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NUMERO 7 - dicembre 2014
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Irene FrassoldatiLaureata in Ingegneria Edile/Architettura nel 2013 dall’Universita di Bologna. Tesi di laurea in architettura delle infrastrutture e del paesaggio “Rinaturalizzazione delle Arte di Cantiere Dismesse”, relator: Prof. Luigi Bartolomei, Corelator: Arch. Alberto Bortolotti.
L’Impronta Ecologica dei Paesi Industrializzati
Comparare l’impronta ecologica delle diverse nazio-ni e quella procapite per ciascuna nazione ci permet-te di visualizzare una problematica spessosottovalutata: il nostro sistema di produzione e di consumo si basa e sulla disuguaglianza. E’ necessa-rio lavorare su questo punto, perchè la condivisionedella responsabilità e delle conseguenze a livello globale degli effetti non può che passare attreverso una livellazione anche delle possibilità. Servirebbero 3-6 pianeti uguali alla Terra per per-mettere di sostenere uno stile di vita come quello di un abitante del Nord America a tutti gli abitanti del Pianeta.
The Ecological Footprint of Industrialized countries
To compare the carbon footprint of different nations and the per capita for each country allows us to visualize a problem often underestimated by our systems of production and consumption, which is based on inequality. There is a need to work on this problem because in sharing the liability and the global consequences, the effects that cannot conti-nue, reveals a series of possibilities. It would require 3-6 planets equal to Earth in order to sustain a lifestyle like that of an inhabitant of North America in order to supporst all inhabi-tants on Earth.
Parole chiave: importa ecologica, industrializzazio-ne, Nord America, economie basate sul petrolio, re-sponsabilita socialeKeywords: ecological footprint, industrialization, North America, oil-based economies, social respon-sibility
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DIETRO ALL’IDEA DI UN PROGETTO LOCALEIl movimento analitico dal globale al locale ov-vero dal generale al particolare è tipico di ogni processo conoscitivo strutturato e caratteri-stico dello studio di tematiche urbanistiche e progettuali, esso consente con un andamento tipico della meccanica fotografica di delineare contorni più nitidi al prezzo di ridurre il campo visivo. Questa struttura gerarchica delle in-formazioni corrisponde alla logica della men-te umana, ma mostra possibili debolezze, se il processo si mantiene unidirezionale, nella fase della risoluzione-azione conseguente alla prima fase conoscitiva nella quale essa pro-priamente si cala, il momento della volontà di trasformazione non è sempre capace di sinte-
si tra scale differenti, probabilmente a causa della difficile percezione del legame profondo esistente tra parti apparentemente distinte del nostro spazio di vita. “Il battito d’ali di una farfalla in Canada può scatenare un uragano in Messico” dicono, eppure una reale correla-zione tra luoghi così lontani geograficamente e culturalmente è difficile da concettualizzare: possiamo ricordare il monito di grandi teorici, come Gilles Clemént, ma forse le implicazioni delle loro espressioni non superano la propria forza poetica. Cosa significa mantenere un “occhio planetario”? Questa espressione ser-ve al coraggio, per non rinunciare a intrapren-dere, anche a piccola scala, progetti di cam-biamento che tengono conto delle dinamiche
in atto nell’ecosistema-pianeta. Si suggerisce di assecondare una visione unitaria del globo come sistema isolato che può contare solo su energie interne finite e limitate, una immagine della biosfera, fragile e dalle determinate ca-pacità di riproduzione, che l’azione antropica può far fruttificare o disperdere. In una con-tinua analogia con un Eden perduto o creato, l’uomo, da ospite a giardiniere, da creatura fra creature a demiurgo, si deve assumere la re-sponsabilità della cura del suo luogo di vita. Molti esempi dal passato ci suggeriscono che l’autodistruzione è a portata di mano, l’avver-timento viene dal declino delle civiltà che non hanno saputo interpretare le leggi deboli della natura, come accadde agli abitanti dell’Isola di
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Pasqua, che, portando avanti uno stile di vita e una crescita della popolazione al di là dei limiti dell’esiguo spazio che avevano a dispo-sizione, arrivarono a distruggere l’ecosistema tropicale della loro isola, tramutandola in un luogo senza alberi, senza biodiversità e senza risorse per il progresso di una civiltà evolu-ta. Il concetto del limite è fondamentale per comprendere come le azioni locali debbano sempre tenere presente che nessun supporto, nessun aiuto, potrà eternamente intervenire da imprecisati luoghi lontani per sostenere quello che è insostenibile. Il Nord del mondo, il sito che dalla globalizzazione dei mercati e dalla velocità delle comunicazioni ha ricavato il massimo dei benefici, non sa di questa fini-
