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N o te e discussioni
Le alternative della storiografiaStoria globale e storia strutturale in Fernand Braudel e W itold Kula
di Aldino Monti
L’uscita di un recente volume di Giuliana Gemelli su Fernand Braudel e l’Europa universale (Venezia, Marsilio, 1990) e la contemporanea edizione italiana delle Riflessioni sulla storia di Witold Kula (Venezia, Marsilio, 1990) possono costituire un’utile occasione per fare una sorta di ‘punto’, sia pure nello spazio di queste brevi note, del ruolo esercitato dagli orientamenti di ricerca di due fra gli ultimi ‘grandi’ della storiografia contemporanea, che, pur fra innegabili complementarietà, rappresentano due diverse vie di praticare la ricerca storica, distinte sia nello statuto della metodologia che nella natura dell’impegno e della strategia di ‘revisione’ di valori ed assetti politico-culturali, in connessione con la diversità dei rispettivi contesti nazionali. La risonanza e la portata delle loro storiografie induce a parlare però, più che di contesti nazionali, di intere aree di cultura e di civiltà addensate intorno a quegli istmi europei — per usare la terminologia di Braudel — che storicamente hanno articolato l’identità europea e che sono entrati negli ultimi trent’anni in rapida trasformazione, in tempi e per motivi diversi: l’istmo francese, l’istmo polacco-orientale e, da ultimo, l’istmo tedesco.
Negli anni sessanta infatti, a ovest, nell’istmo francese, prende piede e vigore l’espansione delle “Annales” e il proposito del
loro direttore Braudel di tentare una complessa impresa culturale che si conduce sul terreno delle università e delle fondazioni di ricerca e che ha come obiettivo la conquista di un’egemonia culturale europea in terra americana, tramite la mediazione della cultura storica e sociologica francese, fondata sull’affermazione dell’Europa come area di ‘differenza’ rispetto al rigido bipolarismo delle superpotenze (rafforzata peraltro dalle ambivalenze della politica estera di De Gaulle) e di apertura culturale, a est come ad ovest, nella direzione di un “umanesimo universalistico”1; un’Europa dunque come “terza forza”, canale di mediazione tra l’istmo nordatlantico o euroamericano e l’istmo orientale, di cui la tradizione culturale francese e la sua rinnovata storiografia, intesa come luogo privilegiato di sintesi ed unificazione delle scienze economiche e sociali, sarebbero stati il veicolo principale. Ad est, d’altra parte, inizia il processo di erosione del tradizionale assetto di potere del partito unico che avrebbe poi portato alla crisi degli anni settanta e ottanta, processo nel quale la tradizione polacca di scienze sociali e, in quest’ambito, della storiografia economica, ebbe un ruolo di punta nella formazione di giovani e rinnovate élites politico-intellettuali ed operaie nazionali, che, nell’azione di “revisione” antiburocratica e
1 Giuliana Gemelli, Fernand Braudel e l ’Europa universale, Venezia, Marsilio, 1990, p. 190.
Italia contemporanea”, giugno 1991, n. 183
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antitotalitaria, giocarono un ruolo rappresentativo di tutto l’istmo orientale. Tradizione per altro che ebbe con l’Occidente, con la Francia in particolare, forti ed organici legami culturali intessuti di emigrazioni e scambi di intellettuali ed idee2 e che nel ‘disgelo’ della seconda metà degli anni cinquanta riprese più forza, per caricarsi, nel decennio successivo, di valori di opposizione politica, in una dimensione geopolitica che interessò tutta l’Europa orientale e che ebbe pari importanza del dialogo e del confronto euroamericano intrapreso da Braudel e dalla scuola delle “Annales” a cavaliere del vallo atlantico dell’Occidente.
La ripresa qui del linguaggio geografico di Braudel non vuole essere un puro espediente analogico al servizio di una tematica attualizzante, ma intende porre alcuni elementi di ridefinizione dell’articolazione storica dell’identità europea, come si dirà più avanti, a partire dal Cinquecento — secolo ‘cerniera’ fondamentale nel passaggio dal medioevo alla modernità secondo la linea Hauser-Feb- vre-Braudel — per una messa a fuoco contestuale delle alternative storiografiche intorno ad Europa, modernità e capitalismo, e delle diverse imprese politico-culturali che ne sono state determinate. Il volume della Gemelli si articola in tre parti: la formazione della identità della storiografia braudeliana; la sua espansione e il suo farsi “storiografia planetaria” nell’incontro con le altre storiografie europee e con la storiografia americana; infine “la diplomazia delle idee”, il luogo istituzionale delle relazioni culturali internazionali in cui viene attivato dallo storico francese un “dispositivo culturale” di confronto con la cultura americana, con il duplice scopo di imporre la storiografia delle “Annales” in America come “interscien- za” nel campo delle scienze economiche e
sociali e, su questa base, procedere all’ammodernamento dell’ordinamento accademico della ricerca in Francia e alla connessa ristrutturazione dei rapporti di forza culturali ed organizzativi. L’università americana, l’università francese e le fondazioni private americane (Rockefeller e Ford Foundation) con la loro politica della ricerca sono di volta in volta, nella ricostruzione dell’autrice, i luoghi del confronto e dello scontro dell’im- prenditorialità politico-culturali di Braudel e dei suoi collaboratori.
Si deve osservare in linea generale, e prima di entrare nel merito, che l’autrice sa dipanare ed ordinare con mano sicura materiali non facilmente dominabili all’apparenza, sia per l’indeterminatezza, programmatica per altro, delle costanti teoriche e metodologiche di Braudel, che per la fluidità degli ambienti intellettuali ricostruiti, francese soprattutto; mentre il saldo ancoraggio alla informazione archivistica degli archivi universitari e delle fondazioni permette di situare la “diplomazia delle idee” su un piano di puntuale articolazione di gruppi e persone in atto, in cui un intreccio complesso lega la storia delle idee con la lotta per l’egemonia intellettuale in una vicenda culturale internazionale tra gli anni sessanta e settanta. Sullo sfondo, la logica dei poteri mondiali, la politica estera americana ed, in organica connessione, la politica di ricerca delle fondazioni private americane con le loro strategie di espansione ed infiltrazione nelle istituzioni culturali ed accademiche europee, un fondale politico che forse avrebbe meritato una qualche maggiore, sia pur di poco, attenzione, come si dirà più avanti. Si possono articolare dunque queste brevi note sul “fenomeno” Braudel nei termini che seguono: alcune linee della sua storiografia a proposito di Mediterraneo, Europa e capitalismo; i
2 Sui rapporti tra cultura francese e cultura polacca, cfr. G. Gemelli, Fernand Braudel, cit., pp. 141-145 e Marta Herling Bianco, Una storia per comprendere il presente: l ’opera di Witold Kula, in “Passato e presente”, 10, 1986.
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limiti e le possibilità della sua impresa politico-culturale. Infine un ragguaglio comparativo con la storiografia di Kula.
È noto come la Méditerranée3 costituisca il crogiuolo in cui lo storico francese ha elaborato i lineamenti essenziali della sua concezione dell’Europa moderna e del capitalismo — Europa e capitalismo rappresentano un nesso indissolubile nell’ideologia della ricerca braudeliana — quali verranno poi pienamente sviluppati e ‘codificati’ nei volumi ultimi della sua opera di studioso su Civilisation matérielle, économie et capitalisme3 4. Nel laboratorio sperimentale del Mare interno si elabora e sintetizza una nuova particolare formula dell’indagine storica, inedita, suggestiva nell’animazione evocatrice di ambienti ed eventi, ma indeterminata e discutibile nella periodizzazione dei tempi, nella delimitazione degli spazi di civiltà e mondi, nella scelta del materiale archivistico, di natura spesso puntiforme ed impressionistica. Nel costruire il particolare intreccio di storia ed ambiente che costituisce il sistema medi- terraneo, Braudel si avvale dei molteplici apporti delle discipline geografiche tra Otto e Novecento: la geopolitica tedesca, trasvalutata e riformulata come geostoria, il possibilismo della scuola francese da Vidal de La Blache a De Martonne, la regionalizzazione delle ricerche di economia e storia economica nella Francia degli anni venti ad opera di Henri Hauser e Albert Demangeon. La assimilazione personale di tali strumenti lo porta a formulare, nelle conferenze tenute nel 1943-44 durante la prigionia di guerra in Germania, intenti programmatici di grande interesse, con i quali non si può non consentire: “La geografia ‘profonda’ è lo studio della società nello spazio, direi addirittura attraverso lo spazio, grazie allo spazio, allo
stesso modo in cui la storia è lo studio della società grazie al passato, che è dunque ‘un mezzo’” . Ma che cos’è lo spazio per Braudel, in particolare come si configura l’eco- nomia-mondo del Mediterraneo? Non si riesce a comprendere, afferma in una delle conferenze della prigionia, “il Mediterraneo dal punto di vista della vita collettiva e della sua storia se non considerandolo come uno spazio-movimento. Esso si identifica in questi atti che si ripercuotono all’infinito. Nell’eco che lo attraversa senza sosta da un punto all’altro della sua estensione. Ciò che accade a Costantinopoli dipende sempre, in una certa misura, da ciò che si trama a Venezia o da ciò che viene complottato a Madrid... Il Mediterraneo è un immenso radar dalle mille rifrazioni acustiche, coi suoi posti di spionaggio, i suoi specialisti dell’informazione” . Il dominio dello spazio è dunque funzione, commenta l’autrice, “della possibilità di controllare e amplificare il circuito di informazione. Sotto questo profilo il ‘codice’ della Méditerranée non è organicistico... ma ‘informatico’. Gli eventi della sua storia non sono fatti localizzabili, ma punti di trasmissione in un circuito dotato di una energia di diffusione altamente differenziata”5. Tale concezione dell’impianto analitico dello spazio mediterraneo, per quanto suggestiva, lascia ampi margini al dibattito e al dissenso.
Nel definire contorni e funzioni del Medi- terraneo, Braudel ne rifiuta l’immagine di “spazio puro” elaborato dai geografi e storici tradizionali, mare “ben barricato dalla parte delle terre” e vi sostituisce “questo Mediterraneo largamente aperto” , il cui studio non può non essere “intercontinentale”. Esso è collegato agli altri Mediterranei del nord — il Baltico, il Mare del nord e la Ma
3 Fernand Braudel, La Méditerranéen et le monde méditerranée à l ’époque de Philippe II, Paris, Colin, 1949 (li ed. 1966).4 F. Braudel, Civilisation matérielle et capitalisme (XV‘-XVIIIe siècle), Paris, 1967; Civilisation matérielle, économie et capitalisme (XV’-XVIIF siècle), I, Les jeux de l ’échange, \\, Le temps du monde, Paris, Colin, 1979.5 G. Gemelli, Fernand Braudel, cit., pp. 45-46 e 48-50.
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nica — “da una serie di strade meridiane, di istmi naturali, ancor oggi decisivi per gli scambi della storia: l’istmo russo, l’istmo polacco, il tedesco, il francese” , assi che coagularono articolazioni della civiltà europea storicamente diverse, che “risentirono in grado diversissimo la forza d’attrazione mediterranea”, “quattro fusi di storia più o meno fortemente uniti al mare caldo, veicolo di ricchezze”. Se sull’asse nord-sud rimaniamo ancora in una prospettiva europea, nel senso est-ovest invece, lungo i paralleli, s’impone una considerazione del Mediterraneo in ‘scala mondiale’; esso si configura dunque come “un vasto corridoio dall’Atlantico all’Indiano, un vasto corridoio di circolazione marittima e carovaniera, uno spazio-movimento... Proprio in questo senso dei paralleli (di solito trascurato), la vita mediterranea ha sempre segnato le sue più elevate velocità e trovato i suoi principali collegamenti” . Spazio liquido, esso “è incomprensibile senza il suo spesso involucro di terre” , le masse continentali. Sui fragili orli delle sue coste frastagliate, ingombre di isole e penisole, privi di “spessore e resistenza”, economie e civiltà urbane hanno edificato le punte avanzate del capitalismo moderno, ma al tempo stesso vi si affacciano con tutto il loro peso stati ed imperi di dimensioni continentali, al cui servizio, “mille volte contro una”, stanno popolazioni e città marinare. Vi coesistono in una sorta di “superequilibrio” civiltà ed imperi, Land Power e Sea Power: “I destini mediterranei restano bivalenti, misti per la loro stessa natura. Il Sea Power dell’ammiraglio Mahan lo concepisco nell’ambito del mondo e degli oceani (e con restrizioni del resto) ma alla scala e nell’ambito del Mediterraneo, tale
semplificazione deforma il vero volto della storia... Lo stesso titolo del nostro libro dice la nostra posizione: che è di equilibrio, e non di conciliazione. Vi sono dominatori continentali del mare; ma vi sono anche talassocrazie: da Creta a Venezia, da Venezia all’Inghilterra. Dominazioni nate dal mare”6.
L’identità europea e il suo frutto più maturo e prezioso per lo sviluppo, il capitalismo, trovano nel mondo latino del Mediterraneo lo spazio della propria emergenza e i poli della propria irradiazione secolare su scala planetaria. Il Mare interno nutre del proprio spazio — che è spazio-ambiente, insieme di opportunità geografiche e di potenzialità economiche che ne fanno un mezzo, una risorsa al servizio del meccanismo sfida- risposta — tutti i tre piani dell’edificio capitalistico, i tre livelli della sua “mappa in rilievo” : il piano della civiltà materiale a base socioambientale, e dell’autoproduzione e dell’autoconsumo; la struttura capillare e fibrillante dei mille mercati e circuiti commerciali, oscillanti tra regole di mercato e iniziativa privatistica che viola le medesime; infine la sommità, il vertice dei grandi monopoli commerciali, la cui emergenza si colloca sul piano di ciò che è l’opposto delle regole del mercato concorrenziale, il “contromercato” , una dimensione in cui il vitalismo espansivo dei grandi mercanti si avvale della capacità di coinvolgere ed orientare il potere politico nelle proprie strategie di espansione economica7. Nel formulare la sua concezione del capitalismo Braudel riscopre e ridefinisce una vecchia gloria della storiografia tra Otto e Novecento, il capitalismo commerciale del Medioevo, il Fernhandel degli storici tedeschi, cioè il commercio su lunghe
6 F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1965, pp. 188-193 passim, pp. 254-258 passim.1 Per una sintesi rapida sulla storia del capitalismo, cfr. F. Braudel, La dinamica del capitalismo, Bologna, Il Mulino, 1981.
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distanze, intermediario tra spazi e mercati lontani e non comunicanti, dai cui differenziali di prezzo drena enormi profitti commerciali a vantaggio delle economie urbane. Nei termini di un codice “informatico”, esso è il prodotto, puntualizza la Gemelli, “di una differenza di potenziale tra aree economiche dotate di un coefficiente energetico differenziato e soprattutto della rete informativa e organizzativa, inegualmente sviluppata, creata dagli agenti sociali del commercio ‘alla lontana’”8.
Nell’attitudine incerta ed ambivalente della metodologia braudeliana il capitalismo, come categoria storiografica, prende significato rispetto a tre principi, analitico, istituzionale, storico; esso è dunque un sistema d’interdipendenza di poli urbani asimmetrici, cioè in un rapporto d’ineguaglianza nella gerarchia della distribuzione dello spazio, con un diverso potenziale di controllo e di governo delle linee d’informazione e comunicazione; un modo di produrre e distribuire servizi in economie-mondo inegualmente organizzate lucrando su differenziali di prezzo e di potere, e per il quale competenze economiche e politiche dei mercanti internazionali si configurano nei termini polivalenti ed intercambiabili di un management politico complessivo9, giusto il carattere ancora scarsamente statuale e largamente elementare degli organismi urbani delle città-stato medioevali, in cui il potenziale di direzione politica si ripartisce su una molteplicità di componenti l’oligarchia di governo (casate mercantili, nobiliari, corporazioni, eccetera), incapaci di predisporre e stabilizzare meccanismi istituzionali per l’esercizio di funzioni pubbliche specializzate; infine, esso è la successione delle forme storiche assunte
dalla distribuzione ineguale dello spazio. Il meccanismo di estensione su scala planetaria è assicurato dalle rivoluzioni nelle vie di traffico e nei rapporti politici fra gli stati che, determinando differenziali di produttività nel settore terziario, sollecita e coinvolge altre concorrenze, risorse e competenze e pone in essere l’emergere di nuovi poli di dominazione (Venezia, Anversa, Amsterdam, eccetera). Ed è il medesimo meccanismo concorrenziale attivato dallo scambio non equivalente, esteso fino a costituire un mercato mondiale, circa alla metà del Settecento, che pone le premesse del tramonto dello stesso capitalismo commerciale e il passaggio a quello della rivoluzione industriale; la crescita nel numero dei concorrenti e nella intensità della circolazione delle informazioni fa sì che i differenziali di prezzo si appiattiscano e si formi tendenzialmente un unico prezzo dei beni, con la conseguente caduta dei profitti unitari e la necessità, per l’accumulazione, di espandere la massa dei piccoli profitti, cioè la massa della produzione10.
L’importanza del mercato e della circolazione tra medioevo ed età moderna, come luogo della formazione del surplus e di quella soglia minima di domanda necessaria all’incentivo dell’investimento industriale, è, com’è noto, ampiamente riconosciuta da Smith e Marx fino alla ricerca odierna11. Ciò che nello schema ‘globale’ di sviluppo della modernità di Braudel rende perplesso il ricercatore è il tipo di collegamento tra il capitalismo ‘d’alta quota’ della sfera del mercato con gli altri due livelli della sua “mappa in rilievo”, la vita materiale e l’economia di mercato delle piccole e medie imprese, un collegamento più descritto, dichiarato, enfa
8 G. Gemelli, Fernand Braudel, cit., p. 57.9 Luca Meldolesi, Introduzione a F. Braudel, I tempi della storia, Bari, Laterza, 1986, pp. 54 sgg., pp. 65-67.10 Cfr. F. Braudel - Frank C. Spooner, Iprezzi in Europa dal 1450 al 1750, in Storia Economica Cambridge, IV, Torino, Einaudi, 1975.11 Cfr. David Landes, Il Prometeo liberato, Torino, Einaudi, 1978, cap. 1.
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tizzato in quadri d’azione emblematici ed impressionistici, che effettivamente dimostrato nella determinatezza di strutture comparate. Questo capitalismo, “modello essenziale di uso multisecolare” della modernità, ma che “in potenza si delinea sin dagli albori della grande storia, per svilupparsi e perpetuarsi nei secoli”, nella tradizione di Theodor Mommsen, Michael Rostowtzeff e Henri Pirenne — come dichiara lo stesso Braudel12 — si configura come una sorta di universale invariante analitica che nel suo dispiegarsi su scala internazionale procede all’omologazione di ogni assetto storico determinato, e rispetto alla quale, osserva giustamente la Gemelli, “la variabilità dei sistemi storici in cui esso si manifesta risulta inessenziale”, con la conseguente riduzione delle “potenzialità comparative contenute nella sua concezione dello spazio”13. E qui sta la grande differenza rispetto a Marc Bloch, alla sua idea di una storia comparata di società europee costruita sulla contiguità delle loro relazioni e non sulla prospettiva della loro diffusione planetaria, e su una ‘alleanza’ cooperativa di varie discipline sociali ed umane nel tentativo di produrre un quadro comparato di strutture in reciproca interazione, ad esempio la Società feudale; pari- menti opposta si presenta la metodologia di Braudel riguardo al contributo delle discipline sociali ed umane, di cui elabora una particolare sintesi empirica e globalizzante “ai margini di ogni teoria”, che non tiene conto cioè del loro autonomo statuto scientifico, di regola dissolto in categorie d’indagine indeterminate, oscillanti tra l’analisi euristica e la realtà empirica14.
