranoperò in grado diosservare la raduraattraverso le aperturenel fogliame. Sitrattava di un giovaneforestale con in manounfrustino,chetenevaal guinzaglio duegrosse creature. Aprimavista,agiudicaredallatestaedallaparte

anteriore del lorocorpo, li presi per deibabbuini, ma quandoebbero il permesso dialzarsi e di allungarsi,miresicontocheeranodueragazzi.Ilorovoltierano interamentenascosti da mascherecherappresentavanoinmodomoltorealisticoilmuso dei babbuinigialli dell’Abissinia, odi quelle parti, con le

labbra contratte in unghigno che lasciavascoperte le grossezanne. Un mantello disetosi peli grigi ecastano doratoricopriva loro lespalle,laschienaeilpetto,finquasi alla vita; sottoerano completamentenudi, fatta eccezioneper una stretta cinturaintornoaifianchiconlaquale il guardiano li

teneva al guinzaglio.Nelle parti scoperte lapelle era di un coloremolto scuro, ma nonriusciiacapiresefosseper via del sole o sequello era il lorocoloritonaturale.Il nostro robusto

cacciatore li notò edemise un grido disorpresa. Il guardianosaltò dentrol’appostamento con i

due e, dopo averliliberati dal guinzaglio,gli fece fare dellecapriole con qualcheschiocco di frusta.Saltellavano e simettevano a quattrozampe o in posizioneeretta, imitando, congrande divertimentodell’ospite, tutte leabitudinieigestimenoeleganti dei lorooriginali, ma

perfezionando alcunidei loro giochi conun’ingegnosità cheprovavasenzaombradidubbio la loroappartenenza allaspecieumana.L’ospite rideva così

sguaiatamente da nonreggersi in piedi,finché, a un ordinedelforestale, il guardianoli richiamò ed essiubbidirono all’istante,

accovacciandosi etenendoilmusoinalto.Poi il guardiano passòloro una rete sottile eresistente, cheagguantarono conprontezza e sigettarono sulle spallecomefosseunacorda.Immediatamente

dopo, dal fondo dellavalle, risuonarono lenote di un corno dacaccia. Ilguardianoe i

suoi ragazzi-babbuinoritornarono con unbalzo alla loropostazione sulterrapieno, mentrel’ospitevenneriportatosul frontedell’appostamento e iosgusciaidinuovoversoun varco libero pervedere cosa stavasuccedendo nellaradura.Per un po’ tutto fu

tranquillo, poi sentiiancora dei caniabbaiareinlontananza,ma questa volta piùforte, e con un timbrodiverso. Per unmomento fu di nuovosilenzio, poi uno sparodalsuonosmorzato.Una delle giovani

guardie, che stava inpiedi accanto a me,mormorò: «Da schiesst

der Gauleiter los».5Guardai in alto, nonsapendo che tipo diuccelli intendesserocon Vögel, maaspettandomi qualcosadisimileaunfagianooa un gallo cedrone.Seguirono ancora unpaio di deboli spari, eimprovvisamente illatrato dei cani si fecemolto più vicino a noi:stavano risalendo il

nostro sentiero, ericonobbicheeranoglialani, quelle bestieferoci che soltanto alnostrosguardosieranoavventatefuriosamentecontro le sbarre delcanile. Avevo gli occhipuntatisullecimedeglialberi,ederoancorainattesa di sentire unbattito d’ali, quando laguardia mi dette unaleggera gomitata,

puntando il dito versolaradura.Si vedeva una figura

che correvavelocissima sull’erba.Era una figura umana,ma vestita in modoestremamentebizzarro.Avanzava correndoall’impazzata, come sene andasse della suavita, e gli invisibilisegugi le stavano allecalcagna e latravano;

non ci si potevasbagliare sulla lorointenzione di sbranaree uccidere. Nonriuscivo a smettere diguardarla: era unaragazza alta, dallelunghe gambe, con latesta e il viso nascostida una maschera abecco d’uccello daicolori brillanti, chedietro lasciavascoperta una nera

chioma ondeggiante.Guardarla correre perla radura era unospettacolostupefacente:eracomevedere una di quelledivinità egizie dallatesta d’uccelloerompereimprovvisamentedall’immobilità dellapietra in un volo diterrore. Una gorgieradi piume lucenti, d’oro

escarlatte,lecoprivailseno; sotto le bracciaerano attaccate dellealidallepiumecastanee di un verdeiridescente,edallavitapartivauna lungacodadi penne ricurvemarroni e dorate.Questi ornamenti e legialle calzature ai suoipiedi erano tutto ciòcheavevaindosso.Nonc’eranulla in lei

delladocilitàdelcervo;era terrorizzata ecorreva a una velocitàche difficilmente iostesso avrei potutosuperare quando eroallenato. Vidi lo sforzoimmane che stavafacendoquandosuperòilnostroappostamento,emiresicontochenonavrebbe potutomantenere quel passoper altri cento metri.

Poi scomparve dalmiocampovisivo,e inquelmomento sentii ilnostro uomo farefuoco.Inorridito, stavo per

saltare sul terrapieno,quandoilforestale,chesi era già alzato,esclamò a bassa voce:«Mancato! Ecco ilprossimo!».Mi voltai e vidi un

altro «uccello» che

correva, ma questavoltaavevadellepiumebianche, un’alta crestadorataeunacortacodadritta a ventaglio. Erapiù formosa dellaprima,noncosìveloce,e cominciava amostrare segni disofferenza; ma quandosentì crescerenuovamente dietro dileiilcrudelelatratodeicani fece uno scatto e

deviò, arrivando moltovicinoanoi.Mi alzai nell’istante

in cui il grassone fecefuoco e vidi qualcosache somigliava a unadiafana rete di sottilifilamentigialli,brillanticome la coda di unacometa,calaresudileiattraverso l’aria. Laragazza saltava eurlava; la rete sembròaprirsi e distendersi

come se fossetrascinata inavantidalgran numero di piccoliproiettili che laorlavano, come unaretedapescacircolare,dopo essere statagettata, si distendegrazie ai piombiniattaccati alle sueestremità. L’«uccello»roteavavorticosamente,colpendosi le carni

nude come se degliinsetti l’avesseropunto, e così facendoimpigliava sempre piùle braccia in queifilamenti; barcollava esi dibatteva, soffrendovisibilmenteall’impattodei proiettili; poi corseancora per qualchemetro, ma condifficoltà, perché ifilamenti sembravanovischiosi e, per quanto

sottili, terribilmenteforti, e ora leavviluppavano le cosceeleginocchia.Ilguardacacciachesi

occupava di noi emiseunanotadigiubiloconil suo piccolo cornod’argento, e il giovaneguardiano sciolse iragazzi-babbuino, checon forti e stridulegrida saltarono giùdall’appostamento e

corsero verso laragazza che sidibatteva. Di fronte aquelnuovoterroreessacercò disperatamentedi scappare e riuscì arompere i fili che leintralciavanolegambe,maidueinpochipassile furono sopra. Laatterrarono e in frettalegettaronoaddossolaloro rete, domando isuoi tentativi di

opporre resistenza eavvoltolandolastrettaeinerme dentro quellemaglie.A questo punto

l’ospitevenneaiutatoauscire e i forestali siprepararonoadandareall’inseguimento delprimo «uccello», chevedevamo procedere afatica in mezzo ai rarialberi in fondo allavalle,con lesuepiume

rosse e oro chespiccavanonelverde.Ilguardiano richiamò isuoi ragazzi-babbuinoper la caccia, mentreun attendente porgevaalgrassoneilfucile,mailnostrouomoneavevaabbastanza: non erafattopertrottaredietroa una preda checorreva a quellavelocità, per quantosfinitafosse.Esaminòil

suo bottino che sicontorcevastrettonellarete; ridacchiò,esclamando conenorme gusto i suoi«Fabelhaft!»,«Märchenhaft!»,6 mafece capirechiaramente chel’unicacosacheadessolo interessava era ilpranzo. VonEichbrunnsi dichiarò senza

esitazione della stessaidea.Cosìilguardianoeun

altro forestalepartirono da soliall’inseguimento,incitando allegramentei ragazzi-babbuino.Chiamati con unfischio, alcuni servitorivennero fuori dal foltodegli alberi. Il cervomorto e la ragazzaintrappolata furono

legati su delle aste etutti insieme ciavviammo verso ilpadiglioneKranichfels.Le mie speranze di

vedere al pranzo ilContevonHackelnbergfurono deluse. Nonpotei vedere nemmenoil Gauleiter diGuascogna e il restodella sua comitiva,perché von Eichbrunnmi portò a mangiare

con qualche sottopostoin un angolo tranquillodel giardino, mentreall’interno le personeimportanti facevanoungran chiasso. I ragazzimi osservavano conuna certa curiosità,senza cercare diconversareconme,madalle loro poche esommesse osservazionicapiicheilConteavevalasciato il comando

della battutamattutinaal suo vice. Prima dituttoavevamostratoaisuoi ospiti – nessunodei quali eramai statoa Hackelnberg – ibisontieglialci,epoi,come avevamo potutovedere,liavevalasciatia divertirsi nella valle.Il Conte, immaginavo,eratroppogelosodellasua selvaggina, siaanimale che umana,

perché gli piacessevederla cacciata daestranei. Per attrazionicome quella dellacaccia agli «uccelli»,un’abbondante scortadi belle schiaveprovenienti dalleregioni slave e dalMediterraneofornivaalConte il materiale permolte ingegnosevariazioni venatoriecon le quali

intrattenere i satrapidel Reich; ma laselvagginapiùpregiatae le creazioni piùbizzarre eranoriservatealsuopiacerepersonale.Chiesi a von

Eichbrunn cosa nesarebbe stato dellepredevive.Risposeconun ghigno: «Sarannoservite a cena stasera!Ach, vive e vegete,

proprio così. Il nostroometto ha preso unacolomba bella grassa.Voglio proprio vederecome se la caverà conlei...».Il pranzo durò a

lungo. I giovaniguardaboschi nonfacevano complimenti,ma sospettavo che ilnostro pastorappresentasse unaversione molto ridotta

delrinfrescoall’internodel padiglione. VonEichbrunn continuò aberechampagnefinchéil suo inglese divennetalmenteimpastatochenon fu più possibileconversare con lui inmodo accettabile; cosìdovetti rassegnarmiall’idea che ormai quelpomeriggio era perso.C’eranomoltecosecheavrei voluto fare e

vedere. Avrei volutoesaminare da vicinouna di quelle cartucceche lanciavano ifilamenti e unodi queifucilichelesparavano;avrei voluto parlarecon gli organizzatoridella battuta eandarmene in giro lìintorno, ma non mi fupossibile fare nessunadiquestecose.Iragazzicilasciarono

primacheilfestinodelGauleiter fosse finito,ma il dottore restòancora steso all’ombraper una mezzora,finchéunpaggiovennead annunciare che unacarrozza vuota stavascendendoalloSchloss;se volevamo, saremmopotuti tornare indietroconquella.Von Eichbrunn,

assonnato per tutto il

vino che aveva bevuto,insisté ostinatamenteche dovevamo tornareall’ospedale per fareuna siesta e non mirimase altra scelta cheseguirlo. Una voltaarrivati mi obbligò adarglilamiaparolachenon mi sarei mossosenza di lui. Così,mentre smaltivarussando gli effetti delpranzo, del caldo e

dell’esercizio fisico acui non era abituato,anch’io andai astendermi nella miacamera e aspettai piùpazientemente chepotei che arrivasse lasera.Quandomi chiamò si

era ormai fatto buio.Era di un umorebilioso, irascibile, cosìcercaiintuttiimodidiammorbidirlo e

assecondarlo, perpaura che cambiasseidea prima cheraggiungessimo ilpalazzo. Continuava alamentarsi della suatesta e del suostomaco, ma sembravaentusiasta all’idea diandare – e anzi erapreoccupato che peraver dormito troppo alungo potessimoesserci persi il

divertimento.Quando emergemmo

dal labirinto delloSchloss eattraversammo ilpiccolo parco, le altefinestre del palazzoeranoilluminatedaunaluce arancione. Dellepersone si muovevanonell’oscurità di fronteal grande portone evon Eichbrunn micondusse con

circospezioneintornoaun lato dell’edificio,dove, dietro unbastione, trovammouna piccola porta chepermettevadiaccederea una scala achiocciola. Salimmoqualche gradino, poiseguimmo uno strettocorridoio debolmenteilluminato dalla lucedel salone, che filtravaattraverso sottili

feritoie. Giungemmoquindi a una stanzettadi forma esagonale, suunaparetedellaquale,a mezza altezza, c’erauna finestra rotonda,senza vetri ma condelle sbarre e unacornice di pietrafinemente lavorata araggiera. Ubbidendoalle gomitate deldottore, sbirciai dallafinestraevidichedalì

si godeva di una vistaeccellente sull’interno,da una posizioned’angolo, a circa diecimetridialtezza.Non c’era elettricità,

ma il salone erasplendidamenteilluminato. A circa tremetridalpavimentouncornicione di pietracorrevalungolepareti,e su di esso, a brevi eregolari intervalli,

c’eranopiùdiquarantafigurechesulmomentopresi per statued’argento, tutteuguali,ognuna delle qualireggeva un’astalucente che terminavain una torcia,alimentata da unqualche combustibileche bruciavaproducendo unafiamma gialla ecostante. Ma quando

guardai con maggioreattenzione, vidi che lefigure respiravano ederano scosse da unlieve fremito: eranofanciulle il cui corpoera interamentericoperto di unavernice d’argento oinguainato in unapellicola di unmateriale così liscio eaderentecheognunadiloro, pur essendo viva,

simulava allaperfezione unaluccicantestatuanuda.Lalucecombinatadelleloro torce inondava ilsalone sottostante egettava un tenuebagliore verso l’alto,andandoailluminarelavolta a crociera elasciandoneintravedere gli oscurigrovigliintagliati.Suiduelatilunghidel

salone, il cornicione sucuistavanoleportatricidi torce era sostenutodaunafiladipilastri,einmezzoaognicoppiadi pilastri c’era unanicchia poco profonda.Davanti a tutte questenicchie correva unampioripianodipietra,ricoperto da unospessostratodipellidibisonte, di orso e dicervo, mentre al loro

interno, sopra pellidellostessotipo,eranosparsemorbidepelliccedi volpe, martora elontra.Nelvastospazioal centro, a notevoledistanza dai dueripiani, troneggiava lagrandiosa tavola dapranzo, che potevaospitare comodamentefino a un centinaio dicommensali. IlGauleitereisuoiamici

non erano più di unadozzina, e insieme aloro stavano cenandoaltrettanti ufficiali delConte. Tutti sedevanoversoil fondo,adebitadistanza l’unodall’altro, e acapotavola, proprio difronte alla nostrafinestra, su ungigantesco scranno dilegno scolpito sedevaHansvonHackelnberg.

Mi ero aspettato, sì,una figura fuori dalcomune. Mi eroimmaginato un uomoche nei tratti e neimodi avesse qualcosadella distinzionedell’antica aristocraziadell’Europa orientale;ma la solacorrispondenza fral’immagine che mi erofatto di vonHackelnbergelarealtà

cheavevodifronteeranella sua ferocia.Eppure l’uomo chesedeva là, dominandola tavola e tutto quelvasto salone, avevanello sguardo qualcosadi barbaro che nonavevo mai visto e chesuperavadigranlungale mie fantasticherie.Non apparteneva né almio secolo né a quellodel dottore; ed era più

lontanodaqueivolgarie chiassosi politicantinazisti che gli stavanointorno di quanto loronon lo fossero da me.La loro brutalità eraquella di una civiltà dimassa, urbana emeccanizzata, lasordidacrudeltàdiunatirannia fatta dialtoparlanti e di mitra.Hans von Hackelnbergapparteneva a un’èra

in cui violenza ecrudeltàfacevanopartedella persona, quandoil diritto di un uomo acomandare risiedevanella sua forza fisica;una così intima ferociaapparteneva al tempodegliUri,itoriselvaggidiquell’oscuraeanticaforesta germanica chela Città non era mairiuscitaadomare.Eral’uomopiùgrosso

che si fosse mai visto:un gigante al cuiconfronto il grandiosotrono su cui sedeva el’enorme piano diquercia che gli stavadavanti sembravanocose di dimensioninormali, e che facevaapparire il resto dellacompagnia un gruppodibambiniintornoauntavolo. Aveva i capellicolor rame, tagliati

corti,equestorendevaancora più mostruosala potenza del suoimmensocranioedellasua fronte taurina.Portava lunghi baffi euna fulva barbabiforcuta, che brillavaalla luce delle torceogni volta che giravaaccigliato la testa dauna parte all’altra,guardando torvamentei suoi ospiti. La parte

superioredelsuocorpoera rivestita da ungiustacuore verdesenza maniche, su cuisi incrociava uncinturone ricamatod’oro; intorno al colloavevaunacatenad’oromassiccio e sulla partesuperioredelbraccio,acingere i suoi poderosimuscoli, un moniled’orodi anticodisegnoceltico.

