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CAPITOLO I -
Fonti e principi dell’obbligazione retributiva 3
1. La retribuzione tra diritto civile e diritto del lavoro......................................3
2. La nozione di retribuzione..........................................................................10
3. Retribuzione e principi costituzionali: la sufficienza..................................18
4. Retribuzione e principi costituzionali: la proporzionalità...........................23
5. Retribuzione e principi costituzionali: la parità di trattamento...................27
5.1 La parità di trattamento e i limiti all’autonomia individuale...................41
5.2. La parità di trattamento e i limiti all’autonomia collettiva......................48
5.3. L’attualità della questione della parità di trattamento.............................51
6. Il procedimento di adeguamento.................................................................54
7. La natura della decisione.............................................................................57
8. I criteri di determinazione giudiziale della retribuzione sufficiente: le
condizioni economiche e territoriali e la dimensione dell’impresa...................58
CAPITOLO II - Retribuzione ed assetto della contrattazione..........................62
1. Retribuzione e assetto della contrattazione.................................................62
2. La riforma degli assetti contrattuali: il ruolo del contratto nazionale e la
funzione di garanzia della certezza dei trattamenti economici..........................71
3. La contrattazione di secondo livello. La contrattazione aziendale e il
premio variabile.................................................................................................79
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4. La riforma degli assetti contrattuali: i rapporti tra diversi livelli e il
fenomeno della contrattazione aziendale separata.............................................84
5. La riforma degli assetti contrattuali: L’elemento di garanzia retributiva.. .86
CAPITOLO III - I sistemi retributivi..................................................................91
1. La retribuzione ad economia.......................................................................91
2. Sistemi retributivi incentivanti: il cottimo..................................................94
3. Sistemi retributivi incentivanti: i premi di produzione...............................98
4. Sistemi retributivi incentivanti: la retribuzione variabile e i premi di
risultato.............................................................................................................100
5. Meriti e premi nel pubblico impiego: cenni..............................................105
Bibliografia..........................................................................................................112
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CAPITOLO I
Fonti e principi dell’obbligazione retributiva
Sommario: 1. La retribuzione tra diritto civile e diritto del lavoro. – 2. La nozione di retribuzione. – 3.
1.1. Retribuzione e principi costituzionali: la sufficienza. – 4. Retribuzione e principi costituzionali: la proporzionalità. – 5.
1.1.1. Retribuzione e principi costituzionali: la parità di trattamento. 5.1. La parità di trattamento e i limiti all’autonomia individuale. – 5.2. La parità di trattamento e i limiti all’autonomia collettiva. – 5.3. L’attualità della questione della parità di trattamento.- 6. Il procedimento di adeguamento. – 7. La natura della decisione. - 8. I criteri di determinazione giudiziale della retribuzione sufficiente: le condizioni economiche e territoriali e la dimensione dell’impresa.
1. La retribuzione tra diritto civile e diritto del lavoro.
Chi si ponga alla ricerca del significato dogmatico del concetto di
retribuzione e proceda ordinatamente discendendo le fonti del diritto,
troverà nell’art. 36 Cost.1 i primi elementi.
La retribuzione è anzitutto il mezzo attraverso cui il lavoratore
garantisce a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Tuttavia per trovare una definizione di retribuzione occorre proseguire
nella lettura delle fonti fino ad imbattersi nell’art. 2094 c.c.
Il fatto che la definizione giuridica di retribuzione sia legata a
quella di lavoratore subordinato lascia intendere come la prima sia
intimamente connessa al concetto di subordinazione.
La retribuzione è uno degli elementi del rapporto tra prestatore e
datore di lavoro e più precisamente costituisce il diritto fondamentale
del primo e l’obbligo principale del secondo.
1 Cfr. T. Treu, Commento sub art. 36, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1979, p. 77 e ss.
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Dal lato datoriale la retribuzione si colloca nella categoria delle
obbligazioni aventi fonte in un contratto a prestazioni corrispettive e
soggiace alla relativa disciplina codicistica (ed in primo luogo agli art.
1176 c.c. sulla diligenza nell’adempimento e 1218 c.c. sulla
responsabilità del debitore). In particolare, poiché la retribuzione
viene normalmente corrisposta in denaro, si applicano gli articoli del
codice civile che disciplinano le obbligazioni pecuniarie (art. 1277 c.c.
e ss)2.
Rispetto a queste ultime, la retribuzione presenta alcune
particolarità derivanti dalla funzione che le è propria e dal fatto di
trovare la propria origine nel rapporto di lavoro, le cui fonti sono
complesse e di varia natura. La principale conseguenza della
complessità delle fonti che la governano consiste nella limitazione
dell’autonomia privata individuale nella determinazione dei livelli
retributivi, ad opera dell’ autonomia collettiva. Da ciò, unitamente alla
comprovata circostanza per cui l’organizzazione sindacale è sorta per
regolare i movimenti di rivendicazione salariale3, si argomenta
tradizionalmente per sostenere il legame tra la retribuzione e le regole
che governano le relazioni industriali.
La destinazione della retribuzione a garantire il sostentamento del
prestatore di lavoro, costituzionalmente tipizzata all’art. 364, comporta
che essa può sussistere anche quando il rapporto sia sospeso o la
2 G. Perone, voce Retribuzione, in Enc. giur., Milano, 1989, vol. XL, p. 40; A. Di Majo, Aspetti civilistici della obbligazione retributiva, in Riv. giur. lav. prev. soc., I, 1982, p. 397.3 Cfr S. Webb, B. Webb, Industrial democracy, Edimburgo, 1897.4 T. Treu, Onerosità e corrispettività nel rapporto di lavoro, Milano, 1968, p. 45: “Nel contratto di lavoro oneroso la prestazione subordinata è svolta come mezzo di scambio per ottenere il sostentamento o comunque in vista di un corrispettivo. Si realizza così la naturale funzione del lavoro e la situazione tipica in cui si attua nel sistema economica la utilizzazione delle energie produttive umane”.
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prestazione impossibile, come nei casi di infortunio, gravidanza e
puerperio di cui all’art. 2110 c.c. Per le stesse ragioni il medesimo art.
36 Cost. al terzo comma, prevede la persistenza dell’obbligazione in
capo al datore di lavoro anche nel periodo in cui il prestatore fruisce
del periodo di ferie.
La peculiarità della retribuzione rispetto alle altre obbligazioni
civilistiche, che si manifesta già al livello delle fonti e si riflette sulla
disciplina delle interruzioni della prestazione5, è dettata dalla
circostanza che tra i rapporti economici disciplinati dalla Costituzione,
quello di lavoro attiene non solo all’ “avere” ma anche all’ “essere “
del prestatore6.
Altra caratteristica della retribuzione è il suo essere normalmente
condizione necessaria del rapporto di lavoro subordinato.
Lo schema negoziale tracciato del diritto positivo sembra non
lasciare dubbi sul fatto che la prestazione lavorativa imponga a carico
del datore l’obbligo di corrispondere la retribuzione. Da ciò si
argomenta tradizionalmente a favore di una presunzione atecnica (cioè
non fondata sul diritto positivo né sull’id quod plerumque accidit) di
onerosità del lavoro subordinato7. Pertanto, si attribuisce normalmente
carattere corrispettivo alla prestazione lavorativa subordinata, fondata
sul contratto tipico di lavoro.
A seguito degli studi sul tema condotti sul finire degli anni ‘60 si è
ritenuta ammissibile la fuoriuscita dallo schema negoziale codificato,
quando il rapporto di lavoro subordinato trovi fondamento in un
contratto in cui la prestazione è resa a titolo gratuito e non finalizzata 5 T. Treu, Onerosità e corrispettività, cit. p. 3.6M. Dell’Olio, Retribuzione, quantità e qualità di lavoro, in ADL, 1995, 2, p. 1 e ss.7 L. Riva Sanseverino, Commento sub art. 2103, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja, G. Branca, , Bologna-Roma, 1986, p. 312.
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alla realizzazione di una utilità a favore del datore di lavoro con
obbligo alla controprestazione8.
Secondo una diversa impostazione non sarebbe invece ammissibile
la prestazione di lavoro subordinata a titolo gratuito in quanto gratuità
e subordinazione sarebbero termini antitetici e la prestazione resa
senza obbligo di corrispettivo dovrebbe essere classificata quale
contratto atipico estraneo all’area di ricerca del diritto del lavoro9.
Tra le forme gratuite di lavoro generalmente si annovera quello
familiare reso in ragione del vincolo solidaristico e di affetto che lega i
componenti10.8 T. Treu, Onerosità e corrispettività, cit., p. 45: “Nell’ipotesi in cui invece il lavoratore accetti di prestare la propria opera alle dipendenze altrui senza contropartite, a titolo di liberalità, l’attività subordinata non si configura come strumento per attuare uno scambio di utilità reciproche tra i contraenti, ma serve per la soddisfazione di scopi altruistici o, comunque, di interessi non esprimentesi in controprestazioni obbligatorie”.Contra cfr. M. Grandi, Osservazioni critiche sulla prestazione gratuita di lavoro subordinato, in ADL, 2000, 1, p. 444 e ss., secondo cui “La trasformazione del contratto di lavoro da oneroso in gratuito determina una mutazione genetica del tipo contrattuale incompatibile con la sua struttura regolativa: lo schema tipico del lavoro subordinato include l’onerosità come elemento causale essenziale”. Secondo l’A. “Esclusa la possibilità di conservare la tipicità dello schema contrattuale al prezzo dell’esclusione dell’onerosità, per i fautori della gratuità non resta che ritrarsi nel comprensorio dell’atipicità, attestandosi sulla prospettiva offerta dall’art. 1322, secondo comma c.c.”, “Questo ripiegamento, però, impone il pagamento di un prezzo: la rinunzia al requisito della subordinazione della prestazione lavorativa”.9 cfr. M. Grandi, Osservazioni critiche, cit. p. 465.10 F. Mortillaro, voce Retribuzione. 1) Rapporto di lavoro privato, in Enc. Giur., Roma, 1991, p. 1 e ss.Più complesso appare l’inquadramento sistematico delle fattispecie di attività di volontariato prestata spontaneamente e a titolo gratuito (L. 11 agosto 1991, n. 266. Legge-quadro sul volontariato) e l’attività svolta nell’ambito di un progetto di servizio civile (D.Lgs. 5 aprile 2002, n. 77. Disciplina del Servizio civile nazionale a norma dell'articolo 2 della legge 6 marzo 2001, n. 64). Con riguardo ai suddetti istituti, a prima lettura sembra ricorrere lo schema del rapporto di lavoro gratuito, come risulta evidente dal fatto che in entrambi i casi il legislatore si affretta a escludere che i volontari acquisiscano il diritto alla retribuzione (art. 2 comma 1, L. 11 agosto 1991, n. 266 e art. 10 D.Lgs. 5 aprile 2002, n. 77) e che si costituisca un rapporto di lavoro (art. art. 2 comma 3, L. 11 agosto 1991, n. 266 e art. 9 D. Lgs. 5 aprile 2002, n. 77). In particolare nel caso del servizio civile, il
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Vi è inoltre chi non esclude che profili di rilevanza possa
conservare l’istituto del lavoro gratuito con riguardo ai rapporti in cui
il prestatore si pone in qualità di discente e dunque nell’attività di
praticantato delle professioni liberali11.
La questione è tornata d’attualità in ragione della presentazione in
Senato del DDL n. 1198 in cui all’art. 41 comma 9 si leggeva “Il
tirocinio professionale non determina l’instaurazione di rapporto di
lavoro subordinato anche occasionale; in ogni caso, al praticante
avvocato, decorso il primo anno, è dovuto un adeguato compenso
commisurato all’apporto dato per l’attività effettivamente svolta
ovvero quello convenzionalmente pattuito”.
Nel corso dell’iter parlamentare il DDL n. 1198 è stato trasfuso nel
DDL S.601, approvato in Senato il 23 novembre 2010. Nel passaggio
è scomparso ogni riferimento al compenso al praticante avvocato,
essendo previsto esclusivamente il rimborso delle spese sostenute ed
inoltre un rimborso congruo per l’attività svolta12.
rapporto contrattuale tra il volontario, l’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile e l’ente selezionatore riproduce una triangolazione strutturalmente identica a quella della somministrazione di cui al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276. Tuttavia in ragione della tassativa esclusione da parte delle disposizioni legislative, deve concludersi che si tratti in entrambi i casi di attività materialmente lavorativa senza la costituzione di un rapporto di lavoro.I casi del lavoro volontario e di quello reso nell’ambito di un progetto di servizio civile non sono gli unici di attività lavorativa senza rapporto di lavoro. Rientrano in questa categoria anche i lavori socialmente utili (D. Lgs. 1° dicembre 1997, n. 468. Revisione della disciplina sui lavori socialmente utili, a norma dell'articolo 22 della legge 24 giugno 1997, n. 196 e D. Lgs. 28 febbraio 2000, n. 81. Integrazioni e modifiche della disciplina dei lavori socialmente utili, a norma dell'articolo 45, comma 2, della legge 17 maggio 1999, n. 144).11 F. Mortillaro, voce Retribuzione., cit., p. 3.12 DDL S.601, Modifiche al regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, in materia di riforma dell'accesso alla professione forense e raccordo con l'istruzione universitaria, approvato con il nuovo titolo “Nuova disciplina dell’ordinamento ella professione forense”, art. 39 comma 8, Il tirocinio professionale non determina l’instaurazione di rapporto di lavoro subordinato anche occasionale. Al
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Atteso che recenti studi dimostrano che l’età media di permanenza
nell’albo dei praticanti avvocati è di 5,5 anni, è facile intuire come la
questione non sia di poco conto13.
La prestazione resa del discente non può certo definirsi attività
autonoma professionale neppure, ovviamente, nelle moderne forme di
un rapporto di lavoro economicamente dipendente, in quanto chi la
svolge non è ancora in possesso dei titoli abilitanti.
Pertanto, non resta che la subordinazione quale categoria dogmatica
per l’inquadramento della fattispecie. In effetti, normalmente possono
dirsi sussistenti gli elementi della subordinazione in quanto l’attività è
senz’altro svolta sotto la direzione ed il coordinamento e presso l’unità
produttiva (rectius lo studio professionale) del dominus che riceve
dalla prestazione un vantaggio economico. Essa, vero è che il più delle
volte è propedeutica all’apprendimento della professione, ma ben
potrebbe essere svolta da dipendenti del professionista perché non
necessariamente consistente in atti il cui compimento è
infungibilmente richiesto al professionista per ragioni fiduciarie14.
Il rapporto postula necessariamente uno scambio tra il vantaggio
economico che il professionista ottiene dalla prestazione e
l’apprendimento del discente. Infatti secondo una risalente ma attuale
opinione, l’ “addestramento” ottenuto dal prestatore può ritenersi
praticante avvocato è sempre dovuto il rimborso delle spese sostenute per conto dello studio presso il quale svolge il tirocinio. Ad eccezione che negli enti pubblici e presso l’Avvocatura dello Stato, decorso il primo anno, l’avvocato riconosce al praticante avvocato un rimborso congruo per l’attività svolta per conto dello studio, commisurato all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell’utilizzo da parte del praticante avvocato dei servizi e delle strutture dello studio.13 Cfr. G. Basso, Pellizzari M., Quelle barriere per gli aspiranti avvocati, in Lavoce.info, 2010.14 Si pensi allo svolgimento dell’attività di cancelleria o di notificazione presso gli uffici UNEP nello svolgimento della pratica forense.
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suscettibile di valutazione patrimoniale essendo diretto a migliorare la
qualificazione professionale e la capacità di guadagno; inoltre
l’insegnamento deve ritenersi un obbligo per il professionista, sicché il
rapporto non può che definirsi corrispettivo anche se il corrispettivo è
del tutto peculiare rispetto a quello del rapporto di lavoro subordinato
tipico15.
Poiché il rapporto tra praticante e professionista deve ritenersi, per
le ragioni esposte, a carattere corrispettivo, ad esso si estende
l’applicazione dell’art. 36 Cost. anche se con i dovuti adattamenti che
ne impediscono l’attuazione nel senso comune, ovvero quello indicato
dalla giurisprudenza di estensione dei livelli retributivi previsti dai
contratti collettivi. La ragione è che questi sono negoziati per
compensare la prestazione lavorativa unicamente tramite il
corrispettivo in denaro, e dunque non tengono conto dell’apporto
costituito dall’insegnamento impartito dal professionista e della
fruizione degli strumenti posti a disposizione del discente16.
Pertanto l’applicazione adeguata del precetto costituzionale di cui
all’art. 36, deve intendersi nel senso della ammissibilità di
adeguamento del corrispettivo alle caratteristiche del rapporto di
lavoro del discente17.
2. La nozione di retribuzione.
15 Cfr. T. Treu, Onerosità e corrispettività, cit., p. 100.16 Cfr. T. Treu, Onerosità e corrispettività, cit., p. 115 e ss.17 Cfr. P. Ichino, La nozione di giusta retribuzione nell’art. 36 Cost., in Riv. it. dir. lav., 2010, I, p. 751.
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Per retribuzione può intendersi il corrispettivo dell’attività
lavorativa, cioè qualsiasi attribuzione patrimoniale ottenuta
sinallagmaticamente verso la cessione di una prestazione18.
Questa definizione, pure tratta dalla disciplina legislativa e fondata
su categorie civilistiche, non è di alcuna utilità pratica per le quali si è
posto il problema dell’esistenza di una nozione di retribuzione19.
Infatti tutte le volte che si renda necessario quantificare l’importo di
alcune voci retributive (retribuzione feriale, mensilità aggiuntive) la
cui base di calcolo è costituita dalla retribuzione (c.d. retribuzione
parametro), si pone il problema di stabilire quali voci vi rientrino.
Il legislatore, al di là dell’inquadramento sistematico dell’istituto
nel diritto delle obbligazioni, non fornisce strumenti unidirezionali per
la elaborazione della nozione di retribuzione. Tradizionalmente la
scelta è stata quella di astenersi dal disciplinare direttamente
l’obbligazione retributiva lasciando alla negoziazione collettiva il
compito di riempirla di contenuto attraverso l’individuazione delle
voci e la determinazione dei livelli. Quando il legislatore ha deciso di
intervenire direttamente ha tenuto due atteggiamenti: la fissazione di
garanzie minime, come la retribuzione sufficiente di cui all’art. 36
Cost. o il mantenimento dei livelli raggiunti ex art. 2103 c.c. come
modificato dalla l. 20 maggio 1970, n. 300, ovvero la previsione di
singole voci come, a titolo esemplificativo, l’indennità di anzianità e il
t.f.r., le maggiorazioni per il lavoro straordinario e festivo. In entrambi
i casi si tratta di “tutele legali statiche”20.18 Cfr. M. Roccella, Manuale di diritto del lavoro, Torino, 2010, p. 368.19 Cfr. F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Il rapporto di lavoro subordinato, Torino, 2006, p. 246.20 Cfr. M. D’Antona, Appunti sulle fonti di determinazione della retribuzione, in Riv. giur. lav. prev. soc., 1986, I, p. 11.
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Tra le definizioni legali, l’unica che potesse fornire qualche
fondamento per una nozione di retribuzione utile ai fini pratici era
quella contenuta nella originaria formulazione dell’art. 2121 c.c.
secondo cui ai fini del calcolo dell’indennità di anzianità e di mancato
preavviso, si sarebbero dovute computare “le provvigioni, i premi di
produzione, le partecipazioni agli utili o ai prodotti e tutti i compensi
di carattere continuativo, con esclusione di quanto è corrisposto a
titolo di rimborso spese”.
All’interrogativo sulla esistenza di una nozione legale di
retribuzione unitaria e di generale applicabilità per i fini pratici cui si è
accennato21 si è cercato di fornire una risposta argomentando a partire
dall’art. 2121 c.c.
La circostanza che l’art. 2118 c.c. ha posto una corrispondenza
quantitativa tra l’indennità di mancato preavviso e la somma di tutti i
compensi percepiti dal prestatore, ha generato la convinzione che gli
unici elementi strutturali del concetto giuridico fossero la
determinatezza, la corrispettività e la continuità22.
Ciò ha portato alla riconduzione ad unità di tutti i compensi
percepiti dal lavoratore in funzione delle energie psico-fisiche erogate
con esclusione delle sole spese sostenute nell’intereresse del datore di
lavoro.
Questa tesi, classificata con il termine omnicomprensività, nella
eclettica varietà di argomentazioni, si fondava sulla supposta esistenza
di un principio immanente nell’ordinamento giuridico, e desumibile
21 Cfr. M. Roccella, Manuale di diritto del lavoro, Torino, 2010, p. 368.22 Cfr. Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Il rapporto di lavoro subordinato, cit., p. 247.
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dall’art. 36 Cost., di nozione unica di retribuzione, ricavabile dalle
diverse norme di legge che contengono definizioni di retribuzione23.
Lo scopo della giurisprudenza nell’adottare la concezione
omnicomprensiva di retribuzione è stato evidentemente quello di
realizzare una “alta tutela sulle normative salariali”24 e la conseguenza
è stata la dichiarazione di nullità e la sostituzione automatica di ogni
clausola che escludesse dalla base di calcolo un elementi retributivo
caratterizzato da determinatezza, corrispettività e soprattutto
continuità25.
La retribuzione omnicomprensiva utilizzata quale base di calcolo
dei diversi istituti26, determinava degli evidenti effetti distorsivi di
moltiplicazione e contribuiva ad incrementare l’automatismo salariale
e la crescita di elementi differiti o indiretti della retribuzione27.
La nozione omnicomprensiva di retribuzione inoltre tendeva ad
avere un effetto fortemente riduttivo della autonomia collettiva che
veniva di fatto spogliata della sua più importante prerogativa ovvero
quella di definire l’articolazione della retribuzione28.
Tali considerazioni hanno indotto ad una critica profonda del
concetto di omnicomprensività, a partire dai suoi fondamenti giuridici.
In particolare si è sottoposta a revisione la definizione del carattere
della continuità della erogazione, desunto dalla vecchia formulazione
dell’art. 2121 c.c., quale criterio selettivo naturale in quanto esistono 23 Cfr. M. D’Antona, Le nozioni giuridiche della retribuzione, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1984, 22, p. 271.24 Cfr. M. D’Antona, Appunti sulle fonti, cit. p. 11.25 Cfr. F. Mortillaro, Retribuzione. 1) Rapporto di lavoro privato, in Enc. Giur. Treccani, XXVII, 1991, p 6.26 Cfr. Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Il rapporto di lavoro, cit., p. 248.27 T. Treu, Problemi giuridici della retribuzione, in Giorn. dir. lav. rel. Ind., 1980, 5, p. 38.28 Cfr. F. Mortillaro, Retribuzione, cit., p 6.
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compensi retributivi ma occasionale, quali ad esempio le indennità
una tantum29.
La critica sull’assenza di un fondamento legale della teoria e della
riduzione del valore e della portata della contrattazione collettiva
hanno indotto alla riflessione in giurisprudenza, avviata con la
sentenza n. 5312 dell’11 ottobre 1979, n. 5312 della Corte di
Cassazione, che ha portato in tempi brevi ad una modifica
dell’orientamento di legittimità. Infatti, anzitutto si è affermato che
non esiste un fondamento normativo della nozione di
omnicomprensività ma soltanto una tendenziale regola suppletiva che
avrebbe avuto spazio di applicazione solo in assenza di specifiche
disposizioni legali e contrattuali30. Questo primo approdo del processo
giurisdizionale di revisione della omnicomprensività della retribuzione
consentiva ancora di risolvere due “problemi cruciali per
l’applicazione delle normative salariali” ossia la qualificazione degli
emolumenti di dubbia natura e la quantificazione delle voci retributive
a base incerta31.
Tuttavia la strada era segnata e a distanza di pochi anni sarebbe
giunto a compimento il processo di revisione della nozione di
omnicomprensività32 con l’esclusione della funzione sussidiaria e
l’affermazione dello stesso unicamente quale metodo, non
generalizzabile con cui il legislatore ha regolato singoli istituti o voci
retributive, pur con l’accoglimento di un concetto ampio di
retribuzione quale “coacervo di tutto ciò che il lavoratore riceve dal
29 Cfr. F. Bianchi D’Urso, Spunti critici in tema di onnicomprensività e continuità della retribuzione, in Riv. it. dir. lav., 1983, I, p. 394.30 Cfr. F. Mortillaro, Retribuzione, cit., p 6.31 Cfr. M. D’Antona, Appunti sulle fonti, cit. p. 12.32 Cfr. Corte Cass., S.U., 13 febbraio 1984, n. 1081, in Foro it., 1984, I, p. 677.
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datore di lavoro non solo in cambio della sua prestazione lavorativa,
ma anche a causa della sua implicazione nel rapporto di lavoro”33.
In altri termini, la revisione della teoria dell’omnicomprensività non
ha travolto la concezione di corrispettività che la dottrina aveva
desunto dall’art. 2121 c.c. e che ha ritenuto in forma tanto più ampia
rispetto agli altri contratti sinallagmatici, da farvi rientrare le
prestazioni dovute dal datore nei periodi in cui manchi l’attività
lavorativa34. Anzi secondo alcuni la stessa operazione
giurisprudenziale di revirement si fonderebbe proprio su di essa e
pertanto andrebbe condivisa la descrizione della retribuzione in
termini di coacervo di tutto ciò che è dovuto al prestatore in cambio
della prestazione e della implicazione nel rapporto di lavoro35.