In questo quadro l’intenzione programmatica di una geografia “profonda” e pertanto
la stessa nozione di spazio subiscono nella ricerca di Braudel una mutazione e un ridimensionamento. Nei volumi sul capitalismo opera una nozione di spazio astratto, matematico, quella fornitagli dall’economista François Perroux, teorico dell’economia spaziale fondata sul concetto di sistema economico come sistema di forze, sull’effetto di dominazione e sullo scambio composito, contrapposto allo scambio puro dell’economia neoclassica. È per l’appunto uno spazio “informatico” , in cui la rete dei terminali delle grandi agenzie mercantili e politico-statuali producono flussi di informazioni che toccano solo tangenzialmente lo spazio “lavorato” delle strutture profonde, produttive, agricole, demografiche, istituzionali, polito- logiche. Nella Méditerranée in particolare, lo spazio-ambiente, pur essendo presente nella ricchezza dei suoi dati geografici, non riesce a qualificarsi come “mezzo”, collegamento immanente e puntuale con l’articolazione degli imperi e delle civiltà. I tre piani del lavoro infatti, spazio-ambiente, spazio-risorsa delle economie e delle civiltà, spazio-teatro degli eventi politico-militari, non riescono ad articolarsi né sul piano della periodizzazione storica — tempo lungo, medio, breve — né su quello di una più precisa delimitazione della costellazione delle economie-mondo: sull’asse infatti di una storia ambientale, secolare se non millenaria, e sovradimensionata, scorrono civiltà, destini collettivi ed eventi politici e militari schiacciati in un arco di tempo chiaramente sottodimensionato, di poco più di mezzo secolo, l’età di Filippo II; mentre, d’altra parte, nell’articolazione storica delle economie-mondo Braudel ha ignorato la prospettiva di un radicamento e prolungamento europeo-continentale dello spa
12 F. Braudel, Civiltà materiale, economica e capitalismo (secoli XV-XVIII), III, I tempi del mondo, Torino, Einaudi, 1982, pp. 664-666.13 G. Gemelli, Fernand Braudel, cit., p. 86.14 G. Gemelli, Fernand Braudel, cit., pp. 81, 89, 113.
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zio-mondo mediterraneo. Su questi due punti mi si permetta una puntualizzazione.
Nel recensire l’opera di Braudel nel 1955, Ruggero Romano ebbe ad osservare con buone ragioni che essa “avrebbe espresso, per quanto riguarda la seconda parte, il suo pieno significato, partendo dal 1480 o almeno dal 1530, per spingersi fino al 1640 o almeno fino al 1620... I risultati raggiunti da Braudel ci lasciano, così, a metà strada”. Del resto lo stesso Braudel si era mostrato favorevole, lungo le indicazioni di Hauser e Febvre, a un modello di Cinquecento “lungo”, che dipartendosi dall’ultimo ventennio del Quattrocento, si protendeva fin dentro i decenni del Seicento, per chiudersi alla metà di quel secolo15. Qui si chiude veramente un’epoca, non solo secondo gli indicatori economici invocati da Romano, ma anche secondo quelli sociali, politico-istituzionali, interni e internazionali. Lo stato assoluto chiude il circuito d’instabilità politica inaugurato dalle guerre civili religiose della seconda metà del Cinquecento, schiacciando autonomie contadine e di municipi urbani, serrando la nobiltà riottosa entro i ranghi del servizio di Stato, e diventa più che mai il grande collettore delle risorse in grado di stabilizzare le strutture amministrative dello Stato alla scala corrispondente alle dimensioni del mercato interno ed estero e il protagonista unico delle relazioni internazionali. In questa prospettiva più ampia, il Medi- terraneo non scompare dalla scena economica e politica europea con il 1580, anno dell’annessione alla Spagna del Portogallo, degli arrivi sempre più pingui dell’argento americano, dell’impegno militare sempre
più deciso sul fronte della guerra dei Paesi Bassi, insomma dell’estroversione sempre più pronunciata sull’area atlantica del capitalismo europeo e del sistema delle potenze europee, ma subisce una dislocazione nell’economia delle sue funzioni; non più teatro centrale di eventi politico-militari, ma ancora spazio-risorsa con cui la Spagna alimenta, tramite l’argento americano e la finanza genovese, la guerra di Fiandra lungo i corridoi strategici dell’istmo tedesco, istmo decisivo per l’equilibrio del sistema degli stati europei, che fin dall’inizio dell’età moderna — scrive uno storico politico contemporaneo, Michael Stùrmer, non insensibile agli insegnamenti delle “Annales” e della storiografia sociale angloamericana — “aveva sempre avuto una dimensione di politica tedesca” diventata poi decisiva tra Otto e Novecento16.
Dalla seconda metà del Cinquecento alla metà del Seicento gli eventi dell’istmo atlantico connessi con la rivoluzione olandese si ripercuotono sull’istmo tedesco e orientale del bacino del Baltico dalle cui materie prime dipendono le vicende e le riuscite in Occidente e sugli oceani. Per un secolo l’imperialismo spagnolo persegue “un progetto baltico” di conquista dell’istmo polacco, tramite la fondazione di un impero cattolico ed assolutista nel centro dell’Europa e con l’avallo della sintesi ideologica della Contro- riforma17. In questo contesto il Mediterraneo italo-spagnolo, cioè la sua peculiare sintesi di civiltà ed imperi, cercò le vie della sua sopravvivenza e della sua espansione in una stabilizzazione del centro del continente; lungo i suoi storici istmi di collegamento
15 La recensione di Ruggero Romano è citata da G. Gemelli, Fernand Braudel, cit., p. 147. Cfr. anche F. Braudel, Qu'est-ce que leX V Ie siècle, in “Annales E.S.C.” , 1, 1953.16 Michael Stùrmer, L ’impero inquieto. La Germania dal 1866 al 1918, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 547. Cfr. anche Ludwig Dehio, Equilibrio e egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna, Bologna, 11 Mulino, 1988, p. 49 sgg.17 Mi limito a citare Giorgio Spini, Storia dell’età moderna, I, 1515-1598, cap. V, e II, 1598-1661, capp. I, III, IV, Torino, Einaudi, 1965.
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continentale le potenze europee giocarono le loro carte per impadronirsi del Sacro romano impero, che pur non rappresentando una realtà effettiva, rappresentava pur sempre una pretesa di ordinamento complessivo dell’Europa sulla base di un’egemonia irradian- tesi dal centro del continente18. Ogni istmo costituì un’opzione differente dell’egemonia sull’Europa, un’alternativa nell’ambito di un processo che si conclude con la pace di We- stfalia (1648) o, se si vuole, con la pace dei Pirenei (1659). Anche sotto il profilo degli equilibri internazionali il Cinquecento “lungo” si chiuse definitivamente; le condizioni del centro del continente furono “europeizzate” , cioè subordinate alle necessità di equilibrio e di sicurezza delle potenze europee19. Con il centro dell’Europa uscì di scena definitivamente anche il Mediterraneo, che a quel centro era stato indissociabilmente legato fin dal Medioevo, trovandovi il suo punto di riferimento istituzionale e i canali d’irrigazione mercantile con cui realizzava i vantaggi economici della sua intermediazione commerciale. Dalla metà del Seicento sia il Medi- terraneo che il centro continentale diventarono uno spazio -posta le cui chiavi di accesso si collocarono, fino ai giorni nostri, ai margini del continente, sull’Atlantico e sull’istmo orientale20.
Nell’ambito di questa sia pur sommaria puntualizzazione ci si può chiedere, legittimamente credo, perché Braudel scelse di far
morire il suo personaggio, il Mediterraneo, alla fine del Cinquecento, rinunciando ad allungarne il ruolo storico secondo misure e criteri a lui per altro noti e da lui condivisi. È forse necessario, per abbozzare una risposta, fare riferimento anche alla mediazione dei valori politici ed ideologici. Quando nel 1943-44, secondo la documentazione offertaci dalla Gemelli, Braudel approfondisce il suo progetto del Mare interno, l’istmo tedesco ha già perso la guerra ed ha fallito il disegno perverso di una unificazione totalitaria dell’Europa; era prevedibile che nel vuoto politico e culturale lasciato dalla catastrofe della potenza di centro, la Germania, la Francia avrebbe potuto esercitare quel ruolo sostitutivo di “destino del mondo” così caro alla sua tradizione culturale, e a Braudel in particolare, cioè di mediazione culturale tra la cultura della vecchia Europa e l’istmo atlantico delle potenze vincitrici. Non vi era dunque alcun valore etico-politico che potesse motivare, storiograficamente, il ‘prolungamento’ storico del Mediterraneo e il suo radicamento centrocontinentale. Braudel si arrestò ad elaborare un modello del Mediterraneo “in equilibrio” fra civiltà ed imperi, fra la dimensione normativa dei fatti economici, sociali e di civiltà, e il vitalismo geopolitico delle loro linee di espansione, che erano le due componenti essenziali della sua formazione, rispettivamente francese e tedesca. Un Mediterraneo dunque in equilibrio fra Sea
18 M. Stiirmer, L ’impero inquieto, cit., p. 547.19 M. Stiirmer, L ’impero inquieto, cit., pp. 548-49; L. Dehio, Equilibrio ed egemonia, cit., pp. 75-76.20 Nel 1936 uscì in Germania, ad opera di due studiosi di questioni navali, Hans Hummel e Wulf Siewert, un volume sul Mediterraneo (Der Mittelmeerraum. Zur Geopolitik eines maritimen Grossraumes), giudicato da Braudel “un pessimo libro di geopolitica”, ma probabilmente frainteso. I due autori dimostravano che gli inglesi avevano fin dalla prima guerra mondiale proceduto ad aggiornare la loro strategia marittima, volta ad abbandonare le coste, troppo costose e pericolose, a concentrare le loro forze sulle isole, “temporary bases”, sugli accessi al Mediterraneo di Gibilterra e Suez, e su una catena di basi d’appoggio sull’Atlantico, trasformando cosi l’oceano in “un teatro di operazioni”. Ciò che sarebbe diventata la mancata strategia nazista per piegare gli inglesi e impedire agli americani di portare soccorso all’Europa. Cfr. Michel Korinman, Quand l ’Allemagne pensait le monde. Grandeur et décadence d ’une géopolitique, Paris, Librairie Arthème Fayard, 1990, pp. 235-240. Ma l’idea brutale di un Mediterraneo puro spa- zio-posta di un “teatro” atlantico al di fuori della sua portata e relativamente indipendente dal peso dei suoi stati ed imperi rivieraschi, Francia in primo luogo, non poteva essere gradita né allo storico né al politico culturale Braudel (cfr. Civiltà e imperi, cit., p. 256).
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Power e Land Power, privo del suo retaggio di risse e guerre civili europee nate e combattute nella disgregazione perenne del centro del continente, e nei cui quadri di civiltà la società industriale americana avrebbe dovuto, nella visione storiografica di Braudel, riconoscere la propria origine e il modello del proprio universalismo. La zattera del capitalismo, infatti, partita da Venezia, era ormai approdata a New York; ivi giunta, era necessario per la cultura europea che in quel compendio di normatività e di vitalismo in cui pur il capitalismo di Braudel si riconosceva — una certa associazione tra risorse, idee, competenze e poteri, in cui era secondaria la dimensione conflittuale ed antagonistica di sistemi e modi di produzione — la società americana ritrovasse la sua genealogia e riconoscesse i valori e le misure del proprio vitalismo espansivo21.
Oggi che il problema del centro del continente, nel crollo dell’istmo orientale, è tornato di bruciante attualità, suscitando speranze ma anche forti inquietudini nel quadro del processo di unificazione europea, il Mediterraneo di Braudel potrebbe, in linea di principio, essere riscritto, con un taglio più attento alla variegata pluralità degli istmi europei, ad una coerenza geopolitica del Mare interno inclusiva delle sue radici ed articolazioni continentali; il suo impianto analitico, infatti, è e non può non essere che flessibile e polivalente, aperto a varie opzioni di ricostruzione storico-genealogica, a seconda dei valori e delle egemonie che nella stessa storia
europea sono in corso di affermazione22. In questo quadro di considerazioni, quali potevano essere le possibilità dell’operazione storiografica e culturale di Braudel, fondata su “una versione ‘inedita’ della genealogia storica della modernità e dell’unità dell’Occidente centrata, appunto, sul Mediterraneo e non più sull’Atlantico”?23
Nel valutare l’originalità dell’itinerario della riforma storiografica ed accademica tentata da Braudel, Giuliana Gemelli afferma che essa “non risulta tanto il prodotto di un’eresia intellettuale, quanto il risultato di processi di omologazione internazionale degli assetti istituzionali da cui dipende la formazione alla ricerca e della compenetrazione, in un sistema di cooperazione concorrenziale, di modelli culturali ed organizzativi all’origine assai differenziati”. E nel ricostruire, attraverso la biografia intellettuale di Braudel, le dinamiche delle relazioni culturali tra Francia e Stati Uniti, l’autrice dichiara di aver programmaticamente aggirato “le forme obsolete della contrapposizione tra americanismo ed antiamericanismo, tra chi influenza e chi è influenzato” e di aver evitato “il ricorso a categorie, altrettanto desuete, come imperialismo culturale o ideologia dominante” . Tali categorie, in quanto “intelligenze disincarnate” ed attori senza volto, “costituiscono altrettanti ostacoli nell’analisi dell’interazione dei sistemi culturali in termini di azione sociale”24. È certamente una preoccupazione legittima quella di evitare
21 Si veda F. Braudel, L ’histoire des civilisations: le passé explique le présent, in F. Braudel, Ecrits sur l ’histoire, Paris, Flammarion, 1969, pp. 255-314. Circa l’influenza della cultura tedesca e, in particolare, della geografia di Friedrich Ratzel, questi offrì a Braudel un modello di geopolitica della società radicata nello spazio, fondata sul rifiuto di un rapporto deterministico tra grandezze geografiche e grandezze politiche, pensate come realtà commensurabili, e sul rifiuto dell’ideologia delle frontiere come confini mobili aperti all’avanzata della vitalità di un popolo, ideologia che si affermò poi in Germania dopo la prima guerra mondiale. Cfr. M. Korinman, Quand l ’Allemagne pensait le monde, cit., in particolare pp. 56-62.22 Per la disponibilità di Braudel a ridefinire gli oggetti storiografici, nella fattispecie il Cinquecento, secondo “la scala dei nostri valori”, si veda l’articolo citato alla nota 15.23 G. Gemelli, Fernand Braudel, cit., p. 194.24 G. Gemelli, Fernand Braudel, cit., p. 265.
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l’applicazione di stereotipi politici e di abusi ideologici di altri tempi; non è inutile, tuttavia, ricordare l’adagio gramsciano che “tutto è politica, ma cum grano salis”, e che nel rispetto dell’autonomia istituzionale delle relazioni culturali, esiste pur sempre un momento ‘corposo’ della storia, quello del potere e della politica in atto, che va salvaguardato nell’articolazione della ricerca. Del resto la stessa Gemelli ce ne offre qualche manifestazione significativa.
Nei rapporti tra i trustees delle fondazioni americane e gli storici della VI Sezione, vi erano anche problemi quali quelli segnalati da uno studioso del calibro di Jean Gott- mann al direttore della fondazione Rockefeller in una lettera del 1952: “In answer to your telephone inquiry concerning two eminent French historians, Professor Lucien Febvre and Professor Fernand Braudel... I am quite certain that neither Professor Febvre or Professor Braudel are, or could be termed in any way, Communist” . Più tardi, negli anni sessanta, all’epoca dell’eresia gollista, un esponente d’oltre Atlantico scriveva che “the gaullist argument that the real objective is not to establish a third force but to build a second force in the West... weakens the unity of the West”. L’idea della “Terza forza” era un alibi “for it is industrial society, not America that is the force at work... America has been the social model and the political leader”2S. D’altra parte, tale fondale inevitabilmente egemonico e ‘sporco’ delle relazioni mondiali veniva esplicitato nel 1967 dal noto libro di Jean-Jacques Ser- van-Schreiber Le défi américain, prodotto “della filosofia politica che attraversa alcuni settori del mondo imprenditoriale e dell’intel- ligenzia parigina a partire dalla metà degli anni sessanta, e alla cui prospettiva ‘operativa’
Braudel finiva per offrire indubbiamente ‘uno spessore storico’ tramite la ‘sua ricerca degli archetipi della modernità europea’ e dell’universalismo americano”26. Le idee lanciate dal défi latin di Braudel non potevano non trovare stretti margini di successo nell’ambito della ferrea logica dei rapporti mondiali; anzitutto il modello d’identità europea “intesa non come unità economico- politica ma come sistema di cooperazione e di scambio tra poli economici e politici di- versificati, come dispositivo di comunicazione che abbraccia l’orizzonte mondiale ‘da San Francisco a Vladivostock’” , e, in questa prospettiva, l’idea della Francia “quale vettore delle eccezioni al bipolarismo delle grandi potenze”27. Mentre più complesso si faceva il discorso sul terreno della riforma delle istituzioni di ricerca, terreno in cui le opposizioni non erano solo in America, ma anche in Francia, come bene documenta la Gemelli.
Il fatto è che le scienze sociali americane, prodotto di una divisione del lavoro scientifico più avanzata rispetto al contesto europeo e dotate quindi di un maggior livello di specializzazione e formalizzazione, non potevano riconoscere nella ricerca storica, in particolare nella “sintesi storico-empirica” della storiografia di Braudel, il luogo privilegiato della propria unificazione. D’altra parte nell’ambito delle stesse “Annales” esisteva da sempre un’alternativa storiografica — che possiamo definire grosso modo una linea Bloch-Labrousse — che negli anni cinquanta e sessanta veniva producendo corpose monografie ‘strutturali’ — quelle dei Goubert, Baherel, Le Roy Ladurie — di cui Braudel cercò di tener conto nella seconda edizione (1966) del suo Mediterraneo, ma senza risultati significativi, data la scarsa ri-
25 G. Gemelli, Fernand Braudel, cit., p. 256, nota 19, p. 189, nota 15.26 G. Gemelli, Fernand Braudel, cit., p. 197.27 G. Gemelli, Fernand Braudel, cit., p. 366.
Le alternative della storiografia 283
cettività del suo impianto analitico. Forse alla base dello scacco della “sfida latina” dello studioso francese vi era anche una qualche ragione non riconducibile al mondo dei poteri e delle istituzioni, ma alla sua personale elaborazione storiografica. Vediamone una manifestazione a contrario nell’esempio di Witold Kula.
Nelle vicende dell’istmo orientale-polacco degli anni sessanta e settanta, la storiografia economica e sociale ebbe un impatto meno appariscente28, più circoscritto ma più concreto, nell’ambito del processo di rinnovamento che, nato come revisione dentro il marxismo, acquisì poi una dinamica propria portando alla liquidazione dei regimi di democrazia popolare. Le Riflessioni, del 1958, rappresentano uno dei documenti più acuti e tormentati di quel processo ‘revisionistico’ che, nel ritorno alle ‘fonti’, avrebbe dovuto fare del marxismo un soggetto di critica attiva dei regimi a partito unico. Riflettendo su questo aspetto delle Riflessioni, Bronislaw Baczko nella introduzione al volume scrive che nella prospettiva del tempo, a distanza di più di quarant’anni, le Riflessioni “hanno perso di attualità soprattutto per quegli aspetti in cui si esprime... la loro ‘appartenenza al momento revisionistico’” . Ma al tempo stesso hanno acquisito un altro valore, cioè di “documento fondamentale, e talvolta drammatico, di quel momento, e sono divenute una testimonianza e una fonte assolutamente insostituibili” . Una revisione, quella di Kula, condotta sul doppio registro della “critica della concezione marxista della storia, che è uno dei fili conduttori del li
bro” e della “presenza costante del marxismo come punto di riferimento e di incessante confronto delle considerazioni di Kula” . In questo senso queste Riflessioni vanno ben oltre la problematica revisionistica del ritorno alle fonti: “Le sue considerazioni sui destini storici del marxismo, in particolare sull’esperienza della ‘prostituzione della storia’ nel periodo staliniano, costituirono il punto di partenza per affrontare e formulare problemi molto più generali, che avevano un’importanza fondamentale per la metodologia e la sociologia della storia”29. Nelle pagine dello studioso polacco corre il medesimo rovello che anima l’Apologia della storia di Marc Bloch, il medesimo tormento nel perseguire, con rigorosa determinazione, una integrazione possibile tra l’impegno professionale dello studioso e l’impegno civile e politico. Una delle sue opere di ricerca più riuscite sotto il profilo di tale integrazione è, com’è noto, la Teoria economica del sistema feudale. Proposta di un modello, del 196230. Si vuole offrirne in questa sede qualche cenno sintetico, poiché sono in essa ritrovabili, in maniera esemplare, gli elementi istituzionali di una storiografia economica e sociale di carattere strutturale e comparativo.