Nonmangiava,maditantointantoafferraval’enorme corno che glistava di fronte,tracannando il suocontenuto fino infondo; poi lo rimettevaa posto con una sortadi violenza controllata,comese il suobraccio,una volta sollevato, sipotesse a stentotratteneredall’abbattersi

autonomamente percolpireedistruggere;edi quando in quandostrappava un pezzo dicarne dalla coscia dibue che gli stavadavanti e lo gettava aicaniaccucciatiallesuespalle, con un gestocosì violento e unosguardocosìferocechesembravano direchiaramente cheavrebbe preferito

gettarelorolatestadelGauleiter. A volteinclinava la testaall’indietro e fissava letravi del soffitto, olasciava vagarelentamente lo sguardoarcigno lungo la filadelle portatrici ditorce, come perassicurarsi, con laminaccia del suosopracciglio, chenessuna osasse cedere

o dare segni distanchezza. Allora vidiche i suoi occhi eranodi un marronerossastro,acuitalvoltala luce gialla delletorce donava unbagliore infuocato,rendendoli simili atizzoniardenti.Eravamo arrivati

tardi e la festa eraquasifinita–oalmeno,le carni arrostite

sembravano aversaziato gli ospiti. Aquanto pareva eranostati serviti congrossolana espropositataabbondanza, rimpinzatidienormitaglidicarnedimanzo,dimontoneemaiale, oltre che diselvaggina, e c’eradavvero un disordinemedioevale, unammasso di taglieri

unti,digrandivassoiepiatti di peltro ed’argento cheingombravano latavola. I giovaniguardacaccia,abbigliati con sontuosevesti di raso ebroccato, giravanointorno alla tavolariempiendo di birra iboccali di legno, e divino i grandi cornibovini che stavano

accanto al piatto diogniconvitato.Eranounacompagnia

turbolenta e giàalticcia, e se nestavano stravaccati aschiamazzare e acantareasquarciagola,gareggiando a chifacevapiùbaccano,piùsguaiati di unacomitiva due volte piùnumerosa diuniversitari inglesi che

festeggino dopo unavittoria sportiva, e conla voce altrettantoimpastata. E non siacquietarono neanchequando sei aitantigiovani guardaboschi,abbigliati delle vestipiùmagnificheinverdee oro, salirono su unabassa piattaformadietro al trono delConte e, sollevando inalto i loro corni

d’argento,cominciarono asuonare una serie dirichiami di cacciaarmoniosamentevariati. Il Conte si eraappoggiato alloschienale del trono,ascoltando quellamusica conun’espressione truce,mentreunafiladiservisi precipitava asparecchiare lasciando

solo i recipienti perbere.Quandoebberofinito,

i suonatori fecero unapausa di pochi minutiper poi intonare unmotivo più rapido eallegro – una melodiadi caccia che misembrò familiare, unamusica dal ritmogaloppante etrascinante chefinalmente zittì il

baccano degli ospitiubriachi,obbligandoliatenereiltempo.Le due grandi porte

doppie in fondo allasala si spalancaronoimprovvisamente, e iservi rientrarono altrotto, trasportando, agruppi di quattro,enormi vassoi dimetallo lucente con ilcoperchio a cupola.Passarono lungo

entrambi i lati deltavoloedeposeroiloropesanti fardelli,facendo sì che ogniospite si trovasse difronte un gigantescorecipiente,cheavrebbepotuto contenere uncervo o una pecorainteri. A quel punto iservi saltarono sullatavola, mettendosiognuno dietro a unvassoio e afferrando il

manico del coperchio,mentre i paggifacevano il giro dellatavola, disponendo perogni ospite un coltellodacaccia.Il Conte Hans von

Hackelnberg si alzòlentamente e i suoiufficiali scattarono inpiedi facendounpassoindietro, mentre gliospiti,unodopol’altro,seguivano l’esempio

delpadronedicasaesialzavano barcollando epassando con occhiointerrogativodalConteai piatti di portata cheavevano di fronte. Letrombe emisero unosquillo sonoro e poitacquero.«Signori!» esclamò il

Conteconunavocechesomigliava al muggitodiuntoro.«Viinvitoadassaggiareunpo’della

selvaggina che avetecacciato!».I servitori alzarono

all’unisono i coperchi,tenendoli sospesi perunmomentoaldisopradelle teste deicommensali; poirapidamente lipoggiarono,allineandoli al centrodellatavola.Sul vassoio che ogni

ospite aveva di fronte

era esposto l’«uccello»che ciascuno avevacatturatoallafinedellabattuta di caccia delmattino: era statoprivato delle piume estrettamente legato, ilmentoalleginocchiaeipolsi alle caviglie, maportava ancora lamaschera con il becco.I guardacaccia condestrezzaallontanarono le sedie

dagli ospiti e poiindicarono in qualipunti dovevano esseretagliati i lacci chetenevano legati gli«uccelli».Gli ospiti per un

attimo sembraronotroppo sbalorditi perseguire le loroistruzioni, e ilGauleiter, che stavaalladestradelConteeavevadavantiaséuna

splendida creaturaabbronzata, la cuimascheravariopintadatacchino selvaticospiccava sulla fluentechiomabionda,scoppiòinunafragorosarisata,chinandosi in avantiper pizzicare la cosciaben tornita del suo«uccello». Alcuniufficiali brandironoesultanti i coltelli, maprima che qualcuno

potesse tagliare i laccidel proprio volatile,Hans von Hackelnbergbattéconforzailpomodel suo spadino sullatavola.«Signori!» mugghiò

di nuovo, e un silenziototale seguì il suorichiamo. «Signori!»ripetéilConte,oraconun tono di voce piùumano,masemprecosìforte che dalla nostra

stanzetta sentivo ognisua parola, e con talelentezza che riuscivo aseguire praticamentetuttoquellochediceva:«Spero che ognuno divoi taglierà le carnidell’uccello che hacatturato con lo stessopiacerechehaprovatocacciandolo. Laselvaggina è vostra;che ognuno soddisfi ilproprio appetito come

meglio desidera, e sequalcuno non troveràla carne abbastanzateneraper i suoigusti,i miei giovani aiutantisi occuperanno dieliminare le parti piùdure». E indicò il capodei guardacaccia che,ghignando,avevapresoin mano un frustino, elo faceva scorrerelentamente fra le dita.«Ma,»ruggìdinuovoil

Conte con tonoviolentementeimperioso «prima chevoicominciate,viinvitoa seguirmi per vederealtri esemplari dellastessa carne prelibata,ma sotto una pellediversa. Trattenete ivostri appetiti, signori,ancora per dieciminuti,evimostreròlospettacolo di unaspecie femminile che,

ve lo garantisco, listuzzicherà molto dipiù. Bitte! HerrGauleiter!».PreseilGauleiterper

il braccio e lo scortòverso la portad’ingresso del salone,dove non potevamovederlo. Gli ufficiali sioccuparono degli altriospiti, e questi, ancorapiù sconcertati perl’improvviso rinvio del

loro divertimento diquanto non lo fosseroquando era stato loroinaspettatamenteofferto,venneroguidatifuori dal salone comeuna torma dubbiosa acui nessuno davarisposte. Lasciaronocosì che le loroprelibatezze ancoraintatte siraffreddassero sulvassoio, per così dire,

sotto gli occhi deigiovani paggi che sipreparavano aingannare l’attesa coninmanodelle coppedivino, adagiati suiripiani ricoperti dipelli.Mentre gli ospiti si

ammassavano peruscire dal salone, leportatrici di torcegiraronorispettivamente a

destra e a sinistra,uscendo dalle apertureche si trovavanoall’estremità dei duecornicioni, e lasciandosul posto soltanto unterzo di loro, ancoraimmobili,ailluminareilsalone.Il dottore imprecò

stizzito nel vedereinterrotto lo spettacoloappenacominciato.Poimi tirò con insistenza

per la manicasussurrando:«Andiamogiù e prendiamocialmeno da bere primache tornino!».E subitomi trascinò via dallastanza, imboccandounostrettocorridoio.Non mi rimaneva

altra scelta cheseguirlo, ma cercai dicapire perché mai nonpotevamo andareanche noi a vedere

l’altro spettacolo. «No,no, no!» gridò ildottoreconinaspettataveemenza. «Io non civado!Perl’amordiDio,andiamoabere!».Si precipitò giù dalla

scalaachiocciolaefecifatica a stargli dietro;ma prima di uscireall’aria aperta avevogiàdecisodiseminarlo.A poca distanza dalsalone le torce gialle

avevano formato duefile ordinate, eavanzavano con passoregolare nell’oscurità;c’era una folla diservitori e una massaindistintadialtragenteche si accalcavaall’uscita dell’edificio ementre il dottore siaffrettava araggiungere il portonenon mi fu difficileliberare la mia manica

dalla sua presa emescolarmi alla follasilenziosa.Nonlosentiinemmeno chiamare ilmio nome mentre mifacevo largo a spallatetra i servitori,affrettando il passodietro le torce. Pensoche avesse troppapaura dell’oscuritàdello Schloss perrimanere da solo fuoridalpalazzo.

In pochi minutiraggiunsi la coda delcorteo, e mi unii a ungruppo di ufficialiforestalicheformavanola retroguardia.Nessuno si accorse dime,eppureletorcechefiancheggiavano lacomitivadovevanoaverilluminato ilmiovisoel’abito semplice cheavevo addosso. Leragazze dalla pelle

d’argento, che viste davicino erano alte comegranatieri, marciavanocon andaturavolutamentecerimoniale,sollevandole ginocchia a ognipasso, lo sguardo fissoin avanti, e reggendorigidamente le torce. Iguardaboschiscambiavano qualcheparola tra loro a bassavoce, ma gli ospiti,

infreddoliti dall’arianotturna, eranostranamente silenziosie il Conte vonHackelnberg, sempretenendo saldamente ilGauleiter per ilbraccio, avanzavaimponentetorreggiando su tutti esenza dare una paroladispiegazione.Procedemmocosìper

un centinaio di metri,

finché, a giudicaredalle alte siepi cheavevamo superato,immaginai che fossimoarrivati da qualcheparte vicinoall’allevamento cheavevo visto quellamattina.Quileduefiledelleportatriciditorcesi separarono, e ilConte e tutti noirestammo a osservarlefinché non si

ricongiunsero aformare sotto i nostriocchiunampioovale.Aquesto punto il Conte,con un tono giovialeche sentivo per laprima volta, disse agliospiti di prendereposto.Feci un passo in

avanti e, sotto la lucedelle torce, vidi unastrana fossa ovalecircondatadaunmanto

erboso. Il Conte fecesedere accanto a sé ilGauleiter sul bordointernodella fossa,e ilresto della compagniasi dispose a destra e asinistra, sotto la guidadiscreta dei forestali.Io mi spostaisilenziosamente versoun’estremitàdellafilaeguardaigiù.Leragazzeora avevano inclinatole lunghe torce in

avanti, in modo chesporgesseroilluminando inpieno lafossa. Le spondedovevano essere altecinque o sei metri, ederano rivestite dibianche assi levigate,mentre il fondo eraricopertodauntappetodierbabenrasata,eaogni estremità c’eraun’inferriata chechiudeva un passaggio

sotterraneo. Era unaspecie di circo romanoin miniatura, anche sesempliceerustico.Improvvisamente si

udì lo squilloperforantediuncorno,di una tale terrificantepotenza che miraggelò. Senza voleremigiraidiscatto,cometutti gli altri – e cosìdovevano aver fattoanche le portatrici di

torce, perché unmovimentoondeggiante attraversòil loro cerchio di luci,affievolendole per unattimo. Il Conte vonHackelnberg si eraalzatoinpiedi,eavevaavvicinato alle labbraun grande cornoricurvo d’argento, checome un anellosplendente gli passavasopra la spalla e

intornoalcorpo.Soffiòcontuttalapotenzadeisuoi polmoni, e ilfragoroso e insistenterichiamo echeggiò sudi noi dal folto deiboschi, così vicino eferoce da essere quasiinsopportabile.Mentre quel suono

svanivasentiiilrumoredi una delle inferriateche si apriva, e fuori,sull’ovale erboso

arrossato dalla lucedelle torce, apparverotre giovani, bardatidalla testa ai piedi diquelle strane armatureche avevo visto almattino nella stanzadel guardacaccia. Miresi conto che noneranod’acciaioodiunaltrometallo,madiunmateriale che, perquanto duro eresistente, era

abbastanza flessibileda permettere dimuoversi con agilità. Iprimi due tenevanodelle frustecon lunghee pesanti strisce dicuoio intrecciato; ilterzo guidava duedaine, due docili egrasse creaturemaculate, con deinastridisetaintornoalcollo.Avanzarono fino al

centrodell’arena,poisifermarono. Le dainetremavanoleggermente e sistringevano alguardiano che leteneva per il collare;ruotavano le largheorecchie e alzavano latesta impaurite, con iloro grandi, liquidiocchiscuri,chela lucedelle torce riempiva atratti di un bagliore

verdastro.Von Hackelnberg

suonòancoraunavoltail corno; fu uno squillobreve, acuto,perentorio,eprimachefosse cessato sentiiarrivare la risposta.Era quel selvaggio,ululante miagolio cheavevouditoalmattino,macheoraperlafameelabramadisanguesiera fatto quasi

insostenibile, e siavvicinava sempre dipiù alla secondainferriata; c’era lostesso orribilesottofondodivociquasiumane, ma ora piùforte e insistente,quello stesso urlioacuto e malvagio cheaveva così scosso inervideldottore.L’inferriata si alzò

fragorosamente, ed

eccobalzarenell’arenauna ventina di grandianimali. Ghepardi,credetti per un attimo,perché scattavano inavanti con un taleslancio che, mentrecorrevano, sembravanopoggiare soltanto sullezampe posteriori. Maanche prima direndermi conto chenon erano animali,sentiiitremendiscoppi

di risa del Conte, eallora capii che cosaavevainmentequandoaveva interrotto ilascivi piaceri dei suoiflaccidi ospiti. Ibellissimi e lustrimantelli maculati chevedevamo sotto di noisembravano aderireperfettamente alleschiene e ai seniprosperosi di unatruppa di giovani

donne, così simili perstatura, età eproporzioni chedovevano essere statericercate e selezionatecon grande perizia intutti gli allevamenti dischiavi del GrandeReich.Erano robusteeformose, ma nongrasse, e di aspettocosì sano e in unaformacosìperfettachele morbide curve dei

loro corpi e delle loromembra eranoprovocanticomeloèlapiù rara bellezzafemminile, mentre ilgioco dei loro muscoli,che si flettevano edistendevano sotto lapelle abbronzata elucente, suscitò in mequalcosa che andavaoltre l’ammirazione:eraunasortaditimore–no, un vero terrore –

del potere ferino chequelle forme cosìattraenti eapparentementeamabili possedevano esarebbero state ingrado di scatenare daunmomentoall’altro.Ariposo avrebberopotuto essere, per unoscultore, i modelli diun’ideale bellezzafemminile, ma quandobalzarono all’interno

dell’arena e presero amuoversi in cerchio,troppo veloci e agiliperché l’occhioriuscisseaseguirle,giànon avevano più nulladiumano:eranodonneche una demoniacasapienza avevaallevato, addestrato einfine trasformato inmagnifici,agili,rapidiepericolosifelini.Avevano la testa e il

collo ricoperti da unaderente cappuccio dipelle maculata, da cuispuntavano eleganti erotonde orecchie dileopardo, ma l’ovaledel volto era scoperto,e ogni viso, sotto laluce delle torce, eracontratto inunghigno,le rosse labbra ritrattea scoprire i possentidenti bianchi, e negliocchi un pallido

luccichio di purapazzia. I lorostraziantimiagolii oraassomigliavano aun’assurda canzone, eil loro impercettibilebarbuglioaundiscorsoconfusoeinsensato.Mitornaronoallamenteleparole del dottore aproposito dei servitorimuti, e non c’eradubbio, pensai, che ichirurghi avessero

operato anche quelledonne.Gli aderenti corpetti

di pelle coprivano lorolespalle,lebracciaeilcorpo fino alla basedelle costole, mentredietro,propriosopralenatiche, eranomodellatiapunta,edaquesta punta pendevauna coda dal pelocorto. I piedi eranofasciati fino alle

caviglie da stivalettifatti della medesimapelle maculata. Maquello che del lorocostumeattiròsubitolamiaattenzionefuronoibizzarri guanti con cuiterminavano lemanicheattillate.C’eraunbaglioremetallico,eper quanto mi fossedifficile fissare losguardo sulle loromani,dalmomentoche

correvano e saltavanodicontinuoperl’arena,riuscii a distinguereche ciascuna di loroavevaallacciatoaipolsiunpaiodiqueglistraniaggeggi a forma diuncino che avevo vistonella stanza delguardacaccia.Immagina quattrostrisce ricurved’acciaio attaccate auna placca flessibile,

conuna quinta strisciaopponibile fissata dilato, esattamente sulmodello di una manoumana – ma ognistrisciaeraprovvistadiun artiglio di leopardoin acciaio, con la baseconcava in modo dapoterciinserirel’ultimafalangedelleditaedelpollice, il tutto fissatoal palmo della mano esaldamente allacciato

intorno al polso, aldorso della mano e aogni dito. Il metallodovevaessereunalegaelastica,pensai,perchéle «gatte» riuscivanoquasi a stringere ipugni e spesso quandocorrevano andavano aquattro zampe,poggiando le nocchesul terreno. E sentiidistintamente illeggeroticchettiodegli

artigli d’acciaio che siurtavanoquandounadiloro passò sotto di mecorrendo in quellostranomodo.Non appena le

«gatte» furono entratenell’arena, i treuominisiriunironoalcentro;elà due di loro, rivoltiverso l’esterno comedomatori di un circo,continuavano a fargirare in cerchio il

branco tenendolo adistanza a colpi difrusta, mentre il terzoreggeva le due daine,che si dibattevano inpreda al terrore. Le«gatte» erano soloparzialmenteammaestrate e ilmassimo che potevanofare i due uomini eraimpedire, usandocontinuamente lefruste, che

interrompessero il lorosinuoso movimentocircolareprecipitandosiverso il centro. Ognivolta che una di essestava per lanciarsidentro, una pesantefrustata la ricacciavaverso l’esterno,ferendole condestrezza lagroppae ifianchi scoperti, e aogni schiocco l’urlodelle altre si innalzava

in un crescendosempre più selvaggio,mentre quella cheaveva assaggiato lafrusta balzava in alto,in una danza di doloreedi rabbia, ringhiandoe soffiando, e agitandocon furia verso ilguardiano i luccicantiartiglid’acciaio.Ealdisopra di tutto quelfrastuono sentivo,ancora e ancora, la

terribile risata diHansvonHackelnberg.I guardiani

continuarono a farcorrere le «gatte»lungo le pareti dellafossa finché le lorocoscenonbrillaronodisudore e i loro pettinon divennero ansanti.Allora il Conte suonòancora una volta ilcorno, emettendo unanota lungamente

trattenuta: era ilfunebre lamento cheannunciava la mortedelcervo.Non appena il Conte

iniziò a suonare,l’insostenibile clamoreche proveniva dallafossa si attenuòtrasformandosi in unavido mugolio, equando il suono siestinse i tre guardianisi fecero da parte

precipitandosi versol’inferriataaperta.Immediatamente e in

totale silenzio, piùterrificanti in questaloro muta e prontaconcentrazione che intutta la loro furia, le«gatte» si avventaronosulle due daine. Ipoveri animali fecerounbalzoaltissimo,mailucenti artigli d’acciaiosieranogiàdistesiper

lacerare e ora sistringevanoconficcandosi nel colloe nelle zampe,squarciando ventre efianchi.Perunmomentocifu

un orribile contorcersidi corpi, una mischiaconvulsa di cosce egambe scalcianti,mentre teste e bracciaaffondavano con furiaal centro dei due

gruppi di «gatte»; lenaricimi si riempironoimprovvisamente delfetorediinterioracaldee dovetti allontanarmidal bordo dell’arena.Pocodopole«gatte»sierano già sparpagliatedaognipartesull’erba,dimentiche deiguardiani,adilaniareeinghiottire i brandellidellacarnestrettafrailoro artigli

insanguinati. Non sisentiva altro che unrumorio continuo difaucichesbranavanoesbavavano, o un sordoringhio non appenal’una sfiorava l’altra.Tuttoera imbrattatodisangue, i volti, il pettoe le maniche deimorbidi corpetti, lapelle ambrata dei loroventri e delle lorocosceabbronzate.

Hans vonHackelnberg gridò agran voce: «Es ist zuEnde! Komm, meineHerren!».7 Iguardacacciascattarono in piedi, leportatrici di torcefecero dietrofront e simisero di nuovo inmarcia verso il palazzoformando due fileordinate, mentre gli

ospiti, distolto losguardo e nel silenziopiù assoluto,camminavano mestisotto gli occhi delConte, che torreggiavain attesa di chiudere ilcorteo, e sghignazzavaguardando dall’alto inbasso, con sadicodivertimento, quel suopiccolo branco dipalloni sgonfiati. Nonavevanoaffattol’ariadi

gente che stesseandando a godersi ilfinale di una serata dibagordi.Evidiancheilnostropiccoloegrassocacciatore del mattinoche se ne stava sottoun albero a vomitaremiseramente,sostenuto da dueguardie.Aspettai che anche

l’ultima coppia diportatrici di torce si

fosse allontanata dalprato, sperando chevon Hackelnbergseguisse i suoi ospiti,ma il bordo dell’arenavenne illuminato dallaluce bianca di alcunelanterne; temendo,poichéerosolo,didarenell’occhio, mi uniiall’ultimo gruppetto diquattro o cinquegiovaniguardie,esfilaimarciando a testa

bassadavantialConte.Pensavo di essere

passato inosservato,quando all’improvvisouna mano enorme miafferrò per la spalla, efu come andare asbattere contro ungrossoramodiquercia.Mi fece girare,esigendo di sapere chifossi, e mi ritrovaidavanti, a pochicentimetri di distanza,

quella barba fulva ebiforcuta, quella boccaspalancataeghignantee quegli occhiinfuocati. Poi, conl’altramano,Hans vonHackelnberg fermòbruscamente l’ultimaportatriceditorce,elasua fiamma oscillò perunattimo sopradinoi,prima di fissarsi sulmio viso. Il Conteripeté ladomanda,con

vocealtaeminacciosa.Le guardie cicircondarono, e io,mentre guardavoimpotentedaunapartee dall’altra, riconobbiuno dei ragazzi chequella mattina eranocon noinell’appostamento.Prima che riuscissi amettere insiemequalche parola ditedescoperrispondere,

quello gli aveva giàspiegato tutto. Mentreparlava, però, lo vidibattersi la mano sullafronte, e il Conte lointerruppe gridando:«Lo so! Lo so!». Poi,afferrandomi come sevolesse stritolarmi leossa della spalla, midisse: «Così lei èfuggito dalle prigioni,eh?Ilsuodesiderioèdiessere libero, non è

vero? Lo sarà. Liberonella foresta!Conducetelo neiboschi, ragazzi!Lasciatelo libero ditrovarsi il suo foraggioinsiemeaicervi!».Miallontanòconuno

spintone, facendomiperdere l’equilibrio, esubito le guardie miafferrarono.Istintivamente opposiresistenza, ma fui

sopraffatto. Ebbi ilbuon senso di capirequanto sarebbe statoinutile lanciarmi in unestenuantecombattimento, cosìtenni a freno la rabbiae lasciai che miportasserovia.

