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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE QUARTA SEZIONE PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: LUISA BIANCHI FRANCESCO MARIA CIAMPI MARIAPIA GAETANA SAVINO GIUSEPPE GRASSO ANTONIO LEONARDO TANGA
- Presidente -
- Consigliere -
- Consigliere -
- Rel. Consigliere -
- Consigliere -
UDIENZA PUBBLICA DEL 03/05/2016
SENTENZA N.ggq t Z(g
REGISTRO GENERALE N. 34594/2014
Dott. Dott. Dott. Dott. Dott.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
DI GIAMBATTISTA CARLO N. IL 16/02/1962 DI MARCO MARINA N. IL 11/10/1955 AURIOLES FERNANDO N. IL 09/08/1966 TUTINO MARIKA N. IL 13/05/1972
avverso la sentenza n. 3305/2012 CORTE APPELLO di TORINO, del 22/01/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso udita in PUBBLICA UDIENZA del 03/05/2016 la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO Udito il Procuratore Ggnerale izzsor del Dott. che ha concluso per „V(QA,UNU Gekg-A-remmtko
lAhtta 4511
Udito, per la parte civile, l'Avv zaalop,
Uc£t i difier2sor Avv. k2AWALL 0"t~ Aik 0..JUS61 Uve',
JJt cPitit e ,,,,,,Ifuguitik ?-bauz im.• Via Serbelloni, 1 | 20122 MILANO (MI) | redazione@penalecontemporaneo.it Direttore Responsabile Francesco Viganò | 2010-2016 Diritto Penale Contemporaneo
RITENUTO IN FATTO
1. In sèguito alla unificazione di due procedimenti il Tribunale di
Torino, con sentenza del 5/7/2011, giudicò Di Giambattista Carlo, Di Marco
Marina e Cardu Gabriele, accusati di avere per colpa causato la morte di
Spanò Adelina e Lo Bianco Carmela, pazienti ricoverate presso il reparto di
rianimazione e terapia intensiva della clinica Casa di Cura Villa Maria Pia, ove
avevano previamente subito trattamenti chirurgici, il primo nella qualità di
amministratore delegato e direttore sanitario ad interim, la seconda quale vice
direttore sanitario e l'ultimo, quale responsabile del predetto reparto.
La colpa era consistita nel non avere disposto adeguati protocolli,
misure di vigilanza, istruzioni, al fine di prevenire la diffusione di infezioni
nosocomiali nel reparto di terapia intensiva, tenuto in special conto delle
condizioni di profonda defedazione dei pazienti ivi ricoverati. Infezione, nella
specie da enterobacter erogenes, che dopo aver attinto Campanino Maria,
aveva investito anche la Spanò e la Lo Bianco, portandole tutte a morte per
shock settico.
Con la medesima sentenza il predetto Tribunale giudicò anche Aurioles
Fernando e Tutino Marika, accusati di avere per colpa causato la morte di
Campanino Maria, la quale, nonostante l'assenza di acuzie che rendesse
indifferibile l'intervento, era stata sottoposta, in data 7/11/2006, ad
intervento di neurochirurgia, per rimuovere una malformazione arterio-venosa
al cervello, senza il previo studio angiografico, atto a prevenire complicanze
emorragiche in soggetto affetto da cerebrovasculopatia cronica; di avere
erroneamente praticato l'intervento, operando su una parte diversa del
cervello, sicché la malformazione non veniva rimossa; di aver nuovamente
sottoposto la paziente a trattamento chirurgico appena due giorni dopo, a
causa del quale era sopraggiunta emorragia cerebrale, che aveva imposto altri
numerosi interventi invasivi e, peggiorate le condizioni della paziente, caduta
in corna profondo, era stato necessario disporne ricovero presso il reparto di
terapia intensiva, ove, poco tempo dopo decedeva per le conseguenze della
contratta infezione nosocomiale di cui si è detto.
Infine, quest'ultimi due imputati erano chiamati a rispondere del delitto
di cui all'art. 110, 479, cod. pen., perché nella loro qualità di medici chirurghi
in servizio presso la clinica sopra nomata, convenzionata col Servizio sanitario
nazionale, avevano falsamente attestato nel registro operatorio che la
craniotomia alla quale la Campanaro era stata sottoposta il 7/11/2006 era
stata eseguita da sinistra, contro il vero, essendo stata eseguita da destra.