Il modello polacco di Kula riprende, infatti, l’impostazione di Bloch di una storia comparata delle società nazionali europee in reciproca interazione, traducendolo nei termini di un confronto fra il modello preaccu- mulativo occidentale e quello preaccumula- tivo polacco-orientale — il modello è generalizzabile anche aH’Ungheria e alla Russia — ad economia naturale e feudale, investito
28 Con ammirevole franchezza Braudel ha avuto modo di dichiarare in un suo intervento in America: “Witold Kula è, detto in gran sincerità, molto più intelligente di me, ma quando parla non ha un altoparlante. Quando io parlo, c’è l’altoparlante francese... Questo dà alla cultura francese una dimensione supplementare, anche quando non la merita. Immaginiamo Witold Kula nato a Parigi e io a Cracovia, le situazioni sarebbero rovesciate e i ruoli molto più giusti”. F. Braudel, I tempi della storia, cit., p. 104.29 Bronislaw Baczko, Introduzione a Witold Kula, Riflessioni sulla storia, Venezia, Marsilio, 1990, pp. X-XI e XVII.30 Traduzione italiana Torino, Einaudi, 1970.
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da un processo esterno di mercantilizzazione da parte del mercato occidentale; la lunga durata di Braudel ritma la dinamica di lungo periodo delle relazioni economiche d’interdipendenza costitutive il sistema economico polacco, le quali, però, “proprio perché sono interconnesse, appaiono pressappoco contemporaneamente e pressappoco contemporaneamente spariscono, cedendo il posto ad altre. La datazione empirica del loro apparire e del loro sparire ci consente di fissare i limiti cronologici di un determinato sistema economico”31. Sincronia e mutamento vengono dunque documentati nel corso della ricerca, e il secondo non viene dissolto nella lunga durata della trasformazione economica globale, com’è il caso della rivoluzione industriale inglese nella trattazione di Braudel; la dimensione del mutamento prende significato, ovviamente, perché riferita a una struttura economica e sociale ben delimitata nelle sue relazioni costitutive, ma che potrebbe non rilevarsi se il quadro di riferimento assunto fosse l’interdipendenza analitica su scala planetaria che insieme con la lunga durata sono i veri soggetti storici, di natura impersonale, della storiografia di Braudel32.
Molte sono le componenti culturali che alimentano la storiografia di Kula: il marxismo, come s’è detto, la tradizione sociologica francese e quella storica delle “Annales”, la teoria economica neoclassica, la tradizione scientifica polacca di logica e filosofia della scienza33. Ma in una prospettiva più ravvicinata e professionale, centrale è l’indicazione che ogni struttura deve essere determinata e datata empiricamente, quindi tra
dotta nei termini di un sistema di cui la teoria economica offre il modello di funzionamento. Inoltre, se la costruzione del sistema economico ha e non può non avere carattere mentale ed euristico, esso deve pur sempre salvaguardare, entro l’economia della propria tessitura logica, un momento sostanziale, corposo della storia, il marxiano modo di produzione, relativo alle relazioni conflittuali di classe, che governano l’attribuzione delle forze produttive, la produzione e ri- partizione del surplus, eccetera. Ma altrettanto centrale è l’affermazione che le relazioni relative al modo di produzione sono visibili solo attraverso il mercato e le connesse relazioni di comportamento dei soggetti economici investiti dal confronto tra investimenti e risultati, le sole relazioni che “rendono possibile un’analisi scientifica, proprio perché solamente questi rapporti danno origine a fonti storiche”. Pertanto l’analisi dei fenomeni di mercato ha per scopo “di raggiungere la sfera più segreta della vita economica, la meno illuminata dalle fonti, e, nello stesso tempo, la più importante: la produzione”34. La lucidità e la concisione di queste affermazioni sembrano avvalorare, nella loro semplicità, l’attualità di una lezione fondata sull’uso di sistemi e modelli empiricamente determinati e comparati, sulla sintesi di microeconomia e macroeconomia, di durata e mutamento. Negli ultimi numeri delle “Annales” , dopo le perplessità degli ultimi dieci-quindici anni, sembra riaffiorare l’eco di questa lezione: verso nuove alleanze tra economia e storia?35
Aldino Monti
31 W. Kula, Teoria economica, cit., p. 210.32 G. Gemelli, Fernand Braudel e le ambivalenze della storia comparata, in Pietro Rossi (a cura di), La storia comparata. Approcci e prospettive, Milano, Il Saggista, 1990, p. 237. Cfr. anche W. Kula, Histoire et économie: la longue durée, in “Annales E.S.C.” , 1, 1960.33 Cfr. M. Herling Bianco, Una storia per comprendere il presente, cit.34 W. Kula, Teoria economica, cit., pp. 11-12.35 Robert Boyer, Economie et Histoire: vers de nouvelles alliances, in “Annales E.S.C.” , 6, 1989.
L’Urss verso la guerra fredda Un “lungo telegramma” sovietico?
di Silvio Pons
Le nostre conoscenze sulle origini e sugli sviluppi della guerra fredda si basano ancora oggi su una base documentaria assai squilibrata. È disponibile una documentazione molto ricca, e una vastissima letteratura storica, sulla politica estera degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Restano invece a tut- t’oggi poverissime le informazioni sulla politica estera dell’Urss dopo il 1945. Ciò non riguarda solo l’accesso agli archivi: mancano infatti anche collezioni ufficiali di documenti diplomatici sovietici, quali sono state pubblicate per il periodo 1917-1945. Una ri- costruzione degli orientamenti internazionali dell’Urss nel dopoguerra è possibile solo tramite l’esame della stampa e tramite l’impiego di fonti indirette (archivi diplomatici occidentali, memorie di statisti occidentali e di leader comunisti, documenti sull’attività dei principali partiti comunisti occidentali). Queste fonti conserveranno rilevanza sino a che permarrà la chiusura degli archivi sovietici e la politica restrittiva nella pubblicazione di nuova documentazione. Tuttavia il loro carattere parziale è evidente. Perciò la declassificazione e la pubblicazione di nuovi documenti, che ci consentano una comprensione diretta della politica estera sovietica dopo il 1945, costituirebbe un fatto di estrema importanza per gli storici. Le drammati
che vicende politiche sovietiche, tra la fine del 1990 e l’inizio del 1991, sembrano purtroppo allontanare ancora la possibilità che un simile passo venga compiuto, quanto meno in una misura significativa, proprio quando esso pareva divenire realizzabile. Per il momento, ci si deve limitare ad esaminare documenti isolati, pubblicati in ordine sparso, valutandone di volta in volta il significato storico, non sempre apprezzabile in assenza di un adeguato quadro di riferimento.
Tale significato appare tuttavia immediatamente rilevante nel caso del documento redatto dall’ambasciatore sovietico a Washington, N.V. Novikov, datato 27 settembre 1946, di recente pubblicato in Urss1. Il curatore della pubblicazione, lo storico V.L. Malkov, ha presentato il testo di Novikov, dedicato ad un’analisi della politica estera americana, assieme al noto “lungo telegramma” di George Kennan del febbraio 1946 (per la prima volta pubblicato in Urss), stabilendo tra i due documenti una precisa analogia. Novikov era stato nominato ambasciatore negli Stati Uniti pochi mesi prima, il10 aprile 1946, quale successore di Gromiko.11 31 maggio ebbe il suo primo incontro, in questa veste, con il segretario di Stato Byrnes e il 3 giugno presentò le proprie creden-
1 Pervyepis’ma s “cholodnoj vojny”, “Mezdunarodnaja Zizn’”, 1990, n. 11, pp. 138-154. Il documento redatto da Novikov, pubblicato con il titolo Vnesnajapolitika Ssa v poslevoennyjperiod, è alle pp. 148-154.
Italia contemporanea”, giugno 1991, n. 183
286 Silvio Pons
ziali al presidente Truman. Tuttavia egli si trovava negli Stati Uniti sin dall’ottobre 1944 e poteva perciò essere considerato a Mosca un conoscitore largamente attendibile della politica americana2. La sua analisi della politica estera americana appare, in altre parole, sufficientemente autorevole per poter sostenere il parallelo con quella della politica estera sovietica compiuta, alcuni mesi prima, da Kennan. Inoltre, anche se la mancanza di una più ricca documentazione ci impedisce di valutare appieno le implicazioni e le ripercussioni di tale analisi presso i governanti dell’Urss, è lecito ritenere, come vedremo, che esse furono significative. Ci si troverebbe insomma di fronte ad un vero e proprio “lungo telegramma” sovietico.
Al fine di verificare la fondatezza di tale valutazione occorre compiere una collocazione storica del documento. È perciò opportuno richiamare i dati principali degli orientamenti sovietici in campo internazionale nel primo anno del dopoguerra, proprio a partire dalla data del “lungo telegramma” di Kennan, inviato da Mosca a Washington il 22 febbraio 1946. Il suo contenuto sarebbe divenuto di pubblico dominio solo oltre un anno più tardi, sotto forma del celeberrimo articolo sulle “fonti della condotta sovietica” apparso sulla rivista “Foreign Affairs” nell’estate 1947, con l’enigmatica firma di “Mister X” . È appena il caso di rammentare che il dispaccio di Kennan, con la sua sottolineatura del fatto che
l’atteggiamento sovietico in campo internazionale era rigidamente dettato dalla persuasione della divisione del mondo in due campi tra loro contrapposti e dalle priorità di consolidamento della dittatura all’interno, contribuì ad un serio riorientamento della politica estera americana verso l’Urss nel febbraio-marzo 19463. Dal punto di vista della politica sovietica, il luogo classico sul quale viene spesso richiamata l’attenzione è però l’impatto del discorso tenuto da Churchill a Fulton, che proclamando la creazione della “cortina di ferro” portò un serio contributo pubblico al riorientamento occidentale nel pieno della crisi iraniana4. Sulle conseguenze del discorso di Fulton ha soprattutto insistito la storiografia ‘revisionista’ della guerra fredda5. Tale insistenza, presente anche in resoconti di testimoni dell’epoca6, può oltretutto fondare la propria legittimità sulle memorie di Chruscev, che suggeriscono la tesi che Stalin abbia visto nel discorso di Fulton il primo grave atto di rottura dell’alleanza bellica7. Gli storici della politica estera dell’Urss hanno tuttavia ridimensionato l’opinione che gli orientamenti sovietici vadano esclusivamente interpretati in termini di risposta ad un simile atto8.
Per quanto riguarda l’atteggiamento di Stalin, le nostre conoscenze sono assai limitate e si basano sulle sue calibrate sortite pubbliche, compiute nel corso del 1946 in numero consistente per i costumi dell’autocrate. Senza dubbio, la sua risposta al di-
2 N.V. Novikov, Vospominanija diplomata. Zapiski 1938-1947, Moskva, 1989, pp. 322-32.3 Cfr. John L. Gaddis, The United States and the Origins o f the Cold War, 1941-1947, New York-London, Colu- mugh UP, 1972, p. 284; Daniel Yergin, Shattered Peace. The Origins o f the Cold War and the National Security State, Boston, Houghton Mifflin, 1977, p. 170.4 Cfr. F.J. Harbutt, The Iron Curtain. Churchill, America, and the Origins o f the Cold War, Oxford UP, 1986, cap. 7.5 Si veda, ad esempio, J. e G. Kolko, I limiti della potenza americana. Gli Stati Uniti nel mondo dal 1945 al 1954, Torino, Einaudi, 1975, pp. 54-57.6 Cfr. Alexander Werth, L ’Unione Sovietica nel dopoguerra, Torino, Einaudi, 1973, p. 102.7 Cfr. Kruscev ricorda, Milano, Rizzoli, 1970, pp. 384 e 419.8 Cfr. Adam B. Ulam, Storia della politica estera sovietica (1917-1967), Milano, Rizzoli, 1970, p. 604.
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scorso di Fulton, fornita in un’intervista alla “Pravda” il 14 marzo 1946, giustifica l’impressione che dai sovietici esso non potesse non essere valutato come un minaccioso segnale d’allarme. Stalin mostrò di considerarlo un ultimatum da parte dello statista inglese e dei suoi “amici”, che giudicava attivi “non solo in Inghilterra, ma anche negli Stati Uniti d’America”, tale da porre un’inaccettabile alternativa tra il riconoscimento sovietico del predominio delle forze più reazionarie dell’Occidente e una guerra contro l’Urss9. Tuttavia, in realtà, forzò deliberata- mente il significato delle parole di Churchill al fine di affermare la funzione dell’Urss quale baluardo contro il nuovo “pericolo di guerra” . È opportuno ricordare che Stalin aveva ribadito un punto fermo delle proprie concezioni di politica estera prima ancora del discorso di Fulton. Nel proprio discorso elettorale del 9 febbraio, presentò la seconda guerra mondiale come “il risultato inevitabile” dello sviluppo delle forze economiche e politiche basate sul capitalismo monopolisti- co, la cui divisione in diverse “sfere d’influenza economica” aveva prodotto una spaccatura tra campi contrapposti. Colse anche l’occasione per notare che tale divisione non poteva essere realizzata pacificamente “nelle attuali condizioni capitalistiche di sviluppo dell’economia mondiale”10. In altre parole, la lezione marxista-leninista relativa alle cause della guerra restava valida anche nel secondo dopoguerra del secolo. La percezione del discorso di Fulton pubblicamente resa manifesta da Stalin si uniformava a questa dottrina politica, formulata indipendentemente dal riorientamento occidentale del febbraio-marzo 1946. In una nuova intervista che seguì di una settimana quella contenente la risposta a Churchill, Stalin ri
badì 1’esistenza di un pericolo di guerra, determinato dall’azione di “alcuni gruppi politici” , senza però precisare la propria opinione circa la consistenza di tale minaccia e circa la verosimiglianza di una simile prospettiva. Fece cenno ad un secondo punto, il timore che nel mondo del dopoguerra si affermasse l’egemonia e il “dominio” di un’altra potenza: si doveva attribuire all’Onu una rilevante funzione, in quanto questa organizzazione si basava sul principio della “parità dei diritti” tra gli stati, e non, appunto, sul principio del “dominio”11.
Due motivi furono dunque centrali negli interventi di Stalin del febbraio-marzo 1946: quello dei possibili sviluppi di una nuova guerra, da lui ritenuta comunque inevitabile per la natura stessa del capitalismo; quello dei rapporti di forza che si stavano instaurando nel mondo postbellico. A tali motivi era strettamente legato il problema della sicurezza nazionale. Stalin chiarì nel discorso di febbraio che l’Urss avrebbe continuato a contare massicciamente sulla propria forza militare e industriale; nello stesso tempo, nella sua risposta a Churchill, difese l’influenza in Europa orientale come una decisiva garanzia di sicurezza per lo stato sovietico. Ma la definizione dei fattori della sicurezza e la comprensione stessa del mondo del dopoguerra da parte sovietica non poteva prescindere dall’esame delle “contraddizioni interimperialistiche” : da questo punto di vista, occorreva stabilire se le relazioni tra le principali potenze capitalistiche fossero di tipo conflittuale o meno e se autorizzassero perciò l’ulteriore impiego di quella categoria, che in passato aveva svolto un’essenziale funzione di rassicurazione per lo stato sovietico. Dopo il mese di marzo, Stalin mantenne un silenzio di circa sei mesi, se si fa ecce
9 Iosif Vissarionovic Stalin, Works (Socinenija), voi. 3 (XVI), Stanford, 1967, p. 36.10 I.V. Stalin, Works, cit., pp. 2-3.11 I.V. Stalin, Works, cit., pp. 45-46.
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zione per il suo prikaz del Primo maggio, nel quale si limitò a reiterare la propaganda contro “i portatori di una nuova guerra”12. I governanti sovietici parvero concentrarsi sui problemi di politica interna, a cominciare dal lancio della ricostruzione economica e del quarto piano quinquennale, avvenuto nel mese di marzo. Parallelamente, anche il partito comunista conobbe un serio processo di riorganizzazione, diretto a configurare la restaurazione del sistema di potere prebellico. Tale processo si sovrappose al brutale irrigidimento ideologico del regime, promosso a partire dal mese di agosto sotto l’egida di Zdanov e destinato a rafforzare il reciproco condizionamento tra la politica interna e la politica estera del regime13. Va svolta, a questo proposito, una considerazione: solo nella primavera-estate 1946, secondo le nostre attuali conoscenze, si consolidò in Urss un orientamento definito di politica interna; è probabile che ciò abbia avuto ripercussioni sulla definizione degli orientamenti di politica estera e che i tempi della politica sovietica fossero diversi dai tempi di quella americana, per la rigidità della politica totalitaria, per le difficoltà dovute alle distruzioni della guerra, che avevano accresciuto la fragilità delle basi economiche e sociali dell’Urss, per l’inadeguatezza culturale della leadership staliniana ad orientarsi nel nascente mondo del dopoguerra.
Stalin tornò a far sentire la propria voce il 17 settembre 1946, con un’intervista ad Alexander Werth. Questa volta il suo atteggiamento fu meno allarmista e più accentuatamente moderato. Sostenne ora di non credere né nel reale pericolo di una nuova guerra, né in quello di un “accerchiamento capitalistico” da parte di Stati Uniti e Gran
Bretagna, “anche se lo volessero, cosa che però non posso affermare” . Escluse che la politica sovietica in Germania fosse diretta contro l’Europa occidentale, in quanto ciò avrebbe contrastato con i “fondamentali interessi nazionali” dell’Urss. Precisò di non considerare le armi atomiche un dato strategico primario, perché esse “non possono decidere i destini della guerra”14. A proposito di quest’ultimo argomento, prescindendo dall’interrogativo se l’autocrate fosse sincero fino in fondo, occorre notare che esso si inquadrava coerentemente in una concezione politica incline a percepire assai più i caratteri di continuità, che non quelli di novità, rispetto al decennio prebellico. In ogni caso, non si può dire che tali affermazioni chiarissero gli indirizzi di Stalin, specie sotto il profilo della valutazione dei problemi della sicurezza nazionale e dei rapporti di forza internazionali. Presi in blocco, i suoi interventi del 1946 presentano una visione internazionale improntata alla Realpolitik, ma anche in continuità con le categorie politiche e ideologiche impiegate prima della guerra. Con una sola vera differenza: soprattutto dalle risposte date a Werth, si può dedurre che Stalin muovesse dalla consapevolezza di una crescita del ruolo della potenza sovietica rispetto agli anni trenta.
Possiamo ora esaminare e valutare, alla luce degli aspetti sin qui passati in rassegna, i dati essenziali del documento di Novikov. È però opportuno compiere un’osservazione preliminare. Le memorie dell’ambasciatore ci forniscono alcune informazioni assai importanti circa l’origine e la redazione di questo documento. La compilazione di una relazione sulle tendenze della politica estera americana venne espressamente richiesta da Molotov a Nikolov durante i lavori della
12 I.V. Stalin, Works, cit., p. 49.13 Cfr. W.O. McCagg, Stalin Embattled. 1943-1948, Detroit, 1978.14 I.V. Stalin, Works, cit., pp. 53-54; cfr. inoltre A. Werth, L ’Unione Sovietica, cit., pp. 130-132.
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conferenza di Parigi, alla quale l’ambasciatore venne incluso nella delegazione sovietica. Lo stesso Molotov intervenne sull’elaborazione del documento, inserendovi osservazioni e tesi proprie. La pesantezza di tale intervento avrebbe suscitato l’irritazione di Novikov e provocato una reciproca freddezza tra i due. Egli riferisce addirittura che il testo finale della relazione “solo relativamente” avrebbe riflesso la propria visione. La sua lettura non suscitò dibattito alcuno, con l’eccezione di poche positive notazioni del suo “anonimo coautore” , il ministro degli Esteri'5. Questi ultimi rilievi vanno accolti con una certa cautela: si deve tenere presente che Novikov tiene a distinguere le responsabilità e a differenziare la propria figura da quella di Molotov, politicamente in disgrazia dopo il 1957. Tuttavia il dato principale e per noi di maggiore interesse, sul quale non c’è motivo di sollevare dubbi, è che quanto meno il documento rispecchiava fedelmente le opinioni di Molotov. Passaggi cruciali del testo furono oltretutto da questi accuratamente sottolineati a matita: un particolare che sembra confermare una sostanziale identità di vedute. La matita del ministro degli Esteri compare sin dalla prima frase, che conteneva anche la tesi principale della relazione: la politica estera degli Stati Uniti nel periodo postbellico si caratterizzava ormai “per la tendenza al dominio mondiale"'6.