2. Stramaledetto[N.d.T.].

3.Calzonicortidipelle

[N.d.T.].

4. Questo è l’ultimo.Adesso ci restano sologliuccelli,poivedremose ci sarà qualcosa damangiare[N.d.T.].

5. Ora è il Gauleiterchespara[N.d.T.].

6. Fantastico. Favoloso[N.d.T.].

7. Lo spettacolo èfinito. Venite, signori[N.d.T.].

7

Le guardieeseguirono subito gliordini del Conte.Sebbene non avesserocerto un’ariaamichevole, quandoquella mattina mi erotrovato con loro in

compagniadeldottore,nonmieranosembrateapertamente ostili; orainvece non prestavanola minima attenzionealle mie domande,trattandomi come sefossi un animale. Sioccupavano di me conbrusca e spietataefficienza, senzaarrivare a colpirmiquando non ubbidivoall’istante, ma

facendomicapiremoltochiaramente quantofossero avvezzi astroncareogniaccennodiresistenza.Mi portarono in una

stanza di uno degliedifici checosteggiavanol’allevamento dellaselvaggina, e lì mifecero togliere i vestitiche mi aveva prestatoil dottore e indossare

uno strano costumepresodaunmagazzinoche aveva l’aria diessere pieno di tenutedel genere. Consistevainunpaiodicalzonialginocchio, di uncurioso tessuto che aprima vista potevasembrare pelle didaino, ma che scopriiessere fatto di unafibra elastica simile apelle viva, con una

corta peluria insuperficie, spessa efitta comequella di unanimale. Poi mifornirono una magliaattillata dello stessomateriale, con lemaniche lunghe, einfine mi feceroindossare dellecalzature in vera pelledi daino che, dandosiun gran da fare,allacciarono

saldamente ecomodamente ai mieipiedi.Dopo avermi

equipaggiato in questomodo, mi spinsero dinuovo fuori, in uncortile dove si trovavaun piccolo veicolotrainato da cavallisimile a un carro, omeglio,aunagabbiadilegno quadrata condelle ruote. Mi

sbatterono dentro, poilaportafurichiusaallemie spalle, e con unacoppia di guardiesedute sul tetto dellagabbia fui condottolungo un buio sentieronellaforesta.Procedemmo a una

buona andatura perquattro o cinquemiglia, su e giù pervallette e colline lungouna strada sterrata

piuttosto agevole,sempre attraverso fittiboschi di faggi e diquerce. Poi cifermammo emi feceroproseguire a piedi; ilconducente miprecedevaconinmanounalanternacheavevapresodalcarro,mentregli altri marciavanodietrodimetenendomipuntata alle reni labocca del fucile.

Continuammo per unostretto sentierosabbioso cheattraversava un’ampiaradura. La luna eraparzialmentecoperta,econ uno scatto avreipotuto tranquillamentefuggire e seminarli, senonfossistatoconvintoche almeno per ilmomento non avevanointenzione di farmi delmale: per quanto

bizzarri, gli ordini divonHackelnbergeranostati chiari, eovviamente dovevanoessere eseguiti allalettera.Orasapevochela foresta diHackelnberg eraprotetta dall’esterno inmodo estremamenteefficace; essere liberoal suo internosignificava soltantotrovarsiinunaprigione

più grande, ma sareistato padrone dei mieimovimenti,equestomisembrava già un belpasso avanti verso lacompleta libertà: nonavevo nessunaintenzione di perderequell’occasionerischiando diprendermi una fucilataallegambe.Ci fermammo e la

lanterna illuminò una

minuscola capanna inmezzo agli alberi. Erafatta di un compattograticcio di rami, ericoperta da unospesso tetto di canne.Mi spinsero verso lapiccola entrata buia eunodiloromidissecondurezza: «Tu ora staiqui. Potrai trovare delcibo nelle vicinanze.Ma bada che se tivedremo in giro ti

spareremo come a unabestia selvatica, o tiaizzeremo contro icani!». E di botto micolpì con la canna delfucile, facendomivolare nell’oscuritàdella capanna, doveper un po’ rimasi aterra, senza fiato eincapace di muovermia causa del colpo.Quando mi rialzai laluce della lanterna

stava già scomparendoinfondoallaradura.Feci qualche passo

brancolando nel buio,ma indietreggiaiimprovvisamenteperlospaventoquandolamiamano toccò unamassapelosachesimuoveva.Udiiungridoaffannosoe soffocato, e mi resiconto che quellacreaturadovevaessereancora più spaventata

di me; poi si sentì unfortefrusciodipagliaodi foglie secche equalcosa di grossoinciampò nelle miegambe, nel goffotentativo disquagliarsela versol’uscita.Loagguantaiemi ritrovai a stringeretralemaniunuomo.Crollò debolmente a

terra, singhiozzando emormorando qualcosa

con una voce cosìbassa e così rotta chenon avrei saputo direse quelle chepronunciava fosseroparole, o soltanto ipochi suoni deformatiche riuscivano aemettereglischiavidelConte. Poi, quando lotiraisutenendolosottole ascelle, si fece piùcalmoeriusciiacapirecheparlavafrancese.

Sebbene tremasse egemesse ancoraimpaurito, mi permisedi passargli le manisulla testa e sul corpo.Aveva la barba e icapelli lunghi eindossavalostessotipodi indumenti in fintapelle che portavoanche io.Eraunuomobasso e, mi sembrò,parecchio più vecchiodi me. Mentre cercavo

di fare il possibile perrassicurarlo nel miopessimo francese, lofeci sedere accanto ame, su un mucchio dipaglia asciutta chetrovai a tentoni sulfondo della capanna.Alla fine sembrò averacquistato abbastanzafiducia, perché iniziò asua volta a tastarmitimidamente il viso e ivestiti, emi chiese chi

fossi. Gli risposirapidamente che eroun inglese scappatodaun campo di prigionia,e che durante la fugami ero imbattuto nellabarriera di raggiintorno alla foresta diHackelnberg;poi,dopoessere stato sottopostoal trattamento deldottore, ero statolasciato libero nellaforesta per ordine del

Conte vonHackelnberg. A sentirequel nome l’uomorabbrividì ed emise unprofondolamento.«Ti uccideranno» mi

disse,quasi in lacrime.«Ti uccideranno. Ciuccideranno tutti. Micacciano da un postoall’altro. Mi caccianosenza tregua. Nonposso dormire. Stodiventando pazzo!». E

ripetè la parola«pazzo» una decina divolte, finché la suavoce non si trasformòinungridoditerroreedi disperazione che misconvolse.Ben presto mi

convinsichel’uomoerarealmente prossimoallapazzia,terrorizzatoda qualcosa di cosìabominevole che nonriuscii in nessun modo

a farglielo descrivere.Tentai di calmarlochiedendogli diraccontarmi la suastoria,manon riuscivaa pensare ad altro chea quell’orrore che loperseguitavacacciandolo nellaforesta. Sobbalzavacome un animaleselvatico al minimorumoretraglialberi;avolte mi zittiva,

tratteneva il respiro, erestava tutto teso inascolto dei più lievi eimpercettibili rumorilontani.Riuscii solo a capire

che era una personaistruita –probabilmente unoscrittore, perché,piagnucolandocomeunbambino che tenta digiustificare unamalefatta per cui è

stato picchiato,farfugliava parolesconnesse a propositodi certe lettere oarticoli che avevascritto,accozzandoallarinfusa una serie dinomi tedeschi malpronunciati e dicendointonolamentoso:«Hofatto soltanto quelloche mi hanno dettoloro.Iononsapevochefosse sbagliato. Perché

mi puniscono? Perchénon mi lascianoritrattare? Lo sannoche non l’avrei maiscrittoseavessisaputoche non andava bene.Mi hanno ingannato diproposito, lo hannofatto apposta pertorturarmi, peruccidermi e poi rideredi me. Dio mio! Miuccideranno per purodivertimento!».

Credodiaverpassatometàdellanottesedutosulla paglia accanto aquel povero pazzo, oratentandodiconfortarlo,ora cercando distrappargli qualcosa dipiù preciso su quellocheloterrorizzavacosìtanto;eppureDiosasenonavevovistoanch’iolamiapartediorroriaHackelnberg, e potevoben immaginarne altri

in grado di farammattire chiunque.Sentivo chequell’uomo, oltre atrovarsi inunostatoditremenda tensionenervosa, eramortalmente stanco;maquandoglichiedevoche cosa faceva neiboschi durante ilgiorno,dovetrovavadamangiare e se quellacapanna era il suo

abitualerifugio,luinonrispondeva oborbottava a bassavoce,conunaspeciedifolle ed egoisticafurbizia,chenonmeloavrebbe detto pertimorechelotradissi.Avevofame,manella

capanna non c’eraniente da mangiare;eroanchestanco,eallafine, rendendomicontoche più di tanto non

avrei potuto aiutarequell’uomo, né lui me,e pensando che da luinon avevo niente datemere,midistesisullapaglia e miaddormentai.Ilsolemisvegliòemi

ritrovai solo. Fuori laforesta era unameraviglia di verde eoro, fresca, gaia eincantevole.Guardai inbasso, verso il verde

chiaro della radura,ascoltando il cantodegliuccelli;mistiraierespirai a pienipolmoni. Forse la mialibertà era solorelativa,mapermeerareale,enelchiarorediquella prima luce delgiorno, nel profumo diquegli alberi così veri,così fedeli alla loronatura e cosìserenamente e

perfettamenteubbidienti all’eternociclo della vitadell’universo, nonriuscivo a credere chele maligne perversionidella bellezza naturaleche avevo visto allaluce delle torce, ladeformazione el’umiliazione di esseriumani di cui ero statotestimone il giornoprima, fossero

anch’esse reali. Miguardai intornocercando ilmiopoverocoinquilino,ridendoframe e me dei suoiterrori,manon lo vidi.E non potei fare ameno di ridere anchedel mio aspetto: conquelle brache peloseassomigliavo a unRobinson Crusoe a cuiavessero tagliato icapelli.

Mi meravigliava cheil personale del Conteprodigasse materialicosì eccellenti per uncriminale, comeimmaginavo miconsiderassero. Nonsembravapernienteunmodo di fare nazista: inazisti non sprecavanovestiti buoni per deirifiuti umani di cuiintendevano disfarsi.Ma poi ripensai a

quanto erano ricchi edelaborati i costumidelle ragazze-selvaggina. Per quantonon riuscissi a credereche i timoridelpoveroscrittore francese dimorire di morteviolenta fosserogiustificati, nondubitavo che entrambifossimo destinati adavere un ruolo inqualche bizzarra

battuta di caccia delConte.Poco distante da lì

sentii un lievemormorio di acquacorrente. Accelerai ilpasso avanzando inmezzo ai cespugli, epresiascendereperunpendio alberato indirezione di quelsuono. In una distesaombreggiatadafaggiecon scarso sottobosco,

un piccolo, limpidotorrente veniva giùscrosciando fra lerocce e si riversava inun’invitante conca colfondo di sabbia eciottoli. Ma prima chepotessi raggiungerlo,un’esplosione difuribondilatratimifecetornare con un balzosulpendio,esbirciandofra i cespugli vidialcuni guardiani con

unacoppiadialani,chetrafficavano vicino auna specie dirudimentale tavolopoco più giù dellaghetto. Uno di lorostava guardando nellamia direzione e, senzaalcun preavviso, alzò ilfucile e fece fuoco.Istintivamente,vedendo quelmovimento,abbassailatesta e sentii il piccolo

proiettile passare inmezzoai ramisopradime. Stando curvotornaidicorsaversolacapanna, e non miavventurai a scenderedi nuovo finché nonsentii che quei caniringhiosi venivanotrascinati via lontanonel bosco. Allora mimossi con grandecautela, rimanendoancora in ascolto e

guardandomi intornocon circospezioneprima di abbandonareilriparodeicespugli.Su quel tavolo

rudimentale avevanolasciatounaquantitàdicibo: pane, formaggio,patate,verdurecrudeemele. Avevo fame edero già sul punto diafferrare una fetta dipane, quando unimprovviso sospetto,

come un rivolo diacqua gelida sullaschiena, mi fecerabbrividire, e miprecipitai di nuovo alriparo.Esemiavevanoattirato allo scopertoperfornireaiguardianiunbersagliopiùfacile?Percircaun’orarimasiappostato fra icespugli, affamato, masenzaavere ilcoraggiodi avvicinarmi al

tavolo. Con unasemplice minacciaerano riusciti atrasformarmi in unacreatura selvatica. Inrealtà devo confessarechenoneradeglispario dei cani che avevopiù paura, ma delrischio di ritrovarmicon delle ferite chepotessero mettere arepentaglio le miepossibilità di fuga. In

ognicasoilrisultatofulo stesso: chiamalavigliaccheria oprudenza, fattostacherimasi ad aspettare,con la pazienza di unanimale, finchénon fuiassolutamente sicuroche il terreno fossesgombro.Allafinecorsigiù, bevvi in fretta,arraffai più provvisteche potevo e battei inritirata. Non tornai

però alla capanna, matrovai uno spiazzoerboso da dove potevoavere una buonavisuale mentremangiavo.Questa era

l’amarezza della miacosiddetta libertà:sapere di essere statoliberato soltanto perqualche crudelepassatempo del Conte,ma ignorando quale

forma esso avrebbeassunto e da qualegeneredi inganno o ditrappola avrei dovutoguardarmi. La foresta,ai miei occhi, era piùbella del paradiso, manon ne traevo alcunpiacere, perché tutti imiei sensi eranoperennemente tesi acogliere i segni di unpericolo che potevaminacciarmi.

Nonostante tuttoavevo uno scopo. Milusingavo di esserefatto di una pastadifferente rispetto aquel francese con inervi a pezzi. Non chemi piaccia farmisparare, ma ero statoinguerraeavevovistocosebenpeggioridiunpallettone da cacciache ti sfrecciasopra latesta.Così,sentendomi

molto più in forzegrazie a quello cheavevo mangiato, mimisi incamminoper lamiaprimaricognizione.La foresta non era

così selvaggia eintricata come miaspettavo e, adeccezione di qualchezonapiùfitta,sivedevadamolti indizi che eraben curata: ilsottobosco era stato

sfoltito, gli albericaduti erano statisegati e accatastatilungo i sentieri, el’erba veniva tenutacorta. A parte la suavastità, la foresta diHackelnbergnonavevanulladidiversodaunodi quei boschi cheabitualmentesitrovanonelle tenute dicampagna inglesi, eaveva anche quella

stessa aria discreta edesclusiva.Per tutta la mattina

non vidi anima viva,eccetto qualcheuccellino e un paio discoiattoli. Anchequestomistupì,mapoipensaiacomesiusavacacciare in quel luogo.Gli ospiti di vonHackelnberg volevanobersagli facili, senza leincertezze della caccia

ai cervi selvatici, cheandavano stanati ebraccati. Eppure avevoudito il Conte inpersonacavalcarenellanotte e suonare il suocorno nella foresta.Quale preda stava maiinseguendo sotto lalucedellaluna?Adessopensavo di conoscerela risposta a questadomanda, e calcolai aocchioleorecheilsole

aveva ancora dapercorrere prima ditramontare.Doveva essere più o

menometà pomeriggioquando raggiunsi labarriera. Avevocosteggiato un terrenobrullo leggermenteondulato e circondatodipini,emierotenutoal riparo degli alberi,dirigendomi verso untratto di bosco.

Arrivato all’estremitàdi quella cintura dipini, vidi un grandeprato di erba bassa,che disegnavaun’ampia curva adestra e a sinistra.C’erano almenoduecento metri senzaun riparo in grado dinasconderequalcosadipiùgrossodiunavolpe,ma quello che subitoattiròlamiaattenzione

fu una specie di altatorretta di guardia inlegno che stava alcentro della zonaaperta, a quattro ocinquecento metri didistanza da me. Laparte più alta dellatorre era chiusa, percui non potevo vederese era occupata, madentrodimeerosicuroche ci fossero binocolie mirini puntati a

sorvegliare quellospazio.Labarriera,dipersé,

sembrava ridicolmenteinadeguata: un’unicafila di pioli d’acciaiososteneva tre sottili filimetallici cheluccicavano al sole.Strisciai sul ventrecercando diavvicinarmi il piùpossibile,approfittandodegli arbusti che

crescevano per untratto oltre i pini. Nonsembrava affatto filospinato, e alla luce delgiorno non riuscivo adistinguere quellostrano flusso luminosoche avevo visto, ocreduto di vedere, nelchiarore lunare la serache ero arrivato aHackelnberg.Continuaiastrisciare

avanzando ancora di

qualche centimetro e,sentendomi muovere,unacoppiadifagianisialzò dai cespugli conun frullio d’ali a unpaio di metri didistanzadame.Rimasia guardarli mentre siallontanavano indirezione di quell’altrazona boscosa, chestava al di là dellabarriera. Il maschiovolavaalto,lafemmina

molto più bassa, e miresi conto che, se nonavessecambiato subitorotta, a malapenaavrebbe evitato il filometallico più alto, chestava a circa tremetrida terra. Ma si alzòleggermente, e alloracapiicheloavevavistoe che si apprestava asuperarlo.Improvvisamente peròcaddeaterrastecchita,

come se fosse statacolpita in pieno da uncalibro dodici. Sentii iltonfodelsuocorpochesbatteva sul terrenoduro e brullo, ai piedidella barriera. Eppuregiurerei chenonavevatoccato il filo; eracaduta ad almenomezzo metro didistanza, ne ero certo,e poi, se lo avessetoccato – un grande

uccello come quello,chevolavaancheaunadiscreta velocità –,avrei visto il filovibrare, perché era diunmaterialeluccicantee ben visibile. Dettiun’occhiata alla torredi guardia, per vederese ci fosse qualcheindiziochel’uccelloerastatoavvistatodalì,manullasimosse.Proseguii la mia

esplorazionedirigendomiasinistraemantenendomi vicinoai cespugli checosteggiavano il bosco.In certi punti potevoavvicinarmi di piùrimanendo al coperto,e da lì vidi che pertuttalalunghezzadellabarriera, da ciascunlato del filo più basso,una striscia di terrenolarga circa mezzo

metro eracompletamente brulla.Qua e là, su questazona di terra indurita,priva di vegetazione,notai dei ciuffetti dipelliccia e di piume:erano i resti degliuccelli o degli altripiccoli animali cheavevano tentato dioltrepassarla.Circa mezzo miglio

più avanti avvistai

un’altra torre di legno,e non era difficilepresumere che ce nefossero a intervalliregolari lungo tutto ilperimetro, in modo datenere sempre sottocontrollo l’interabarriera. Se così nonfosse stato, ragionai,era chiaro che nonavreimaipotutoesserelì, ancora vivo, aosservarla dall’interno.