Il Tribunale di Torino assolti gli imputati Di Giovambattista, Di Marco e
Cardu, limitatamente al decesso della Spanò, e la Tutino dal reato di cui
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all'art. 479, cod. pen., nel resto affermò la penale responsabilità degli
imputati, esclusa l'aggravante di cui all'art. 589, comma 3, cod. pen.,
unificando sotto il vincolo della continuazione i reati addebitati all'Aurioles;
imputati condannati, in solido tra loro e col responsabile civile Villa Maria Pia
Hospital s.r.I., a risarcire i danni cagionati alle parti civili, da liquidarsi in
separato giudizio civile, ponendo ad immediato carico anticipazioni
provvisionali.
1.1. La Corte d'appello di Torino, con sentenza del 22/1/2014,
parzialmente riformando la sentenza di primo grado, nel resto confermata,
assolse Cardu Gabriele per non avere commesso il fatto, ridusse la pena
inflitta agli altri imputati e, dichiarò, infine <<che la condanna degli imputati
Tutino e Aurioles alla rifusione delle spese delle parti civili deve intendersi
pronunciata anche in solido con il responsabile civile Villa Maria Pia Hospital
s.r.l.»
2. Avverso la sentenza d'appello Aurioles Fernando, Tutino Marika, Di
Giambattista Carlo e Di Marco Marika ricorrono per cassazione.
Nell'interesse del Di Giambattista e della Di Marco risultano depositati
due ricorsi.
2.1. Con il primo, a firma dell'avv. Cesare Zaccone, viene prospettato,
con l'esposta unitaria censura, vizio motivazionale.
Secondo i ricorrenti la Corte di merito aveva sbrigativamente affermato
la penale responsabilità degli imputati senza tener conto dell'operato del
consulente tecnico del P.M. e della svolta istruttoria (audizione dei medici in
servizio presso il reparto di terapia intensiva), addirittura sostenendo che le
linee guida interne non prevedevano misure adeguate a fronteggiare
l'insorgere d'infezioni nosocomiali. Al contrario, non vi fu affatto
sottovalutazione o trascuratezza, essendosi adempiuto a precisi protocolli da
parte del personale addestrato ed esperto; i risultati dell'emocultura praticata
sul prelievo proveniente dalla Spanò era giunto in clinica il giorno 28/12,
quando oramai l'intervento sulla Lo Bianco era in corso e, comparso stato
febbrile il 29/12, era stato praticato prelievo per emocultura anche a costei.
2.2. Con il secondo ricorso, a firma dell'avv. Francesca Romano De
Vita, vengono illustrati due motivi.
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2.2.1. Con il primo motivo, denunziante vizio motivazionale, si
contesta la fondatezza dell'accusa di disorganizzazione della struttura, la
mancanza di protocolli, di misure di vigilanza e di adeguate istruzioni.
Il Giudice d'appello per giungere alle contestate conclusioni aveva
valorizzato le dichiarazioni delle persone offese, obliterando tutte le altre fonti
di prova di senso contrario. Tali le dichiarazioni rese dai periti Marchiaro e
Testi, dalle quali emergeva che i protocolli interni esistevano ed erano stati
rispettati, tanto che alla comparsa del cluster epidemico era stato allertato il
Comitato Infezioni Ospedaliere (CIO); non potendo, tuttavia, il pur scrupoloso
rispetto delle regole precauzionali eliminare il rischio delle infezioni
ospedaliere.
2.2.2. Con il successivo motivo, sempre denunziante vizio
motivazionale, il ricorso pone l'accento sul fatto che la sentenza non aveva
affrontato l'osservazione difensiva con la quale si era contestata la
conclusione peritale secondo la quale al momento del ricovero della Lo Bianco
si erano già manifestati due casi di infezione provocata dal medesimo germe.
Non si era, infatti, considerato che il germe che aveva infettato la Spanò era
divenuto noto solo il giorno successivo all'ingresso della Lo Bianco nel reparto
di terapia intensiva, dopo l'intervento cardiologico che le era stato praticato.
Non potevasi, poi, addebitare agli imputati, come aveva fatto la sentenza
d'appello, il ritardo con il quale era pervenuto il risultato dell'analisi
batteriologica sul prelievo ematico della Spanò, sia perché trattavasi di
addebito non contestato, sia perché non potevasi imputare ai due ricorrenti i
tempi di operatività del laboratorio esterno al quale la struttura aveva inviato i
reperti.