La relazione di Novikov si articolava su sette punti, che possono essere ridotti a cinque: 1) il confronto tra la politica estera americana prima della guerra e dopo la guerra; 2) l’influenza della politica interna sulla politica estera degli Stati Uniti; 3) la forza militare degli Stati Uniti; 4) i rapporti tra Stati Uniti e Gran Bretagna; 5) la politi
ca degli Stati Uniti verso l’Urss. Bisogna però subito rilevare che, in realtà, ad occupare un posto centrale erano gli ultimi due punti, che possono essere letti sotto l’aspetto dell’identificazione del nemico e delle conseguenze politiche da trarre da tale identificazione. Se dobbiamo riprendere il parallelo con il “lungo telegramma” di Kennan, è necessario osservare che Novikov era molto lontano dal possedere le caratteristiche di conoscenza storica e di penetrazione intellettuale proprie del diplomatico americano. La relazione dell’ambasciatore presentava piuttosto, in piena sintonia con i caratteri della cultura politica sovietica, spiccati connotati ideologici ed era del tutto priva di sofisticate mediazioni culturali nella formulazione del giudizio politico.
Novikov richiamava anzitutto l’attenzione sulla diversità della situazione degli Stati Uniti rispetto al periodo prebellico. A suo giudizio, tale differenza rappresentava una conseguenza del corso assunto dagli eventi bellici. Sin daH’inizio, tramite questa impostazione, era il “fattore Urss” che veniva posto al centro: proprio la resistenza e la vittoria sovietica nella guerra con la Germania era infatti l’elemento strategico che mutava il quadro delle previsioni che sarebbero state proprie degli “imperialisti americani” . Mentre le due “potenze aggressive”, la Germania e il Giappone, erano in ginocchio, e la Gran Bretagna si trovava in seria difficoltà, l’Urss costituiva l’unico elemento di ostacolo al predominio e alla penetrazione economica americana in Europa e in Asia. Nello stesso tempo, rimarcava l’ambasciatore (e Molotov sottolineava), essa “possiede attualmente posizioni internazionali significativamente più solide, che nel periodo prebellico” : era la nuova situazione dell’Europa centrale e
15 N.V. Novikov, Vospominanija diplomata cit., pp. 352-35.16 Vnesnajapolitika, cit., p. 148. Segnaleremo da ora in avanti in corsivo i passi del documento sottolineati da Molotov.
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orientale a costituire la base per questa affermazione17. Veniva così rovesciata sugli americani l’accusa di “espansionismo”: una tendenza alla quale solo l’Urss poteva ormai opporsi. In altre parole, la visione della situazione internazionale postbellica proposta da Novikov faceva perno sul riconoscimento di fatto dell’esistenza di due poli fondamentali, e sembrava anzi porre tutti i presupposti per sostituire il vecchio concetto dell’ “accerchiamento capitalistico” con quello nuovo del bipolarismo. Sotto questo profilo, l’ambasciatore pareva insistere su un significativo elemento di giudizio che era possibile ricavare dall’intervista di Stalin a Werth. Va anche rilevato che la relazione non faceva neppure cenno alla tradizione isolazionista americana: essa sembra perciò smentire l’opinione che i sovietici nutrissero l’aspettativa di una ripresa di quella tradizione18. Sul secondo e sul terzo punto, quelli dei fattori interni della politica estera e del potenziale bellico americano, il giudizio di Novikov appare più scontato. Egli si limitava a ribadire che l’avvento di Truman aveva rappresentato una svolta verso l’influenza “da parte dei circoli più reazionari del partito democratico” e un decisivo indebolimento degli orientamenti roo- seveltiani. Quanto all’aspetto militare, l’ambasciatore richiamava l’attenzione sulla crescita delle spese statali in questo settore19.
Assai più accuratamente egli si soffermava invece sulle relazioni tra Stati Uniti e Gran Bretagna, che a suo giudizio stavano realizzando una “parziale spartizione del mondo”20. Novikov negava che fosse possibile, per il momento, scorgere profondi contrasti di natura imperialistica tra le due maggiori potenze occidentali. L’espansione dell’influenza americana in Estremo oriente, in
17 Vnesnaja politika, cit., p. 149.18 A.B. Ulam, Storia delta politica, cit., p. 624.19 Vnesnaja politika, cit., pp. 149-150.20 Vnesnaja politika, cit., p. 150.21 Vnesnaja politika, cit., p. 152.22 Vnesnaja politika, cit., p. 153.
particolare in Cina, non costituiva una minaccia per gli interessi dellTmpero britannico. Era vero che, se la “spartizione” dell’Estremo oriente poteva considerarsi un “fatto compiuto” , non si poteva dire altrettanto per il Mediterraneo e per la penetrazione del capitale americano nel Vicino oriente: una conferma in questo senso era rappresentata dalla Palestina, dove si profilavano “serie contraddizioni” tra le due potenze. Era anche vero, in termini più generali, che, mentre l’Inghilterra guardava agli Stati Uniti come ad un “possibile alleato”, questi ultimi non potevano non considerare l’Inghilterra come un “potenziale concorrente”. Si era tuttavia creata la possibilità di una “riduzione” della “competizione” tra i due paesi21. L’accento di Novikov cadeva prevalentemente sulla convergenza politica in atto tra le due potenze occidentali: si doveva riconoscere che esse, recentemente, “coordinano strettamente la propria politica, soprattutto in quei casi in cui è necessario contrastare la politica dell’Unione sovietica” . Tale convergenza non aveva ancora assunto il carattere di un’alleanza militare, quale era stata richiesta da Churchill a Fulton. Ma la realizzazione di una simile alleanza, lasciava intendere Novikov, era solo questione di tempo. Con il passare del tempo però, aggiungeva l’ambasciatore, anche le “contraddizioni” tra le due potenze occidentali, proprio a cominciare dal Vicino oriente (“il centro delle contraddizioni angloamericane”) erano destinate a riemergere e a presentarsi come un fattore decisivo22. In altre parole, la loro convergenza politica doveva essere considerata un dato contingente e non durevole. Circa la questione delle “contraddizioni interimperialistiche”, il documento suggeriva
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così che tale categoria manteneva una sua validità, aggiungendo però con realismo che gli attuali sviluppi politici la ponevano in secondo piano. È probabile che una simile impostazione possa aiutarci a comprendere meglio l’origine delle affermazioni sovietiche, che nei primi anni del dopoguerra, in più di un’occasione, reiterarono contro ogni evidenza la tesi di una futura conflittualità tra le due potenze occidentali23.
Nel punto conclusivo della propria analisi, quello sulla politica degli Stati Uniti verso l’Urss, Novikov esplicitava la valutazione implicita nella sua tesi iniziale: la politica dell’amministrazione Truman mirava a rompere l’alleanza del tempo di guerra, con lo scopo di “imporre alì’Urss la volontà di altri stati”. A suo avviso, tutte le componenti della politica estera americana dovevano essere interpretate sotto questa luce. Quanto alla politica americana verso l’Europa orientale, questa avrebbe mirato alla “creazione di ostacoli ai processi di democratizzazione di questi paesi”, perseguendo il duplice obiettivo di una riduzione dell’influenza sovietica e di una “penetrazione del capitale americano” nei paesi dell’area. Quanto alla politica americana verso la Germania, anche in questo caso era ritenuto scoperto il tentativo di opporsi alla “riorganizzazione democratica” e alla “liquidazione dei residui” del nazismo, mentre si delineava la volontà di porre fine all’occupazione alleata senza che questi obiettivi fossero raggiunti. Ciò costituiva una diretta minaccia alla sicurezza dello stato sovietico: si ponevano infatti i presupposti “per la rinascita della Germania imperialistica, che gli Usa contano di usare a proprio vantaggio nella futura guerra” . Tale politica non poteva non rappresentare “un chiaro e
definito strale antisovietico”24. Vale la pena di osservare che poco dopo, il 10 ottobre, alla conferenza di Parigi, Molotov avrebbe indicato la presenza di “due metodi” nella politica internazionale, il primo basato sulla “violenza” e sul “dominio” e il secondo basato sulla “collaborazione democratica” , e avrebbe ammonito “qualsiasi forza estera” a non violare “i diritti dei popoli” conquistati nella guerra contro la Germania e il Giappone25. Poco dopo Zdanov avrebbe accennato all’esistenza di “due tendenze” venute alla luce nella politica internazionale del primo anno postbellico, che definì in termini analoghi a quelli impiegati da Molotov26.
I perentori giudizi della relazione rivelano, anzitutto, una concezione esasperata della sicurezza nazionale dell’Urss, che emergeva attorno al problema dell’assetto dell’Europa delineato a Jalta e a Potsdam. Il senso del rafforzamento della potenza sovietica e della crescita del suo ruolo internazionale, presente nel documento, pareva acuire, piuttosto che ridimensionare, questa caratteristica storica dello stalinismo. La relazione indicava chiaramente la prospettiva di un confronto tra Urss e Stati Uniti (suggerendo implicitamente, anche se Novikov non usava questa formula, che il conflitto principale fosse ormai quello tra capitalismo e socialismo). Da questo punto di vista, nell’analisi dell’ambasciatore possiamo forse avvertire l’eco della tesi che l’influente economista Varga venne sostenendo nel 1946 circa il ruolo preponderante degli Stati Uniti nella scena economica e politica del dopoguerra e circa la conseguente attenuazione delle “contraddizioni interimperialistiche”, che egli parve ammettere pur senza mancare di menzionare il potenziale contrasto tra gli
23 È questo il caso, in particolare, del discorso tenuto da Zdanov alla riunione costitutiva del Cominform, nel settembre 1947; si veda “Bol’sevik”, 1947, n. 20.24 Vnesnaja politika, cit., pp. 153-154.25 Vnesnaja politika Sovetskogo Sojuza, 1946 god. , Moskva, 1952, pp. 378-379.26 “Bol’sevik”. 1946. n. 21.
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interessi americani e quelli inglesi. La differenza è però che la più rilevante implicazione dell’analisi di Varga era di suggerire una revisione della dottrina dell’inevitabilità della guerra: una conclusione che Stalin e Molotov non potevano condividere, come sarebbe divenuto chiaro negli anni successivi27.
Proprio la previsione della guerra costituiva l’ultimo dato rilevante della relazione. Novikov faceva cenno ai “dibattiti su una ‘terza guerra’, che si riferiscono ad una guerra contro l’Unione sovietica” e rilevava come in questi dibattiti ci si riferisse anche alla “minaccia dell’impiego della bomba atomica” (un passo che Molotov non sottolineò). Secondo l’ambasciatore, tale prospettiva veniva suscitata in larghi settori dell’opinione pubblica americana, con lo scopo di porre l’Urss sotto una “pressione politica” e di creare “un’atmosfera di psicosi bellica”. Ma è evidente che egli stesso considerava tale prospettiva alquanto realistica e probabile. La creazione dei presupposti “per la conquista del dominio mondiale” da parte americana doveva infatti necessariamente volgersi contro “il principale ostacolo” a tale dominio: perciò era facile prevedere che “la guerra futura” fosse preparata dagli Stati Uniti come una guerra “contro l’Unione sovietica”28. Tali drastici giudizi sembrerebbero stridere con quelli espressi da Stalin sia nell’intervista a Werth, sia in due successive interviste, nell’ottobre e nel dicembre 1946, nelle quali negò 1’esistenza di una situazione conflittuale tra Urss e Stati Uniti29. Ma, in realtà, abbiamo visto che la questione della guerra era stata posta da tempo dallo stesso Stalin. In una prospettiva strategica, la tesi
presentata nella relazione costituiva una piena conferma della visione staliniana.
Alla luce delle tesi di Novikov, la cautela mostrata pubblicamente da Stalin nella seconda metà del 1946 risulta dettata dalla mera motivazione tattica di guadagnare tempo, dinanzi ad un quadro internazionale il cui deterioramento era dato dai sovietici per acquisito molto prima dell’enunciazione della “dottrina Truman”. A questo riguardo, è necessario sottolineare soprattutto un aspetto. I contenuti del documento confermano in pieno le affermazioni rilasciate nel giugno 1946 da Maksim Litvinov, l’ex ministro degli Esteri sovietico, ormai emarginato da ogni incarico ufficiale30, in un’intervista che sarebbe stata resa nota solo dopo la sua morte, sei anni più tardi. In sostanza, Litvinov richiamò l’attenzione sul carattere ideologizzato della politica estera staliniana, a suo giudizio ancorata all’idea dell’inevitabilità di un conflitto tra il mondo sovietico e quello occidentale. Le osservazioni di Litvinov restano oggi un serio punto di riferimento per la valutazione della politica estera di Stalin alla fine della guerra31. Possiamo ora aggiungere che tutta l’analisi compiuta in quello stesso periodo in un documento diplomatico di primaria importanza, come la relazione di Novikov, era fortemente condizionata dagli assiomi attorno ai quali gravitava la politica internazionale staliniana. Sotto questo profilo, tale documento ci appare parte essenziale di un processo di predisposizione dell’Urss ad una rinnovata forma di antagonismo verso il mondo occidentale, per il quale esistevano da parte sovietica possenti presupposti politici e ideologici.
Silvio Pons
Sul “caso Varga” si veda, recentemente, G.D. Ra’anan, International Policy Formation in the Ussr. Fanctional ‘Debates’ during the Zhdanovshchina, Hamden, 1983.28 Vnesnajapolitika, cit., p. 154.20 I.V. Stalin, Works, 3, cit., pp. 57, 67, 69.30 Z. Sejnis, Maksim Maksimovic Litvinov: revoliucioner, diplomat, celovek, Moskva, 1989, p. 422.31 Si vedano le osservazioni di J. Haslam, Le valutazioni di Stalin sulla probabilità della guerra. 1945-1953, in L ’età dello stalinismo (a cura di Aurelio Natoli e Silvio Pons), Roma, Editori Riuniti, 1991.
L’esercito nel territorio italiano 1940-1943di Dorello Ferrari
Le pubblicazioni sull’esercito italiano nella seconda guerra mondiale sono ormai numerose, ma riguardano quasi esclusivamente le operazioni. Una lacuna che riduce la storia militare alle varie campagne di guerra condotte da frazioni dell’esercito fuori del territorio metropolitano, dato che solo allo scadere esatto del terzo anno di guerra, le operazioni investirono, con l’attacco a Pantelleria, il territorio nazionale. Rimangono pertanto inedite le vicende, dal 10 giugno 1940 al 10 giugno 1943, dell’esercito dislocato in Italia e che assorbiva fino a due terzi della forza complessiva1. Infatti, escluse le truppe in Africa orientale e compresi i carabinieri, erano alle armi nell’esercito: al 10 giugno 1940 (intervento in guerra) in Italia1.158.000 militari d’ogni grado e 322.000 fuori del territorio metropolitano; al 1° agosto 1941 (a mobilitazione conclusa) rispettivamente 1.565.000 e 895.000; al 30 settembre 1942 (massima espansione operativa)1.710.000 e 1.154.000; al 28 febbraio 1943 (dopo la ritirata in Russia e la perdita della Libia) 1.972.000 e 1.047.000; al 31 maggio
1943 (vigilia dell’invasione) 2.108.000 e891.000.
Un primo elemento da precisare è la catena di comando che inquadrava le truppe dislocate in Italia. Il comando dell’esercito apparteneva al re che lo aveva delegato al duce per le truppe operanti e lo esercitava attraverso il ministro della Guerra (sempre Mussolini) per le restanti truppe. L’espressione “truppe operanti” non era definita da alcuna norma. Comunemente si riteneva che si trattasse delle truppe dislocate nella zona delle operazioni2 determinata di volta in volta con bando del governo. A sua volta Mussolini-ministro aveva delegato gran parte dei suoi poteri al sottosegretario, salvo per le truppe dislocate in zona di operazioni che dipendevano dal capo dello Stato maggiore del regio esercito (Smre). Questi era agli ordini del comandante delle truppe operanti (Mussolini) il quale si poteva servire, per trasmettere le sue direttive, del capo dello Stato maggiore generale (Smg) per la parte tecnico-operativa e del sottosegretario alla Guerra per la parte amministrativa. In prati-
1 Una prima ricerca sulla forza dell’esercito italiano nell’ultima guerra è stata condotta da Giorgio Rochat che ne ha fatto oggetto della sua relazione al convegno su “L’Italia in guerra 1940-1943” organizzato dalla Fondazione Micheletti a Brescia dal 27 al 30 settembre 1989 (Atti in corso di stampa). 1 dati più sicuri, ai quali anche noi ci rifacciamo, sono alcune situazioni mensili redatte durante la guerra dall’Ufficio ordinamento e mobilitazione dello Stato maggiore dell’esercito e conservate nell’archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito (Auss- me) repertorio N-l 1, fondo Diari storici seconda guerra mondiale, raccoglitore 1509/B.2 Mario Montanari, L ’esercito italiano alla vigilia della seconda guerra mondiale, Roma, Ussme, 1982, p. 342, nota 87.
“Italia contemporanea”, giugno 1991, n. 183
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ca, le truppe dislocate in Italia dipendevano dallo Smre se si trovavano in zona di operazioni oppure se si trattava di unità mobilitate e dal ministero se erano dislocate in “territorio” e non mobilitate. Le competenze degli alti comandi intermedi riflettevano questa situazione.
Il comando delle truppe in territorio. Fin dal tempo di pace, il territorio metropolitano era stato diviso in quindici circoscrizioni che facevano capo normalmente ad altrettanti comandi di corpo d’armata “stanziali”, ognuno dei quali aveva, in subordine, nella stessa sede e per la medesima circoscrizione, un comando di Difesa territoriale. Le quindici circoscrizioni erano ripartite variamente in ventotto zone militari i cui comandi dipendevano da un comando di divisione di fanteria, fra quelli aventi sede nel territorio della stessa zona. Comandi di Difesa e di zona sovrintendevano, in esclusiva, alla difesa contraerea territoriale, a quella costiera e alla “protezione delle comunicazioni e impianti”, intendendosi per tali: linee ferroviarie, ponti, gallerie, centrali elettriche, acquedotti, opere ed edifici di interesse pubblico, magazzini e stabilimenti militari territoriali. In caso di mobilitazione dei corpi d’armata stanziali e delle divisioni di fanteria incaricate del comando delle zone, tutti gli altri compiti e il comando di tutte le truppe, nelle rispettive circoscrizioni, passavano ai comandi Difesa e di zona. In conclusione si immaginavano due eserciti: uno operante, inquadrato in armate e corpi d’armata, agli ordini dello Smre, e uno territoriale, inquadrato da comandi Difesa e di zona, agli ordini del ministro, ovvero del sottosegretario alla Guerra. Ma l’organo tecnico attraverso
cui il sottosegretario esercitava il comando era sempre lo Smre e, in particolare, il sottocapo di Stato maggiore dell’esercito per la difesa territoriale (Diter) da cui dipendevano comandi Difesa e di zona.
Il 10 giugno 1940, con bando3 di Mussolini nella sua qualità di comandante delle truppe operanti, furono dichiarate zona delle operazioni: le province di Aosta, Torino, Cuneo, Asti, Imperia e Savona; numerose località costiere; Sicilia e Sardegna. Al posto dei corpi d’armata di Milano, Bolzano e Napoli, mobilitati e inviati i primi due in Piemonte e l’altro in Libia, erano stati costituiti tre nuovi corpi d’armata “stanziali”, sicché tutto l’esercito in patria dipendeva dallo Smre. Il sottosegretario alla Guerra, generale Ubaldo Soddu, era stato nominato anche sottocapo di Stato maggiore generale e in tale veste avrebbe potuto sovrapporsi allo Smre. Ma né il capo di Smg, Badoglio, né il capo dello Smre, Graziani, gli dettero peso: infatti, Badoglio lo lasciò praticamente senza incarichi concreti e Graziani, lungi dal trattarlo come suo superiore, lo cacciò addirittura dalla zona delle operazioni contro la Francia nel giugno del 19404. Per Soddu si avvicinavano tuttavia tempi migliori. Al posto di Italo Balbo, caduto il 28 giugno a Tobruk, Mussolini nominò Graziani comandante superiore in Africa settentrionale, conservandogli formalmente l’incarico di capo dello Smre, come avevano suggerito Badoglio e Soddu. Di fatto lo Smre era stato decapitato a tutto vantaggio del sottosegretario alle cui dipendenze fu posta dal primo luglio anche la Diter5. Pertanto facevano capo al sottosegretario tutti gli enti e le unità non mobilitati, nonché la difesa contraerea, quella costiera e i reparti addetti alla protezione delle comunicazioni e degli impianti
3 M. Montanari, L ’esercito italiano, cit., pp. 553.4 Quirino Armellini, Diario di guerra, Milano, Garzanti, 1946, p. 35.5 Aussme, Carte Gabinetto Guerra, raccoglitore H .l/97.
