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Titolo: Marina Pizzi - Inediti
Testi di: Marina Pizzi
Fonti: Il cantiere delle parvenze, 2010
Il presente documento non è un prodotto editoriale ed è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.
Poesia2.0
MARINA PIZZI
IL CANTIERE DELLE
PARVENZE
1.
la mia sciarpa è un tragitto lontano
uno scalmanato talamo di nebbia
dove è agreste il cielo e logica la tana
di perdere la vita.
rotta anemia della città calva
senza nidi di cuccioli cantanti
né elemosine badanti il veritiero
abbraccio. s’intani il mio straccio
che non vede né attende nulla.
la maestria dell’alba bada a non
gridar di troppo le rondini bambine.
le grotte scialbe come fandonie
dove ristagna il secolo al petrolio
espanso. la fatica senza saliva
delle mie abitudini-arsure su
per l’acredine di attese morenti
nel trotto della pupilla impazzita.
il lutto m’incolla la salsedine addosso
questo proverbio che non serve
a consolare la resina del sangue.
2.
quale sarà il chiodo che mi sonnecchia dentro
che vitalizza l’edera della malasorte
che si diverte con un attizzatoio
verso la zattera che mi malmena
tetra malizia corvo miliziano?
invano l’azione del tubero rinasce
al cielo, qui la penombra perpetua
della slitta chiama l’oasi ad appassire.
quale paese d’asma andrà vicino
al rantolo? perché qui le smanie
delle serve vogliono morire
di un attacco immune, colpo sordo
non imposto randagismo.
3.
falò di stoppie codici di cenere
queste livree già prospere di nulla
elemosine cortesi. così resiste
l’alibi del bilico, la cornucopia placida
del gatto musicale. osteria museale
il tuo sguardo non sotto teca ma
veliero darsena. ho comandato l’astio
di non venire approdo di se stesso, ma
diluvio t’amo modo d’avvento-accento
ludo per sempre. brevetto di comari
la mattina quando s’impara a venire
al mondo sopra faccende di dondoli
senza doli. dove sei tu re minimo
e prezzemolo, ambulacro e molo
per remi divini. aiutami a campa’ con
questi nodi duri fatti di gessi mortuari.
4.
ipotesi di cervi mancarti
sotto lo zero che mi campa
capanna di brevetti andati a male.
la spalla del silenzio è una bestemmia
darsena, una spallata al sudario
che non vuol morire la rendita
del datario. dove non sono vergine
m’incanalo lungo gli stemmi che
non danno affetto. io poveretta
la militare stoffa che fonda ruggini
e cipressi. litigio di remore la stasi
di non concepire più. in vena ho un
amore di distanze intatte meraviglie.
ora m’acquatto e ti dimostro strenne
queste braci di quaderni di civiltà
dismesse.
5.
attorno alla galassia del distacco
piango la rotta di non saper la rotta
né la perfetta eresia del vento.
gerundio di comete l’inutile avvento
quando la rupia è la miseria del certo
lo sciacallo avventa lo sparviero.
la minuzia della rondine commuove
le ventole che aizzano il fuoco
per la felicità comunque.
in breve sullo scempio del ristagno
la malinconia del cerchio non è divina
né pone eclisse una calma darsena.
6.
libagione d’àncora non so lasciarti
nel losco del tombino della storia.
7.
agorà del sale
palude della gola
dove il ludo è logica del gelo
e la festività dell’ombra
abbraccia le penombre
e le novene delle sabbie mobili
con la paura sempre erettile
e le stagioni sporche
nel credito del pane.
fragilità del sacro strazio
startene ridotta
zona di farfalla
insidia della falla.
il matrimonio sragiona alla parete
del fatuo nome, questa radura
patrimonio d’scia.
8.
immortalità sacrale l’astuccio della nebbia
dove la lite è un fato di ristagno
e si comincia a sgretolare il torto
della faccenda d’ascia.
criminalità dell’angolo
custodire a rovescio la camicia
sotto il gelo della storia darsena
e la cometa corrotta in un sasso.
dolce stile anemone di bello
questa versione tattica del vivere
didattiche le curve dei mattini.
9.
nubifragio del tatto starti a guardare
sotto le unghie che scavano nei baci
unguenti di salive per le resine del dare.
scompiglio a mare aperto l’inguine
questo pagliaccio che stempia il cuore
e nuda le maree con uno slancio d’epoca.
intruglio a fato avvinto il tuo ristagno
stazione sul convulso pernottare
arie palustri e darsene di lutti.
gerundio del pane nero questo discapito
nottambulo balordo acre di flutto
dove annerisce l’apice del fato.
10.
galateo di stracci rupe nel petto
stare a sentire le prigionie d’angolo
dove si sfama l’attrazione darsena
se la salsedine stempia le persiane.
11.
il gallo della foce
è senza canto
né giostre da sedurre.
qui resta il muto occaso della notte
senza delta d’abbraccio
né cintole strette la vita.
il commando dell’alamaro
è la paura darsena
la rotta di concludere con smorfia.
agreste la conchiglia di lumaca
seduce la scia, incrocia il singhiozzo
al sorriso. là la ventola del baro
aumenta l’onere senza onore.
ti bacio con le carezze degli esclusi
le voglie amare dei reclusi
le stimmate di guardia contro il portone.
vedi tu di amarmi con le malizie
di ciechi dove nessuno è vivo.
12.
in te nel decesso avvenuto
disincanto magnifico vederti
guardarti smotivato nelle palpebre
chiuse. morto così mortale da far
paura questo tuo linciaggio senza
pietre. è un peccato sapere quale
flusso ti calcò nel letto del tuo Ulisse
non più affascinante di un rovo. morto
nel male di maggio trito di rose
la tavolozza bigia dell’accattone
al fondo della vita violata grazia.
dividendo di lettere guardarti
quando il gerundio non permette più
la giostra monumentale la mela minima.
13.
qui nel male che acciacca le persiane
rimanga un verbo al sì contro la caccia
che le ali al terreno incolla
e fa proseliti le meretrici polveri.
qui si succhia un lingotto di dolore
per le scale vuote dove le crepe
spergiurano i diritti delle rondini
in un chiodo d’occaso ho messo il vólto
il viso vòlto al disbrigo di non piangere
le rotte attente al timone timoroso.
in te se guardai la luna piena
era un amore tacito d’eclissi
uno stilema senza abbreviazione.
le mondine superbe delle gestanti
stanno nel verbo d’acqua la vita
la bella vita senza quarantena.
le credenziali nere degli specchi
mettono a lutto le dimagrite stanze
svezzate per spezzare ogni sorriso.
14.
è un secolo che mi ostino a perdere
il posto. e mi oscilla il cuore in un pilastro
lapidato invano. qui la corda della foce
non marcisce, il marmo aderisce
alla lapide già morta. qui il mio contegno
è labile maestro d’asme, una caduta e un lancio
braccano sempre la nuca da abbattere.
le eleganze del ballo non tacitano
il titano del portone che vuole chiudere
ciliegine e pilastri questo stretto sistema
della stempiata arringa che non convince
le regole da ammettere. è già gerundio
il tempo che da sempre progetta le farfalle
che non vengono né le oasi del brindisi
beate. mo’ di calunnia l’apice del cielo
a nulla vale una formazione accademica
per le lentiggini di satana tarato e forte.
annullami la spalla che codifica l’altezza
e le missioni di tattiche benigne
dove la fortezza smuore e smorza
il ponte levatoio.