Infine, siccome evidenziato nelle linee guida allegate ai motivi
d'appello, all'apparire di una infezione nosocomiale non era logico rispondere
chiudendo i reparti, se non in casi estremi ed eccezionali. Per questa ragione
l'isolamento della prima paziente (la Campanaro) che aveva presentato i
sintomi infettivi in una stanza a parte del medesimo reparto dovevasi
considerare misura adeguata.
2.3. Nell'interesse di Tutino Marika risulta essere stato depositato
ricorso, a firma dell'avv. Alberto Ventrini, corredato da due motivi di
doglianza.
2.3.1. Con il primo motivo, denunziante violazione di legge, anche
sotto il profilo dell'apparenza della motivazione, vengono enucleati tre aspetti
censuratori.
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2.3.1.1. La Corte torinese si era limitata, senza alcuno sforzo di
autonomo ragionamento, a far propria la motivazione di primo grado. Aveva,
così, finito per non considerare che al momento dell'insorgenza dell'infezione
la paziente Campanaro era in fase di netto miglioramento neurologico, sicché,
come avevano scritto i consulenti del P.M. «se non fosse insorta la sepsi da
enterobacter ero genes con la successiva evoluzione, la vicenda clinica della
signora Campanaro in via di grandissima probabilità avrebbe avuto una
evoluzione favorevole>>. Conclusione quest'ultima inopinatamente smentita
dalla Corte d'appello. Era, poi, da escludere che l'intervento di neurochirurgia
al quale la paziente era stata sottoposta ne avesse procurato stato
d'immunodepressione (le conclusioni dei consulenti delle parti civili e dei periti
trovavano convincente smentita in quelle dei consulenti della difesa).
2.3.1.2. L'insorgenza della grave infezione doveva considerarsi evento
sopravvenuto idoneo ad escludere il nesso di causalità, fattore eccezionale che
aveva dato luogo «ad uno sviluppo causale del tutto indipendente dal
processo eziologico posto in essere dal comportamento dell'agente>>. Non
solo, come aveva affermato il perito dott. Testi «non può esistere una prova
che quei protocolli erano concretamente applicati dal personale>>, ma dalle
testimonianze acquisite era emersa la scarsa attenzione posta dal personale
sanitario al rispetto delle precauzioni igieniche del caso. Doveva, poi,
dissentirsi dalla qualificazione come endogena dell'infezione che aveva colpito
la Campanaro, sulla base di quanto dedotto dai consulenti del P.M. e da quello
della difesa, che sostenevano più probabile trattarsi di reinfezioni da parte
dello stesso germe circolante nel reparto, a cagione della mancata cura delle
precauzioni da contatto da parte del personale addetto.
2.3.1.3. L'imputata non era materialmente intervenuta sulla paziente
in entrambi gli accessi chirurgici, non aveva effettuato scelte pre e post
operatorie, essendo tutto ciò rimasto nell'esclusiva responsabilità del dott.
Aurioles. Il criterio da seguire in siffatta ipotesi di collaborazione era quello
dell'affidamento, che ne delimita la responsabilità solo ai compiti
effettivamente assegnati al professionista chiamato ad un compito di mera
assistenza. Né la ricorrente era stata in grado dì verificare il corretto
svolgimento dell'intervento, stante la ristrettezza della breccia operatoria e la
peculiarità dell'operazione.
Solo al fine di disattendere la subordinata richiesta di applicazione
dell'attenuante di cui all'art. 114, cod. pen., la Corte di Torino aveva
affrontato la tematica del ruolo svolto dalla Tutino.
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2.3.2. Con il secondo motivo, denunziante vizio motivazionale e
violazione di legge, si assume che i dottori Aurioles e Tutino dovevano essere
chiamati a rispondere delle sole lesioni personali procurate con l'erroneo
intervento chirurgico, stante che la morte era stata causata da un fattore
eccezionale sopravvenuto.
2.3.3. Con il terzo ed ultimo motivo, sempre denunziante vizio
motivazionale e violazione di legge, in ordine al mancato riconoscimento della
diminuente di cui all'art. 114, cod. pen.
La Corte d'appello aveva mal valutato il ruolo di secondo operatore
ricoperto dall'imputata attraverso motivazione sbrigativa ed erronea. Al più
potevasi a lei contestare un omesso o negligente controllo dell'operato del
dott. Aurioles, tale da aver potuto contribuire solo in via minimale all'evento.