In conseguenza dell’abbandono del concetto di omnicomprensività,
si deve prendere atto da un lato che, sul piano della qualificazione
giuridica degli istituti, non esiste un concetto omnicomprensivo di
retribuzione, e dall’altro che deve essere invece ritenuto sussistente un
concetto unitario di retribuzione-obbligazione intimamente connesso
alla nozione di corrispettività. Tuttavia, sul diverso piano della
determinazione della base di calcolo delle attribuzioni esistono varie
nozioni. Esse sono determinate dalla contrattazione collettiva quale
fonte privilegiata, occasionalmente limitata da definizioni legislative.
Pertanto la determinazione delle varie voci retributive si riduce ad una
questione di interpretazione delle definizioni negoziali o legislative36.
33 Cfr. M. D’Antona, Le nozioni giuridiche della retribuzione, cit., p. 274.34 Cfr. T. Treu, Onerosità e corrispettività, cit., p. 165 e ss.35 Cfr. M. D’Antona, Le nozioni giuridiche, cit., p. 274.36 Cfr. C. Zoli, G. Zilio Grandi, Qualificazione e quantificazione, in La retribuzione. Struttura e regime giuridico, a cura di B. Caruso, C. Zoli, L. Zoppoli, Napoli, 1994, p. 231.
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La fonte dei vari istituti consente una agevole classificazione degli
stessi secondo una bipartizione: da un lato vi sono quelli che traggono
origine nella contrattazione collettiva mentre nel secondo gruppo
rientrano quelli di origine legale.
Secondo una classificazione risalente ma attuale37 gli istituti di
origine legale andrebbero ulteriormente distinti. Da un lato si
collocano quelli originati e determinati dalla legge e dall’altro quelli
privi di determinazione legale. Alla prima categoria devono essere
riportate l’indennità di anzianità, l’indennità sostitutiva del preavviso
e l’indennità per causa di morte, il t.f.r., il trattamento economico in
gravidanza e puerperio e il compenso per le festività infrasettimanali.
Si deve precisare che la determinazione legale non comporta
necessariamente l’inderogabilità ad opera della contrattazione
collettiva in quanto, anche a tal fine si deve prestare attenzione alla
volontà del legislatore. Ad esempio in tema di t.f.r. il secondo comma
dell’art. 2120 fa salva la diversa previsione dei contratti collettivi ai
fini della determinazione del trattamento. Secondo un parere38 ormai
accolto dall’orientamento costante della giurisprudenza39 ciò comporta
che l’autonomia collettiva può derogare in melius ma anche in pejus
alla definizione offerta dal legislatore.
Il t.f.r., in considerazione del diritto del prestatore azionabile in
giudizio sia pure limitatamente all’accertamento della misura, deve
essere definito più quale retribuzione accantonata che retribuzione
37 Cfr. C. Zoli, G. Zilio Grandi, Qualificazione e quantificazione, cit. p. 232.38 Cfr. A. Garilli, I trattamenti economici di fine rapporto, in La retribuzione. Struttura e regime giuridico, a cura di B. Caruso, C. Zoli, L. Zoppoli, Napoli, 1994, p. 249.39 Per una completa rassegna cfr. M. N. Bettini, sub art. 2120 c.c., in Diritto del lavoro, vol. I, a cura di G. Amoroso, V. Di Cerbo, A. Maresca, Milano, 2009, p. 1214 e ss.
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differita, ed è calcolato sommando per ciascun anno di servizio una
quota pari e comunque non superiore all’importo della retribuzione
dovuta per l’anno stesso divisa per 13,5. A tal fine la retribuzione si
intende comprensiva di tutte le somme compreso l’equivalente delle
prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro,
a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a
titolo di rimborso spese.
A causa di questa formulazione ampia, la dottrina ha ritenuto che la
retribuzione quale parametro ai fini del calcolo del t.f.r. si
configurerebbe come sostanzialmente omnicomprensiva,
atteggiandosi ad eccezione rispetto al principio ormai consolidato di
assenza di un concetto di retribuzione dotato di tale caratteristica40. In
accoglimento di questa impostazione, la giurisprudenza ritiene
computabili ai fini del calcolo del t.f.r. il premio di rendimento, i
premi di fedeltà aziendale, le componenti retributive correlate alla
professionalità, l’indennità di lavoro notturno, i ratei di tredicesima,
l’indennità sostitutiva di ferie e festività, l’indennità per festività
soppresse, le somme corrisposte a titolo di permessi non retribuiti,
l’indennità di sottosuolo, di cassa, di cuffia e di disagiata residenza,
l’indennità sostitutiva del preavviso41.
Altrettanto ampie sono le nozioni di retribuzione ai fini del calcolo
delle somme dovute ai lavoratori per la prestazione resa nelle giornate
di ricorrenze festive e per il periodo di congedo di maternità e
paternità. Per quanto concerne la prima, l’art. 5 della l. n. 260 del 27
maggio 1949 fa riferimento alla retribuzione globale di fatto
giornaliera. L’art. 23 del d.lgs. n. 151 del 26 marzo 2001, che ha 40 Cfr. G. Giugni, R. De Luca Tamajo, G. Ferraro, Il trattamento di fine rapporto, Padova, 1984, p. 59 e ss.41 Cfr. M. Novella Bettini, sub art. 2120 c.c., cit., p. 1224 e ss.
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sostituito l’art. 16 della abrogata 30 dicembre 1971, n. 1204
sostanzialmente riproducendone il contenuto, fa riferimento alla
retribuzione globale giornaliera.
Nella categoria degli istituti retributivi di origine legale ma privi di
una determinazione ad opera della stessa fonte si collocano i compensi
per la prestazione resa oltre il normale orario di lavoro. Come noto
l’art. 2108 c.c. prevede che il prestatore sia compensato per le ore di
straordinario con un aumento della retribuzione rispetto a quella
dovuta per il lavoro ordinario. Il d.lgs. n. 66 dell’ 8 aprile 2003 di
attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE che ha modificato
taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, non si occupa
dell’aspetto retributivo del lavoro prestato oltre l’orario normale.
Pertanto devono ritenersi attuali tutti i principi elaborati dalla dottrina
e dalla giurisprudenza fino a quel momento42.
Occorre distinguere quanto dovuto a titolo retributivo per le ore di
straordinario, da quanto dovuto a titolo di risarcimento del danno
dovuto in aggiunta alla retribuzione nel caso di soppressione del
riposo settimanale, a condizione che si dia prova del danno biologico
provocato dall’usura quale conseguenza del suo mancato godimento43.
Per quanto concerne la retribuzione feriale la Corte di Cassazione
ha ritenuto legittime le statuizioni della contrattazione collettiva con
cui si escludeva dal computo della somma dovuta al prestatore, i
compensi spettanti normalmente per la presenza effettiva sul luogo di
lavoro, mentre per la maggiorazione per lavoro straordinario ha
42 Cfr S. Bellomo, Orario e riposo, commento sub artt. 2106, 2107, 2108 e 2109 c.c., in Diritto del lavoro, vol. I, a cura di G. Amoroso, V. Di Cerbo, A. Maresca, Milano, 2009, p. 1007 e ss.43 Cfr. Corte Cass., S.U., 3 aprile 1989, n. 1607 in Mass. giur. lav., 1989, p. 455, con nota di Mormile.
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ritenuto che nella specie sia stata introdotta una nozione
omnicomprensiva di retribuzione44.
Infine, con riguardo agli istituti retributivi di origine negoziale è
evidente che la giurisprudenza in caso di contestazioni non incontra
alcun limite legislativo e deve limitarsi all’interpretazione della
volontà delle parti sulla retribuzione parametro da adottarsi.
Sennonché l’operazione può presentarsi molto complessa qualora
manchino specifiche indicazioni.
3. Retribuzione e principi costituzionali: la sufficienza.
In tutti i casi in cui si costituisca un rapporto di lavoro subordinato a
titolo oneroso, l’art. 36 Cost. prescrive che la retribuzione abbia i
requisiti della proporzionalità e sufficienza.
Il primo problema che si pose agli interpreti fu quello di
determinare il carattere della norma in esame. Negli anni
immediatamente successivi alla promulgazione della Costituzione si
avviò una lunga querelle in cui i commentatori presero posizione
dividendosi tra sostenitori dell’efficacia immediatamente precettiva45 e
coloro che sostenevano il carattere programmatico della norma46. La 44 Cfr. C. Zoli, G. Zilio Grandi, Qualificazione e quantificazione, cit., p. 233.45 Tra di essi v. S. Pugliatti, La retribuzione sufficiente e le norme della Costituzione, in RGL, 1950, I, p. 190, A. Cessari, L’invalidità del contratto di lavoro per violazione dell’art. 36 Cost., in Dir. lav., 1951, II, p. 197, U. Natoli, Ancora sull’art. 36 Cost. e sulla sua pratica attuazione, in Riv. giur. lav., 1952, II, p. 9, R. Scognamiglio, Sull’applicabilità dell’art. 36 Cost. in tema di retribuzione del lavoratore, in Foro civ., 1951, p.352.46 Cfr. G. Ardau, La Costituzione della Repubblica e la determinazione della retribuzione, in Jus, 1952, p. 550, A. Sermonti, L’adeguatezza della retribuzione di fronte ai contratti collettivi di diritto comune e il primo comma dell’art. 36 Cost., in MGL, 1952, p. 128, G. Pera, La giusta retribuzione dell’art. 36 Cost., in Dir. lav., 1953, I, p. 99, F. Guidotti, La retribuzione nel rapporto di lavoro,
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questione, ritenuta successivamente una “falsa contrapposizione” in
ragione del fatto che il vero problema risiede nelle modalità di
attuazione dell’art. 36 Cost.47, fu risolta dalle prime pronunce di
tribunali di merito a favore della tesi della programmaticità della
norma. I giudici ritenevano infatti che la disposizione invocata non
contenesse una disciplina tanto dettagliata da consentirne
l’applicazione diretta senza un intervento del legislatore. Questo
orientamento di merito si fondava su una sentenza della Corte di
Cassazione48 poi subito seguita da un revirement 49 che diede avvio ad
un imprevedibile applicazione50, dell’art. 36 Cost.
L’imprevedibilità non sta tanto nell’attribuzione del carattere
precettivo all’art. 36 Cost., scelta obbligata in ragione
dell’inattuazione dell’art. 39 Cost., quanto piuttosto nell’aver
individuato nel giudice il soggetto responsabile dell’applicazione51. La
struttura del sistema, fondato sull’erga omnes del contratto collettivo,
mostra l’estraneità alle intensioni del legislatore costituente, della
Milano, 1956.47 Cfr. T. Treu, Commento sub art. 36, cit., p. 77.In effetti questa posizione sembra coerente con quella secondo cui “L’art. 36 della Costituzione, nato senza dubbio come norma programmatica, che avrebbe trovato concretezza soprattutto nel meccanismo di contrattazione con efficacia generale di cui all’inattuato art. 39, fu improvvisamente accettato tra il 1950 e il 1951, come norma precettiva, atta a colmare quello che allora appariva come il vuoto legislativo derivante dall’inattuazione dell’art. 39”. Cfr. G. Giugni, introduzione a M. L. De Cristofaro, La Giusta retribuzione, Bologna, 1971, p. 9 e ss. Da notare inoltre che l’A. non esclude la possibilità di un intervento legislativo per la regolamentazione della retribuzione pur ritenendo la volontà del legislatore costituente andasse verso la determinazione della giusta retribuzione “soprattutto” attraverso lo strumento dell’autonomia collettiva.48 Il precedente di legittimità, (sent. Corte Cass. 228/1953) per quanto consta inedito, è richiamato dalla sentenza del Tribunale di Foggia, 14 febbraio 1953, n. 447, in M. L. De Cristofaro, La giusta retribuzione, cit., p. 92.49 Cass. Civ., sent. 12 maggio 1951, n.1184, in MGL, 1951, p. 157, con nota di A. Sermonti.50 Cfr. M. Roccella, Il salario minimo legale, in Pol. dir., 1983, 2, p. 254.51 Cfr. T. Treu, Commento all’art. 36, cit., p. 77.
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possibilità che la retribuzione sufficiente potesse essere individuata
per via giudiziale52.
Preso atto della resistenza ad intervenire per l’attuazione della
seconda parte dell’art. 39 Cost. e della sordità del legislatore ordinario
alle istanze di introduzione di una legge sul salario minimo, più volte
avanzate in dottrina53, quella tracciata dalla giurisprudenza altro non è
che l’unica via percorribile.
La deriva giurisprudenziale della sufficienza ha determinato una
difformità rispetto ai risultati attesi dal legislatore costituente.
Anzitutto la sufficienza non può che essere dichiarata caso per caso e
con efficacia limitata alle parti per effetto dei principi sul giudicato.
Inoltre, secondo un consolidato orientamento di legittimità, il
giudice per determinare la misura salariale sufficiente deve guardare
al contratto collettivo nazionale di riferimento. In dottrina si tende ad
approvare l’ancoraggio ad un parametro ritenuto oggettivo in quanto
espressione della composizione periodica e frequente (a livello
collettivo) tra gli interessi opposti del datore di lavoro e del
lavoratore54. L’orientamento prevalente, dopo una fase di applicazione 52 Cfr. M. Marinelli, Il diritto alla retribuzione proporzionata e sufficiente: problemi e prospettive, in Arg. Dir. lav., 2010, I, p. 87; P. Ichino, La nozione di giusta retribuzione, cit., p. 739.53 Cfr. T. Treu, Costo del lavoro e sistema retributivo in Italia, in La retribuzione. Struttura e regime giuridico, a cura di B. Caruso, C. Zoli, L. Zoppoli, Napoli, 1994, p. 24 ss.; M. Roccella, Oltre l’indicizzazione dei salari, in Lav. Dir., 1993, 3, p.444; ID, I salari, Bologna, 1986, p 79 ss., A. Garilli, Il lavoro nel sud, Torino, 1997, p. 45; A. Bellavista, I contratti di riallineamento retributivo, in Il pacchetto Treu, a cura di M. Napoli, in Le nuove leggi civili commentate, 1998, 5-6, p.1413; P. Ichino, La nozione di giusta retribuzione, cit., p. 739.54 “Il contratto collettivo… offre una tutela più spontanea e quindi più aderente alle reali esigenze del lavoro e della produzione, e, se pure rappresenta una limitazione della libertà contrattuale, lascia però sempre spazio ad un effettivo contrasto di interessi. Sta di fatto che solo attraverso una reale competizione di forze economiche è possibile giungere all’effettivo riconoscimento, alla valorizzazione ed alla composizione degli interessi delle varie categorie e quindi anche a rendersi conto nel modo migliore di quale sia, secondo le circostanze
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“meccanicistica” delle tabelle salariali55, ha ritenuto il riferimento ai
minimi tabellari solo orientativo e non vincolante56, aprendo al giudice
di merito la possibilità di valutare la rispondenza a sufficienza rispetto
alle esigenze del singolo lavoratore. Il soggettivismo nella
determinazione dei criteri di sufficienza da applicare al caso di specie
costituisce l’ulteriore divaricazione tra gli effetti attesi dai costituenti e
quelli prodotti dall’applicazione delle norme costituzionali. Infatti,
come è ovvio, lo scopo del sistema fondato sull’efficacia erga omnes
dei contratti collettivi era quello di garantire una tutela diffusa dei
livelli salariali con l’effetto della perequazione, ottenuta nel
precedente sistema corporativo per il tramite della stipulazione
obbligatoria del contratto collettivo e dell’inquadramento sindacale
obbligatorio.
economico-sociali concrete, il livello minimi al disotto del quale la rimunerazione degli operai non può discendere”. L. Riva Sanseverino, Salario minimo e salario corporativo, Roma, 1931, p. 57. Cfr. anche L. Riva Sanseverino, Commento sub art. 2099, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja, G. Branca, Bologna-Roma, 1986, p. 336.Anche la Corte costituzionale si è espressa in senso sostanzialmente identico ritenendo che i contratti collettivi e i contratti aziendali “quali estrinsecazioni del potere delle associazioni sindacali, sono frutto e risultato di trattative e patteggiamenti e costituiscono una regolamentazione che, in una determinata situazione di mercato, è il punto di incontro, di contemperamento e di coordinamento dei configgenti interessi dei lavoratori e degli imprenditori”. Cfr. Corte cost. sent. 9 marzo 1989, n. 103, in Riv. giur. lav. prev. soc., 1989, I, p. 3 con nota di U. Natoli; in Riv. it. dir. lav., 1989, II, p. 389, con commento di G. Pera.55 M. L. De Cristofaro, La giusta retribuzione, Bologna, 1971, p. 96 e ss.56 T. Treu, Problemi giuridici della retribuzione, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1980, 5, p. 5.Cfr. da ultimo, Corte Cass., 8 gennaio 2002, n. 132, in Foro it., 2002, I, 1033; Cass. 29 luglio 2000, n. 10002, in Rep. Foro it., 2001, voce Lavoro (contratto) [3850], n. 37; Corte Cass., 17 marzo 2000, n. 3184, in Rep. Foro it., 2000, voce Lavoro (contratto) [3890], n. 1303; Corte Cass., 26 marzo 1998, n. 3218, in Foro it., 1998, 3227, con nota di M. Ricci; Corte Cass., 15 dicembre 1997, n. 12663, in Rep. Foro it., 1998, voce Lavoro (contratto) [3850], n. 25.
21
L’attribuzione di immediata precettività all’art. 36 al fine di
valutare la sufficienza della retribuzione convenzionalmente stabilita a
livello individuale, trovava il suo presupposto necessari nella
indisponibilità del relativo diritto57.
La portata dirompente dell’orientamento sulla precettività dell’art.
36 Cost. non deve passare inosservata. L’assetto legislativo precedente
alla Costituzione repubblicana, attribuiva efficacia diretta al contratto
collettivo corporativo, in ragione dell’inquadramento sindacale
obbligatorio e della stipulazione obbligatoria del predetto contratto.
Pertanto, i livelli salariali per i contraenti individuali erano vincolanti
ex lege, senza riconoscimento di alcuna posizione giuridica soggettiva
attiva al giusto salario. La garanzia dell’adeguatezza dei livelli
salariali secondo la visione positivista dell’epoca, derivava quale
conseguenza del “regime di giustizia sociale” di cui il salario
corporativo si riteneva fosse espressione58.
Evidentemente il riconoscimento del diritto alla retribuzione come
una profonda innovazione per il fatto che la posizione giuridica
soggettiva, oltre a costituire parametro di legittimità della legislazione
ordinaria, si sia ritenuta preesistesse alla stipulazione del contratto
individuale di lavoro59.
4. Retribuzione e principi costituzionali: la proporzionalità.
57 S. Pugliatti, La retribuzione sufficiente, cit., p. 189.58 L. Riva Sanseverino, Salario minimo, cit., p. 91.59 G. Pera, La determinazione della retribuzione giusta e sufficiente ad opera del giudice, in MGL, 1961, p. 429
22
Come risulta evidente da quanto fin qui detto, l’attribuzione di un
valore immediatamente precettivo all’art. 36 Cost. non era nelle
intenzioni del legislatore costituente, nel cui progetto era contemplata
una efficacia erga omnes dei contratti collettivi stipulati ex art. 39
Cost., da cui sarebbe dovuta discendere la disciplina della retribuzione
del lavoro subordinato. In questa prospettiva l’art. 36 Cost. sarebbe
rimasto confinato nell’area delle mere enunciazioni di principio con
la sola efficacia di paletto nell’eventuale esercizio del potere
legislativo in materia60.
Secondo quanto già detto, la giurisprudenza ha riportato l’art. 36
Cost. sul piano della precettività. In questa operazione tuttavia a
differenza del principio della sufficienza, quello della proporzionalità
ha avuto un’applicazione meno incisiva61.
Il motivo di questa limitazione della giurisprudenza è da alcuni
ricondotto alla volontà di sottrarre l’adeguatezza dei livelli retributivi
stabiliti a livello collettivo, al vaglio di proporzionalità in quanto ciò
avrebbe comportato la messa in discussione anche de criteri di
valutazione e inquadramento che li definiscono, assoggettando perciò
al sindacato del giudice gli equilibri complessivi del rapporto di lavoro
e delle sue prestazioni62. In altri termini la giurisprudenza, attuando un
evidente self restraint, avrebbe preferito astenersi da una
intromissione troppo invasiva nella sfera dell’autonomia negoziale che
avrebbe comportato il giudizio sulla proporzionalità della retribuzione.
60 Cfr. L. Zoppoli, L’art. 36 della Costituzione e l’obbligazione retributiva, in La retribuzione. Struttura e regime giuridico, a cura di B. Caruso, C. Zoli, L. Zoppoli, Napoli, 1994, p. 95; P. Ichino, La nozione di “giusta retribuzione” nell’art. 36 della costituzione, in Riv. it. dir. lav., I, 2010, p. 739.61 Cfr. P. Ichino, La nozione, cit., p. 750.62 Cfr. T. Treu, Le forme retributive incentivanti, in Riv. it. dir. lav., I, 2010, p. 665.
23
Effettivamente le poche pronunce che si sono registrate in materia
di proporzionalità si sono concentrate su alcune applicazioni
particolari del principio di proporzionalità.
In particolare, in ragione del principio suddetto, è ritenuta legittima
la riduzione delle retribuzioni in rapporti di lavoro a tempo parziale,
quale postulato della proporzionalità delle stesse alla quantità del
lavoro prestato, come il riconoscimento di maggiorazioni a favore di
quei soggetti che svolgano le prestazioni in giorni festivi o in luoghi
diversi da quello abituale63.
A parte le suddette applicazioni del principio di proporzionalità,
esso in genere è utilizzato in funzione di correttivo di quello della
sufficienza.
Secondo una parte della dottrina64, l’utilizzazione rigorosa e diffusa
degli standards retributivi previsti dal contratto collettivo avrebbe
dovuto essere la conseguenza dell’applicazione dell’art. 36 Cost. Ciò
in quanto se si fosse data attuazione al sistema delineato alla seconda
parte dell’art. 39 il minimo sarebbe stato uguale per i lavoratori su
tutto il territorio nazionale. E a risultati diversi non avrebbe dovuto
condurre la scelta di dare attuazione alla volontà dei costituenti in
modo anomalo, attraverso l’intervento della giurisprudenza. Al
contrario, l’intervento del giudice sui livelli retributivi stabiliti
dall’autonomia collettiva, attuato per adeguare lo standard al caso
concreto, comporta una valutazione soggettivistica estranea alle
intenzioni del legislatore dirette unicamente a ottenere per il tramite
della proporzionalità e della sufficienza la perequazione dei salari
all’interno delle categorie di lavoratori.
63 Cfr. P. Ichino, La nozione, cit., p. 751.64 Cfr. T. Treu, Commento sub art. 36, cit., p. 89.
24
L’interpretazione più rispettosa dei principi costituzionali di cui
all’art. 36 Cost. impone dunque l’applicazione dei livelli retributivi di
cui al contratto collettivo in tutti i casi di pattuizione difforme in senso
peggiorativo65. Ciò realizza peraltro il non trascurabile risultato di
politica del diritto di evitare che la sufficienza si attesti sui livelli del
c.d. salario alimentare66.
Il riferimento ai livelli retributivi deve intendersi non alla
retribuzione minima ma ai compensi fissati per le qualifiche proprie
dei singoli lavoratori. In tal modo si realizza una applicazione
integrata della norma costituzionale sulla retribuzione nei due aspetti
della sufficienza e proporzionalità. Questa interpretazione conferma
che quest’ultimo principio ha carattere precettivo e dunque
contribuisce a segnare il punto di equilibrio fra le prestazioni nel
rapporto di lavoro come determinato dalle parti collettivamente.
Ciò suggerisce l’utilità pratica di più recente evidenza del principio
di proporzionalità ossia consentire la valutazione sulle deviazioni dei
sistemi di remunerazione della prestazione rispetto al nesso tra
retribuzione e lavoro. Essa è particolarmente evidente in tutti i casi in
cui sia presente una componente premiale in cui i parametri
incentivanti siano connessi a fattori indipendenti dai caratteri della
prestazione o addirittura dalle scelte imprenditoriali come nel caso in
cui una parte della retribuzione sia legata ai risultati finanziari
dell’impresa o all’andamento dei titoli sul mercato azionario. Nel caso
limite, difficilmente realizzabile, in cui la quota variabile della
retribuzione, slegata dai caratteri della prestazione dovesse risultare
65 Cfr. T. Treu, Problemi giuridici, cit., p. 6.66 Cfr. A. Antignani, Riflessioni su retribuzione, parità di trattamento, automatismi e art. 36, 1° comma della costituzione, in Riv. giur. lav. prev. soc., 1981, I, p.283.
25
assolutamente prevalente, si potrebbe dubitare della rispondenza al
concetto costituzionale di retribuzione e la pattuizione potrebbe essere
censurata proprio in relazione ai caratteri di proporzionalità e
sufficienza di cui all’art. 36 Cost67.
