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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell'Antichità
Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali
Corso di Laurea Triennale in Storia
La strage di Piazza Fontana nelle pagine de «L'Arena»
(1969-1972)
Relatore: Prof. Filippo Focardi
Laurenado: Oreste Veronesi
Matricola: 1006582
Anno accademico 2012/2013
INDICE
p. 1 Introduzione
p. 9 Il contesto
1. Il Piano Solo, p. 9 – 2. Generazione in Movimento, p. 13 – 3. Conflitto
urbano a Verona, p. 17
p. 27 La pista anarchica
1. Primordi di un'accusa, p. 27 – 2. Il «caso Pinelli», p. 33 – 3. Da Bakunin
a Cohn Bendit, p. 39 – 4. Il processo Valpreda: l'alibi e il tassista, p. 42
p. 47 Un'inchiesta non voluta: la pista nera
p. 55 Riflessioni conclusive
p. 59 Documenti
p. 89 Intervista a Enrico Di Cola
p. 101 Ringraziamenti
p. 103 Bibliografia
"Dimenticare significa perdere la nostra storiae la storia di tutti quelli come noi. Guardarsi in uno
specchio e non vedere nulla dietro la nostra immagine.Nulla. Solo un cupo e profondo nero, che assorbe
ogni altra cosa che non sia quella del momento, del presente. Siamo diventati così, piatti, senza
profondità, sottili lamine di luce su uno specchio"(Marco Aime1)
"Il monopolio della storia [è andato] ai mass media. Ormaigli appartiene. Nelle nostre società contemporanee
è esclusivamente per il loro tramite che l'avvenimento cicolpisce, e non può evitarci (...) i mass media hanno
fatto della storia un'aggressione, e hanno resol'avvenimento mostruoso (...) perché la ridondanza
intrinseca al sistema tende a produrre il sensazionale,fabbrica continuamente novità, alimenta una fame
di avvenimenti" (Pierre Nora2)
1 Cfr., M. Aime, La macchia della razza. Storie di ordinaria discriminazione, Milano, Eleuthéra, 2013, pp. 15-16.
2 Cfr., P. Nora, Il ritorno dell'avvenimento in Fare storia. Temi e metodi della nuova storiografia a cura di Jacques Le Goff e Pierre Nora, Torino, Einaudi editore, 1981, pp. 141-145.
INTRODUZIONE
Scrive Marco Revelli che la strage di Piazza Fontana ha segnato «una frattura,
nella storia della Repubblica, in quella della sinistra, in quella dei movimenti»1.
Infatti la strage
rappresent[a] uno snodo fondamentale nella storia dell'Italia repubblicana,
un evento che dà il via a un cambiamento del “clima” politico e che apre la
strada alla “notte della repubblica” che con la sua sequela di lutti cancella la
ricchezza sociale, culturale e politica di un intero decennio2
Punto cardine dell'Italia Repubblicana, inserita in un contesto di crisi
diversificate3, la strage di Piazza Fontana ha rappresentato però, anche, il punto di
non ritorno del giornalismo italiano. Infatti, una parte consistente del giornalismo
italiano, con le spalle al muro, si è mostrato debole di fronte alle versioni ufficiali
delle indagini, non ponendole sotto critica e insistendo su quelle piste con
numerosi articoli e titolazioni particolarmente altisonanti. L'aspra dicotomia che
segna la società italiana realizza una delle sue forme più compiute. La strage di
Piazza Fontana ha evidenziato in molti casi la subalternità del giornalismo italiano
che, abdicando alla sua funzione di quarto potere, si è piegato di fronte alle
istituzioni e alle verità costruite, costituendo così un'aggravante della crisi della
democrazia in Italia. Vidal-Naquet scrisse che la peggiore storiografia è quella di
1 Cfr., M. Revelli, Le due destre. Le derive politiche del postfordismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 12.
2 Cfr., S. Neri Serneri (a cura di), Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, Bologna, il Mulino, 2012, p. 113.
3 Cfr., S. Tarrow, Aspetti della crisi italiana: note introduttive in La crisi italiana. Formazione del regime repubblicano e società civile a cura di Luigi Graziano e Sidney Tarrow, Torino, Einaudi editore, 1979, vol. I, pp. 3-40.
1
Stato, «e gli Stati raramente ammettono i loro comportamenti criminali»4, ma allo
stesso modo, senza paura di errore, si può dire che il giornalismo di Stato è il
peggiore dei giornalismi. Giorgio Zicari, Guido Giannettini e Pino Rauti saranno
gli emblemi di questo tipo di giornalismo, che fu in parte soggetto ai servizi
segreti5. Infatti, con la strage di Piazza Fontana, ovvero l'esplosione di una bomba
all'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura a Milano, in Piazza Fontana, alle
16.37 del 12 dicembre 1969, si aprì la cosiddetta strategia della tensione. Con tale
termine, coniato da una giornalista inglese, si intende riferirsi a quell'insieme di
dinamiche e processi spesso contraddittori6 che ebbero come obiettivo, usando le
parole di Aldo Moro, «di rimettere l'Italia nei binari della "normalità" dopo le
vicende del '68 e del cosiddetto autunno caldo»7.
Quegli avvenimenti avevano infatti segnato, per alcuni settori della società
italiana, una pericolosa forma di decostruzione della gerarchia sociale. Infiltratosi
nelle università e nelle fabbriche il vento di protesta che, passando da Berkeley a
Parigi a Milano, stava imperversando in Italia era un pericoloso fattore di
destabilizzazione anche geopolitica.
4 Cfr., P. Vidal-Nquet, Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo e la shoah, Roma, Viella, 2006, p.199.
5 Secondo molti storici, quei servizi che si resero protagonisti del fenomeno stragista vanno considerati “deviati”. La questione della devianza degli apparati di sicurezza italiani è piuttosto complessa e vede contrapporsi feroci dibattiti, infatti coloro che supportano questa visione accusano chi non concorda di “dietrologia”. Chi scrive concorda, in linea di massima, con Giuseppe De Lutiis quando scrive che «l'attività dei servizi in quegli anni è stata impropriamente definita “deviante”; va invece considerata come il frutto più amaro della subalternità delle nostre strutture di sicurezza nell'ambito dell'alleanza militare alla quale l'Italia aderisce, che ha costretto parte dei funzionari a una devastante doppia lealtà». Vedi G. De Lutiis, I servizi segreti in Italia, Milano, Sperling & Kupfer, p. XVI.
6 Immaginare una strategia onnicomprensiva proveniente da un unico centro sarebbe infatti sbagliato e fuorviate. L'esempio più tragico, che dimostra le diverse sfaccettature di dinamiche non omologabili ad un'unica direttrice, fu sicuramente la strage di Peteano ad opera di Vincenzo Vinciguerra, che in più sedi ebbe modo di affermare come il suo gesto fu spinto dalla necessità di rompere la collaborazione tra Stato e apparati neofascisti essendo, secondo lui, improponibile un tale accordo, che altro non fece che storpiare la base del pensiero fascista puro, a cui lui intese e intende fare riferimento.
7 Citato in F. Ferraresi, La strage di Piazza Fontana in Storia d'Italia. Annali 12. La criminalità, a cura di Luciano Violante, Torino, Giulio Einaudi editore, 1997, p. 622. Per un quadro dell'interpretazione di Aldo Moro dell'Italia Repubblicana Cfr., M. Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l'anatomia del potere italiano, Torino, Einaudi, 2011, pp. 507-526.
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La Repubblica italiana, che camminava incerta sul percorso della democrazia,
trovò di fronte a sé la prova tangibile di quell'insieme di forze che tanto temevano
il "pericolo comunista". Una repubblica che già dalla nascita cresceva incerta,
stretta tra la morsa qualunquista di Giannini, il revanscismo fascista del
Movimento Sociale Italiano e dei Fasci di Azione Rivoluzionaria e un linguaggio
populista, anche democratico, che certo non contribuì alla sana ricostruzione di
uno Stato uscito da vent'anni di fascismo8. Nel portare avanti i propri obiettivi gli
attori in gioco ebbero modo di giovarsi della collaborazione attiva di alcuni
giornalisti, collegati ai servizi segreti, e della collaborazione passiva di molta parte
dell'apparato mass-mediatico italiano, fiducioso nelle indagini in corso e fin
troppo spesso portavoce acritico di quanto affermato dalle forze dell'ordine.
Una pratica che sembra in parte potersi inserire all'interno del modello di
propaganda delineato da Noam Chomsky e Edward Herman per il caso
statunitense, secondo cui i media «servono a mobilitare l'appoggio della gente agli
interessi particolari che dominano lo stato e l'attività privata». Inoltre gli autori
indicano degli strumenti di analisi che, come vedremo, si adatteranno
proficuamente al particolare caso della strage di Piazza Fontana, affermando che
«il modo migliore per comprendere, a volte con chiarezza cristallina e in
profondità, le loro scelte, le loro enfasi e le loro omissioni è quello di analizzarli in
questi termini»9.
8 Secondo chi scrive non è possibile parlare del difficile percorso italiano alla democrazia, senza prendere in considerazione quell'insieme di linguaggi populisti che ebbero modo di imporsi nel dibattito pubblico italiano. Nicolao Merker indaga le forme di quello che definisce "pre-populismo" evidenziando come «quelle tracce continueranno a vivere anche dopo, anzi fino ai nostri tempi». Seguendo questa interpretazione (seppur essa parta dall'inizio dell'Ottocento) la narrazione che Filippo Focardi ha da poco ricostruito sulla memoria autoassolutoria della seconda guerra mondiale in Italia non può essere elusa, diventando anzi, insieme al qualunquismo di Giannini, parte costituente di una cultura politica che tutt'oggi, nel solco di un crisi non solo economica, trova appoggio di massa. Cfr., N. Merker, Filosofie del populismo, Roma – Bari, Editori Laterza, 2009, p.4; Cfr., F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Roma – Bari, Editori Laterza, 2013; vedi anche S. Lupo, Partito e antipartito. Una storia politica della prima repubblica (1946-78), Roma, Donzelli, 2004.
9 Cfr., N. Chomsky – E. Herman, La fabbrica del consenso, Milano, il Saggiatore, 2006, p. 9.
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Un modello in cui due dei cinque punti delineati sono la provenienza delle fonti
e l'anticomunismo come meccanismo di controllo, per cui «l'anticomunismo è un
utile strumento di controllo di mobilitazione del popolo contro un nemico»10.
Seguendo questa traccia si può notare che il «Corriere della Sera», che era il
maggior quotidiano nazionale, era sempre il primo a pubblicare notizie sulle
indagini della strage grazie al giornalista Giorgio Zicari, collaboratore del SID11,
attraverso il quale la pista anarchica fu ostentatamente sorretta e alimentata,
contribuendo alla costruzione del “pericolo comunista”.
Tuttavia anche chi non ebbe modo di avere tra le propria file giornalisti così
profondamente inseriti in alcune zone dell'apparato statale, fu in grado di creare
una narrazione, come detto, acritica e creatrice di capri espiatori, contribuendo in
tal modo alla costruzione di una memoria labile, sfumata e spesso distorta12. È
questo il caso del quotidiano veronese «L'Arena» che è oggetto di questa ricerca.
Infatti, idea di fondo di questo elaborato è la necessità di analizzare la realtà
giornalistica locale andando oltre il grande giornalismo nazionale. Se infatti i
grandi gruppi proprietari come Rizzoli hanno avuto, e hanno, un ruolo
fondamentale nella gestione della comunicazione di massa e nella formazione di
idee e interessi, altrettanto (e forse con maggior forza) hanno fatto i quotidiani
10 Ibidem, p. 49.11 Sarà Giulio Andreotti in un'intervista rilasciata a «Il Mondo» del giugno 1974 a confermare le
accuse che si stavano muovendo nei confronti di Zicari e Giannettini come informatori del SID. Vedi L. Lanza, Bombe e segreti. Piazza Fontana: una strage senza colpevoli, Milano, Elèuthera, 2005, p.119; Cfr., Zicari e Giannettini ammettono di aver collaborato con il SID, «L'Arena», 20 giugno 1974.
12 Risulta sconcertante leggere i dati che fornisce Cinzia Venturoli che mostrano un perpetuo deterioramento delle conoscenze storiche delle giovani generazioni (mia compresa), in particolare per quanto riguarda l'oggetto di questa ricerca: nel 1999 un'indagine commissionata dall'Istituto milanese per la storia dell'età contemporanea della resistenza e del movimento operaio mostrò come a fronte di una diffusa conoscenza di un dato preliminare (ci sono state delle stragi a Milano, Piazza della Loggia e Bologna) che si attestava tra il 62 e il 97%, sorgevano poi dei problemi sull'individuazione cronologica, facendo crollare il dato al 22-42%. Dopotutto non è nemmeno sorprendente riconsiderando i miei studi precedenti all'università, dove la morte di Aldo Moro viene giustamente ricordata il 9 maggio in nome di tutte le vittime del terrorismo, ma dove questo fenomeno poi non viene nemmeno scalfito dall'istituzione che difficilmente riesce a raggiungere questo argomento nei programmi didattici. Vedi C. Venturoli, Stragi fra memorie e storia. Piazza Fontana, piazza della Loggia, la stazione di Bologna. Dal discorso pubblico all'elaborazione didattica, Viterbo, Sette Città, 2012.
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locali. Nel caso de «L'Arena» emergono chiaramente due direttrici di analisi: da
una parte la mancata volontà di porsi come lettore critico di quanto avveniva nella
società italiana, ad esempio lasciando che gli articoli fossero redazionali
(provenienti cioè da agenzie di stampa, le quali sono «il nodo strategico decisivo»
dei servizi segreti13) e quindi evitando di riferirsi a dati di prima mano o ad analisi
di determinate firme, su una realtà che non fosse solo provinciale; dall'altro
l'incapacità di porsi oltre un proprio spazio culturale. Se infatti emerge una
mancata volontà di fare inchiesta in riferimento alle indagini dei magistrati Stiz e
Calogero sulla cellula neofascista di Ordine Nuovo, altro aspetto riguarda la
costruzione della colpevolezza anarchica, che viene posta sotto i riflettori in
quanto storicamente dinamitarda. Il giornale, quindi, «ancora la regione e i lettori
a una rappresentazione e a forme di autorispecchiamento superati dallo stesso
sviluppo reale»14 e rimanendo esso stesso ancorato al proprio spettro politico, in
questo caso attraverso il rigetto tout court della cultura anarchica, che, come si
vedrà, sarà analizzata molto superficialmente e posta al centro del dibattito
pubblico in riferimento alla strage.