Rimasinascostoancoraper un po’, riflettendosu quello che avevovisto e traendonealcune conclusioni.Adesso pensavo diavere la provadell’effettiva portatadei raggi Bohlen, chesupponevo fosserocondotti ed emessi daicavi metallici. Se ilraggiod’azionedi ognifilo era effettivamente

di mezzo metro, allorala barriera costituivaunostacololetalediunmetro di larghezza perquattro di altezza, el’unico modo persuperarla,evidentemente,sarebbe stato untunnel. Che il terrenononpotessefungeredaconduttore, altro cheperunabrevedistanza,mi sembrava

dimostrato dal fattoche appena al di là diquel mezzo metrol’erba cresceva folta erigogliosa. Ma se nonmi ero mai potutoavvicinare a meno diquaranta metri, avreiavuto il tempo discavare, da solo e conqualche attrezzofabbricato da me, untunnel lungo più dicinquantametri?

Mi rimisi moltopresto in camminoverso la capanna.All’andata avevolasciatosulsentierounbel po’ di tracce,facendo delle tacchesuitronchideglialberi,o segnando con unapietra le zone di terrabattuta, e così,malgrado qualcheabbaglio, raggiunsi lamia radura prima che

facesse buio. Avevoriflettuto sullepossibilità di sfuggireagliorribilipianiche ilConte aveva in serboper me, quali chefossero, e avevoconsideratol’eventualità di seguirel’esempio del francese– cambiando cioècontinuamente il luogoin cui avrei dormito.Maqualcosadiistintivo

– chiamalo orgoglio oostinazione – sirivoltava dentro di meall’idea di lasciarmibraccare come unanimale, di correrecome un gattoinseguitodauncane,edi procurare loroproprio il divertimentoche cercavano. Sefossero venuti atormentarmi,alloraerameglio farmi trovare

nella mia tana ecombatterli da lì.Desideravodisperatamente lalibertà, ma quello chedavveromispaventava,più che una lottaimpari, era l’idea diridurmi a un relittoterrorizzato e follecomequelfrancese.Così tornai indietro,

scendendocoraggiosamente fino

al tavolo, senza vederené sentire nessuno, edivoraileprovvistechec’erano, portandomidietro quello cherestava. Poi, arrivatoalla capanna, raccolsidei rami lunghiedrittie tentai di fissarli inmodo da formare unrozzo graticcio chebloccavalaporta;certonon potevano resisterea un assalto, ma

almeno, spezzandosi,mi avrebbero svegliatose qualcuno avessecercato di entrare.Infine, dopo averappoggiato vicino almio giaciglio il ramopiùgrossocheriusciiatrovare e una pietrabella pesante, misdraiai.Fuunanottedifficile.

Malgrado la lungacamminata non

riuscivo a dormire.Tutte le paure chedurante il giorno eroriuscito a tenere sottocontrollo con le mieoccupazioni orariesploserosenzafreni,e l’incessante frusciodella foresta, i suoisussurriescalpiccii,neerano il sottofondoideale. La miaimmaginazioneinterpretava anche i

suoni più riconoscibili,come il grido dellecivette, trasformandolinelle voci di quelleabominevoli creatureche von Hackelnbergteneva dentro le suegabbie; sentivo loscalpiccio di qualchepiccolo animale inmezzo alle fogliesecche del boschetto emi immaginavo iragazzi-babbuinochesi

aggiravano intornoallamiacapanna.Ma non era frutto

della miaimmaginazione quellochemi fecescattare inpiedi poco primadell’alba, con gli occhifissisulgrigioriquadrodella porta e leorecchie tese adascoltareunsuonochesi ripeteva: eral’inconfondibile suono

del corno del Conte,molto in lontananza,chesiprotraevainunalungaeperentorianotaconclusiva,quelladiuncacciatore cherichiamaisuoicaniallafinedellagiornata.Erastata una notte senzanuvole, e con la lunaquasi piena cavalcarenella foresta dovevaessere stato facile.L’aria fredda dell’alba

si insinuava nellefessure delle pareti erabbrividii.Quandoilsolefualto

fecidelmiomeglioperscrollarmi di dossoquella sensazione ditorpore e impotenza. Imieipianieranoancoramolto vaghi; avevosoltanto qualchegenerica idea che nonosavo mettere allaprova dei fatti, quei

pochi che conoscevo,per paura discoraggiarmi del tutto.Perciò mi limitai adarmi come obiettivoquello di procurarmiun’arma o un qualcheattrezzo,epertrovarloil metodo migliore misembrava provare aelemosinarlo daqualcunodelpersonaledel dottore, oppurerubarglielo. Non

riuscivo a credere chele infermiere che sierano prese cura cosìbene di me fosserotanto spietate e cosìmeccanicamenteligieeasservite come ildottore si vantava chefossero.Aspettai al riparodei

cespugli finché iguardiani non ebberolasciatosultavolodellenuove provviste: allora

presi una piccolapagnotta e delle melecome razione di ciboperlagiornataemeleinfilai sotto la maglia,poimimisiincamminoper ritrovare la stradache conducevaall’ospedale. Fu untragitto lungo efaticoso, e non senzamomenti di paura.Evitavo ogni pista osentiero che potesse

condurmi direttamentealloSchloss,maspessosentivo delle comitivemuoversi nellevicinanze; sentivo levoci dei guardiani e loscalpitio dei cavalli, euna volta dovettirestarmene disteso,immobile come unastatua, in mezzoall’erba alta in cima aun pendio. Poco al disotto, un gruppo

procedeva a passolento lungo il letto diun torrente con duesegugi tenuti alguinzaglio, quattroragazzi-babbuino chetrotterellavano con leloro reti davanti aiguardiani, mentre unacoppia di forestali, coninmanoquei fucili chesparavano filamenti,vigilava formando laretroguardia.

Poco dopomezzogiorno cominciaia intravedere fra glialberi alcuni edificidelloSchlosse,tirandoa indovinare sulladirezione da seguire,mi aprii un varcoavanzandoazigzagnelbosco. Fu per purafortuna che trovai lastrada:improvvisamente,quandoancoralacalda

luce del pomeriggiofiltrava attraverso ilfogliame, vidi in fondoa un piccolo sentiero,che passava sotto unagalleriadi rami, imuribianchi dell’ospedale equella stretta strisciadierbaemuschiodoveero solito passeggiareconleinfermiere.Ancoraunavoltanon

avevo nessun pianopreciso, ma sapevo

dove si trovava lacucina.Lamiaideaeradirestaredivedettatragli alberi e cogliere laprima occasione perintrufolarmi, e poiscappare con un’ascia,una pala, un grossocoltello, o un qualsiasialtro arnese chepotesse essermi utile.Se durante il giorno lapresenza degli schiavinon mi avesse dato la

possibilità diintrodurmi là dentroinosservato, sareirimastoappostatosottogli alberi finché nonfosseroandatia lettoepoi avrei tentato dientrare.Mentre mi aggiravo

furtivamente fra glialberi gettandoun’occhiata verso ildormitorio delleinfermiere, vidi la mia

infermiera di giornoche, seduta da sola suuna panchina di legnoappoggiata al muro,leggeva una rivista.D’impulso saltaitemerariamente fuoridai cespugli e dissi:«Salve,infermiera!».Lei balzò in piedi

gettando un gridolinotremulo, e non appenami riconobbe si tappòla bocca con il dorso

della mano. Mi fissavainorridita,eisuoiocchierano così pieni dimortale terrore che sele fossi apparso allaluce della luna,drappeggiato in unsudario,noncredochesarebbe rimasta piùimpressionata. Nondisseunaparola–ehoil sospetto che nonsentisse nemmenoquello chedicevo –ma

rimase lì,agghiacciata,con le nocche premutesulle labbra. Forseavrei dovuto provare aconvincerla che erovivo o che non volevofarle delmale,ma nonne ebbi il tempo: deipassiallemiespallemifecerovoltare,giustointempo per vedere unadelle altre infermieregirarsi e sparire dietrol’angolo dell’edificio

strillando asquarciagola.Stupidamente le corsidietro pensando diacciuffarla e impedirledi dare l’allarme, maera troppo tardi. Trerobusti schiaviscendevano già dicorsa le scale dellaveranda con dellescope in mano ecominciarono acolpirmi con violenza,

emettendo i loro versigutturalisimiliaringhi.Reagii, masopraggiunsero moltialtri schiavi armati dirandelli, emi presi deibrutti colpi alla testa,alle braccia e allespalle.Poiuna finestrasi spalancò, e con lacoda dell’occhio vidi ildottore in personaaffacciarsi, terreo involto,e incitareagran

voce gli schiavi. Gliurlai qualcosa ininglese,maluinonfecealtrocherispondermiasua volta con un gridoviolento,comeinpredaalpanico.Allorafuggii,proteggendomi la testae precipitandomi alriparodelbosco.Gli schiavi mi

inseguirono soltantofinoaiprimialberi,maio continuai a correre

ancoraunpo’primadifermarmi amassaggiare i lividi efare il punto dellasituazione. Era chiaroche quella notte nonavevo nessunapossibilità diintrufolarminell’ospedale. Ora nonsolo avrebbero chiusobene tutte le finestre,ma gli schiavisarebbero rimasti in

allerta, e non potevoescluderecheildottoreavesse già avvertito iforestalichemitrovavonelle vicinanze.Ovviamente la tenutache indossavo mifaceva identificarecome selvaggina delConte, e tutti eranoterrorizzati all’idea didarmi rifugio o disoccorrermicontravvenendo ai suoi

ordini.Approfittando delle

ultime luci del giornoripresi il cammino pertornare alla capanna,ma al sopraggiungeredella notte trovai unospiazzo di erba alta easciutta vicino a deifolti cespugli, e decisidi fermarmi lì. Simoriva di freddo, everso l’alba iniziòanche a piovere, ma

almeno non sentii ilcornodelConte.Il mattino seguente

fu la fame, credo, chemispinsearitrovarelastrada. Avevorimuginato un pianoper andare a rubaredirettamente nelloSchloss, in modo darimediare qualcosa didiverso da mettermiaddosso al posto diquelladannatalivreain

finta pelle di daino, eprocurarmi un’arma oqualche altro attrezzodai magazzini. Se solofossi riuscito a rubareuna divisa da guardiaforestale, pensavo, inun labirinto come loSchloss, con tuttaquella gente in giro,avrei potuto andare etornare più volte,approfittandodell’oscurità, senza

farmi scoprire. Maprima dovevoprocurarmi altro cibo,e quel progettoavrebbe dovutoaspettare fino allanottesuccessiva.Arrivai alla capanna

in tarda mattinata,presumendo che iguardiani avesserolasciato sul tavolovicino al torrente dellenuove provviste e che

senefosseroandativiada un pezzo. Mamentre strisciavo fra icespugli vicino allariva, scorsi qualcosache si muoveva nellatenue luce del bosco.Scostai le foglie pervedere meglio e miaccorsichenoneranoiguardiani, ma unaragazza,dasola,chesiguardava intornogirando continuamente

la testadaunaparteedall’altra, pronta ascappare via con unbalzo al minimorumore, ma intenta adivorarefamelicamentetutteleprovviste.I brandelli del suo

costume erano ancorariconoscibili, ed erosicurodiavergiàvistoquella folta chiomanera e quelle lunghegambe. Mi ricordavo

bene la battuta dicaccia a cui avevoassistitoqualchegiornoprima, con i segugi e iragazzi-babbuino, e mirallegrai enormementeal pensiero che quellagente potesse fallire, eche non avesseroancora catturatol’«uccello» che ilgrassone avevamancato al primocolpo. Era riuscita a

strapparsi la mascherada uccello e l’avevaspinta sopra la testa,dove ora il beccospiccavacomelapuntadiunelmo;siera toltale ali piumate dallebraccia e avevastaccato le pennemarroni e dorate dellacoda, anche se avevaancora addosso lastretta cintura a cuierano state fissate. Le

piume della gorgieraerano miseramenteinzaccherate e daipiedi alla vita eraimbrattata di fangosecco, come se avesseattraversato stagni epaludi.Mi scervellai per

trovare il modo dirivelare la miapresenza senzaspaventarla e farlascappare via, e arrivai

alla conclusione che lacosa migliore eramostrarmi concoraggio a una certadistanza, semprestando vicino altorrente, in modo chepotesse vedermidistintamente eassicurarsichenonerouna guardia. Così mispostai rimanendodietro i cespugli e poi,con aria noncurante

scesi verso la riva.Malei fuggì prima chepotessi arrivarci,balzando via tra glialberi proprio comeunagazzella.Scesigiùsenzafretta

e mi fermai vicino altavolo; presi un pezzodi pane e lo mangiai,continuando aguardarmi intorno. Madileinonc’eratraccia.Poi, dopo qualche

istante, gridai qualcheparola in inglese.Qualcosa si mosse inmezzoadei ramibassie frondosi, e capii chemi stava osservando.Dissi ancora qualcosain inglese, pensandoche, anche se non locapiva, il suono diquella lingua stranierasarebbe bastato aconvincerla che ero unprigioniero o uno

schiavo. Ma non ci furisposta, e non udiialtri movimenti.Guardai ancora fisso ilpunto dove le foglie sierano mosse: avevol’impressione che sifosse arrampicata suirami spioventi di ungrande faggioechesene stesse nascosta inmezzo al suo fittofogliame.Allora, senza più

pensare a qualespaventosoabissonellaStoria mi ero trovatocosìinspiegabilmenteascavalcare, o piuttostonon avendo nessunaprecisa memoria didoveequando,nelmiopassato, avessi vistoquelgesto,feciilsegno«V»conledita–sai, ilgesto di Churchill, chea quanto dicevano ipropagandisti era

molto diffusonell’Europaoccupata.Qualcosa si mosse di

nuovo tra le foglie evidi spuntare unbraccio che rispondevaal mio segno. Avanzaiancora di qualchepasso, poi mi fermaiall’estremitàdeiramiecominciai a parlarle intedesco, come megliopotevo. Le dissi chedurante la battuta

l’avevovistasfuggireaifucili e che anche ioero un prigioniero delConte. Ma fuiinterrotto da una voceferma, che mi risposeinpurissimoinglese:«Se conosci un posto

relativamente sicuro,andiamoci e parliamo.Vai,iotiseguo».Meravigliato dalla

calma e dallapadronanza della sua

voce, e stranamenteemozionato per averscoperto di dividere laforesta con una miacompatriota, ritornailentamente verso lacapanna; ma invece dientrareproseguiiversola radura dove mi erofermato a mangiare laprima mattina nellaforesta. Lì la visualeera abbastanza ampiasu tre lati, mentre sul

quarto c’era una foltaboscaglia, e davantiunagiungladi erbacceche ci avrebbe offertoun ottimo riparo peruna rapida fuga.Continuai ad avanzarenell’erba, senzaguardarmi intorno, equandomi fermaiemiaccovacciai,scopriichela ragazza si erarannicchiata proprioalle mie spalle, tanto

da essere quasicompletamentenascosta dallavegetazione. Siacquattò vicino a mecome una pernice, mavedevo soltanto la suatesta,conquelbizzarroelmoabeccod’uccello.Aveva un bel viso,lievementelentigginoso, eintelligenti occhi grigi.Aveva portato con sé

una quantità diprovviste, e mentreparlavamo continuavaa mangiare,studiandomi come pervalutarmi, conun’espressione che, alcontrario di quello chemisareiaspettato,nonsembrava néspaventata né stanca,ma piuttostocircospetta e talvolta,quando mi raccontava

le sue avventure,perfinodiffidente.La mia storia invece

doveva sembrarelacunosa e pocoplausibile: sapevo chesarebbe stato inutiletentare di spiegare – oanche solo didescrivere – quel mioincredibile balzoattraverso il tempo.Non volevo che avesseil minimo dubbio sulla

mia sanità mentale.Così le dissi solamentecheeroscappatodauncampo di prigionia,pensando che i campidi concentramentofossero ancora unadellecaratteristichedelReich. Non sembravacolpita, e in effettipensaichelacatturadiuningleseinGermaniadoveva essere per leiun avvenimento

piuttosto banale. Inogni caso mi fecealcune domande sulcampo, sul motivo percui mi ci avevanorinchiuso e sui mieicompagni, poiall’improvviso tacque,come se d’un trattocapisseerispettasse leragioni della miareticenza.Aquelpuntoavevo avuto modo diriflettere sulmio gesto

impulsivo,emistupivachequelsegnovenisseusato ancora oggi,dopo un centinaio dianni di dominazionenazista; così ledomandai cautamentecome avesse fatto ariconoscerlo.«Come,» disse con

aria sorpresa «non è ilsegno che si usavadurante l’anticaresistenza? Non ne so

molto di movimenticlandestini – non hoavuto il tempo distudiare un granchéprima che miprendessero, ma unavolta qualcuno tenneuna lezione al nostrogruppo di studio aExeter, e ci disse cheun tempo gli antichipartigiani siscambiavano quelsegno durante i

disordini, sai, dopol’invasione del ’45.Probabilmente stava aindicare la tacca delmirino nei vecchi fucilidi allora. Non sapevoche i Compagni lousassero ancora, maquandotihovistofarloho creduto che fossianchetuunodiloro».Mentre parlava del

suo«gruppodistudio»con quell’aria tutta

seria, sembravaproprio una ragazzina.Alternava improvvisislanci di confidenza adaltrettantoimprovvisiemisteriosi riferimenti oallusioniacertesigle–iniziali, suppongo, chedovevano indicarequalcheorganizzazionepatriottica clandestina.Mi parvedi capire cheanche dopo un secolodidittaturagermanica,

la resistenza inInghilterra era ancoraviva, per lomeno tra igiovani o gli studentiuniversitari come lei.Ormai non sembravapiù trattarsi di unaresistenza armata, masolo di calcolatedivergenze su sottiliquestionidottrinaliediteoria del partito –sottigliezze che per leidovevano avere

un’importanzacruciale,ma che a mesembravano pedantiquanto le dispute deiteologi medioevali.Eppure, riflettevo, nelMedioevo similidivergenzedall’ortodossiareligiosa portavano alrogo. Certo, queiragazzi non avevanodovuto combatterecomeme il nazismosu

unanavedaguerra,mala loro era pur sempreunabattaglia,anchesesi trattava soltanto didistorcere uno slogandelpartitoaunradunostudentesco. Anzi,avevano bisogno dimolto più coraggio,perché in fondo io e imiei commilitonieravamo liberi,combattenti addestraticon una potente

nazione alle spalle, e irischi erano gli stessi:non solo la morte, matutte le torture e lenefandezze che unassolutismo depravatocome quello potevasceglierediinfliggere.Le chiesi come fosse

arrivataaHackelnberge lei scrollò le spalle:«Come al solito,immagino:un’imprudenza e un

delatore. Sono statafortunata, comunque,perché non avevanoprove decisive controdi me. Così mi hannospedita in una dellegrandi scuole dirieducazione dellaPrussia orientale. Sai,quel genere di postidove addestrano gliufficiali delle leghegiovanili. È là chemandano i dissidenti

stranieri –vogliodire inordici, naturalmente.Ritengonoche il nuovoclima mentale possapurificare il loropensiero dall’errore.Inoltre i cadetti nazistihanno sempre bisognodimateriale nuovo peresercitarsinell’artedelcomando–esonofelicidi disporre di ribelliariani, soprattutto sesonoragazze».