2.4. Deve, infine, registrarsi il ricorso, a firma dell'avv. Francesca
Romana de Vita, depositato nell'interesse degli imputati Aurioles e Tutino,
corredato da due motivi di censura.
2.4.1. Con il primo motivo i ricorrenti allegano violazione di legge e
vizio motivazionale in quanto la sentenza, invece che prendere in analitica
rassegna i motivi d'appello, aveva sommariamente aderito alla decisione di
primo grado, senza neppure tenere conto delle risultanze istruttorie. Da esse
era emerso che la paziente prima del sopraggiungere dell'infezione era in fase
di ripresa neurologica e che, pertanto, la causa della morte, indipendente
dall'errore chirurgico, aveva interrotto il nesso di causalità, con la
conseguenza che ai due imputati avrebbe potuto essere contestato solo il
reato di cui all'art. 590, cod. pen.
2.4.2. Con il successivo motivo, denunziante i medesimi vizi, il ricorso
contesta la statuizione di condanna (evidentemente per il solo Aurioles) in
ordine al delitto di cui all'art. 479, cod. pen.
I Giudici d'appello non avevano tenuto conto della deposizione del dott.
Boccardi Alessandro, medico radiologo, il quale aveva refertato la TAC della
paziente Campanaro. Se si fosse posta la dovuta attenzione a tale escussione
si sarebbe dovuto concludere che l'intervento chirurgico «era iniziato da
sinistra verso destra e che la craniotomia (cioè l'apertura della breccia ossea,
successiva all'incisione ed allo scollamento della cute) era invece paramediana
e paramediana destra>>. Se a ciò si aggiunge che il referto della TAC non era
stato affatto nascosto avrebbe dovuto concludersi «al più per un errore in
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cui è incorso il dott. Aurioles nel compilare il verbale operatorio, non
mancando di rilevare che l'inizio dell'operazione era stato eseguito
correttamente da sinistra verso destra e che la craniotomia, anche se ha
oltrepassato la linea mediana verso destra, comunque riguardava la
prosecuzione di un intervento iniziato da sinistra e non da destra».
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Va osservato che dopo la sentenza di secondo grado è venuto a
maturare il termine massimo prescrizionale previsto dalla legge per i reati
contestati, in relazione ad un quadro impugnatorio che non appare
inammissibile, in quanto i proposti motivi (almeno in parte non inammissibili)
sibbene, come si vedrà, avuto riguardo alle statuizioni civili, non meritevoli di
accoglimento, tuttavia, legittimamente radicano il giudizio di cassazione e,
quindi, s'impone la declaratoria estintiva agli effetti penali.
La violazione di cui all'art. 479, cod. pen. risale al 7/11/2006 e l'ultimo
degli omicidi colposi si è consumato il 21/2/2007, pertanto, in base al connb.
disp. degli artt. 157 e 160, cod. pen. (anche nella nuova formulazione
derivante dall'intervento normativo operato con la I. 5/12/2005, n. 251) i reati
sono venuti a prescrizione dopo la sentenza d'appello, trascorsi sette anni e
sei mesi.
4. L'esame dei motivi, sia pure condotto allo scopo di statuire sugli
interessi civili, che, come noto, non può prescindere dal quadro valutativo
penale (questa Corte resta investita ex novo, sia pure ai soli effetti civili, della
cognizione del giudizio penale, dovendo delibare sulla responsabilità degli
imputati, e, ove li ritenga colpevoli, decidere sulle domande civili), fa
escludere, per forza di cose, l'emergere di un quadro dal quale possa trarsi
ragionevole convincimento dell'evidente innocenza degli imputati.
Sul punto univoche si mostrano le valutazioni di legittimità.
In tema di declaratoria di cause di non punibilità nel merito in concorso
con cause estintive del reato, il concetto di «evidenza» dell'innocenza
dell'imputato o dell'indagato presuppone la manifestazione di una verità
processuale chiara, palese ed oggettiva, tale da consistere in un quid pluris
rispetto agli elementi probatori richiesti in caso dì assoluzione con formula
ampia (Cass. 19/7/2011, n. 36064).
Il giudice può pronunciare sentenza di assoluzione ex art. 129 c.p.p.
quando le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la
commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale
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emergano dagli atti in modo assolutamente incontestabile (Cass. 14/11/2012,
n. 48642).