«L'Arena» è d'altronde, secondo i dati che Paolo Murialdi riferisce al 1978-79,
il secondo giornale del Veneto con una tiratura di 42.900 copie, edito, fin dal
1945, dalla Società Athesis S.p.a che ne è tutt'ora l'editore15, e che, sempre
Murialdi, definisce di “area Dc”16. Ma l'interesse per questo giornale non sta solo
in questo, e cioè nella ricostruzione di una crisi che è mantenuta viva anche dal
giornalismo di provincia. L'interesse si sviluppa anche per lo specifico contesto
veronese e veneto. Come è stato ormai storicamente accertato, protagonista della
strage di Piazza Fontana è la cellula ordinovista veneta attiva tra Padova e Venezia,
13 Cfr., A. Giannuli, Come i servizi segreti usano i media, Milano, Ponte alle Grazie, 2013, p. 43.14 M. Isnenghi, La stampa quotidiana locale in La stampa italiana nell'età della TV, a cura di
Valerio Castronovo e Nicola Tranfaglia, Roma – Bari, Editori Laterza, 2008, p.318.15 Si può infatti leggere sul sito della società: «La Società Athesis nasce nel 1945, al termine della
Seconda guerra mondiale, come editrice di uno dei più antichi quotidiani italiani, L'Arena di Verona». Il gruppo ha inoltre acquisito negli anni i quotidiani Il Giornale di Vicenza e BresciaOggi. Vedi http://www.gruppoathesis.it/ (ultima visualizzazione 4/06/2013)
16 P. Murialdi, Come si legge un giornale, Roma – Bari, Editori Laterza, 1981, p. 26-30.
5
ma che passa pure da Verona (città che incrocia protagonisti della strage di Piazza
della Loggia e in cui, tutt'oggi, le componenti post-fasciste e integraliste cattoliche
sono molto presenti17). Come scrisse Camilla Cederna:
Si può considerarla uno dei centri dell'eversione nera. È proprio a Verona
infatti che, appena costituitosi a livello nazionale, trova una delle sedi più
attive ed organizzate Ordine Nuovo (secondo un rapporto della Questura di
Roma “una delle più violente e settarie espressioni del neofascismo)18
A conferma di quanto detto dalla Cederna, spicca la figura di Elio
Massagrande, che salterà agli onori delle cronache inizialmente nel 1971 per
un'aggressione a studenti in occupazione alla facoltà di Magistero di Verona, ma
poi anche per ben altre imputazioni, tra cui legami con la cellula ordinovista di
Freda19.
Questa ricerca è quindi indirizzata ad indagare un aspetto non ancora preso in
considerazione nella storiografia locale veronese, ovvero contestualizzare il ruolo
e la posizione del quotidiano «L'Arena», attraverso l'esame del più emblematico
caso dei rapporti tra comunicazione di massa e potere, la strage di Piazza Fontana.
Ciò offre inoltre l'opportunità di approfondire una ricerca personale sull'Italia
Repubblicana e sulla democrazia. La concettualizzazione moderna dei termini
politici ha infatti avuto modo, nella storia politica nazionale, di trovare fertile
terreno per una critica e un'osservazione privilegiata sul senso, la retorica e i
meccanismi della democrazia, intesa come forma di organizzazione sociale e
politica20. Meccanismi che hanno potuto svilupparsi mettendo in crisi la forma
17 Cfr., E. Franzina (a cura di), La città in fondo a destra, Cierre edizioni, numero monografico della rivista Venetica, 19/2009, a. XXIII.
18 Cfr., E. Del Medico, All'estrema destra del padre. Tradizionalismo cattolico e destra radicale. Il paradigma veronese, Ragusa, Edizioni La Fiaccola, 2004, p. 121.
19 Droga e nuova criminalità. Libro bianco della Federazione Veronese del Partito Comunista Italiano, Verona, PCI – Federazione Provinciale di Verona, 1981, p.30.
20 Studi di scienza politica, sociologica, filosofica e storica sul concetto di democrazia e sul fenomeno contemporaneo sono infatti numerosi. Credo che il caso italiano permetta di rappresentare un caso di studio piuttosto fertile per far emergere quello che Luciano Canfora
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partito e facendoci approdare in quella che Bernard Manin ha definito
“democrazia del pubblico”, cioè il passaggio da una democrazia incentrata sul
ruolo del partito di massa, sull'attivismo e sui programmi politici, ad una che è
invece veicolata dai mass-media, che favoriscono la formazione di un leader a cui
la popolazione fa riferimento. In questo modo non sono più i programmi politici
o l'impegno degli attivisti ad influire nella lotta politica, bensì la capacità
comunicativa del leader: «la democrazia del pubblico è il governo dell'esperto di
media»21.
La strage di Piazza Fontana apre uno spettro molto ampio di argomenti da
approfondire. Questa ricerca si concentrerà solamente su alcuni punti cardine. Il
primo capitolo avrà una funzione di contestualizzazione storica del periodo
antecedente alla strage, cioè i fermenti politico-sociali del bienni 1968-69 e la crisi
politica del centrosinistra con il Piano Solo. A seguire sarà definito, nelle sue linee
di fondo, il contesto veronese attraverso l'analisi puntuale di alcuni casi di
conflitto urbano, intrecciato con la narrazione che ne fece il giornale veronese. Il
capitolo si gioverà di alcuni volantini, nonché di un opuscolo redatto in
preparazione al XIV congresso provinciale della federazione veronese del Partito
Comunista Italiano, consultati presso l'Istituto Veronese per la Storia della
Resistenza e dell'Età Contemporanea. Con il secondo capitolo ci si addentrerà,
invece, nella indagini della strage di Piazza Fontana e nella narrazione che propose
il quotidiano «L'Arena». Saranno quindi analizzati gli articoli immediatamente
successivi all'attentato e l'attenzione si concentrerà poi sul caso Pinelli e l''alibi di
Pietro Valpreda. L'ultimo capitolo, infine, analizzerà l'omissione de «L'Arena» in
merito alla pista nera, concentrandosi dunque sugli unici tre articoli pubblicati dal
giornale su questo tema nel 1970-71.
Come si può intuire, la ricerca è parziale. Sarebbe stato infatti molto
ha definito «paradosso democratico». Cfr., L. Canfora, Critica della retorica democratica, Roma – Bari, Editori Laterza, 2011.
21 Cfr., B. Manin, Principi del governo rappresentativo, Bologna, il Mulino, 2010, p. 245.
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interessante approfondire la strategia della tensione nel suo complesso,
considerando anche le diverse conseguenze che porta con sé e le diverse porte e
ferite che ha aperto. Il secondo capitolo, ad esempio, non prenderà in
considerazione il caso Calabresi. Allo stesso modo, il terzo capitolo, affronterà in
modo molto parziale i rapporti tra istituzioni e neofascismo, nonché il ruolo
ideologico svolto da Franco Freda nel variegato mondo della riflessione politica e
filosofica avviata da Julius Evola22, che non sarà oggetto di approfondimento.
Ciò che questa breve ricerca intende far emergere è il ruolo del giornale
veronese e quindi sarà sufficiente porre in evidenza alcuni nodi tematici di
particolare rilievo che anche nell'ambito del giornalismo nazionale ebbero
notevole risonanza. E, per questo, l'arco cronologico di riferimento è compreso tra
il 1969 e il 1972.
Ad arricchire la ricerca ho creduto utile aggiungere in appendice diversi
materiali:
1. I volantini citati nel primo capitolo relativi al contesto veronese;
2. Alcuni degli articoli più significativi de «L'Arena», citati nel testo;
3. Un'intervista concessami da Enrico Di Cola, ex membro del Circolo 22
Marzo.
22 Per un inquadramento storico e teorico si veda F. Ferraresi, Da Evola a Freda. Le dottrine della Destra Radicale fino al 1977, in F. Ferraresi (a cura di), La destra radicale, Giangiacomo Feltrinelli editore, 1984, pp. 13-53; Id., Minacce alla democrazia, Milano, Giangiacomo Feltrinelli editore, 1995, pp. 61-103; Cfr., A. Ventura, Per una storia del terrorismo italiano, Roma, Donzelli, 2010, pp. 117-135.
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IL CONTESTO
Prima di iniziare a parlare del 12 Dicembre 1969 e delle conseguenze che ha
comportato è necessaria un'introduzione che contestualizzi il periodo storico, in
modo che sia possibile aver chiare le premesse che portarono alla strage. Infatti di
bombe ce ne furono diverse, anche se solo quel giorno avvenne la strage; svariate
furono anche le manifestazioni nonché le misure repressive attuate dalle forze
dell'ordine.
Se sono noti nell'opinione pubblica, anche solo in modo superficiale e vago, i
disordini che caratterizzarono il biennio 1968-69 e, in particolare, il cosiddetto
autunno caldo, altrettanto non si può dire per gli anni antecedenti, anni di
fermentazione di quella che divenne una rivolta generazionale, inserita in
dinamiche politiche e sociali di particolare rilevanza. Le proteste che sfociarono
nel Sessantotto hanno infatti una base di fermentazione socio-economica che vive
in tutti gli anni Cinquanta e che esplode negli anni Sessanta assieme al boom
economico e alle nuove aspettative di vita e di consumo. Anche dal punto di vista
politico assistiamo a diverse manifestazioni che possono perlomeno far prefigurare
quello che successivamente si imporrà alla cronaca nazionale.
1. Il piano Solo
Il “lato oscuro”, il “sommerso della Repubblica”1 che s'impone più
1 In un breve ma intenso saggio del 2003, Francesco Biscione definiva il sommerso della Repubblica come quell'insieme di forze che si sono opposte all'antifascismo, da lui inteso come movimento politico che è stato parte essenziale nella costruzione della democrazia in Italia. Partendo dalle riflessioni di Aldo Moro e Franco De Felice ha provato a far emergere tale sommerso come caratteristica peculiare della storia dell'Italia Repubblicana. Cfr., F. Biscione, Il sommerso della Repubblica. La democrazia italiana e la crisi dell'antifascismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
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marcatamente nella prima parte del decennio, ha le sue basi nelle reazioni di quei
settori industriali, religiosi e politici che più sono preoccupati dall'avvento di un
governo di centro-sinistra. Quest'ultimo è infatti in cantiere da diversi anni. Dopo
la distensione internazionale successiva alla morte di Stalin nel 1953, all'avvento di
Nikita Chruš ëvč e alle operazioni di destalinizzazione al XX Congresso del PCUS
il 25 febbraio 1956, il PSI di Nenni, congiuntamente all'ala sinistra della
Democrazia Cristiana, rappresentata da Amintore Fanfani e Aldo Moro, sembrano
convergere nel tentativo di trovare un accordo di governo. L'obiettivo è quello di
progettare un'alternativa al centrismo, non passando però per la destra. L'ultimo
barlume di luce che vedrà quest'ultima è nel 1960, quando il presidente del
consiglio Fernando Tambroni, della sinistra cattolica e usato come ponte verso un
futuro esecutivo di centro-sinistra, viene prima appoggiato dai voti missini e poi
autorizza il congresso del Movimento Sociale Italiano a Genova, città medaglia
d'oro alla resistenza. La decisione è seguita da numerose manifestazioni, a cui il
governo risponde con un passo falso: la repressione. Ciò segna la fine del governo
che con sé anche quella del centrismo. Si apre così la strada all'accordo della
Democrazia Cristiana con il Partito Socialista Italiano di Nenni. Nel 1962 si avrà
infatti un governo guidato da Fanfani che può contare sull'appoggio esterno dei
socialisti, ovvero «un segnale inequivocabile che prelude a un futuro governo di
centrosinistra»2. I circa quindici mesi dell'esecutivo Fanfani, sostenuto dai
socialisti, possono essere considerati il periodo più proficuo delle riforme, a
partire dalla nazionalizzazione dell'energia elettrica e della creazione della scuola
media unificata. Questo va detto perché, a partire da qui, si attiverà quel mondo
così ostile e pauroso all'alternativa a sinistra. Un'alternativa accolta invece
positivamente dagli Stati Uniti che affermano:
The isolation and reduction of Communist strength would come about
slowly and would depend greatly upon the depth and duration of Christian
2 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica. Partiti, movimenti e istituzioni. 1943-2006, Roma – Bari, Editori Laterza, 2011, p. 75.
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Democratic-Socialist collaboration and the degree to which social and
economic reforms were in fact achieved3.
Per gli statunitensi, un governo di centrosinistra rappresenta l'opportunità di
limitare la crescente forza del Partito Comunista Italiano, legato al blocco
sovietico. Come recita anche un documento successivo, gli statunitensi affermano:
Noi dobbiamo difendere un'Italia democratica dove né i comunisti né i
neofascisti possano partecipare al governo […] Possiamo accettare sia la
continuazione del centrosinistra sia il ritorno deciso a un governo di centro,
alla vecchia formula degli anni Quaranta e Cinquanta4
Il governo degli Stati Uniti non ha intenzione di indicare una via di azione
all'Italia, timoroso di poter essere accusato di intromettersi negli affari interni
della nazione e in parte preoccupato che un governo di centro-sinistra potesse
modificare le relazioni di politica estera. Tuttavia nei primi mesi del 1962 l'analisi
statunitense si rese conto che «non c'era alcuna alternativa stabile a un governo di
centro-sinistra e che perciò, se la DC non fosse riuscita nel tentativo di crearlo, si
sarebbe aperta una lunga crisi di difficile soluzione»5.
Viceversa, per alcuni attori della società italiana l'apertura della DC al partito
socialista significa invece un pericolo da limitare attivando ogni mezzo possibile. Il
dato statistico che più rende evidente questa preoccupazione è lo straordinario
risultato raggiunto dal Partito Liberale Italiano alle elezioni del 1963 quando,
raddoppiando i propri voti, viene premiato con un 7%, che si spiega, appunto,
con «la paura innescata dall'ingresso dei socialisti nella maggioranza e dalla
3 National Intelligence Estimate, Implications of the center-left experiment in Italy, 3 January 1963; Il documento è disponibile online all'indirizzo http://www.foia.cia.gov/sites/default/files/document_conversions/89801/DOC_0000013680.pdf (ultima visualizzazione 27/05/2013).
4 Cfr., U. Gentiloni Silveri, Gli anni settanta nel giudizio degli stati uniti: "un ponte verso l'ignoto", "Studi Storici", XLII (2001), p. 994.
5 Cfr., L. Nuti, Gli Stati Uniti e l'apertura a Sinistra. Importanza e limiti della presenza italiana in Italia, Roma-Bari, Editori Laterza, 1999, p 450.
11
prospettiva di una partecipazione diretta del Psi ai futuri governi»6. È facile intuire
che la convivenza e la sostenibilità dell'esecutivo, in un ambiente cosi turbolento e
fragile, sia difficile da mantenere. Così «nel giugno 1964 il primo governo Moro
va in crisi dopo il “colpo di mano” con il quale il ministro Gui aumentava i
finanziamenti alle scuole private»7, concretizzando una generale opposizione di
destra al pericolo comunista. Questa crisi sembrò poter spostare il governo a
destra. Tuttavia una soluzione di questo tipo, cioè il tentativo di creare una
coalizione di centro destra, avrebbe potuto avviare una mobilitazione di piazza
simile a quella del giugno 1960 a Genova. Per evitare questa possibilità intervenne
colui che si può considerare il vero protagonista del Piano Solo, Antonio Segni.