«Ma come sei finitanelle mani di vonHackelnberg?»domandai.«Sono fuggita dalla

scuola» rispose concalma.«Ehosbagliato,lo so. La linea deiCompagni è che sefinisci in una scuola dirieducazione deviadattarti e impararetutti i trucchi delmestiere, in modo da

passare per unautentico nazista e, altuo ritorno, poterlavoraretranquillamente sottocopertura. Ma era uninferno.Non riuscivoaresistere. Così sonofuggita e,naturalmente, mihannopresa.Sescappiti classificano come“pernicioso”, e questosignifica che vieni

arruolato in un istitutodel Reich e sottopostoalla stessa disciplinadegli Stücke8 di razzainferiore. Ecco comesono finitaqui.Maorabasta parlare di me. Ilpunto è, che cosapossiamo fare per te?Sei in una situazionemolto peggiore dellamia».Le dissi che secondo

me eravamo più omeno nella stessabarca.«Oh,no!»rispose lei,

con quel senso praticoe quella categoricitàtipica della giovinezza.«Io per loro sono unaproprietà di valore, tusei solo un criminale –un elemento daliquidare. Non soesattamente che cosane faccia il Gran

Maestro delle Forestedei criminali che gliportano,masonocertacheèqualcosadi lentoe disgustoso. Quantosei riuscitoa vedere làdentro?».Glieloraccontai.Leiannuì.«Iononho

maivistoquelledonne-gatto,mamenehannoparlato. E soprattuttole ho sentite. Devonoessere quelle operate,

immagino». E lanaturalezza del suotonomiturbòpiùdellesue parole.L’asportazionechirurgica da un corpoperfettamente integrodi quell’elemento chegliconferiscelalucediun’animaumanaperleinon sembrava unafantasia da incubo,mapuraroutine.«Sono qui da sei

mesi» mi disse. «Sonouna Jagdstück – unaragazza-selvaggina,riservataespressamente aqueste battute dicaccia. Solo lemigliorivelociste vengonoscelte: siamo un’interacollezione, sia arianeche di razza inferiore.E non è poi cosìmale,tra una battuta el’altra. A loro modo i

forestali non sono cosìcattivi, fino a quandonon inizia la caccia.Allora sono i cani aterrorizzarti; dentro dite sai chenondovresticorrere; ma quando teli senti alle calcagnanon riesci più acontrollare la paura. Esai che se non corri iforestali tilascerebbero prendere,perché non saresti più

di alcuna utilità ai finidel divertimento efarebbero di te unospauracchio per lealtre. Alla fine anche ipiù buoni tra lorofiniscono per perderela testa quando tidanno la caccia. Sonostata cacciata in moltimodi, e a volte hannoospiti molto piùesigenti di questacomitiva del Gauleiter.

Cosìliportanoacacciadi cervi selvatici nellaparte più esterna dellaforesta, e qui, perdivertirsi, organizzanouna finta caccia alcervo. Ti lascianolibero un giorno primaepoiinizianoaseguirele tue tracce con isegugi. Cerchi dinasconderti nei luoghipiù impenetrabili, mauna volta che i segugi

tiscovano,echequellebestie feroci vengonosguinzagliate,naturalmente non puoifare altro che uscirealloscopertoemettertiacorrere.Aquelpuntotisparanoaddossounaspeciedipiccolodardoche ti si conficca nellacarne e a cui èattaccato un lungo filocolorato, che glipermette di capire chi

ti ha colpito. È perquesto che ti rivestonodi quella strana pelleresistente, come fossiun cervo, e ti lascianonudo solo là dove idardi ti siconficcheranno dentrosenza lasciare dannipermanenti. Quellecose bruciano daimpazzire e non puoitoglierle senzafermarti; ma poi,

appena vedono che seistato colpito, liberanole bestie da riporto – iragazzi-scimmia – perprendertielegarti.Èinquel momento che haipiù probabilità discappare: devonocolpirti nel puntogiusto, perché i dardinon riescono apenetrare la fintapelledidaino,esenonèunbuon tiro non

sguinzagliano lescimmie. Sono statacacciata tre volte inquel modo, e due diqueste sono riuscita afuggire».«E dopo vengono a

prenderti?» chiesi, e leraccontai della battutadi caccia a cui avevoassistito,conisegugieiragazzi-babbuino.«Oh, sì, certo»

risposecomeseniente

fosse. «Ieri mi hannoinseguita per quasitutta la giornata,ma liho seminati nellepaludi.Ovviamenteallafine mi prenderanno,perché sorvegliano itavoli con le provviste,ma a quel punto avrògiàunbelvantaggio».«Manonhaipauradi

quello che ti farannoquando ti avrannopresa?».

«Non mi fannoniente.Èvero,lascianoche le scimmie se laspassino un po’, ed èripugnante. Ma non tipuniscono per esserefuggita – dopotutto èquesto che vogliono.Per loro non c’èdivertimento se tiarrendi».«E se invece ti rifiuti

difuggire?».«Allora i cani ti

sbranano» rispose conuna sorta di calmarassegnazione. «Mauna volta che ti hannobeccatoconunodiqueidardi,faraidituttoperschivarli la voltasuccessiva, perché cimettono dentroqualcosa per farti piùmale».Restammo lì,

accucciati nell’erbaalta, per gran parte di

quella calda e assolatamattinata, e ascoltarequella gradevole vocedi ragazza che parlavala mia stessa lingua,con quello stranomiscuglio di ingenuitàe saggezza, e quellaserena accettazionedelle circostanze piùincredibili,fupermelacosa più strabiliante.Dopo un po’ mi resiconto che si era

convinta che avevofatto parte diun’organizzazionedellaresistenza inglese:c’era una specie dideferenzanelsuotono,quasi di ammirazione,quando accennava almio«lavoro»–comeseio fossi stato unveterano dell’attivitàclandestina, mentre leisolo una principiante.Spesso mi chiamava

«Compagno», e conun’aria così solenne,che pensai che quellaparola doveva essereunaformulaconsacratatra i membri dellaresistenza, e presto,rivolgendomia lei, finiiper usarla anch’io,notando quanto questolefacessepiacere.«Ma che cosa si può

fareperte?»ripeté.«Prestofuggirò»dissi

fiducioso.«Ahsì?Ecome?».«Attraverso la

barriera».Scosse la testa con

grande serietà. «Èimpossibile.Ècaricadiraggi Bohlen, lo sai,basta toccarla e seispacciato. Ne hoparlato con le altreariane “perniciose”.Una di loro a cuiavevano dato la caccia

eraterrorizzataall’ideadi essere ripresa, ediceva che sel’avessero cacciataun’altra volta sarebbecorsa dritta verso labarrieraecisisarebbelanciata contro peruccidersi. Be’, fumandatadinuovofuoricome cerva, c’eroanch’io. Si nascosevicinoallabarriera,mala trovarono e fu

colpitanonappenauscìallo scoperto. Hoassistito a tutta lascena: corse drittaverso la barriera, ma iraggi non la uccisero,non subito, almeno. Lavidicadereaterraelasentiiurlaredaldolore.Quello che fanno, inquesticasi,èspegnerlidalle torri di guardia,sequalcosadigrossocifinisce in mezzo. Così

andaronoaprenderlaela riportarono dentro.Immagino che siamorta per le ustioni,perché non l’abbiamomaipiùvista».Le raccontai la mia

esperienza con i raggi,poi le spiegai: «Ma ionon ho intenzione dioltrepassare labarriera, lamia idea èdi scavare un tunnel».Mi guardò perplessa e

così mi misi a parlaredell’arte dello scavo,come la intendono iprigionieri di guerra.Restò ad ascoltarmicon attenzione, manotòsubito idifettidelmiopiano.«Ci vorrebbe troppo

tempo,» disse «anchein due. Non tilascerannomai inpaceabbastanzaalungo».«Ma dovranno pur

esserci altri criminalinella foresta oltreme»replicai, raccontandoledel francese. A quantosembrava lui erarimasto libero per unbel po’, quindi sapevadovenascondersi.Chinò la testa, finché

il suo viso fucompletamentenascosto dall’erba.«Nonso,»disseavocebassa e con tono

esitante «penso disapere cosa gli siacapitato. Ho sentito ilsuonodelcorno...».«Be’,»dissi«iofaccio

un tentativo. Ora lacosa importante èprocurarsi degliattrezzi. Tu qui sei piùpraticadime, saidovetengonolevanghe?».Allora, vedendomi

così determinato epieno di coraggio,

accettò l’idea conentusiasmo e cominciòtutta eccitata apianificare comeavremmo potutoprocurarci qualchearnese. Sapeva dovetrovarli, dichiarò: alpadiglione Kranichfels.Era lì che tenevanogliattrezzi gli uomini chesorvegliavano gliappostamenti.Esapevacome arrivarci, perché

quando venivapreparata una battuta,le ragazze-selvagginavenivano tenute là.Così le proposi diandare insieme quellanotte a vedere cosapotevorubare.«No, no!» esclamò.

«Ci vado io! Tiscoprirebbero subito,vestito così. Io possoentrare al crepuscolosenza che se ne

accorgano. Ci sonodelleschiavelì,epossopassareperunadiloro.Dammi solo una manoa liberarmi di questacosachehointesta».Le diverse parti dei

costumi delle ragazze-selvagginaeranocucitecosì strette sui lorocorpichenonpotevanoliberarsene da sé,senza almeno un paiodi forbici o un coltello.

Andai in giro allaricercadiqualcosaconcui aiutarmi e trovaidue pietre. Ne spezzaiunainmodocheavesseunbordoaffilato,econquella tagliai lacucitura che tenevaattaccata la mascheraalla gorgiera. Ora chepotevo osservarla davicino, la fatturaperfettae lasoliditàdiquel costume mi

lasciaronostupefatto.«Ah, maledetta

precisione tedesca!»esclamò lei condisprezzo, e buttò lamaschera fra icespugli.«Èincredibilequantosidianodafareperché ogni minimodettaglio sia perfetto.Quei guardacacciasono dei monomaniaci,e quello che li rendeveramente disumani è

la loro impossibilità dicapire che tu sei unessere umano: tistannointornoperore,affinché il tuo costumesia esattamente quelloche ci vuole per laparte che ti hannoaffibbiato in uno deiloro spettacoli, eppuresenti chenonhanno lapiù pallida idea di chihannodifronte».Avevaintornoalcollo

una catenina d’acciaiocon una targhettanumerata.Lagirai,manon c’era un nome,soltanto delle lettere eunnumero.Lemieditasfioravano la pellemorbida e calda delsuo collo, e mentreparlava non potei farea meno di notare lariluttanza, il profondorisentimento che c’eraneltonodellasuavoce;

era ancora unabambina ed era statabrutalmente arrestataproprio all’inizio diquel cammino chel’avrebbe condottanella sconfinataregione dell’amore,della comprensione edella libertà fra esseriumani. Il corso dellasua vita era statodeviato verso questisentieri angusti e

contorti. Eppure erariuscita a conservareun meravigliosoequilibrio e uno spiritoindomito. Non potevosmetterediammirareilsuo coraggio e il suosangue freddo, maquello che più micommuovevae insiememi servivadaesempio,quello che mi dava dinuovo speranza emotivazione, erano la

suafreschezzaelasuainnocenza in quelmondo pervertito. Eracome uno di queibellissimi alberi dellaforestadiHackelnberg,che il Gran MaestrodelleForeste,contuttalasuafolleingegnosità,non poteva costringerea crescere tradendo laproprianatura.Vedi, fino a quel

momento mi ero

imposto di frenare lemie elucubrazioni e diconcentrarmiesclusivamente sucome superare labarriera;maaunacosanonosavopensare,unacosa che per tutto iltempo avevacontinuato a gravaresullamiaanima:quellospaventoso mondo dischiavi cheimmaginavo di trovare

fuori dalla barriera diHackelnberg. Ma orasapevo che là fuoriesisteva ancoraqualcosa di vero,qualcosadelcoraggioedell’orgoglio cheavevano fatto l’anticagloria dell’umanità.L’essenziale era uscireda Hackelnberg; egiurai ame stesso chesaremmo fuggiti e cheavremmo ritrovato i

suoicompagni.Continuavoagiraree

rigirare quellapiastrina tra le dita,mentre lei era rimastaconlatestaall’indietroe il mento sollevato,lasciandosiaccarezzareilcolloconunasortadiquieto e fiduciosostupore.«Non c’è nessun

nome, qui sopra» ledissi, ed ebbi la netta

sensazione che nellamia voce avessericonosciuto isentimenticheprovavoperlei.«MichiamoChristine

North,» disse «ma acasa mi hanno semprechiamataKit».Be’, non restammo

insiemepermolto:soloun giorno, dal mattinofino a notte inoltrata,una lunga giornata

estiva. La più lungadella mia vita. Ora mirendo conto di nonaver mai conosciutonessuno così benecome Kit; e so che seincominciassi araccontare ogniminimo dettaglio chemi rimase impresso eche amai di quellagiornata, non arrivereimai alla fine, anche sepassassi il resto della

vitaasetacciarelamiamemoria. L’immaginedi quella forestaintricataepienadiluceè ancora così vividanella mia mente chepotrei ricordareesattamentelapiegadiogni filo d’erba, laforma di ogni foglia edi ogni ago di pino,ogniarabescodiluceeombra,ognimaggiolinoeognifarfallasucuisi

posarono i miei occhiquel giorno; riescoancora a sentire nellenarici il profumo dellaterra, dell’erba e deipini; e nelle orecchieho ancora il cantoestivo degli insetti. Ec’era qualcosa diveramenterarointuttoquesto, che nonapparteneva né al suotempo né al mio,qualcosa di simile alla

dolcemagia che rendecosìluminosoilricordodi una giornata estivadiquandoeribambino.Lo splendore e lagrazia di quell’etàperduta, quando vivevie giocavi protetto, alsicurodaognipericoloe preoccupazione,libero di dedicartianima e corpo alleincomparabilimeravigliedellanatura

cheticircondava.Vagammo per

Hackelnberg come dueinnamorati che si sonoritrovati in una forestaincantata. A ciascunodi noi l’immediatopassato apparivaremoto e irreale, comeun orrendo sortilegioche i raggi mattutinidel sole avesserospezzato. Hans vonHackelnberg sembrava

l’orco di una favola, enoicicredevamosoloametà – solo quel tantoche bastava a renderepiù eccitante la nostraavventura. E ridevamoe facevamo progettiperlanostrafugacomesefosseungioco.Smettemmo per quel

giorno di credereall’esistenza di undomani; era tale lanostra gioia nello

scoprire il piacere chetraevamo l’unodall’altra, tale lostupore per la vastitàdiquelnuovoterritorioche avevamo appenascoperto; el’eccitazione diesplorare ogni angolodeinostricuoriappenanatieracosìviolentaeinsieme così dolce checi sembrava dipossederedentrodinoi

tutto ciò che di vero edi importante esistevaal mondo: noi soli,mentre vagavamo inquella mirabile e gaiaforestaestiva,eravamoilmondo.Per tutto il giorno

non vedemmo animaviva, né sentimmo ilsuono di una voce ol’abbaiarediuncane.Ilnostro impenetrabileisolamento ci dava un

tale senso di sicurezzache ce ne andavamo azonzo spensierati perquei sentieri erbosi,senza fretta, manonellamano,fermandociascherzareeagiocareogni volta che ciimbattevamo in unaradura.Passammocosìil resto della giornata,chiacchierando,giocando epasseggiando senza

meta,maapomeriggioinoltrato iniziammo aspostarci in direzionedi Kranichfels. Cifermammo araccogliere mirtilliselvatici in dellevallette boscose checonosceva Kit, erestammo un po’ lì, inmezzo a quei cespugliche ci arrivavano finoalla vita, mangiandomirtilli e ridendo delle

nostre labbramacchiatediviola.Poco prima del

tramonto arrivammodavanti a certe roccecalcaree che siaffacciavano su unruscello che andava aformare un piccolobacino. Ciarrampicammo e cisedemmo su unasporgenza erbosa dadove, sbirciando

attraverso il fogliame,sivedevaunapartedelsentierocheconducevaal padiglioneKranichfels che, aquanto diceva Kit, nondistava più di mezzomiglio. Era una seraperfettamente calma eilsolesiallontanavainun cielo azzurro esenza nuvole, mentregli ultimi raggitingevano di un colore

acceso le rocce, che ciriscaldavano con ilcalore assorbitoduranteilgiorno.«Ah,» disse Kit dopo

un lungo silenzio «sesolo,contuttoilpotereche hanno, avesseropreservato una forestacosì splendida erasserenante soltantoper l’amore; perché tue io e tutti gliinnamorati potessimo

vagabondarci, finchéduralagiovinezza...».Restammo seduti in

silenzio fino a quandol’oscuritànon fucalatafraglialberi.AlloraKitcominciò a strapparecon le unghie lecuciture della suagorgiera di piume. Iotrovai una scheggiaaffilata e le tagliai ipunti liberandola diquel che restava della

sua bardatura. Kitdisse che se per caso,in quella calda serataestiva, delle schiave sifossero aggirate per iprati di Kranichfels,sarebbero state nude;era quello il segnodistintivo della schiavadi razza inferiore. Ameno che non dovesserecitare una parte inqualche spettacolo, lasua livreaestivaera la

pelle. E se anche inquella debole lucequalcheguardiaavesseavvistato Kit, il suoocchio avrebbe notatoil luccichio dellacatenina d’acciaio, el’avrebbe presa per uncollare da schiava.Quanto al ritorno,passata l’ora in cui leschiave venivano disolito rinchiuse per lanotte, avrebbe potuto

fare affidamento sullafitta oscurità deglialberi.Silasciòscivolaregiù

dalle rocce e si bagnònel piccolo specchiod’acqua, ripulendosi lapelledaognitracciadifango.Laaccompagnaiper un tratto lungo ilsentiero, finchénonmiimpedìdiproseguire;aquel punto ciseparammo e io tornai

lentamente verso lerocce dove avremmodovutorincontrarci.Ancora immerso in

quellastrana,fiduciosasensazionechenulladimale avrebbe potutoaccaderci, ancoraconvinto chel’incantesimo delcrudele stregone erastato spezzato chissàcome dal mio incontroconKit,mi incamminai

a viso aperto sull’erbaal di là del ruscello.L’impressione chefossetuttoungiocoeracosì forte che nonprovavo nessun timoreo preoccupazione perKit; attendevo il suoritorno fremendod’impazienza, ma eral’impazienza di tenerladi nuovo tra le bracciae di sentire ancora lesue labbra. E perfino

l’impresa che avevamoprogettato di compiereinsieme sembravameno importante diquesto.Il buio si faceva

sempre più fitto e iocontinuavo a vagarenell’attesa di sentire ilsommesso segnale cheavevamo concordato. Irumori notturni dellaforesta cominciavano afarsisentire:ibisbigli,i

versi lontani e i vicinifruscii che mi stavanoormai diventandofamiliari.Mi inoltrai insilenzio

nel rado boschetto dibetulle che si trovavaoltrelaraduraerimasiin ascolto; non facevafreddo in mezzo aglialberi, ma c’era unafrescura persistente,checomeunasostanzainvisibile aderiva ai

pallidi tronchi appenavisibili.Avanzaiancora,e nell’oscuritàcrescenteeminacciosadelboscosentiitornaredentro di me quelladiffidenza da cervoselvatico, quellaprontezza a scattare eafuggirecheavevogiàprovato quandomi erotrovato da solo nellaforesta.Fral’erbaalta,inuna

zona che mi parvevagamente appiattita ocalpestata,comesedeicervi o altri animaliavessero sostato lì,inciampai in qualcosachenoneranéunramoné una pietra. Dopoaverlo raccolto mi resiconto, più al tatto chealla vista, che era unmocassino in pelle didaino simile a quellicheavevoaipiedi.Era

freddo e umido, e conle dita sentii che lasuola era quasiconsumata. Nient’altroche una scarpavecchia, gettata viachissà quando nellaforesta, ma mi fecebattere forte il cuoreper la paura. Volevofuggire via, il piùvelocemente possibile,da quel tratto di erbacalpestata, ma mi

forzai a frugare lìintorno, a tentoni,scrutando in cerca diqualcosa che potesseconfermare al di là diogni dubbio le miesupposizioni. E lotrovai: i brandellisparpagliati di unmaterialechealtattoeall’odorato mi sembròesattamente dellostesso tipo di quelloche avevo addosso –

erailcostumevillosodiuno dei criminalicondannati da vonHackelnberg. Ma ilpelo che ricoprivaqueibrandelli era tuttoincrostato, e ilmateriale eraimpregnato di unasostanza che si eraormai indurita. Ementre tenevo fra lemani quei resti sentiinuovamente risuonare

nella mia memoria lalunga nota del cornodel Conte, solitaria eirrevocabile, che avevoudito quella voltanell’oscurità dell’alba.Non osai cercare altreprove, non ce n’erabisogno; sapevo fintroppo bene checos’era lasostanzachesieracoagulatasuqueiresti.Ligettaiviaemistrofinai le dita

sull’erba fresca,benché fosseroasciutte;poi,conpassoincerto, uscii da quelboschetto di betulle emi ritrovai in unaspianata.Mancavaunanotteal

plenilunio, e la lunaaveva raggiunto lecime degli alberiilluminandodiunalucebiancailnostropiccolomucchio di pietre.