Aggiornamenti sulla seconda guerra mondiale 295
attraverso i comandi di corpo d’armata rimasti in sede o direttamente attraverso i comandi Difesa. I nuovi corpi d’armata di Milano, Bolzano e Napoli erano stati disciolti alla fine di luglio6 come effetto, tra altri provvedimenti, di una parziale smobilitazione promossa sempre da Soddu. Le armate e i corpi mobilitati rimanevano formalmente agli ordini dello Smre senza titolare e, in quel momento, senza compiti operativi. Era quindi netta la prevalenza del sottosegretario. Questa situazione fu aggravata dall’ampia smobilitazione decisa il primo ottobre dopo un colloquio fra Mussolini e Soddu7.
Gli insuccessi in Albania provocarono un cambiamento della situazione tra novembre e dicembre8: convinto di mietervi allori, Soddu s’era fatto inviare in Albania il 9 novembre come comandante superiore, conservando le cariche di sottosegretario e sottocapo di Smg; il 29 fu sostituito dal generale Alfredo Guzzoni nelle due cariche; il 6 dicembre il generale Ugo Cavallero sostituì Badoglio e il 30 assunse anche il comando superiore in Albania. La situazione si chiarì ancor più a febbraio del 1941 quando, malamente sconfitto in Libia, Graziani lasciò ogni incarico e Roatta divenne capo dello Smre. A giugno, finite le operazioni nei Balcani, Cavallero tornò a Roma costituendo un vero e proprio comando supremo con effettivi poteri su tutte le forze armate, ma di fatto prevalenti sull’esercito9; la carica di
sottocapo di Smg fu abolita e Guzzoni fu sostituito come sottosegretario dal generale Antonio Scuero con poteri limitati al campo amministrativo10. Dal 9 luglio 1941 la Diter, con i comandi territoriali e le unità non mobilitate, ritornava alle dipendenze dello Smre11 la cui prevalenza fu definitivamente garantita, tanto più che la rimobilitazione generale dell’esercito attuata da Roatta nel 1941 si concludeva con l’assegnazione del territorio metropolitano ad armate, corpi d’armata e divisioni mobilitati. Non a caso successivamente fu ventilata la soppressione dei comandi Difesa e di zona, ma non fu attuata, sicuramente per pigrizia burocratica12. A gennaio del 1942 Roatta scambiò il posto con il generale Vittorio Ambrosio comandante della Seconda armata in Jugoslavia. Il nuovo capo dello Smre tenne la carica fino al 31 gennaio del 1943, quando fu nominato capo dello Smg in sostituzione di Cavallero. Allo Smre gli successe il generale Ezio Rosi che dal novembre del 1940 comandava la Sesta armata. Dopo nemmeno quattro mesi, Rosi fu allontanato13 e Roatta tornò a capo dello Smre.
Mobilitazione e addestramento. Fin dal 1941 Roatta si era preoccupato di impostare su basi più efficaci e sistematiche l’addestramento dell’esercito e la formazione dei reparti complementari14. Il livello addestrativo
6 L ’Esercito e i suoi corpi, voi. Ill, t. I, Roma, Ussme 1979. Si tratta di una sintesi delle vicende organiche delle grandi unità del regio esercito disciolte fra il 1940 e il 1945. Non sono stati pubblicati gli altri tomi dedicati ai reggimenti. Era stato invece pubblicato nel 1973 il li volume, in due tomi, concernente grandi unità e corpi conservati o costituiti dopo la guerra. Se non altrimenti annotato, rinviamo a quest’opera per i dati concernenti la storia delle grandi unità.7 M. Montanari, La campagna di Grecia, t. I, Roma, Ussme 1980, pp. 63-70.8 Emilio Faldella, L ’Italia nella seconda guerra mondiale, Bologna, Cappelli, 1959, pp. 295-305.9 Lucio Ceva, La condotta italiana della guerra. Cavallero e il Comando supremo 1941-1942, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 26-37.10 Ugo Cavallero, Comando supremo, Bologna, Cappelli, 1948, p. 102.11 V. nota 5.12 Verbali delle riunioni tenute dal capo di Smg, vol. Ili, Roma, Ussme 1985, p. 846.13 Paolo Monelli, Roma 1943, Mondadori, Milano, 1948 (cfr. edizione Oscar Mondadori, 1979, p. 81).14 Giacomo Zanussi, Guerra e catastrofe d ’Italia, Roma, Corso, 1946, pp. 150-159.
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dei quadri e della truppa era scarso, nonostante fosse rimasto in funzione durante la guerra il considerevole apparato scolastico dell’esercito, basato su 45 scuole o reparti- scuola15. All’addestramento delle reclute e alla mobilitazione dei reparti provvedevano i depositi. In totale erano dislocati in Italia circa 450 centri con funzioni principali o secondarie di deposito16.
Mobilitazione e approntamento dei reparti erano decisi dallo Smre, ma erano attuati con grande autonomia dai comandi di corpo d’armata stanziali ovvero dai comandi di Difesa. Lo Smre si limitava a disporre la mobilitazione e/o l’approntamento di un determinato reparto oppure di un’intera grande unità precisando alcuni punti: data, percentuale dell’organico di guerra da raggiungere, classi di leva da impiegare, categorie di ufficiali, modifiche alla struttura del reparto o dell’unità rispetto all’ordinamento e relative tabelle in vigore. L’ordine di mobilitazione era rivolto al deposito che doveva portare i reparti da mobilitare — già esistenti o da costituire ex novo — all’organico di guerra mediante il richiamo di uomini dal congedo; l’ordine di approntamento era rivolto al reparto che doveva assumere la formazione di guerra, sospendere permessi e licenze, ritirare dai magazzini i materiali di dotazione da portare al seguito: viveri di scorta, carburanti, medicinali e attrezzature sanitarie, strumenti da zappatore, munizioni da guerra. I due ordini potevano coincidere se il reparto si trovava al deposito. In effetti si diceva approntamento quando non erano
previsti richiami alle armi. Il comando di corpo d’armata “stanziale” o il subentrato comando di Difesa precisava ulteriormente le disposizioni, anche in relazione alla situazione locale della forza alle armi e di quella in congedo, e disponeva per le cosiddette perequazioni, cioè il trasferimento di uomini da depositi e reparti dove erano esuberanti, anche in specifiche specializzazioni o incarichi, ad altri depositi e reparti dove erano in difetto. I depositi incaricati procedevano con una certa rapidità alla formazione dei reparti attingendo uomini e materiali fra quelli disponibili in proprio o trasferibili, per perequazione, da altri depositi e magazzini. Questo sistema aveva il pregio della notevole semplicità e flessibilità, ma trascurava tradizioni, spirito di corpo, affiatamento e amalgama all’interno dei reparti e delle unità. Infatti essi venivano formati con quadri e uomini sempre nuovi, senza legami fra loro.
L ’alimentazione degli scacchieri operativi. Il difetto era poi aggravato dalla maniera con cui si ripianavano le perdite nei reparti mobilitati. In teoria ogni deposito avrebbe dovuto rifornire i propri reparti con uomini che ne avevano già fatto parte — richiamati alle armi e recuperati dagli ospedali — ovvero con reclute. Accadeva invece con frequenza che i reparti complementari venivano formati raccogliendo uomini disponibili in vari depositi; tali reparti si fondevano poi con qualsiasi unità ne avesse bisogno, indi-
15 Ministero della Guerra, Esercito anno XVII, Roma, Tipografia regionale, 1939. La permanenza per tutta la durata della guerra degli stessi enti addestrativi è confermata dalla memorialistica e dalle monografie dell’Ufficio storico; per esempio da Le operazioni delle unità italiane nel settembre-ottobre 1943, Roma, Ussme, 1975.16 Avevano deposito in Italia: 100 reggimenti di fanteria, 3 di granatieri, 12 di bersaglieri, 29 battaglioni alpini, 6 reggimenti carristi, 12 di cavalleria, 90 di artiglieria, 20 del genio, 1 chimico, 15 autocentri, 15 compagnie di sanità, 15 di sussistenza. (Ministero della Guerra, Gabinetto, circolare 3757, Comandi e corpi dell’esercito e loro sedi alla data del primo luglio 1939, conservata in Biblioteca d’artiglieria e genio, Roma). A tali depositi, la cui permanenza durante la guerra è confermata da varie fonti, bisogna aggiungere i 15 comandi di Difesa, i 101 distretti militari e molte delle scuole che fungevano anche da depositi.
Aggiornamenti sulla seconda guerra mondiale 297
pendentemente dal deposito di provenienza. Nell’estate del 1940, i battaglioni carri medi, appena costituiti nei depositi dei reggimenti dislocati in Italia, furono inviati in Libia. Negli anni successivi, le divisioni corazzate rimaste in Italia o nelle retrovie, appena completate, venivano private dei loro battaglioni carri a favore di quelle impegnate al fronte17. Nell’inverno 1940-1941, le unità mobili dislocate in Italia (3 armate, 22 corpi d’armata, 50 divisioni di cui 36 di fanteria, 4 alpine, 3 celeri, 2 motorizzate, 2 corazzate, 3 autotrasportabili) smobilitate a ottobre o in corso di smobilitazione e rientro ai depositi, dovettero essere rimobilitate e riaddestrate mentre erano direttamente o indirettamente coinvolte nella guerra di Grecia. Per alimentare gli scacchieri oltremare, molte unità furono private di reparti organici18. Perfino nelle unità alpine, il cui legame con il territorio di origine era tradizionalmente rispettato anche al livello compagnia-villaggio, ci furono larghe deroghe: per rinsanguare la divisione Julia in Albania, i cui depositi erano nel Veneto e in Abruzzo, si ricorse ai depositi liguri-piemontesi della divisione Cuneense19. Anche la cavalleria, pur rispettosa delle tradizioni, non fu esente da tale inconveniente: per esempio, i complementi per il Savoia cavalleria in Russia e per altri reggimenti nei Balcani furono tratti dal deposito del Nizza20. Un rimedio immediato ed efficace sarebbe stato la riduzione per fusione dei depositi in modo da poter raccogliere in un minor numero di centri gli istruttori e i mezzi a loro disposizione e collegare più unità operative allo stesso deposito, con vantaggio per lo spirito di corpo, l’affiatamento
e l’amministrazione (esistevano reparti o militari isolati amministrati da un deposito, in carico a un altro, distaccati presso unità dipendenti da un terzo eccetera, con relativa proliferazione di organi amministrativi, documentazione, uffici stralcio). Anche in questo campo, le difficoltà del nostro esercito derivavano in buona parte dalla dispersione di quadri e mezzi in troppe unità, singolarmente deboli e poco funzionali.
Lo Smre non pose fine a queste eccezioni ch’erano diventate regole, tuttavia si preoccupò della mancanza di addestramento dei complementi, segnalata dai comandi al fronte. Le truppe ai depositi erano affidate a pochi ufficiali richiamati dall’ausiliaria o dalla riserva, quindi molto anziani e le cui esperienze belliche risalivano alla grande guerra o, più spesso, a ufficiali di complemento, essi stessi bisognosi di istruzione. L’iniziativa più nota21 fu la costituzione nell’estate del 1941 di speciali battaglioni di istruzione dove far affluire militari designati in base all’attitudine al comando per un breve ma intenso periodo di addestramento e di selezione, restituendo poi gli idonei alle unità di provenienza come comandanti di squadra. Nel 1942 furono costituite infine cinque brigate di marcia per l’inquadramento e l’addestramento unitario dei complementi destinati ai vari scacchieri.
Programmi e realizzazioni. Nell’inverno 1941-1942 Roatta impostò un programma, poi completato da Ambrosio, per costituire nuove unità mobili, trasformarne altre, formare alcune unità speciali e riorganizzare
17 Dino Campini, Nei giardini del diavolo, Milano, Longanesi, 1969 e Aa.Vv., Corazzati italiani, Roma, D’Anna, 1968.18 M. Montanari, La campagna di Grecia cit., pp. 931-935 e Diario storico de! Comando supremo, voi. Il, t. Il, Roma, Ussme, 1988, p. 289.19 M. Montanari, La campagna di Grecia cit., p. 933.20 Giorgio Vitali, Sciabole nella steppa, Milano, Mursia, 1976, pp. 2-4.21 L. Ceva, La condotta italiana cit., pp. 161-164.
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una frazione dell’esercito di prima linea con mezzi e formazioni più adatte alle operazioni in corso o previste. Fra l’autunno del 1941 e la primavera del 1942 furono costituite tre divisioni autotrasportabili, otto di fanteria, una di paracadutisti, una aviotraspor- tabile e una alpina. Furono inoltre formati numerosi reparti minori (battaglioni controcarro, mortai, guastatori) e complementari. Tre divisioni di fanteria furono trasformate in unità da sbarco, una di fanteria e una autotrasportabile in divisioni motorizzate tipo Africa settentrionale. Le denominazioni non devono trarre in inganno: le otto divisioni di fanteria, classificate “da occupazione” , non avevano in origine artiglierie. Come le tre autotrasportabili, avevano scarsi mezzi di trasporto22, erano formate da uomini piuttosto anziani e rimasero a lungo sotto organico perché tra esonerati, dispensati, in licenza illimitata, prigionieri di guerra, feriti non recuperabili e caduti non erano più disponibili elementi delle classi giovani. La divisione alpina riuniva, a rotazione, vari reparti alpini “valle”, formati alla mobilitazione con clas
si non giovani; la classifica “da sbarco” si riferiva all’addestramento più che all’equipaggiamento e prescindeva dalla disponibilità di idonei mezzi nautici.
Si pose anche il problema se trasformare in meccanizzata l’arma di cavalleria sulla scia di altri eserciti. L’arma riuniva quadri e soldati ben selezionati, addestrati e con grande spirito di corpo. Sarebbe stato opportuno trasformare quei magnifici reggimenti in reparti motorizzati e corazzati concentrando in essi la produzione di carri armati, autoblindo, semoventi e automezzi che proprio nel 1941 fu consistente. Agli inizi del 1941 era stato proposto addirittura lo scioglimento dell’arma, ma Roatta si era opposto23. Il dilemma era reale: se si scioglieva l’arma, si perdevano ottimi reggimenti; ma se non si avevano i mezzi motocorazzati per trasformarla, la cavalleria rimaneva inutilizzabile nella guerra moderna. Sta di fatto che una decisione radicale non fu mai presa, ma fu dato un certo impulso alla costituzione di reparti corazzati di cavalleria24. Comunque, dei tredici reggimenti esistenti all’inizio della
22 Da un prospetto allegato — tabella O — al citato intervento di Rochat al convegno di Brescia, si evince, per esempio, che la divisione autotrasportabile Rovigo aveva 8000 uomini su 10500 stabiliti dalle tabelle organiche per le divisioni autotrasportabili, 1600 quadrupedi invece di 900, 132 automezzi su 533, era cioè una divisione di fanteria sotto organico.23 Acs, fondo Graziani; cfr. MacGregor Knox, La guerra di Mussolini, Roma, Editori riuniti, 1984, p. 39.24 Indicativo della povertà di mezzi, ma anche delle velleità e delle incertezze esistenti, fu il tentativo di trasformare in corazzata la divisione celere Emanuele Filiberto Testa di Ferro (Eftf) e, più in generale, quello di meccanizzare la cavalleria. Rientrata agli inizi del 1942 dalla Jugoslavia, la divisione, che già era senza artiglieria perché il comando di reggimento con i gruppi motorizzati era stato mandato in Libia e il gruppo a cavallo in Russia, fu privata dei lancieri di Firenze inviati in Albania e del Sesto bersaglieri destinato in Russia. In primavera fu decisa la sua trasformazione in divisione corazzata. L’unico reggimento rimastole, i lancieri di Vittorio Emanuele, doveva trasformarsi in reggimento carri medi; dal deposito dei lancieri di Firenze, a Ferrara, fu tratto il reggimento esplorante corazzato lancieri di Montebello e alla divisione furono assegnati il primo bersaglieri in rientro dalla Grecia e il 134° artiglieria motorizzato, di nuova costituzione. Ad agosto, non essendo ancora arrivati i mezzi corazzati, la cui produzione era assorbita dalla Libia, la divisione fu rimessa a cavallo con i reggimenti Nizza, Piemonte Reale e Genova e assegnata alla Quarta armata. Soltanto nel 1943 il Vittorio Emanuele e il Montebello ricevettero i mezzi corazzati e furono riuniti in una divisione di cavalleria corazzata, che assunse il nome dell’Ariete, distrutta in Africa settentrionale, e a cui furono assegnati anche il reggimento motorizzato cavalieggeri di Lucca, formato al deposito dei lancieri di Vittorio Emanuele, a Bologna, con uomini anziani dei gruppi appiedati di cavalleria già addetti alla difesa delle comunicazioni, nonché artiglieria motorizzata, semovente e contraerea, genio, servizi adeguati, 2000 automezzi e 1000 motociclette. Dall’autunno del 1941 ai primi mesi del 1943, la cavalleria formò inoltre: sei gruppi autoblindo, quattro gruppi carri leggeri, un reggimento esplorante corazzato (Lodi). Cfr. Carlo Ceriana Mayneri,
Aggiornamenti sulla seconda guerra mondiale 299
guerra, dodici rimasero a cavallo, in gran parte di presidio nei Balcani, teatro di guerra secondario.
Fino al 10 giugno del 1943 lo sviluppo e la dislocazione delle grandi unità mobili in Italia obbedì a esigenze costanti in ognuno degli scacchieri in cui di fatto si suddivideva il territorio metropolitano. Un primo scacchiere era costituito dal Piemonte e dalla Liguria dove rimase sempre un’armata con il compito di tenersi pronta a occupare il territorio francese fino al Rodano in caso di rottura dell’armistizio. Un secondo scacchiere poteva essere considerato l’insieme delle regioni venete, più Lombardia, Emilia e Romagna. Per tutta la durata della guerra rappresentò il santuario dell’esercito, per l’addestramento e la mobilitazione. In tempo di pace v’erano dislocate 28 divisioni sulle 64 che l’esercito contava e fra le migliori, comprese 10 delle 13 speciali (alpine, corazzate eccetera) nonché un numero proporzionale di grandi e piccole unità. Poiché vi avevano sede il relativo gran numero di depositi, la percentuale di uomini alle armi, rispetto alla popolazione maschile, fu superiore a quella di altre regioni. Ciò derivava dal sistema di mobilitazione: le unità di pace, costituite da coscritti provenienti da altre regioni, venivano mobilitate e alimentate in guerra con richiamati della zona; pertanto l’addensamento nel Veneto di molte unità di pace incideva sui riservisti veneti in proporzione maggiore di quanto accadeva in altre regioni. Dall’ottobre del 1941 tali regioni erano senza gran
di unità mobili, ma sempre con una forza notevole composta di truppe in addestramento, territoriali e dei servizi; a primavera del 1943 vi fu dislocata gran parte dell’armata reduce di Russia. Gli altri scacchieri metropolitani — Italia centrale, meridionale, grandi isole — furono invece dominati dagli sviluppi della difesa costiera.