Sono infatti le preoccupazioni di Segni, diventato presidente della Repubblica il 6
maggio 1962, a dare il via al piano. Questi dà indicazioni a Giovanni De Lorenzo,
capo del Servizio Informazioni Forze Armate fino al 1962 (periodo in cui iniziò
una schedatura di massa di senatori, parlamentari, sindacalisti, industriali,
dirigenti di partito, sacerdoti) e successivamente comandante dell'Arma dei
Carabinieri (anche se continuò a dirigere il SIFAR «per interposta persona»8), per
preparare un progetto difensivo d'emergenza, ovvero
un piano che avrebbe permesso ai carabinieri di assumere il controllo
dell'ordine pubblico: con l'occupazione delle prefetture, della Rai, di istituti
civili e militari, di sedi di partiti e con l'arresto e il trasferimento in Sardegna
di un certo numero di oppositori9.
Il Piano Solo non fu mai messo in pratica, tuttavia provocò un'inquietudine
diffusa, esemplificata da quel “tintinnio di sciabole” annotato con preoccupazione
da Nenni nei suoi diari. Il senso di minaccia pendente sul governo inibì un'efficace
azione riformista. Per questo le più importanti riforme furono fatte durante la fase
6 S. Colarizi, Storia politica della repubblica, cit., p.84.7 G. Crainz, Il paese mancato, Roma, Donzelli editore, 2005, p. 77.8 G. De Lutiis, I servizi segreti in Italia, cit., p.65.9 G. Crainz, Il paese mancato, cit., p. 99.
12
di appoggio esterno del PSI, lasciando invece il centro-sinistra organico privo di
agibilità politica, concretizzando la volontà conservatrice di alcuni attori della
scena italiana.
2. Generazione in movimento
Guardando alle Istituzioni democratiche, il dato che maggiormente marcò gli
anni Sessanta fu quello che rimase alle cronache come il “caso SIFAR”. Ciò che
invece rende storicamente peculiare questo “decennio breve”10, è l'insorgere
globale di una generazione. Una generazione che si trova ad essere la protagonista
di un'insieme di conflitti, come scrive Diego Giachetti, “un Sessantotto e tre
conflitti”, prendendo il Sessantotto come il cronotopo del periodo: conflitti di
classe, di generazione e infine di genere.
Le proteste degli studenti, che iniziano già a metà decennio, culmineranno poi
nel famoso biennio in cui ci sarà una fortunata palingenesi delle rivolte. Credo che
sia possibile e quasi doveroso dover ricordare, come sanzione emblematica di
questo sgorgare ribellistico, la morte dello studente Paolo Rossi, durante
l'occupazione della facoltà di architettura a Roma nel 1966, a causa di
un'aggressione neofascista. Rossi viene così a identificare un'anticipazione
profetica di quello che verrà sancito negli anni a venire. Ma gli anni Sessanta
10 Forzando un po' l'interpretazione e quindi nei limiti che tali categorizzazioni pongono, credo si possa parlare di "lunghi anni settanta" traslando quindi il famoso "Lungo Ottocento" di Hobsbawm. Infatti, è possibile inquadrare peculiarmente gli anni Sessanta escludendo il 1969 e, in particolare, il dicembre 1969, con cui iniziò quel fenomeno che si è andato affermando con la definizione di stragismo. La radicalizzazione del conflitto sociale, che vide un'escalation della violenza a partire dalla “perdita dell'innocenza” della strage di Piazza Fontana, segna una linea di separazione tra i due periodi, rendendo così peculiare ognuno. In questo senso, dunque, i Sessanta si caratterizzano come "decennio breve", terminando anticipatamente la propria carica innovatrice. Tuttavia è sempre limitante categorizzare in questo modo, infatti sarebbe fin troppo superficiale ridurre gli anni Settanta a mera lotta armata e stragi, lasciandoli quindi esclusi dalle conseguenze del "'68" che, viceversa, potrebbe essere a sua volta interpretato come "lungo" se consideriamo, ad esempio, le avanguardie artistiche come il teatro politico di Dario Fo, o il cinema che in quegli anni, ad esempio con Elio Petri o Mario Monicelli, avrà modo di sviluppare pregevolmente la propria creatività. In riferimento a questo si veda A. Giannuli, Bombe a inchiostro, Milano, RCS Libri, 2008, p.439 ss.
13
saranno caratterizzati non tanto dalla conflittualità dei gruppi della sinistra
extraparlamentare che si vanno poi a scontrare con le resistenze dei neofascisti,
quanto piuttosto dal carattere generazionale delle rivolte. Perciò un dato essenziale
di quegli anni è la convergenza nelle medesime lotte di studenti e operai.
Guardando al quadro sociale del Sessantotto, infatti, emerge la centralità del
fattore generazionale, di una generazione che – come osserva lo storico Guido
Crainz – «si era trovata a vivere fra la dissoluzione di un'Italia arcaica e il
discutibile profilarsi di un'Italia moderna»11. A muovere la protesta era proprio
l'avvento di un'istruzione di massa, laddove l'Istituzione non era in grado di
reggere l'urto. I dati sono molto significativi. Scrive Giachetti, in merito alla
popolazione universitaria, che rispetto al 1960 aumentava «nel 1966 del 72%, nel
1967 del 93% , nel 1968 del 117%»12. Si tratta di un aumento significativo che
porta con se gravose complicazioni. La prima, e più importante, riguarda la
provenienza sociale degli studenti. Se prima la popolazione studentesca era
principalmente formata da giovani di una classe sociale medio-alta, è ora
impossibile evitare che a fare ingresso nelle università siano figli di una classe
medio-bassa, se non di veri e propri operai. Le università infatti saranno
l'epicentro, quasi il luogo simbolico del Sessantotto, in cui la rivolta dei giovani
avrà luogo. Non più disposti ad accettare un sapere calato dall'alto, quasi estraneo
a quello che sta accadendo nella società italiana, gli studenti si attiveranno con
contro-corsi e critiche radicali alla metodologia imposta. Guido Viale denunciava
nel febbraio 1968 l'autoritarismo, le logiche di mercato, la cultura verticistica e la
repressione poliziesca concludendo il suo articolo con parole molto dure nei
confronti dei rapporti tra società e istruzione:
gli studenti hanno capito che professori e poliziotti sono persone cui lo
stato e la società hanno delegato un compito unico: reprimere le agitazioni,
opprimere gli studenti, spezzare le loro istanze politiche, con la violenza e le
11 G. Crainz, Il paese mancato, cit., p. 240.12 D. Giachetti, Oltre il sessantotto. Primo, durante e dopo il movimento, Pisa, BFS, 1997, p. 41.
14
denunce alla magistratura in caso di agitazione, come con la didattica
autoritaria in caso di situazione “normale”13.
Infatti mentre a Milano, Roma, Torino e in molte altre città imperversavano le
proteste, le occupazioni, le manifestazioni etc. la risposta delle Istituzioni
sembrava sempre la medesima: le proteste venivano gestite come problema di
ordine pubblico14. Così il primo luglio 1966 il ministro dell'Interno Emilio
Taviani, invia una circolare ai prefetti delle città universitarie in cui modifica un
elemento essenziale dei rapporti tra protesta, scuola e polizia. Se fino ad allora le
forze dell'ordine per entrare nell'università dovevano attendere la richiesta del
rettore, da quel momento in poi avranno il diritto di intervenire immediatamente:
«in questo modo modeste agitazioni diventavano rapidamente mobilitazioni
ampie»15.
Anche sul versante opposto, quello delle fabbriche la tensione andrà in
crescendo. Innanzitutto anche qui emerge chiaramente un dato quantitativo
generazionale:
Gli operai della Fiat, ad esempio, giunti sino alle 102 000 unità del 1963 e
diminuiti di alcune migliaia nel biennio successivo, aumentano di nuovo con
vigore fino ai 139 000 dell'«autunno caldo»: con l'ingresso di 12 000 giovani
nel 1968, di 14 000 nel 196916.
Nel mondo dei lavoratori si aggiunge poi il problema di una rappresentatività
sindacale incapace di adeguarsi allo “spirito dei tempi”. Infatti, come scrive Silvio
Lanaro:
Gioca il suo ruolo, e non infimo, anche l'insofferenza di chi scopre con
13 G. Viale, Il68. Tra rivoluzione e restaurazione, Rimini, NdA Press, 2008, p. 294 (Il saggio fu originariamente pubblicato in «Quaderni Piacentini», n. 33, febbraio 1968).
14 Cfr., D. Della Porta – R. Herbert, Polizia e protesta, Bologna, Il Mulino, 2003.15 G. Crainz, Il paese mancato, cit., p.219.16 G. Crainz, Il paese mancato, cit., p. 322.
15
sorpresa di dover combattere su due fronti: non solo con gli imprenditori […]
ma anche con le stesse associazioni sindacali, che non si pongono
tempestivamente al passo con i tempi e continuano a fungere da «cinghie di
trasmissione» della volontà dei partiti17
E, come scrive anche Nicola Tranfaglia,
i partiti e i sindacati, non seppero egualmente partire da quella crisi per
modificare in maniera innovativa i propri meccanismi di aggregazione, di
funzionamento, di rapporto con la società, di selezione della propria classe
dirigente18
Questi saranno alcuni degli elementi che faranno scoppiare violenti scontri tra
polizia e manifestanti durante le manifestazioni e gli scioperi. Categoria colpita da
una forte crisi e, appunto, difficilmente compresa dal mondo istituzionale, l'area
dei lavoratori salariati riverserà la propria rabbia sulle strade, luogo in cui la
polizia avrà modo di mostrare la scarsa capacità di gestione dell'ordine pubblico.
Caso emblematico la vicenda di Battipaglia, nelle cui strade, nell'aprile del 1969,
avranno luogo vere e proprie rivolte a suon di pallottole, con la morte di due
persone e con centinaia di feriti.
La società sta cambiando in fretta e i primi ad accorgersene sono studenti e
operai che, non trovando Istituzioni in grado di capire la portata degli eventi, si
trovano a dover combattere una lotta solitaria se non proprio osteggiata, come
vedremo più avanti con la strategia della tensione. È in questo insieme di processi
innovativi che nasce l'impulso di dar vita a una nuova cultura, non rinchiusa negli
schemi preconfezionati di quella distribuzione del sapere sentita così lontana dai
giovani, che la considerano autoritaria e verticistica19. È dunque questo il contesto
17 S. Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana, Venezia, Marsilio, 2010, p. 298.18 N. Tranfaglia, Parlamento, partiti e società civile nella crisi repubblicana, "Studi Storici", XLII
(2001), pp. 827-835.19 G.Viale, Il68, cit., pp.32 ss.
16
in cui si sviluppa, già dai primi Sessanta e poi declinata in ogni contesto
nazionale20, la cosiddetta Nuova Sinistra, un fenomeno che non interessa solo
l'Italia. A dimostrare l'internazionalizzazione di questo ribollire culturale è la
famosa rivista New Left Review, nata in Inghilterra nel 1960. New Left, appunto,
ovvero la necessità di rifondare la sinistra, in una opposizione che non sia né
accettazione dell'ideologia liberale e liberista, né della politica partitica, in
particolare di quella comunista, spesso vicina all'Urss, e di quella
socialdemocratica. La Nuova Sinistra è il tentativo di capire il divenire che sta
mutando radicalmente il presente. In Italia saranno numerose le riviste in cui
decine e decine di giovani universitari e non si accingeranno a cercare di
sviluppare analisi critiche del reale prendendo a piene mani dalla teoria marxista
e, spesso, cercando di rileggerla. Molti di quelli che sono oggi noti professori
universitari, storici, filosofi etc., furono all'epoca gli autori di articoli di numerose
delle riviste di questa nuova cultura. In questo contesto fu di particolare
importanza l'operaismo, (e, nel variegato mondo della sinistra extraparlamentare
italiana, molti di coloro che seguirono quella corrente, sono oggi i protagonisti
delle protesta e dell'opposizione di movimento) cioè quella corrente di pensiero
marxista e non autoritaria sviluppata da Antonio (Tony) Negri (che sarà alla fine
degli anni Settanta implicato nel cosiddetto processo “7 aprile”), Renato Panzieri e
Mario Tronti. Questi, insieme ad altri studiosi, fondarono nel 1963 la rivista
Quaderni Rossi in cui iniziarono a sviluppare le loro teorie21.
3. Conflitto urbano a Verona
Verona come paradigma del “modello Veneto”, è caratterizzata da una società a
concentrazione cattolica, con un'economia di piccole e medie imprese22 e una
20 M. Tolomelli, Il sessantotto. Una breve storia, Roma, Carocci, 2008, pp. 28 ss.21 M. Tronti, Noi operaisti, Roma, DeriveApprodi, 2009.
22 "[...]non possiamo non notare come su 1.133 imprese operanti nel settore industriale, solo 14 impieghino fra i 251 e i 500 addetti; e, ancora, che solo una azienda (le Off. Grafiche
17
politica conservatrice, in difesa dell'ordine tradizionale23. Una regione, il Veneto,
in cui «la rilevanza del fenomeno [il conflitto urbano] è poca cosa rispetto alle
grandi aree metropolitane»24 e dove, come specifica Emilio Franzina, seppur
l'attenzione delle proteste non ignori l'importanza della fabbrica,
il loro impegno [delle sinistre], nell'ansia di operare saldature
nazionalpopolari con i ceti emarginati dell'agricoltura e nella rincorsa
intermittente dei lavoratori “cattolici”, finisce per disperdersi sotto l'urto
decisivo delle controparti che prescelgono invece, quale terreno d'attacco,
proprio quello dischiuso dai nuovi processi d'industrializzazione ormai in
corso25
Tuttavia l'organizzazione di un conflitto urbano non è assente. Le collaborazioni
tra studenti e operai, che nel quadro nazionale sono tanto frequenti, trovano
anche a Verona spazio di azione politica, mettendo in evidenza i diversi tentativi di
far convergere le due istanze. Ciononostante le due aree di azione hanno portato
avanti rivendicazioni e lotte in autonomia. Per quanto concerne gli studenti risulta
importante l'autunno caldo veronese nel novembre 1969, che li ha visti
protagonisti, anche sulle cronache locali, di diverse occupazioni. Sul fronte
operaio risulta interessante il caso della Riello, un'azienda di Legnago, comune
della bassa veronese. Un caso seguito con numerosi articoli da «L'Arena», nella
sezione dedicata alla “Cronaca di Legnago”. Vale la pena soffermarsi su questi
mondadori) per numero di addetti, per composizione organica del capitale, per tecniche produttive, possa essere considerata di dimensioni realmente nazionali. Le restanti imprese sono inferiori ai 250 addetti e ben 664 di esse impiegano un numero di addetti inferiore a 25". Partito Comunista Italiano Federazione di Verona, I comunisti veronesi alla testa delle lotte. Documento del comitato federale in preparazione del XIV congresso provinciale in Istituto Veronese per la Storia della Resistenza e dell'Età contemporanea, Fondo “Partito comunista italiano – Pci” (da qui in avanti “IVrR, Fondo Pci”), “Congressi”, B. 15, fasc. 116, p.8.