15.
foschie sul seminato quando l’incontro
è un trovatello d’ascia. qui la cupola
rende stupido il cielo. iettatura d’asma
passare in ospedale per vederti
passare. discorso d’appendice l’urlo
di morire o solo il sospiro rorido del rantolo.
qui s’impiglia l’eresia del fosco
il nano triste tristissimo gigante.
a quale malia porterò la mansione
del secolo? qui sul cornicione della storia
c’è l’emorragia di cadere. non basta l’erta
per sfinire il fianco o la cometa fradicia.
nessuno è indispensabile nel cheto del frutteto
questo zucchero apolide lasciato a marcire
sotto la tetra forca dell’inutile.
16.
qui si scarta il tempo in
un breviario satanico
il corrimano traballante
luciferino l’appoggio
della mano. si è diabolici
per la paura di cadere
di andare a battere contro
la nebbia piena. è un tramortito
nome che ci scorta dentro
le fiaccole dello stillicidio
ciclo assassinante. nella realtà
del muschio che ci rasenta tutti
sta la frottola del primo marinaio
la gerarchia dell’apice in condotta.
in un quaderno di rese e rette vane
la giunonica malizia dell’orologio
quando giocare non simula la vita.
qui si scarta il tempo in
un breviario d’ascia.
un canto sulla soglia del lamento.
17.
languori di paese quando la canicola
langue gli archivi di finestre
e le guardinghe foci del nulla
rimano le giostre con le culle
nemiche di rovi che tramontano
le genie del verbo. con i tetti spioventi
il giramondo guarda in alto così rispetta
il pio pavoncello in mezzo alla piazza
vuota: si lascia guardare tra gli scuri
che vegetano la polvere. il titano del sale
è un orafo paziente dove la vera tana
si fa bivacco di senza patria attivi.
l’elemosina del fulcro chiama la creta
ad allestire un capanno per uova fresche
e la bellezza del cuore è sindrome
d’immancabile fola autrice del fausto
distacco dal corpo dove l’indice muore.
18.
un giorno qualunque in data di catastrofe
mi ferì la questua sparsa sul sagrato
la luna giovane senza la fidanza
di competere con la nenia del cipresso.
meringa di sale il velo della sposa
quando la gara di guardare il vero
genuflette le prassi delle ruggini.
titano di giostrina stare al mondo
con i bambini che tifano la rima
di giorni immensi lussuosi d’arca.
marette di coriandoli vederti
il giorno chiuso d’alamari pessimi
dove i bambini dolgono svegliarsi.
le libertà conchiuse delle foglie
arbitrano liquami di dolori
i morti offesi da un quasi pianto.
così mi va di vestirmi in un nodo
di malta per lapidare il sole
combustione di luce la conchiglia.
19.
crolla la cialda mare di sterpaglia
si fa l’addome antro di responso
verso quel cuore che scodella abissi
resina contumace per le vedove.
di poco talento il varco delle nuvole
chiama quel dove che non fu cortese
verso l’avamposto di coriandoli.
avvento di edicola guardare il mondo
nel guaio della colpa data
senza altezza di accusa. in mano
all’impotenza della cantina si decifri
la lettera d’enigma, il millantato
credito del coma lacerto.
20.
dio mangiucchia le dimore d’alba
dove le prove del baratro si trovano
valenze dell’invano per i profughi.
in una notte di baveri e fiocchi di neve
la cometa fa piangere i vigliacchi
le teste giovanili ancora per poco.
in mano alla bellezza di vederti
resto blasfemo nonostante l’eremo
con la virtù ciondoloni del salice piangente.
con la virtù sciocca dell’estate
voglio i ladroni che spacciano conchiglie
gente dappoco e rantoli di polvere.
21.
in un cielo di scoscese balbuzienti
venne la daga delle scosse eclissi
la vena esangue della gioia vuota.
in mano alle vedute delle stelle
si comportò l’alunno un veritiero
enigma: venne la madre e gli fermò
la nuca che lo alzava in volo.
encomio ad angolo il massimo della gioia
per questo coma che si incolla tutto
verso la staffetta di farsi termine.
tutto si allunga in un eremo di stelle
dove le gioie frugano i dolori
per la gara di fuggire il mondo.
dove dappresso una storia vedova
il gran sentiero di perdere le staffe
con le ginestre che piangono di ruggini.
22.
va via la vita senza ricordo
se il dondolio dell’etimo non rassicura
che ci sia rimedio. un intralcio di
condotto dover sopportare il no.
e la venia ancestrale non serve
a salvare le povere bestiole.
qui è dannato il salario e la vendetta
non serve. si piange il preludio e
l’epilogo. chi resiste è un filino-darsena,
una donna in stato interessante dove
la nebbia frana-sfratta l’orizzonte. qui magari
le gesta delle rondini fanno stupore
per ingrandire un seme di meraviglia.
23.
mi sarà d’occaso il mantice dell’ombra
la bravura di saltare il fosso.
così nel mare se ne andrà la pioggia
per gentili approcci e conchiglie femmine.
mattino mattino la guglia del santo
quando s’inverna per apici pigrizie
e zonzi senza pregi. l’ilarità del mare
è una cometa panica. mentre morivo
in una stanza uncinata a discapito
del cigno che ci crede almeno all’amore.
il lacerto dell’ombra issa se stesso
verso la sequenza della rovina.
24.
in data di eclissi in data di acrobata
so far centro al modo della scuola
quando s’impara veramente il sì.
ho pettorali di arrivo come incidenti
quando la barca si genuflette al mare
e tutto sembra carico di sassi.
per desiderio di pace piango la fune
che stringe la gola con tattica di nebbia
nella paura che sconforta il calice.
si va così bacando l’obiettivo
questo stradario che non serve a nulla
ma osanna le porte che fanno indice
sotto promesse succulente.
la paura del fato è più che mai ardita
verso i giochi delle lune piene
ma il pube si sconnette dal mondo intero.
la grondaia nubile di rondini
duole la bile delle notti insonni
verso gli scavi che si fanno a letto.
25.
marette di elemosine cullarti
dentro la febbre di guardarti
per sentire il guado che ti voglio.
rovo di rose l’imponente morte
in casa del ciliegio generoso
quando l’avaria bacia le crisalidi.
nulla si placa nel gerundio d’ascia.
26.
amor non ebbi che lasciti di nebbia
salutari ammicchi con le rondini tate.
e le ingerenze del panico sul sale
resero regale il buio. qui in collina
si sposta la vendetta di una qualunque
stanza addetta alla finanza dell’aquilone
che non vola. la falla del bivacco
raccomanda dadi per le giovani
ombre. si recita addosso a un palo
penzoloni senza speranza la cinta
della censura. qua si sta a casa con
l’aureola dentro un cassetto e il peccato
mortale nel pugno della resistenza non
condivisa.
27.
irata pioggia
bacca di nessuno
sarabanda d’arresto voler vivere
cadenza d’àncora la darsena
vitale sul detenuto.
l’abbecedario al centro della stanza
lucra la guancia in un sorriso
in un commesso di rara scienza.
la luna sfatta a grappoli d’inedia
colpisce le lentiggini del mago
la libertà costretta della falla.
la giacca appesa all’origine del chiodo
sfalda la riva in un agguato
forse senza cuore della cerchia.
28.
tu non sei badato dalle fionde dell’aria
né dal continente che ti ammalia tanto
tanto da renderti atleta di nuoto
per lo stretto da superar tranquillo
nonostante il panico del dado tratto
tra eresie e simboli divieti.
qui la morte in ernie di collaudo
(soqquadro al patrimonio che non c’è)
ha la peggiore fiaccola del tempo
il re disgiunto dal regno e la nomea
del tragico paese con le ceneri
in giogo d’edera. la maretta della darsena
riposi per convalescenze di buon augurio.