Timoroso ora di quellalucecomeprimaloerostato dell’oscurità delbosco, mi accovacciaiall’ombradellarocciaemi lavai più volte lemaninelruscello,comesecosì facendopotessiliberare la mia mentedall’orribile immaginedella morte delfrancese.Nonpotevoattendere

oltre il ritorno di Kit,

ma scesi brancolandogiù per quel sentiero,sotto una fitta volta difoglieestivechelalucedella luna non riuscivaa penetrare, con l’ideadi metterla in guardia,diimplorarladitornaredi corsa a Kranichfels,di arrendersi di nuovoalla schiavitù, disopportare qualsiasicosa pur di averesempreunsolidomuro

a proteggere il suocorpo da quelle zanneferoci.Procedevo piano

perché nel buio pestodel bosco avevo pauradi perdermi, e andavocontinuamente asbattere contro glialberi;maallafinevididi nuovo la luna, eattraverso le foglie ilbagliore intermittentedi una luce gialla che

doveva provenire dauna delle finestre delpadiglione. Mi nascosilìvicino,inunpuntodacui potevo tenered’occhio un tratto diquelsentieroilluminatodalla luna, e restai inattesa.Passò molto tempo.

Avevoaspettato invanoi passi di Kit, ma ilfatto di non aversentito nessun altro

rumoremirincuorò.Laluna era sempre piùalta nel cielo,ma tuttoancora taceva.Nessuna voce leparlava al di fuori diquelladellaforesta.Poi, non molto

lontanodameinfondoal sentiero, sentii undebole tintinnio,seguito dallo schioccodi un ramo secco, e dinuovo quel leggero

rumore metallico.Chiamaiabassavoceilnome di Kit e vidi unafigura entrare in quelpiccolo spiazzoilluminato, restareimmobile per unattimo,epoispariredinuovo nell’ombra.Sgattaiolai accanto alei e le parlaisottovoce, cercando dirassicurarla. Trovai ilsuobraccioesentiiche

era vestita, e lamorbida stoffa che lemie mani toccaronosembrava fatta di unaspessa lanapregiata,odi una sottile pellicciavellutata simile afustagno. Ridevasottovoce, tuttaeccitata ed esultante,ma non volle parlarefinché nonraggiungemmo dinuovo le nostre rocce.

Là si appoggiò, eancora ansimante mimise in mano unapiccola vanga dalbordo tagliente e unaroncola.«Micièvolutounbel

po’» disse. «Nonricordavopiùdov’erailcapanno degli attrezzi,e non ho osato andaretroppo in giro primache facesse buio; e aquell’ora gli edifici

erano stati chiusi achiave. Ma anche seerabuiosapevodovesitrovaval’Ankleidezimmer:9 è làche ci fanno mettere icostumi quandodobbiamo esserecacciate. E sapevo chelà dentro dovevaesserci unpo’ di tutto.Erachiusoachiave,maavevano lasciato una

finestraaperta.Cosìmisono arrampicata e hopreso questo vestito,poi ho scoperto che laporta di un magazzinoera aperta e ho presoanche questi attrezzi –sono nuovi! Ma nonsono riuscita a trovareniente da fartimettereaddosso».Rise ancora, ed era

cosìfeliceesoddisfattaper quello che era

riuscita a fare chenonebbi cuore diraccontarle che cosaavevo trovato e diimplorarla di tornareindietro. Soltantoquandosiinginocchiòabere dal ruscello e fuilluminata in pienodalla luce della luna,mi resi conto dellamaniacale coerenzache c’era in ognidettagliodella vita che

Hans von Hackelnbergprescriveva ai suoischiavi. Non c’eramodo di sfuggire allatrama di quel suounico,folledisegno:gliindumenti di Kitconsistevano inun’aderentecalzamaglia, comequella che potrebbeindossareunaballerinaperisuoiesercizi,fattainmododadisegnare i

contorni di una figuraumana, ma realizzatacon un tessuto chesimulava constraordinariaprecisione la pelle diun animale.Accovacciata a quattrozampe, con la testachina sull’acqua, ilvolto nascosto e quellostrano manto scuro elucentecherisplendevaalchiaroredellalunae

la rivestivauniformemente dallatesta ai piedi, Kitsembrava un’agile esnella fiera uscitadall’oscuritàdeiboschiperabbeverarsi.Perunistante mi sembròtotalmente estranea, econ un brivido diterrore sentii la retedel sortilegioavvolgerci ancora unavolta e vidi le rosse

labbra di vonHackelnbergschiudersiin una perfida risatamentreponevafineallanostra breve vacanzacomeesseriumani.Laafferraieconuno

strattone la tirai su,riportandola a unapostura umana, equando vidi che il miogesto brusco l’avevaspaventata, riusciisoltanto a balbettare

nervosamente che ilsuo costume eramoltostrano.«Forse lo è per te»

rispose seria. «Ma iol’ho visto abbastanzaspesso.Èquelloche leschiave portanod’inverno: proteggeanche dal vento piùpungente e non lasciapenetrare né neve népioggia».«Andiamocene via da

qui» dissi, e dopo averraccolto gli attrezzi mifeci strada passandodietro alle rocce,lontanodalpratoedalbuio boschetto dibetullealdilàdiesso.Non era ancora

troppo tardi perparlarle,eavreidovutofarlo;avreidovutodirlecheinrealtàilmiononeraunbuonpiano,cheera assurdo pensare

chevonHackelnbergcilasciasse in pace pertutte le settimane checi sarebbero serviteper scavare il tunnel.Ma ormai la avevoaccesa di entusiasmo;non erano statesoltanto le mie parole,ma la mia stessapresenza e il mioamore, a convincerlache la fuga erapossibile, troppo

fortemente desiderataormai per apparireirrealizzabile. E lei eracosì soddisfatta eorgogliosa di comeaveva portato atermineilsuocompito,chenonmelasentiididistruggerequell’illusione.Ci incamminammo

veloci lungo queisentieri illuminatidallaluna,eKitnonsmisedi

parlare un momento,ragionando a bassavoce su quale tra iposti che ricordava diaver visto vicino allabarriera fosse il piùadattoperfermarsi,maio non riuscivo aprestareattenzioneallesue parole. Dovevoescogitare un altropiano, ma non ne erocapace. Di nascostotastaiilbordotagliente

della vanga; la roncolaera senza dubbiol’arma migliore, ma lavanga era più pesante,così chiesi a Kit diportarelaroncola.Ci stavamo dirigendo

verso la parte dellaforesta che, a quantodiceva Kit, era la piùlontana dallo Schloss.Era un tratto menobattuto, dove ilsottobosco e gli alberi

caduti non venivanorimossi. Lei ci si eranascosta durante unafintacacciaalcervoedera riuscita a sfuggireper una settimana aibracchi e ai ragazzi-babbuino. Avevaimparato la strada perpoterci tornarenell’oscurità,scendendo di notteverso i tavoli con leprovvistedicibochesi

trovavano nella partepiù frequentata dellaforesta. A quanto siricordava, in quellazona la macchia el’erba alta arrivavanomolto vicino allabarriera. Quello era ilposto per il nostrotunnel, là avremmolavorato di notte e cisaremmo nascosti digiorno, e perprocurarci del cibo lei

avrebbeperfezionatolostesso stratagemma diKranichfels, e sisarebbe intrufolataanche negliappartamenti deglischiavi dello Schloss.Per neutralizzarel’efficienza germanicabisognava farequalcosa di totalmenteassurdo: i tedeschinonavrebbero mai potutoimmaginare che

un’ariana si facessepassare per unaschiava di razzainferiore.Così, mentre Kit

continuava a correreallegraefiduciosa,eiomi scervellavo perescogitare un’altrasoluzione,arrivammoaun’altura con qualcheraraquerciaeunafittavegetazione di felci ederbaselvatica.Erauna

notte molto silenziosa,enonfacevapernientefreddo. Kit fece unprofondo sospiro e sislacciò il collo dellatuta. «Dio!» esclamò.«Sto morendo di caldodentro quest’affare.Quantovorrei...».Si interruppe

bruscamente e mipreseper il braccio; lalunafecebrillareisuoigrandi occhi sbarrati.

«Hai sentito?»sussurrò.Si, l’avevo sentito.

Era il suono cheattendevo da quandoavevo trovato i miseriresti del francese.Distante, eppurechiarissimo in quelsilenzio, si era udito ilsuono del corno.Attraverso i boschiilluminati dalla luna ciraggiunse una nota

allegra e spavalda, unrichiamo che in unagrigia mattinad’autunno mi avrebbeelettrizzato. Restammoa lungo immobili, inascolto, anche dopocheilsuonocessò,nonosandoguardarci.Poiilcorno risuonònuovamente, con unaccento di trionfo, diesultanza e dieccitazione, e ad esso

ora si mescolarono ibrevi, avidi latrati deicani che avevanofiutatolatraccia.Afferrai Kit per le

spalle: «Devi tornareindietro! Deviassolutamente tornareindietro! Torna aKranichfels! Vai earrenditi. Questo è ilConte che mi dà lacaccia, se non rimanicon me sarai salva!».

Insisteicontuttelemieforze,maleinonsifececonvincere.«No,nontilascio. Ti mostreròdove nasconderti. Lorononmi faranno niente,anche se sono con te.Riconosco il latrato diquei cani, non sonoquelli feroci, sonosoltanto i cani cheusano per seguire letracce. Non lisguinzaglieranno,

possiamo seminarli!Vieni,dai!».Quello che diceva

poteva anche esserevero. In ogni caso lanostra unica speranzadi salvezza eraraggiungere quellezone di foltavegetazione che leiconosceva. Cosìfuggimmo, correndosenza tregua lungo unsentiero che passava

attraversoiradiboschidiquerce.Ben presto ebbi la

prova che il miopassato non eraun’allucinazione,perché inquell’incredibilepresentemitradì.Avreidovuto essere in gradodi mantenere senzafatica un passoregolare, da corsacampestre, ma come

durante la mia fugadall’Oflag XXIX Z miresi nuovamente contoche due anni diprigionia, dimalnutrizione e dimancanza di eserciziofisico mi avevano toltoforza e resistenza.Dopo il primo migliocominciaiagrondaredisudore;avevoilrespiroaffannoso e le miegambe erano come

pezzi di legno. Noncercai più diconvincere Kit alasciarmi, e nonsoltanto perché nonavevo fiato dasprecare: la verità èche senza di lei nonsareimaistatoingradodi andare a quellavelocità. Eppure eraduro da accettare che,perfino mentrefuggivamo da lui,

stavamofacendoquelloche voleva vonHackelnberg. AvevaaddestratoKitaquestopreciso scopo, eme loimmaginai mentreguardava conammirazione la sualunga falcata e il suorespiro senza affanno,ghignando alla vistadellapropriaoperaconmalignasoddisfazione.Dopo un po’

sentimmo di nuovo ilsuono del corno, maquesta volta era piùdebole. Avevamo unnotevole vantaggio suicani, ma eravamoarrivatiinunazonapiùimpervia e dovemmoscendere, aiutandocicon le mani, giù persentieri che erano piùsimili a letti di piccolitorrenti, dove sarebbestato facile cadere e

prendersi una storta orompersi una caviglia.Ma imieimocassini dipelle di daino e leflessibiliscarpecheKitaveva ai piedi cipermettevano dicorreresicurisuquellerocce lisce, e la pauradiciòcheavevamoallespalle ci facevaprocedere a lunghefalcate.Midicevocheilnostro odore non

sarebbe rimasto suquelle fredde pietre e,dove potevamo,cercavamo dicamminare sulle lastredirocciadisseminatealmargine della valle.L’acqua sarebbe statail nostro più sicuroalleato, e mi accorsiche quella era anchel’idea di Kit. Arrivatialla fine affondammonell’erba alta, in una

rada vegetazione dipioppi e betulle, e aquelpuntosentiicheilterreno iniziava acedere e mi ritrovai asguazzare nel fango.Sbucammo in unpantano invaso dalleerbacce, e avanzammoa fatica affondandosempre più, finchél’acqua non mi arrivòall’altezza del petto. Aquestopuntoilfondosi

fece abbastanzacompatto, e remandocon le bracciaproseguimmo per tuttala lunghezza di unostretto stagno cheoccupavailcentrodellapalude. Andammoavanti finché nontrovammo l’immissarioe, dopo averlo seguito,inciampando esguazzandotrapietreebuche, risalimmo

lentamenteilsuocorsotraifianchidellavalle,finoa raggiungereunaspecie di altopianopaludoso, dove cifermammo a riposarcisu quella terramalferma.«Perderanno tempo

nella palude» disse Kitansimando. «Dovrannofare il giro per fiutaredi nuovo le nostretracce.Andiamo!».

Ma ormai avevaperso l’orientamento,esprecammo anche noimolto tempo adannaspare in quellapianura paludosa,fermandoci incontinuazione,cercando diriconoscere alla lucedella luna la formadelle basse collineboscose che cicircondavano.Eravamo

appena tornati su unterreno asciutto e Kitaveva detto di saperedove eravamo, quandosentimmo di nuovo illatratodeicani.Continuammo ad

avanzare a fatica,correndounpo’appenaerapossibile,maperlopiù arrancando eincespicando. Kitadesso era esausta.Non avevamo più

energia per parlare eandavamo avanti insilenzio, vicini, maognuno isolato dallapropria sofferenzafisica, dall’imperiosobisogno di occuparsidel proprio cuore chebatteva all’impazzata,deipolmonichenoncela facevano più, dellemembra doloranti. Iotenevo ancora inmanolavanga,perquantomi

fossed’intralcio,maKitaveva perso la roncolae io ero troppo sfinitoperfarglielonotare.Ora non c’era più un

sentiero e ci facevamostrada alla ciecanell’intrico delsottobosco, così fittoche in alcuni punti cicostringeva ad andarea quattro zampe. Nonso per quanto tempocontinuammo a lottare

per aprirci un varco inmezzo a quellasterpaglia, e non hoideadiquantadistanzaavessimo percorsonella nostra fuga. Lesue tappe siconfondevano nellamente senza soluzionee sembrava che lanostrapenadurassedaun’eternità, come sel’attraversamento diquel lungo stagno

appartenesse a untempo infinitamentelontano, quandoeravamoancorafreschieinforze.Inciampai nel corpo

di Kit. Giacevaimmobile a terra equando la toccai emiseun gemito. «Non ce lafaccio più» sussurrò.Mi sdraiai accanto alei, troppo esausto amia volta per poterla

spronare, e rimasi inascolto. A parte ilnostro respiro nonriuscivo a sentirenient’altro. Restammodistesi ancora per unpo’,finchénoncipassòl’affanno, mentre ilsilenzio continuava aregnareininterrotto.Stavamo lì, proprio

come voleva il nostrofolle cacciatore: ridottidal terrore del suo

cornoedeisuoicaniadanimali impauriti,rannicchiati nellaboscaglia,pateticamente illusi dipoter fuggire. Non cirestava che sperareche i cani non citrovassero, perché nonriuscivamo più acorrere. Sfiorai dinuovo il bordo dellavanga e impugnai ilmanico. Almeno avrei

potuto sistemare unpaiodiquellebestiacceprima che misbranassero.Maquellonon era il posto giustoper tenerle a bada;avevobisognodispazioper roteare la miaarma, mentre lìl’intricodellaboscagliami bloccava; un caneavrebbe potutointrufolarsi strisciandoe catturarmi come un

furetto che acchiappiun topo in una tana.Così cercai diconvincere Kit aspostarsi verso unluogopiùaperto.«Questa è la parte

più fitta» risposestancamente. «Labarrieranondev’esserelontana.Peroralacosamigliore è restare qui.Se usciamo alloscopertoperloroèsolo

piùdivertente».Rimasi disteso finché

nonebbirecuperatounpo’ di forze, ma nonpotevo restare lì senzafarnulla,equell’attesasilenziosa diventòinsostenibile.Trascinando la vangacominciai ad avanzarestrisciandoper cercaredi vedere fin dove siestendeva il nostroriparo.

Mentre proseguivochiamai Kit un paio divolteabassavocee lasentii rispondere. Nonvolevo inoltrarmi al dilà della portata dellasua voce per timore diperderci. La boscagliadopo un po’ si feceleggermentepiùradaescoprii che potevocamminare standodritto e aprirmi lastrada aiutandomi con

le spalle, ma nonvedevo ancora nulla,salvo qualche scorciodella lunasopradime.Non pensavo diessermi allontanatomolto da Kit quandosbucai fuori daicespugli. Ma dovettiabbassarmi subito emettermi al riparoperché di lato, a tre oquattrocento metri dame, c’era una torre di

guardia. Di fronte, auna cinquantina dimetri, vedevo labarriera: un muro didebole chiarore, comel’avevo visto inquell’altra notte diluna, anche se ora misembrava didistinguere le lineepiùchiaredei filimetallici.Avanzai lentamentelungo il margine dellaboscaglia alla mia

sinistra,allontanandomi dallatorre di guardia,pensando dimantenermi sempreallastessadistanzadalluogo in cui avevolasciatoKit.Andando avanti, vidi

che la vegetazione sidiscostavagradualmente dallabarrieraed’improvvisomi trovai di fronte a

una specie di ampiapista abbandonata chetagliava quel tratto diforesta vergine.Potevaessere un anticosentiero tagliafuoco, econduceva dritto allabarriera: allorami resicontoche,secifossimotrovatisolocentometripiùasinistra,avremmopotuto raggiungere ilnostro nascondigliosenza fare tutta quella

faticanellaboscagliae,con il cuore in gola,realizzaichesuduelatieravamo quasi alloscoperto; così misedetti a pensare checosa convenisse fare.Ma mi ero appenapiazzato in mezzo aquell’erbaaltaquando,alle mie spalle, sentiiabbaiare i cani dacaccia.Oraeranovicinissimi,

e conoscevo bene iltimbroforte,sicurodeiloro latrati. Tesil’orecchio e sentii unaltro rumore, unoscricchiolio di ramisecchi che venivanocalpestati. Unprolungato, allegrogrido di caccia risuonòdistintamente dallaboscaglia e fu raccoltoda qualcuno che stavapiù lontano sulla pista.