23 P. Messina, Oltre il modello veneto. Crisi e trasformazione di un modo di regolazione dello sviluppo locale , "Venetica", terza serie 16, XXI (2007), pp. 113-172.
24 G. Moretti – E. R. Trevisol – G. Vesco, Lotte nel territorio e aree periferiche: il caso Veneto, HERODOTE/Italia, n. 2/3 (1980), p.66.
25 E. Franzina, Il "nuovo Veneto" e le sinistre dalla liberazione agli anni 70 (1945-1973) in Il movimento sindacale a Verona, a cura di Maurizio Zangarini, Verona, Cierre Edizioni, 1997, pp. 162-163.
18
aspetti del conflitto su cui si appuntò l'attenzione del quotidiano veronese.
Operai e studenti uniti nella lotta
Lo slogan Operai-studenti uniti nella lotta avrà ampia diffusione e, non a caso,
troverà terreno fertile anche a Verona. Infatti in previsione di uno sciopero
generale cittadino il 7 Novembre 1969, ci sarà un esplicito invito tramite una
«lettera aperta di operai veronesi agli studenti»26 a partecipare allo sciopero. La
lettera si apre emblematicamente con un «amici studenti», invitandoli a prendere
visione delle linee di fondo che uniscono le due categorie: casa, carovita, tasse,
salute ma anche la questione della scuola. Scrivono infatti : «Noi siamo coscienti
che la riforma della scuola è un tema che interessa non solo voi studenti, ma tutti i
lavoratori». Gli studenti non si fanno attendere e, dopo la manifestazione, arriverà
la risposta pubblica della Federazione Giovani Comunisti Italiani, che metterà in
evidenza l'importanza dell'evento affermando che «lo sciopero unitario è risultata
la forma più forte e più efficace per saldare i movimenti operaio e studentesco e
dare incisività alle richieste e alla iniziativa degli studenti»27.
«L'Arena» in merito scriverà un articolo di cronaca redazionale, piuttosto
neutro dal punto di vista politico, ma che, come vedremo anche negli anni
successivi, marcherà il problema dell'ordine pubblico e del disagio della
popolazione. Lo stesso giorno dello sciopero si legge infatti sulle pagine del
quotidiano veronese:
Lo sciopero, che viene ad infliggere un nuovo duro colpo alle attività
produttive già provate dalle vertenze in atto per il rinnovo dei contratti di
lavoro, interesserà l'industria, il commercio e parte del settore del pubblico
26 Firmata da «Gruppi operai delle Officine Adige – Abital – Tiberghien – Galtarossa – Zona del marmo – Apprendisti del marsmo di St. Ambrogio – Apprendisti del legno di Castagnaro» in IVrR Fondo Pci, “Serie volantini”, unità 2 «Propaganda volantini 1970».
27 Ibidem. Stampata l'11 Novembre 1969 e firmata appunto «FGCI – Commissione studenti e operai».
19
impiego28
Quindi, due giorni dopo, pur sottolineando la riuscita pacifica della
manifestazione, indicando come:
La chiusura dei negozi, specialmente degli alimentaristi, e degli esercizi
pubblici e soprattutto la sospensione dei trasporti pubblici durante molte ore
della giornata hanno tuttavia causato non lieve disagio nella popolazione.29
Una cronaca che sembra avere comunanze nazionali. Come scrive Guido
Crainz, «nei principali quotidiani [...] da “La Stampa” al “Corriere della Sera”, le
questioni tendono a trasformarsi in problema di ordine pubblico»30. È evidente,
infatti, la sottolineatura polemica e scontrosa nel voler mettere in risalto i
problemi economici causati da uno sciopero, piuttosto che il disagio del cittadini
in riferimento ai trasporti pubblici. Senza d'altra parte, ad esempio, mostrare le
relative difficoltà di ampi settori della società nazionale rispetto alle politiche
governative.
Il quadro nazionale si manifesta quindi anche a Verona. Gli esempi, oltre a
quello citato, sono diversi. Già il 4 Novembre 1969, un volantino che denunciava
le politiche “padronali” era emblematicamente firmato «Collettivo Operai-
Studenti San Michele Extra», quartiere della settima circoscrizione, zona est di
Verona. Ancora, un volantino del 29 Ottobre 1969, firmato dalla Commissione
studenti della FGCI, rivendicava l'unità della lotta operaia con quella del
movimento studentesco perché
soprattutto in questo momento, in cui le lotte operaie sono cosi forti e
generalizzate, è necessario ALLARGARE IL FRONTE DI LOTTA CONTRO
28 Oggi sciopero generale in città e provincia, «L'Arena», 7 novembre 1969.29 Senza gravi incidente lo sciopero provinciale, «L'Arena», 9 novembre 1969.30 G. Crainz, Il paese mancato, cit., p. 264.
20
LE FORZE CONSERVATRICI E IL BLOCCO DI POTERE DOMINANTE31.
Occupazioni
La sera del 5 Novembre 1969 la facoltà di Economia e Commercio
dell'Università di Verona, sede staccata dell'Università degli studi di Padova, è
occupata da un gruppo di studenti le cui rivendicazioni vengono riportate dal
giornale locale il giorno successivo:
Didattica: sessione continua, con pubblicazione all'inizio dell'anno delle
date mensili di appello per ciascuna materia; differenziazione dei corsi di
studio; abolizione degli “sbarramenti” (cioè possibilità di sostenere gli esami
senza un prestabilito ordine diciamo cosi cronologico, come accade adesso, ad
esempio, per l'esame di statistica che deve essere sostenuto solo dopo quello
di matematica; abolizione dei voti negativi sui libretti; apertura serale della
biblioteca.
Assistenza: istituzione di una mensa gestita direttamente dall'Opera
universitaria; “via” quanto prima ai lavori per la realizzazione della “casa
dello studente”; ripresa delle rivendicazioni per ottenere l'intera area della
caserma “Passalacqua”; estensione effettiva anche a Verona dell'assistenza
mutualistica affidata all'Opera universitaria.
Impianti sportivi: realizzazione di impianti sportivi, totalmente mancanti32.
Come si può leggere, le richieste avanzate dagli studenti non sono
particolarmente eversive e rivoluzionarie, e infatti, come ci fa sapere il giornale,
erano state precedentemente approvate dal consiglio di facoltà. Tuttavia non erano
state poi messe in pratica, portando dunque all'occupazione. L'«atto di forza»,
come lo definisce il quotidiano, riesce però a smuovere le acque. In pochi giorni si
31 "La lotta nelle scuole" in IVrR Fondo Pci, “Serie volantini”, unità 2 «Propaganda volantini 1970».
32 "Occupata" da ieri l'università, «L'Arena», 6 novembre 1969.
21
assisterà infatti alla «disoccupazione».
Finita l'occupazione dell'università, sarà occupato l'istituto tecnico Ferraris, per
ragioni indicate nel comunicato citato dal giornale veronese: «1) dequalificazione
del diploma; 2) stasi del sistema scolastico; 3) mancanza di insegnanti di ruolo: 4)
aggiornamento dei programmi e dei libri di testo»33. Occupato per tre giorni,
l'istituto sarà presto «disoccupato» per «dar modo ai professori di tenere il loro
consiglio e di rispondere cosi alle proposte»34.
La narrazione del giornale veronese risulta in questo contesto propositiva. Gli
articoli difficilmente si pongono su un piano ostile nei confronti degli studenti,
accogliendone piuttosto le istanze di rinnovamento e marcando la differenza
veronese rispetto al più ampio quadro nazionale. Infatti in merito all'occupazione
dell'istituto Ferraris si può leggere:
Con l'occupazione, gli studenti del “Ferraris” hanno voluto solo metterli in
rilievo [i problemi della scuola], creando nel contempo l'occasione per un
incontro “straordinario”, indispensabile per una chiarificazione all'inizio
dell'anno scolastico35.
L'occupazione viene cosi definita un atto “indispensabile” e, come viene scritto
poche righe sopra, descrivendo nel dettaglio le ragioni dell'occupazione, il sistema
scolastico viene definito in «stasi» a causa di «una scuola di tipo tecnico, che
dovrebbe procedere di pari passo con l'industria, [che] in realtà rimane sempre
indietro». È chiaro dunque che, a differenza di quanto emerso nella breve
ricostruzione degli scioperi cittadini, l'elemento istruzione è sentito
profondamente dal giornale, in quanto la classe dirigente cittadina sente
33 Aperta dopo nove giorni l'università Occupato l'istituto tecnico «Ferraris», «L'Arena», 15 Novembre 1969.
34 Riaperto il "Ferraris" da oggi lezioni normali, «L'Arena», 18 Novembre 1969.35 Aperta dopo nove giorni l'università Occupato l'istituto tecnico «Ferraris», «L'Arena», 15
Novembre 1969.
22
evidentemente il peso della “stasi della scuola” ma, d'altra parte, non sente le
difficoltà di una parte della cittadinanza, gli operai.
«Il problema Riello»
Sul fronte del movimento operaio, nella Verona contestataria a cavallo tra gli
anni Sessanta e Settanta, risulta di particolare rilevanza la serie di scioperi e di
articoli dedicati dal giornale locale sulla «questione Riello». Riguarda la decisione
dell'azienda sulla diminuzione delle ore o il licenziamento di qualche centinaio di
operai, giustificata dalla diminuzione della produzione a causa della crisi
economica. Il problema si apre nella prima settimana del dicembre 1970 quando
viene convocato un consiglio comunale il 5 dicembre, il cui ordine del giorno è
dedicato interamente alla questione. Tra i diversi interventi viene infine approvato
l'ordine del giorno del senatore democristiano Dino Limoni, con cui le istituzioni
si impegnano
a prendere contatto con la ditta Riello, con l'unione industriali, con le
organizzazioni sindacali, perché siano comunque evitati sia i licenziamenti che
la riduzione di orario di lavoro36
Nonostante questo la reazione del PCI sezione Legnago e degli operai non
tarda. Nei giorni successivi infatti gli operai scioperarono diminuendo la
produzione e ricevendo l'appoggio di un comune limitrofo, mentre nello stesso
giorno in cui «L'Arena» riferendosi a questo episodio lo definiva «selvaggio»37, il
partito comunista fece circolare un volantino in cui si denunciava «la logica dei
padroni», ovvero «quando va bene i profitti a loro, quando va male i sacrifici agli
operai»38. Nel frattempo però le trattative andavano avanti, passando dalla
36 Il consiglio comunale ha discusso la situazione in seno alla Riello, «L'Arena», 8 Dicembre 1970.37 Nuove iniziative per il problema Riello, «L'Arena», 10 Dicembre 1969.38 Questa la gratifica di Riello in IVrR Fondo Pci, “Serie volantini”, unità 2 «Propaganda
volantini 1970».
23
prefettura a Roma e in un nuovo consiglio comunale, e sfociando in un dibattito
pubblico indetto dai sindacati ma rifiutato dai sindaci di sei comuni perché,
secondo loro, l'assemblea pubblica non era «idonea a trattare e risolvere un cosi
delicato problema»39. Dopo numerosi incontri e diversi scioperi, la questione verrà
risolta a fine gennaio attraverso una convenzione sottoscritta dalle diverse parti in
gioco. Secondo «L'Arena»:
i 145 operai che saranno sospesi a partire dal primo febbraio per un
periodo massimo di nove mesi saranno tutti riassunti. Gli operai godranno dei
benefici della cassa integrazione ed in più beneficeranno di una carta
indennità della «Cassa Assistenza Aziendale» grazie ad un contributo di 25
milioni concesso dalla ditta40
L'atteggiamento de L'Arena rispetto al «problema Riello» si riduce in questo
caso ad una serie di articoli dal linguaggio asettico: commenti ridotti al minimo,
medesimo spazio riservato ai commenti dei diversi rappresentanti di partito. Gli
unici momenti in cui il giornale si espone sono in riferimento all'agitazione degli
operai, ovvero allo sciopero messo in atto già dalla prima settimana di dicembre
ed etichettato dal quotidiano come «selvaggio» e che man mano verrà sottolineato
fornendo maggiore spazio all'interno dell'articolo. Ad esempio in un articolo dell'8
Gennaio 1971 in cui all'inizio si menzionano immediatamente gli «slogans
irriguardosi» denunciati da alcuni cittadini durante uno sciopero improvviso degli
operai Riello, mente la parte finale è completamente dedicata alla preoccupazione
espressa da diverse famiglie di lavoratori «anche perché circolano voci che se si
aggraverà ulteriormente [lo sciopero], non è esclusa una chiusura dello
stabilimento a tempo indeterminato»41. Nonostante il fatto che venga segnalata la
«forma pacifica» della manifestazione, risultano decisamente squilibrati i rapporti
di spazio all'interno dell'articolo che va così ad incidere negativamente
39 Riello – I sindaci di sei Comuni respingono l'invito dei sindacati, «L'Arena», 7 Gennaio 1971.40 Accordo raggiunto alla Riello nessun operaio sarà licenziato, «L'Arena», 28 Gennaio 1971.41 Improvviso sciopero alla Riello, «L'Arena», 8 Gennaio 1971.
24
sull'immagine dell'operaio. Un articolo successivo del 17 Gennaio dà invece
notizia del fallimento delle trattative per risolvere la vertenza in atto, lasciando
ampio spazio al comunicato dell'azienda e concludendo affermando che
A questo punto visto come le cose stanno mettendosi si impone il dovere
della ditta, dei sindacati, delle autorità comunali, provinciali e nazionali e
degli stessi dipendenti di riprendere al più presto le trattative per ridare ai
legnaghesi la tranquillità del lavoro e la fiducia dell'avvenire42.
Questa chiusura lascia spiazzati, perché viene chiesta una soluzione congiunta
per fare in modo che i cittadini legnaghesi possano tornare ad avere la tranquillità
del lavoro, ma marcando una differenza tra cittadini legnaghesi e dipendenti, che
sono invece parte in causa e sono tra coloro che devono trovare soluzione per
portare tranquillità ai cittadini.
La narrazione sin qui esposta mostra chiaramente la posizione politica del
giornale, legata se vogliamo al quadro di riferimento ideologico dell'enciclica
Rerum Novarum di Papa Leone XIII, del Partito Popolare di Sturzo e poi della
Democrazia Cristiana, ovvero di una condanna della lotta di classe e delle logiche
prettamente di mercato, per trovare invece accordi di cooperazione tra i corpi in
gioco in modo da favorire, senza conflitti, una più equilibrata pace sociale.