Questa opinione sembra perfettamente conciliabile con la proposta
di chi suggeriva una terza via per superare la netta contrapposizione
tra la lettura ipergarantista che tende a radicare nell’art. 36 Cost. una
tutela rigida e quella iperliberista che tende a minimizzare la portata
della norma costituzionale68. Essa condurrebbe alla deduzione dai due
principi della proporzionalità e sufficienza di due distinte nozioni di
retribuzione: una retribuzione quale obbligazione sociale e l’altra
quale obbligazione corrispettivo. La prima riconducibile al principio
costituzionale delle sufficienza avrebbe una funzione di garanzia
minimale di tipo universalistico e sarebbe parzialmente insensibile ad
influenze derivanti dalle fluttuazioni del mercato, mentre la seconda
riconducibile al principio della proporzionalità. Quest’ultima
assoggettata alle regole negoziali individuali e collettive potrebbe
garantire la flessibilità necessaria ai moderni sistemi di relazioni
industriali che le deriverebbe dall’ampia libertà delle sue fonti di
tenere conto dei condizionamenti e convenienze di mercato.
5. Retribuzione e principi costituzionali: la parità di trattamento.
Secondo parte della dottrina un corollario della regola della
proporzionalità è costituito dalla identità di trattamento che postula
67 T. Treu, Le forme retributive, cit., p. 666.68 Cfr. L. Zoppoli, L’art. 36 della Costituzione, cit., p. 98 e ss.
26
l’uguaglianza di retribuzione a parità di lavoro69. Sotto tale aspetto
l’art. 36 Cost. avrebbe lo stesso obiettivo sotteso al successivo art. 37,
con la differenza che quest’ultimo è diretto alla tutela dal divieto di
discriminazione in ragione di sesso ed età.
Se questo principio poteva valere per tutti i lavoratori di una stessa
categoria e avrebbe dovuto essere realizzato attraverso il ricorso
pedissequo alle retribuzioni tabellari di cui alla contrattazione
collettiva, a maggior ragione avrebbe dovuto imporsi in ambito
endoaziendale. Ed in tal senso parve muoversi la Corte di Cassazione
nel ritenere che la condotta di buona fede da parte del datore di lavoro
presuppone l’applicazione del contratto collettivo sottoscritto dalla
associazione cui aderisce, anche ai lavoratori non iscritti alle
controparti organizzative sindacali70.
L’orientamento dottrinale sulla parità di trattamento si pone in linea
di continuità con quella corrente di pensiero, che ha portato a
conseguenze ulteriori i precedenti studi sul divieto di arbitrarie ed
ingiustificate discriminazioni, secondo cui dall’art. 36 Cost. sarebbe
possibile desumere un principio positivo di parità di trattamento non
limitato cioè al divieto di atti discriminatori71.
Il dibattito sulla parità di trattamento economico dei lavoratori di
un’impresa ha preso avvio attraverso una serie di studi che hanno
tratto spunto dalla dottrina tedesca. Il problema era infatti sconosciuto
dalla dottrina nazionale, a causa del precedente assetto legislativo di
natura corporativa che ostava ad un diverso trattamento economico
69 Cfr. T. Treu, Commento all’art. 36, cit., p. 89. Sulla parità di trattamento Cfr. anche L. Angiello, La parità di trattamento nei rapporti di lavoro, Milano 1979, L. Galantino, Formazione giurisprudenziale dei principi del diritto del lavoro, 1981.70 Cfr. T. Treu, Problemi giuridici, cit., p. 6.71 Cfr. G. Pasetti, Parità di trattamento e autonomia privata, Padova, 1970.
27
della medesima prestazione, mentre da tempo impegnava i giuristi
stranieri e entrava a far parte di documenti internazionali72.
Dalla dottrina tedesca è stato importato il concetto secondo cui la
parità di trattamento deriva dall’appartenenza del prestatore di lavoro
ad una comunità al cui interno non sarebbero ammissibili
discriminazioni in ragione del carattere spersonalizzato della
prestazione nell’industria di produzione di massa che impone il
trattamento omogeneo di tutti i componenti73.
Questa impostazione fu criticata da chi successivamente si
occupò del problema perché ritenuta priva di sufficienti fondamenti di
diritto positivo. Pertanto si propose di agganciare il divieto di
trattamenti discriminatori al diritto del lavoratore ad un trattamento
dignitoso, fondato sull’art. 2087 c.c., e sull’obbligo gravante sul
datore di lavoro, di orientare secondo buona fede le proprie condotte
nell’esecuzione del contratto di lavoro, ex art. 1375 c.c. 74.
I suddetti rilievi, se producevano l’effetto di radicare in norme di
diritto positivo il concetto di parità di trattamento, non mutavano la
sostanza della tutela riconosciuta al prestatore in quanto limitata ad un
obbligo di astensione dal compimento di atti discriminatori.
Attraverso il richiamo all’art. 36 Cost. invece fu possibile dedurre il
principio di parità di trattamento implicante una condotta positiva del
datore75, inteso anche nel senso che la proporzionalità di cui al
72 Si pensi al comma II dell’art. 23 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 secondo cui “Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro”73 Cfr. P. Rescigno, Persona e comunità, Bologna, 1966.74 Cfr. C. Smuraglia, La persona del prestatore di lavoro, Milano, 1967.75 Cfr. G. Pasetti, Parità di trattamento e autonomia privata, Padova, 1970.
28
suddetto articolo imporrebbe l’uguale retribuzione a parità di lavoro
svolto76.
Tali posizioni furono tuttavia disattese dalla giurisprudenza di
legittimità che ritenne insussistente un obbligo di parità di trattamento
gravante sul datore di lavoro77, per mancanza di un principio
suscettibile di applicazione immediata. Esso infatti non poteva essere
desunto dall’art. 36 Cost. che impone la corresponsione di una
retribuzione proporzionata e sufficiente prescindendo da una
valutazione intersoggettiva.
Né si sarebbe potuto ricavare dall’art. 3 comma 1 Cost. che
costringe il legislatore nel binario della parità di trattamento di tutti gli
individui, ma da cui non si può far discendere un principio di
uguaglianza nei rapporti privati.
La dottrina rispose alle critiche che la giurisprudenza muoveva alla
teoria della precettività dell’art. 36 Cost. quale fondamento di un
obbligo alla parità di trattamento in capo al datore di lavoro, facendo
osservare che il comma 2 del’art. 3 Cost., a differenza del comma 1,
ne rende possibile l’estensione della portata normativa78.
Tale orientamento parve ottenere regione quando nel 1989 la Corte
costituzionale intervenne sul punto.
Si ritenne infatti che la nota sentenza 9 marzo 1989, n. 10379 della
Corte, aprisse la via al riconoscimento dell’obbligo datoriale di
uniformare i trattamenti retributivi di lavoratori che svolgessero la
medesima attività.
76 Cfr. T. Treu, Problemi giuridici, cit., p. 6; L. Galantino, Sui trattamenti retributivi individuali più favorevoli, in Riv. it. dir. lav., 1980, I, p. 153.77 Corte Cass., 24 marzo 1987, n. 2853, in Orient. giur. lav., 1987, p. 400.78 Cfr. G. Pasetti, Parità di trattamento, in Encicl. Giur., 1990, p. 3.79 Corte Cost., 9 marzo 1989, n. 103, in Riv. giur. lav. prev. soc., 1989, I, p. 3 con nota di U. Natoli; in Riv. it. dir. lav., 1989, II, p. 389, con commento di G. Pera.
29
Soprattutto parve sanzionare l’obbligo per il giudice adito di
verificare le ragioni di errori o violazioni del prescritto obbligo
gravante sul datore ogni volta che le pur ammissibili disparità e
differenziazioni non fossero giustificate e comunque ragionevoli.
Nell’evidenziare i limitati effetti del giudicato sulla questione della
parità di trattamento, nei commenti alla sentenza si osservò che forse
la Corte avrebbe dovuto essere più chiara nell’affermare la legittimità
delle differenziazioni nei trattamenti retributivi, solo quale condizione
dell’applicazione del principio di proporzionalità. Si affermò inoltre
che si trattava di una sentenza interpretativa di rigetto e pertanto priva
di effetto vincolante per i giudici ordinari, se non nel senso di
impedire una interpretazione incompatibile al dettato costituzionale.
Comunque si ritenne che essa avrebbe aperto la strada ad un
ripensamento dell’orientamento di legittimità.
La conseguenza che si produsse in esito alla sentenza della Corte
costituzionale fu un contrasto giurisprudenziale in seno alla sezione
lavoro della Corte di Cassazione.
Da un lato si posero le pronunce che ritenevano che si fosse
affermata la parità di trattamento e l’esistenza di un principio cogente
in tal senso nell’ordinamento80.
Contrariamente altre ribadirono l’orientamento precedente alla
sentenza 103 del 1989 continuando a negare l’esistenza di un principio
di parità di trattamento81.
Le Sezioni Unite intervennero a composizione del conflitto
ritenendo “di aderire, confermandola, all’ampia elaborazione 80 Cfr. Corte Cass., 9 febbraio 1990, n. 947, in Riv. it. dir. lav., 1990, II, p. 380; Corte Cass., 8 marzo 1990, n. 1888 in Riv. it. dir. lav., 1990, II, p. 799.81 Cfr. Corte Cass., 6 novembre 1990, n. 10648, in Not. Giur. lav., 1991, p. 23; Corte Cass., 18 settembre 1991, n. 9695; Corte Cass., 28 gennaio 1992, n. 886 in Mass. giur. lav., 1992, p. 38.
30
giurisprudenziale che la Corte aveva compiuto prima della sentenza n.
103 del 1989 della Corte costituzionale, ed alle pronunzie successive,
che, dando una lettura della sent. n. 103 non antitetica rispetto a quella
giurisprudenza, ad essa esplicitamente o implicitamente si
richiamano”82.
In tale affermazione tuttavia le Sez. unite congiungono due
operazioni non del tutto compatibili. Infatti vero è che la decisione
riprende esattamente i precedenti anteriori alla sentenza n. 103 ma
questi non corrispondono per contenuto alle sentenze della Sezione
lavoro successive al 1989 che hanno negato la esistenza del principio
di parità di trattamento. Queste ultime hanno infatti generalmente un
oggetto più ristretto.
Tutte le sentenze contrarie alla esistenza del principio, richiamate in
quella delle S.U., si sono pronunciate con riguardo alla fattispecie
della parità di trattamento economico dei lavoratori ad opera
dell’autonomia collettiva e non sulla parità di trattamento a livello di
rapporto individuale di lavoro.
La sentenza della Corte costituzionale poteva indurre a ritenere che
il principio di parità di trattamento vincolasse il giudice alla
valutazione della ragionevolezza delle differenziazioni tra lavoratori
operate dalla contrattazione collettiva, oltre a quelle introdotte dal
datore a livello individuale83. Questa possibile chiave di lettura,
probabilmente imprevista, ritenuta conseguenza della più volte
denunciata infelice formulazione delle motivazioni, bastò ad innescare
il timore che la libertà dell’autonomia collettiva potesse venir meno e
82 Cfr. Corte Cass., S.U., 29 maggio 1993, n. 6030, in Riv. it. dir. lav., 1993, II, p. 653 con nota di R. Del Punta.83 Cfr. Corte Cost., 9 marzo 1989, n. 103, cit. “per tutte le parti, anche per quelle sociali, vige il dovere di rispettare i precetti costituzionali”.
31
che la giusta retribuzione non sarebbe più stata il prodotto
dell’incontro delle volontà delle parti sociali nel CCNL, ma l’oggetto
di una libera determinazione del giudice operata volta per volta, con il
rischio di una elevazione del contenzioso ed una sostanziale incertezza
dei rapporti. Le sezioni semplici della Corte di Cassazione investite
della questione successivamente alla sentenza 103 della Corte
Costituzionale, probabilmente per prevenire tale eventualità, ritennero
insussistente un obbligo di parità di trattamento a carico
dell’autonomia collettiva. Pertanto nei precedenti richiamati dalle
S.U., rigettarono le richieste di dichiarare la nullità di clausole del
contratto collettivo che introducevano differenziazioni salariali tra
lavoratori, tuttavia in nessun caso venne trattata la questione
dell’esistenza di un obbligo di parità di trattamento a carico del datore
nei rapporti individuali.
In realtà la Corte Costituzionale probabilmente non intendeva aprire
al sindacato del giudice sulle scelte effettuate dalla contrattazione
collettiva in materia di inquadramento e retribuzione, ma solo evitare
che la stessa rinviando alla contrattazione individuale veicolasse la
legittimità di condotte arbitrarie e discrezionali dell’imprenditore.
Infatti l’operazione ermeneutica effettuata dalla Corte fu quella di
reperire nell’ordinamento un principio immanente nella disciplina
positiva (parità di trattamento) effettuandone un bilanciamento con
quello di cui all’art. 41 Cost.84, ai fini di indicare al giudice ordinario i
criteri per valutare la ragionevolezza delle condotte delle parti
individuali di un contratto di lavoro.
84 L. Mengoni, L’argomentazione nel diritto costituzionale, in Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, p. 115 e ss.
32
In altri termini il riferimento all’art. 41 Cost.85 non intendeva aprire
alla funzionalizzazione della contrattazione collettiva ad interessi
diversi da quelli perseguiti dalle parti, quanto evitare che per il tramite
dell’autonomia collettiva si introducesse la possibilità di derogare, a
livello individuale, ai principi costituzionali posti a garanzia della
dignità del lavoratore. La Corte intendeva riaffermare la illegittimità
delle discriminazioni irragionevoli compiute dal datore anche
nell’ipotesi in cui fossero conseguenza di una facoltà concessa dalla
contrattazione collettiva. Dunque la sentenza della Corte
Costituzionale era priva di un contenuto radicalmente rivoluzionario
che potesse minare alla base l’autonomia collettiva.
In conclusione, vero è che alcune pronunzie della sez. lavoro della
Cassazione successive alla sent. 103 del 1989 hanno ritenuto
insussistente il principio di parità di trattamento, ma ciò è avvenuto
con riguardo alla contrattazione collettiva.
Per quanto consta, non si registrano tra la sent. 109 del 1989 della
Corte di Costituzionale e la sent. n. 6030 del 1993 precedenti di
legittimità che negano l’esistenza del principio di trattamento quale
criterio discretivo della legittimità dell’operato dell’autonomia
individuale: pertanto, potrebbe dirsi che non esisteva neppure un
contrasto di orientamenti da risolvere.
Tuttavia la Corte di Cassazione ha ritenuto di pronunciarsi nel senso
della inesistenza di un obbligo alla parità di trattamento nei confronti
dei prestatori, anche in capo al singolo datore di lavoro.
Si può affermare dunque che secondo l’attuale orientamento di
legittimità sono ammissibili trattamenti differenziati tra soggetti che 85 Per la prima volta rintracciato in uno scritto sul divieto di discriminazione in L. Isenburg, Divieti di discriminazione nel rapporto di lavoro, Milano, 1984, p. 1 e ss.
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svolgano identiche mansioni pur sussistendo un divieto di condotte
discriminatorie tassativamente indicate dal diritto positivo.
La finalità di politica giurisdizionale che sostiene tale orientamento
è che occorre garantire al datore di lavoro il diritto di differenziare i
trattamenti retributivi, sulla scorta di valutazioni circa l’effettivo
apporto dei lavoratori, con il limite costituito dalle scelte
discriminatorie. Ciò anche in considerazione della sempre più ristretta
possibilità di condotte lesive della dignità dei lavoratori per effetto, da
un lato del dato normativo che attraverso la sempre più ferrea
legislazione antidiscriminatoria vale a restringere il campo di
discrezionalità datoriale86, dall’altro dell’opera dell’autonomia
collettiva.
Tuttavia non si può prescindere dal sindacato del giudice sulle
scelte datoriali, negando la possibilità dell’equiparazione al rialzo
delle retribuzioni dei lavoratori retribuiti in misura inferiore, ove la
concessione sia fondata su criteri irrazionali. In quanto al contrario,
sostenendo la legittimità dei trattamenti differenziati stabiliti
discrezionalmente e ritenendo che dalla impossibilità di desumere
dall’art. 36 Cost. un principio di equivalenza derivi anche l’esclusione
del sindacato sulle scelte, come pure è stato sostenuto in una visione
ideologicamente orientata87, la conseguenza di fatto sarebbe
l’impossibilità di accertare giudizialmente le condotte discriminatorie
operate attraverso presunte procedure selettive a carattere oggettivo.
In effetti la giurisprudenza in passato si è già pronunciata
positivamente sulla ammissibilità di un controllo giudiziale sulla
scelte datoriali sia pure limitatamente ai casi di concorsi privati e 86 Cfr. M. Marinelli, Il diritto alla retribuzione, cit., p. 101.87 Cfr. S. Hernandez, I principi costituzionali in tema di retribuzioni, in Dir. lav., 1997, I, p. 164.
34
promozioni nei quali le condotte datoriali sono ritenute valutabili in
ragione della aderenza alla regola della condotta seconda buona fede88.
A questo punto viene spontaneo domandarsi il motivo per cui, a
parte le suddette fattispecie particolari, la discriminazione è
sanzionabile solo quando sia apprestata una tutela da parte di norme di
carattere speciale come gli art. 15 e 16 dello st. lav. e non è possibile
tutelare i lavoratori dalle scelte discrezionali e irragionevoli del datore
di lavoro. Secondo la giurisprudenza anche di legittimità89 seguita alla
sent. delle S.U. n. 6030 del 1993, coerente con essa, il motivo risiede
nel fatto che non esiste un diritto soggettivo del lavoratore subordinato
alla parità di trattamento in quanto non si riscontrano nella
Costituzione e nella legislazione ordinaria norme imperative, che
accolgano la regola della parità di trattamento economico e normativo.
Appare curioso, tuttavia, che il legislatore non abbia posto un limite
all’esercizio della discrezionalità del contraente più forte in danno del
contraente debole. Questi senza dubbio ha un interesse a percepire la
maggiorazione retributiva, ma tale interesse giunge alla soglia della
posizione giuridica attiva senza porvi accedere.
In effetti osservando il problema dal punto di vista tradizionale
dell’eguale retribuzione per eguale lavoro può sorgere il dubbio che
non esista nessun diritto alla parità di trattamento.
88 Cfr. C. Zoli, La giurisprudenza sui concorsi privati tra logiche pubblicistiche e strumenti civilistici: oscillazioni e aggiustamenti, in Riv. dir. civ., 1992, I, p. 11 e ss.: secondo l’a. quello sui concorsi privati rappresenta un “laboratorio sperimentale privilegiato per operazioni ermeneutiche di grande respiro, sia sul piano della teoria generale che su quello delle applicazioni concrete”.89 Corte Cass., S.U., 17 maggio 1996, n. 4570 in Riv. it. dir. lav., 1996, II, p. 765 con nota di P. Chieco.
35
Tuttavia non si può escludere che per il tramite dei principi generali
di buona fede e correttezza il canone dell’uguaglianza trovi accesso
nei rapporti intersoggettivi privati90.
Infatti la retribuzione costituisce dal lato datoriale l’obbligazione
principale del rapporto di lavoro e soggiace alla disciplina generale
delle obbligazioni di cui al titolo I del libro IV del c.c. Pertanto il
datore di lavoro è tenuto a comportarsi secondo correttezza (art. 1175
c.c.) nel retribuire il lavoratore subordinato e a comportarsi secondo
buona fede nell’eseguire il contratto (art. 1375 c.c.).
Occorre a questo punto domandarsi se la soggezione del datore di
lavoro ai suddetti obblighi possa avere un qualche effetto sulla
posizione giuridica del prestatore di lavoro.
Le sentenze delle S.U. che si sono pronunciate contro la sussistenza
di un diritto alla parità di trattamento, hanno ritenuto che non fosse
possibile sostenere l’esistenza di un diritto del prestatore di lavoro alla
parità di trattamento a partire dall’obbligo di buona fede e correttezza,
al contrario di quanto avvenuto per la fattispecie delle assunzioni o
delle regole collettive sulle progressioni in carriera91: tali atti 90 A. Garilli, Le categorie dei prestatori di lavoro, Napoli, 1988, p. 150.91 Cfr. Corte Cass., S.U., n. 6030 del 1993: “E’ poi necessario brevemente, ma con fermezza, escludere che un principio di parità di trattamento discendente dall’art. 3 della Costituzione, sia rinvenibile nel governo fatto dalla giurisprudenza del dovere di correttezza e di buona fede nel rapporto di lavoro (art. 1175 e 1375 c.c.). Per comprenderlo con chiarezza è sufficiente ricordare come le fattispecie nelle quali si è dato applicazione a tali norme riguardavano il rispetto dei criteri di selezione dei lavoratori nelle assunzioni o delle regole collettive sulle progressioni in carriera, nelle quali il controllo sulle determinazioni unilaterali del datore di lavoro discendeva dal fatto che quegli atti erano adempimenti di un obbligo contrattualmente assunto di imparzialità”.Cfr. Corte Cass., S.U., 4570 del 1996 in cui si legge che il diritto alla parità di trattamento non può sorgere dalla violazione del criterio di ragionevolezza in quanto “il tramite per un controllo di ragionevolezza sugli atti di autonomia individuale è rappresentato dalle clausole generali di correttezza e buona fede. Tali clausole, però, agiscono all’interno del rapporto e consentono al giudice di accertare che l’adempimento di un obbligo, contrattualmente assunto o
36
costituivano l’adempimento di un obbligo contrattualmente assunto a
livello collettivo e pertanto era legittimo che il giudice esercitasse il
controllo sulle determinazioni unilaterali del datore di lavoro.
Si è osservato che questa ricostruzione appare coerente con la
differenza descritta in dottrina tra clausole generali e principi o norme
generali92.
A sostegno di questa ricostruzione si richiama autorevole dottrina93
secondo cui le clausole generali sono norme incomplete destinate a
concretizzarsi nell’ambito di programmi normativi di altre
disposizioni.
Dalla natura di norma incompleta si deduce l’idoneità delle clausole
generali a introdurre nel contratto individuale una norma dispositiva
sulla parità di trattamento e non a fondarla94. In altri termini non si può
ritenere che l’art. 1375 c.c. sancisca il diritto del lavoratore alla parità
di trattamento, perché anzi la sua applicazione presuppone l’esistenza
del diritto la cui violazione costituirebbe condotta contraria a buona
fede. I principi generali pongono infatti limiti esterni all’autonomia legislativamente imposto, avvenga avendo come punto di riferimento i valori espressi nel rapporto medesimo e nella contrattazione collettiva”92 Cfr. M. De Luca, Clausole generali e rapporto di lavoro, in Dir. lav., 1994, I, p. 27 in cui si legge che “nel confermare la negazione dell’esistenza, nel nostro ordinamento, di un principio generale ed inderogabile di parità di trattamento nel rapporto di lavoro privato – disattendendo, così, l’orientamento giurisprudenziale minoritario, in senso contrario, che era emerso nell’ambito della sezione lavoro (a seguito di Corte cost. 103/1989) – le sezioni unite civili della Corte di Cassazione (sent. 6030-6034/1993) hanno colto l’occasione per enunciare, espressamente, il criterio distintivo fra quel principio e la clausola generale di correttezza e buona fede”. In realtà la differenza è espressa tutt’altro che chiaramente come provato dal fatto che se lo stesso A. successivamente dubita della consapevolezza con cui le S.U. hanno fornito una ricostruzione coerente con la differenza strutturale fra clausole generali e principi e norme generali quale risultante da autorevole dottrina. 93 L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, 1, p. 11;94 Cfr. P. Chieco, Le sezioni unite e la parità di trattamento: gli equivoci del nuovo diniego della cassazione, nota a S.U. 17 maggio 1996, n. 4570, cit., p. 783
37
privata ma sono inidonei, se non integrati in norme precettive di
diritto, a costituire fonti di diritti ed obblighi.
Ciò ha determinato una affannosa ricerca di un fondamento positivo
al diritto di parità di trattamento del prestatore di lavoro per
giustificare l’intervento del giudice.
In realtà la forma delle clausole generali è tale da impartire la
direttiva per la ricerca della norma di decisione nel sottosistema
nell’ambito del quale la clausola viene richiamata95: le clausole
generali delegano al giudice la formazione della norma di decisione e
la direttiva consiste nella indicazione della misura di comportamento o
standard sociale che il giudice deve concretizzare in forma
generalizzabile.
La concretizzazione della clausola di buona fede nel rapporto di
lavoro, in quanto il potere di governo dell’organizzazione impone la
misura della discrezionalità, si svolge nella teoria della parità di
trattamento nei rapporti privati96.
Tale categoria dogmatica comprende una serie di ipotesi applicative
già verificatesi, ad esempio nel caso delle procedure concorsuali e
nelle promozioni e costituisce un modello che il giudice potrebbe
utilizzare ogni volta che gli si presenti una fattispecie sussumibile
senza dover ripetere valutazioni e bilanciamenti di interessi in gioco.
In altri termini dalla disposizione costituzionale è possibile
desumere uno standard di comportamento che deve pervadere le
condotte delle parti nell’esecuzione del contratto e che costituisce la
concretizzazione in forma generale della buona fede in senso
oggettivo in campo contrattuale. La portata di questa interpretazione 95 Cfr. L. Nivarra, Ragionevolezza e diritto privato, in Ars interpretandi, 2002, 7, p. 375.96 Cfr. L. Mengoni, Spunti per una teoria, cit., p. 19.
38
dell’art. 1375 c.c., se trasposta sul piano del rapporto di lavoro
potrebbe avere effetti determinanti sotto il profilo del riconoscimento
della parità delle condizioni economiche tra lavoratori.