Nonpotevorischiaredichiamare Kit, e ripresilentamente a strisciarefra i cespugli neltentativo diraggiungerla. Poi peròmi fermai a riflettere,tornai indietro verso lapista e mi rannicchiaidi nuovo inmezzo alleerbacce. I cani eranostati lanciati sulla miatraccia, ne ero certo,perché di notte non

andavano a caccia diragazze-selvaggina.Anche Kit lo sapeva.Così, ragionai, avràpensatodiallontanarsi,perché i segugi non sisarebbero mai direttiverso un’altra predaorache lamiasciaeracosì forte. L’avrebberooltrepassata,continuando a seguirele mie tracce, eavrebbero fatto il giro

pertrovarmiall’aperto.Impugnai saldamentela vanga e restai inattesa.Li sentii abbaiare

ancora,eoradovevanocertamente aversuperato il punto doveavevo lasciato Kit.Rimasi accucciato,cambiandoimieipiani,pensando, ora cheavevoripresofiato,cheavrei potuto correre

sulla pista attirandolilontano da lei. Maprima che potessirimettermi in piedi, dalaggiùsisentìunsuonosquillante: il suonoforte ed esultante delcorno del Conte, cheimperiosamenteaizzava e impartivaordini, poi il sordorimbombodeglizoccolidei cavalli e,spaventosamente

vicino e stridulo,ancora più terrificanteperché del tuttoinatteso, quel folletorrente di urla e quelbalbettante brusio divoci umane snaturateche già per due volteavevo sentito aHackelnberg.Hans von

Hackelnberg stavarisalendo a cavallo laraduraconlesuegatte

assetate di sangue. Siavvicinavano a unavelocità spaventosa eio, in preda al terrore,nonriuscivonéastarefermo né a fuggire.Vedevoleneresagomedei cavalieri chegaloppavano nell’erbaalta e davanti a lorouna dozzina – forse dipiù, una ventina – difigureumane,cheperònon correvano, ma

procedevanoagrandieagili balzi in quelgroviglio di erbeselvatiche. Vedevoquelle teste di panterastagliarsi come neriprofili contro il cieloilluminato dalla luna;vedevo quelle formegrigiastre curve sullosfondo verde dell’erba,poi di nuovo il pallidoscintillio delle loromembra scattanti

balenare nella lucelattescente. I caniabbaiavano alle miespalle, continuando acercare in quel trattovicino alla barrieradoveeropassato,maiogiànonglibadavopiù.Nonriuscivoastaccaregli occhi da quellefigure che siavvicinavano a balziverso di me, e nonriuscivo a pensare ad

altro che al luccichiodell’acciaio con cuiterminavano le lorobraccia scure. Alloravidi avanzare fra loroun cavaliere che nelchiarore della lunaappariva gigantesco, eche aveva avvoltaintorno al petto unalucente spiraled’argento. Soffiò dinuovo nel suo corno,proclamando con forza

e insolenza il suodiritto a massacrareper puro piacere. Miasciugai il palmo dellemani sul pelo deipantaloni e mi alzailentamente, poiindietreggiai contro ungrosso cespuglio einiziai a roteare lamiaarma.Qualcuno alle spalle

di Hans vonHackelnberg lanciò

improvvisamente ungrido fortissimo; ilConte frenò il suocavallo ed emise unacuto richiamo con ilcorno.Alloraleurlaeilborbottio delle gatte siunirono di colpo in ununico verso prolungatoe stridulo.Ma non eroio quello che avevanoavvistato.Una forma scura era

saltata fuori dalla

boscaglia e stavaattraversando laspianata a pochi metridal branco. Poi girò ecorse dritta indirezione dellabarriera. Le gattesfrecciarono tra icespugli.Le lorostridaerano cessate, maquando mi passaronodavanti sentii unaspecie di singulto,come se avessero

inspiratotutte insieme,o come se ogni fieraavesse appenaingurgitato unaboccata d’aria giàcarica dell’odore delsangue della suavittima. La figura nerastavaancora in testaecorrevacomeunessereumano corre persalvarsi la vita, madirigendosidrittaversoquel muro che

irradiava un pallidochiarore, quellaluminescenza cheappariva ancora piùbianca nella luceazzurrinadellaluna.Miresi conto troppo tardiche non avrebbedeviato. Senza saperechecosastavofacendo,senza curarmi di HansvonHackelnberg,dellesue gatte e dei suoicani, lanciaiungridoe

cominciai a correreversodilei.Anche von

Hackelnberg avevacapito quello cheintendeva fare Kit.Tuonò qualcosa rivoltoal branco, imprecandocon tutta la potenzadella sua voce, poicominciò a suonarebrevi, furiosi squilli,richiamandolegatte.Ilsuoseguitoavanzavaal

galoppo dietro di lui eudii il suono acuto deifischietti che sisovrapponevano alcornodelConte.Ma le gatte ormai

avevano preso di mirala loro preda, lastavano rapidamenteraggiungendoesapevoche nulla avrebbepotuto richiamarleindietro. Vidi Kit chesaltava verso

quell’inconsistentebarrieraluminosacomesefosseunsolidomuroda scalare, e gridai ilsuo nome, raggelatodall’orrore di vederlacosì, resa folle dallapaura, lei che erasempre stata tanto piùsaggia di me. Masubito dopo capii chemi sbagliavo: al disopra di tutte quelleurla, dei fischi e degli

squilli del corno, sentiichemichiamava,enonc’era ombra di follianellasuavoce,masolostraziante devozione:«Alan! Alan! Passa!Passa! Ti prego,passa!».Sottodilei,addossoa

quello schermo didebole luce bianca, ilbrancosiammucchiòinunamassadicorpichesi contorcevano e di

braccia che sitendevanoselvaggiamenteversoilcielo, tutti neri sullosfondo di quellaluminescenza.Lesentiidinuovourlare–brevi,frenetiche strida egemiti di agonia. Leforme indistinte deicavalieri siprecipitaronoondeggiando tra labarriera e gli alberi,

mentre i fischietticontinuavano asuonare incalzanti e ilcorno di vonHackelnbergriecheggiava unosquillodopol’altro.Continuai ad

avvicinarmi correndofra i radi cespugli almargine dellaboscaglia,gliocchifissisu quella figura nerasopra il viluppo di

corpi. Stava appesalassù, perfettamenteimmobile, le bracciadistesecomesefosseroappoggiate sul filometallico più alto, ilcapo reclinato inavanti, le gambe chependevano giùmollemente.Leiera là,mortanellaposastessadel sacrificio e dellasalvezza. E quando mifermai,affondandofino

alleginocchianell’erbaincolta che siestendeva fino allabarriera,vidiilcorpodiKit risplendere di unatenue incandescenza,come se ogni pelo diquel manto vellutatoche la rivestiva fossecopertodibrina.Lamiamenteeilmio

cuore erano talmentescossi che midimenticai del pericolo

cheleiavevacercatodiallontanare da me.Credo di avercominciatoadavanzareallo scopertoincespicando,dirigendomiversodileiegridandoilsuonome,quando, come fosserouna vera eco, le sueparole rintoccarono dinuovo alle mieorecchie: «Alan!Passa!», e allora capii

perché era corsaincontro alla morte, emi ricordai che leistessa,unavolta,avevaassistitoaquellascena.Il chiarore cheirradiavadallabarrierasi spenserepentinamente e ifischi si interruppero.Dettiun’occhiataalfilometallico chemandavaun freddo luccichiosotto la lucedella luna

e per lo spazio di unsecondo ebbil’impressionedivederedietro di esso degliarbusti di erica e dellebetulle,epiùlontanolamassa nera di unaforesta di pini, primache dalla torre diguardia venisseproiettata la lucediunriflettore. Per unattimo sfiorò labarriera,poi,dopoaver

inquadrato il gruppovicino al filometallico,sifermòsudiesso.Allora, con grande

freddezza, capii checosa dovevo fare. Iguardacaccia a cavalloavevano quasiraggiuntolabarriera,esentii lo schioccaredelle loro pesantifrusteeleacuteurladidolore cheinterrompevano i

miagolii e i forsennatilamenti. Il groviglio dicorpi e di membrarotolòviadallabarrierae si sciolse,frammentandosi inunadozzina di gatte che sisparpagliarono tra icavalieri, ringhiando,soffiando eschiamazzando,perpoitornare indietro adilaniare congli artiglile compagne ferite

mentre i guardiani lecolpivanoripetutamente eimprecavano,allontanandole afrustate e radunandoledi nuovo verso illimitare dellaboscaglia. Corsi avantirestando al di qua delraggio del riflettore,sicuro che chi ne erainvestito non potessevedermi, sicuro che i

guardianitrattenesseroisegugi,convinticheilloro compito fosseterminato; ero certoche l’attenzione dellesentinelle sulla torrefosse tutta concentratasuquelcherestavadelbranco. Attraversaiquel tratto di terrabrulla chemi separavadalla barriera, poitastai i cavi metallici,mi infilai tra l’uno e

l’altro,e,standocurvo,corsi inmezzoall’ericaversoilcorpodiKit.Prima che potessi

raggiungerlo,HansvonHackelnberg e unacoppia di guardacacciaerano smontati dacavallo. I due giovaniavanzarono a grandipassi in mezzo alleforme che giacevano aterra, alcune immobili,altre che si

contorcevano, e conbruschi e violenti colpidi sciabola zittirono legatte che ancora simuovevano. Hans vonHackelnberg marciòdrittoversoilcadavereappeso alla barriera.Lo staccò dal filometallico e reggendoloconlesueenormimanilofecepenzolaresoprala testa. Fino a quelmomentononmiaveva

visto, perché ero fuoridalla portata deiriflettori, ma orascattai in avanti e miscorsenellapenombra,a non più di quattrometri di distanza.Eravamo separatisoltanto da quellasottilebarriera.Ancheigiovani mi videro, epuntarono le lamecontro di me, come sevolessero caricarmi,

ma vonHackelnberg lifermò con un seccogrido.Senestava lì inpiedi, reggendo quelcorpo inerte con il suosudario di velluto cherisplendeva cinereosotto il fascio di luce;quindi si voltòlentamente verso lesuperstiti gattemugolanti, che iguardiani a cavalloriuscivano a stento a

tenere a bada. Ma poisi girò di nuovo versodi me. La vivida lucerendeva i suoi trattisimili a una mascheradi rabbia e crudeltàanche più disumana diquella delle creaturegenerate dai suoimalvagiartifici,maoranonavevopiùpauradilui. Passai con losguardo dalla suaferoce imponenza alla

misera creatura mortache reggeva tra lebraccia,eper laprimavolta capii come unaperdita simile possasradicare dall’animatuttelealtresofferenzee fare del cuore undeserto dove nonpossono più crescerené paura né dolore.Rimasiindifferentealleparole che il Conte miurlò con violenza, e

solo più tardi, quandoormai era lontano,capii davvero che cosavolevanodire.«Va’ pure» gridò.

«Sei libero, per questanotte. Hans vonHackelnberg ora tirisparmia per darti lacaccia sotto un’altraluna!».Non sapevo, né mi

importava di sapere,per quale regola del

suo folle gioco mistesserisparmiando.Leguardie si ritirarono erinfoderarono lesciabole. Avrei dovutoattraversare di nuovola barriera e andareincontro a quelle fieredagli artigli d’acciaio,ma il fasciodi lucedelriflettore si spense, ibianchi raggi dellabarriera ripercorserocon un lungo e unico

guizzo tutta la radura,e attraverso quellostrano schermo vidivonHackelnbergconilsuo fardello, incolore,senza ombra, spogliatodi ogni sostanza,distantedamecomeloero io dalla pallida etranquillaluna.Vidi la sua vuota,

spettrale figuradirigersiagrandipassiverso il branco

fantasma, sollevare dinuovo il livido corpo escagliarloinmezzoallebelve.Non so per quanto

tempo rimasi distesonella brughiera, afissare quel sottilemuro di luce. Deveesserestatopermolto;e anche dopo chel’ultima ombra,dall’altra parte, erasvanita, io ero ancora

incapace di pensare odi muovermi. Nonsentivo e non vedevopiù nulla. Nella miamente non c’è tracciadi ciò che accadde piùtardi quella notte, omolte notti dopo;soltanto il mio corpoconserva ancora oggiuna qualche memoriafisica di quando mialzai e mi strappai didosso la livrea di von

Hackelnberg, ecamminai, esausto, inuna sorta di tranceattraversoiboschi,finoachelalucedellalunae l’oscurità noniniziarono aconfondersi davanti aimiei occhi e nondivenni completamentecieco, mentre la terrami sfuggiva da sotto ipiedi.

8. Letteralmente«pezzi»[N.d.T.].

9.Spogliatoio[N.d.T.].

8

Non appena AlanQuerdilion smise diparlare, la gatta, cheda un’ora dormivatranquillamente sultappeto davanti alcamino, si svegliò,sbadigliò e saltò sul

bracciolo della suapoltrona.Alansialzòespinse col piedel’estremità dell’ultimoceppo nel fuoco ormaiquasi spento, erabbrividìperilfreddo.«Quando mi

ritrovarono in quellostato,» disse «chevagavo completamentenudo lungo i binaridellaferrovia,lapoliziatedescanonebbemolti

dubbi che fossi matto.Fu in una piccolalocalità chiamataKramersdorf, nonlontano,misembra,daDämmerstadt, lastazione verso cui erodiretto. Mi tennero inospedaleperunmeseepoi, non so se perchépensavano che fossiguarito o perché in findei conti non glieneimportava molto, mi

rimisero in gabbia; main un campo diverso.Questo avveniva nelsettembre del ’43, e cirimasi fino al maggiodel ’45, quandoarrivaronoirussi».«Ma non hai proprio

ideadidoveseistato?»cominciai.«Vogliodire,la polizia tedesca nonscoprì mai che cosaavevi fatto da quandosei fuggito la prima

volta dal campo diprigionia a quando tihannoritrovato lungo ibinari?».«Se anche lo

scoprironoamenonlodissero»rispose.Restò a lungo in

silenzio poi fece unlungorespiro.«Be’, questo è tutto

quello che mi èsuccesso quando erodall’altrapartee,come

ti ho detto, se non siripete più per un altroanno, chiederò aElizabeth di sposarmi;e spero un giorno dipoter dimenticare chec’è stato un tempo incui sono stato pazzo.Sei rimastosvegliopertutto il racconto, maora vai a letto, edimenticati di averlomai sentito. Perchénessun altro lo sentirà

più».«No» dissi.

«Elizabeth devesapere. A lei deviraccontarlo».Alan uscì senza

rispondere e lo sentiiaprire il catenacciodellaportad’ingresso.«Non so» mormorò,

come parlando tra sé.«Davverononloso».Eall’improvviso imprecòsottovoce: «Dove

diavolo è andata acacciarsi di nuovoSmut? Igatti sonounamaledetta seccatura,sia che li lasci uscire,siachecerchiditenerliincasa».

IRISVOLTIDISARBAN

DIMATTEOCODIGNOLA

IllustrazionediEleanorWallperlaprima

edizionediTheSoundofHis

Horn(1952).

C’èstatountempoincui un editore nonaveva140caratteriperpresentare un suolibro, ma – a secondadei gusti, e delleimpostazioni grafichedella casa – qualcosafrai2500ei3500,piùaltri 500 circa perintrodurrel’autore.Era

una prerogativa cuinon si rinunciava acuor leggero, specie inassenza di strumentialternativi con cui farcapire come il libroandasse letto, esoprattutto perchédovesse esserecomprato. Ma qualchevolta, naturalmente, siesitava. Quando? Be’,ad esempio quando illibro aveva

caratteristiche di stileevidenti alla lettura,che però unadescrizione correntenon avrebbe reso conla necessaria efficacia.O quando la storia eratalmenteazzardatacheanticiparla in pocherighe avrebbecompromessolafutura,eventuale sospensionedell’incredulità.Oppure quando il

romanzo o il raccontonon rientravano inalcuno dei generifamiliari al lettore, purbordeggiandoneparecchi. O, magari,quando l’autore stessopreferiva che del suolibro,edilui,sidicesseilmenopossibile.Agli editori capita,

insomma,dinonsaperebenecomemuoversi.Edalmomentoincui,nei

primi giorni del 1948,aveva dichiarato il suointeresse perRingstones e AChristmas Story, dueracconti di un certoJohn William Wall,Peter Davies si eraritrovato in unasituazioneeffettivamentepiuttostoimbarazzante.Di Wall non sapevanulla, e della sua

produzione conoscevasolo quei due lavori. Iracconti erano statirecapitatidipersonaincasa editrice dallamoglie dell’autore,Eleanor, quindi che lovolesse oppure noDavies avevacominciato a trattarecon lei. Come avvio diun rapporto erapiuttosto insolito, maper fortuna di tutti i

soggetti coinvoltiDavies era un uomomoltocauto,econunasensibilità tuttaparticolare per gliingressi poco ortodossinell’etàadulta.La cautela Davies

l’aveva imparata a suespese, nel senso chel’ultimo gestoimpulsivo che si fosse

concesso gli eracostato decisamentecaro. Risaliva al 1937,quandodavantial lettodi morte del padreadottivo, J.M. Barrie,aveva deciso ditelefonare all’odiatasegretaria delgrand’uomo, CynthiaAsquith, percomunicarlechelafineera vicina. Risultato,Asquith aveva

viaggiatotuttalanotte,arrivandointempoperfarcambiareaBarrieiltestamentoasuointerofavore. Calcolare aquantoammontasseroidiritti maturati inventicinque anni daPeter Pan nelle suevarie incarnazioni èpiuttosto complicato,madisicuroconquellatelefonataDaviesavevarovinato se stesso, e i

ragazzi Llewelynsuperstiti. Vero,immediatamente dopola morte di Barrie,Davies, furioso, si eraprecipitato a lanciarenel Tamigi le letteredel defunto a suofratello Michael –definite in unmessaggio a un amico«un po’ eccessive» –,ma il gestoapotropaico, per

quanto spettacolare,nonavevanésancitolafine della saga nera diKensingtonnérisoltoilsuorapportopersonalecon quello chechiamava sempre esoltanto «l’orribilecapolavoro». No,l’ombra dell’eroe cheportava il suo nome loavrebbe perseguitatoper tutta la vita, alpunto che, quando si

deciseaunmatrimoniosocialmenteaccettabile, dopo unalunga relazione conunadonnaditrent’annipiù vecchia di lui,Davieslesseconorroregran parte dei giornalilondinesi titolare, conminimevarianti:«PeterPansisposa».Dalla sua storia

familiare, quantomenoanomala, Davies avevase non altro ricavatouna tolleranza delleeccentricità superiorealla media. Non avevaquindi considerato poicosì strano discutereper lettera non con ilsuo autore, che,sebbene di stanza inlocalitàfuorimano,erapur sempre vivente,bensì con la moglie,

momentaneamente inInghilterra.Perilresto,si era comportato conla solita circospezione.Aveva cioè ammesso ilsuo entusiasmo per idue racconti,precisando, comeavrebbe fatto qualsiasisuo collega di allora,maanchedioggi,cheiracconti vendevanopochissimo,equellidelgenere «erudito-