29.
la luna è una pozzanghera di nervi
una bacchettona che si rifà il trucco
sotto gli occhi atavici di vivi
in attesa di morire. le lentiggini
del fato non ribellano la pelle
intrisa di giovinezze ipotetiche.
qui la corda salina del costrutto
impiega il tedio di mattoni pagani
per preparare tane senza amore.
le penombre cortesi delle cameriere
offrono letti intonsi asciugami canditi
per un amore in forse. nasce la lebbra
della villania del sole. scorciatoia
d’occaso cadrà il mio petto stanco.
30.
la notte del dispaccio
fu la pertica di morte
la stasi vuota di non imparare.
cumulo tardivo questa gioia
da decesso avvenuto
finalmente in circolo la cenere.
l’avaria del setaccio intasa
l’università dell’equivoco dolente
dove la voce è simbolo fendente.
impara da me che ho singolo il dirupo
e rubo il timone per ingannare il boia
da sotto la recita del nato vivo stagno.
ogni giorno un bastone d’ulivo
simula la storia dell’enigma
per mantenere intatta la cisterna.
non basta il cielo per credere in dio
né la ragione per commettere la favola
di ridanciane oasi o forti simulacri.
31.
come faccio come faccio come faccio
a scardinare l’ora a rendere ponte quest’an-
nata di fuoco piatta alla cenere. l’ossario
della fronte ha la vena del dolore
l’aria triste di perdere la tastiera
con la visuale stramba. in meno di un centesimo
ti rido la figliolanza dell’acrobata
badato dalla resistenza dell’equilibrio
al brio sciupato della rotta nuda
senza bussola. la sola strofa che potrà
servirmi sia la foggia giunonica del
bacio la cialda della giovinezza in pantofole
per vezzo. in realtà la carie non è avvenuta
ancora e la bellezza è la porcellana del
secolo, vizzo semmai lo stradario della
stazione. è qui la bara della tana quando
fu dolce cedere le zampe per agguantare
il sonno con la cometa sul lucernario. mo’ è
rasoterra restare per resistenza e tento.
32.
nel lutto che fa cipresso la mia stanza
chiamo la rotta rorida di sangue
per un segugio buono da ingrassare
per il palio d’origine. qui non basta
la tresca d’alambicco per mostrare
la falla. l’inguine atavico del dubbio
ha circonferenze d’abaco numerico
senza fendere la rotta. qui s’incolla
la nomea del peso verso lo stolto
crollo. è già oggi che vado a
morire da sotto il pendolo del dolo.
la voce fatua della tua disfatta
insegue fasti di delirio in indici
manomessi. qui sconnesso il rito
della sfinge simula chissà.
varietà del sale la scalea del sogno…
33.
la lira giovane del compianto acrobata
è caduta saltandosi le corde.
la collana dell’infanzia
in onda con la sacralità del veto.
giunonico potere delle ginestre
nel dirupo cronico del maggio.
rigagnolo di stoppie questo resistere
calibrato dal rango della polvere.
al limite del sacco la barriera
dà muscoli al pianto alla condanna
di erigere scavi per possenti
dighe. la cara madre del caso
scimmiotta bambine cattive
verso le tegole del baro onnipotente.
minuscolo l’encomio della falla
uccida il diavolo del verso, prigioniero
libero.
34.
non resta la palude che un gentile accenno
ti rimanda a scuola la meraviglia
di capire l’antefatto e lo stilema
entrambi fratelli della rotta
verso il coriandolo reciso.
la musa dell’abaco ti dice
di tornare al ventre della sapienza
dove la madre è un tondo di sottana
e l’alamaro reduce di guerra.
in fondo alla cantina del tuo abito
abita la spocchia di sentirsi vivi
soltanto dalla resina del sale.
un silenzio di corda dà l’anfiteatro
del piangere. si spreca amore
per un cortile corto cieco di rondini.
non resta che un saluto errabondo
dove l’origine giochi a far di scarto
finanche una cometa di volontà.
assale amore l’erta del commiato
nulla basta a fabula di stelle.
35.
notiziario d’addio fremere le onde
e le chimere in branco sono asfittiche
bambine di colloqui vanitosi.
la lettera marina delle comari
non salpa Ulisse né il partigiano.
male ti dico il fatuo delle stelle
e le ciliegie amare della scorta
da sotto l’elmo della micidiale
guerra. in mano alla stazza dell’acquitrino
gironzolano le penne di non scrivere
che algide vendette solamente.
36.
cruccio e limone riparar le stelle
quando qualcuno illuda di madonna
la colossale ingiuria della frottola.
moria da ieri perdere fortuna
se genuflessa la ridanciana gioia
sibili il sudario di rovina.
marchiata a dito l’anemia del bosco
di resine flesse per l’amore
di conseguita requie. è dì domani
di rendere la spugna verso un sudario
di sola cenere. maretta di soqquadro
imparentarsi troppo con le onde
così venute a emular lo scempio.
in pace o per rivalsa sia perpetuo
l’ardore del diritto di non piangere.
37.
l’alunno della sera
al venerando inchiostro
dell’odissea del dado.
che cosa è accaduto nel nerveo
bastone d’ulivo che rintocca
nel vento la paginetta stanca.
per maestro il guado d’occidente
dove si muore per certo
più della ronda a vuoto
che non incrocia che ceneri.
nel lutto di finestre fatue nulle di te
sta la pena del vortice
il compleanno caduco della bacca
d’esilio. il lamento della cena
quando compare l’orco del tedio.
antagonista il gomito di piangere
l’occiduo amplesso di non avere amante
né l’almanacco in cuore di faccenda.
38.
liquida da me questo dolore in gorgo
questa mulattiera sfinita
che indaga le ninfette delle doglie
sotto il muro che esonda lacrime di polvere.
verrà la mente del velame antico
questa notte demente di agonia
dove è fissato il verbo dell’eclisse
la pattumiera antica della folla
e l’augustale freccia di resistere
impervietà di fato e di ginocchio.
missione dell’agenda stare appuntando
novità e comete per androne
quando a scrivere è solo un solitario
divieto senza fissa dimora.
39.
iride e baraccopoli vederti
dentro il cinema della gioventù
quando era il massimo sgarro
per scoprire la vita
per non drogarsi appunto
e finire sul marciapiede.
bello come una sfinge d’acqua
il talismano di credere
che sia silenzio la pergamena
del dubbio. qui sola a sbrogliarmi
strazio verso la pioggia che ne viene
su più di un santuario quando ne è
il tempo. tu credi che la tenebra sia
lutto, ma quaggiù più del lunedì
di fabbrica non ne conosco altre.
sforma un alamaro che sfoggi la
mia onta e per dirupo il sole. reca
con me l’anemone di mare per una
madre occidua. sta morendo. un’altra
cicogna per le risa dei becchini.
40.
addio di guado amaro
la prospettiva stretta
per la volpe che scava
tunnel per l’altrove
per la vedetta del pane
che vuole la discola sporta
per gli alunni in piena
dove si scantona il vento
si fa di perla il sale.
addio sulla piena del sudario
dove arranca la rivoluzione della nuvola
presa laddove si rimpianga il vento
trito padrone di una giacca fiacca.