La lettura del campo di applicazione delle clausole generali, ritenuta
valida per i contatti commerciali, ben potrebbe essere trasposta sul
piano del rapporto di lavoro, ove sussistono fondamenti solidi per
ritenere coercibile l’obbligo del rispetto della solidarietà sociale.
Dunque, preso atto della resistenza della giurisprudenza di ritenere
sussistente un diritto alla parità di trattamento, dando ulteriore seguito
ad un orientamento di legittimità che da più ampio spazio applicativo
alle clausole generali97, si potrebbe utilizzare la buona fede quale
criterio alternativo al principio di parità di trattamento ottenendo gli
stessi effetti pratici di aprire ad un controllo giudiziale sulla legittimità
delle scelte datoriali in materia .
Potrebbe dirsi che già la sentenza n. 103 della Corte costituzionale
abbia lasciato intendere che questa potrebbe essere la via percorribile
in quanto ha affermato che disparità di trattamento economico sono
ammissibili solo se “giustificabili e comunque ragionevoli”. La
ragionevolezza infatti altro non è che un criterio di qualificazione
della condotta che si pone in un ambito molto vicino alla buona fede
in executivis98.
In ogni caso, posto il diverso trattamento legislativo dell’autonomia
collettiva e di quella individuale che riflette la diversa considerazione
sociale che ricevono tali fonti dell’ordinamento del diritto del lavoro,
97 Pur essendo stati evidenziati i pericoli di un ricorso disinvolto alle clausole generali, che nel diritto del lavoro sarebbero anche gravi involgendo “equilibri ormai assestati e le prerogative di organizzazione e gestione aziendale”: cfr. G. Ferraro, Poteri imprenditoriali e clausole generali, in Dir. rel. ind., 1991, 1, p. 169.98 Cfr. L. Nivarra, Ragionevolezza e diritto privato, cit., p. 382.
39
si rende necessaria una trattazione separata della questione della parità
di trattamento con riguardo a ciascuna di esse.
5.1 La parità di trattamento e i limiti all’autonomia individuale.
Le tecniche tradizionali di individualizzazione della retribuzione,
ulteriori rispetto a quelle fissate dagli accordi collettivi, quali
promozioni ed inquadramento da un lato, e superminimi individuali
dall’altro, si possono distinguere dalle forme più recenti ed innovative
costituite dagli incentivi di successo, dai fringe benefits e dagli
incentivi di merito99.
Non si può dubitare che il datore di lavoro possa riconoscere forme
retributive incentivanti volte a premiare particolari capacità del
lavoratore. Ciò non può ritenersi escluso dall’art. 36 Cost. ed appare
evidente dall’art. 41 Cost. che fonda la libertà dell’imprenditore di
retribuire maggiormente chi renda una prestazione quantitativamente e
qualitativamente migliore, senza che nessuna lesione della dignità dei
lavoratori possa ritenersi realizzata. Ed anzi, retribuire ugualmente
prestazioni diverse potrebbe integrare tale lesione. Inoltre molti altri
sono i fondamenti che militano a favore dell’ammissibilità della
differenziazione oggettivamente giustificabile delle retribuzioni, quale
criterio di valorizzazione della personalità del lavoratore. Il problema
99 C. Zoli, Parità di trattamento e retribuzione, in AA.VV., La retribuzione. Struttura e regime giuridico, a cura di B. Caruso, C. Zoli, L. Zoppoli, Napoli, 1994, p. 179.
40
è semmai capire se le scelte del datore di lavoro sono assolutamente
discrezionali100.
La risposta al quesito impone la valutazione della posizione
giuridica del prestatore di lavoro per determinare se questi vanti un
interesse meritevole di tutela e capace pertanto di imporsi quale
criterio di valutazione della legittimità delle condotte datoriali.
Le tradizionali argomentazioni circa l’inammissibilità di
differenziazione non sono utilizzabili se l’interesse del prestatore di
lavoro si identifica tout court con la parità retributiva rispetto ai
lavoratori che svolgano le medesime mansioni. Non vi è dubbio infatti
che il datore di lavoro abbia diritto a organizzare liberamente la
propria attività per ottenere il massimo rendimento. Pertanto la
differenziazione del trattamento a favore dei migliori si configura
come un uso legittimo delle libertà riconosciute dalla Costituzione
all’iniziativa privata. Ed anzi, come rilevato, esse si possono ritenere
necessarie alla realizzazione della personalità del lavoratore più
meritevole101.
Se l’interesse del prestatore sia costituito (non dalla pari
retribuzione ma) dal beneficiare di pari opportunità di rendere la
prestazione che consente di ottenere la migliore retribuzione, è
evidente che la dignità del prestatore viene lesa dalla circostanza che il
datore di lavoro riconosca un superminimo solo ad alcuni lavoratori
addetti ad una mansione, senza consentire agli altri di accedervi: la
dignità non è lesa se la retribuzione è diversa, ma è lesa se
irragionevolmente diverse sono le condizioni di accesso al miglior
trattamento. Infatti non vi è dubbio che la dignità morale di un
100 L. Galantino, Sui trattamenti retributivi, cit., p. 164.101 L. Galantino, Sui trattamenti individuali, cit., p. 169.
41
lavoratore risulta svilita se egli deve fare di più e meglio di un altro
per ottenere il medesimo trattamento economico o, peggio, se il
miglior trattamento gli sia precluso a prescindere dall’impegno
profuso.
Così inteso l’interesse del prestatore di lavoro non può essere
ignorato dal datore di lavoro nell’adempimento del proprio dovere di
solidarietà sociale ex art. 2 Cost. o del proprio dovere di svolgere
l’attività economica senza pregiudizio alla dignità umana ex art. 41
Cost., quando abbia deciso di concedere un miglior trattamento
economico ad alcuni dei suoi dipendenti. Pertanto se ciò abbia fatto
senza concedere le medesime possibilità a tutti i soggetti che svolgano
le stesse mansioni di quelli premiati, la condotta andrebbe ritenuta
quale violazione dell’obbligo di buona fede102. Ciò altro non è che
l’adattamento alla fattispecie del riconoscimento dei superminimi
individuali di quanto la Cassazione già effettua con riguardo ai casi di
concorsi e promozioni deducendo un principio di civiltà giuridica
dalle clausole generali103.
In definitiva non può essere oggetto di contestazione che sul datore
gravi l’obbligo di porre tutti i lavoratori nelle (stesse) condizioni di
adempiere la propria obbligazione, in ragione dell’obbligo di
102 Cfr. M. D’Antona, Appunti sulle fonti di determinazione della retribuzione, in Riv. giur. dir. lav. rel. ind., 1986, I, p. 19: “Se la Corte abbandonasse la posizione di preconcetto rifiuto potrebbe agevolmente far leva sui canoni di buona fede, correttezza e non discriminazione per depurare il principio di parità retributiva a parità di lavoro dalle sue implicazioni più eversive, distinguendo tra differenziazioni salariali motivate – in base a criteri di convenienza aziendale di per sé non sindacabili purché non illecite – e differenziazioni non motivate o del tutto arbitrarie”103 Cfr. C. Zoli, Parità di trattamento e retribuzione, cit., p. 185, ove si legge che “fino a quando la Corte costituzionale non generalizzerà la soluzione adottata con la sentenza n. 103 del 1989, al di fuori dell’ipotesi da quest’ultima esaminata il principio di parità potrà piuttosto fondarsi sulle clausole generali di correttezza e buona fede”.
42
conformare le proprie condotte a buona fede. Pertanto se il datore di
lavoro dovesse retribuire diversamente i lavoratori, senza porre quelli
retribuiti meno in condizione di ottenere il differenziale offrendo una
maggiore o migliore prestazione, la condotta dovrebbe esser
qualificata come un abuso del diritto (di differenziare i trattamenti).
Si potrebbe obiettare che il problema non è risolto se in esito alla
condotta incontestabilmente corretta del datore di lavoro le prestazioni
dovessero risultare di egual pregio e il datore di lavoro volesse
ugualmente retribuire diversamente i lavoratori. In tal caso infatti si
ritornerebbe nella situazione iniziale di dover negare il diritto del
datore di lavoro di dirigere l’attività di impresa liberamente. A tali
contestazioni si potrebbe rispondere che si verifica comunque una
violazione della clausola generale di correttezza e buona fede in
quanto non corrisponderebbe a realtà la circostanza che il datore ha
messo i lavoratori nelle condizioni di svolgere la prestazione in modo
da ottenerne il massimo risultato in quanto se così fosse dovrebbe
riconoscere a tutti i lavoratori parimenti diligenti la medesima
retribuzione.
Il lavoratore non ha dunque il diritto di ottenere la stessa
retribuzione dei colleghi, ma il diritto di render la prestazione nel
migliore modo per ottenere il miglior risultato, ossia una retribuzione
pari a quella massima corrisposta al lavoratore che svolga la
medesima attività, sanzionabile in caso di violazione per il tramite
dell’art. 1375 c.c. quale violazione dell’obbligo di buona fede.
Pertanto al brocardo eguale retribuzione per eguale lavoro potrebbe
essere sostituito quello di eguale possibilità di accedere alla migliore
retribuzione.
43
Preme sottolineare che il sindacato del giudice sul giudizio di
ragionevolezza e sulla buona fede delle scelte effettuate, non
comporterebbe un controllo di opportunità e dunque una valutazione
politica. Naturalmente l’obbligo del datore di lavoro dovrebbe
concretizzarsi nella valutazione delle prestazioni rese dai lavoratori. In
altri termini, per la ragionevolezza delle scelte nell’attribuzione delle
maggiorazioni retributive, sarebbe sufficiente che il datore di lavoro
valutasse i risultati ottenuti tramite la prestazione resa dai lavoratori e
attribuisse i premi ai più meritevoli.
Come si è osservato in passato104 appaiono evidenti le difficoltà
legate alle suddette stime, tanto che si è ritenuto che per tali motivi la
differenziazione non può che essere praticata nella aziende di piccole
dimensioni, nell’artigianato e nel commercio con esclusione della
grande industria fatto salvo il caso dell’alta specializzazione e della
dirigenza.
Altro problema è quello costituito dall’onere probatorio.
Assumendo la regola dell’obbligo di parità, con la possibilità di una
differenziazione retributiva se fondata su criteri oggettivamente
riscontrabili, l’onere di provare la sussistenza delle condizioni di
legittimità verrebbe posto a carico del datore di lavoro. Vero è che
limitare l’onere processuale del lavoratore alla allegazione del
differenziale, equivale a gravare il datore di datore di lavoro
dell’obbligo di precostituirsi la prova ogni volta che voglia premiare
un dipendente. Altrettanto vero è che, se l’apporto offerto da un
lavoratore giustifica una maggiorazione retributiva, tanto più
giustificherà il sacrificio di documentare il vantaggio che ne trae
l’impresa.
104 Cfr. A. Antignani, Riflessioni su retribuzione, cit., p.289 e ss.
44
La proposta in altri termini è quella di ritenere illegittima la
condotta che abbia attribuito livelli retributivi diversi a soggetti che
svolgano le stesse mansioni con i medesimi risultati, e di promuovere
una presunzione di parità, salva la possibilità del datore di remunerare
il maggior apporto di un prestatore, a condizione di essere in grado di
sostenerne la prova in giudizio.
Naturalmente quando l’onere probatorio dovesse ritenersi
particolarmente difficile, come nei casi in cui investa aspetti
qualitativi e non quantitativi con difficoltà di misurazione del maggior
beneficio goduto dall’imprenditore, o ancora quando attenga l’intuitus
personae, in tutti questi casi sarebbe ipotizzabile ammetterne
un’attenuazione. Si potrebbe ritenere infatti soddisfatto quando il
datore porti in giudizio un inizio di prova che valga a giustificare le
proprie scelte105. Se non sia assolutamente giustificabile la scelta sotto
il profilo della ragionevolezza si dovrebbe concludere per la
105Assolutamente infondata è l’argomentazione di cui al paragrafo d.5) della sent. n. 6030 del 1993 delle S.U. sul punto della illogicità di sistema che deriverebbe dal porre a carico del datore di lavoro l’onere di provare la ragionevolezza delle scelte di differenziazione retributiva confrontato con l’onere probatorio su presunte discriminazioni che a norma degli artt. 15 e 16 st. lav. ricade sul lavoratore (Cfr. Cass. S.U., sent. 29 maggio 1993, n. 6030, in Riv. it. dir. lav., cit. p. 671). L’argomentazione poggia su tre punti: inammissibilità che a violazione più grave corrisponda onere probatorio più intenso e a violazione meno grave onere probatorio di più facile osservanza; rischio di imposizione di obiettiva giustificazione di qualsiasi atto del datore di lavoro; rischio di trasformazione della motivazione in clausole di stile. Tutti e tre i punti sono evidentemente infondati. Anzitutto è ovvio che la prova sul trattamento discriminatorio gravi sul lavoratore essendo impossibile e giuridicamente inammissibile che si onerasse il datore di lavoro della prova di un fatto negativo (come potrebbe il datore provare di non aver discriminato?) mentre è del tutto ragionevole che si ponga a suo carico l’onere di fornire la prova di aver effettuato scelte oggettivamente dimostrabili. Circa l’imposizione di una giustificazione di ogni atto datoriale, tale generica affermazione è imprecisa i quanto ciò che si chiede è solo la giustificazione delle scelte potenzialmente discriminatorie. Infine è evidente che la prova in giudizio non può essere fondata sulla mera formula di stile dovendosi dimostrare una effettiva valutazione dei meriti che si intende premiare.
45
esclusione della legittimità del diverso trattamento in quanto, non
essendo possibile mettere in condizione i lavoratori di svolgere la
propria prestazione in modo da ottenere una maggiorazione retributiva
in conseguenza del miglior risultato, ove si voglia premiare i
lavoratori occorrerebbe farlo in misura indifferenziata.
Non rientrerebbe tra gli oneri di allegazione gravanti sul datore di
lavoro la comunicazione al prestatore dei criteri di scelta e delle
motivazioni delle decisioni. Ancora una volta mutuando la disciplina
elaborata dalla giurisprudenza in materia di concorsi e promozioni, si
dovrebbe affermare la rispettiva rilevanza solo sul piano probatorio106.
Resta da chiarire quali possano essere le conseguenze di una
violazione dell’obbligo di buona fede conseguente al diverso
trattamento retributivo irragionevole.
La conseguenza di siffatta violazione non può che essere la
condanna al risarcimento del danno. Le tradizionali diffidenze rispetto
alla tutela risarcitoria cedono di fronte alla indubbia portata dissuasiva
ottenibile con tale rimedio.
Ad altra soluzione si potrebbe addivenire ove si fondasse
diversamente l’azione rispetto alla violazione dell’obbligo di buona
fede. In alcuni casi la giurisprudenza ha infatti sostenuto
l’ammissibilità di un potere di integrazione contrattuale ex art. 1374
c.c. Tale ultima soluzione è stata tuttavia criticata dalla dottrina che ha
ritenuto che il presupposto di tale potere consistesse in una lacuna del
regolamento negoziale. Altra via ritenuta percorribile è costituita
dall’estensione degli usi aziendali. Essa tuttavia presuppone
l’accoglimento del principio di parità e comporta un giudizio
comparatistico volto a determinare la diffusione del trattamento
106 Cfr. C. Zoli, Parità di trattamento e retribuzione, cit., p. 187.
46
retributivo migliorativo tra i lavoratori addetti ad una determinata
mansione o a un gruppo di mansioni107.
5.2. La parità di trattamento e i limiti all’autonomia collettiva.
La contrattazione collettiva in alcuni frangenti ha mostrato di voler
perseguire un intento egualitario108. Ciò è quanto avvenuto nei primi
anni settanta quando lo sventagliamento delle qualifiche e tecniche di
job evaluation fuori controllo, soprattutto a favore di alcune categorie
privilegiate di lavoratori, hanno determinato gap retributivi spesso
ingiustificabili, colmati tramite l’inquadramento unico109.
Il problema è che non sempre l’attenzione dell’autonomia collettiva
è concentrata sulla perequazione salariale ed in ogni caso l’obiettivo è
condizionato da difficoltà contingenti110.
Occorre dunque capire se il dato costituito dalla negoziazione a
livello collettivo, renda legittimi gli eventuali trattamenti salariali
ingiustificatamente differenziati. Una parte della dottrina, timorosa
che un sindacato giurisdizionale sul contratto collettivo potesse
depotenziare l’autonomia collettiva, ha ritenuto che la negoziazione
107 Cfr. C. Zoli, Parità di trattamento e retribuzione, cit., p. 189.108 E. Ghera, Retribuzione, professionalità e costo del lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1981, 11, p. 432.109 A. Garilli, Le categorie, cit., p. 131: “lo sventagliamento salariale fra le categorie, prima dell’inquadramento unico, era così accentuato da porre il nostro Paese in una posizione anomala rispetto al mercato occidentale: colmare quel divario rispondeva quindi ad ineludibili esigenze socio-economiche; colmarlo nella parte in cui ancora le retribuzioni più basse erano attribuite agli operai in quanto tali era inoltre un significativo passo avanti nella realizzazione del principio di eguaglianza sostanziale”.110 M. D’Antona, Appunti sulle fonti, cit., p. 19.
47
collettiva sottragga a qualsiasi controllo da parte del giudice eventuali
clausole che introducono differenziazioni retributive.
Altri hanno ritenuto ammissibile un intervento giudiziale in alcuni
casi: quello delle clausole c.d. di riconoscimento formale, che
sostanzialmente rinviano per l’inquadramento e l’attribuzione dei
trattamenti all’arbitrio del datore di lavoro, quello dei trattamenti
retributivi o di classificazione del tutto arbitrari ed infine quello delle
previsioni palesemente viziate da errori o da grave contraddittorietà ed
incoerenza111.
L’alternativa tra l’ammissibilità dell’intervento giurisdizionale e la
legittimità ontologia delle clausole retributive negoziate a livello
collettivo pone il problema della conciliabilità dell’esigenza di tutela
dell’autonomia collettiva con quella di garanzia della parità di
trattamento dei lavoratori.
Per affrontare correttamente la questione occorre tenere distinto il
piano della scelta dei parametri per la determinazione dei trattamenti
ulteriori rispetto a quelli minimi di categoria determinati a livello
nazionale, da quello delle modalità di attribuzione. Se le prime
costituiscono l’esercizio dell’autonomia collettiva e dunque secondo
una parte della dottrina sono insuscettibili di formare oggetto di un
sindacato giurisdizionale, le seconde possono essere valutate dal
giudice chiamato a pronunciarsi sulla legittimità della condotta
datoriale nell’erogazione degli emolumenti. Ed in effetti, seppure rari,
esistono precedenti in cui si è sostenuta ad esempio la necessità di un
corretto adempimento del dovere di informazione da parte datoriale,
dello svolgimento delle procedure di valutazione e dell’ assegnazione
degli obiettivi al cui raggiungimento è legata l’erogazione della parte
111 Cfr. C. Zoli, Parità di trattamento e retribuzione, cit., p. 169.
48
variabile della retribuzione112. Pertanto si può ritenere che le
erogazioni effettuate dal datore di lavoro solo ad una parte dei
prestatori, pur previste dal contratto collettivo, ma effettuate in
assenza dei requisiti di legittimità della condotta, possano integrare
una violazione dell’obbligo di parità di trattamento ed essere dunque
sanzionate dal giudice secondo le prescrizioni e con le modalità già
proposte.
Occorre dare atto anche dell’orientamento di quella parte della
dottrina113 per cui anche la scelta dei parametri per l’erogazione dei
trattamenti incentivanti di gruppo può essere soggetta a sindacato
giurisdizionale se essi facciano riferimento non solo a indici
qualitativi o quantitativi relativi alla prestazione ma anche di qualità,
efficacia ed efficienza, individuati diversamente nelle varie unità
produttive. Secondo il suddetto orientamento, dovrebbe essere
dichiarata l’illegittimità delle erogazioni quando siano realizzate
soluzioni direttamente o indirettamente discriminatorie.
La questione della parità di trattamento con riguardo all’autonomia
collettiva impone un cenno agli usi aziendali.
Gli usi aziendali costituiscono una categoria di elaborazione
giurisprudenziale cui sono ricondotte tutte le elargizioni che abbiano
perso la caratteristica di liberalità per le modalità con cui sono
predisposte, creando un affidamento sulla stabilità e vincolatività.
Esse divengono pertanto un obbligo a carico del datore di lavoro
capace di imporsi sul contratto individuale a condizione che esso
modifichi in melius la regolamentazione collettiva114.
112 Cfr. T. Treu, Le forme retributive incentivanti, cit., p. 671.113 Cfr. C. Zoli, Parità di trattamento e retribuzione, cit., p. 170.114 S. Liebman, Individuale e collettivo nel rapporto di lavoro: il problema degli usi aziendali, in Dir. rel. ind., 1991, 1, p. 60.
49
Secondo un orientamento giurisprudenziale questa capacità di
imporsi al regolamento negoziale del rapporto di lavoro deriverebbe
dalla natura interindividuale, assimilabile a quella di un contratto
collettivo con la conseguenza che l’uso aziendale comporta ha
efficacia soggettiva più estesa della cerchia di soggetti cui era
originariamente destinata l’erogazione. L’uso aziendale si
configurerebbe quale proposta nei confronti della generalità dei
lavoratori anche non direttamente destinatari, tale da integrare un
contratto collettivo tacito. Anche nella diversa impostazione dell’uso
aziendale quale fonte sociale, sostenuta da coloro che ne ritengono la
qualificazione in termini di contratto collettivo tacito un pericolosa
finzione115, esso conserva la caratteristica di un’efficacia estesa anche
oltre la cerchia degli originari destinatari della liberalità.
Tale caratteristica ha indotto una parte della dottrina ad attribuire
all’uso aziendale un effetto paritario ispirato a principi di uguaglianza.
Secondo un diverso orientamento, non è l’uso aziendale che produce
la parità, ma che la contrario è il principio di parità che consente una
generalizzazione dell’efficacia dell’uso116.
5.3. L’attualità della questione della parità di trattamento.
Nonostante possa sembrare che le priorità siano altre, in particolare
la conservazione dei livelli di occupazione117, dai recenti sviluppi della
115 T. Treu, Le forme retributive, cit., p. 677.116 Cfr. C. Zoli, Parità di trattamento e retribuzione, cit., p. 181.117U. Romagnoli, Per ricordare Gino Giugni, in Riv. it. dir. lav., I, 2010, p. 633: “Mai come adesso l’aspirazione all’eguaglianza di trattamento è apparsa un lusso; adesso che la sera ti addormenti con la paura che al risveglio qualcuno ti dica che il tuo posto di lavoro lo hanno portato in terre lontane per assegnarlo a poveracci
50
negoziazione delle regole sugli assetti contrattuali, giungono
suggerimenti per riconsiderare l’attualità della questione della parità di
trattamento retributivo.
Il Protocollo sulla politica dei redditi del 23 luglio 1993 prevedeva
la possibilità per la contrattazione aziendale di prevedere erogazioni
salariali correlate a “incrementi di produttività, di qualità ed altri
elementi di produttività”.
Con il successivo Accordo quadro di riforma degli assetti
contrattuali del 22 gennaio 2009, viene riservata al contratto nazionale
di categoria la funzione di garanzia dei trattamenti economici comuni
per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio
nazionale e affermata la necessità di incentivare la contrattazione di
secondo livello. A quest’ultimae si attribuisce la funzione di collegare
gli incentivi economici al raggiungimento di obiettivi di produttività,
redditività, qualità, efficienza, efficacia ed altri elementi rilevanti ai
fini del miglioramento della competitività.
Lo scopo dei suddetti accordi è quello di diffondere, in funzione
redistributiva, la negoziazione dei premi di risultato già previsti nei
contratti già a partire dagli anni ’60. La previsione per cui
l’erogazione deve essere vincolata al raggiungimento di obiettivi cela
la volontà di prevenire la prassi della erogazione in cifra fissa ed in
funzione di recupero della capacità di acquisto dei salari reali118.
La determinazione dei parametri di redditività, qualità efficienza,
efficacia che danno accesso ai premi è rimessa alla contrattazione di
secondo livello.
come te, ma che stanno peggio di te e difatti si accontentano di un trattamento inferiore al tuo e dunque più vantaggioso per l’impresa che ha de localizzato l’impianto produttivo”.118 T. Treu, Le forme retributive, cit., p. 645.
51
Nell’eventualità in cui non si concluda alcun contratto integrativo
sui premi, secondo quanto previsto dall’Accordo interconfederale del
15 aprile 2009 per l’attuazione dell’Accordo quadro sulla riforma
degli assetti contrattuali del 22 gennaio, ai dipendenti di aziende
private è dovuto un importo a titolo di elemento di garanzia
retributiva, la cui misura è stabilita nella contrattazione nazionale.
L’elemento di garanzia è previsto nell’Accordo interconfederale a
sostegno della diffusione della contrattazione di secondo livello e
pertanto nelle intenzioni dei sottoscrittori la sua misura dovrebbe
essere determinata ad un livello tale da rendere conveniente la
sottoscrizione di un contratto integrativo.
La condizione per l’erogazione dell’emolumento non è unicamente
l’assenza di un contratto di tal di secondo livello, in quanto il
prestatore di lavoro non deve risultare percettore di ulteriori
trattamenti economici individuali o collettivi oltre quanto spettante
per contratto collettivo nazionale di categoria.