Ovviamente, è appena il caso di soggiungere che permanendo gli
effetti della costituzione di parte civile, salvi gli accordi interni tra le parti, la
pronuncia sulle statuizioni civili non è eludibile.
5. Nessuna delle prospettazioni censuratorie dei ricorrenti è condivisa
dal Collegio.
5.1. Le critiche mosse da Di Giambattista Carlo e Di Marco Marina con i
due ricorsi depositati nel loro interesse pretendono di affermarne la non
rimproverabilità penale sulla base di prospettazione formalistica che non
scalfisce il peso delle prove a carico.
Se, infatti, per un verso, non assume rilievo la circostanza che fossero
state predisposte linee guida, astrattamente funzionali ad impedire l'insorgere
ed il propagarsi d'infezioni nosocomiali, a fronte della concreta inadeguata
predisposizione di mezzi di prevenzione e di bonificazione (la Corte di merito
ha evidenziato la scarsa cura per l'igiene e per il mantenimento di sterilità
delle persone e degli ambienti, non solo testimoniata dai congiunti delle
vittime, ma riscontrata dalla ASL); per altro verso, gravemente imprudente è
risultata la protratta inattività, a fronte dell'irrompere dell'infezione, che ha
rinviato l'unico strumento veramente efficace, costituito dalla chiusura e
radicale disinfezione del reparto di terapia intensiva.
Emblematica la triste sequenzialità evidenziata dalla sentenza gravata.
La paziente Campanino Maria, ricoverata, dopo aver subito duplice intervento
di neurochirurgia al cervello, che l'aveva posta in condizioni di coma profondo,
presso l'unità di terapia intensiva della clinica dal 9/11/2006, presentati segni
d'infezione, il 15/11/2006 era stata sottoposta a prelievo ematico e spostata
in isolamento in altra stanza del reparto; il referto, giunto il 19 successivo,
aveva individuato il germe enterobacter erogene, che l'avrebbe portata a
morte per shock settico il 21/2/2007. Lo stesso giorno 19 venne ricoverata nel
medesimo reparto di terapia intensiva la paziente Spanò Adelina, reduce da
un intervento cardiochirurgico, che manifestò rapidamente gli stessi sintomi
della Campanino. Effettuato, il giorno successivo, anche alla Spanò prelievo
ematologico, il referto delle analisi, che comprovava la nnedesimezza del
ceppo batterico, acquisita anche attraverso la verifica del batteriogramma,
perveniva solo giorno 28 (la paziente sarebbe deceduta, sempre per
setticemia, 1'8/1/2007). Il giorno prima era stata ricoverata nel medesimo
reparto di terapia intensiva Lo Bianco Carmela, reduce anch'essa da un
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intervento di cardiochirurgia, la quale, immediatamente presentò i segni
dell'infezione e decedette sempre per la stessa causa il 18/1/2007.
E' piuttosto evidente che, anche a considerare non percepibile
l'insorgenza dell'infezione nosocomiale ai primi sintomi manifestati dalla
Campanino, ponendoli in relazione con quelli, peraltro sovrapponibili,
riscontrati nella seconda ricoverata presso quel reparto (gli imputati vennero
assolti a riguardo della morte della Spanò, seconda ricoverata sul presupposto
che avrebbero potuto non rendersi incolpevolmente conto della gravità della
situazione), l'ipotizzabilità di un tale situazione era ben ricavabile dal tipo di
batterio isolato (siccome rileva la sentenza si tratta di germe opportunista,
capace di colonizzare ambienti ospedalieri), dal tipo di reparto interessato, il
quale è chiamato ad ospitare pazienti gravemente defedati ed
immunodepressi e dall'emblematico susseguirsi delle manifestazioni infettive,
aventi le stesse caratteristiche.
Non meno gravemente colpevole deve ritenersi, inoltre, la importante
carenza organizzativa costituita dall'assenza di un proprio laboratorio di
analisi, nonostante l'impegnativa attività chirurgica praticata all'interno della
struttura e l'affidamento dei campioni ad un laboratorio esterno, gestito da
terzi, senza assicurarsi e pretendere che i referti urgenti giungessero nel
tempo necessario minimo ed indispensabile all'espletamento delle analisi. Una
tale carenza non costituisce affatto un addebito nuovo e ancor meno
l'addebito del fatto del terzo. Esattamente al contrario, rappresenta
l'epifenomeno della intollerabile trascuratezza con la quale veniva gestita ed
organizzata l'attività della clinica.