41.
indagine al sollievo vederti ancora
anima buona in codice di nebbia.
qui la balaustra che anima il confine
riflette la strada di chi muore
nottetempo in cimasa con le rondini.
il muro gentile della patria
non rallenta la tattica del baratro
anzi si smuove in panico d’eclisse.
la nomea di reggere le tresche
abilita al modo della ruggine
sapere che si smuore solitaria
lite. l’abilità del sale è stare stretto
all’inguine del rantolo. giù di straforo
ho visto un dio pargoletto di sé stesso.
42.
mi si accorcia il teatro vado a rimorchio
nello scempio dell’indice ora ad ora,
altri serpigni casi di patema
quando si annuncia che la noia vive
vicina al pareggio con la cenere.
in realtà la recita dell’angelo
balbetta con i sassi l’impossibile
la lira sporca di liquami d’ascia.
morir di noia come la testuggine
come le bambine delle dune vuote
tradotte dalle furie delle onde.
lo schianto delle vergini è una
marea rossastra, demenziale la gita
con le vertigini. in giacca sfatta sono
a vederti partire senza graffi fidanzati.
mi piace morire con la lanterna in mano
con il gruzzolo d’iride che mi travolge
e mi scontenta al fianco. è avvenuto
che domani mi sveno, mi tolgo i vestiti
vado nuda tra i cipressi che innalzano
i morti denunciando la nuca della carità
svenuta.
43.
in fondo al sale e all’incuria srotolo
questa faccenda che mi dà per vinta
anemia di un patto senza fronde.
agostano il contatto con la lupa
che fa di me una donna sola
con mansuetudine di abisso.
parca animella senza risorse
so il treno che si spaura al vento
i sogni esuli di quaderni elementari.
le brecce delle rendite patriarcali
credono al panorama del futuro.
qui s’incoda la venia delle notti
fra pasquali randagi impauriti
scampati al sacrificio. non ho potuto
dire gol nell’indice del mortale.
nell’atrio che frastuona le finestre
amo l’arringa degli spifferi
le gaie stanze di chi morì da piccolo.
è tutto pesante, va via male.
44.
la noia dell’indice
questo elenco d’asma
contatore lapidario
zonzo del conato
dove la nuca si strozza
e la candela traballa.
scatto d’ira saperti nato
sotto i conati della fronte.
malessere d’essere saperti in falla
nella lunga stazione delle elemosine
con canguri dal marsupio cucito.
45.
non acuire il giorno in un segreto
fa’ di me l’esperto di una conca
canterina e buona come l’infante
ridente alla materna ugola.
le travi delle giornate sono abbracciate
in tanti blocchi negletti
maestà del sale staffile d’unicorno
un po’ così non essere felice
sul dieci del salario di ventura.
46.
le giacche del tuo affanno moriranno
sarai cheto crocicchio di ventura
senza paura tacita gioia
sotto l’emisfero del ponte.
in mano alla sferzata dei secondi
sotto canuti secoli e fondali
la cortesia del palio avrà per te
vittoria. si calmeranno le acque
del canneto per una scia di rendita
l’abitudine di strofinare la roccia
in cerca dello spiritello onnipotente
verso la forza del nirvana in testa.
47.
ho conosciuto l’esule e la vetta
del corrimano all’ultimo piano
dove s’incarna il rito della palla
che scorre lungo il cornicione.
la malattia del rango è una manata
che accerchia nel bavaglio la lusinga
di un patto con la morte.
in questo momento credo che la rondine
riporti il pasto nel becco per i figli vuoti
e le comete rendano balsamo la fronte
dove nessuno più pianga per un appuntamento.
le morie dei calchi sembrano cadaveri
da sotto le palizzate delle coliche
di fraticelli senza monasteri.
così i pazzi si drizzano nel tempio
dell’altare sgombro vacuo gomitolo
di storia fatua.
48.
quale adiacenza d’acqua forgiò l’amplesso
nel verbo vuoto della sfinge nana
se la penuria del bavero nel vento
di nebbia oscurò gli angoli.
nel giaciglio che prospera i seni
c’è il cammino dell’oasi che stana
il travaglio del mare con la luce
nel luccichio del sale la rivolta.
quale condanna elemosinò i frutti
nella genia del male che dileggia
le trombettine ilari del caso ammesso.
a me non torna il conto della scommessa
tanto il divario della trama al teschio
dove si arrende il flusso di marea.
unità del cappio starti a badare
da re fasullo che non sa smentire
le rotte delle nuvole più ginniche.
49.
mi somigliano la minestra e l’insidia
questo miraggio darsena
che scema il senso della resistenza
la malia del sale senza sete.
in te che vivo di penuria e fiele
resta la nomea del fango
il grillo mattutino che poliglotta
inventa le battute per la tana.
così in mare si respira l’onta
di bestemmiare le onde di risacca.
50.
edizioni di siepe poter dormire un poco
sotto il prologo bello del tuo amore
avvistato a vista di vedetta
ladruncolo colpevole di mito
sempiterno vociare tra le leggende
di chissà che gusto per la donna piena.
in fondo ho un aquilone che non sa volare
né fondere le stelle dentro una cometa
ilarità del cielo nudo doloroso rospo
fraterno di brontolii senza senso.
51.
Il volo
accorri all’eremo del salto
fai volarti per bene
oltre le manciate del riso beneaugurante
le stizze dei bambini che non possono
emularti con le stesse birbe.
là si estende il sillabario del dado
l’affresco bello e il musivo ordine
dell’aria di traverso dove non temi
le rondini che schivano a paradosso
i cornicioni immobili. le premure
dell’abaco non daranno aceto
né balbuziente la rotta dell’asta
ti porterà di sotto, ma oltre fionda
per la schicchera del volo il tuo sempre.
52.
è la meringa nera quando tu ti allontani
fato sugli occhi che si prestano ai muri.
53.
si va a camminare
per mia madre è un polpaccio di cemento
dove si placa la mina dello sguardo
e l’elemosina guadagna una caduta
panica. in una rotta di alamaro vidi la spada
passata sulle terme del poeta
a rovinar vacanza. il periglio del marsupio
ruzzola se stesso verso il rivierasco scopo
di scovare il lutto della zolla e la favolista
stazione del chissà. la giostra della calunnia
ti sarà incompetente, salvo il fatuo avvento
della marina d’onda sotto il portico cortese.
54.
nella bara è chiusa la fiaba
il fuoco non la connette
per liberare la cenere
resta tatuata bolla di bagaglio
verso un malessere da cominciare
libero comunque di soffrire
l’entusiasmo della balera comica
quando da ragazza tua madre smussava
le radici del cancro. la giravolta del panico
restituisce un gioco contro il coma delle onde,
le gerle timide del soqquadro quand’eri
bambina e bivaccava amore sotto la cimasa
dello sguardo primo. ora è rigagnolo di stagno
visitare le veneri cattive così giovani
da far vomitare. si decima la ronda,
piange il cannocchiale ferito dalla luce.
qui si gemma un’aurora di guerra
e le persiane non riconoscono nessuno.
55.
la rotta del tranello è stare in barca
con l’egemonia dell’anello che fa vortice
accanto alla gimcana che non tollera
bivacchi con vedute più benigne.
l’era corsara catapulta il sogno
verso il vocativo delle rondini
con il forziere di regalar le stelle.
56.
e tu vedrai di me l’ora asciutta
quando non cava la rondine il suo nido
e tutto muore in un conclave sciatto.
la casa è chiusa per inginocchiare i vandali
questa primizia che fu un’altalena
una smisurata alcova di baci primi.
così sfinisce il mondo la sua specie
questa minaccia languida di sfinge
una cambusa con viveri a bordo.
di te intrattengo la voga e la sirena
questa amnistia vitale quanto un abaco
cortese con le sfingi che non protestano.