In altri termini l’elemento di garanzia può entrare in competizione
con le retribuzioni incentivanti previste al livello contrattuale
decentrato119 ma anche con premi individuali. Infatti è rimessa al
datore di lavoro l’alternativa tra l’aprire un confronto a livello
aziendale sui premi con l’obiettivo di innescare un circolo virtuoso tra
aumenti salariali e produttività, ovvero rinunciare alla stipulazione di
un contratto integrativo e corrispondere una somma a titolo di
elemento di garanzia ovvero, ancora, attribuire premi individuali in
modo da retribuire i lavoratori in misura maggiore rispetto a quanto
previsto dal contratto collettivo nazionale. In quest’ultimo caso si
ripresenta la questione della parità di trattamento a livello di
119 T. Treu, Le forme retributive, cit., p. 643.
52
autonomia individuale la quale pertanto è destinata a conservare un
evidente carattere di attualità.
La documenta bassa litigiosità in tema di procedure di erogazione di
premi non può costituire un argomento a favore della tesi della scarsa
rilevanza della questione in quanto essa dipende probabilmente dalla
modesta dinamicità dei premi e dall’andamento stabile nel tempo che
agevolano una sostanziale condivisione120. Pertanto è legittimo
aspettarsi che se crescesse la rilevanza dei premi sul totale della
retribuzione, con essa crescerebbe proporzionalmente anche
l’incidenza del numero di controversie.
Inoltre si suggerisce che un ruolo fondamentale di composizione del
dissenso, e dunque di limitazione dei ricorsi giurisdizionali, possano
avere avuto anche le procedure conciliative previste in sede
contrattuale. Per tale motivo si è ritenuto che quello dei premi possa
diventare campo di applicazione privilegiata della procedura
conciliativa facoltativa di cui al nuovo articolo 150 del codice di
procedura civile come modificato dalla l. 4 novembre 2010, n. 183
(c.d. collegato lavoro). Ciò in quanto la questione verterebbe
essenzialmente sull’interpretazione di norme di contratto collettivo
costituendo terreno d’elezione delle procedure arbitrali.
6. Il procedimento di adeguamento.
Il procedimento seguito dalla giurisprudenza per giungere alla
pronuncia di condanna al pagamento delle differenze retributive per
violazione dell’art. 36 Cost. è ben noto. Anzitutto secondo un
120 T. Treu, Le forme retributive, cit., p. 670.
53
orientamento di legittimità, occorre che il petitum desumibile dalla
domanda, sia formulata con il richiamo al contratto collettivo sia
avanzata adducendo l’insufficienza della stessa senza alcun
riferimento alla norma collettiva, consista nell’adeguamento della
retribuzione in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato,
anche in assenza di richiamo espresso all’art. 36 Cost.
Inoltre sempre secondo il predetto orientamento è necessario che la
doglianza del ricorrente riguardi l’insufficienza di quanto
complessivamente percepito, non essendo ammissibile la richiesta di
adeguamento di una singola voce della retribuzione.
Tale onere di allegazione è la conseguenza del fatto che il criterio
della sufficienza di cui all’art. 36 Cost. deve essere valutato in
relazione al trattamento economico complessivo e non alle singole
voci121.
Il secondo termine di valutazione nel giudizio comparativo di
sufficienza è costituito, secondo l’orientamento prevalente, dal
contratto collettivo di riferimento.
Il giudice non è vincolato dalle statuizioni del contratto collettivo,
dalle quali può discostarsi, adeguando il trattamento minimo
complessivo riconosciuto ai lavoratori di ogni singolo livello o area
professionale con esclusione dei trattamenti accessori122. Per
trattamento minimo deve considerasi la paga base cui va aggiunta
esclusivamente l’indennità di contingenza, se ancora computata
separatamente nelle tabelle contrattuali, e la tredicesima mensilità
previste dal contratto collettivo di riferimento.
121 Corte Cass., 18 settembre 1995, n. 9868, in Foro pad., 1996, I, p. 30. 122 Corte Cass., 28 marzo 2000, n. 3749, in Foro it., 2000, I, p. 2538.
54
Per inciso va ricordato anche che le parti sono libere di disciplinare
il rapporto di lavoro secondo le condizioni prevista da un contratto
collettivo stipulato per un settore diverso da quello in cui il datore di
lavoro svolge la propria attività123. La scelta non preclude al lavoratore
la possibilità di richiamare il minimo tabellare di un altro contratto
collettivo, eventualmente anche quello del settore in cui opera il
datore di lavoro, quale criterio di determinazione della retribuzione
sufficiente di cui all’art. 36 Cost.124 In altri termini il giudice può
valutare le condizioni economiche previste da contratti stipulati per
settori affini come avviene nel caso in cui non sia stato stipulato alcun
contratto per il settore in cui il datore svolge la propria attività di
impresa.
La statuizione giudiziale sulla domanda di adeguamento della
retribuzione passa per la dichiarazione di nullità della clausola
convenuta a livello individuale. In assenza di una valida pattuizione
sul compenso, la decisione deve essere assunta dal giudice ex art.
2099 c.c.125.
123 Corte Cass., S.U., 26 marzo 1997, n. 2665 in Mass. giur. lav., 1997, p. 537.124 In passato la richiesta si applicazione di un contratto collettivo diverso è stata accolta quando vi fosse una consistente differenza retributiva nei due contratti collettivi. E’ quanto avvenuto in relazione ai lavoratori di istituti non statali ai quali è stato spesso riconosciuta quale retribuzione sufficiente quella prevista dal contratto collettivo stipulato per gli insegnanti delle scuole pubbliche argomentando a partire dalla scarsa rappresentatività dei sindacati dei lavoratori delle scuole non statali. Cfr. Cass. agosto 1997, n. 7885, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 668 con nota di Angelini.125 Cfr. M. Marinelli, Il diritto alla retribuzione, cit., p. 90.Una parte della dottrina ha fatto osservare che l’immediata precettività dell’art. 36 Cost. legittima il diretto intervento del giudice senza che esso debba essere preceduto dalla dichiarazione di nullità e perciò ha ritenuto che il ricorso all’art. 2099 c.c. sia superfluo. Sul punto Cfr. T. Treu, Onerosità e corrispettività, cit., p. 161.
55
7. La natura della decisione.
La natura della decisione del giudice sulla richiesta di adeguamento
retributivo, in passato ha posto alcuni problemi di inquadramento
sistematico.
Una parte della dottrina aveva suggerito che la decisione resa ex art.
2009 c.c. in seguito alla declaratoria di nullità della clausola contenete
la determinazione del trattamento fosse ritenuta espressione di un
potere equitativo. Ciò avrebbe anche consentito di porsi al riparo da
possibili addebiti di violazione dell’art. 39 Cost., consistenti in una
illegittima estensione del contratto collettivo di diritto comune126.
In senso contrario si è fatto osservare che la valutazione equitativa
di cui all’art. 432 c.p.c. è ammissibile solo quando l’esistenza del
diritto sia certa ma risulti indeterminabile il quantum debeatur.
Nel caso invece della retribuzione sufficiente, il diritto è certo ed
anche la somma è determinabile in quanto l’art. 36 Cost. offre gli
strumenti costituiti dai criteri di proporzionalità e sufficienza.
Inoltre l’art. 2099 c.c. letto in combinato disposto con l’art. 36 Cost.
fornisce anche l’indicazione dei parametri oggettivi da utilizzare per la
determinazione costituiti dai minimi tabellari di cui al contratto
collettivo. In questi termini evidentemente l’operazione
giurisprudenziale di applicazione dell’art. 36 Cost. non può definirsi
di illegittima estensione dell’efficacia in violazione dell’ art. 39 Cost.
126 Cfr. M. L. De Cristofaro, La giusta retribuzione, cit. p. 109; recentemente ripresa da I. Piccinini, Retribuzione ed equità, in ADL, 1995, 2, p. 227.
56
La determinazione dell’equa retribuzione mediante applicazione dei
minimi tabellari di cui al contratto costituisce semplicemente il
sistema di quantificazione del diritto di credito alla retribuzione
sufficiente vantato dal prestatore. Pertanto, secondo questa
impostazione, essendo certo il diritto e determinabile la somma dovuta
attraverso i criteri indicati dalle norme, il giudizio di accertamento di
cui all’art. 2099 non si dovrebbe ritenere quale esercizio di un potere
equitativo127.
Tuttavia, l’equità accompagnata alla porta dalla lettura combinata
dell’art. 36 Cost. e 2099 c.c., rientra dalla finestra attraverso la facoltà
di adeguamento dei livelli tabellari che la giurisprudenza si riserva.
Infatti qualora il giudice ritenga il salario fissato dall’autonomia
collettiva inadeguato alle esigenze dei lavoratori o alle condizioni del
mercato, è solito utilizzare lo strumento residuale ed integrativo
dell’equità nella rimodulazione del salario tabellare al principio di
sufficienza.
8. I criteri di determinazione giudiziale della retribuzione
sufficiente: le condizioni economiche e territoriali e la
dimensione dell’impresa.
Secondo un consolidato orientamento di legittimità, nel
procedimento di determinazione della giusta retribuzione il
riferimento al contratto collettivo è imposto dallo stesso art. 2099 c.c.
127 S. Bellomo, Sub 2099, in Diritto del lavoro, a cura di G. Amoroso, V. Di Cerbo, A. Maresca, Milano, 2009, p. 872.
57
tuttavia i livelli salariali di cui al contratto collettivo non sono
vincolanti per il giudice che può discostarsene.
Tra le condizioni che legittimano un adeguamento del trattamento
tabellare, occorre subito precisare che il carico familiare non ha avuto
accoglimento128 se non in funzione di adattamento al ribasso in
assenza di familiari a carico. Si è ritenuto infatti che non è
ammissibile la diversa remunerazione di una medesima prestazione in
ragione della situazione familiare di un lavoratore129.
Pertanto si può affermare che nonostante il richiamo di cui all’art.
36 cost. alla esistenza libera e dignitosa della famiglia, il c.d. salario
familiare130, nella sua più risalente eccezione di equo salario
comprensivo delle risorse necessarie a far fronte alle esigenze della
vita familiare, non ha mai ottenuto riconoscimento quale criterio di
determinazione della retribuzione sufficiente.
Si è ritenuto che tale orientamento, in cui la funzione di sostegno
della famiglia è delegata alle misure previdenziali ed assistenziali, in
particolare agli assegni familiari, è fondato su una precisa scelta di
politica giudiziaria volta a prevenire discriminazioni che potrebbero
derivare da una diversa e maggiore retribuzione dei lavoratori con
carichi familiari131.
128 Corte App. Bologna, 23 luglio 1959, in Riv. it. dir. lav., 1959, II, p. 477; Corte app. Bologna, 22 aprile 1960, in Riv. it. dir. lav., 1960, II, p. 377; Corte app. Napoli, 2 marzo 1964, in Orient. giur. lav., 1964, p. 360; Corte Cass. 14 febbraio 1983, n. 1148, in Mass. giur. it., 1983.129 Corte Cass., 12 dicembre 1983, n. 7324, in Giust. Civ. mass., 1983, p. 2497;Corte Cass., 26 novembre 1977, n. 5167, in Giust. Civ. mass., 1977, p. 2071.130 Per una definizione di salario familiare cfr. già L. Riva Sanseverino, Salario minimo e salario corporativo, cit., p. 12; Sul concetto di salario familiare nel dibattito costituente Cfr. De Cristofaro M., La Giusta retribuzione, cit., p. 35 e ss.131 L. Zoppoli, L’art. 36 della Costituzione e l’obbligazione retributiva,cit., p. 116.
58
Se il criterio del carico familiare non ha avuto accoglimento in
giurisprudenza, altri criteri sono invece stati utilizzati di frequente
modo non sempre coerente.
In particolare hanno trovato accoglimento nella giurisprudenza di
merito, e conferme in quella di legittimità, il criterio della dimensione
dell’impresa e quello delle condizioni economiche e territoriali.
Quest’ultimo in particolare ha attraversato fortune alterne.
In passato si è infatti ritenuto ammissibile una riduzione della
retribuzione indicata dal contratto collettivo in considerazione della
circostanza che la prestazione fosse resa in una zona economicamente
depressa con potere di acquisto della moneta accertato come superiore
alla media nazionale132. La giurisprudenza di legittimità poneva
tuttavia alcune condizioni alla decurtazione. Anzitutto il divieto di
scienza privata del giudice, per cui la decisione sulla superiore
capacità di acquisto del salario dovrebbe essere fondata su dati
statistici ufficiali o generalmente riconosciuti come attendibili, rilevati
ed elaborati da istituti di ricerca preferibilmente pubblici. Inoltre si
dovrebbe tenere conto dell’effetto riduttivo determinato dalla
selezione di voci riconducibili al minimo costituzionale salvo il limite
costituito dalla misura dell’indennità che era riconosciuta fino al 1991,
oltre il quale non si potrebbe scendere nell’adegumaneto al ribasso dei
minimi tabellari.
A questo orientamento se ne oppone altro133 che esclude la
legittimità di un adeguamento dei parametri tabellari, ai fini della
132 Corte Cass., 26 luglio 2001, n. 10260, in Riv. it. dir. lav., 2002, II, 299 con nota di Stolfa.133 Cfr. da ultimo Corte Cass., 15 novembre 2001, n. 14211, in ADL, 2003, 1, p.379 con nota di Stolfa; Corte Cass., 25 febbraio 1994, n. 1903, in RGL, 1994, II, p. 408, con nota di Marchis; in Riv. it. dir. lav., 1995, II, p. 101 con nota di Milianti.
59
determinazione della giusta retribuzione, fondato sulle condizioni
ambientali e territoriali depresse. Ciò in quanto lo stesso art. 36 Cost.
è rivolto ad impedire ogni forma di sfruttamento del lavoratore e
quindi anche quella che si realizzasse per il tramite dell’abbattimento
del minimo sindacale per ragioni legate alla situazione socio-
economica del mercato del lavoro. Secondo tale orientamento dunque
l’adeguamento al ribasso dei minimi sarebbe ammissibile solo con
riferimento a situazioni oggettive inerenti la prestazione di lavoro.
Quest’ultimo sembra l’orientamento più rispettoso delle intenzioni
del legislatore costituente ove si consideri che nel sistema fondato
sull’erga omnes del contratto collettivo, se si fosse data attuazione
all’art. 39 Cost., confinato dunque l’art. 36 tra le affermazioni di
principio prive di reale incidenza134 le uniche legittime
differenziazioni retributive fondate sulle condizioni di mercato
sarebbero state quale contemplate dall’autonomia collettiva. Pertanto
il giudice ad esse soltanto, ove previste, dovrebbe fare riferimento
qualora fosse richiesto un suo intervento per la statuizione della
retribuzione sufficiente ex art. 36 Cost.
Sulla rilevanza delle condizioni di mercato nella determinazione
dell’equo salario non vi è dunque una uniformità di orientamenti di
legittimità.
Lo stesso orientamento che esclude il riferimento alle condizioni di
depressione del mercato del lavoro quale criterio di abbattimento della
retribuzione fissata dal contratto collettivo, ammette l’operazione in
considerazione delle modeste dimensioni dell’impresa135.
134 L. Zoppoli, L’art. 36 della Costituzione, cit., p. 95.135 Cfr. Corte Cass., 15 novembre 2001, n. 14211, in ADL, 2003, 1, p. 379 con nota di Stolfa.
60
CAPITOLO II
Retribuzione ed assetto della contrattazione
Sommario: 1. Retribuzione e assetto della contrattazione. – 2. La riforma degli assetti contrattuali: il ruolo del contratto nazionale e la funzione di garanzia della certezza dei trattamenti economici. – 3. La contrattazione di secondo livello. La contrattazione aziendale e il premio variabile. – 4. La riforma degli assetti contrattuali: i rapporti tra diversi livelli e il fenomeno della contrattazione aziendale separata. – 5. La riforma degli assetti contrattuali: L’elemento di garanzia retributiva.
1. Retribuzione e assetto della contrattazione.
La regolamentazione della retribuzione ha uno stretto legame con la
contrattazione collettiva tanto che, secondo risalenti testimonianze136,
la stessa nascita delle Trade unions è legata alla organizzazione di
gruppi spontanei di pressione per il miglioramento delle condizioni
(anche economiche) dei salariati. Nella risalente dottrina nazionale, si
è osservato che la nascita della negoziazione collettiva si è verificata
per ottenere un miglior corrispettivo nella cessione di manodopera,
giungendo alla conclusione dei primi concordati di tariffa137.
Dalla stretta connessione tra contrattazione collettiva e retribuzione,
appare evidente la funzione economica del contratto collettivo 136 Cfr S. Webb, B. Webb, Industrial democracy, Edimburgo, 1897.137 Cfr G. Messina, I concordati di tariffe nell’ordinamento giuridico del lavoro, in Riv. dir. comm., 1904, I, p. 458 e ss.
61
nell’individuazione del punto di equilibrio dei livelli salariali. Essa è
rimasta sostanzialmente invariata nel tempo, con un’unica parentesi
nel periodo corporativo, in cui il contratto collettivo rappresenta l’
espressione “della solidarietà fra i vari fattori di produzione
nell’interesse supremo della Nazione”138 e la sua funzione economica
è quella di determinare il livello salariale che garantisce la massima
intensità di produzione: come si legge nella IV Dichiarazione della
Carta del Lavoro, gli opposti interessi dei datori di lavoro e dei
lavoratori sono subordinati agli interessi superiori della produzione.
Secondo le convinzioni del legislatore fascista in tal modo il criterio
della giustizia retributiva sarebbe compenetrato con quello
dell’organizzazione produttiva”139.
Mentre la funzione economica è rimasta sostanzialmente invariata,
con l’unica transitoria eccezione del periodo corporativo, nel tempo è
intervenuto il riconoscimento del contratto collettivo quale fonte
giuridica formale (inderogabile in pejus) di disciplina del rapporto
individuale.
Per giungere a tale risultato si è partiti dalle teorie fondate su
modelli privatistici di obbligatorietà del contratto collettivo, declinate
in diverse ipotesi di responsabilità civile, accomunate dal timore di
una deriva autoritativa del riconoscimento per legge dell’efficacia
obbligatoria140. Preparato dall’ “etero-comando” di carneluttiana
memoria141, il passo successivo fu l’obbligo per le associazioni
professionali di regolare i rapporti di lavoro mediante contratti
collettivi stipulati dal sindacato legalmente riconosciuto e sottoposto 138 Cfr. Ordine del giorno del 6 gennaio 1927.139 Cfr. G. Bottai, La Carta del Lavoro, Roma, 1927, p. 9.140 Cfr B. Veneziani, G. Vardaro, La rivista di diritto commerciale e la dottrina giuslavoristica delle origini, in Quad. fior., 1987, 16, p. 454 e ss.141 Cfr. F. Carnelutti, Contratto collettivo, in Dir. lav., 1928, I, p. 184 e ss.
62
al controllo dello Stato. Nel sistema corporativo il rapporto tra
contratto e retribuzione è sancito dalla XII dichiarazione della Carta
del Lavoro, ove si legge che la determinazione del salario è sottratta a
qualsiasi norma generale e rimessa all’accordo delle parti nel contratto
collettivo.
Anche a seguito dell’intervento della Costituzione repubblicana non
si dubita del ruolo fondamentale della contrattazione collettiva nella
disciplina del rapporto individuale di lavoro142.
Esso risulta in tutta evidenza proprio dal meccanismo predisposto
dal legislatore costituente per attuare il precetto della giusta
retribuzione attraverso la contrattazione collettiva143 e si traduce nella
individuazione nel contratto collettivo dello strumento naturale per la
determinazione dei trattamenti retributivi.
Lo storico rapporto che intercorre tra contrattazione collettiva e
rivendicazioni salariali, unitamente all’attuale rilevanza delle
statuizioni dell’autonomia collettiva nel procedimento di
determinazione della giusta retribuzione, sia pure per il tramite
giurisdizionale, basterebbe a motivare l’interesse per il tema,
recentemente tornato d’attualità dopo quasi un ventennio di torpore,
delle regole della contrattazione, modificate a seguito del rinnovo
degli assetti realizzato con l’Accordo Quadro del 22 gennaio 2009 cui
è seguito il relativo Accordo Interconfederale di attuazione del 15
aprile 2009144.
142 Cfr. F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Il rapporto di lavoro subordinato, Milano, 2006, p. 239 e ss.143 Cfr G. Ferraro, Retribuzione e assetto della contrattazione collettiva, in Riv. it. dir. lav., 2010, I, p. 694.144 Sul punto Cfr. M. Ricci, L’accordo quadro e l’accordo interconfederale del 2009: contenuti, criticità e modelli di relazioni industriali, in Riv. it dir. lav., 2009, I, p. 353 e ss.; V. Ferrante L’accordo interconfederale dell’aprile del 2009 di riforma del sistema della contrattazione collettiva: brevi note, in ADL, 2009, 4-
63
A ciò si aggiunga che successivamente alle suddette modifiche, si
sono verificate alcune condizioni che potrebbero avere riflessi sulla
rilevanza del ccnl nella determinazione dei trattamenti retributivi.
Da un lato infatti Federmeccanica, Fim-Cisl e Uil-Uilm senza
l’adesione della Fiom-Cgil, il 15 ottobre del 2009 hanno sottoscritto il
ccnl per il settore metalmeccanico. Dunque occorre interrogarsi sulla
efficacia soggettiva degli accordi separati e sulle conseguenze in tema
di centralità del livello nazionale nel processo di determinazione dei
livelli retributivi.
Inoltre ulteriori spunti di riflessione giungono dagli esiti della
negoziazione del contratto collettivo per lo stabilimento Fiat di
Pomigliano d’Arco. Come noto, il timore che la sottoscrizione
separata del contratto aziendale potesse ingenerare un lungo
contenzioso giudiziale sull’applicabilità dello stesso ai lavoratori non
aderenti alle sigle firmatarie, nonostante il positivo esito del
referendum, ha condotto alla creazione di una società, denominata
Fabbrica Italia Pomigliano, interamente di proprietà della Fiat stessa,
cui è stato ceduto lo stabilimento. La suddetta società non aderisce al
sistema di Confindustria pertanto il contratto da essa sottoscritto il 29
dicembre 2010 insieme a Fim-Cisl, Uilm-Uil, Fismic, Ugl
Metalmeccanici e l’Associazione Quadri e Capi Fiat, si configura
come un contratto di primo livello.
Prima ancora della circostanza che si sia arrivati ad un contratto
alternativo a quello nazionale tramite l’uscita di FIAT da
Confindustria e conseguente disapplicazione del ccnl del 15 ottobre
5, p. 1021 e ss.; M. Magnani, I nodi attuali del sistema di relazioni industriali e l’accordo quadro del 22 gennaio 2009, in ADL, 2009, 6, p. 1278 e ss.; A. Lassandari, Le nuove regole sulla contrattazione collettiva:problemi giuridici e di efficacia, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2010, 1, p. 66 e ss.
64
2009, il metodo della negoziazione145 ha indotto ad una riflessione
sulla possibilità che il nuovo equilibrio di forze, sbilanciato a favore
datoriale dalla facoltà di delocalizzare la produzione, possa indurre i
lavoratori, astretti dalla alternativa di perdere l’occupazione,
all’accettazione di condizioni economiche sempre più basse146.
Poiché la vicenda di Pomigliano, oltre il ripetersi a livello aziendale
come si sta verificando nello stabilimento di Mirafiori, è possibile che
diventi un modello per il futuro147, occorrerà interrogarsi sull’attualità
del contratto nazionale di lavoro quale strumento parametrico di
determinazione della retribuzione.
In altri termini, quello che non è stato compiuto da tutti gli
interventi legislativi che hanno puntato sulla contrattazione territoriale
o aziendale a vari fini (emersione del sommerso o illegale,
adeguamento degli standards individuali al contratto collettivo,
145 Cfr. G. P. Cella, Dopo Pomigliano, in Il Mulino, 2010, 5, p. 742.146 S. Rodotà, La regola del più forte, La Repubblica, 11 gennaio 2011, “Nel mondo del lavoro, in troppi casi, non v’è più negoziazione “all’ombra della legge”, perché sempre più spesso si chiede a sindacati e lavoratori di prendere o lasciare un testo predisposto unilateralmente dalla parte più forte. Contratto collettivo e sindacato, i due strumenti che dall’800 hanno cercato di colmare il dislivello di potere tra datore di lavoro e lavoratori, vengono variamente svuotati. La soggettività del lavoratore si perde, e con essa la dignità del lavoro. Se l’efficienza è l’unica bussola, rischiamo di tornare alla “gestione industriale degli uomini”. E la retribuzione non è più ciò che deve assicurare al lavoratore e alla sua famiglia “una esistenza libera e dignitosa”, come vuole l’art. 36 della Costituzione, ma il prezzo minimo che si spunta sul mercato per vendere un lavoro di nuovo ridotto a pura merce. Dall’esistenza libera e dignitosa si tende a passare ad una sorta di “grado zero” dell’esistenza, alla retribuzione come mera soglia di sopravvivenza, come garanzia solo del “salario minimo biologico”, del “minimo vitale”.147 Cfr. V. Bavaro, Contrattazione collettiva e relazioni industriali nell’archetipo Fiat di Pomigliano d’Arco, dattiloscritto in corso di pubblicazione su Quad. rass. sind., Adapt,boll. spec. 2011, 44.Cfr. anche T. Treu, su La Stampa, 14 gennaio 2011, per il quale “Sergio Marchionne è uscito da un sistema di relazioni sindacali – quello confindustriale – e se ne sta costruendo un altro”, “In Italia chi potrà seguirà Marchionne. Il ruolo di Confindustria, come quello del sindacato, è messo in crisi”.