Difesa costiera e contraerea. La difesa delle coste25 italiane rientrava nella difesa generica del territorio basata sulla vigilanza delle forze di polizia26 integrate da reparti territoriali. Ma nell’autunno del 1941 Roatta studiò la questione ex novo delineando con sorprendente acume le caratteristiche di moderne operazioni di sbarco consistenti nel rovesciare immediatamente sul tratto di costa attaccato ingenti forze anche corazzate dopo aver conquistato la supremazia aeronavale. Contro simili ipotesi, molto probabili se la guerra in Africa e nel Mediterraneo fosse volta a nostro sfavore, Roatta ritenne necessario ricorrere a un sistema di fortificazioni su tre linee successive d’arresto: spiagge, sbocchi verso l’interno e “bretelle” da costa a costa (depressione di Marcellinara in Calabria, linea di Cassino eccetera) per fermare la successiva avanzata del nemico. Per armare tutte queste fortificazioni ci sarebbero voluti almeno un milione di uomini e diecimila cannoni, oltre alle unità mobili previste per i contrattacchi in campo aperto. L’esercito di prima linea era ormai dislocato in
Parla un comandante di truppe, Napoli, Rispoli, 1947, pp. 91-100 e Marziano Brignoli, Raffaele Cadorna, Roma, Ussme, 1982, pp. 45-95.25 Nicola Della Volpe, Difesa del territorio e protezione antiaerea, Roma, Ussme, 1986.26 Fin dagli anni trenta era stato previsto l’impiego di forze di polizia per la vigilanza delle coste e delle “comunicazioni e impianti” . Per esempio, il 14 giugno 1935, in vista di complicazioni con l’Inghilterra a causa della spedizione in Africa orientale, lo Smre dispose che “per la protezione delle ferrovie e degli impianti, i comandi di corpo d’armata ripartiranno il territorio in settori cui saranno preposti ufficiali dei Cc.Rr. (carabinieri reali) che si avvarranno delle unità Cc.Rr., Regia guardia di Finanza e milizie speciali di stanza nei rispettivi settori” (Aussme, raccoglitore L. 10/132). Se il criterio fosse stato sviluppato e perfezionato, forse non sarebbe stato necessario mobilitare il milione di uomini circa per i reparti costieri e territoriali.
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buona parte fuori d’Italia. Con la mobilitazione delle classi meno giovani furono allora create le truppe costiere27. Organizzazione delle truppe e costruzione delle fortificazioni non collimarono; fino a tutto il 1942 si ebbero più truppe che fortificazioni, poi molte fortificazioni non poterono essere guarnite. Dal Territorio propriamente detto fu scorporata la “fascia di copertura costiera” , profonda una quindicina di chilometri, sottoposta alla giurisdizione militare delle truppe costiere e dipendente da comandi d’armata e di corpi d’armata. Detti comandi inquadravano anche le grandi unità mobili, reparti suppletivi, la difesa contro aviosbarchi. Ai comandi Difesa — autonomi se fuori dal territorio delle armate — rimanevano scuole, depositi, battaglioni territoriali per la “protezione delle comunicazioni e impianti” , la difesa contraerea territoriale, i servizi territoriali.
Dopo le prime azioni di Kommando britannici nell’inverno 1940-1941 in Italia meridionale28 fu costituita una rete capillare di difesa contro paracadutisti e aviosbarchi: guardie fisse, di consistenza dalla squadra alla compagnia, per tutti i possibili obiettivi militari e civili (fabbriche, ponti, acquedotti, depositi, ferrovie, traghetti, gallerie, centrali idroelettriche eccetera); reparti più grandi, anche con artiglierie, per la difesa vicina di porti e aeroporti; nuclei antiparacadutisti (Nap) motorizzati; gruppi tattici mobili o motorizzati di rinforzo. Nella fascia di copertura costiera, tutti questi compiti e i relativi reparti appartenevano alle grandi unità costiere. Nel resto del territorio vi erano battaglioni territoriali e Nap alle di
pendenze dei comandi Difesa. La difesa contraerea del territorio, con la partecipazione attiva di reparti e mezzi tedeschi, fu sviluppata e migliorata, sebbene fino alla fine numerosi obiettivi secondari rimanessero difesi da reparti di mitraglieri, della milizia e dell’esercito, con armi inefficaci contro i bombardieri avversari. Comunque, l’artiglieria contraerea fu il settore, di tutti gli armamenti terrestri, che ebbe il maggior sviluppo qualitativo durante la guerra, per bocche da fuoco moderne e addestramento del personale29. Nell’estate del 1941 furono introdotti in servizio i primi radiolocalizzatori (radar) italiani e tedeschi, presto aumentati di numero e di gittata. Su impulso di Caval- lero fu costituito a settembre del 1942 il primo reparto interforze di avvistamento e allarme. All’inizio del 1943 si costituiva il Servizio scoperta e segnalazione per l’avvistamento e la difesa aerea (Sssa) che unificava l’organizzazione in materia delle tre forze armate e della milizia artiglieria contraerea, Maca, una specialità della milizia fascista nata nel 1928 e formata da giovanissimi o anziani appartenenti quindi a classi che l’esercito non prevedeva di mobilitare. Il Sssa fu affidato a personale specializzato anche femminile. A primavera, l’intero territorio nazionale e un’area circostante, ampia abbastanza per segnalare con un certo margine di tempo l’avvicinamento di aerei nemici, sarebbero stati coperti dai radar30. Sebbene non si tratti di una rivelazione, perché la distribuzione di radar a non lunga gittata nel 1943 è cosa nota, molti dubbi rimangono, in assenza di più ampia documentazione, sull’efficacia della rete di avvistamento. Biso-
27 Dorello Ferrari, La difesa delle coste italiane nella seconda guerra mondiale, “Studi storico-militari”, 1987, Roma, Ussme, 1988.28 Luigi Emilio Longo, L ’incursione britannica sull’acquedotto pugliese (febbraio 1941’), “Studi storico militari”, 1988, Roma, Ussme, 1990, pp. 25-44.‘9 Comitato per la storia dell’artiglieria italiana, Storia dell’artiglieria italiana, edita a cura della Biblioteca di artiglieria e genio, Roma, 1953, vol. XV, pp. 588-640.30 Nino Arena, Il Sssa, “Rivista Militare”, luglio-agosto 1977, pp. 105-112.
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gnava tenere anche presente che lo sviluppo della difesa aerea — cannoni e velivoli da caccia — sebbene notevole, era meno che proporzionale allo sviluppo dell’offesa angloamericana. Pertanto, sul momento e nella pubblicistica del dopoguerra, furono sottovalutati i miglioramenti della difesa aerea italotedesca anche perché l’intensità dei bombardamenti servì a giustificare il crollo militare italiano.
Conclusioni. Tutti gli eserciti operanti della seconda guerra mondiale avevano in patria un’organizzazione di proporzioni considerevoli e non sempre funzionali. Per esempio, le forze terrestri inglesi dislocate nelle isole britanniche, cui presto si aggiunsero contingenti degli altri paesi del Commonwealth e più tardi anche degli Usa, rimasero sempre di gran lunga superiori a quelle dislocate oltremare sui vari fronti. Nei primi due anni di guerra erano male armate e quasi senza munizioni, ma l’alto comando britannico sapeva che di lì a poco avrebbe avuto mezzi moderni sufficienti per equipaggiare quei milioni di coscritti d’ogni età che stava addestrando per trasformare il piccolo esercito di mestiere del tempo di pace in un grande esercito di guerra31. In Germania, l’esercito che rimaneva in territorio aveva una propria organizzazione, un proprio comando, distinto dall’esercito operante, e perfino un proprio nome “Ersatzheer” (esercito di ri
serva). Assunse col tempo proporzioni notevoli, ma il suo sviluppo, come quello dell’esercito operante, fu graduale e costante, dal 1934 al 1944, mantenendo sempre, per tutte le unità, un alto livello addestrativo e di armamento32.
In Italia, le disponibilità materiali di partenza, la produzione bellica in atto e quella prevedibile, non avrebbero consentito uno sviluppo dell’esercito al di là delle unità di prima linea, già costituite fin dal tempo di pace. Anzi, sarebbe stato necessario contrarre anche queste e assumere formazioni organiche più consistenti, meglio inquadrate e addestrate. Comunque, la carenza generale di mezzi e le difficoltà logistiche nell’alimentare fronti lontani, indussero in qualche modo i responsabili a contenere le dimensioni delle unità mobili e delle truppe dislocate negli scacchieri oltrefrontiera e oltremare. Invece tali remore non esistevano per le unità territoriali che potevano attingere anche a classi anziane, erano senza mezzi di trasporto ed armate tutt’al più di fucili, mitragliatrici, artiglierie da posizione, ancor più antiquate di quelle mobili. La loro mobilitazione fu condotta con lentezza, ma costanza, dalla primavera del 1941 all’estate del 1943, senza discostarsi molto da un certo automatismo previsto nei piani concepiti negli anni trenta in una prospettiva bellica non molto diversa dalla passata grande guerra.
Dorello Ferrari
31 Field Marshal Lord Carver, The seven ages o f the British Arm y , Londra, Weidenfeld and Nicolson, 1984.32 Albert Seaton, The German Arm y 1933-1945, Londra, Weidenfeld and Nicolson, 1982.
302 Mauro Maffeis
Nella guerraUn percorso di lettura di Guerra, guerra di liberazione, guerra civile
di Mauro Maffeis
Sotto il titolo Guerra, guerra di liberazione, guerra civile (Milano, Franco Angeli, 1990) sono stati pubblicati, a cura di Massimo Le- gnani e Ferruccio Vendramini, gli atti del convegno “Resistenza: guerra, guerra di liberazione, guerra civile” svoltosi a Belluno nell’ottobre 1988 su iniziativa del locale Istituto storico della resistenza con la collaborazione dell’Istituto nazionale. I ventuno interventi, ai quali vanno aggiunte la premessa di Ferruccio Vendramini, l’introduzione di Guido Quazza ed una breve appendice di Ilio Muraca sulla resistenza dei militari italiani all’estero, sono suddivisi in quattro parti: questioni generali, partigiani e antifascisti, fascisti e collaborazionisti, Chiesa e mondo cattolico. Il volume giunge a cinque anni di distanza da quel convegno di Brescia su “La Repubblica sociale italiana” nel quale l’interpretazione della Resistenza come
guerra civile (peraltro già da tempo enunciata e dibattuta in campo antifascista) fu portata da Claudio Pavone ad un più alto livello di elaborazione, in particolare nei confronti dell’importante referente costituito dalla Rsi1.
Oggi si tenta di definire in positivo (ricostruendone le origini, gli elementi costitutivi, le molteplici valenze) un termine tuttora capace di suscitare diffidenze e perplessità, ponendolo in diretto rapporto con le due dimensioni storiche e morali cui contemporaneamente e contraddittoriamente esso si aggancia: quella della guerra (mondiale, europea, convenzionale, fra nazioni) e quella della liberazione (antifascista, patriottica, di classe, etica). Lo schema della guerra civile italiana prende forma senza contrapporsi né a quello della guerra di liberazione né all’orizzonte, molto sfumato, della guerra mon-
1 Sui lavori del convegno di Belluno si vedano gli ampi resoconti critici di Giuliana Bertacchi: Resistenza: guerra, guerra di liberazione, guerra civile, “Studi e ricerche di storia contemporanea”, dicembre 1988, n. 30; Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, “Italia contemporanea”, marzo 1989, n. 174. Il dibattito è iniziato, in termini molto serrati, già nella tavola rotonda svoltasi nell’ultima giornata del convegno, integralmente pubblicata in “Protagonisti”, marzo 1989, n. 2. Un elenco sicuramente incompleto dei successivi sviluppi registra i seguenti interventi: Emilio Sarzi Amadè, Guerra civile o Resistenza, “l’Unità”, 4 novembre 1988; Claudio Pavone, Resistenza o “guerra civile"? Uso la seconda categoria e vi spiego i motivi, “l’Unità”, 9 novembre 1988; Emilio Sarzi Amadè, La guerra ‘incivile’, “l’Unità”, 11 novembre 1988; Tina Merlin, La Rsi: propaggine di uno stato invasore (sottotitolo “Tre giorni di dibattito, a Belluno, hanno smantellato il concetto di ‘guerra civile’ contrabbandato da alcuni storici per legittimare la Repubblica di Salò”), “Patria indipendente”, 18 dicembre 1988, n. 19/20; Giovanni De Luna, A proposito di “guerra civile”, “L’Impegno”, aprile 1989, n. 1; Ancora a proposito di “guerra civile”, interventi di Isacco Nahoum e Giovanni De Luna, “L’Impegno”, agosto 1989, n. 2; Guerra civile o guerra di liberazione? (Stralci della sentenza del Tribunale militare di Milano contro membri della Legione Tagliamento e della Gnr), “L’Impegno”, settembre 1989, n. 3; Dario Morelli (a cura di), Guerra civile o guerra di liberazione?, “La Resistenza bresciana”, aprile 1989, n. 20; Luciano Bolis, Era “anche” guerra civile, “Lettera ai compagni” , settembre-ottobre 1989, n. 9/10; Francesco Omodeo Zorini - Mauro Begozzi, Antifascisti finché ci sarà fascismo, “Resistenza unita”, novembre 1989, n. 11; Ferruccio Vendramini, “Guerra civile" e “pacificazione”, “Protagonisti” , 1989, n. 37; Lettera di Vittorio Gozzer, “Protagonisti” , marzo 1990, n. 38; Cesare Bermani, Guerra di liberazione o guerra civile, “L’Impegno”, aprile 1990, n. 1; Guerra civile? Filo diretto con i lettori, “L’Impegno”, aprile 1990, n. 1; Resistenza, forze armate e guerriglia, interventi di Michele Fredella ed Enzo Santarelli, “Studi piacentini”, luglio 1990, n. 7; Francesco Omodeo Zorini, Resistenza e “guerra civile”, “L’Impegno”, agosto 1990, n. 2; Giannantonio Paladini, presentazione di Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, “Protagonisti”, ottobre-dicembre 1990, n. 41; Cesare Bermani, Guerra civile e dopoguerra, “L’Impegno”, dicembre 1990, n. 3.
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diale, con un andamento parallelo e d’ampio respiro che pare tuttavia, per ragioni che dirò, venarsi a tratti d’incomunicabilità.
Claudio Pavone {Le tre guerre: patriottica, civile e di classe) lo ripropone del resto non come spartiacque concettuale, ma come elemento di una tripartizione da approfondire ulteriormente:Il criterio delle ‘tre guerre’ attraversa [...] orizzontalmente la realtà resistenziale, e cerca di individuare elementi che, in misura e combinazioni diverse, sono presenti in più formazioni, se non sempre in tutte, e sono entrati a far parte di quello che si potrebbe chiamare il senso comune resistenziale [...]. Si tratta [...] di una distinzione di carattere analitico e non pretende di individuare soggetti distinti che, ognuno per proprio conto, abbiano combattuto una ed una sola delle tre guerre. Uno dei problemi più affascinanti dal punto di vista storico sta anzi proprio nel cercare di comprendere come nello stesso soggetto, collettivo o individuale, abbiano potuto convivere due o tre guerre e le rispettive motivazioni (p. 28).
È probabile che un parametro importante per la scomposizione del “senso comune resistenziale” nel quale, insieme forse a molte altre, le “tre guerre” precariamente convivono (provenendo come sappiamo da molto lontano, e proiettandosi, trasfigurate o stravolte, fino al “triangolo della morte” , al luglio 1960, al 1968, al terrorismo e all’emergenza) possa essere quello del largo predominio politico e organizzativo dei comunisti nella lotta armata: diverrebbe allora già pensabile la ricostruzione di una non meccanica proporzionalità (nella pratica politica, nell’azione di combattimento, negli esiti, nella memoria ufficiale, di partito o popolare della Resistenza) tra i filoni della guerra patriottica, della guerra civile e della guerra di classe.
Alla non contrapposizione fra guerra civile e guerra di liberazione e alla necessità di
estendere il quadro di riferimento oltre i ristretti limiti della resistenza armata si richiama Massimo Legnani {Due guerre, due dopoguerra), ricostruendo, attraverso la pubblicistica del primo dopoguerra (da Albertini a Turati, da Gobetti a Mussolini) la profonda ambivalenza originaria dell’idea di una “lunga guerra civile italiana” . Nell’impiego della categoria “guerra civile” nei primi anni venti Legnani individua, oltre a quella deprecatoria e a quella (contraddittoria anche al suo interno) di aperto apprezzamento, una terza, più complessa modalità: “La guerra civile come ipoteca che, affondando le proprie radici negli squilibri profondi del corpo sociale e del rapporto di questo con le istituzioni, aleggia costantemente sul destino del paese, costituendo quasi un controcanto della versione più pubblica, se non ufficiale, della vicenda nazionale” (p. 48).
Su una linea volta all’allargamento degli orizzonti di ricerca si colloca anche Marco Palla {Guerra civile o collaborazionismo?) suggerendo un approccio alla storia del collaborazionismo italiano e dell’ “area grigia tra fascismo e antifascismo” (da fondarsi su una reale apertura degli studi, tuttora in gravissimo ritardo, sul “fronte interno”) come a questioni di vitale importanza rispetto allo stesso dibattito sulla proprietà della categoria interpretativa “guerra civile”, che rimane comunque, a suo parere, molto discutibile2.
Forti impulsi a scomporre e verificare tutti i singoli termini della questione, più che a canonizzarne una definizione globale, vengono anche da altri interventi. In questa direzione va ad esempio la critica radicale cui Lutz Klinkhammer {Le strategie tedesche di occupazione e la popolazione civile) sottopone il termine ed il concetto stesso di “nazifascista” :
2 Per lo sviluppo delle argomentazioni critiche a questo riguardo cfr. anche Marco Palla, 1943-1945: la guerra civile italiana?, “Italia contemporanea”, marzo 1988, n. 170.
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Il ‘nazifascista’ della memorialistica e della storiografia non è una persona in carne ed ossa, è un simbolo del male assoluto, l’immagine di un nemico che ha perso ogni somiglianza con un essere umano. La lotta contro di lui è la guerra di liberazione da un incubo. In questo modo si risolve anche il problema morale dell’uccisione di un concittadino, perché i fascisti non venivano più considerati concittadini, non erano più ritenuti italiani, ma diavoli che bisognava soltanto eliminare. In questo modo si è negato non soltanto il concetto di guerra civile, ma anche l’esame approfondito del fascismo di Salò. Ripeto: i fascisti non erano né dei fantasmi, né dei burattini, né dei meri servi dei tedeschi. Perciò non mi sembra affatto giusto definire la Rsi uno stato fantoccio. Equivarrebbe a minimizzare non solo la forza dei fascisti, ma anche i loro crimini (p. 110).
Con un invito, anche qui, ad approfondire le ricerche sulla fascia “finora quasi trascurata dalla storiografia” della popolazione civile che subiva l’occupazione oscillando fra attesismo e resistenza. Significativi, su un aspetto specifico di questa incognita ma maggioritaria realtà sociale ondeggiante tra guerra, fascismo e antifascismo, sono i contributi di Bruna Bocchini Camaiani (Guerra civile, autorità, obbedienza. I richiami dei vescovi del Centro-Nord) e Silvio Tramontin (/ documenti collettivi dei vescovi nella primavera-estate del 1944).
Oltre che in queste prospettive di arricchimento tematico e metodologico, il discorso sulla guerra civile prende spessore, questa .volta in diretta connessione alla lotta armata, anche sul piano della legittimità formale e sostanziale. Giannantonio Paladini (Per un profilo giuridico di guerra civile. Il caso della resistenza) ipotizza, con notevole ricchezza di riferimenti, il delinearsi di “una dimensione giuridica diversa da quella statuale, entro la quale la lotta partigiana [possa] trovare distinta significazione”, cioè dignità di soggetto autonomo in lotta per determinare non tanto e solo la liberazione dal tedesco occupante, quanto “l’assetto sociale e politico del paese” (pp. 76-78). Pilastro di
questa valenza anche giuridica della guerra civile dovrebbe essereil riconoscimento del rilievo amministrativo (che è anche, inevitabilmente, politico) dell’esperienza della Rsi, il che consente di affermare con maggiore attendibilità che nei seicento giorni e nei territori in cui si svolse la lotta partigiana si verificò un considerevole sviluppo di una pluralità di ordinamenti giuridici. Una seria, parallela riconsiderazione [...] dell’effettiva capacità di governo dei Comitati di liberazione nazionale e delle giunte da essi emanate, in special modo, ma non soltanto, nella vicenda delle ‘repubbliche partigia- ne’, e in genere della funzione di direzione, non soltanto politica, della lotta partigiana svolta dal Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia, e della sua capacità di ergersi a interlocutore non solo organizzativo e politico, ma anche istituzionale, nei confronti della Repubblica sociale italiana e del governo del Sud e poi di Roma, rafforzerebbe la convinzione che, nei venti mesi, si sia realizzata nel Nord una sorta di ‘pluralismo di ordinamenti’ che fu poi, per così dire, violentato dalla sua frettolosa, impaziente sussunzione all’interno del sistema statuale italiano, considerato [...] come mai estintosi in nessuna parte del territorio nazionale.