57.
piange l’orefice che si pentì dell’amo d’oro
per adescare un povero pescetto
aguzzo solo di comete.
con la morte ai bordi del letto
si avvicinò la broda della stirpe
questa gente che vedi dopo morto
segnata dalla croce che non porta.
in mano all’abaco che gioca con le creature
c’è un avvento che spia per ricontare
tutte le aureole dei furti.
in mano alla transenna della stirpe
parte l’abbecedario del cattivo membro
il botanico fannullone di aver da piangere
chiunque in testa abbia un anello vuoto.
l’anemia del codice è una sabbia
blasfema quanto un antro di vano cuore
del tu entri ma non esci più.
58.
l’unica tenerezza in un caos di addobbi
tu che prometti di non essere vile
sotto l’alcova di tua madre ormai zoppa
tu che tremi l’alunno che non fosti
e le sirene zoppicano per spergiuro.
il ladrocinio del ventre è ormai abitudine
di donne arrese che non sanno il palato
quale che sia la norma per genuflettere
pietà. una solitudine immensa è stata
capita da un intruso. qui mi adagio
in un incavo di stornello per abbeverare
i più assetati. la cavità del sale è un alambicco
di passato. qui s’inverna nonostante il sole
e l’Adalgisa delle donne di servizio
non possono la giara dell’olio fine.
59.
se riscrivi il mondo in un licenziamento
troverai la barba vuota del pagliaccio
la gimcana triste del collega morto
l’ilarità cattiva del dolore
dove la madre è un’oasi di ghiaccio
e la farfalla un’epidemia di lutto.
qui si gioca nel limbo del cratere
per una marea di cancro la furbetta
sabbia. in tutto c’è da piangere chi
venga caduco o brevettato sulla darsena
del senso inavvenuto. non so cantare
la doglia del pascolo davanti alla scogliera
del miracolo del lascito. venero la venia
di farmi eremo soltanto, tanta cordialità
la veglia del baratro dove per simpatia
finirò la cantica del petto con il plettro.
ridere di me è una sagacia nuova
una ventura a rendere la fiacca della faccia.
60.
accorri al frutto che ti darà mestizia
così come il cipresso al camposanto
o la cometa travestita da acquazzone.
appòggiati allo zigomo del pane
momento di rancore d’àncora
il bimbo al sillabario che non spiega.
traduci le gimcane con le fosse
ad attrice la canicola del sale
o le pattuglie in giro di catture.
emergi da te un filo d’acqua marcia
una ciliegia in giro con i còmpiti del lieto
una destrezza ad eremo e calvizie.
incedi con la vanga della gaiezza in gola
una lucertola in fase di scompiglio
verso la creta che ha cuore senza paura avvezza
a se stessa chimera di bestemmia.
61.
in un selcio di naufragio ho visto l’onta
di perdere la vita per un mulattiere
cattivo con il mulo bimbo leggiadro.
qui la casa del Pascoli è un cimelio
infantile quasi una cometa
per liberar le rondini e le campane
in mezzo agli scarafaggi nei catini
da toilette. qui dove il freddo annusa
nei bracieri c’è l’inganno dell’erta di
morire cane nel muso della terra.
62.
una frase di disuso
usa vivere in un ricatto d’ombra
dove la ciminiera è la fata della penombra
per scoiattoli che bramano ciottoli
di buon cibo. un tributo per amore
è un occaso che brancola nel buio
delle storie eccelse di altri. nulla inneggia
la marea dell’alba quando la brina stagna
le farfalle. attendere il sole è una fandonia
alta. così si brevetta il passero morente
la recidiva agonia dell’afa
quando il cipresso non ce la fa.
ad uncino la rotta della siepe
prende in giro l’asilo di bimbetti
al chiasso della gioia ma è la lotta
principiante al fosco. dove si allena
il bavero assassino. qui domani saranno
le sragioni di perdere di tutto.
63.
la lucerna della sera
quando il tarlo incendia
la rivolta del pane azzimo.
l’unità del vuoto
trova cancelli abietti
e per domani è prevista la crociata
di spianare il vento
senza riccioli dispacci.
il baluginio d’avvento
consacra pargoli lietissimi
senza i lutti delle falde acquifere.
l’eredità salina ha sentenziato
gli zuccheri materni. è moritura
l’alpe senza foce. in uno strappo
sul rammendo ho visto morire
il salvacondotto favolistico.
tu non parlerai le lingue crepuscolari
quando le scuole rammentano le lapidi
e le ginestre soccorrono il deserto.
64.
è finito il tempo e la corteccia è vuota
un passerotto cinguetta disperato
dentro la guazza di un postaccio arato.
dimentica di me che fui la folle
baldanza di un tramestio per la gioia
quando le messi si danno ad una ad una.
le corse trappole del male più possente
raggiungono le femmine dell’incrocio
verso le mine della guerra scorsa.
qui s’intromette il vuoto della sfinge
questa calura misera d’esilio
quando le campane suonano le credule.
una ginestra chiama l’eremo di sé
verso le gimcane delle zolle
inopportune al vezzo dell’infante.
65.
sperduta anagrafe della mia nuca
o perlomeno la pazienza di sopravvivere
lungo il sillabario della grafia minuta
la mela storta di perdere la vita.
le tattiche che barano le morse
in fondo sono fantasmi infanti
ilarità del crepacuore.
66.
in un giorno di custodia ho visto il sole
dietro i vetri di una stanza stramazzata
per un alamaro chiuso alla casacca.
era dio un anello di fantasma
una vendemmia senza i piedi dentro
anzi una cometa senza coda.
io mi adagio in un divano difettoso
così l’acredine di morire dentro
la meraviglia di una nave a largo.
amore di stornello starti a guardare
animale del bello sopra le rocce
così cattive da reggerti appena.
la lavagna scolara è andata a sbriciolarsi
dentro il tunnel che la ama poco
e la biblioteca del morto è un depredare
dediche cortesi e pagine intonse.
67.
la fandonia del cielo chiaro
passo di fionda a tradimento
dove la mente è scarto di fede
ruminare bestemmie costa destino.
le ronde del fato povero
costeggiano giare ammaccate
dove il contenuto è giro a vuoto.
gli ammassi delle ceneri vanno a giungla
ma nulla ammette un cimitero d’afa
data la vista di credere l’alieno.
il pazzo del borgo gira alla fontana
credendola madre. le ire del sangue
apologhi doni d’immortalità. difendi
il mio sangue rappreso allo scolio
del rantolo! la genia del palazzo
ha il tranello nel cortile. l’eco a vanvera
della gola del pozzo insegna a tramortire
le misere allodole credenti e credulone.
finiscono le fiaccole senza accendere le rotte.
68.
l’agonia dell’ora occlusa
quando il sale delle darsene si fa
compatto
l’età materna un complotto in atto.
così nel buio delle lune piene
la risacca del mare si fa rantolo
encomio di aggirare angolo la morte.
la folle disparità della penombra
brami la bara di sembrar cipresso
così per applauso al sognare.
andavo a scuola con la cialda in tasca
lo scapito del grembiule troppo lungo
la voglia botanica di crescere
sotto la teca delle meraviglie rare.
fu pastrano d’alito bruciato
questa ciabatta con il male dentro
con lo stipendio sparuto dell’idiota.
invano ad elmo incorniciai la vita
il tunnel ne rimase invitto
e la calunnia un abito da sposa.