L'aver voluto disporre il collocamento della Lo Bianco in quel reparto di
terapia intensiva, dopo la sottoposizione alla delicata operazione al cuore,
integra senz'altro una intollerabile leggerezza, i cui rischi erano agevolmente
percepibili, dopo che in quel nefasto reparto si erano gravemente infettate,
con la medesima sintomatologia, già due pazienti ed essendo già certo
(almeno per la prima) che la natura del batterio isolato era per lo meno
compatibile con un fenomeno epidemico nosocomiale. Né può affermarsi in
contrario che una tale situazione era divenuta palese sol quando la Lo Bianco
si trovava già sul tavolo chirurgico, in quanto il batterio in discorso era stato
individuato il 19/12/2006. In ogni caso, a tutto concedere, si sarebbe ben
potuto ovviare predisponendo il ricovero della Lo Bianco presso unità di
terapia intensiva di altro presidio, se del caso, ospedaliero. Condotte, queste,
che sarebbero state sicuramente salvifiche.
5.2. Non meritano di essere accolte neppure le tre censure di Tutino
Marika di cui al ricorso a firma dell'avv. Alberto Ventrini.
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5.2.1. Quanto al primo profilo del primo motivo, con il quale la
ricorrente nega la sussistenza del nesso eziologico, assumendo che il decesso
era stato procurato da «uno sviluppo del tutto indipendente dal processo
eziologico posto in essere dal comportamento dell'agente», devesi osservare
che un tal ragionamento ignora il contenuto precettivo della nozione di
causalità accolta dal nostro codice penale all'art. 41, co. 1, il quale predica
l'indifferenza causale del concorso di «cause» sopravvenute, oltre che
simultanee, in quando il rimprovero penale colpisce il soggetto che abbia dato
l'avvio con la sua azione od omissione, anche con il concorrere e l'intrecciarsi
successivo di altri fattori favorenti o predisponenti (che, ovviamente, da un
punto di vista epistemologico, costituiscono non meno di concause), alla
consequenzialità determinante l'evento. Salvo a constatare che le «cause
sopravvenute» siano state tali da potersi affermare che da sole abbiano
determinato l'evento (art. 40, cit., co. 2).
Cioè, come si ritiene abbastanza pacificamente, si deve trattare di
fattori sopravvenuti, anche consistenti nel fatto illecito altrui (art. 41, co. 3,
cod. pen.), che, per la loro eccezionalità, da porsi in relazione alle categorie di
eventi ipotizzabili, debbano considerarsi, seppure a costo di una qualche
forzatura logica (prezzo pagato all'apprezzabile fine di circoscrivere alla
prevedibilità umana la rimproverabilità penale), causa sufficiente, così da far
attribuire ad essi la paternità dell'evento. Sono noti gli esempi scolastici che si
sogliono fare (il fulmine che colpisce l'ospedale ed uccide la vittima di lesioni,
ivi ricoverata per la cura; l'incidente stradale dell'ambulanza che trasporta il
ferito, ecc.).
Sono cause sopravvenute o preesistenti, da sole sufficienti a
determinare l'evento, quelle del tutto indipendenti dalla condotta
dell'imputato, sicché non possono essere considerate tali quelle che abbiano
causato l'evento in sinergia con la condotta dell'imputato, atteso che, venendo
a mancare una delle due, l'evento non si sarebbe verificato (cfr. Cass., Sez. 5,
n. 11954 del 26/01/2010, dep. 26/03/2010,Rv. 246549).
Il Collegio condivide l'indicazione, maturata in sede di legittimità,
secondo la quale ai fini dell'apprezzamento dell'eventuale interruzione del
nesso causale tra condotta ed evento, il concetto di causa sopravvenuta da
sola sufficiente a determinare l'evento si riferisce non solo al caso di un
processo causale del tutto autonomo, ma anche a quello di un processo non
completamente avulso dall'antecedente, e però caratterizzato da un percorso
causale completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed
eccezionale, ossia di un evento che non si verifica se non in casi del tutto
imprevedibili a seguito della causa presupposta (Sez. 2 n.
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17804 del 18/03/2015, dep. 29/04/2015, Rv. 263581). Indicazione, che nello
specifico settore della responsabilità per colpa nell'esercizio dell'arte medica
ha trovato precisazione ulteriore in un arresto di legittimità incentrato sul
punto (Sez. 4, n. 33329 del 05/05/2015, dep. 28/07/2015, Rv. 264365), nel
senso che è configurabile l'interruzione del nesso causale tra condotta ed
evento quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e
incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato
dalla prima condotta.