65
aumento della produttività e flessibilizzazione delle condizioni di
lavoro)148 in alcuni casi anche a rischio della centralità del contratto
nazionale149, potrebbe essere realizzato dalla diffusione di contratti
aziendali di primo livello negoziati sotto la minaccia di una
delocalizzazione della produzione.
I rischi sul piano del trattamento retributivo, che la diffusione di tale
assetto negoziale su un unico livello comporterebbe sono evidenti.
Per disegnare i possibili scenari futuri, si potrebbe tentare una
comparazione con gli ordinamenti, come quello tedesco, in cui la
negoziazione collettiva ha condotto a contratti del tipo di quello di
Pomigliano.
Tuttavia una operazione di tal genere è preclusa dalle differenti
condizioni in cui si verifica il negoziato. In Germania le
rappresentanze dei lavoratori hanno migliori possibilità di condurre le
trattative, dettate dalla partecipazione ai processi decisionali che li
pone in condizione di conoscere i piani industriali e dunque di
compiere scelte consapevoli150.
Qualora i rapporti tra i datori di lavoro e i rappresentanti aziendali
(ove si sia costituita una rappresentanza) siano tali che i primi
contrastano l’operato dei secondi omettendo di informarli delle scelte
strategiche, e questi ultimi sono privi di adeguati strumenti per
valutare i piani aziendali151, non sussistono le condizioni per una equa
negoziazione a livello decentrato.
148 Cfr. G. Ferraro, Retribuzione e assetto, cit., p. 695.149 Cf. A. Bellavista, I contratti di riallineamento retributivo, in Le nuove leggi civili commentate, a cura di M. Napoli, 1998, 5-6, p. 1401.150 Cfr. G. P. Cella, Dopo Pomigliano, cit. 744.151 Cfr. C. Dell’Aringa, T. Treu, Introduzione, in Le riforme che mancano, a cura di C. Dell’Aringa e T. Treu, Roma, 2009, p. 69.
66
Si potrebbe essere indotti a pensare che la questione della diffusione
della negoziazione a livello unico decentrato, non interessi il tema
della retribuzione in quanto la manodopera incide in misura
infinitesimale sul costo di produzione e la grande industria ha
l’obiettivo primario la saturazione degli impianti di produzione nei
momenti di maggior richiesta di beni da parte del mercato, piuttosto
che quello della riduzione delle retribuzioni152. Pertanto le condizioni
peggiorative dovrebbero riguardare esclusivamente i diritti e i ritmi di
produzione, senza interessamento dei livelli salariali che rimarrebbero
invariati rispetto a quelli fissati nei contratti nazionali. Tuttavia,
nell’ottica della contrattazione aziendale o d’impresa, non si può
escludere a priori che la capacità di pressione derivante dalla
possibilità di spostare altrove la produzione, possa indurre i datori di
lavoro a pretendere, in periodi di contrazione della domanda, una
minore incidenza del costo della manodopera.
Ferme restando le precedenti considerazioni, occorre fare alcune
precisazioni.
Anzitutto quanto finora detto deve essere riferito esclusivamente a
quelle imprese che, in ragione della globalizzazione dei mercati, sono
in condizione di imporre pratiche di open shop sotto la minaccia della
delocalizzazione dell’impresa.
Inoltre non è detto che le istanze di rinuncia al contratto nazionale,
che possono derivare quale conseguenza emulativa del modello
Pomigliano, siano in grado di incidere a carattere definitivo sulla
struttura della contrattazione collettiva153. Pertanto tutte le
considerazioni sulla incidenza delle modifiche al sistema di relazioni 152 Cfr. R. De Luca Tamajo, Accordo di Pomigliano e criticità del sistema di relazioni industriali italiane, in Riv. it. dir. lav.,2010, I, p. 797 e ss.153 Cfr. G. P. Cella, Dopo Pomigliano, cit. 739.
67
industriali sulla retribuzione, al pari di ogni proposta legislativa del
sistema contrattuale e di rappresentanza, devono essere rimandate al
momento in cui tali modifiche dovessero essere confermate. Su tale
necessità concorda anche chi ritiene che la portata innovativa
dell’accordo di Pomigliano possa essere in grado di innescare processi
che producano modifiche definitive nell’assetto delle relazioni
industriali154. Nonostante l’urgenza con cui quella parte del mondo
sindacale, da sempre formalmente favorevole, preme per l’avvio di un
dibattito parlamentare su una legge di applicazione dell’art. 39
Cost.155, possa far apparire prossime nuove evoluzioni del sistema di
relazioni industriali, è necessaria molta prudenza ed è opportuno
rinviare ogni considerazione al momento in cui si dovessero
realizzare.
Altra aggressione alla centralità del contratto nazionale giunge nella
forma dei contratti separati, in conseguenza della mancanza di unità
sindacale.
Come già ricordato infatti il 15 ottobre del 2009 vi è stata la
conclusione dell’accordo di rinnovo del ccnl per il settore
metalmeccanico senza la sottoscrizione di una parte rilevante del
mondo sindacale.
Secondo alcuni il rischio della perdita di centralità della parte
economica è limitato. Infatti ancorché non sottoscritto da tutte le
rappresentanze dei lavoratori, esso mantiene efficacia normativa per
l’intera categoria156.
154 Cfr. M. Magnani, Dopo Mirafiori, cosa?, in Boll. ord. ADAPT, 17 gennaio 2011.155 E’ del 17 gennaio 2011 la notizia che il direttivo nazionale della Cgil ha approvato, con 112 sì, 14 astenuti e nessun voto contrario, un documento sulla democrazia e rappresentanza sindacale.156 Cfr. G. Ferraro, Retribuzione e assetto, cit., p. 713.
68
Inoltre, nel valutare il grado di diffusione occorre tenere presente
che al contratto separato per i metalmeccanici sono seguiti contratti
sottoscritti da tutti i sindacati di categoria confederati nelle centrali
maggiormente rappresentative (comparto alimentare settore industria
22 settembre 2009, telecomunicazioni 23 ottobre 2009 e comparto
chimici 18 dicembre 2009) a loro volta seguiti da altri contratti
separati (orafi ed argentieri 24 settembre 2010).
Secondo una certa interpretazione del fenomeno, esso mostrerebbe
il carattere fluido del nuovo modello contrattuale introdotto con la
riforma del 2009 (per la cui analisi si rinvia al paragrafo successivo)
che ne consente una applicazione a geometria variabile e che
costituisce un apprezzabile passo avanti rispetto all’assetto dettato dal
Protocollo del 1993157.
Non si può tuttavia escludere che il carattere ondivago della
composizione sindacale del fronte dei sottoscrittori, costituisca
semplicemente un riflesso della mancanza di unitarietà dell’azione a
livello confederale.
La centralità del livello nazionale, soggetta alla corrosione delle sue
fondamenta dal fenomeno della contrattazione separata e, in
prospettiva futura, dal fenomeno della contrattazione aziendale di
primo livello, sembra invece sostenuta dall’accordo quadro sulla
riforma degli assetti contrattuali sottoscritto il 22 gennaio 2009 dalle
principali centrali sindacali con l’esclusione della sola CGIL.
2. La riforma degli assetti contrattuali: il ruolo del contratto
nazionale e la funzione di garanzia della certezza dei
trattamenti economici.
157 Cfr. C. Dell’Aringa, Le nuove relazioni industriali, la partecipazione e la sicurezza sul lavoro, in Review of Economic Conditions in Italy, 2010, 1, p. 124.
69
L’Accordo interconfederale conferma la centralità del contratto
nazionale di categoria nell’impianto introdotto dall’art. 2 del
Protocollo del 1993.
Si conferma dunque l’attualità dell’opinione che il modello su due
livelli conferisce al sistema un equilibrio tra le esigenze di controllo
centrale delle retribuzioni e la necessità di flessibilità e di
decentramento158.
La centralità del contratto nazionale di categoria è esplicitata al
punto 1 dell’A.Q., ove si legge che “l’assetto della contrattazione è
confermato su due livelli”, ribadita nella premessa e al punto 2.3
dell’A.I. con cui le parti convengono che “la contrattazione collettiva
nazionale di categoria o confederale regola il sistema di relazioni
industriali a livello nazionale, territoriale e aziendale o di pubblica
amministrazione”.
Ma soprattutto l’assetto centralista dettato dall’A.I. si desume dalla
clausola che limita la competenza della contrattazione di secondo
livello alle materie delegate.
Interessante è la comparazione tra la formulazione del Protocollo
del 1993 e quella dell’A.I. del 2009, riguardo al rapporto tra il
contratto nazionale e il contratto di secondo livello.
Nel primo infatti si legge che “la contrattazione aziendale o
territoriale è prevista secondo le modalità e negli ambiti di
applicazione che saranno definiti dal contratto nazionale di categoria”.
158 Cfr. T. Treu, Costo del lavoro e sistema retributivo in Italia, La retribuzione. Struttura e regime giuridico, a cura di B. Caruso, C. Zoli, L. Zoppoli, Napoli, 1994, p. 17.
70
Da ciò si potrebbe ritenere che, quando il contratto di categoria non
determina gli ambiti entro i quali debba limitarsi il contratto di
secondo livello, questo possa avere la più ampia estensione.
Al contrario l’A.I., che pure contiene una clausola dal contenuto
assimilabile a quello di cui al Protocollo del 1993 (“Il contratto
nazionale di categoria definisce le modalità e gli ambiti di
applicazione della contrattazione di secondo livello”), prevede
espressamente che “la contrattazione collettiva di secondo livello si
esercita per le materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto
collettivo nazionale di lavoro di categoria”.
Dalla ambigua formulazione utilizzata dalle parti nell’A.I. del 2009,
si può dedurre che la contrattazione di secondo livello deve essere
esercitata solo per le materie espressamente delegate. In effetti una
parte della dottrina ha ritenuto che nel passaggio dalla
regolamentazione degli assetti contrattuali dettata nel 1993 a quella
del A.I. del 2009 vi sia stata una riduzione dello spazio della
contrattazione di secondo livello159, anche se questo contrasterebbe
con la volontà dichiarata di incentivarne la diffusione.
La funzione del contratto nazionale è quella di “garantire la certezza
dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del
settore ovunque impiegati nel territorio nazionale”.
Ciò comporta la fissazione nel contratto nazionale dei minimi
tabellari, dell’indennità di anzianità e di ogni altra indennità spettante
ai lavoratori.
Ai fini della determinazione del trattamento economico in sede di
rinnovo e del recupero del potere di acquisto dei salari reali, l’A.I.
indica quale strumento il nuovo indice previsionale costruito sulla
159 Cfr. G. Ferraro, Retribuzione e assetto, cit., p. 704
71
base dell’IPCA (indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito
europeo).
Il mutamento rispetto al Protocollo del 1993 può sembrare di poco
momento, in quanto si è semplicemente sostituito l’indice IPCA ai
tassi di inflazione programmata.
In realtà la novità è rilevante e, a parere di alcuni, costituisce la resa
ad una modalità di contrattazione fondata sui meri rapporti di forza160.
Ciò in quanto si sostituisce alla concertazione sugli obiettivi comuni,
che avrebbero dovuto portare alla determinazione del tasso di
inflazione programmata, la delega ad un “soggetto terzo di
riconosciuta autorevolezza ed affidabilità161 sulla base di una specifica
lettera di incarico”, della funzione di determinazione dell’indicatore.
Se da un lato si tenta di oggettivizzare la valutazione sul tasso di
inflazione162, dall’altro si accantona il sistema concertativo a favore
della libera negoziazione. Si è così sancito il passaggio, già avvenuto
nei fatti, da una contrattazione collettiva virtuosa ad una portata avanti
coi muscoli.
L’indice IPCA costituisce la base di calcolo di due operazioni:
quella di adeguamento dei salari in occasione dei rinnovi e quella di
recupero del potere di acquisto dei salari reali in caso di scostamento
significativo tra l’inflazione prevista e quella effettivamente osservata, 160 Cfr. F. Carinci, Se quarant’anni vi sembran pochi: dallo Statuto dei lavoratori all’Accordo di Pomigliano, in ADL, 2010, 3, p. 581 e ss.161 Individuato nell’ISAE ente di diritto pubblico istituito con D.P.R. n. 374/98, nell'ambito del processo di riorganizzazione e unificazione dei Ministeri del Tesoro e del Bilancio e della Programmazione Economica operate dalla Legge n. 94/1997, allo scopo di svolgere principalmente analisi e studi a supporto delle decisioni di politica economica e sociale del Governo, del Parlamento e delle Pubbliche Amministrazioni.162 Con ciò sembra darsi seguito alla richiesta di modifica in tal senso espressa dalla Commissione Giugni nella relazione finale. Cfr. Commissione per la verifica del Protocollo del 23 luglio 1993. Relazione finale, in Econ. Lav., 1998, 3, p. 99 e ss.
72
attraverso la modifica dei minimi, piuttosto che con una autonoma
voce come avveniva in passato.
Quest’ultima verifica si rende necessaria a causa della durata
triennale del contratto collettivo, sia per la parte normativa sia
economica senza previsione di rinnovo di quest’ultima, a differenza di
quanto avveniva in forza del Protocollo del 1993 dove era previsto che
il ccnl avesse durata di quattro anni con rinnovo biennale della parte
economica.
La scelta di rivedere il termine di efficacia del ccnl è coerente con
le indicazione della Commissione Giugni per la verifica del
Protocollo163. Nella relazione finale è stata suggerita l’opportunità del
superamento dello sdoppiamento delle scadenze del ccnl
(quadriennale per la parte normativa e biennale per la parte
economica) e la conseguente sovrapposizione dei cicli negoziali. Le
soluzioni proposte erano due: da un lato l’abolizione del rinnovo
biennale e la sostituzione con un adeguamento annuale o con una
durata quadriennale dell’intero ccnl. La prima soluzione avrebbe
avuto il vantaggio di permetter un migliore assorbimento degli shock
inflazionistici ma lo svantaggio di comportare alti costi di
negoziazione e soprattutto di portare al blocco della contrattazione
decentrata. L’allungamento della durata dell’intero contratto aveva
invece il vantaggio di risolvere il problema della maggiore difficoltà
della distribuzione della produttività in assenza di una idonea
diffusione della contrattazione aziendale e dell’assenza di un
meccanismo di tutela in caso di scostamenti rilevanti tra l’inflazione
programmata e quella registrata. La scelta delle parti è caduta su
quest’ultima possibilità sia pure con una durata triennale degli accordi,
163 Cfr. Commissione per la verifica del Protocollo, cit., p. 99 e ss.
73
e non quadriennale come suggerito dalla Commissione. I due problemi
sono stati risolti attraverso misure promozionali della contrattazione di
secondo livello e, per quanto riguarda gli scostamenti rilevanti,
attraverso il monitoraggio dell’andamento dei prezzi al consumo da
parte del soggetto preposto alla elaborazione dell’indice previsionale.
Tale soggetto si limita a verificare eventuali scostamenti tra
l’inflazione prevista e quella osservata, il cui recupero, in termini di
aumento dei minimi, è previsto solo in caso di significatività della
differenza.
Il soggetto cui L’A.I. rimette la valutazione della significatività
dello scostamento è un Comitato paritetico costituito a livello
interconfederale.
Non è specificato invece il criterio per stabilire il grado di
significatività dello scostamento, che sembra destinato ad essere
governato dal solito sistema dei rapporti di forza164, cui è rimessa
anche la determinazione dell’altro fattore di calcolo dei salari in
occasione dei rinnovi, ovvero la retribuzione alla quale applicare
l’indice IPCA.
L’A.I. prevede infatti che “le parti stipulanti applicheranno il nuovo
indice previsionale ad un valore retributivo medio assunto quale base
di computo composto dai minimi tabellari, dal valore degli aumenti
periodici di anzianità considerata l’anzianità media di settore e dalle
altre eventuali indennità in cifra fissa stabilite dallo stesso contratto
collettivo nazionale di lavoro di categoria”.
E’ facile prevedere che sul fattore al quale applicare l’indice si
concentreranno gli scontri in occasione dei rinnovi.
164 Cfr. N. Acocella, R. Leoni, La riforma della contrattazione: redistribuzione perversa o produzione di reddito?, in Riv. it. econ., 2010, 2, p. 237 e ss.
74
Sull’indice IPCA si sono appuntate le maggiori polemiche165 ed i
criteri della sua elaborazione hanno costituito uno dei motivi per cui
l’A.Q. non è stato sottoscritto dalla CGIL.
Le critiche mosse sono classificabili in due categorie.
Da una parte quelle metodologiche, in precedenza affrontate, per
cui attraverso il carattere pregnante che esso riveste nella
negoziazione della parte economica del contratto collettivo in
occasione dei rinnovi, si realizzerebbe una sostanziale indicizzazione
di salari.
Dall’altra quelle relative all’inidoneità dell’indicatore basato
sull’indice IPCA “depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni
energetici importati”, a garantire un effettivo mantenimento del potere
di acquisto dei salari reali166.
Da quest’ultimo punto di vista, l’opposizione più intensa si è
concentrata sulla scelta convenzionale di escludere dal calcolo
dell’indice i prezzi dei beni energetici importati. Non sempre tuttavia
essa è apparsa sostenuta da stringenti argomentazioni scientifiche.
Pertanto pare opportuna qualche puntualizzazione in argomento.
Le motivazioni della esclusione dei prezzi energetici dal calcolo
dell’indicatore sul quale parametrare gli adeguamenti retributivi in
occasione dei rinnovi contrattuali e gli adeguamenti dei minimi in
caso di scostamenti significativi tra l’inflazione prevista e quella
osservata, risiedono nella scelta di evitare che la rincorsa dei salari al
costo dei beni del paniere, sia condizionata da fattori estranei alle
scelte di politica economica, quali quelli relativi alla fissazione dei
165 Cfr. G. Ferraro, Retribuzione e assetto, cit., p. 703.166 Cfr. G. Ferraro, Retribuzione e assetto, cit., p. 704.
75
prezzi dei beni energetici da parte dei paesi produttori che influiscono
sul prezzo finale dei beni di consumo.
In altri termini osservato il picco inflazionistico che si è verificato
nel 2008 e ritenuto che esso fosse stato determinato da ragioni
esogene rispetto alle scelte economiche delle imprese, si è ritenuto di
evitare che shock temporanei, come quello in questione, “si
perpetuino e propaghino l’inflazione attraverso una rincorsa delle
retribuzioni a recuperare il potere d’acquisto perduto a favore non di
altri redditi italiani ma del reddito dei Paesi produttori di beni
energetici. Questa eco inflazionistica si tradurrebbe in dannosa perdita
di competitività, giacché negli altri Paesi tale rincorsa non avverrebbe
e l’inflazione rientrerebbe in fretta, e senza nessun vantaggio reale per
le buste paga ma anzi con una minore occupazione” 167.
167 Cfr. L. Paolazzi, C. Rapacciulo, L. Scapperrotta, Più retribuzioni e più produttività: lo scambio per la crescita. Gli effetti positivi del sistema che decentra la negoziazione, Nota del Centro Studi di Confindustria, n. 08-5 del 29 Gennaio 2009.
76
Si è osservato che in alcuni casi la depurazione del prezzo degli
energetici dal calcolo dell’indicatore usato per l’adeguamento delle
retribuzioni, può addirittura comportare per i lavoratori il beneficio
dell’aumento dei livelli retribuivi con un tasso superiore a quello
effettivo di crescita dei prezzi, quale conseguenza del fenomeno, come
avvenuto nel 2009, della caduta delle quotazioni del petrolio in misura
proporzionalmente superiore al tasso di inflazione168.
Si è ritenuto che il verificarsi di questa eventualità possa essere il
frutto di un errore di valutazione della rappresentanza di parte
datoriale delle conseguenze dell’adozione di un indicatore basato
sull’IPCA depurato, oppure l’oggetto di una concessione169.
Sulla base di alcuni recenti studi170 si potrebbe essere indotti a
pensare che non si tratti né del frutto di un errore di valutazione, né
tantomeno di una concessione bensì di un possibile sacrificio, peraltro
neanche facile a verificarsi nuovamente, che le imprese sono state
disposte a pagare in cambio dei benefici che esse trarranno
dall’adozione dell’indicatore suddetto.
Gli stessi studi lamentano una inadeguatezza dell’indicatore su
base IPCA perché quest’ultimo comprende esclusivamente gli affitti
effettivi, che riguardano solo il 17,2% delle famiglie, e non quelli
figurativi che invece incidono sul patrimonio dei proprietari (o
beneficiari di un diritto reale di godimento) degli immobili adibiti ad
uso abitativo che sono l’82,8%.
Infine l’indicatore utilizzato nell’A.I. del 2009 è contestato perché
le modalità di calcolo escludono dal paniere dell’IPCA beni il cui
168 Cfr. C. Dell’Aringa, Le nuove relazioni industriali, cit., p. 125.169 Cfr. C. Dell’Aringa, Le nuove relazioni industriali, cit., p. 126.170 Cfr. N. Acocella, R. Leoni, La riforma della contrattazione, cit. p. 237 e ss.
77
costo incide maggiormente sui consumi dei percettori di salari medio-
bassi.
3. La contrattazione di secondo livello. La contrattazione
aziendale e il premio variabile.
L’idea che la competitività del sistema produttivo andasse
perseguita attraverso una politica di adeguamento dei salari
all’inflazione, risale ai primi anni 80’ ed è frutto di una nota scuola
economica post-Keynesiana. In particolare, si riteneva opportuna la
programmazione di un tasso di inflazione sul quale costruire la
politica monetaria e salariale, vincolando gli aumenti delle
retribuzioni oltre la soglia del tasso di inflazione alla condizione di un
aumento della produttività, evitando spirali inflazionistiche e
stimolando lo sviluppo tecnologico.
La tesi fortemente riformista fu quella di ritenere che
l’adeguamento dei salari all’inflazione potesse essere perseguita
attraverso pratiche concertative da attuarsi a livello centrale, in
occasione dei rinnovi dei contratti nazionali, piuttosto che attraverso
sistemi di indicizzazione171.
In quest’ottica il livello nazionale assumeva la funzione di perno
dell’intero sistema della contrattazione del settore privato, mentre alla
contrattazione di secondo livello, ed in particolare al contratto
aziendale, era delegata la funzione di redistribuzione della
produttività.
171 Cfr. E. Tarantelli, Economia Politica del Lavoro, Torino, 1986.
78
Il compito di limitare le spinte inflazionistiche che, secondo le
teorie keynesiane, sono la naturale conseguenza dell’aumento della
domanda aggregata, sarebbe stato del Governo che avrebbe dovuto
realizzarlo attraverso le politiche monetarie, anch’esse concertate con
accordi triangolari per renderle efficaci attraverso il coordinamento
con le politiche salariali.
Il Protocollo del 1993 era evidentemente e dichiaratamente ispirato
a queste teorie. In esso infatti si è cercato di contemperare le esigenze
di controllo centrale delle retribuzioni con le esigenze di flessibilità,
delegando la contrattazione aziendale la determinazione delle
erogazioni retributive legate ai risultati di produttività, attraverso un
sistema di clausole di rinvio e c.d. di specializzazione172.
Il punto di partenza per l’attuazione delle politiche monetarie e
salariali, e dunque per l’azione del governo da un lato e delle parti
sociali dall’altro, sarebbe stata l’inflazione programmata.
Come noto, lo strumento progettato con il Protocollo del 1993 si è
dimostrato efficace a livello macro economico nel contenere la
crescita del tasso di inflazione mantenendo i salari coerenti con i tassi
programmati173.
Tuttavia, a causa di una limitata diffusione della contrattazione di
secondo livello, non si è realizzata la flessibilità del sistema auspicata
dalle parti174.
Pertanto la Commissione Giugni, avendo preso atto e registrato
l’unanime riconoscimento del successo sul piano macro economico,
suggerì ipotesi di modifica del Protocollo del 1993 facendo osservare
172 Cfr. T. Treu, Costo del lavoro, cit., p. 15.173 Cfr. Commissione per la verifica del Protocollo del 23 luglio 1993, cit. p. 99.174 Cfr. V. Ferrante, L’accordo interconfederale, cit. p. 1025; N. Acocella, R.Leoni, La riforma della contrattazione, cit. p. 237 e ss.
79
che “pur non richiedendo radicali revisioni della sua struttura” tuttavia
necessitasse di “una revisione volta al consolidamento dei risultati
raggiunti”.
In effetti, con la riforma degli assetti del 2009 non si è operata
alcuna modifica sostanziale rispetto all’impostazione del Protocollo175.
L’assetto resta centralistico, solo che alla “politica salariale
d’anticipo” basata sulla concertazione del tasso d’inflazione
programmata, si è sostituito un sistema che non indicizza in modo
adeguato il salario nominale176, in cui la negoziazione è legata ad un
indicatore dalla struttura contestata.