69.
donna di scarto mia madre
bella solo di gioventù
mio padre la sposò credendola più giovane
sarta analfabeta.
letargo del cuore visse per cucire
le catacombe dei suoi giorni
aciduli battesimi di vestitini
per bambini in trine di ben altri.
chiuse le vesti in un dì di cecità
quando l’età sorresse il malaffare
della sopravvivenza. in anni d’incantesimo
stette al mondo dimenticando-si. anche il mio
computer si è fatto lento cieco da sempre.
70.
chiarità di baci l’adagio
la luna spenta di capire i morti
nei fuochi fatui a mo’ di girandola.
vengo da te per rispettarti il seno
per la nuca più indifesa della rondine
quando sul tetto del travaglio d’erbe
s’illumina la vedetta della cena
e l’aquila e il gabbiano se la intendono.
dar da mangiare agli affamati è una vecchia
storia calibrata dalla nenia del piangere
sotto le ortiche di chi resta indietro.
il mare è una venuzza di ristagno
rettilineo augusteo del senza fretta.
71.
ti lasci andare o mio amoroso
allo sfaccendìo della corsa
a questo rimorso che sa di oltre mondo
quando le rovine non temono le erbacce
le ciminiere prendono in giro il sole.
è così che le scimitarre degli alieni
sembrano forbici di sarti di alta moda
quando il poeta è una conserva alata
e la marionetta un esule dell’aria.
verrà di me un campionato d’Ercole
così sconfitto! griderà la rondine
la breve alcova di sé. non varrà
per i ciottoli la mensa o il salvacondotto
d’asilo, qui è un tramestio di rantoli
senza salme ancora. tu dimmi tu
quale sarà la venia che cinguetta
l’asilo di restare sottotetto d’amore.
qui non so bastare la cimasa per la salsa
stazione della casa insita al viottolo del bello.
in gioventù lasciai la razione per un cortile
di seduzione verso ogni cena o colazione.
oggi diminuisco le pretese in un pensiero.
72.
in mano all’acrobatico del lutto
tutto rimanda al fragore del mare
alla staffetta di chetare il dado.
in mano alla rondine salata
rimane la rotta d’indurire il tempo
per provare a sconfiggere chi falsi
l’acredine del perimetro per cerchio
il bello di girare sull’io del fare.
73.
gerla di verdetto ho visto il sale
vanitoso di cristalli sotto il sole.
avaria di avanzo resta mia madre
saltata su una mina dentro casa.
corsia di abuso l’abaco del mare
ingordo di sé tanto belloccio
da ripetere lo sguardo. ho avuto
un padre a dondolo che mi baciava
nell’aria. ora è cenere di dolo
come i millenni che non aspettano
nessuno. qui la calura del rancido
ispeziona la cicca del boia
questa canicola perfida di dado.
in mano alla ciarla della rondine
voglio morire blasfema festiva
davvero per davvero madre di zero.
74.
intatto avvento il tuo dolore fisso
questa cometa nera di sopruso
quando la vena è fragile da rompere
e le stampelle perdurano il dirupo.
in coda al gerundio della speranza
resta un bimbo nel dispendio del non amore
quando su tutto vince la canottiera
del detenuto. le teche della notte
ingannano i vampiri questi spergiuri
esuli chissà. in tono alle trombette dell’asilo
non c’è nessuno ormai. quali schiaffoni amano
le vele per amare il mare? quale rotta ammalia
la conchiglia madre? non ho la resina per darti
il mio amore io che ho perduto il talamo
e la scansia. resti per noi la coccola del santo
il buon cammino della ciotola piena
oltre le carestie delle persiane serrate.
75.
è sicuro che pianga con l’acquazzone
nelle tasche questo infernetto di lusso
che è la mia piaga dentro l’ultimo giardino
della città bandita dalle mura. in un sole
indecente senza ombre soggiace abbandonato
il cane del medico condotto, perfido dotto.
le stamperie del sale non rendono le nozze
né le felicità dell’indice promesso.
in un incedere caduco ho preso l’ombra
brava bambina gentile incendio
di un amore precoce che la fa stazione
di un silenzio da sala da attesa
lei esubero di sé albero della cuccagna.
76.
ora s’inciampa in un valico di coma
costretto il mare a sciabolare nuvole
vanitose donne di soppiatto.
vola dal libro un indice divino
una cornucopia quasi di fachiro
intatto come sempre nella favola.
a sorsetti ti evito le frottole
canute delle tarde iridi del sole
picchiatello. la malia del sottotetto
è per difenderti dal tarlo del ciclope
che vuole andarsene dalla toppa della porta.
così non sarà nessuno a farti visita
al tempio che veneri d’incanto
da piccolino quando la madre era giovane.
va e viene la linea della sfinge
quando le donne hanno l’abaco favorevole
e gl’innamorati riposano le truppe.
77.
si scoscese l’abaco in un alterco
di coma. rise la ventura l’ultima
spiaggia. la conchiglia novantenne
finì nella pattumiera. le tempie mortali
delle scorie ebbero un bambino felicissimo.
qui nella culla delle croci d’asma
vivacchia la cicala senza stirpe
il cane abbandonato in cima alla china.
tu patriarca d’ebeti verdetti
hai chiuso il tram di tagliare l’orizzonte
moria d’echi senza senso.
l’industria del verbo nero
chiarìa per estinzione.
78.
finisce il tempo della ciotola divina
quando all’angolo della strada si credeva
di evadere la vita per provar fantasmi
o amori già morti prima di nascere.
qui in realtà sono una povera demente
senza capire perché vado a frottole
lungo i binari che non capiscono niente.
è finito l’eremita del mio avvento
gigante frottola del seno
quando a giocare si gioca per non morire.
il cortile infante delle rondini
chiama sovente i passeri impiccioni
così per giocare con la terra
insieme alle cicale fannullone.
79.
non darmi una rotula d’ospizio
io che cammino con il cipiglio d’essere
ancora la faccenda dell’eclisse
nel ritorno del sole e della luna.
non voglio il trionfo dello sbadiglio
quando le donne fingono di amare
e le maree rotolano risacca.
è così festivo il trancio del tuo nome
che è bello inventarsene il nomignolo
per i sentieri che bruciano incolpevoli.
le vesti delle rondini si conciano a cipressi
per dire che domani ciarlerà la cicala
del caso indefesso. nessun uomo possiede
il permesso di scappare oltre. tu troverai
la nespola contadina di pensare qui
il vincolo chimerico di sballottare i nervi
verso l’ospizio che non funziona più.
80.
mare materno spinosa agave
qui si ristora bulbo di sentiero
la sirena intona il suo Ulisse
mai blasfema sull’apice di rotta.
l’infermo carosello dell’infanzia
dava a credere le ninfe più felici
le rendite blasfeme delle stirpi.
in coda al cipresso più benevolo
resta la cicuta del buon Socrate
abile cristallo che stazza a benvolere
le rotte benemerite del dubbio.
tu amore che resti in quarantena
dimmi la rotta che si presti finalmente
verso le stimmate dei fedeli anemoni.
versa di me la sanguigna stozza
questo pio satellite che vedo
verso lo stato di chi muoia felice.