E' ben evidente che le emergenze processuali offrono un quadro che
non consente in alcun modo di ritenere che la morte della paziente sia da
ritenersi dipesa in via esclusiva dalla male gestio dell'infezione nosocomiale.
Quest'ultima, infatti, non costituisce un fattore causale atipico ed eccezionale,
trattandosi, anzi di uno dei rischi tipici e prevedibili da tener in conto in caso
di non brevi permanenze presso i reparti di terapia intensiva, ove lo sviluppo
di processi infettivi e tutt'altro che infrequente, in ragione delle condizioni di
grave defedazione fisica dei pazienti, del loro stato di immobilità. A voler
utilizzare i parametri ricognitori di cui alla sentenza da ultimo citata, non si
rinviene l'innesco di un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo
rispetto all'originario.
La possibilità di andare incontro ad infezioni nosocomiali, o, a maggior
ragione, endogene, al contrario, era del tutto prevedibile, avuto riguardo alle
competenze sanitarie minime che possano pretendersi da un medico, tenuto
conto delle condizioni di profondo degrado fisico, defedazione ed
immunodeficienza nelle quali era stata ridotta la paziente, a seguito dello
sciagurato duplice erroneo intervento chirurgico al cervello (l'errore, almeno
questo, non è negato dalla Tutino e, per vero, neppure dall'Aurioles), che
l'avevano costretta, in stato tetraplegico flaccido e coma profondo, ad un
lungo ricovero in terapia intensiva (dal 9/11/2006 al 21/2/2007, quando la
stessa venne a morte per shock settico).
Con argomenti, pienamente convincenti, in questa sede non
censurabili, in quanto, peraltro, fondati sul ragionato vaglio dei diversi ed
anche contrastanti apporti di periti e consulenti, la Corte di merito, dopo aver
evidenziato l'inopportunità dell'intervento chirurgico a teca cranica aperta,
essendo disponibili tecniche enormemente meno invasive (radiologia
interventista), nonché l'insussistenza di ragioni d'urgenza tali da giustificare il
precipitare in una tale impegnativa operazione, ha puntualmente
stigmatizzato il grossolano errore chirurgico, che aveva portato, ad operare il
lobo parietale sano,e, ancor più, la precipitosa decisione di sottoporre la
paziente, senza aspettare che la stessa riprendesse le forze e senza farlo
precedere da un accurato studio angiografico, ad un nuovo, e questa volta
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definitivamente devastante, intervento al cervello, che era stato causa di una
massiva emorragia intracranica.
Né appare logico contraddire il ragionamento della Corte di merito
laddove evidenzia che la paziente, ridotta in corna profondo (gli asseriti segni
di miglioramento, peraltro contrastati dall'opinione della anestesista, a tutto
concedere, rappresentavano solo tenui aspettative per un futuro non
prossimo), era stata posta in condizioni di essere vittima di una infezione, che
nelle sue condizioni era prevedibile potesse avere attecchimento ed epilogo
infausto, in quanto costretta, nelle condizioni fisiche che si son viste, ad un
lungo ricovero presso l'unità di terapia intensiva.
5.2.1.1. Non ha fondamento l'ultimo profilo di censura di cui al
predetto primo motivo, con il quale la ricorrente nega la propria
responsabilità, in quanto si era limitata, nella qualità di aiuto, ad assistere
l'Aurioles, secondo il criterio dell'affidamento.
Vero che il capo dell'equipe operatoria è titolare di una qualificata
posizione di garanzia nei confronti del paziente, in ragione della quale è
tenuto a dirigere e a coordinare l'attività svolta dagli altri medici, sia pure
specialisti in altre discipline, controllandone la correttezza e ponendo rimedio,
ove necessario, ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali o comunque
rientranti nella sua sfera di conoscenza e, come tali, siano emendabili con
l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio (cfr.,
Cass., Sez. 4, n. 33329 del 05/05/2015, dep. 28/07/2015, Rv. 264366).
Tuttavia, deve considerarsi negligente il comportamento del chirurgo il quale,
posto in posizione di subordinazione rispetto ad altro medico componente la
medesima equipe, si fidi acriticamente delle scelte operate da quest'ultimo,
pur essendo in possesso delle cognizioni tecniche per coglierne l'erroneità
(Cass., Sez. 4, n. 35953 del 15/05/2014, dep. 19/08/2014, Rv. 260165).