Itinerario, come si vede, irto di incognite e difficoltà, che ci inoltra, tuttavia, al percorso di lettura più problematico e interessante di questa raccolta di studi: in tutte le possibili definizioni della realtà “guerra civile” riemerge come primario il problema della sua diretta relazione con la dinamica politico-strategica di larga scala al cui interno essa è nata e cresciuta, oltre che con le forme e le potenzialità di liberazione nelle quali è stata, fino a poco tempo fa, complessivamente identificata. Questa fondamentale relazione, che del resto il convegno di Belluno coglie ed enuncia fin dal titolo, non viene tuttavia adeguatamente sviluppata. Certo, le forme e i modi del rapporto tra guerra e Resistenza sono stati oggetto di tali e tanti studi che sarebbe impossibile qui richiamarli anche sommariamente. Ma è proprio quando si rimettono in discussione categorie con
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cettuali e interpretative fondamentali, quando l’occhio della ricerca inizia a spostarsi dal paesaggio a tinte forti su cui si staglia l’azione delle minoranze attivamente resistenti alle zone nebbiose della società, della politica e della morale su cui la guerra esercita il suo predominio incontrastato, che diventa più importante mantenere al centro questo punto di riferimento. Altrimenti si dà corpo a quella sensazione di incomunicabilità cui accennavo fra tre piani del discorso che sono, in realtà, inestricabilmente connessi.
Perché la linea di sviluppo più interessante del dibattito “Guerra, guerra di liberazione, guerra civile” è, a mio parere, quella che porta a riflettere sulla natura, sulla portata, sulla diffusione e sugli esiti dei contenuti di liberazione che nell’ambito e nei confronti della guerra (convenzionale e civile) il movimento partigiano ha saputo esprimere. La guerra condiziona in positivo e in negativo l’orizzonte della liberazione, con la prospettiva di una vittoria e di una pace che possono essere raggiunte solo attraversando tutte le terre dell’orrore e della disumanità. Il livello e l’esito di questo condizionamento dipendono dal grado di autonomia possibile e praticabile rispetto ad un meccanismo che, per sua natura, non ne concederebbe alcuna. Per i fascisti, e per il nemico quale essi lo raffigurano, questo grado di autonomia è uguale a zero. La guerra civile italiana rimane per loro un’atrocità accessoria e derivata rispetto alla “guerra santa dell’Europa” fascista e nazista contro la morsa pluto-bolsce- vica, un fenomeno privo di vita propria e di dignità, spiegabile soltanto attraverso gli schemi del complotto e del tradimento “regio e reazionario” (Paolo Corsini - Pier Paolo Poggio, La guerra civile nei notiziari della Gnr e nella propaganda della Rsi, pp. 277-280). Per Giorgio Pisano, come ricorda Mario Isnenghi (La guerra civile nella pubblicistica di destra), la lotta armata antifascista altro non è, in fondo, che l’effetto di
una “sovradeterminazione tutta politica e scientemente programmata dagli uomini di Mosca” (p. 239), cioè pura importazione, mediata dai comunisti italiani, della politica di potenza dell’Urss. Da qui il continuo, ossessivo appello neofascista, iniziato già negli ultimi mesi di guerra, ad una “pacificazione” che sarebbe più propriamente una “reintegrazione” del corpo mistico della nazione e della sua anima sociale, repubblicana e patriottica, che il culto della morte che “santifica tutti i combattenti” renderebbe finalmente possibile contro tutto ciò che, da culture e nazioni straniere, ha tentato di smembrarlo.
Maurizio Magri (Contro la guerra civile. La strategia del ‘ponte’ nel crepuscolo della Rsi) consente, con una analisi approfondita e ricca di possibili sviluppi, una lettura non riduttiva del reale radicamento di queste tendenze nei settori del corpo sociale e politico tendenzialmente più renitenti di fronte alla prospettiva di una guerra fra italiani. Agostino Bistarelli (Sconfitti due volte. Le associazioni dei reduci di Salò) ripercorre la catastrofe esistenziale dei combattenti della Rsi, che ha sempre al suo centro, oltre alla rivendicazione di una lotta disperata “per la liberazione del suolo patrio dall’invasore angloamericano”, l’appello ad una pacificazione i cui primi tentativi pratici (con incontri fra ex partigiani ed ex combattenti della Rsi a Trento, a Perugia, a Roma) si verificano già nel 1946-1947. La guerra assume poi, comprensibilmente, un’assoluta centralità nella particolare psicologia di un corpo scelto come i paracadutisti: l’importante contributo di Marco Di Giovanni ( ‘Eroi’ contro la nazione, ‘vincitori’ senza memoria. I paracadutisti della Rsi e del regno del Sud) analizza i valori fondamentali dello spirito di corpo e i modi del suo improvvisato e lacerante “aggiustamento” al corso degli eventi: percorso particolarmente significativo perché vi sono egualmente costretti i parà del Sud e quelli della Rsi, ciascuno tentando di
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rintracciare nei valori puri e immanenti della patria, dell’onore e del combattentismo i segni di una “continuità” demolita dall’8 settembre e le forze per reagire al caos inconcepibile della guerra civile.
Molta attenzione viene quindi dedicata a documentare l’alto livello di integrazione fra la logica e la psicologia della guerra e la percezione fascista degli eventi. Molto meno presente è, negli interventi di Belluno, la guerra vista dalla parte dei resistenti. Ilio Muraca {Le guerre di liberazione dei militari italiani all’estero), per argomentare la sua opposizione al termine “guerra civile” ricorda e sottolinea la dimensione militarmente minoritaria e subordinata sia del movimento partigiano che dell’esercito del Sud:In breve, non si può riconoscere come guerra civile la divisione in due del nostro territorio, ad opera di una linea del fronte in continuo movimento, in cui da una parte stava la zona liberata dalle truppe angloamericane e dall’altra una zona oppressa, che attendeva di essere liberata e che, nella sua stragrande maggioranza, anelava ad esserlo al più presto. In questa situazione, una minoranza di italiani, in panni partigiani o in uniforme di combattenti regolari, ma con modesti risultati sul piano militare, si era affiancata all’enorme apparato bellico dei due eserciti contrapposti, questi sì in ‘guerra’ fra loro (pp. 459-460).
È la guerra all’interno e per effetto della quale la Resistenza europea è “un complesso di forze contraddittorie, a seconda dell’idea di liberazione adottata, o meglio dell’obiettivo stesso di liberazione perseguito” (Giorgio Vaccarino, La resistenza come movimento di liberazione o come guerra civile nella cornice europea), il che, a parere dello stesso autore, rende inadeguata e “sostanzialmente esornativa” l’idea di una “grande guerra civile europea contro l’inciviltà del blocco nazifascista” (p. 61). Ed è la guerra
vittoriosa dell’Armata rossa e di Stalin, il cui mito, “sinceramente sentito [...] quale liberatore dei popoli oppressi e vendicatore della classe operaia” (Claudio Pavone, Le tre guerre: patriottica, civile e di classe, p. 35) occupa un posto centrale nell’universo partigiano.
È in aree geograficamente e cronologicamente circoscritte all’interno di questa guerra fra nazioni (fra sistemi consolidati di interessi, principi, identità sociali e culturali), ed in un quadro di totale subordinazione ad essa, che si combattono in Europa lotte di liberazione la cui caratterizzazione (antinazista, antifascista, di classe, patriottica, nazionalista) ed il cui grado di autonomia sono variabili in relazione alle situazioni che localmente si determinano. Il rapporto organico e diretto che si istituisce tra guerra e guerra civile è del resto ben presente, nel suo aspetto politico-militare, nella elaborazione delle dottrine strategiche del Cvl:La guerriglia è una forma di lotta prevalentemente offensiva (anche se spesso persegue finalità nettamente difensive) con la quale intere popolazioni o aliquote di esse, sfruttando l’aiuto diretto o indiretto di un esercito amico, tendono ad arrecare, col concorso di svariate attività clandestine, il maggior danno possibile all’avversario, intaccandolo nelle sue forze militari, nelle sue istituzioni civili, nel suo potenziale bellico, nelle sue risorse economiche [...] La guerrìglia non è mai f i ne a se stessa; al contrario, si propone sempre di favorire, direttamente o indirettamente, la riuscita di un’altra azione, che è quella determinante. E cioè, per esempio: 1. In guerra: delle operazioni di un esercito (il proprio o l’alleato) dal quale attende la battaglia decisiva per la soluzione del conflitto. 2. In pace: dell’azione politica, interna o esterna, che dovrà portare all’insurrezione generale o all’intervento armato straniero, per la conquista del potere o per il diverso assetto di territori contesi3.
3 Pubblicato, con il titolo La guerriglia, come “documento diffuso dal Cvl e dal Comando generale delle brigate d’assalto Garibaldi a scopo di studio ai comandi delle unità periferiche”, in La guerriglia in Italia. Documenti della
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Se questo è l’asse propriamente strategico dell’integrazione tra guerra e resistenza armata (così forte e sostanziale da essere operante anche in tempo di pace), ve ne sono ovviamente molti altri, che riguardano tutte le dimensioni del movimento partigiano, e concorrono a determinarne l’identità stessa. Ed è nell’ambito di questa difficile, non lineare, contraddittoria, ma diretta e vincolante complementarietà con la guerra che i soggetti individuali e collettivi si dislocano ed operano, in base al grado di autonomia (politica, militare, ideale, psicologica, etica) che riescono ad esprimere e a mantenere nei confronti di una dinamica che tende ad annullarli. È qui, allora, che possono prendere forma elementi di liberazione dalla guerra tali da rendere possibile il compimento di un percorso di libertà. Laddove la dinamica dell’annullamento prevale in modo totalizzante, come nei paesi dell’Europa orientale occupati dall’Armata rossa, gli effetti sono tali, come sottolinea Vaccarino, da intaccare e capovolgere l’identificazione stessa del nemico:Mi pare risulti evidente come nello studio dei movimenti di resistenza in Europa siano quasi sempre rintracciabili manifestazioni di guerra civile, ove al conflitto liberatorio si siano andate associando, e talvolta sovrapponendo, tensioni violente contro i fautori dell’occupante. E ciò senza che a questo punto ci si debba più sorprendere se il nemico occupante sia stato sempre individuato in una potenza dell’Asse o in qualcuno dei grandi Alleati, nonostante la deformazione che possa venirne allo stereotipo della crociata antitedesca di liberazione (p. 70).
Laddove, come in Italia, l’annullamento dell’autonomia e della liberazione prevale in modo più indiretto, si sviluppano le contraddittorie tensioni al progresso e alla reazione, al collaborazionismo e alla rivolta, al
l’odio e alla pacificazione, alla giustizia e al terrore, che a Belluno sono state ampiamente documentate e discusse. Dopodiché, sarà guerra civile perché, come dice Vaccarino, si può definire guerra civile “la lotta armata tra forze di uno stesso paese, comunque organizzate e numericamente significative” (p. 59); e non sarà guerra civile perché, come ricorda Emilio Sarzi Amadè (Delazione e rappresaglia come strumenti della ‘guerra incivile0 in molte zone vi era solo la finzione di un apparato statale della Rsi e in altre (come nel Bellunese, sottoposto alla diretta amministrazione tedesca) neanche quella; e sarà guerra civile perché, come puntualizza qualcuno, il termine ricorre decine di volte nella pubblicistica partigiana, e viene del resto adottato senza riserve da Ferruccio Parri nel dopoguerra; e non sarà guerra civile perché, come ricorda qualcun altro, una indiscutibile valenza reazionaria e fascista pesa sull’uso politico e polemico del termine dal dopoguerra ad oggi. Ma in fondo, che importanza ha? Le “culture partigiane” , sulla cui molteplicità mette giustamente l’accento Daniele Borioli (La percezione del nemico. I partigiani di fronte al nazifascismo) prendono forma nel magma della guerra assemblando spezzoni di tradizioni, di linguaggi, di leggi, di valori, di modelli che affondano le loro radici nella storia non solo delle classi subalterne, ma di tutta una società impregnata di carità cristiana e di indifferenza, di mitologie comuniste e di paura, di fremiti di rivolta e di conformismo assoluto, di sogni di riscatto e di necessità di esorcizzare tutto il passato, e profondamente contaminata da vent’anni di fascismo. Una autonoma aggregazione di coscienze su queste basi è esattamente ciò che i fascisti non possono neppure concepire, ma è ciò che avviene. Ed avviene sul programma e sulla pratica, inediti per
resistenza militare italiana, prefazione di Pietro Secchia, Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 61-129. Il documento risulta datato “marzo 1944” . Mancano, per gli opportuni confronti, altri riferimenti bibliografici ed archivistici.
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l’Italia, della guerra di popolo: non la guerra ‘del popolo’ contro un nemico esterno, ma la guerra in cui una parte del popolo, sotto le specie di un’avanguardia organizzata che si autoinveste di questa tremenda responsabilità politica e storica, espelle da sé, su una discriminante che può essere di classe, patriottica o di altro genere, un’altra parte del popolo, rappresentandola come pura agente del nemico esterno.
In alcuni contributi raccolti nel volume (soprattutto in Pavone e in Klinkhammer) ci sono rapidi richiami a questa dinamica. Tuttavia, particolarmente negli interventi che riguardano il tema “Partigiani e antifascisti” (Parte seconda), si sente la mancanza di qualsiasi riferimento alla modalità pratica attraverso cui si realizza, sul piano politicostrategico, ma anche su un piano che potremmo dire di continuità morale, la connessione fra guerra e guerra partigiana. La determinazione politica di concretizzare questa connessione mettendo in atto quella particolare articolazione della guerra che è la guerriglia (con tutte le sue possibili varianti ed evoluzioni, da guerra per bande a guerra di popolo) implica l’adozione di un sistema estremamente rigido di dottrine politico-militari nel quale un aspetto centrale è quello del controllo: sul territorio, sulle popolazioni, sulle formazioni (reclutamento, educazione politica, sicurezza). Queste assolute priorità, che rappresentano le condizioni essenziali per l’operatività e la stessa sopravvivenza della lotta partigiana, determinano poi in larghissima misura, se non totalmente, la condotta delle formazioni su tutti i piani: dalla tattica alle forme organizzative e disciplinari, ai rapporti con la popolazione ed il nemico, alla propaganda, eccetera. Sull’applicazione pratica di queste regole si rifletterà certo in qualche misura, determinando una relativa varietà di comportamenti, l’arcobaleno dei casi di coscienza, delle motivazioni personali, delle matrici ideali e culturali, delle situazioni contingenti, degli
episodi eclatanti: ma non più di quanto possa riflettersi su qualsiasi altra organizzazione operativa; anzi, forse meno, dato il carattere volontario, tendente all’omogeneità e alla compattezza nella condivisione dei valori di base, che è proprio delle formazioni guerrigliere. In ogni caso, l’intimidazione, la brutalità, la ferocia, l’ingiustizia e il terrorismo sono organici a quella particolare forma di guerra che è la guerra partigiana, così come lo sono tutti quei comportamenti di segno opposto che per noi costituiscono, nella Resistenza, i germi visibili della liberazione e della fine della guerra: il coraggio di ribellarsi, la ricerca del consenso, la tolleranza, la giustizia, la solidarietà, l’amore per i propri simili. Sta di fatto però che il criterio per la valutazione ‘morale’ di questi comportamenti e quindi del loro contenuto ‘di liberazione’ non è intrinseco o assoluto, ma relativo alla loro efficacia nel rendere possibile e vincente una scelta morale precedente, che è quella di lottare con le armi contro nazisti e fascisti, nella complementarietà e nella coerenza strategica con una guerra in cui si radono al suolo le città e si sterminano milioni di persone non perché naziste, fasciste o comuniste, ma perché italiane, tedesche o russe. Nelle decine di episodi di giustizia o ingiustizia “partigiana” documentati, limitatamente alle zone dell’Ap- pennino ligure-alessandrino e della Valsesia, da Roberto Botta (Il senso del rigore. Il codice morale della giustizia partigiana) e da Cesare Bermani (Giustizia partigiana e guerra di popolo in Valsesia), questa contraddizione continua tra ciò che è intrinsecamente “giusto” e ciò che, barbaro e infame di per sé, può esser reso “giusto” se si ritiene che serva a far prevalere una giusta causa, si riflette molto chiaramente. Ma il discorso qui si ferma, e la contraddizione, che a mio parere è un nodo centrale nella relazione tra guerra, guerra di liberazione e guerra civile, e quindi anche nel dibattito sulla pertinenza di quest’ultimo termine, non viene sviluppa-
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ta, lasciando nell’aria più interrogativi, e più gravi, proprio quando qualche coraggiosa risposta sembrava possibile.
La tragica conclusione di Cino Moscatelli (“un fine così nobile poteva essere raggiunto soltanto combattendo una guerriglia che richiedeva a ciascuno di noi di cambiare natura, di acquisire un po’ della spietatezza nazista”)4 è solo la lucida riflessione individuale di un eroe della Resistenza, o ha qualcosa a che fare col fatto che, vinta la guerra e liberati da nazisti e fascisti, non riusciamo in alcun modo a liberarci dal fascismo, dal nazismo e dalla guerra? E la “fraternità partigia- na” cosciente, volontaria e concretamente praticata da migliaia di contadini operai e studenti in armi, nella quale Guido Quazza vede uno degli elementi fondanti dell’antitesi etica al fascismo e “la matrice di conseguenze di inestimabile importanza per la storia d’Italia nel mondo” (p. 18), in che cosa è stata più profonda, più feconda e duratura della fraternità obbligata e disperata di milioni di soldati contadini operai e studenti trascinati su tutti i fronti a stringersi l’uno all’altro nel fango e nel terrore delle notti di guerra? E qual è, in cosa concretamente si esprime, in quale praticabile eredità eticopolitica si è sostanziata la civiltà di questa “guerra di civiltà”, la religione di questa “guerra di religione” nella quale due opposte concezioni della vita e della storia si sarebbero affrontate in uno scontro di portata secolare?
Proprio condividendo l’appassionato richiamo di Quazza all’alto valore dell’autonomia dei soggetti individuali e collettivi come forza motrice di ogni scelta di riscossa e
dignità umana, mi sembra più importante l’esplorazione, che alcuni interventi di Belluno possono forse consentire o preparare, di quelle maggioritarie e vastissime zone della società, della politica e dell’ideologia nelle quali l’autonomia, perché schiacciata tra guerra e guerra civile o per aver assunto forme politicamente irriconoscibili e incoerenti, non si è dispiegata in liberazione. Una di queste zone è certamente quella del rapporto con la guerra e con i suoi oscuri e molteplici lasciti politici, ideologici e culturali. È prevalsa, dopo il 1945 (soprattutto, ma non esclusivamente, da parte comunista) la tendenza, multiforme e a tratti contraddittoria nelle sue manifestazioni, a rivendicare da una parte la continuità dell’esperienza storica della Resistenza armata nel quadro della tradizione, dell’ordinamento e dell’istituzione militare italiana, e dall’altra la sua integrazione, in uno strumentale e indebito ‘aggiornamento’ antiamericano del fronte antifascista, negli schieramenti della guerra fredda. Da qui le annose vertenze per il riconoscimento giuridico del Cvl, per l’immissione di quadri partigiani nel servizio permanente, per l’acquisizione in sede dottrinale e organizzativa di elementi innovativi tratti dall’esperienza della lotta armata, per l’istituzionalizzazione della Resistenza anche nell’apparato retorico e cerimoniale delle forze armate, perché, come scriveva ancora nel 1974 Arrigo Boldrini,la possibilità reale di una riforma delle forze armate si era manifestata con la caduta del fascismo e con lo sviluppo della lotta di Resistenza, che, nella storia dell’esercito, non sono state né una parentesi né un corpo estraneo5.
4 A settantuno anni... pagine tratte dal manoscritto autobiografico di Ciro, in Parlare e scrivere di Ciro, a cura della Cooperativa G. Bighinzoli, Novara, Tip. San Gaudenzio, 1987. Citato in C. Bermani, Giustizia partigiana e guerra di popolo in Valsesia, p. 200.5 Arrigo Boldrini - Aldo D’Alessio, Esercito e politica in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1974. Sullo stesso argomento cfr. A. Boldrini - Aldo D’Alessio - Ugo Pecchioli - Ugo Spagnoli - Luciano Violante - Umberto Terracini, Le istituzioni militari e l ’ordinamento costituzionale. Atti del Convegno organizzato dal Centro studi e iniziative per la riforma dello stato, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 32-36.