42 Completamente fallite le trattative per risolvere la vertenza alla Riello, «L'Arena», 17 Gennaio 1971.
25
26
LA PISTA ANARCHICA
Per la prima volta, nei media italiani, la «fabbrica di un mostro» - già condannato
prima che i giudici s'esprimano sulla sua colpa - fa la sua comparsa nella lotta politica.
(Giorgio Boatti1)
1. Primordi di un'accusa
Su Pietro Valpreda, ballerino anarchico, si accaniranno giustizia, media e
opinione pubblica in una condanna civile univoca e corale. In un contesto in cui
l'imputato è messo al bando con indizi e prove costruite fittiziamente, a partire
dalla confessione del tassista Rolandi e dal "cedimento" dell'anarchico Pinelli,
suicidatosi, secondo le forze dell'ordine, perché ormai scoperto dallo Stato che egli
voleva combattere. L'immagine che appare su tutti i giornali il 17 Dicembre 1969,
Valpreda con pugno teso al cielo, serve a identificarlo nell'immediato di una
percezione visivo-emotiva, e a inquadrare la faccia del "colpevole", come lo
definirà Bruno Vespa in prima serata TV già il 16 Dicembre.
I giornali non lesineranno parole nell'indicare in Valpreda l'autore della strage,
il "mostro" che, per qualche motivo ancora non chiaro, ha messo in pratica un
gesto così tragico2. Con lui verrà criminalizzata un'intera area politica, la sinistra
in generale, gli anarchici e la sinistra extraparlamentare in particolare. Il 13
dicembre in un editoriale senza firma, senza aspettare risultanze fattuali
probatorie, «L'Arena» indicherà nei «partiti dell'estrema sinistra» e nelle «centrali
sindacali, da cui sono germogliati gruppi e movimenti dichiaratamente anarchici e
1 G.Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell'innocenza perduta, Torino, Giulio Einaudi editore, 2009, p. 117
2 Ibidem, pp. 116-117.
27
sovversivi» i responsabili della strage. In questo editoriale emerge l'anima più
conservatrice del quotidiano che si scaglia contro i «gruppi di facinorosi» che
ostruiscono il traffico, distruggono le proprietà private, usano la violenza contro
altri cittadini3.
A posteriori, si potrebbe pensare, che sia facile accusare la stampa senza
considerare il clima dell'epoca. Lo afferma anche uno storico autorevole, che
scrive, criticando alcune posizioni di Adriano Sofri4:
Pietro Valpreda, il «mostro» di Piazza Fontana, come fu definito da tanta
parte della stampa, ovvero l'altro anarchico innocente arrestato e tenuto tre
anni in carcere dopo la morte di Pinelli, aveva esaltato l'uso delle bombe e si
era spinto ad annunciare prossimi attentati in un numero unico di un
giornalino[...] Pur di fronte a queste parole, che con onestà intellettuale Sofri
ricorda, non scatta tuttavia lo sforzo di comprendere quanta diffidenza,
quanta ostilità potessero suscitare in chi aveva il compito istituzionale di
proteggere il paese5
Angelo Ventrone, da cui provengono queste parole, sembra tuttavia dimenticare
diversi aspetti di quei tragici anni, nel voler ricordare e indagare la violenza della
sinistra.
Ad esempio, come ha sottolineato quasi trent'anni fa Franco Ferrarsi, non è
stata ancora messa in risalto l'importanza del convegno organizzato dall'Istituto
Luigi Pollio (istituto creato dallo Stato Maggiore della Difesa) nel 1965, in cui fu
ipotizzata la strategia della «guerra totale»6. Il convegno fu aperto ad un numero
ristretto di magistrati, politici, uomini delle forze armate e uomini del mondo
economico. Ma a loro si aggiunsero alcuni esponenti del mondo dell'estrema
3 Basta con la violenza, «L'Arena», 13 dicembre 1969.4 Ciò che Angelo Ventrone pone sotto critica è il fatto che, secondo lui, Sofri in un suo recente
lavoro ritenga legittime solo le ragioni di Pinelli e non quelle della parte opposta. Cfr., A. Sofri, La notte che Pinelli, Palermo, Sellerio editore, 2009.
5 Cfr., A. Ventrone, Vogliamo tutto, Roma-Bari, Editori Laterza, 2012, pp. XII-XIII.6 F. Ferraresi, La destra eversiva in Terrorismi in Italia, a cura di Donatella Della Porta, Bologna,
Il Mulino, 1984, pp. 235-236.
28
destra, in particolare Pino Rauti e Guido Giannettini, insieme ad alcuni studenti
universitari, tra cui Stefano delle Chiaie, futuro leader di Avanguardia Nazionale,
e Mario Merlino, futuro membro del circolo anarchico 22 Marzo a cui si affiliò
dopo l'esperienza neofascista. Come specifica Saverio Ferrari, «furono dunque i
vertici militari italiani a trasmettere la cultura della “guerra rivoluzionaria” ai
gruppi neofascisti»7. L'incontro fu organizzato per trovare delle risposte adeguate
alle nuove forme di conflittualità che si stavano diffondendo nel pieno della
guerra fredda. La preoccupazione di fondo era ovviamente indirizzata all'avanzare
del “pericolo comunista” a cui bisognava rispondere attraverso la dottrina della
“guerra rivoluzionaria”, ovvero la ristrutturazione del conflitto, non più vissuto
seguendo le regole della guerra classica, non più “guerra ortodossa”, ma piuttosto
tramite l'uso di strategie non convenzionali, tra cui quelle della strage8. Oggi Aldo
Giannuli sembra ridare importanza a questo incontro collegandolo al cosiddetto
Noto Servizio, cioè un'organizzazione esterna alle forze armate, ma ad esse
direttamente collegata, i cui vertici erano uomini degli ambienti imprenditoriali, i
servizi segreti e i carabinieri9.
Affianco al convegno tenutosi presso l'istituto Pollio si potrebbe inserire un
documento dei servizi segreti del 1963 in cui si legge chiaramente: «Bisogna creare
gruppi di attivisti, di giovani, di squadre che possono usare tutti i sistemi, anche
quelli non ortodossi, della intimidazione, della minaccia, del ricatto, della lotta di
piazza, dell’assalto, del sabotaggio, del terrorismo»10.
Ma, detto questo, Ventrone sembra anche dimenticare gli scritti del neofascista
Franco Freda che, come vedremo più avanti, sarà uno dei protagonisti della strage.
7 S. Ferrari, I denti del drago. Storia dell'Internazionale nera tra mito e realtà, Pisa, BFS, 2013, p. 50.
8 F. Ferraresi, Minacce alla democrazia. La Destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, Milano, Giangiacomo Feltrinelli editore, 1995, pp. 136-144.
9 A. Giannuli, Il noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro, Milano, Tropea editore, 2011, pp. 119-125.
10 Il documento è una relazione che il colonnello Renzo Rocca inviò al generale Giovanni Allavena il 12 settembre 1963. Il documento, reso noto durante il processo per la strage di Piazza della Loggia, è disponibile nel sito dell'Istituto Storico Grossettano della Resistenza e dell'Età contemporanea al seguente url http://ww w.grossetocontemporanea.it/settembre-1963-cosi- i-servizi-pianificavano-la-strategia-della-tensione/ (ultima visualizzazione 29/04/2013)
29
In uno dei suoi testi Franco Freda attaccò, tra l'altro, direttamente le indagini del
commissario Juliano in merito agli attentati avvenuti a Padova in quegli anni11, di
matrice neofascista. Si aggiunge poi una sopravvalutazione del ruolo di quei
gruppi anarchici che, oltre ad essere perennemente seguiti da agenti infiltrati12,
non avevano alle spalle né azioni recenti comparabili a questa, né l'apparato
organizzativo necessario per un attentato congiunto di tale portata. Infine, si
potrebbero citare le parole di Valpreda in merito all'attribuzione di quegli scritti.
Durante il processo a Catanzaro il 28 Marzo 1974, l'anarchico affermerà:
L'articolo «Ravachol non è morto» non è stato scritto da me in quanto
non è assolutamente scritto secondo il mio modo di scrivere, capitarono tra le
mie mani due-tre copie e ne portai una a Roma. Ripeto che l'articolo non è
stato fatto da me e quindi se mi si chiede qualcosa in merito al contenuto
potrei rispondere soltanto in senso critico13.
Si potrebbero aggiungere altri elementi che quantomeno mettono in dubbio le
affermazioni di Ventrone, non ultima una velina del SID del 16 dicembre 196914,
ma non è questo il luogo in cui fare una critica serrata di quanto scritto. Ciò che
11 A. Beccaria – S. Mammano, Attentato imminente, Viterbo, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, 2009, pp. 130 ss.
12 Nel caso del circolo 22 Marzo di Roma, quello a cui apparteneva Pietro Valpreda, l'agente infiltrato era Salvatore Ippolito che riferì un commento di Merlino che affermava quanto segue in merito alle capacità degli anarchici nell'organizzare e mettere in pratica attentati: "Questa non è un'azione esemplare, sono dei principianti, e per colpa loro ci andiamo in mezzo noi professionisti". Cfr., G. Boatti, Piazza fontana, cit., p. 126. Per le “strategie di infiltrazione” si veda G. Pacini, Il cuore occulto del potere. Storia dell'Ufficio Affari riservati del Viminale (1919-1984), Roma, Nutrimenti, 2010, pp. 125 ss., in particolare per il controllo del Circolo 22 Marzo pp. 182-183. Per una visione più ampia del controllo degli anarchici nell'Italia del Novecento si veda G. Sacchetti, Sovversivi agli atti. Gli anarchici nelle carte del ministero dell'interno, Catania, Edizioni La Fiaccola, 2002.
13 Il verbale dell'interrogatorio mi è stato messo a disposizione da Enrico Di Cola, che qui ringrazio, a nome dell'associazione "Pietro Valpreda – Gli anarchici per la verità sulle stragi".
14 La velina a cui si fa riferimento indica in Mario Merlino l'esecutore materiale della strage su indicazione di Stefano Delle Chiaie che, a sua volta, avrebbe fatto riferimento a Guérin – Serac, direttore dell'agenzia di stampa Aginter Press a Lisbona e indicato come anarchico. L'Aginet Press, tuttavia, fu una finta agenzia di stampa dietro cui si nascose una pericolosa organizzazione neofascista. Vedi F. Ferraresi, Minacce alla democrazia, cit., pp. 216-217 e S. Ferrari, I denti del drago, cit., pp. 77-103.
30
importa sottolineare è la complessità del quadro di riferimento. Nel frastagliato
contesto della violenza politica di fine anni Sessanta, il quotidiano veronese, e con
esso molti altri15, primo fra tutti il «Corriere della sera», non avrà dubbi
nell'indicare l'area di riferimento della strage nella pista anarchica, nonostante i
diversi punti critici che verranno giustamente messi in evidenza sia dalla
componente extraparlamentare, sia dai “giornalisti democratici”16 che rifiuteranno
la tesi proposta dalle questure, contrapponendo invece la tesi di un golpe
incombente. Infatti nei mesi precedenti alla strage circolerà nei movimenti extra –
istituzionali il timore di un possibile golpe che la strage avrebbe contribuito ad
alimentare17 .
Anche a Verona alcuni attori politici hanno messo in evidenza, il giorno stesso
della strage, la matrice neofascista dell'attentato. Un ciclostilato del 12 dicembre
1969 denunciava la volontà di «creare un clima di paura e di intimidazione
violenta nell'opinione pubblica, per giustificare, o peggio preparare, eventuali
avventure governative di destra»18. Allo stesso modo, pochi giorni più tardi, degli
studenti del liceo Maffei con una lettera indirizzata agli «studenti democratici e
progressisti» sottolineavano il tentativo, del cosiddetto “sommerso della
Repubblica”, «di imporre svolte autoritarie e repressive»19. La lettura proposta
dall'area di sinistra, istituzionale e non, era sostanzialmente corretta nel delineare
la cosiddetta strategia della tensione. Tuttavia il giornale veronese, nell'editoriale
già citato, metterà sotto attacco queste posizioni, avviando una vera e propria
15 L'atteggiamento dei giornali in riferimento alla strage di Piazza Fontana è stato più volte messo in evidenza, nonostante non vi sia una ricerca organica che confronti sistematicamente le diverse posizioni, analizzandole nelle diverse sfaccettature. Cfr. G. Boatti, Piazza Fontana, cit.; A. Giannuli, Bombe a inchiostro, cit.
16 A. Giannuli, Bombe a inchiostro, cit.; M. Nozza, Il pistarolo. Da Piazza Fontana, trent'anni di storia raccontati da un grande cronista, Milano, il Saggiatore, 2011; P. Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra 1943-1972, Roma – Bari, Editori Laterza, 1973, pp. 525-553.
17 Si veda l'intervista ad Enrico Di Cola, in appendice.18 Basta con la criminale violenza fascista, IvrR, Fondo Pci, “serie volantini”, unità 2 «propaganda
volantini 1970». 19 La lettera, senza titolo, fu diffusa il 17 dicembre 1969 e firmata da: Stefano Dindo, Paolo De
Paoli, Giuliano Castellini, Vittorio Basevi, Alberto Magagnato, Marta Picotti, Lorenzo Picotti, Sandro Ricci, Gerardo Gerard. IvrR, Fondo Pci, “serie volantini”, unità 2 «propaganda volantini 1970».