fantastico» (definizionediEleanor)anchemenodegli altri. Dopodichéavevachiesto,comedaregolamento, se percaso l’autore nonavesse nel cassettoqualcosa di più lungo,che l’editore potessepresentare, eauspicabilmentevendere, come un«romanzo». A quelpunto l’autore si era

manifestato – perlettera – sostenendo diessere al lavoro su unmanoscritto checontava di finire neimesi successivi. Erivelando, colprogredire dellacorrispondenza,qualcosa di sé. Nonmolto.JohnWilliamWallera

un diplomatico inglesedi medio livello. Natonel 1910 da un padreferroviere – di cuiavrebbe gelosamentecustodito per tutta lavita la lampada – e daunamadreconqualchetrascorso nel music-hall, Wall avevastudiato a Cambridge,ma soprattutto avevaimparato l’arabo, cheimmediatamente dopo

la laurea gli avevadischiuso una carrierapotenzialmenteluminosa. Nel 1933, aventitré anni, Wall eragià viceconsole aBeirut, e in unasuccessione piuttostorapida aveva ricopertoincarichi a Gedda,Tabriz, Isfahan,Casablanca. Piùsorprendente delcursus in sé era

tuttavia il disinteresseche Wall sembravariservargli,sullosfondodi un disincanto più omenopervasivo («Cosavoglio? Cosami piace?Non ne ho la minimaidea. Vivere in unaspecie di fiaba,penso»). Il lavorosembrava nonriguardarlo, e a uncerto punto avrebbefatto tutto quanto in

suo potere per nondiventareambasciatore. Le cittàe le regioni in cui sitrovava a vivere – lestessecheirretivanodadecenni legioni di suoiconnazionali in viaggio– gli apparivanoricopertedaunostratouniforme di unamateria per lui nontollerabile, la polvere(«The dust of Asia»

sospiraovunquearrivi),anonime eirrimediabilmenteprivedi fascino, specie inconfrontoall’indimenticabilesplendore del natioYorkshire, dovetornava appenapossibile. I fattiincandescentidiqueglianni accadevano inlontananza, e l’unicocui Wall risulta aver

partecipato, conl’atteggiamento dellospettatore di undiorama, è un duellofra la Marinabritannica e quellaitaliana al largo diGedda.Conlepersone,ancheeminenti,chegliaccadeva di incontrarenon stabiliva contattiparticolari, nésembrava smanioso diapprofondirli.Mentreè

distanzaaCasablanca,nel 1948, riceve VitaSackville-West, ma nelsuo diario annotasoltantocheèun’ospitedeliziosa. Qualchetempo dopo gli arrivauna telefonata diChurchill, diventato illeaderdell’opposizione,in procinto di esserericevuto in formaprivatadalsovranodelMarocco. Sul bordo

dell’irritazione che piùo meno tutto gliprocurava, Winstonvuole sapere se, cometeme, si mangeràmarocchino. Wallconferma. E quanto abere – qui l’irritazionelascia il posto a unaschietta ripugnanza –acqua, immagino. Ohno, risponde Wall,elencando gli alcolicianche sofisticati offerti

a lui in un’occasioneprecedente. Churchillemette un rantolo chepotrebbe essere ditripudio, e Wall sicongeda, annotandol’episodio sul diariosenza ulterioricommenti.Ildiario,cheWall tiene da semprecon estremo scrupolo,sarebbe anche la sededove cercare tracce diuna vita amorosa, o

sessuale. Praticamentenoncenesono.L’unicosbandamento Wallsembrerebbe averloavuto nel 1943 perNorah Bird, figliadiciottennedell’ambasciatoreinglese a Gedda, cuiavevadatoperqualchetempo lezionidi arabo.Wall ammette diessersi «mezzoinnamorato» della

piccina, ma quando ledifferenze di età e diconfessione religiosarendono l’unioneimproponibile siconsola alla svelta,annotando che,comunquesianoandatele cose, Norah porteràsempre con sé«l’influsso che hoesercitato su di lei».Del resto da qualcheanno, cioè dal 1939,

Wall aveva unarelazione con EleanorAlexander, allorasposata alcapocontabiledell’Imperial Bank: ebenché Eleanor gliispirassepiùomenolostesso trasporto digran parte delle sedicui veniva destinato,finirà per sposarla, eper passare con leigranpartedellavita.

Si potrebbe pensarechetuttoquestoavesseuna ragione ovvia, cheoccupazioni esentimentiquotidianiloinfastidisseroperchélodistoglievano da unapassione totale edivorante per lascrittura. Neanche persogno. Venivano messiavanti per giustificareil ritardo nellaconsegna (o, più

spesso, nella stesura)di un certomanoscritto, questo sì,maeranosolopretesti.Quando, subito dopo ilprimo contatto conDavies,Eleanorglidiceche se tutto va benepotrebbe tornare inInghilterra e scriverefinalmente uno o dueromanzi, Wall la gelacon una letterina dellesue: «Questa storia di

scrivere non ha senso.Non ho un libro dapartorire – e certoneanche una bricioladella fertilitànecessaria a scrivereracconti, articoli,eccetera. In tutti glianni passati a gemeresu un foglio bianco,non ho mai inventatonécreatonulla».

Ingenere,«schivo»o«appartato» sonoepiteti riservati aivirtuosi dei media –solo che Wall lo eradavvero.Edauncertopunto di vista sipresentava come ilsognodiognieditore–un autore modesto,remissivo, vagamentemasochista, pronto arimangiarsi nellalettera successiva ciò

che aveva proposto inquella precedente.Quando finalmenteentra incorrispondenza direttacon Davies, concordacon lui sul fatto che idue racconti cheEleanor gli haconsegnato nonpossano uscire così, eche un bel romanzosarebbe l’ideale. Fral’altro, sostiene, ne sta

scrivendo uno, ed è abuonpunto.Solocheafinirlo ci metteun’eternità, perché ilnuovo incarico, alCairo, gli porta viamolto più tempo delprevisto.Equandoallafine consegna PeterWenzel, storia di dueinglesi all’estero cheentranoincontattoconuna setta islamicaeretica, Davies gli

risponde (sei mesidopo,beitempi)chelascrittura del libro èammirevole, ma lastoria, purtroppo, nonregge,anzi,nonc’è.Unaltro autore avrebbealmeno provato adifendersi, invece Wallreagisce con unlaconico, eautolesionista:«Nonmidice niente che nonabbia già pensato io».

Rimette il libro nelcassetto (dove resteràper una ventinad’anni),econcordaconDavies che è meglioprocedere con iracconti. Ne invia altritre,cheaquestopuntofanno,comesidice,unlibro,enonsoloperunfatto di foliazione. Lecinque storie hannoinfatti setting diversi(tre mediorientali, due

inglesi), ma un trattocomune, nel senso chei personaggi – infanti,adolescentioragazzottiformati che siano –abbandonano quasiinavvertitamente ilmondo protetto in cuisono vissuti fino a uncerto momento perentrare incontattoconuna dimensioneparallela, einquietante. Davies dà

alla raccolta il titolodiuno dei racconti,Ringstones, decideunatiratura piuttostoprudente (4000 copie,1500 delle qualidestinate al mercatoamericano) e nel 1951pubblica, dopo unabreve trattativa sullopseudonimo con cuiWall intende firmarsi.Alla fine, di comuneaccordo, viene scelto

«Sarban», chesignifica, in parsi,«carovaniere». Sulrisvolto del libro,redatto con estremacuraestudiatodaWallparola per parola,Sarban si presentacosì:«Sarbanha trascorso

metà della vita inMedioOriente.Attrattodal Levante per due

suepassioni, i viaggi ela filologia orientale, èstato in Nordafrica,Siria, Arabia e Persia.Durantel’ultimaguerraha servito il Governo.Hainsegnatol’arabo,elavorato cometraduttoreeconsulentedi aziende inglesispecializzatenell’esportazione.Tuttele sue opere narrativesono state scritte in

città mediorientali,dove ha tratto enormepiacere,essenzialmente, dalricordo delle colline edeicampiinglesi».Le reazioni al libro

sono buone,ma nientedi cui scrivere a casa.Come sempre succedecon gli esordi, irecensori annaspanoalla ricerca di

parentele, citando aseconda dei casi De laMare, i due James(Henry e MontagueRhodes) e Machen, echiudono dichiarandodi preferire una storiao l’altra. L’unicalettrice di un certolivelloèRebeccaWest,che sostiene il librol’abbia rallegratadurante unaconvalescenza dalla

polmonite, e scrive aDavies di incoraggiarel’autore a tirare fuoriqualcos’altro.Davies,poveraccio,ci

prova, braccandol’autore tramite leRegie Poste – cheperaltro funzionanoabbastanza bene.Sarban intanto dalCairo è passato adAlessandria, poi nelBahrein, dove è finito

coinvolto in unoscandalo piccolo maabbastanzacompromettente, nonessendosi reso contoche un domesticoindianoavevaprelevatodalle cassedell’ambasciata millesterline per giocarselealbingo.AlCairoperòaveva avuto modo discrivere due romanzibrevi, o racconti

lunghi. Uno è TheSound of His Horn,l’altroThe DollMaker,dovesiraccontadiunaragazzina che entra inun bosco (inglese) eincontra uno stranosignore, che fabbricastrane bambole: ilseguito si puòimmaginareabbastanzabene,comesi può immaginarebene anche il

contenuto di un terzoracconto inviato aDavies in quello stesso1951,TheTrespassers:bastailtitolo.ADaviespiacciono entrambi, eper un po’ tentenna:pubblicarli insieme,separatamente, edeventualmente in cheordine.AllafinedecidecheTheSoundèquellocon più possibilità, eprocede.

Sarban, come suosolito,nonhaobiezioni,enullalasciaintendereun particolareattaccamento a uno oall’altro dei due testi.Nel suo diario non c’èun solo accenno alleorigini del racconto, oalsensochel’autoregliattribuiva. Che cosadiavolo fosse quellafantasiadeveesserselochiesto anche Davies,

per quanto ammiratodalla sua riuscita.Tant’è vero che almomentodipresentareil testo – di scriverecioè le poche righe incui si isola il punto diun libro,adispettoeadiscapito di tutto ilresto–tentenna,eallafine prende ladecisione, sofferta, dichiedereaWallseselasente di provvedere

personalmente. Wallobbedisce, e il libroesce con questorisvolto, anonimo mad’autore:«Alan Querdilion è

evasodauncampoperprigionieri di guerra,ed è stato ripreso. Idue fatti sono staticonfermati datestimoni indipendenti.Per sapere quanto è

accadutotralafugaeilmomentodellacattura,invece,abbiamosololasua parola.Ovviamente, tuttoquesto non è maisuccesso. Ma inquell’anno i nazisticredevano ancora allavittoria finale. Hitlerera ancora in grado didecidere, come si eravantatodivoler fare, ildestinodell’Europaper

i successivi mille anni.Il futuro su cui AlanQuerdilion pensava diessersi affacciatodurante il suo crollonervosononeraancoraimpossibile.«Dalle finestre

dell’inferno, moltispettri avrannoosservatoconinteressela costruzione delReich. Se quellamostruosa fabbrica del

male fosse stataportata a termine, ildiavolo in personaavrebbe probabilmenteabbandonato la suaresidenza perassumervi un qualcheincaricoufficiale.Perilposto di Gran MaestrodelleForestedelReich,nella cui riserva AlanQuerdilionsconfinapercaso, non si puòimmaginare un

candidatopiùadattodiHansvonHackelnberg,il Cacciatore dellaSelva diventato, nellaGermania medioevale,una leggenda. Così,nella mente diQuerdilion un passatoleggendarioeunfuturonon impossibilefiniscono perconfondersi.Ilrichiamodelcorno è la storiadiun sogno – il sogno di

una fuga dal male. Ilsognatore si sveglia inun mondo sano; l’ecodel corno si spegne inuna remotalontananza».Mah.ComecopyWall

non era quello che sidice un fenomeno. Iltesto è prolisso,confuso, e contiene unpo’ troppi spoiler. Facapire – molto

vagamente – cosasuccede, ma non deltutto dove sial’interesse.Insostanza,noninvogliaaprendereil libro e passare allacassa. E infatti. Daviesnon tocca una virgola,e il 29 maggio 1952 illibro debutta inlibreria, con risultatimolto deludenti. Lerecensioni sonodecisamente tiepide, le

vendite pure (come iltitolo precedente,ancheIlrichiamofiniràper attestarsi sulle4000 copie, e innessunodeiduecasisiarriverà a unaristampa). L’unicolettore autorevole nonsolo simpatetico, maentusiasta (per i suoistandard) è KingsleyAmis, che apprezza inparticolare – e in un

suopezzosottolinea–ilsottotesto sadico efeticista del racconto,mentre in seguitososterrà che per anninon aveva più potutoascoltare D’Ye KenJohn Peel, la canzonepopolare sulla cacciache è una delle fontidel libro, senza unbrivido lungo laschiena. Nelcomplesso, tuttavia,

l’unicità del Richiamonon viene colta danessuno – o a nessunointeressa.Davies però è

cocciuto – oggiverrebbe radiatodall’albo per moltomeno, ma alloral’insistenza eraconsideratasemplicementeunferrodel mestiere. Un annodopo, il 1° settembre

1953, esce The DollMaker, cui si èaggiunto, oltre aiTrespassers, un terzotesto,AHouse of Call.L’accoglienza è ancorapiù timida – e non c’èda stupirsi, essendo itre racconti moltomeno sorprendenti. Levendite scendonoancora, ma i dueprincipali interessatinonbattonociglio,anzi

Davies chiede subito aWallqualcos’altro.Wallal solito promette, maintanto gli è nata,tardivamente, unafiglia, Jocelyn, e ilForeignOffice,dopounpassaggio a Salonicco,lo ha speditoaddirittura adAsunción. Nonconsegnerà (e nonpubblicherà) più nulla,anche se in realtà

passeràanniascrivere,e soprattutto ariscrivere, unimponente e moltoambizioso romanzodistopico, TheGymnarchs, in cuiimmagina una societàfutura completamentegovernata da femmine.Èinqualchemodounosviluppo del Richiamo,ma la riuscita non è lastessa, e Wall è come

sempre il primo asaperlo.Davies intanto

continua a informarlosullesortideisuoilibri,cioè sul solito piccolocabotaggio dei titoli dicatalogo, finché,nell’ottobre del 1959,gli comunica unabuona notizia:Ballantine pubblicherànegli Stati Uniti, intascabile, Il richiamo,

con un’introduzionescritta appositamentedaKingsleyAmis–cheovviamente Sarbangiudica, appenapresane visione,«troppo buona, per unlibrocosì».Ballantineèun grande editorepopolare, e comeintenda presentareSarban appare chiarosia dalla scelta dellacollana in cui farlo

uscire, quella«BallantineChamberofHorrors» che era unaspeciedisacrariodellanarrativaunderground,sia dalla copertinaadottata, dove, allafaccia della tipografiaprediletta da Davies,una ragazza nuda – efucsia – fugge, in unaselva blu, da uncavaliere bianco (in untascabile Sphere di

qualcheannodopounabionda nuda di spalle,lacarnebiancasegnatadalgraffiorossodiunafiera, si aggrappadisperata a un paio dicalzoniprepotentementemaschili, anche se unpo’ troppometropolitani per ilcontesto,elastoriadelpackaging editoriale diSarbansiarricchiscedi

un altro capitolo). Illibro esce nel marzo1960, e stavolta siguadagna recensionieccellenti (sulla «NewYork Times BookReview» Richard Plantscomoda, nell’ordine,laShirleyJacksondellaLotteria, Kafka, Poe e,sa il cielo perché,Tennessee Williams),una ristampapressochéimmediata,e

un vendutocomplessivo di 80.000copie, più la solitaopzione – maiesercitata – daHollywood.Wall avrebbe da

festeggiare,seastrettogiro non gli arrivasseun’altra notizia,stavolta tragica. Unmese dopo i trionfiamericani, legge infattisu un «Telegraph» di

qualche giorno primache Davies è mortosotto un treno dellametropolitana, inSloane Square. Lastampa e lamagistratura copronotutto con un verdettounanime di morteaccidentale, ma cosasia successo, eperché,Sarbanlosabenissimo.Scriveimmediatamentea Nico, l’ultimo

superstite dei ragazziLlewelyn,chehapresoin mano la casaeditrice, e con il qualeresterà in contattoanche negli annisuccessivi. Ma nonaccadepiùnulla.Qualche tempo dopo

Wall torna in patria,rivesteancoraincarichiconnessi in variomodoalle istituzionigovernative, e quasi

fino alla mortecontinua a lavorare aThe Gymnarchs, senzaperò mai nemmenotentare di pubblicarlo.Abbozza altri racconti,che nella maggiorparte dei casi nonfinisce. Nel 1969ripropone timidamentea Nico Davies PeterWenzel, ma il lettoreche lo riprende inmano conferma il

giudizio già emessovent’anni prima, eWall, col solitorealismo in eccedenzarispetto a quello deimonarchi, si dichiaraintenzionato adistruggere ilmanoscritto.Più o meno è tutto,

nel senso che lavicendadiSarban–treannidiribalta(sifaperdire), un capolavoro

minore (ammesso chela definizione,vagamente ridicola,abbia senso), poi lasparizione e l’oblio –nonoffrealtriappigliaicacciatori di misteri. Ivicoli che si sarebbetentatidiintraprendere– lo stranomatrimonioquasi a distanza conEleanorconclusodaunnon meno singolaredivorzio tardivo,

l’ossessione per unabambola molto sinistracostruita per Jocelynappena nata, efotografata da ogniangolazione, le paginepiù franche, o se sivuole più grafiche, deldiario strappate una auna–nonconduconoanulla.Achinegliultimianni si interessavaallasua vicenda, e glichiedeva qualche

dettaglio biografico,per una ragione o perl’altra, Sarbanrispondevarimandandoalla propria voce sulGotha,cheeraunmeroelenco di incarichidiplomatici. Scorrendole bozzedi unpensososaggio, il cui autore aun certo punto siinterrogava sulleragioni profonde delsuoprecoceritirodalle

scene, Sarban avrebbeannotatodi suopugno,a margine, l’unicaspiegazione per luiaccettabile: pigrizia. Enonèdettochefosselasolita civetteriad’autore.Restano i libri,

naturalmente, esoprattutto questo. Avoltedellaletteratura–inparticolaredellesuespecie che fioriscono

all’improvviso, eall’improvviso, senzauna spiegazioneapparente,appassiscono–bisognaaccontentarsi. Ilrichiamo offre allettoredosimassicce,emolto superiori allamedia,diquelloche inun’epocaremotasieradeciso di chiamare ilpiacere del testo – piùomenoallostatopuro.

Ma al tempo stessorespingeconunacertadurezza analisi einterpretazioni –perfino quelleautorizzate,sesipensache Davies rifiutò diinserire nel volume idisegni di Eleanor,temendo chesuggerissero unaprospettiva fuorviante.Achivuolecapirecosaquesto libro volesse

esserenonrestaquindiche armarsi dimicroscopio, e cercareuna particella di veritàdove la verità(letteraria) spesso siannida, e cioènei testipiù lavorati, e piùsofferti, che l’editoriaproduca. Dai duerisvolti riportati sopra,letti con attenzione,qualcosa volendotraspare. Dove Sarban

diceva la verità, di sestesso, e doveinventava. Che cosapensavadiaverscritto,e in fondo ancheperché. È un tipo diindagine che ognunopuò condurre inproprio, e che, data lamateria di cui questolibro assolutamenteunico è fatto, potrebbeanche portare lontano.Ma in ogni caso, per

fortuna, Il richiamoparladasé.