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Da qui, sull’altro versante, il riciclaggio militante, a partire dal 1948-1949, del parti- gianato socialcomunista nell’improbabile “pacifismo” stalinista dei Partigiani della pace e, dopo la fine di quell’esperienza, in una miriade di comitati, associazioni e iniziative che, nella linea del filosovietico Consiglio mondiale della pace, si sono trascinate fino agli anni ottanta, ponendo sul possibile sviluppo di un autentico movimento pacifista italiano quella gravosa ipoteca di unilateralità che ancora oggi fa sentire i suoi effetti.
Percorsi in parte obbligati, si dirà, e certo non privi, ambedue, di obiettive e comprensibili motivazioni: sta di fatto che la scelta di affermare e valorizzare, sia in termini istituzionali che in termini ideologici e di logica di schieramento, gli elementi di continuità e di integrazione tra esperienza bellica e guerra civile, emarginando o abbandonando quelli di antitesi e divergenza profonda tra guerra e liberazione, ha portato fin dall’inizio l’eredità ideale della Resistenza a restare, in un modo o nell’altro, molto rinchiusa nella guerra, nelle sue dimensioni logiche, nei suoi confini culturali, nel suo opprimente cono d’ombra.
Altri sviluppi, anche nel più ampio rapporto tra antifascismo e democrazia, sarebbero forse stati possibili mantenendo aperta la pur difficile e scabrosa comunicazione tra valori della Resistenza e valori dell’antimilitarismo e della non violenza. Lo dimostra ad esempio, già dall’immediato dopoguerra, la vicenda umana e politica di Aldo Capitini. Lo dimostrano, negli anni sessanta e settanta, quei movimenti giovanili di rivolta che per originalità e autonomia proprio su questi temi si collocano ben al di là e al di fuori della tradizionale lettura che ne è stata data (riproposta, in brevi cenni, anche in qualche intervento di Belluno) in termini di “onda lunga dell’antifascismo”. È a quest’ordine di relazioni in gran parte perdenti o fallimentari con l’evento guerra e con le sue possibili antitesi che mi pare vada connessa anche la riflessione critica su un termine (“di liberazione”) che oggi sembra a molti, per molte ragioni (e a me per quelle che ho cercato di dire), così inadeguato a distinguere ciò che è stato da ciò che avrebbe potuto essere.
Mauro Maffeis
Gli Istituti di fronte alla guerra del G olfo Un seminario del Consiglio generale
di Edoardo Gasparetto
Poco prima dello scadere dell’ultimatum dell’Onu, quando le iniziative diplomatiche italiane, europee e internazionali si accavallavano e la posizione, del nostro governo restava incerta, “il silenzio, l’indifferenza, la mancanza di preoccupazione [nel nostro paese] appaiono incredibilmente generalizzate” — come denuncia l’Istituto di Pesaro (Isr Pesaro, L ’Italia ripudia la guerra, 7 gennaio 1991) —, ma diffusi sono anche timore, agitazione, disorientamento, e con essi il desiderio di impedire la guerra, come si dimostrò il 12 gennaio a Roma nella manifestazione a favore della pace nel Golfo. Per molti è un dovere morale prima che politico mettere in guardia contro l’atrocità di ciò che può accadere e come tale lo assumono vari Istituti: “Chi come noi ha ripetutamente affrontato e documentato in sede storiografica le vicende delle donne e degli uomini che nel nostro secolo per ben due volte hanno sofferto l’esperienza di una guerra mondiale, avverte come preciso dovere morale, prima che politico, ricordare a tutti la verità della guerra, il suo orrore brutale, la sua sconvolgente disumanità, le atrocità fisiche e morali che ogni scontro armato comporta” (Isr Pesaro, L ’Italia, cit.). A Pesaro l’Istituto promuove una mobilitazione a vari livelli tramite giornali e radio locali, operando dall’interno del Comitato per la pace pesarese, e con l’allestimento di uno spettacolo teatrale sulla guerra. A Napoli, a pochi giorni dall’inizio dell’offensiva antirachena, l’Istituto
campano vota una serie di iniziative rivolte sia alla scuola sia alla popolazione “non per fornire giudizi precostituiti da seguire, bensì per cooperare alla formazione di idee e coscienza al riguardo” (Isr Napoli, I Dossier Golfo, Presentazione, 23 gennaio). L’Istituto diventa importante punto di riferimento della mobilitazione cooperando con un gruppo di magistrati — cui si deve la prima denuncia dell’incostituzionalità della guerra —, con organizzazioni femminili, con l’Osservatorio cittadino Wardays, costituito “per difendersi dai signori della guerra e dell’informazione” (ciclostilato Wardays, sd). Nello stesso spirito si succedono le prese di posizione e le iniziative dell’Isr di Roma, con il ciclo di seminari in collaborazione con La Sapienza su Conflitto, razzismo e relazioni interetniche-, dell’Isr di Parma, con un convegno centrato sulle riflessioni di Norberto Bobbio; dell’Isr di Asti; del Landis di Bologna — il cui Consiglio generale aveva già chiesto che l’intera rete degli Istituti fosse investita del problema, — con le proiezioni del video La pace a due voci, che a Milano si intreccia alla presa di posizione della sezione di Magistratura democratica e all’appello Contro la guerra proposto da padre Ernesto Bal- ducci. Nell’Istituto sardo la radicalizzazione dovuta ad “opposte opzioni politiche ha potuto essere evitata e superata grazie allo sforzo di rendere disponibile l’Istituto come sede di discussione a più voci” (Dall’estratto di verbale della Riunione del Consiglio diretti-
Italia contemporanea”, giugno 1991, n. 183
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vo dell’Insmli, 2 marzo 1992) varando sulle questioni del Medio Oriente “un denso programma di iniziative culturali e didattiche con il coinvolgimento di diversi altri istituti di cultura è agenzie di formazione che impegna l’Istituto sardo nel corso di tutto il corrente anno” (Ivi).
In questo quadro il Consiglio direttivo dell’Insmli decideva (2 marzo 1991) di organizzare al termine del Consiglio generale una discussione seminariale su “La guerra del Golfo in rapporto all’identità e ai compiti degli Istituti”, da tenersi a Milano il 20 aprile, col patrocinio dell’Amministrazione comunale.
Nel saluto d’apertura ai convenuti il presidente Guido Quazza ha ricordato che la decisione di svolgere il seminario rinvia per il proprio significato alle stesse ragioni fondative, d’esistenza e di crescita della rete degli Istituti — ragioni morali e civili che ne sottendono da sempre l’attività di ricerca secondo un concetto di militanza scientifica non discosto da quello di impegno intellettuale elaborato nel dopoguerra, fra gli altri, da Bobbio. Non si tratterà, nel seminario, di impegnare l’Istituto pro o contro uno dei due ‘schieramenti’ che la vicenda del Golfo ha suscitato, quanto di cogliere l’occasione per aprirsi alla situazione attuale. Una realtà internazionale profondamente squilibrata, il suo riflesso nelle iniziative dell’Onu, la guerra in rapporto agli interessi legati al petrolio, il contraccolpo della messa in mora dell’articolo 11 della Costituzione italiana, e, ancora, il revisionismo storiografico, la rilegittimazione della violenza, un uso parafascista dei mezzi di comunicazione di massa, ma anche la nuova spinta diffusa al pacifismo, sono tutte questioni che si collocano di per sé nell’alveo civile, morale e della problematica della Resistenza, imponendo l’enucleazione di nuove linee politiche. All’esordio di Quazza hanno quindi fatto seguito gli interventi introduttivi di Claudio Pavone, Guido D’Agostino, Francesco Berti Ar-
noaldi Veli e Mario G. Rossi; e, infine, la discussione generale.
Riconosciutosi a grandi linee nella posizione di Norberto Bobbio, Pavone ha sotto- lineato quella dimensione esistenziale dell’a- gire politico da cui scaturisce il giudizio e, prima ancora, l’interrogazione relativa alla giustizia della guerra, — interrogazione che la storia della resistenza ha conosciuto non di fronte a un’astratta eventualità, ma sotto la ferrea imposizione delle armi: non sempre si può ricusare la forza, a meno che non si voglia propter vitam vivendi perdere causant e sciogliere così il nesso che appunto avvince forza, libertà e democrazia. I resistenti considerarono necessaria quella guerra, e perciò giusta; taluni, come i badogliani, anche legale. “Ultima guerra” per tutti grazie a un nuovo ordine internazionale e/o un nuovo ordine interno: nel quale caso sarebbe stata giustificata anche la guerra civile. Ma a tutti fu comune considerare la violenza un disvalore, con un atteggiamento che si eleva a discrimine della storia d’Italia, come nei suoi lavori ha indicato Quazza. Ma nella Resistenza non si dà un pacifismo in senso forte, nel senso connotato dal dopo-Hiroshima: la cultura di Hiroshima è postresistenziale. I giovani e il pacifismo di oggi, quelli che Pavone ha incontrato nelle assemblee di Pisa, non si riconoscono nel vecchio linguaggio che evoca imperialismo e petrolio: il loro pacifismo si nutre di ragioni prepolitiche, può essere fatto anche di testimonianza, nasce da scelte individuali, che temono la strumentalizzazione e che conviene indagare lontani da ogni schematismo.
Il nucleo più nutrito degli interventi si è quindi mosso attorno al rapporto antifascismo-resistenza-rifiuto della guerra-democra- zia-antimperialismo, nesso che nella costituzione repubblicana si trova ribadito nell’articolo 11 e nella ratio oltre che nel dettato del divieto di ricostituzione del partito fascista. Nell’appassionata disamina di Rossi si collega la forzatura costituzionale attuatasi
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con la decisione del governo di far partecipare l’Italia alle forze della coalizione anti- rachena, con la rottura della prassi parlamentare compiuta nelle “radiose giornate” del maggio 1915, dove in particolare si sostituisca alla piazza nazionalista il vigente sistema mediale di televisione e giornali, i quali, con slogan e parole d’ordine sorprendentemente vicini a quelli d’un tempo, che si rifà presente, e gonfiando contro ogni verisi- miglianza il pericolo avversario, si sono schierati e hanno schierato l’Italia con le maggiori potenze di tradizione imperialista, finendo con l’attaccare anche il papa, come già era accaduto di fronte all’appello di Benedetto XV contro “l’inutile strage”. Alla compiuta omologazione dei due interventismi difetterebbe solo il sostegno degli intellettuali, fatte le debite eccezioni, mentre non è mancato l’appello di sapore razzista alla “lotta contro la barbarie” rivolto da schermi e microfoni dell’interventismo laico nostrano, fattosi erede della destra più spinta. Sullo stesso filo Berti Arnoaldi Veli. Cultura della guerra fino alla sua sacralizzazione, elitismo, classismo, nazionalismo, imperialismo e fascismo sono stati i principi aggregated e aggressivi di una storia che sembrava finita con la seconda guerra mondiale, uscita sconfitta da coloro che allora combatterono, ma in nome di un duraturo rifiuto della guerra stessa, della cultura della pace, della democrazia, secondo lo spirito che unificò l’assemblea dei costituenti sull’articolo 11 e sul divieto di ricostituzione del partito fascista. La logica connessione dei due principi, antifascista e pacifista, e del principio democratico nella costituzione repubblicana, fa sì che all’offuscarsi dei valori civili cui si assiste da un decennio in qua, a partire anche dall’impunità di cui gode lo stragismo fascista, consegua l’attacco di questi mesi al baluardo istituzionale della pace espresso dalla costituzione. Poiché la pace torna a essere connotata negativamente, tocca anche agli Istituti opporsi alla deriva.
Sulla radicale incostituzionalità e illegittimità della partecipazione italiana alla guerra del Golfo — nonché sulla illegalità della stessa delibera Onu (678) — ha^parlato D’Agostino, sulla scorta dell’intervento dei magistrati e dei giuristi napoletani. In estrema sintesi: la più accreditata dottrina costituzionale, da Costantino Mortati a Enrico Spagna Musso, Alessandro Pizzorusso, Valerio Onida, fa del pacifismo come espresso dall’articolo 11, assieme a democrazia, personalismo, pluralismo e lavorismo, uno dei capisaldi del nostro ordinamento, tanto eminente appunto da sottrarsi anche alla possibilità di revisione costituzionale. L’unico ricorso ammissibile alla guerra è il caso della legittima difesa, come attestano i lavori della Costituente, nel qual caso la procedura viene stabilita dagli articoli 78 e 87, comma 9 (rispettivamente: delibera delle Camere, dichiarazione dello stato di guerra del presidente della Repubblica). La risoluzione del Consiglio di sicurezza, legittima o illegittima che sia, — e vi sono fondate ragioni per considerarla illegittima secondo la stessa Carta delle Nazioni Unite — non può essere recepita dal nostro ordinamento, in quanto nel fatto costituisce autorizzazione alla guerra, e non operazione di polizia internazionale, come pretende il nostro governo. Né come guerra può in nessun caso, nemmeno come
. autodifesa, essere deliberata dal governo. La spedizione militare italiana si configura perciò come gravissimo atto eversivo del nostro ordine interno, contro il quale è lecito, per non dire doveroso, ricorrere all’obiezione di coscienza.
Sulla stessa linea dei precedenti interventi si sono succeduti Giancarlo Zoli, secondo il quale la gravità della svolta segnata dal 1989 e dal predominio planetario del capitalismo non deve far trascurare le luci, per quanto fioche e rade, rappresentate dall’attuale affacciarsi dell’Italia sulla scena internazionale e dall’imporsi alla ribalta della questione curda; Teodoro Sala, il quale propone che at-
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traverso la conferenza dei direttori si censiscano le iniziative sulla questione del Golfo intraprese dagli Istituti, come premessa per ulteriori e più incisivi approfondimenti; e Angelo Bendotti che, inquieto, s’interroga sulle ragioni dell’assenza dal convegno di molti Istituti e sulle difficoltà di comunicare ai giovani il senso dell’opposizione all’omologazione montante, — con cui peraltro già si misura. l’Istituto bergamasco con la sua esperienza relativa ai temi del razzismo —, mentre Nicola Gallerano, pur condividendo lo “sbigottimento” già accusato da D’Agostino di fronte al conflitto, denuncia l’ulteriore crisi che per esso si determina nella sinistra, nonché la lontananza e la mancanza di presa che si avverte nel linguaggio della sinistra a proposito della guerra. Enzo Nizza recatosi con un gruppo di volontari ad Amman in missione umanitaria, testimonia l’atmosfera di pacata ragionevolezza in cui si sono mossi i suoi incontri con palestinesi e giordani, impensabile nel clima bellicista che agitava le nostre città. Laurana Layolo, il cui istituto ha coagulato, in una città tradizionalmente moderata come Asti, obiettori di coscienza, extracomunitari e cattolici dissenzienti dalle posizioni democristiane, ha parlato dei pensieri e dei convincimenti prepolitici che hanno motivato le posizioni pacifiste di molti giovani, e il loro desiderio di approfondire il rapporto pace-resistenza.
Una condanna senza appello, non solo della guerra del Golfo, ma di ogni guerra, in nome della fede e cultura religiosa e del novissimo messaggio papale — “La guerra è un’avventura senza ritorno” — è venuta da Lorenzo Bedeschi, che proiettandolo sulle vigenti dottrine della guerra ne sottolinea la capacità di futuro. Il nuovo principio affermato da Giovanni Paolo II supera “d’un balzo” non solo la teoria dell’equilibrio del terrore, o dell’impossibilità de facto della guerra atomica, che lascia poi aperta la praticabilità e la giustificabilità delle guerre convenzionali — secondo quella casistica
scolastica del diritto naturale di cui in fondo è tributario lo stesso Norberto Bobbio con tutta una tradizione della modernità, ma recide all’origine il legame guerra-politica di clausewitziana memoria proprio nel momento in cui il Nord del mondo lo rinnova legittimando in sede Onu la guerra. Ciò suona dissociazione o presa di distanza della Chiesa rispetto ai contendenti, rivendicazione di un ordine internazionale ben diverso da quello sancito dell’Onu, messa al bando di tutti gli eserciti — volontari, di coscrizione, o professionali — immissione della speranza nel nuovo scenario Nord-Sud. In tale scenario la guerra non può configurarsi che come “sopraffazione pura” e con tale parametro si dovrebbero misurare coloro che affrettatamente riducessero la prospettiva di pace enunciata dal pontefice al semplice ordine dell’utopia e della passione.
Sulla base di un diverso convincimento etico e storiografico Giorgio Vaccarino — con un contributo scritto inviato al seminario — si distanzia dalla maggior parte degli interventi. Vi è disaccordo quanto al ‘“carattere militante’ della azione didattica che alcuni [...] intendono delegare alla rete degli Istituti” perché “la verità — quantomeno quella soggettiva, ancorché provvisoria — non può scaturire da un’operazione collettiva di militanza”; poi perché dalla Resistenza non si può desumere una “inappellabile condanna della guerra” se non dimenticando che essa “pur nel proseguimento della pace e della fraternità fra i popoli — compresi quelli già aggressori — non è stata altro che una consapevole volontà di combattere ‘l’ultima guerra’ contro gli intollerabili soprusi della tirannide e per il ristabilimento del diritto violato e delle libertà calpestate.” Infine “sul duro piano della realtà la guerra non è ancora uscita, come pur si vorrebbe, dalla storia, trovando la sua tragica legittimazione del diritto-dovere di non soggiacere alla violenza” . Perciò impossibile e pericoloso non reagire alla patente aggressione di Sad-
Note a convegni 315
dam, e distorcente non convenire con le prime concrete azioni di un ordine internazionale.
Una panoramica dell’azione — e dell’inazione — dei media nel conflitto la fornisce Enzo Forcella, che si definisce “interventista pacifico” . I rigidi e contrapposti schieramenti per la pace o per la guerra che si sarebbero determinati nel paese sono immagini della ‘legge’ di schematizzazione e spettacolarizzazione degli eventi, prodotto usuale dei media, da valutare alla stregua e con la prudenza di qualsiasi altra fonte, più che non fedeli riflessi della realtà. Nell’immediato, comunque, non si potrà considerare sottorappresentata né zittita la dissidenza, se solo si considera il Tg3, o Pietro Ottone, Alberto Cavallari e Bernardo Valli di “Repubblica” , o ancora lo spazio riservato ai ‘pacifisti’ dagli ‘interventisti’ “Stampa” e “Corriere della sera” , così come non si può dimenticare che i media non possono trascurare l’opzione maggioritaria espressa da governo, parlamento e opinione pubblica. Particolare attenzione merita invece l’impenetrabile cappa che ha coperto ogni notizia dal fronte o diplomatica, la cortina di silenzio che senza troppe proteste ha espropriato media e opinione pubblica del diritto d’informazione: una netta inversione del processo di trasparenza che aveva caratterizzato la guerra del
Vietnam, e una subordinazione del giornalista alla gerarchia politico-militare che richiama i tempi di Cadorna e della grande guerra. Vuoto di notizie reali che hà determinato il falso pieno dei dibattiti e delle tavole rotonde, delle opinioni e dei commenti, quasi sempre culturalmente modesti o scontati. Nulla inoltre che abbia gettato una luce su ciò che si chiama “mentalità collettiva” di fronte alla guerra: si può solo azzardare l’ipotesi di lavoro di un’opinione pubblica interventista fin quando la partecipazione fosse rimasta simbolica e i combattenti dei volontari, pacifista in caso contrario. Perdurerebbe in tal caso, indipendentemente dalla tradizione resistenziale, la delegittimazione della guerra che ha caratterizzato il cinquantennio repubblicano, fenomeno sociologico che emerge nelle società industrialmente avanzate, dove i produttori-consumatori delegano la guerra ai militari di professione, chiudendo cosi il ciclo della leva in massa nazionale iniziato con la rivoluzione francese. Un cenno infine sulla questione sollevata da Bobbio, considerata non pertinente: la guerra è sempre giusta per chi la scatena, il che vuol dire politica- mente giusta. Trattandosi di scelta politica solo come tale va argomentata, né la tradizione della sinistra l’ha mai sostenuta in altri termini.
Edoardo Gasparetto