La funzione della contrattazione di secondo livello continua ad
essere quella redistributiva, essendo previsto al punto 3 dell’A.I. che
essa “collega gli aumenti salariali al raggiungimento di obiettivi di
produttività, redditività, qualità, efficienza, efficacia ed altri elementi
rilevanti ai fini del miglioramento della competitività, nonché ai
risultati legati all’andamento economico delle imprese”.
Il rapporto tra la contrattazione di primo e secondo livello continua
ad essere regolato attraverso il sistema delle clausole di rinvio e di
specializzazione che devono considerarsi in rapporto alternativo:
quando vi è rinvio del contratto nazionale può intervenire quello di
secondo livello, mentre in assenza di rinvio può riaprirsi la
negoziazione, ma solo su quanto non statuito al livello superiore177.
Quanto stabilito dal contratto nazionale è infatti coperto dal limite del
ne bis in idem, di cui al punto 3.2 dell’A.I.
L’unica eccezione al divieto posto al contratto di secondo livello, di
disciplinare aspetti coperti dal contratto nazionale, è ammissibile solo 175 Cfr. G. Ferraro, Retribuzione e assetto, cit., p. 701.176 Cfr. N. Acocella, R. Leoni, La riforma della contrattazione, cit. p. 237 e ss.177 Cfr. F. Carinci, Se quarant’anni vi sembran pochi, cit., p. 151 e ss.
80
quando quest’ultimo, a norma del punto 5 dell’A.I., consenta la deroga
delle disposizioni in esso previste, nei casi di crisi aziendali o per
favorire lo sviluppo economico. Ciò, se da un lato può costituire un
incentivo alla contrattazione aziendale, dall’altro rischia di corrodere
la funzione centrale del contratto nazionale178.
Il secondo livello di contrattazione può essere aziendale o
territoriale. Quest’ultimo era risultato sostanzialmente inattuato
essendo stati stipulati un numero irrilevante di contratti regionali o
provinciali rispetto al numero di quelli aziendali179.
Le ragioni di tale limitata diffusione sono da ricercarsi
principalmente in una scarsa sindacalizzazione a livello di unità
produttiva, specie nelle piccole imprese del mezzogiorno.
Nonostante le dichiarazioni programmatiche sulla rilevanza della
diffusione della contrattazione di secondo livello per la crescita della
produttività e delle retribuzioni, nonché sulla necessità di
incrementare le misure volte ad incentivarla, dalla lettura dell’A.I. non
emerge la presenza strumenti idonei a sostenere la contrattazione
regionale e provinciale. Anzi dalla formulazione del punto 1
dell’Accordo, nella parte in cui si dice che la contrattazione territoriale
può considerarsi parte del nuovo modello di assetti “laddove previsto,
secondo l’attuale prassi” sembra possibile desumere la volontà delle
parti di contenere la diffusione di contratti regionali o provinciali nei
limiti di quanto già praticato.
178 Cfr. G. Ferraro, Retribuzione e assetto, cit., p. 711.179 Secondo la ricerca condotta dalla CGIL dal titolo “Analisi della Contrattazione di II° livello e degli andamenti dal 1996 al 2006 sui dati dell’Archivio nazionale CGIL”, http://www.cgil.it/archivio/contrattazione/AnalisiContrattazione2008.pdf, i contratti territoriali costituiscono complessivamente il 6,5% del totale di contratti di secondo livello a fronte del 93,5% costituito dai contratti aziendali.
81
Una parte della dottrina180 inoltre fa osservare come le parti hanno
perso l’opportunità di valorizzare nell’ A.Q. le esperienze accumulate
in tema di contrattazione territoriale con gli accordi di programma.
Anche se risulta molto più diffusa di quella territoriale, la
contrattazione aziendale tuttavia soffre di un notevole ritardo rispetto
a quanto avviene in altri paesi. Le ragioni della difficoltà ad imporsi
sono da ricercarsi nella scarsa sindacalizzazione dovuta all’ostracismo
dei piccoli imprenditori che si oppongono alla diffusione del sindacato
in azienda e alla resistenza di una parte del mondo sindacale che
tradizionalmente vede, non senza ragione, sotto cattiva luce il
decentramento della contrattazione per i rischi che essa comporta nel
senso di un peggioramento delle condizioni retributive181.
Per espressa previsione del punto 3.3 dell’A.I. lo strumento
attraverso cui la contrattazione aziendale dovrebbe svolgere la
funzione redistributiva è costituito dai premi variabili.
4. La riforma degli assetti contrattuali: i rapporti tra diversi livelli
e il fenomeno della contrattazione aziendale separata.
In precedenza si è accennato al fenomeno della contrattazione
nazionale separata, riportando l’esempio del ccnl per il settore
metalmeccanico del 2009 e quello per i dipendenti orafi e argentieri
delle imprese artigiane del 2010.
Il fenomeno non si limita al solo livello nazionale infatti si è
verificata anche la sottoscrizione separata di contratti aziendali.
180 Cfr. G. Ferraro, Retribuzione e assetto, cit., p. 708.181 Cfr. C. Dell’Aringa, T. Treu, Introduzione, cit., p. 69.
82
Quando un contratto aziendale non sia sottoscritto da tutte le
organizzazioni sindacali firmatarie a livello nazionale, per
determinarne la efficacia soggettiva occorre distinguere tra fattispecie
migliorative e peggiorative.
Il caso di scuola rappresentato da un contratto aziendale dal
contenuto migliorativo rispetto al contratto nazionale e non
sottoscritto da tutti i rappresentanti dei sindacati maggiormente
rappresentativi di comparto, non pone particolari problemi.
Infatti, con risultati alterni, si è sostenuto da parte di dottrina e
giurisprudenza, sulla base di ragionamenti che prendono avvio da
caratteristiche intrinseche del contratto (il fatto di riguardare una certa
realtà produttiva) o da meccanismi eteronomi rispetto alle dinamiche
di conclusione del contratto (referendum di approvazione da parte dei
lavoratori), che il contratto aziendale sottoscritto dal datore di lavoro,
lo vincola quale parte negoziale, all’applicazione nei confronti di tutti
i lavoratori182.
Il fondamento di tale effetto è fatto discendere dalla teoria della
indivisibilità degli interessi collettivi a livello aziendale che comporta
la sostanziale efficacia erga omnes del contratto aziendale
migliorativo183.
Interessante è l’osservazione di quella dottrina che ritiene che
l’estensione dell’efficacia del contratto aziendale a tutti dipendenti sia
iscritti alle organizzazioni firmatarie, sia a tutti gli altri, non comporta
182 Per una completa rassegna dei precedenti giurisprudenziali cfr. P. Bellocchi, Sub art. 39 Cost., in Diritto del lavoro, a cura di G. Amoroso, V. Di Cerbo, A. Maresca, Milano, 2009, p. 347.183 Cfr Corte Cass., 2 maggio 1990, n. 3607, in Mass. giur. lav., 1990, p. 384, con nota di E. Lucifredi.
83
la violazione dell’art. 39 Cost. in quanto il contratto collettivo cui
esso si riferisce è esclusivamente quello di livello nazionale184.
Il problema si pone invece rispetto ai contratti aziendali separati che
hanno un contenuto peggiorativo rispetto ai precedenti contratti
nazionali.
In tal caso, quando le condizioni peggiorative non siano compensate
da vantaggi, la giurisprudenza ha ritenuto in più occasioni i lavoratori
non iscritti alla organizzazioni sindacali firmatarie del contratto
aziendale, non vincolati da esso185.
Pertanto se un contratto aziendale prevedesse condizioni
economiche peggiorative rispetto a quelle contenute nel contratto
nazionale di riferimento, queste ultime e non le prime dovrebbero
essere applicate ai lavoratori non aderenti ad alcun sindacato o
aderenti ad un sindacato non firmatario del contratto aziendale186.
A fronte di molteplici argomentazioni, quelle utilizzate dalla
giurisprudenza sono prevalentemente fondate sulla inefficacia del
contratto aziendale, non solo nei confronti dei lavoratori non iscritti ai
sindacati firmatari, ma addirittura anche nei confronti del lavorati che
abbiano espresso il proprio dissenso individuale aderendo a questi
ultimi successivamente alla stipula dell’aziendale: unico limite il
contratto gestionale che la cui efficacia è ritenuta estesa oltre il limite
del dissenso individuale187.
184 Cfr. A. Lassandari, Il contratto collettivo aziendale e decentrato, Milano, 2001, p. 304 e ss.185 Cfr. Corte Cass. 5 febbraio, 1993, n. 1438, in Riv. it. dir. lav., 1994, II, p. 61 e ss. con nota di L. Nogler.186 Cfr. Corte App. Brescia, 7 marzo 2009, in Riv. giur. dir. lav. prev. soc., 2010, II, p. 188 con nota di F. Aiello.187 Cfr. A. Lassandari, Le nuove regole sulla contrattazione, cit. p. 66 e ss.
84
5. La riforma degli assetti contrattuali: L’elemento di garanzia
retributiva.
La riforma degli assetti contrattuali del 2009 si muove
dichiaratamente nella direzione dell’incentivazione della
contrattazione di secondo livello, ed in effetti alle enunciazioni
programmatiche, di cui all’art. 3 del Accordo interconfederale del 15
aprile del 2009 di attuazione dell’Accordo quadro, segue la
introduzione del c.d. elemento di garanzia retributiva.
Tale trattamento accessorio dovrebbe compensare la minor
consistenza salariale dei lavoratori che non beneficiano della
contrattazione aziendale e che non percepiscono altri trattamenti
economici individuali o collettivi, oltre a quanto spettante per
contratto collettivo nazionale di categoria. Pertanto, se adeguatamente
commisurato potrebbe costituire una misura incentivante per la
diffusione della contrattazione di secondo livello.
In realtà un elemento perequativo simile era già previsto in molti
dei contratti nazionali di categoria stipulati in precedenza, con la
differenza che, secondo quanto previsto dell’A.I., nella attuale
formulazione beneficia coloro che non hanno altro in busta paga oltre
i minimi tabellari ma anche chi non ha ottenuto aumenti nell’ultimo
quadriennio188.
La conseguenza di ciò sarebbe la sua valorizzazione rispetto a
quanto previsto fino all’Accordo interconfederale in funzione 188 Cfr. C. Dell’Aringa, Le nuove relazioni industriali, cit., p. 111 e ss.: “In definitiva, il nuovo istituto non garantisce più e solo un “livello” minimo delle retribuzioni di fatto (come era nella prima formulazione, quella delle “linee guida”), ma garantisce anche un “aumento minimo” in aggiunta agli aumenti dei minimi tabellari”.
85
sanzionatoria nei confronti di quei datori di lavoro che decidessero di
concederlo in sostituzione dell’apertura di un negoziato aziendale.
L’effettiva utilità dell’elemento di garanzia è tuttavia rimessa
interamente alla contrattazione collettiva nazionale di categoria cui
l’Accordo interconfederale rinvia per determinarne la misura.
Quindi, anzitutto, l’applicazione dell’elemento è subordinato alla
sua adozione da parte del contratto collettivo, ed in ogni caso
l’effettiva funzione promozionale della contrattazione di secondo
livello è subordinata alla determinazione in misura idonea a costituire
una sanzione civile privata, adeguata a spingere il singolo datore di
lavoro a giungere alla conclusione di un accordo.
In effetti nelle ultime tornate contrattuali si è introdotto l’elemento
di garanzia in quasi tutti gli accordi ad eccezione di quello per
l’energia elettrica e quello per il petrolifero.
Nel rispetto della previsione di cui all’art. 4 dell’Accordo
interconfederale è previsto in tutti i casi che l’erogazione è dovuta ai
dipendenti di imprese private prive di contrattazione di secondo livello
a condizione che non siano dovuti trattamenti economici ulteriori
rispetto a quanto spettante in forza del contratto nazionale. In due soli
casi (chimica; gomma e plastica) è previsto l’ulteriore requisito
dimensionale dell’impresa, per cui la voce retributiva è dovuta
unicamente al superamento in azienda dei 70 e 100 dipendenti.
Merita menzione la previsione di cui al ccnl del turismo per cui
l’erogazione è dovuta solo a condizione che sia stata presentata una
piattaforma senza il raggiungimento dell’accordo.
Da ultimo occorre ricordare che L’Accordo Interconfederale ha
disposto che la erogazione prevista dai contratti nazionali di lavoro
avvenisse “nella misura ed alle condizioni concordate nei medesimi
86
contratti con particolare riguardo per le situazioni di difficoltà
economico-produttiva”. La possibilità prevista dall’A.I. per cui è
consentito che i contratti nazionali di categoria prendano in
considerazione una situazione di difficoltà dell’impresa quale causa di
esclusione dell’obbligo di corrispondere l’erogazione, è stata tradotta
in soli tre casi in una clausola di uscita a favore del datore di lavoro il
quale, sussistendo le condizioni previste, può sottrarsi alla
corresponsione del trattamento. Tale clausola è stata introdotta nei soli
ccnl del settore telecomunicazioni, del settore cemento, calce e gesso e
nel settore del turismo. Le parti, ponendosi il problema
dell’accertamento della sussistenza della condizione sospensiva
dell’obbligo di corrispondere l’elemento di garanzia, hanno scelto il
parametro costituito dal ricorso agli ammortizzatori sociali.
Preme sottolineare che in molti casi il beneficio dell’elemento di
garanzia retributiva è stato limitato ai soli lavoratori a tempo
indeterminato. Nei casi, come quello del settore delle
telecomunicazioni, in cui ciò avvenga e la percentuale di lavoratori a
termine è più elevata, l’esclusione di questi può costituire un limite
alla diffusione della contrattazione di secondo livello quando il datore
di lavoro preferisca sopportare il costo economico dell’erogazione
dell’elemento di garanzia per i pochi dipendenti a tempo
indeterminato, in proporzione al totale degli occupati, piuttosto che
aprire un negoziato aziendale.
In ordine alla misura dell’importo occorre sottolineare come essa
sia stata compresa dai contratti nazionali di categoria tra un minimo di
72 euro e un massimo di 455 per il settore metalmeccanico.
87
Solo i dati sulla diffusione della contrattazione aziendale nei
prossimi anni potranno permettere di giudicare l’idoneità della misura
fissata nei contratti collettivi nazionali.
Da ultimo deve farsi osservare che l’idoneità dell’elemento di
garanzia retributiva a costituire un incentivo alla diffusione della
contrattazione di secondo livello è notevolmente depotenziato dalla
previsione al punto 4 dell’A.I. di una condizione necessaria al sorgere
della obbligazione di corrispondere la relativa somma: l’elemento sarà
infatti dovuto in assenza di contrattazione aziendale, solo se i
lavoratori non siano percettori di “altri trattamenti economici
individuali”. Da ciò risulta evidente il rischio che i datori di lavoro
preferiscano contrattare singolarmente erogazioni individuali piuttosto
che avviare una negoziazione collettiva189.
189 Cfr. C. Dell’Aringa, C. Vignocchi, La definizione del nuovo modello contrattuale: la flessibilità dei salari sul territorio, in Le riforme che mancano, a cura di C. Dell’Aringa, T. Treu, Roma, 2009, p. 417.
88
CAPITOLO III
I sistemi retributivi
Sommario: . – 1. La retribuzione ad economia. – 2. Sistemi retributivi incentivanti: il
cottimo. – 3. Sistemi retributivi incentivanti:cenni sui premi di produzione. – 4. Sistemi
retributivi incentivanti: la retribuzione variabile e i premi di risultato. – 5. Meriti e premi
nel pubblico impiego: cenni.
1. La retribuzione ad economia.
Il primo ed il terzo comma dell’art. 2099 c.c. delineano i sistemi di
retribuzione. Il lavoratore può essere retribuito a tempo o a cottimo
ovvero, in tutto o in parte, con partecipazione agli utili o ai prodotti.
La retribuzione a tempo, comunemente denominata anche “ad
economia”, è quella determinata in misura proporzionale alle unità di
tempo in cui la prestazione è stata resa o messa a disposizione del
datore di lavoro.
89
La retribuzione a tempo è la più diffusa e le altre forme
costituiscono normalmente compensi parziali o elementi accessori di
un sistema complesso, in cui il lavoratore conserva in ogni caso una
parte fissa determinata ad economia. Ciò rappresenta evidentemente il
risultato di una scelta di politica retributiva effettuata in sede di
contrattazione collettiva, ma anche un obbligo giuridico. Si ritiene
infatti che sistemi retributivi totalmente aleatori, in cui anche l’an
dell’obbligazione non sia certo, sono da considerasi contrari al
precetto costituzionale di cui all’art. 36, in forza del quale deve essere
garantita la sufficienza, a prescindere dalla qualità e quantità
dell’impegno profuso190.
Il tempo dell’obbligazione retributiva ad economia viene
normalmente determinato a cadenza fissa, per cui si parla
comunemente di c.d. postnumerazione. A seguito del processo avviato
nel 1973 con cui si è operato il riavvicinamento delle categorie degli
operai e degli impiegati, il periodo di riferimento di maturazione
dell’obbligazione e di commisurazione della retribuzione è
normalmente costituito dal mese. La diffusa mensilizzazione della
retribuzione non ha influito sulla comune definizione della
retribuzione in termini di salario per gli operai e di stipendio per gli
impiegati: la differente denominazione continua a conservare una
efficacia descrittiva della diversa modalità di computo della
prestazione.
Infatti, per gli operai la retribuzione è tradizionalmente calcolata
sulla base delle ore di lavoro effettivamente rese: in tal modo il datore
190 Cfr. F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del Lavoro., cit., p. 251.
90
non si assume il rischio della mancata prestazione non derivante da
inadempimento191.
Per gli impiegati manca, invece, un rapporto tra le ore di lavoro
effettivamente prestato e la retribuzione, pertanto compete al datore
l’utilizzazione della prestazione nel modo più funzionale: il lavoratore
è esonerato da ogni responsabilità quando abbia diligentemente messo
a disposizione le proprie energie psico-fisiche e conserva il diritto alla
controprestazione anche se il datore non se ne è avvalso. In tal caso
infatti si configura una ipotesi di mora del creditore le cui cause di
esclusione sono costituite dalla forza maggiore o dalla condotta altrui,
tempestivamente comunicate al prestatore192.
Il calcolo della retribuzione su base mensile non comporta
necessariamente la corresponsione con eguale cadenza, che avviene
solo per la c.d. retribuzione diretta.
Vi sono elementi che pur calcolati secondo il medesimo criterio,
vengono corrisposti solo a fine anno o al termine del rapporto di
lavoro: nella prima categoria rientrano la tredicesima e
quattordicesima mensilità mentre nella seconda il trattamento di fine
rapporto193 che potrebbe essere definito come una retribuzione
accantonata a corresponsione differita194.
Accanto all’obbligo di corrispondere la retribuzione secondo le
modalità convenute, sul datore grava anche quello di consegnare al
prestatore il prospetto paga, secondo quanto previsto dalla legge 5
gennaio 1953, n. 4.
191 Cfr. Angiello L., La retribuzione, Milano, 1990, p. 113.192 Cfr. F. Mortillaro, Retribuzione. 1) Rapporto di lavoro privato, in Enc. Giur. Treccani, XXVII, 1991, p. 8.193 Cfr. F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del Lavoro, cit., p. 256.194 Cfr. A. Garilli, I trattamenti economici di fine rapporto, cit., p. 250 e ss.
91
Il prospetto deve contenere il nome, il cognome e la qualifica
professionale del prestatore, nonché il periodo cui la retribuzione si
riferisce e tutti gli altri elementi che, comunque, compongono
detta retribuzione, in modo da consentire al destinatario di verificare
la correttezza dei calcoli sulle erogazioni.
Con l’introduzione del libro unico del lavoro ad opera del d.l. 112
del 2008 convertito con la l. 133 del 2009, a norma dell’art. 49 comma
quinto, l’obbligo di consegna del prospetto può essere adempiuto
anche mediante consegna di copia di un estratto dal suddetto libro.
2. Sistemi retributivi incentivanti: il cottimo.
L’altro sistema previsto dall’art. 2099 c.c. accanto alla retribuzione
a tempo, è costituito dal cottimo.
Il cottimo è una forma retributiva di tipo incentivante, diretta a
stimolare la maggiore produttività del prestatore di lavoro195.
Il cottimo viene utilizzato nella remunerazione del prestatore di
lavoro subordinato mutuando il sistema di corrispettivo del lavoro
autonomo196.
Soprattutto nel settore manifatturiero la diffusione del cottimo
precede la rivoluzione industriale, ma è solo con l’affermarsi di
sistemi produttivi di tipo tayloristico che esso diventa metodo tipico di
remunerazione della manodopera operaia197.
Il cottimo si diffuse particolarmente nell’industria automobilistica
in conseguenza dell’elaborazione di sistemi di misurazione dei tempi
195 Cfr. M. Roccella, Manuale di diritto del lavoro, cit., p. 363.196 Cfr. F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del Lavoro, cit., p. 251.197 Cfr. F. Santoro-Passarelli, Cottimo, in Novissimo Digesto italiano, Torino, 1957, p. 1075.
92
necessari a compiere determinate operazioni del ciclo produttivo198. In
questi sistemi, il premio consistente nella maggiorazione retributiva
che il prestatore può ottenere attraverso la riduzione dei tempi ovvero
nel compimento di un maggior numero di operazioni nel medesimo
tempo, costituisce la quota di retribuzione corrisposta a cottimo199.
Una prima regolamentazione giuridica del cottimo viene introdotta
nel periodo corporativo con la Carta del lavoro, ove alla Dichiarazione
XIV si dice che “le tariffe di cottimo devono essere determinate in
modo che all’operaio laborioso, di normale capacità lavorativa sia
consentito di conseguire una guadagno minimo oltre la paga base”.
L’interessamento del legislatore fascista è finalizzato
all’ottimizzazione della capacità produttiva dell’apparato industriale,
con il solito fine costituito dall’interesse superiore della produzione
nazionale riducendo al contempo il rischio di un uso estorsivo del
cottimo per ottenere “pluslavoro”200.
La derivazione del cottimo da lavoro autonomo ha probabilmente
generato la tradizionale lettura secondo cui il tratto caratterizzante di
tale sistema retributivo sarebbe dato dal risultato dell’attività
lavorativa201.
In particolare, secondo alcune risalenti opinioni, quando sia stabilita
la retribuzione a cottimo, il risultato entra nella causa del contratto202.
198 Cfr. A. Alaimo, Sistemi partecipativi e incentivanti di retribuzione: l’evoluzione storica in Italia, in Dir. rel. ind., 1991, 1, p. 18.199 G. Giugni, Organizzazione dell’impresa ed evoluzione dei rapporti giuridici. La retribuzione a cottimo, in Riv. dir. lav., 1986, I, p. 11.200 Cfr. M . Dell’Olio, La retribuzione, in Trattato di diritto privato. Impresa e lavoro, diretto da P. Recigno, Torino, 1986, p. 486; cfr. anche A Alaimo, Sistemi partecipativi, cit., p. 19.201 Cfr. M. Roccella, Manuale, cit., p. 363.202 Cfr. F. Santoro-Passarelli, Cottimo, cit., p. 1075.
93
Nel “contratto accessorio” con cui si stabilisce tale sistema di
retribuzione, inserito nel contratto individuale di lavoro, il lavoratore
si assumerebbe l’obbligo di un rendimento più elevato.
Sulla base di queste premesse si ravvisa un inadempimento nella
condotta del lavoratore che mantenga un rendimento sistematicamente
pari a quello ad economia203.
In tempi più recenti si è preferito sostituire il criterio del rendimento
a quello del risultato quale sistema di commisurazione della
retribuzione, per cui resta fermo il diritto alla retribuzione anche
quando, per fatto non imputabile al prestatore, il risultato non
corrisponda al lavoro svolto204.
La remunerazione a cottimo, che a norma dell’art. 2099 c.c.
costituisce una scelta alternativa rimessa alla libertà delle parti rispetto
a quella ad economia, in alcuni casi rappresenta il sistema obbligatorio
di retribuzione. Ciò avviene in due casi: l’uno rappresentato dalla
fattispecie a struttura aperta di cui all’art. 2100 c.c. e l’altro dalla
fattispecie tipica di cui all’art. 8 della l. 18 dicembre 1973, n. 877.
Quest’ultima prescrive infatti la corresponsione della retribuzione
dei lavoratori che eseguono lavoro a domicilio, sulla base di tariffe di
cottimo pieno risultanti dai contratti collettivi della categoria. La
scelta del legislatore è vincolata dalla circostanza contingente per cui
non è possibile controllare la durata della prestazione lavorativa e
dunque non è praticabile la remunerazione a tempo. Il cottimo pieno
di cui al suddetto articolo, obbligatorio ex art. 8 della l. 18 dicembre
1973, n. 877 per la remunerazione del lavoro a domicilio, costituisce il
sistema in cui l’intera retribuzione è stabilita sulla base del rendimento 203 Cfr. F. Mortillaro, Retribuzione, cit., p. 8.204 Cfr. F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del Lavoro, cit., p. 252.
94
del prestatore. Oltre al cottimo pieno esistono forme di cottimo a
tempo (o cottimo misto) in cui una parte della retribuzione è
determinata ad economia.