31
inversione dei fatti. Il quotidiano mise sotto accusa tali posizioni denunciandone la
volontà di «additare un colpevole, prima ancora che affiori il minimo indizio sugli
autori dell'attentato». Ma questa critica venne posta indicando a propria volta un
colpevole senza avere indizi. Come già accennato, «L'Arena» nel medesimo
editoriale indicò i «maggiori responsabili» dell'imbarbarimento della lotta politica
italiana – e quindi del terreno fertile da cui erano nati gli attentati – nei «partiti
dell'estrema sinistra» e nelle «centrali sindacali, da cui sono germogliati gruppi e
movimenti dichiaratamente anarchici e sovversivi». L'articolo proseguiva poi
incriminando maggiormente i movimenti sindacali. Secondo il giornale, anche
laddove si scoprissero gli esecutori della strage, i pericoli per il Paese sarebbero
stati comunque imminenti «se il governo, il parlamento, i partiti, le organizzazioni
sindacali non si impegneranno a riportare il Paese sulla strada della legalità». In
particolare a causa dei «gruppi di facinorosi»20. Il discorso continuava poi nelle
«cronache veronesi» in cui compariva un articolo di sintesi che riportava
l'indignazione dei partiti cittadini. L'articolo apriva premunendosi di avvertire il
pubblico che, a causa di uno Stato incapace di imporsi sui moti di protesta, non si
riusciva a prevenire il «crimine anarchico-politico»21. Non sembra una
terminologia usata casualmente e, soprattutto, viene ribadita la lettura che il
giornale propone degli eventi e quindi della narrazione che impose nel dibattito
pubblico. La tesi è chiara e sarà ribadita più volte: la strage è solo la goccia finale
di una violenza politica portata avanti con attentati e scioperi da parte delle
centrali sindacali e delle sinistre. Gli attentati quindi «non sono certo giunti
inaspettati», ci fa sapere il giornale che, citando un intervento del ministro
dell'interno Franco Restivo di pochi giorni precedente, ricordava come durante
l'anno si fossero verificati cinquantuno attentati «di cui 28 “sicuramente attribuiti
alla sinistra” e 23 “provenienti da destra”»22. Si noti la diversa impostazione, che è
la medesima che riscontriamo nelle indagini portate avanti dalla procura di
20 Basta con la violenza, «L'Arena», 13 dicembre 1969.21 Indignazione della città per l'eccidio di Milano, «L'Arena», 13 dicembre 1969.22 Soluzione improrogabile, «L'Arena», 14 dicembre 1969.
32
Milano e di Roma. Da una parte c'è la volontà di specificare la presenza di
“opposti estremisti”23, di due schieramenti mai analizzati nelle proprie linee di
fondo ma che vengono in continuazione messi in gioco sminuendone le diversità e
le problematicità, dall'altra però la sottolineatura polemica nell'indicare
“sicuramente di sinistra” ventotto attentati e “provenienti da destra” gli altri,
lasciando nel dubbio il lettore che sicuramente si interrogherà sulla reale
“provenienza” di questi ultimi. Le posizioni del giornale, come detto, rispecchiano
quelle delle procure che stanno indagando la matrice degli attentati. Le piste su cui
si indaga, dicono, sono molteplici ma «in realtà i sospetti vennero ostentatamente
indirizzati verso la sinistra»24. A confermarlo è anche un documento del 12
dicembre, firmato dal prefetto Libero Mazza e inviato al presidente del consiglio,
secondo cui «ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso
gruppi anarcoidi»25.
2. Il «caso Pinelli»
La vicenda
Saranno le ostinate indagini rivolte alla sinistra che porteranno, nei giorni
23 Il concetto di "opposti estremismi" venne messo in risalto da un intervento del ministro Restivo che affermò:«Certamente sussiste una formula di violenza di marca fascista. Una violenza fine a se stessa, che esprime disprezzo verso la società e le istituzioni democratiche e nella quale l'aggressione vuole essere un modo di affermare una concezione politica legata alla forza brutale. Ma esiste una violenza egualmente brutale [...] che si dichiara ispirata a variazioni molteplici del marxismo-leninismo.[...] In questo senso possiamo e dobbiamo parlare di una minaccia degli estremismi all'ordine civile del paese». Cfr., L'«opposto estremismo» documentato da Restivo, «L'Arena», 26 febbraio 1971. Per una visione critica di tale interpretazione si veda il contributo di Guido Panvini in M. Lazar – M. Matard-Bonucci (a cura di), Il libro degli anni di piombo. Storia e memoria del terrorismo italiano, Milano, RCS Libri, 2010, pp. 56-57; si veda anche G. Panvini, Ordine nero guerriglia rossa, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2009, pp. 192 ss.
24 F. Feraresi, Minacce alla democrazia, cit., p. 175.25 Il documento è disponibile al seguente url http://stragedistato.files.wordpress.com/2013/05/12-
dicembre-1969-ore-22-prefetto-di-milano-mazza-a-presidente-del-consiglio-su-indagini-verso-ambienti-anarchici.pdf (ultima visualizzazione 2/05/2013).
33
immediatamente successivi alla strage, alla diciassettesima vittima26. Giuseppe
Pinelli era un ferroviere anarchico che viveva a Milano con la moglie Licia
Rognini e le due figlie. Era tra gli organizzatori del circolo anarchico Ponte della
Ghisolfa e nel giorno dell'attentato verrà invitato dal commissario Luigi Calabresi
in questura per delle domande. Lo spirito del Pinelli era tra i più pacifici, tanto da
non dover esser preso di peso ma, appunto, invitato in questura, luogo in cui
arrivò con il suo ciclomotore al seguito delle volanti della polizia. Il caso Pinelli è
tra i più emblematici di come le indagini furono portate avanti e di come gli agenti
delle forze dell'ordine fossero disposti a mentire e creare prove fittizie.
L'anarchico verrà trattenuto in questura fino alla mezzanotte del 15 dicembre
1969, dopo di che precipiterà fuori dalla finestra del quarto piano della questura
di Milano. Prima della tragica morte, Pinelli fu sottoposto a un fermo abusivo
perché mantenuto oltre i limiti previsti dalla legge (ovvero quarantotto ore) e
senza gravi indizi a suo carico; inoltre fu sottoposto a un interrogatorio portato
avanti con forme «penalisticamente rilevanti»27. Detto ciò, quello che poi risultò
ancora più grave, in particolare nei confronti della famiglia dell'anarchico, furono
le contraddizioni e le false imputazioni di cui fu accusato. Il dibattito successivo
alla morte si impernierà infatti tra le posizioni, spesso contraddittorie, della
questura che parlerà di suicidio e, viceversa, le posizioni della sinistra
extraparlamentare e di alcuni coraggiosi giornalisti, che parleranno di omicidio. Il
socialista Riccardo Lombardi scriverà, in prefazione a un libro di Marco Sassano
significativamente intitolato «Pinelli: un suicidio di Stato», che Pinelli
è stato ucciso da una menzogna le cui conseguenze non potevano essere
escluse dal calcolo di coloro che sapevano che quella menzogna valeva in
quanto fosse creduta, ma che se creduta, avrebbe potuto spingere veramente
26 Le vittime totali della strage, escludendo il Pinelli, furono 17. Tuttavia Vittorio Mocchi, l'ultima vittima, morirà diversi anni dopo a causa di una polmonite a cui non riuscì a sopravvivere a causa delle gravi ferite riportate nella strage. Cfr., Civile benemerenza a vittima della strage, «Corriere della sera», 14 giugno 2012.
27 A. Sofri (a cura di), Il malore attivo dell'anarchico Pinelli, Palermo, Sellerio editore, 1996, p. 24.
34
un uomo alla morte. Se dunque è vero che Pinelli si è ucciso, sarebbe anche
vero che il motivo del suicidio dichiarato dalla questura […] proverebbe nello
stesso tempo la responsabilità di chi al suicidio freddamente spinse con un
calcolo la cui ambizione fu poi ridimensionata quando i suoi autori dovettero
rinnegare la loro prima e «perfetta» versione28.
Le prime dichiarazioni della questura additeranno Pinelli come un sospetto con
a carico pesanti imputazioni. Secondo gli agenti Giuseppe Pinelli si sarebbe gettato
dalla finestra quando si vide messo all'angolo dallo Stato che voleva combattere
ma che ora, a suo malincuore, lo aveva scoperto. Tuttavia le accuse erano
palesemente false. Pinelli era stato accusato di essere tra gli attentatori di Piazza
Fontana e per farlo testimoniare gli agenti decisero di costruire una falsa
testimonianza di Pietro Valpreda che indicava nel ferroviere uno dei complici. In
realtà, era tutto costruito artificiosamente. Ma non bastò la morte dell'anarchico a
mettere a tacere questa costruzione dei fatti. Una delle accuse che tenne banco in
merito alle affermazioni definite contraddittorie di Pinelli riguarda il suo alibi.
Pinelli affermò di essere rimasto al bar a giocare a carte il pomeriggio del 12
dicembre. A suo supporto vi furono due testimoni che ne confermarono la
versione. Tuttavia quest'ultimi furono considerati «debitamente “sensibilizzati” da
parte interessata», mentre fu dato credito alla testimonianza del gestore del locale
che affermava che il Pinelli non si fosse fermato molto29. Marco Nozza dichiarò
anche di aver trovato sei testimoni che confermavano l'alibi del Pinelli, ma a questi
non fu dato voce30.
Negli anni verrà definitivamente accertata l'innocenza dell'anarchico, tuttavia
28 M. Sassano, Pinelli: un suicidio di stato, Marsilio, Padova, 1971, p. 4.29 Questo è quanto ricostruisce il questore Marcello Guida in una raccomandata del 17 gennaio
1970 indirizzata al Ministero dell'Interno, alla direzione generale di P.S. e alla divisione affari riservati. Il documento è disponibile online all'indirizzo http://stragedistato.files.wordpress.com/2013/04/17-gennaio-1970-questura-milano-su-sospetti-anarchico-pino-pinelli-questore-guida.pdf (ultima visualizzazione 23/04/2013). Ma la medesima versione è apparsa su «L'Arena» il 17 dicembre 1969, a testimonianza di come questa tesi si sia protratta per giorni e poi per mesi. Cfr., Giuseppe Pinelli decise di togliersi la vita dopo aver sentito che Valpreda aveva parlato, «L'Arena», 17 dicembre 1969.
30 M. Nozza, Il pistarolo, cit., p.37.
35
non sarà fatta altrettanta chiarezza in merito alla dinamica della sua morte. I punti
scuri di questa vicenda sono diversi ma in sede giudiziaria non si è riusciti ad
arrivare a una sentenza che potesse anche solo parzialmente fare giustizia. Infatti il
giudice Gherardo D'Ambrosio chiuderà le indagini ipotizzando un “malore
attivo”, lasciando così spazio a numerose discussioni31, che nemmeno in sede
storica si è riusciti ancora a chiarire.
Una delle prime zone d'ombra, che emergerà subito dopo la morte del Pinelli,
riguarda l'orario del suo volo dal quarto piano della questura di Milano. Secondo
il giornalista che per primo soccorse il moribondo, la caduta è di qualche minuto
successiva alla mezzanotte, però la chiamata all'ambulanza è registrata a
mezzanotte e cinquantotto secondi. Altro punto non chiaro riguarda la dinamica
interna all'ufficio della questura, cioè quale siano stati i movimenti che hanno
portato alla caduta dell'anarchico. A rendere questo punto particolarmente non
chiaro sono le diverse dichiarazioni degli agenti presenti nella stanza. Sicuramente
la testimonianza più contraddittoria è quella del maresciallo Panessa, che
sosteneva di aver afferrato Pinelli per una scarpa, che gli sarebbe poi rimasta in
mano. Tuttavia i testi affermarono che al moribondo quest'ultima non mancasse.
Ma non da meno sono le contraddizioni in merito all'argomento più spinoso di
tutta la vicenda: chi c'era nella stanza? Questo fu il leitmotiv della campagna
accusatoria di «Lotta Continua» secondo cui nella stanza era presente anche Luigi
Calabresi, attaccato pubblicamente e messo alla gogna come responsabile della
morte dell'anarchico. Tutt'oggi non è ancora chiaro chi fu presente realmente,
anche se è emerso negli ultimi anni che in quel piano della questura vi furono
31 John Foot ricostruisce l'acceso dibattito sul caso Pinelli e le diverse diatribe sulle lapidi nel comune di Milano, evidenziando la difficile costruzione di una memoria condivisa che fino ad oggi non ha saputo formarsi, anche perché, come evidenziato da Marc Lazar, sembra latente nella storia dell'Italia Repubblicana una tensione allo scontro dicotomizzato che si trasforma spesso in una guerra civile (che tuttavia Lazar interpreta in modo estensivo e, in riferimento agli di piombo, afferma che non si è mai giunti a questa livello, nonostante l'insistenza comune a parlare di «guerra civile a bassa intensità»). Cfr., J. Foot, Fratture d'Italia, Milano, RCS Libri, 2009, pp. 404-422; M. Lazar, L'Italia sul filo del rasoio, Milano, RCS Libri, 2009. In riferimento all'interpretazione di Lazar, si veda anche M. Lazar – M. Matard-Bonucci (a cura di), Il libro degli anni di piombo, cit., pp. 157-173.
36
anche persone dell'Ufficio Affari Riservati del ministero dell'Interno, lasciando
quindi presumere che qualcuno di loro potesse essere nella stanza
dell'interrogatorio32.
La campagna mediatica di Lotta Continua era portata avanti «con il chiaro
intento di farsi querelare»33. L'intento riuscì e il 15 aprile 1970 il commissario
Luigi Calabresi querelò Pio Baldelli, direttore del periodico «Lotta Continua». Ciò
servì per portare in sede processuale il caso Pinelli. Infatti la vedova dell'anarchico,
dopo aver dovuto assistere all'assoluzione del questore Marcello Guida, da lei
querelato per diffamazione, ha potuto sperare in questo processo per far emergere
qualche dato di verità sulla morte del marito. Licia Rognini si troverà tuttavia
sconsolata ad affermare: «io ci credevo che si potesse tirar fuori la verità (...)» ma
gli agenti «non sono stati credibili. Ripetevano una versione che dava l'idea di
essere stata preparata e poi cambiata più volte»34.
La ricostruzione giornalistica
«L'Arena» fin dal primo giorno non tentò di esaminare criticamente rispetto alle
posizioni della questura, nonostante alcuni dubbi fossero stati mossi da giornalisti
anche di fama, in particolare Camilla Cederna, scrittrice de “L'Espresso”, che dalla
cronaca rosa passò a occuparsi della strage35. Così un articolo del 16 dicembre che
titola «anarchico si uccide gettandosi dalla finestra durante un interrogatorio in
questura a Milano», si limita a riferire la cronaca degli eventi (evidentemente
considerati certi) e a citare le parole del questore Guida. L'anarchico «ha aperto
una finestra e si è lanciato». Pinelli, come sottolineato da Guida, «era fortemente
32 Un libro di recente pubblicazione cerca di mettere ordine affidandosi ai dati processuali e mettendo in evidenza la presenza e le dichiarazioni di questo personale dei servizi segreti. Vedi G. Fuga – E. Maltini, e 'a finestra c'è la morti, Milano, Zero in Condotta, 2013.
33 A. Giannuli, Bombe a inchiostro, cit., p. 114. 34 L. Pinelli – P. Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Milano, Giangiacomo Feltrinelli
editore, 2010, p. 81.35 La Cederna si occupò in particolare del caso Pinelli, argomento del suo primo libro politico ma
anche di numerosi articoli. Vedi C. Cederna, Pinelli. Una finestra sulla strage, Milano, Giangiacomo Feltrinelli editore, 1971.