81.
ho paura ormai non so alzarmi
dal viottolo che lega ferragosto
che spiazza le clessidre nel corridoio
di un uliveto bambino. il brevetto
di vederti è solo un atomo di gioia
una faccenda d’aria per la stirpe
per la progenie d’alba quando la bara
recalcitra. tra l’aspettare e l’andare
in coma il passo è breve, vellutato anche.
quella lunatica forca d’abisso
conosce i tic del deserto. tu non andare
a farti comandare dal verdetto d’indice,
dimmi di te le fratture lente
queste bravate d’ossa senza scheletro.
in piazza sotto il veto della chimera
resta un’ansia che si chiama eclissi
una figlietta buona come il pane.
tu non conosci le ginestre in fiore
dove divertono i grilli le fanfare
del vento megalomane, manata del fato.
82.
si sfinì nell’epos della fossa
alamaro cortese senza guerra
cucciolo sacro con l’ombelico
in mano: si scoprì che il tuorlo
della luce non gli voleva bene.
era distratto dal segreto di piangere
se stesso dentro il letto senza stima
la malizia aurea di un angelo
senza pietà in un attorno falso.
nel santuario il santo è nella teca
la bancarotta dei dadi non sa niente
né la verità corrotta di spartire
un’oasi per caso. sotto la quercia
la svilita casa cantoniera quando
la caccia era la scomunica e la compagine
del lutto un fraintendere l’amore per la corsa
per le fiaccole del mare mai di requie.
abissale la perla di vederti nel condominio
dello zonzo dove lo zero in bocca
dà l’esilio senza concime né rotta in cima.
il diario della sera fa da sfinge al tema
al cipresso fulminato stasi di sé.
83.
il mio brusio è un animo malato
un’ascia su un’incudine
una falcata di trampoli con tarlo.
qui c’è da popolarsi di risa
per piangere davvero finalmente
sotto le spurie recidive trappole.
qui non è bastata la regia del vento
per togliere le arsure delle frottole
da lungo tempo despote.
e poi se mi ricordi il piatto forte
sono l’anemia del mio sudario
questo letto d’asma dove non so più scegliere
che asfodeli per i morti con i dadi neri.
84.
e corre ancora la moria dell’afa
lucertola che festeggia angioli
sotto il cavalcavia pericoloso.
in mano alla stagione del periglio
invento le cicale avvocatesse
tanto per lenire un passato calvo.
tu dimmi ancora quale sarà lo strazio
che mirerà all’esilio finalmente
questo baraccato nome di sintassi
dove s’inchiodano l’aquila e la nuvola.
a Spoleto piansi il primo aborto
la spoliazione dell’anima e del senso
sotto chimere fulgide di chiodi.
in verità l’eredità di stare
somiglia la distanza di non essere
che le palanche lunghe di muratori
armarti nel sudario della stirpe.
in me si conterà la giostra integra
del finalmente gioco senza vestali
né inni per le bettole del caso.
da domani la veglia ti dirà chi sei
se finirà la nebbia dell’occaso.
85.
sarà l’occaso vicino casa,
nulla servirà questo novembre
breviario per la vestigia che non viene.
tu bel Francesco in animo di terra
ami il lupo e la moria del vento
con le maree in abaco di stelle.
qui sotto il silenzio delle siepi
c’è l’abazia della metafisica
il riordino dell’abaco preciso.
con il cordino di chiamarmi appeso
sono il giullare del fulmine-cometa
questa ristretta enfasi del ridere.
invano la repubblica dell’essere
pubblica il cimelio dell’avanguardia
la retta effimera dell’ultimo bambino.
la bilia del gioco di rimando
coincide con la stagione discola
il canticchiare dove sta la rendita.
in mano ti saprò attendere
anemone del fiore che più amo
bazzecola del cielo sulla terra.
86.
cose di addio cose di falena
la luce che inganna l’io di far lena
questa minuscola voglia di morire
da sotto il tetto all’erba quadrifoglio.
sono una nave insita al bagliore
che percepisce il cielo più stellato
le rendite qualsiasi dell’agave.
87.
rimane un viottolo di cicale
un carcerato dietro la grata invoca
caligini per tornare vivo
nonostante le piazze chiuse.
tu domani ti accorgerai di me
con la sinossi di un cipresso fulminato
magnifico nell’orto che concluso non è.
il lago del lutto è una chimera d’asma
una faccenda d’amore nonostante il logo
di sfiaccolar le stelle senza nome.
tu hai imparato a dormire sotto il lago
nella sterpaglia delle rondini malate.
qui si parla d’ingessar le stelle
tanto per cattiveria di stagione di caccia
la venatoria blasfemia del feudo.
è già domani che divento adulto
sotto i cornicioni pericolanti.
domani m’incammino con la croce in spalla
per far diventare bambino un mira lago
senza bontà da dare. sono cattivo
con le bare che si aprono al mio passaggio.
non basta un’aureola per redimere
i monaci che pregano per messa
senza riordino di un mondo incapace.
88.
ho preso le gocce per morire un poco
un addobbo da poco confiscare il ventre
per lenire la zolla che risucchia
la contumacia alla rendita del carso.
tu domani piangerai di me la gemma
quella donnina fiaccola e germoglio
con il risucchio in rendita. e ti ricordo
alma di scoiattolo tutto positivo nella coda
che volve di richiami. nella felicità del monte
un pianoro scombussola le ore per le lucciole
di venere. io ti chiedo di amarmi solo un poco
con le ciotole del ventre che elemosinano
androne il grande verbo, finalmente!
ma già oggi è un idolo di meno
una carcassa al fiume che fa piangere
le generalità riflesse del sole appeso.
89.
qui si cambia la mia vita con l’elemosina
del sale con lo stambecco mite delle rocce.
ride il sommario la rivalità dell’ombra
bravura che sa di travertino e marmo.
tu ritorni fanciullo in un alunno granitico
così siepe di grano puro da far piangere
le Alpi. oggi ricordo un’ape regina
dove il miele fu per lo più amore
e sillabario sul colle senza sole.
correva l’anno dell’arci divieto
del finalmente non nascere.
le stimmate delle onde finalmente in anello
amarono la sposa e la mentalità del cielo.
con le viscere del cielo esaminai l’abaco
finestra nana sulla strada
doccia d’ecumene per non piangere.
tu dammi amore ti sarò felice
bambinello pasciuto sotto le mine
e le ginestre le più belle e strambe.
90.
gelo di torre ho visto l’indice
del brevetto inabile. àncora d’addio
il collo della rondine morta.
il grano elementare così bello
stanzia la rotta per le cicale
a spasso. a turno di editto
il calendario di perdere. amore
di cimasa ebbi da piccola
quando leggera la fibbia del carcere
era l’evasione di Eva. qui in carcere
aspetto le stazioni della cornucopia
ad arrivare. valenze ingenue finalmente
il bello dì. efelidi del vento baciarti.
salute dello stagno averti accanto
sillabario bambinello arca di Noè.
91.
stava in lutto il quadrifoglio raro
tutto s’inerpicava in un giorno
per mortificare il credo di fortuna
tu fune del dì marziano.
cosa farà in stanza l’immacolata sposa
ginestra in voce di crisalide?
in estro di chiamarti al giorno lungo
non basta la volontà dell’avo buono
questo marcito abaco di spugna.
l’avarizia del merletto che non sposa
è dentro tara di vacanza eterna
una simbiosi scivolosa e triste.
eventuali smorfie di successo
avranno tende d’alto mare issate
per la giovinezza della ricchezza appunto.
in un conclave di pratoline in orto
si fissava la resina compianta
dalla melagrana spaccata in sangue.