tezza: vede le merci, i prodotti agricoli, i ca-pitali, affluire continuamente al suo onnivoro consumo e non riflette sull’origine, sulla di-sparità e sull’ingiustizia che li hanno prodotti. Una visualizzazione che è stata inventata per portare alla coscienza di questo fenomeno è quella delle impronte ecologiche: una serie di calcoli, molto astratti in realtà, che permette di associare a una qualunque identità fisica, persona, città o stato, lo spazio naturale ne-cessario per il suo sostentamento. Emerge così una disparità intrinseca al sistema e ir-reparabile, risulta infatti chiaro che il nostro stile di vita, il nostro benessere, non è genera-lizzabile, se infatti tutti gli abitanti della Terra avessero il comportamento di un americano
o di un europeo i limiti del pianeta sarebbero già stati superati: servirebbero all’incirca tre pianeti identici al nostro per pensare di diffon-dere il nostro livello di consumo. Oltre all’in-giustizia evidente anche il degrado ambientale ci suggerisce che il sistema è sottoposto a una pressione che non possiamo permetterci, gli scenari che gli scienziati propongono in rela-zione al cambiamento climatico, dovuto all’e-missione di gas che aumentano l’effetto serra, come anidride carbonica prodotta dai combu-stibili fossili, sono apocalittici e i risvolti sono già visibili nell’intensificazione dei fenomeni atmosferici più distruttivi, come le tempeste tropicali e gli uragani. L’uso dei combustibi-li fossili che ha costituito la base del nostro
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sviluppo nell’ultimo secolo, permettendo di raggiungere una quota di energia procapite impiegata senza precedenti, è anche alla base dei cambiamenti sociali, ambientali e mentali che renderanno progressivamente invivibi-le il nostro pianeta. Se è vero che il petrolio costituisce l’essenza stessa della modernità, essendo ciò che ha reso possibile il nostro progresso sociale e quanto ha dato forma alle nostre città, in termini di dimensione, densità e dispersione, è conseguentemente urgente rendere le sue cattive implicazioni una guida nello sviluppo futuro dei nostri insediamenti. Un’altra notizia, al contempo positiva e allar-mante, viene dalla comunità scientifica: l’an-nuncio di un prossimo picco nella produzione
petrolifera mondiale, che renderà questa ri-sorsa così fondamentale per i trasporti, l’agri-coltura, la produzione industriale, estrema-mente costosa, perchè soggetta a un regime di progressiva scarsità, per cui sarà impossi-bile soddisfare interamente la crescita della domanda e quindi la produzione sarà ripartita in base alla possibilità monetaria di ciascuno di vincere la competizione per ottenerla. Avere impostato così profondamente la vita su una unica risorsa, nociva e progressivamente in esaurimento, non è stato saggio nè lungimi-rante, quello che occorre ora è pensare a una transizione verso un nuovo sistema di approv-vigionamento, immaginando le nostre città come organismi che richiedono cibo, acqua,
energia, merci e che eliminano rifiuti. Esse devono diventare progressivamente sempre più capaci di gestire autonomamente e local-mente questi bisogni. Il tema della decresci-ta felice invade il dibattito ambientalista, au-spicando modelli auto-sostenibili e di minori consumi come unica alternativa a fronte della progressiva perdita di controllo sulla logistica del soddisfacimento delle nostre necessità e sull’etica delle nostre comodità. La dimensio-ne locale è l’unica che non rischia di sfuggire irrimediabilmente alla nostra supervisione rendendoci vandali inconsapevoli. Essa viene proposta come luogo del cambiamento an-che in ragione del fallimento delle politiche di cooperazione internazionale; chiaramente
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L’Impronta Ecologica dei Paesi Industrializzati
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NUMERO 7 - dicembre 2014 I. Frassoldati
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senza una diffusa sensibilizzazione al tema, sfide come quelle del cambiamento climatico o della denutrizione, non possono essere ri-solte, e la percezione della incompatibilità e della frammentarietà delle posizioni non può che innescare comportamenti di sfiducia e amplificare un egoismo corrosivo. La socialità locale è dunque il catalizzatore di una allean-za possibile tra le persone, il luogo e un’idea di trasformazione: non è un caso vedere nella proliferazione di iniziative bottom-up un en-tusiasmo che la politica aveva dimenticato da tempo. La dimensione locale è quella in cui è possibile collocare una sintesi, un’ecosofia, dell’ecologia mentale, dell’ecologia sociale e dell’ecologia ambientale, le tre ecologie che è necessario armonizzare secondo la teoria di Felix Guattari. Le scale dell’analisi dal pianeta all’orto di casa devono convivere nel progetto locale, che guarda a un mondo in cui i flussi materiali, cioè di beni fisici, si dovranno pro-gressivamente localizzare, mentre quelli im-materiali, le idee, si faranno sempre più vola-tili e verranno condivisi in una realtà sempre più globale.
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