37
indiziato»36. Tuttavia bisogna anche render merito al giornale di aver lasciato
ampio spazio alle parole della vedova Pinelli e alle testimonianze di alcuni suoi
colleghi di lavoro da cui emerge che «era considerato un idealista e un
rivoluzionario romantico». «Per questo – continua il giornale – nessuno è
propenso a credere che egli abbia avuto responsabilità diretta nell'attentato di
lunedì». «L'Arena» inoltre mette ai piedi dell'articolo il comunicato degli anarchici
milanesi che attaccavano la questura e la repressione autoritaria pur premunendosi
di avvertire nel sottotitolo che il comunicato era «assurdo»37. Allo stesso modo
bisogna sottolineare un articolo del 27 gennaio 1970, in cui «L'Arena» rende nota,
con un titolone in seconda pagina, la pubblicazione, da parte dell'avvocato della
vedova Pinelli, di una lettera che l'anarchico aveva inviato a un compagno in
carcere indagato per gli attentati dell'aprile 1969 alla fiera di Milano. Nella
suddetta, il ferroviere Pinelli scriveva che «l'anarchismo non è violenza» (come
recita il sottotitolo dell'articolo), lasciando quindi trapelare dei dubbi sulla
versione della questura38. Nonostante ciò il giornale veronese non smentirà le sue
posizioni, mostrandosi testardamente fedele alla versione della questura. Già il 17
dicembre affermerà con sicurezza che l'alibi di Pinelli «non ha retto»39, in
riferimento alla sua effettiva presenza al bar durante la giornata del 12 dicembre,
aggiungendo che quest'ultimo si è suicidato, ipotizzando anche un incontro tra
Pinelli e Valpreda per la consegna della borsa con l'esplosivo, che sarebbe stato
anche il motivo del suicidio dello stesso, una volta scoperto. Di suicidio si parlerà
a lungo. Un altro articolo del 30 ottobre 1970, per mostrare la longevità di certi
assunti, titola «Videro il Pinelli buttarsi nel vuoto», riportando le testimonianze di
alcuni agenti durante il processo Calabresi – Lotta Continua.
L'atteggiamento del giornale veronese sembra cambiare a partire dal 1971. Il
36 Anarchico si uccide gettandosi dalla finestra durante un interrogatorio in questura a Milano, «L'Arena», 16 dicembre 1969.
37 Giuseppe Pinelli decise di togliersi la vita dopo aver sentito che Valpreda aveva parlato, «L'Arena», 17 dicembre 1969.
38 Divulgata dalla difesa una lettera del Pinelli, «L'Arena», 27 gennaio 1970.39 Un anarchico incriminato per la strage, «L'Arena», 17 dicembre 1969.
38
suicidio, il salto felino dell'anarchico, si trasformano in un più asettico
“precipitare”. Il 6 maggio 1971, infatti, un articolo sulla deposizione di Licia
Rognini, vedova dell'anarchico, in merito a degli attentati svoltosi tra il 1968 e il
1969, riporta la morte dell'anarchico non più come suicidio, bensì si limita a
riferire che il ferroviere è deceduto «per essere precipitato da una finestra del
Palazzo della questura di Milano»40. Le stesse parole saranno usate in un articolo
del 27 agosto e ancora il 7 aprile 1972 si parlerà di «caduta»41.
La virata verso posizioni più neutre, attente al procedere incerto delle indagini,
non risulta un elemento peculiare. Le inchieste giornalistiche stavano infatti
macinando, giorno dopo giorno, alte vendite42 e a ciò si aggiunse il procedere
delle indagini del giudice D'Ambrosio che lasciavano trapelare una verità diversa
da quella fino a quel momento proposta dalla questura di Milano.
Infatti, come notava Paolo Murialdi già nel 1973, «tra il 1971 e la fine del
1972, l'atteggiamento di quasi tutti i giornali sulle bombe del 1969 e sul caso
Pinelli e Valpreda è ben diverso da quello assunto subito dopo quei tragici
avvenimenti»43.
3. Da Bakunin a Cohn Bendit
Prima di analizzare attentamente le pagine che riguardano le indagini
sull'anarchico Pietro Valpreda, risultano di grande interesse al fine di capire le
posizioni del giornale veronese, e quindi delle modalità con cui decise di
comunicare i fatti all'opinione pubblica, due elzeviri in terza pagina pubblicati il
19 e il 20 dicembre 1969, e rispettivamente firmati Giuseppe Brugnoli e Mario
La Rosa.
40 La vedova Pinelli sul banco dei testimoni, «L'Arena», 6 maggio 1971.41 Cfr., "Avvisi di reato" per il caso Pinelli a due agenti di P.S, «L'Arena», 27 agosto 1970; Simulata
la caduta di Pino Pinelli sembra esclusa l'ipotesi del malore, «L'Arena», 7 aprile 1972.42 Per fare un esempio, il volume della Cederna citato ebbe modo di essere stampato in cinque
edizioni tra l'ottobre e il novembre 1971. Anche il libro "La strage di Stato" fu un vero e proprio caso editoriale., raggiungendo nel 1977 la tiratura di 500.00 copie.
43 P. Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra, cit., p. 552.
39
Il secondo articolo è quello, dal punto di vista contenutistico, meno interessante
tra i due perché non propose un'analisi ma si limitò a esporre in ordine
cronologico degli eventi. Tuttavia è utile alla nostra ricerca perché, pur non
proponendo formalmente posizioni politiche, esprime la volontà del giornale
veronese di stigmatizzare agli occhi del pubblico la storia di una cultura, quella
anarchica, che viene posta sotto accusa. Il testo di La Rosa è una semplice
ricostruzione cronologica degli attentati (principalmente anarchici) che hanno
sporcato o meno di sangue la storia d'Italia dalla fine dell'Ottocento agli anni
Quaranta del Novecento. Emblematico risulta il titolo, avvicinato ad una
determinata immagine: «Contro l'ordine a tutti i costi», anticipato da un occhiello
significativo: «L'idea degli anarchici: libertà integrale. Il metodo: assassinio e
terrorismo». Il tutto seguito da un'immagine che ritrae alcuni anarchici con un
cartello che richiama allo sciopero della fame che stavano svolgendo44. Come ci
ricorda, e si premura di metterci in guardia, Paolo Murialdi:
Impaginazione, titoli e fotografie sono inoltre i principali strumenti per
informare rapidamente ma anche per influenzare il lettore, il quale scorre il
giornale prima di leggere ciò che lo interessa. Con questi strumenti, il
giornale compie due operazioni: trasmette al lettore quella carica emotiva di
cui tutti i quotidiani, in misura diversa, sono permeati e che è la prima cosa
che una lettura critica deve rimuovere quando questa carica è marcata;
manifesta le sue grandi scelte, dando in modo vistoso le notizie e i commenti
che considera più importanti. In breve, informa, impressiona e orienta il
lettore45.
Murialdi non potrebbe essere più chiaro. Leggendo queste poche righe e
comparandole con l'articolo fin qui esposto, risulta palese l'intento del quotidiano
veronese che punta a inserire in un quadro culturale preordinato la dottrina
44 L'immagine è un famoso scatto che ritrae alcuni anarchici durante uno sciopero della fame che si protrasse dal 25 settembre al 2 ottobre 1969.
45 P. Murialdi, Come si legge un giornale, Roma – Bari, Editori Laterza, 1981, p. 16.
40
dell'anarchismo, facendo arrivare al lettore questi assiomi (anarchismo →
sovversione dell'ordine costituito attentati) attraverso un'impaginazione che non→
potrebbe far trapelare altro che un rigetto per una cultura della violenza.
Sulla stessa linea di questo articolo, ma con un contenuto meno asettico e
ideologicamente impostato, risulta il testo di Giuseppe Brugnoli, dal titolo
Continuità dell'anarchia. Brugnoli tira un lungo file rouge che collega Valpreda e i
suoi amici, «figli non degeneri» dei vecchi anarchici, all'anarchismo ottocentesco, a
Malatesta, Merlino, Cafiero, Bakunin etc. Decontestualizzando concetti, idee e
fatti e cercando di riportare a quadro generale avvenimenti singoli, l'autore punta
a dimostrare che la violenza è una strategia insita nel pensiero e nell'agire
anarchico. Così gli è facile citare Cafiero quando afferma che «non è l'aver sparso
sangue dei carabinieri che ci fa onta». Gli anarchici vengono raffigurati
antropologicamente violenti, dei “bombaroli” che per un utopistico ideale
uccidono senza remore. Non è questo il luogo per porre l'articolo sotto critica
usando la storia del pensiero politico46, ci interessa piuttosto evidenziare il forte
messaggio che il giornale voleva mettere in risalto: l'anarchismo è storicamente
violento e gli anarchici sono storicamente degli attentatori, quindi è ovvio che la
strage sia di matrice anarchica. Il file rouge tirato da Brugnoli ci porta infatti fino
al congresso anarchico di Carrara del 1968 in cui fu presente anche un leader del
'68 francese, Daniel Cohn Bendit. L'autore si chiede retoricamente se Valpreda sia
un «semplice alunno o interprete pronto ad assumere ruoli di protagonista» delle
parole pronunciare da Cohn Bendit al congresso, secondo cui ««il problema
consiste nello scoprire e mettere in opera i metodi più radicali in vista della
rivoluzione», non lasciando spazio al dubbio sulla colpevolezza del ballerino
46 Se è vero che gli anarchici nell'Ottocento fecero ampio uso della "propaganda col fatto" è altrettanto vero che il movimento anarchico non può essere ridotto ad uno stereotipo invariabile, se non altro considerando che le dicotomie all'interno dello stesso sono piuttosto profonde, passando dall'anarchismo individualista di discendenza stirneriana a quello comunitarista che vede in Proudhon il proprio padre. Senza aggiungere l'anarchismo cristiano che si sviluppò dal pensiero di Lev Tolstoj. Per una ricostruzione organica del pensiero anarchico Cfr., G. Berti, Il pensiero anarchico dal settecento al novecento, Taranto, Pietro Laicata Editore, 1998 e G. Woodcock, L'Anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari, Milano, Giangicomo Feltrinelli editore, 1973.
41
anarchico.
4. Il processo Valpreda: l'alibi e il tassista
Pietro Valpreda, come abbiamo detto, verrà messo alla gogna pubblica come
principale indagato per la strage di Piazza Fontana. Il suo nome comparirà in
continuazione nei titoli di giornale, conducendo così a rapidi collegamenti tra la
strage e l'unico autore incriminato con “forti imputazioni”.
Abbiamo sottolineato come le indagini sulla strage fossero indirizzate
principalmente verso la pista anarchica. A darcene ulteriore dimostrazione sono gli
articoli di giornale, in particolare a partire dal 17 dicembre quando Pietro
Valpreda comparirà sulla prima pagina di tutti i quotidiani d'Italia. Il giornale
veronese infatti quasi non dà conto di altre piste emerse dalle indagini47 riferendo
unicamente dell'incriminazione di Pietro Valpreda e dei circoli anarchici di Roma e
Milano. La narrazione de «L'Arena» in quella settimana si può suddividere in due
fasi. Una prima ricostruzione riporta le indagini della questura e la testimonianza
di Rolandi (di cui parleremo) parlando tuttavia di incriminazione, cioè non
spingendosi, come fece Bruno Vespa, a parlare di colpevolezza48. I toni cambiano
drasticamente il 19 dicembre 1969 quando il sostituto procuratore Vittorio
Occorsio firma l'ordine di cattura nei confronti del ballerino anarchico. Da qui in
poi Pietro Valpreda non è più l'incriminato per la strage, in questo contesto
diventa il «dinamitardo assassino» a cui «non vi sarà ergastolo più meritato per un
criminale che ha mietuto tante vittime innocenti»49. Continuando su questa scia, il
21 dicembre si è già certi della sua colpevolezza e si aspettano solo gli «elementi
47 Solo un articolo in tutto il 1970 (pubblicato il 20 febbraio 1970) tratterà delle indagini del giudice Stiz, che saranno poi oggetto di altri due articoli nel 1971. Secondo chi scrive si tratta di "un'indagine non voluta" da parte del quotidiano veronese, ma si avrà modo di parlarne in modo più esauriente.
48 Cfr., Un anarchico incriminato per la strage, «L'Arena»,17 dicembre 1969; Gli attentati organizzati a Roma, «L'Arena», 18 dicembre 1969.
49 Ordine di cattura per Valpreda: concorso continuato in strage, «L'Arena», 19 dicembre 1969.
42
per trovare l'uomo che ha fornito a Valpreda e ai cinque studenti arrestati perché
ritenuti responsabili degli attentati, il tritolo per compierli e la località dove
l'esplosivo è stato tenuto»50.
Come con Pinelli, l'alibi di Pietro Valpreda sarà subito messo in dubbio.
Secondo la zia Rachele Torri, l'imputato sarebbe rimasto a casa con la febbre per
tutta la giornata del 12 Dicembre; a confermarlo anche una vicina di casa a cui la
zia avrebbe chiesto dei medicinali per il nipote malato. Ma, secondo il giornale,
fiducioso delle indagini in corso, l'alibi «non ha retto»51. Addirittura Rachele Torri
fu accusata di falsa testimonianza. A reggere questa accusa, ebbe un'importanza
fondamentale la testimonianza del tassista Cornelio Rolandi.
Rolandi è un tassista che sostiene di aver trasportato l'attentatore della Banca
Nazionale dell'Agricoltura il 12 Dicembre. Incerto se confidare le proprie
rivelazioni, lo farà in stato di agitazione a un cliente, Liliano Paolucci il quale,
prima, gli consiglia di andare dalle forze dell'orine e, successivamente, le avvisa lui
stesso.
Il teste dice di aver fatto salire un cliente intorno alle 16 di quel fatidico giorno,
con voce baritonale, cappotto marrone, giacca, cravatta, un po' di stempiatura e,
soprattutto, una valigetta nera. Il passeggero sarebbe salito in piazza Beccaria,
proseguendo poi per via Tecla dove sarebbe sceso per andare in banca e uscirne
senza borsa. La borsa infatti sarà uno degli elementi chiave durante l'accusa a
Franco Freda e Giovanni Ventura, ma lo è anche per Valpreda perché la borsa
costituisce l'elemento per inchiodare l'incriminato. Sin qui, sembra, tutto fila
liscio: Rolandi si è tolto un peso dalla coscienza e le indagini sono sulla buona
strada. Non tutto è così facile, però. Sono infatti diversi gli elementi che fin da
subito mettono in crisi la testimonianza del tassista. Innanzitutto ciò che non
convince è la descrizione. Valpreda non si è mai vestito elegante, non ha
50 Si cercano i mandanti del Valpreda e dei cinque anarchici arrestati, «L'Arena», 21 dicembre 1969.
51 Un anarchico incriminato per la strage, «L'Arena», 17 dicembre 1969.
43
quarant'anni e il suo cappotto è nero. Si aggiunge poi un particolare quanto meno
stravagante: il tragitto che Rolandi dice di aver percorso con il presunto
attentatore è brevissimo. Dal parcheggio dei taxi in Piazza Beccaria alla banca, ci
sono 135 metri e il passeggero, scendendo in via Tecla ne avrebbe percorsi 117
per andare e altri 117 per salire sul taxi. A giustificazione di questa constatazione
venne detto che Valpreda, essendo affetto dal morbo di Burger, dovette prendere
il taxi. Ma, in questo caso, perché dovrebbe trasportare esplosivo una persona
limitata nella deambulazione?