92.
viltà del coro assoluto scempio
imparare le rotte di salsedine
dove moria l’arca già più vuota
impara a retrocedere i comandi.
la boscaglia carnosa bella del senso
comandi la beltà del fraseggio d’anima
se finalmente un mare di comete
abbia a conversare con le allodole.
la vecchietta di ferragosto aveva
vent’anni più di me eppure era vecchia
più oltre un occaso di sostanza.
la libertà del tuono la chiamava
ebete non angelicata, breve.
i capelli bianchi in un gelido incarnato
su occhi azzurri, belli. la cicala a squarciagola
accompagnava la veglia del viatico
come madonna minima. io donna della sera
la mimavo nell’onda del tramonto o mito
nero il caso d’esser vivi. tu sisma di mattanza
il gesto cattivo contro il fieno, i girasoli
reclinati. è fioco il genio di chiamarti amore
o bivaccante gesto di risacca.
93.
quale sarà l’occaso che mi toglierà dal caso
rosa del principe rosa della curva
la chimera posticcia di non trovarmi
inserviente nell’”ospedale de li malati
poveri”? nel crollo delle indulgenze
si è penzoloni lo stesso: si taglia il tempo
con un’acciuga vuota con il male di vivere
in latrine al massimo pulite con la varecchina
con la china dell’ombra.
qui il sale è uno scempio per ladruncoli
che soffiano denari con i sorrisi
più pii. come stanno le regie del sangue
dacché morire è un abaco di certo?
nessuna risposta dalla baraonda dei manichini
che indossano vestiti improbabili nelle guerriglie
di centri commerciali più scialbi del solito?
nelle fabbriche lager del cotone posticcio
si lavora con la ciotola e il letto accanto.
94.
così s’insacca l’estasi del buio
rametto tonto di betulla
sotto la neve calvo.
calamite di salto potere il vizio
di essere la gioia della mite
grazia dell’asino buono, tenero
anfiteatro d’occhi. arrivano i tuoni
che sanno di omiciattoli paurosi
sotto i balconi d’infiorate di altri.
95.
in ogni genere di memoria
ho perso il ricordo
la faccenda brulla di toccarti vivo
contento incenso di te stesso vivo.
intanto si accendeva la parata
del rantolo
nessun reduce da festeggiare
nel labirinto dell’occaso senza eclisse.
tu a malapena indietreggiavi
per gironzolare un amore di resistenza
una gimcana per non farti prendere
dalla regia apolide del fato di moria.
una sacrosanta bugia svolò dal rantolo
per inventare una civetteria femmina
una bravura innata.
96.
si dà la luna volto di commiato
una saracinesca per scortar l’amante
lo sposalizio del sale ben più cattivo
verso le letizie delle frottole infanti
le luci nude come fiumiciattoli
d’acredine al verbo di vita
quando la rondine vira la cimasa
nulla imparando dalla maestria.
nulla si sa perché avvenne il rantolo
sfortuna d’angolo di siepe
verso il pepe di riordinare il nascere.
qui è citrullo l’animo del seme
questo infante nato per non nascere
sotto il cipresso delle lune birbe.
97.
piaga di dio il veritiero anfratto
che non lo contempla affatto.
è finito il rumore in una soglia
vulcanica voglia di finire
il residuo del sangue.
qui la gioia è un nido di pece
un rasoio di bara.
in faccia al cipresso l’omino buono
incapace di mutamento.
l’almanacco degli angoli crudeli
descrive il pagliaccio di paglia
la lunga antenna del solo buio.
la manciata delle fosse è la catena
del ricordo. indagine di avvento
averti accanto. nel cimitero velato
della stirpe tutto è conteso.
98.
qui è riunito un pallore lusingato
a sfinge. è quello dell’agguato a
se stessi presso la rimessa della piscina
vuota con le lucertole che corrono
festive di muri. la tegola della luna
fa da madre al breve regno della siepe
dove s’immagina la fuga della trottola
pestifera d’equilibrio. in mano alla regia
della fune un olivastro simula le olive
per il carisma della rotta. è invece solo
un lucidare sterpi per le colpe di vili
licenze armate. erta marina la condanna
a morte. sulla tara dell’ombra è divampato
il diavolo del volo nullo. qui si spegne l’avarizia
al giorno e la nomea della pozzanghera patita.
dove si ammassa l’utero del fango
lascio la giacca per correre veloce
senso al millimetro.
99-
non tornano gli amici del lieto fine,
una sciabola sommerge il lago
contuso contro l’abaco di cemento.
amore di ventura fu la stanza
bacata da mille rivoli di serpi
piratesche le indagini del cosmo.
nessuno amò la vegliarda pace
né la guerra per un sussurro acre
dove si screpola l’indice del mito.
avevo una foto che spopolava amore
una lanterna nuda come le steppe
in una casa isolata. sul lato opposto
del binario viveva la cicogna regale
anfora di madre.
100.
mi dispiace poi molto di stare in clessidra
di disperare poi molto di fendere la luce
per un poemetto di argilla intorno al cuore
e fare ombrello l’asino del mondo
senza capire la beltà dell’eremo.
in fondo non ho la giacca della darsena
per riparare il seme che si fracida
dirimpettaio alunno del mio pianto.
in saio d’ombra vo disperdendo
la foglia maggiore dell’uliveto
la bella traccia di credere in dio
nonostante la freddezza della stirpe.
l’inverno fu a colori ma mai nessuno
si accorse di prenotare la felicità
sul sagrato enigmatico di una chiesa.
la malia dell’ombra seppe da guardiano
le eredità guardinghe della deriva
quando il mare è nano e pare piatto
o esile riflusso. in verità il camice
del becchino venne a prendere l’alunno
appena entrato. poi da così non ci sarà
che preda la fionda del rigagnolo.
Marina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5-5-55. Ha pubblicato i libri
di versi: “Il giornale dell’esule” (Crocetti 1986), “Gli angioli patrioti”
(ivi 1988), “Acquerugiole” (ivi 1990), “Darsene il respiro” (Fondazione
Corrente 1993), “La devozione di stare” (Anterem 1994), “Le arsure”
(LietoColle 2004), “L’acciuga della sera i fuochi della tara” (Luca
Pensa 2006), “Il solicello del basto” (Roma, Fermenti Editrice, 2010).
Altre raccolte inedite in carta, complete e incomplete, rintracciabili
sul Web sono: “La passione della fine”, “Intimità delle lontananze”,
“Dissesti per il tramonto”, “Una camera di conforto”, “Sconforti di
consorte”, “Brindisi e cipressi”, “Sorprese del pane nero”, “L’acciuga
della sera i fuochi della tara”, “La giostra della lingua il suolo
d’algebra”, “Staffetta irenica”, “Sotto le ghiande delle querce”,
“Pecca di espianto”, “Arsenici”, “Rughe d’inserviente”, “Un gerundio
di venia”; il poemetto “L’alba del penitenziario. Il penitenziario
dell’alba“; le plaquettes “L’impresario reo” (Tam Tam 1985) e “Un
cartone per la notte” (edizione fuori commercio a cura di Fabrizio
Mugnaini, 1998); “Le giostre del delta” (foglio fuori commercio a cura
di Elio Grasso nella collezione “Sagittario” 2004). Suoi versi sono
presenti in riviste, antologie e in alcuni siti web di poesia e
letteratura.
Ha vinto due premi di poesia. Nel 2004 e nel 2005 la rivista di poesia
on line “Vico Acitillo 124 – Poetry Wave” l’ha nominata poeta
dell’anno. Fa parte del comitato di redazione della rivista “Poesia”. E’
tra i redattori del blog collettivo “La poesia e lo spirito”. Sul Web cura
i seguenti blog(s) di poesia: Sconforti di consorte, Brindisi e cipressi e
Sorprese del pane nero.