L’art. 2100 c.c. prescrive invece la retribuzione a cottimo quando la
prestazione sia vincolata ai ritmi produttivi imposti
dall’organizzazione del lavoro e quando la valutazione della
prestazione si basi sui risultati conseguiti nell’unità di tempo. In
passato erano le norme corporative a definire i casi rientranti nella
fattispecie astratta descritta all’art. 2100 c.c. Venuto meno
l’ordinamento corporativo, solo di rado si è posto il problema della
qualificazione giurisprudenziale della verifica di tali condizioni, ed in
alcuni risalenti pronunce è stato ritenuto sussistente l’obbligo quando
la natura della prestazione avesse richiesto “sforzi superiori al
normale”205.
Infine, per completezza occorre segnalare che l’art. 2101 c.c.
impone a carico del datore di lavoro l’obbligo di comunicare
preventivamente al prestatore le condizioni di cui alla tariffa di
cottimo, le lavorazioni da eseguire ed il relativo compenso unitario.
Inoltre le sostituzioni o modificazioni delle condizioni di cui alla
tariffa di cottimo sono legittime solo se intervengono mutamenti nelle
condizioni di esecuzione del lavoro ed in ogni caso sono efficaci
decorso il “periodo di esperimento” previsto nei contratti collettivi.
Appare evidente in tali previsioni la volontà di tutelare il cottimista
dalle modificazioni unilaterali ad opera del datore di lavoro volte ad
aumentare il guadagno marginale, sfruttando le capacità acquisite nel
tempo dal prestatore206.205 S. Bellomo, La retribuzione, in Diritto del lavoro, a cura di G. Amoroso, V. Di Cerbo, A. Maresca, Milano, 2009, p. 885.206 F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del Lavoro, cit., p. 253.
95
La retribuzione a cottimo, che per lungo tempo è stato un sistema
molto diffuso di remunerazione della manodopera operaia, attraversa
una fase di crisi di utilizzazione le cui ragioni più evidenti sono
costituite dalla modifica dei sistemi di produzione207.
L’applicabilità del cottimo è infatti vincolata alla organizzazione
del lavoro di tipo taylorista, caratterizzata dalla specializzazione e
ripetitività dei compiti. Mutato il contesto organizzativo delle imprese,
esso trova spazi di applicazione limitatamente a quei settori dove
ancora esiste una struttura organizzativa assimilabile a quella suddetta,
come l’industria tessile e quella meccanica.
Esiste anche un’altra ragione del declino del sistema di retribuzione
a cottimo, ed è essenzialmente di tipo “ideologico-sindacale208”: da un
lato a partire dagli anni 60 si è diffusa una aperta ostilità verso il c.d.
“super-sfruttamento” conseguenza dell’applicazione del cottimo,
dall’altro si è registrata una spinta egualitaria per il livellamento delle
retribuzioni.
I mutamenti dei contesti produttivi hanno comportato il declino del
cottimo e la diffusione di nuovi sistemi retributivi incentivanti che
hanno aperto la strada alla c.d. retribuzione variabile (v. par. 5).
3. Sistemi retributivi incentivanti: i premi di produzione.
A partire dagli anni ’50, soprattutto grazie alla spinta delle
Commissioni interne, si diffonde nella contrattazione aziendale un
nuovo strumento di incentivazione salariale costituito dal premio di
207 Cfr. M. Roccella, Manuale, cit., p. 364.208 Cfr. A. Alaimo, Sistemi partecipativi, cit., p. 24.
96
produzione, con il quale il cottimo convivrà e dividerà la fase di
declino209.
Quale forma retributiva incentivante, il premio nasce per aumentare
la produttività del lavoro con la promessa di una partecipazione ai
risultati aziendali in termini di aumento del salario percepito210.
L’atteggiamento delle parti negoziali rispetto ai premi di
produzione è molto diverso a seconda del livello in cui esse operano:
la Confindustria e la Cgil non li gradivano temendo la diffusione di
trattamenti economici differenziati la prima, e la proliferazione di
tendenze corporative la seconda, mentre la Cisl era più possibilista
sulla opportunità di prevedere nel contratto nazionale il
riconoscimento della facoltà di negoziare i premi a livello aziendale;
contrariamente, a livello decentrato, le organizzazioni dei lavoratori in
fabbrica e le grandi imprese, ostili all’accentramento delle politiche
salariali, trattavano sempre più spesso le condizioni per l’erogazione
dei suddetti premi211.
Con la diffusione estesa dei premi di produzione nei contratti
aziendali degli anni ’70 si è verificato un mutamento di fatto della
funzione dell’istituto, che venne sempre più utilizzato al fine di
recuperare la capacità di acquisto dei salari ed erogato a prescindere
da aumenti della produttività e come compenso fisso in cifra identica
per tutti i lavoratori212.
Dopo il periodo di forte diffusione negli anni ’70, nel decennio
successivo si è aperta la fase di declino dei sistemi incentivanti di tipo
tradizionale, successivamente certificata nel Protocollo del 1993, e
209 Cfr. A. Alaimo, Sistemi partecipativi, cit., p. 21.210 F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del Lavoro, cit., p. 258.211 Cfr. A. Alaimo, Sistemi partecipativi, cit., p. 22.212 F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del Lavoro, cit., p. 259.
97
determinata dall’introduzione di erogazioni effettivamente legate a
parametri misurabili di produttività e redditività aziendale calcolata
sulla base di indicatori tecnico-economici come il fatturato, la qualità
del prodotto, il margine operativo lordo, ed attribuita solo al verificarsi
della condizione del raggiungimento degli obiettivi programmati213.
L’impegno delle parti sociali e del Governo, sancito nel Protocollo
del 1993, per una politica dei redditi concertata a livello centrale e
coordinata a politiche monetarie sostenibili allo scopo di mantenere i
salari adeguati al costo della vita, non lasciava spazio a miglioramenti
retributivi stabiliti a livello aziendale che non fossero legati ad
aumenti di produttività, in modo che si evitassero spirali
inflazionistiche e si consentisse la partecipazione dei lavoratori ai
risultati dell’impresa rendendo effettiva la funzione incentivante.
Pertanto il sistema di relazioni industriali sembrava muoversi verso
sistemi retributivi incentivanti di tipo partecipativo, basati sulla
redditività aziendale214, anche se inizialmente, pur apprezzandosi la
novità, si osservava come l’entità delle voci retributive legate ad indici
variabili fosse contenuta215.
4. Sistemi retributivi incentivanti: la retribuzione variabile e i
premi di risultato.
213 M. Roccella, Manuale, cit., p. 364.214 Cfr. A. Alaimo, Sistemi partecipativi, cit., p. 23.215 M. D’Antona, R. De Luca Tamajo, La retribuzione ad incentivi: introduzione, in Dir. rel. ind., 1991, 1, p. 5.
98
Per retribuzione variabile si intende la quota, sul corrispettivo totale
percepito dal prestatore, calcolata sulla base di indici estrinseci al
lavoro come la produttività o redditività dell’impresa216.
L’affermazione dei premi di produttività e di redditività quale
principale forma retributiva incentivante è conseguenza della esigenza
di partecipazione ai risultati d’impresa e di flessibilità dell’industria
post-fordista.
In particolare la funzione incentivante dei premi di produttività, con
cui si consente al lavoratore di partecipare ai risultati di impresa
determinati da prestazioni virtuose, risulta evidente dagli indicatori
utilizzati (qualità e quantità del prodotto, percentuale degli scarti,
risparmio dei costi) che ricadono nella “sfera di dominio e controllo
dei lavoratori”; mentre è evidente la funzione di flessibilizzazione nei
premi di redditività dagli indici (fatturato, rapporto tra costo del lavoro
e valore della produzione, risultato di gestione, margine operativo
lordo, utile di gestione) in cui il risultato prescinde da condotte del
lavoratore e dipende da scelte strategiche e condizioni di mercato sulle
quali non può agire217.
In entrambi i casi può sembrare che il sistema retributivo variabile
si sottragga alla regola della corrispettività: per i premi di redditività
ciò risulta evidente dalla circostanza che gli indicatori sfuggono al
controllo del lavoratore e dunque la retribuzione variabile è sciolta
dalla prestazione. Mentre per i premi di produttività, la percezione
dell’aumento salariale è incerta nell’an e nel quantum perché non
dipende dall’utilità della prestazione del lavoratore, come evidente per
i premi collettivi, in cui la produttività è valutata con riguardo alla 216 M. Roccella, Manuale, cit., p. 364.217 Cfr. F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del Lavoro, cit., p. 260.
99
prestazione di tutti i lavoratori dell’impresa o di una parte ben
identificata di essa.
In realtà il carattere della corrispettività non viene meno ma per
verificarne la ricorrenza occorre rimodulare gli indici tradizionali.
Infatti i premi di produttività remunerano l’utilità della prestazione
in relazione al risultato ottenuto mentre i premi di redditività non
determinano un aumento della retribuzione svincolato dalla
prestazione ma rivalutano la remunerazione della prestazione in
relazione ai risultati dell’impresa218.
In altri termini, analizzando con approccio relativistico gli incentivi
di redditività219, e dunque prendendo in considerazione esclusivamente
la parte variabile della retribuzione, poiché manca ogni relazione tra il
facere e l’obbligazione retributiva, potrebbe ritenersi violato il
principio costituzionale della proporzionalità. Tuttavia, l’obbligazione
retributiva deve essere considerata complessivamente come
comprendente tanto la retribuzione variabile quanto quella fissa.
Perciò fintanto che la componente variabile non assuma rilievo
preponderante potrà ritenersi sussistente una corrispettività tra
l’obbligazione del prestatore e del datore di lavoro, nonché rispettato
il principio della proporzionalità220.
Superata la questione di una possibile violazione del canone della
proporzionalità alla condizione che mantenga una posizione centrale
la natura corrispettiva dell’obbligazione retributiva, resta da capire se
l’eventuale compressione della retribuzione in esito ad eventi che
sfuggono al controllo del lavoratore possa determinare una violazione 218 Cfr. M. D’Antona, R. De Luca Tamajo, La retribuzione ad incentivi, cit., p. 7.219 Cfr. L. Zoppoli, Nozione giuridica di retribuzione, incentivazione e salario variabile, in Dir. rel. ind., 1991, 1, p. 32.220 Cfr. E. Gragnoli, Retribuzione ad incentivo e principi costituzionali, in ADL, 1995, 2, p. 224.
100
del principio di irriducibilità della retribuzione desumibile dall’art. 36
Cost.
In realtà si fa osservare che tale principio riguarda esclusivamente il
criterio della sufficienza e pertanto finché permane una relazione
corrispettiva tra prestazione e retribuzione, determinata nella sua
quota fissa in misura sufficiente, non può ipotizzarsi alcuna rilevanza
della questione221.
Pertanto, finché sussistono le condizioni esposte, possono ritenersi
superate le questioni di costituzionalità dei premi variabili, anche nella
forma degli incentivi di redditività.
Superati i problemi di legittimità costituzionale, con il Protocollo
del 1993 sembra aperta la strada ad una reale diffusione della
contrattazione decentrata, in particolare di quella aziendale, e dei
premi, che ne costituiscono l’oggetto principale. Tuttavia le ricerche
hanno dimostrato la limitata diffusione della retribuzione
incentivante222.
Le ragioni di una scarsa diffusione sono molteplici (cfr. Cap. II, par.
4), alcune anche legate alla particolare congiuntura economica che ha
determinato la scarsezza delle risorse da destinare alla redistribuzione
attraverso gli incentivi. Tuttavia tra essi non si può ignorare il dato
della “convergenza fra le preferenze delle imprese e dei lavoratori” ed
in particolare la resistenza di questi ultimi ad accettare la possibilità di
221 Cfr. E. Gragnoli, Retribuzione ad incentivo, cit., p. 224.222 Cfr. P. Casadio, Contrattazione aziendale integrativa e differenziali salariali territoriali: informazioni dall’indagine sulle imprese della Banca d’Italia, in Mezzogiorno e politiche regionali, Roma, 2009, p. 93, in particolare “si è registrata una scarsa diffusione dei contratti aziendali, specie tra le piccole imprese e nel mezzogiorno. I premi di risultato variabili con le performance, adottati in gran parte dalle aziende già coperte da contrattazione aziendale, sono stati pagati in modo discontinuo e per importi ridotti, limitando la distribuzione dei peraltro limitati guadagni di produttività”.
101
una riduzione dei livelli retributivi nei periodi di crisi della
produttività. Ciò, tanto più nel caso di incentivi di redditività i cui
indicatori sfuggono al potere di controllo del prestatore223.
Si può ipotizzare inoltre che la resistenza alla diffusione degli
incentivi alla produttività derivi anche dalla percezione tra tutti i
soggetti, individuali e collettivi, della difficoltà di equilibrare, nel
sistema di indicatori, l’esigenza di semplicità necessarie a dare
certezza agli obiettivi da raggiungere (e consentire un semplice
controllo ex post) con l’esigenza di tenere conto di tutte le variabili
che influenzano i comportamenti personali e organizzativi224.
Sulla base di queste premesse si può legittimamente dubitare della
riuscita del tentativo di rilanciare la contrattazione di secondo livello e
dunque dei premi di risultato che dovrebbero perseguire la finalità
redistributiva che le è propria.
Da ultimo deve essere data la necessaria rilevanza al fatto che, nella
maggior parte dei casi in cui vi la contrattazione aziendale abbia
previsto l’erogazione di premi, sono negoziate misure incentivanti di
tipo collettivo.
Ai premi collettivi la giurisprudenza prevalente equipara il caso di
concessioni unilaterali di compensi legati alla produttività a tutti o ad
una parte dei dipendenti. Queste concessioni, se presentano
determinate caratteristiche quali la ripetitività o l’assenza di riserve di
revocabilità, vengono qualificate come usi aziendali e, innescando nei
prestatori di lavoro l’affidamento sulla stabilità, sono ritenute idonee a
223 Cfr. T. Treu, Le forme retributive incentivanti, in Riv. it. dir. lav., 2010, I, p 648.224 Cfr. T. Treu, Le forme retributive incentivanti, cit., p 657.
102
rappresentare un fatto concludente con cui il datore si assume l’
obbligo giuridico di non interromperle225.
La giurisprudenza più recente ha mutato orientamento e
abbandonato l’idea che il datore si assumesse obblighi singolarmente
con ciascuno dei percettori delle irrogazioni: secondo il nuovo corso
gli usi aziendali fanno sorgere un obbligo unilaterale a carattere
collettivo che agisce sui rapporti individuali alla stessa stregua di un
contratto collettivo226.
Negli stessi precedenti di legittimità viene anche prospettata
l’alternativa, sul piano della qualificazione giuridica, di considerare gli
usi aziendali come “fonte sociale”.
5. Meriti e premi nel pubblico impiego: cenni.
A norma dell’art. 2 comma 3, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nel
pubblico impiego i trattamenti economici possono essere attribuiti
“esclusivamente mediante contratti collettivi, o alle condizioni
previste, mediante contratti individuali”. Inoltre, a conferma della
rilevanza attribuita all’autonomia collettiva nella transizione alla
privatizzazione, il successivo capoverso prevede che “le disposizioni
di legge, regolamenti o atti amministrativi che attribuiscono
incrementi retributivi non previsti da contratti cessano di avere
efficacia a far data dall’entrata in vigore del relativo rinnovo
contrattuale”. Peraltro è previsto il riassorbimento dei trattamenti
economici più favorevoli con le modalità previste nei contratti 225 Cfr. T. Treu, Le forme retributive incentivanti, cit., p 674.226 Da ultimo v. Cass., S.U., 13 dicembre 2007, n. 26107, in Riv. it. dir. lav., 2008, II, p. 53, con nota di G. Quadri.
103
collettivi, e i risparmi di spesa incrementano le risorse disponibili per
la contrattazione collettiva.
Il suddetto terzo comma pone contiene una norma generale, in forza
della quale la retribuzione è stabilita nel pubblico impiego dal
contratto collettivo, ed una norma speciale per cui, quando la legge lo
consente il trattamento economico può essere stabilito dal contratto
individuale.
Rientra in quest’ultima previsione la fattispecie di cui al comma 2
dell’art. 19 del d.lgs. 165/2001: il contratto individuale che accede al
provvedimento di conferimento dell’incarico, deve prevedere il
corrispondente trattamento economico fissato nei limiti di cui al
successivo art. 24 e può essere integrato da una indennità commisurata
alla specifica qualificazione professionale.
Inoltre le disposizioni di cui agli articoli 40 e 47-bis, come
modificati dal d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, che si collocano nel
solco della “riduzione dell’autonomia della contrattazione nella
regolazione delle retribuzioni” perseguita dalla riforma227, possono
essere considerate norme speciali rispetto all’art. 2, giusta la
previsione di cui all’art. 45228. L’art. 40 comma 3-ter ammette la
erogazione unilaterale in via provvisoria e fino alla successiva
sottoscrizione, di trattamenti economici da parte dell’amministrazione
in caso di mancato accordo sul contratto integrativo. Mentre l’art. 47-
bis prevede che, decorso un termine di sessanta giorni dalla entrata in
vigore della legge finanziaria che dispone in materia di rinnovi dei
contratti collettivi, gli incrementi previsti per il trattamento stipendiale
possano essere erogati in via provvisoria ad alcune condizioni
227 Cfr. T. Treu, Le forme retributive incentivanti, cit., p 677.228 Cfr. L. Galantino, Diritto del lavoro pubblico, Torino, 2010, p. 113.
104
(deliberazione dei comitati di settore e sentite le organizzazioni
sindacali), salvo conguaglio all’atto della stipulazione dei contratti
collettivi nazionali di lavoro.
A norma dell’art. 45, spetta ai contratti collettivi definire, nei limiti
di spesa determinati a norma dell’art. 48 e inseriti con apposita norma
nella legge finanziaria, non solo i trattamenti economici principali, ma
anche quelli accessori che devono essere collegati alla performance
individuale, alla performance organizzativa con riferimento
all'amministrazione nel suo complesso e alle unità organizzative o
aree di responsabilità in cui si articola l'amministrazione, all'effettivo
svolgimento di attività particolarmente disagiate ovvero pericolose o
dannose per la salute.
Il comma 2-bis prevede inoltre che le risorse che possono essere
destinate a premiare il merito ed il miglioramento delle performance,
sono solo quelle determinate dai contratti collettivi nazionali di lavoro,
nei limiti compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica. La
conseguenza della disposizione di cui al comma 2-bis è che le
amministrazioni pubbliche non possono sottoscrivere contratti
integrativi in contrasto con le previsioni del contratto nazionale, ed in
ogni caso, giusto il controllo a valle disposto dal titolo V del d.lgs.
165/2001, che comportino oneri maggiori a quelli concessi dagli
strumenti di programmazione di ciascuna amministrazione229.
La contrattazione collettiva resta dunque la fonte della disciplina
del trattamento economico dei dipendenti della p.a., pur con una
229 R. Santucci, P. Monda, Valorizzazione del merito e metodi di incentivazione della produttività e della qualità della prestazione lavorativa, in Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, a cura di L. Zoppoli, Napoli, 2009, p. 291.
105
rilevante limitazione dell’autonomia a seguito della riforma del 2009
dovuta ad un aumento del tasso di regolamentazione legislativa230.
Inoltre il d.lgs. opera da un lato la centralizzazione delle regole
contrattuali relative alla retribuzione accessoria, sottoponendola ad un
sistema di valutazione delle performance stringente, e dall’altro la
funzionalizzazione della contrattazione integrativa alla efficienza e
produttività a norma dell’art. 45. Comma 2231.
Per quanto concerne la retribuzione accessoria, la riforma, che pone
al centro del processo di ottimizzazione della produttività e della
efficienza il sistema di valutazione del personale, sembra muoversi
verso una riduzione o esclusione del trattamento per quei soggetti che
vengono collocati più in basso nella graduatoria di cui all’art. 19 della
l. 150/2009232. Questa possibilità, palesata da una interpretazione
letterale dell’art. 19, viene tuttavia smentita nei fatti dalle intenzioni
manifestate dalle parti con l’Intesa tra Governo e organizzazioni
sindacali del 4 febbraio 2011 ove si legge che “le parti convengono
che le retribuzioni complessive, comprensive della parte accessoria,
conseguite dai lavoratori nel corso del 2010, non devono diminuire
per effetto dell’applicazione dell’art. 19 del d.lgs. 150 del 2009”.
L’efficacia sanzionatoria dell’art. 19, che si sarebbe concretizzata in
una diminuzione delle retribuzioni accessorie per i lavoratori con
valutazioni negative, viene posta nel nulla: dalla classificazione dei
lavoratori in base alle performance, ossessivamente sbandierata, si
230 Cfr. A. Garilli, A. Bellavista, Riregolazione legale e decontrattualizzazione: la neo ibridazione normativa del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in Lav. pub.amm., 2010, 1, p. 1 e ss.; 231 Cfr. A. Alaimo, La contrattazione collettiva nel settore pubblico tra vincoli, controlli e blocchi: dalla riforma brunetta alla manovra finanziaria 2010, in Lav. pub. amm., 2010, 2, p. 287 e ss.232 R. Santucci, P. Monda, Valorizzazione del merito, cit., p. 299.
106
passa all’azzeramento di qualsiasi differenziazione retributiva. Viene
così portato a compimento il processo di smantellamento della riforma
iniziato con il blocco della contrattazione integrativa conseguente alla
manovra finanziaria del maggio del 2010.
Secondo l’accordo del 4 febbraio, le risorse destinate alla
retribuzione accessoria e soggette al criterio di distribuzione previste
al comma II del medesimo art. 19, sono quelle derivanti dal c.d.
dividendo dell’efficienza, di cui al comma 17 dell’art. 61 del d.l. 25
giugno 2008, n. 112 convertito con l. 133/2008. Vale la pena
soffermarsi ad osservare che le medesime risorse, derivanti dai
risparmi di spesa, avrebbero dovuto alimentare l’erogazione del
premio di efficienza di cui al successivo art. 27 del d.lgs. 150/2009
destinato al personale coinvolto in processi di ristrutturazione,
riorganizzazione e innovazione, dai quali siano derivati risparmi sui
costi di funzionamento delle amministrazioni, oltre che la
contrattazione integrativa233.
Per quanto concerne i premi di risultato, essi formano l’oggetto
principale della negoziazione decentrata. Quest’ultima risulta
notevolmente più diffusa di quanto avviene nel privato234 poiché
costituisce un obbligo per l’amministrazione (salva la facoltà di
determinazione unilaterale in via provvisoria del trattamento a norma
del comma 3-ter, art. 40, d.lgs. 150/2009)235.
Pur non potendosi stimare l’incidenza dei premi di risultato sulle
retribuzioni individuali236, si può ritenere che l’ampia diffusione degli
233 Cfr. U. Gargiulo, La promozione della meritocrazia, in Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, a cura di L. Zoppoli, Napoli, 2009, p. 371.234 Cfr. A. Golino, P. Minicucci, L. Tronti, Le retribuzioni dei dipendenti pubblici. Tendenze e confronti con il settore privato, in Econ.lav., 2008, 2, p. 187 e ss.235 Cfr. T. Treu, Le forme retributive incentivanti, cit., p 679.236 Cfr. T. Treu, Le forme retributive incentivanti, cit., p 680.
107
stessi abbia contribuito alla crescita delle retribuzioni globali dei
dipendenti del p.i., registrata nel periodo compreso tra il 2001 e il
2006237. Tuttavia dall’analisi dei risultati delle ricerche, le quali
rilevano prassi prevalenti di appiattimento delle forme retributive
definite a livello locale unitamente alla distribuzione dei premi in
misura automatica, in modo generalizzato o al più collegato a
parametri rudimentali come la presenza sul luogo di lavoro, si può
concludere che l’istituto sia stato utilizzato esclusivamente per il
recupero dalla capacità di acquisto dei salari reali alla stregua di
quanto avvenuto nel privato.
Al fine di realizzare lo scopo primario della riforma, ovvero il
miglioramento dell’ efficienza e produttività, il d. lgs. n. 150 ha
vietato la distribuzione a pioggia dei premi e assoggettato l’erogazione
degli stessi al “ciclo di gestione della performance”, perseguendo un
obiettivo apprezzabile con strumenti di cui non si è mancato di
rilevare ambiguità e possibili inadeguatezze238.
Si deve osservare, tuttavia, come la verifica della funzionalità della
riforma, prima ancora che la sua utilità possa essere dimostrata, rischia
di essere compromessa, o quantomeno rinviata, per effetto del blocco
della contrattazione integrativa determinato dalla manovra finanziaria
varata nel maggio del 2010. Infatti l’art. 9 del d.l. 31 maggio 2010, n.
78, convertito con l. 30 luglio 2010, n. 122, in funzione di
contenimento della spesa pubblica, dispone che “per gli anni 2011,
2012 e 2013 il trattamento economico complessivo dei singoli
237 Cfr. A. Golino, P. Minicucci, L. Tronti, Le retribuzioni dei dipendenti pubblici, cit. p. 197.238 Cfr. S. Battini, B. Cimino, La valutazione delle performance nella riforma Brunetta, in Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, a cura di L. Zoppoli, Napoli, 2009, p. 255 e ss.; B. Giorgio Mattarella, Incentivi e sanzioni nel pubblico impiego, in Riv. trim. dir. pubbl., 2009, 4, p. 939 ess.
108
dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, ivi compreso il
trattamento accessorio” “non può superare, in ogni caso, il trattamento
in godimento nell'anno 2010”.
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