Deve condividersi il rimprovero mosso dai giudici del merito, anche ad
accettare la fornita versione l'imputata aveva «dato un contributo colposo
accettando l'approccio chirurgico senza esigere un preventivo studio
angiografico>>. Non può l'imputata, professionista munita della medesima
specializzazione dell'operatore principale trincerarsi dietro l'affidamento,
essendo del tutto evidente che ben rientrava nelle sue competenze rendersi
conto della necessità di un tale accertamento diagnostico preventivo, ben
potendo prevedere che, in difetto, le conseguenze avrebbero potuto essere
tragiche. Inoltre, aveva omesso di vigilare sul corretto posizionamento della
paziente, così da evitare che si procedesse ad intervenire su una parte del
cervello non interessato dalla patologia (anche in tal caso trattasi di compiti
doverosi che dalla Tutino era da attendersi, proprio perché specializzata in
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neurochirurgia). Senza contare che, nel complesso, non vigilò con
adeguatezza sul complessivo corretto svolgimento dei due interventi.
Come già si è anticipato non si contesta all'imputata di non essersi
sostituita tout court al primo chirurgo, o di non aver dato mostra di
competenze di settore a lei ignote, ma assai più ragionevolmente di essere
venuta meno ai compiti che le erano propri quale neurochirurgo e secondo
operatore. Il medico componente della équipe chirurgica in posizione di
secondo operatore che non condivide le scelte del primario adottate nel corso
dell'intervento operatorio, ha l'obbligo, per esimersi da responsabilità, di
manifestare espressamente il proprio dissenso, senza che tuttavia siano
necessarie particolari forme di esternazione dello stesso (Cass., Sez. 3,
n. 43828 del 29/09/2015, dep. 30/10/2015, Rv. 265260).
Costituisce solo un argomento banalmente giustificativo aver affermato
che le dimensioni ridotte della breccia operatoria non le aveva consentito di
seguire l'intervento. Il rilievo che l'apertura cranica possa apparire ristretta
potrebbe essere comprensibile solo se proveniente da un soggetto che non
sia medico e, per giunta specializzato in neurochirurgia, in quanto, invece,
sicuramente adeguata a consentire non solo l'inserimento degli strumenti
operatori del caso, ma, ovviamente, anche una adeguata ispezione. Peraltro,
in difetto, verrebbe da chiedersi cosa ci stia a fare il secondo operatore, se
totalmente oscurato il campo operatorio dal primo, non sia in grado di
collaborarlo in un intervento, peraltro, di assai lunga durata (uno dieci e l'altro
undici ore), che richiede, anche solo per ragioni fisiologiche, un certo
avvicendamento.
5.2.1.2. Il secondo motivo, in realtà costituente appendice dei primi
due profili di doglianza di cui al primo motivo, non può che seguire lo stesso
destino di questi, in quanto, come si è visto, deve escludersi il sopraggiungere
di un fattore eccezionale.
5.2.1.3. Il terzo motivo, con il quale la ricorrente rivendica l'attenuante
di cui all'art. 114, cod. pen., è assorbito dall'epilogo.
5.3. Non merita miglior fortuna il ricorso a firma dell'avv. Francesca
Romana De Vita, proposto nell'interesse dell'Aurioles e della Tutino.
5.3.1. Al primo motivo, diretto a contestare il nesso di causalità, già si
è già risposto.
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ppe Gras o)
CORTE SUPREMA DI CASWAGIA IV Sezione Penale
DEPOSITATO IN CANCELLERIA
21 GIU, 2916 1:9-A
L ICA ERE Paid Lesumnoompeih
IV" i
5.4. Il secondo motivo, con il quale l'Aurioles assume l'insussistenza
del delitto di falso, non conclama l'evidenza d'innocenza, perché lo stesso
meriti una pronuncia assolutoria di merito, essendo basato, nella migliore
della ipotesi, su una ricostruzione ipotetica, che relega la difformità
dell'annotazione sul verbale operatorio ad un errore, per nulla
incontrovertibile allo stato degli atti.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali perché i 'riti
sono estinti per prescrizione. Rigetta i ricorsi agli effetti civili.
Così deciso in Roma il 3 maggio 2016.
Il liere estensore Il Pr idente
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