Come si vede le incertezze sono diverse. Nonostante ciò il 17 dicembre Pietro
Valpreda venne riconosciuto ufficialmente da Cornelio Rolandi. Ma Valpreda è
stato riconosciuto attraverso una procedura ordinaria o, viceversa, è stata mostrata
a Rolandi una foto dell'incriminato prima del riconoscimento ufficiale? La
domanda a Rolandi viene posta ma lui nega di aver visto una foto di Valpreda
prima del riconoscimento. «L'Arena», che pur riporta i dubbi di altri giornalisti,
non si sofferma sul problema, non credendolo evidentemente degno di nota52. La
questione messa sul tavolo è però di importanza cruciale per l'esito e la
continuazione delle indagini. Se Valpreda è stato riconosciuto correttamente il
teste è una prova importantissima che, effettivamente, potrebbe permettere di far
giustizia in tempi brevi, tuttavia così non sarà. Infatti al Pubblico Ministero il
tassista risponderà in modo esplicito: «Mi è stata mostrata dai carabinieri di
Milano una fotografia che mi si è detto doveva essere la persona che dovevo
riconoscere».53 Nonostante tutte le obiezioni che verranno man mano evidenziate,
il giornale veronese persisterà nell'avvalorare la deposizione del Rolandi e sarà
anche ben consapevole dell'importanza di tale testimonianza. In un servizio
speciale firmato da Giorgio Capuano, del 5 marzo 1972, scriverà: «Quello che si è
chiaramente capito, fino ad oggi, è che la testimonianza del tassista brucia quasi
come una condanna (…) Senza la testimonianza Rolandi, Valpreda è solo un
52 "L'ho riconosciuto subito" afferma Rolandi, «L'Arena», 18 dicembre 1969. 53 G. Boatti, Piazza Fontana, cit., p. 140.
44
indiziato»54.
Il tragitto percorso dal quotidiano veronese è in parte contraddittorio. Se da un
lato sembra voler riportare tutte le versioni, ad esempio con un titolo piuttosto
vistoso in seconda pagina che riferisce le parole di Valpreda sul presunto sosia, che
recita: «Valpreda: "è stato un sosia”»"55, dall'altro usa delle titolazioni accusatorie
nonostante i dati non autorizzino certi toni. È il caso, in particolare, di un articolo
dell'11 febbraio 1970 che titola significativamente: «gli ultimi risolutivi colpi
all'alibi di Valpreda». Nonostante un titolo così importante, l'articolo non può
tuttavia fornire informazioni in merito a causa di un riserbo mantenuto
sull'inchiesta, limitandosi dunque a riferire le parole del sostituto procuratore
Vittorio Occorsio, secondo cui l'inchiesta «continua con sviluppi molto
interessanti»56. Un modo di far giornalismo che troverà successivi riscontri. In un
articolo pubblicato in giugno viene riferita l'effettiva esistenza di un informatore
(che fino a quel momento era stata negata) che operò all'interno del Circolo 22
Marzo. Pur in mancanza di ulteriori informazioni sulle prove che incriminano
Valpreda, «L'Arena» continuerà sulla stessa strada con un titolo che in gergo si
definisce “caldo”, e che cioè è «basato sull'effetto, drammatico o brillante»57, che
mira a mettere alla gogna il singolo Valpreda58. Infatti, nonostante nei sottotitoli o
negli occhielli si specifichi che le indagini sono rivolte agli anarchici del Circolo 22
Marzo in generale, i titoli punteranno continuamente il dito su Pietro Valpreda,
che divenne così l'emblema della violenza, il mostro della strage. Insistendo su
questo aspetto, saranno numerosi gli articoli che riferiranno dei comportanti
dell'ex ballerino, all'infuori dell'inchiesta sulla strage, creando l'immagine bestiale
del colpevole59.
Il 30 dicembre 1972, dopo diversi mesi dall'incriminazione per strage anche di
54 G. Capuano, Il "J'accuse" di Rolandi rende insonne la difesa, «L'Arena», 5 marzo 1972.55 Valpreda: "è stato un sosia", «L'Arena», 30 gennaio 1970.56 Gli ultimi risolutivi colpi all'alibi di Valpreda, «L'Arena», 11 febbraio 1970.57 P. Murialdi, Come si legge un giornale, cit., p.17.58 Si aggrava la posizione di Valpreda, «L'Arena», 5 giugno 1970.59 Cfr., Pietro Valpreda in assise a Roma per vilipendio alla Magistratura, «L'Arena», 29 ottobre
1970; Valpreda condannato per rissa, «L'Arena», 8 dicembre 1970.
45
Rauti, Freda e Ventura, un'intera pagina sarà occupata dal seguente titolo:
«Valpreda – Colpevole o innocente?» mostrando così, anche in questo caso, un
passo indietro rispetto alle proprie posizioni di partenza. All'interno di questa
pagina un significativo articolo di Giuseppe Dalla Torre, sancirà definitivamente la
virata del quotidiano veronese:
Evidentemente la notizia della disposta scarcerazione di Valpreda e
compagni, presunti responsabili dei sanguinosi attentati del 12 dicembre
1969, non può essere che accolta con favore da quanti hanno a cuore che la
giustizia sia sostanzialmente, e non solo formalmente, giusta60.
60 G. Dalla Torre, I limiti del carcere preventivo, «L'Arena», 30 dicembre 1972.
46
UN'INCHIESTA NON VOLUTA: LA PISTA NERA
Il 23 marzo 1972, Franco Freda, Pino Rauti e Giovanni Ventura saranno
incriminati per la strage di Piazza Fontana. Un avvocato padovano, il leader di
Ordine Nuovo e un libraio trevigiano inizieranno ad occupare le prime pagine dei
giornali per molto tempo. Tuttavia se solo a partire dal 23 marzo i loro
diventeranno nomi noti, le indagini erano iniziate molto prima, lo stesso giorno in
cui morì l'anarchico Giuseppe Pinelli, lo stesso giorno in cui il tassista Cornelio
Rolandi andò dai carabinieri, lo stesso giorno in cui Valpreda venne arrestato. Il
15 dicembre 1969, infatti, Guido Lorenzon, un insegnante democristiano di
Maserada sul Piave, decise di chiamare un avvocato per rilasciare delle
dichiarazioni sconcertanti, che negli anni si mostreranno tragicamente nella loro
veridicità: «nessun punto della "confessione" di Guido Lorenzon (...) risulterà men
che veritiero»1.
Lorenzon era un amico di vecchia data di Giovanni Ventura, con cui aveva
trascorso degli anni al collegio "Pio X" di Treviso; un amico di cui Giovanni
Ventura sembrava fidarsi se a quest'ultimo raccontava le esperienze della sua
militanza politica. Guido Lorenzon tuttavia non resistette alla tentazione di
raccontare a qualcun altro quanto aveva udito e che, riflettendo, collegò insieme
dopo gli attentati di Milano e Roma del 12 dicembre. Quello che Lorenzon
collegò erano i discorsi di Ventura circa l'uso della violenza, il viaggio dello stesso
a Roma il giorno dell'attentato e, inoltre, alcune conoscenze che l'editore
manifestava di avere in merito a quanto accaduto. Così, su consiglio dell'avvocato,
mise per iscritto tutto quello che si ricordava e, il 18 dicembre, consegnò questi
appunti al legale il quale, a sua volta, ne diede copia al magistrato della Procura di
Treviso.
1 G. Boatti, Piazza fontana, cit., p. 151.
47
I frammenti di Lorenzon vengono riassunti durante l'istruttoria sulla pista nera:
1) nel maggio 1969 il Ventura lo aveva informato che si sarebbe recato a
Milano per collocare un ordigno esplosivo in un edificio pubblico (prefettura,
procura o altro) e, al ritorno da Milano, gli aveva detto ancora che voleva
tornare indietro per recuperare l'ordigno inesploso (in epoca successiva il
Ventura aveva introdotto alcune varianti nel suo racconto quanto al mese, che
era stato quello di aprile e non di maggio, ed al luogo che era stato Torino e
non Milano);
2) relativamente agli attentati ai treni dell'agosto 1969 il Ventura gli
aveva fornito notizie dettagliate: sul costo degli ordigni impiegati (lire
centomila per ciascuno), sugli accurati alibi per gli attentatori, sul posto di
collocazione delle bombe e sul fatto di esserne stato uno dei tre finanziatori;
3) circa la strage del 12 dicembre 1969 il Ventura, tra l'altro, oltre a
compiere viaggi sospetti a Roma e a Milano in quei giorni aveva in sua
presenza commentato quei tragici avvenimenti lamentando il fatto che
nessuno, né da destra né da sinistra, si fosse mosso e che quindi "occorreva
fare qualcos'altro"; inoltre aveva detto di non rendersi conto del perché
l'ordigno deposto alla Banca Commerciale non fosse esploso; si era, anche,
mostrato edotto sin nei più minuti particolari dei problemi che il
sottopassaggio della Banca Nazionale del Lavoro di Roma offriva per la
sistemazione di ordigni esplosivi; e gli aveva, infine, confidato di essere stato
a conoscenza dei piani operativi per gli attentati prima del loro verificarsi, in
quanto essi si inquadravano in una progressione terroristica prestabilita al fine
di traumatizzare sempre di più la pubblica opinione;
4) Il Ventura gli aveva ancora parlato degli attentati in progetto per la
visita del Presidente americano Nixon in Italia e, in particolare, di un ordigno
non ancora confezionato che egli avrebbe dovuto portare con sé per «ricevere
il Presidente» nonché del fallimento di tutto, data l'accuratissima vigilanza
predisposta dalla Polizia;
5) verso la fine del successivo novembre 1969 lo stesso Ventura aveva
fatto, inoltre, visitare un appartamento in via Manin di Treviso e gli aveva
48
motrato un temporizzatore alimentato da una batteria già predisposto per un
impiego a scopo dinamitardo;
6) Verso la fine del successivo novembre 1969 lo stesso Ventura aveva
espresso il desiderio di accompagnare l'amico Lorenzon in un viaggio in
Grecia per mettersi in contatto con l'ambiente dei "colonnelli" e ricevere da
questi aiuti al fine di creare in Italia una situazione loro "gradita".
7) Circa il libretto rosso (si tratta dell'opuscolo "la giustizia è come il
timone...", nda) il Lorenzon ha chiarito di conoscere il contenuto già da
tempo, in quanto il Ventura, prima di consegnarglielo nella veste tipografica
definitiva, glielo aveva fatto leggere su un testo dattiloscritto; ha aggiunto di
aver avuto anche occasione di leggere alcuni "rapporti informativi" segreti, nei
quali si accennava a contratti fra Dc e Pci per un accordo di governo, si
preannunciava la scissione del partito socialista e la vittoria dell'on. Piccoli al
congresso nazionale della Dc: in uno di tali rapporti si faceva riferimento
all'industriale Monti quale finanziatore di "gruppi di agitatori";
8) dai vari discorsi fattigli dal Ventura aveva appreso che questi faceva
parte di un'organizzazione terroristica a struttura piramidale; il Ventura
medesimo gli aveva in proposito precisato di esserne uno dei tre finanziatori e
che essa non era la sola operante.2
Leggendo è facile capire che la testimonianza di Lorenzon non poteva essere
lasciata da parte, ma doveva piuttosto spingere a indagare con risolutezza su
Ventura e sui suoi collegamenti con l'organizzazione di cui affermava di essere
finanziatore. Il primo passo mosso dal magistrato in questo senso, fu lo studio del
libretto rosso fornito da Lorenzon. Nonostante sembri un chiaro riferimento
maoista, il giudice capì che si trattava di tutt'altro e, su questa pista, iniziò ad
indagare. Le indagini porteranno man mano ad aprire quel vaso di pandora del
neofascismo italiano, di Ordine Nuovo nella sua cellula veneta. Emergeranno in
questo senso prove, depistaggi e dichiarazioni contraddittorie. Infatti, come ha
osservato Aldo Giannuli, «esiste un giudicato penale che accerta l'opera di
2 G. Boatti, Piazza Fontana, cit., pp. 153-155.
49
depistaggio di appartenenti a tutti i corpi di sicurezza dello Stato»3.
Ordine Nuovo fin dagli albori era entrato in contatto con lo Stato Maggiore
della Difesa4 e, durante le indagini sulla strage, poté giovarsi del supporto dei
servizi. A svelare pubblicamente questa collaborazione, e cercando di romperla,
intervenne Vincenzo Vinciguerra, le cui dichiarazioni non sono mai state smentite.
Vinciguerra è l'autore della strage di Peteano, prima coperto dai servizi e poi reo
confesso, che si rifiuta tutt'oggi di accettare sconti di pena per non entrare in
collaborazione con lo Stato che vuole combattere5. È stata già citata, inoltre, nel
secondo capitolo, la velina del SID del 16 dicembre 1969 che indicava in Stefano
Delle Chiaie, Mario Merlino e l'Aginter Press i mandanti e gli esecutori della
strage. I depistaggi messi in pratica furono in effetti numerosi. Ad esempio,
quando fu rinvenuto l'esplosivo alla Banca commerciale di Milano, ancora
inesploso, si decise di farlo brillare, mandando così in fumo una prova di
particolare spessore. Si può citare poi la reticenza del SID a confermare la propria
collaborazione con Guido Giannettini o Giorgio Zicari6 ma ben più singolare
appare il caso del riconoscimento di Valpreda da parte del tassista Rolandi, di cui
si è già parlato, o, ancora, il fatto che la polizia nascose alla magistratura il
negoziante padovano che vendette le borse uguali a quelle usate per la strage e il
fatto che l'analisi di un frammento rimasto dall'esplosione aveva confermato le sue
dichiarazioni7.
Tuttavia ciò che qui interessa far emergere è la scarsa volontà del quotidiano
veronese, la cui sede dista poche decine di chilometri dal centro di queste indagini,
di porre in rilievo quello che sta emergendo sulla strage. Seguendo la traccia di
3 A. Giannuli, Il noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro, cit., p. 136.4 S. Ferrari, Da Salò ad Arcore. La mappa della destra eversiva, Milano, Nuova Iniziativa
Editoriale, 2006, pp. 29 ss.5 Vinciguerra pubblica suoi articoli dal carcere di Opera tramite il sito
http://www.archivioguerrapolitica.org/ (ultima visualizzazione 30/05/2013). Si veda anche A. Giannuli, Bombe a inchiostro, cit., pp. 211 ss.
6 G. Bottai, Piazza Fontana, cit., pp. 265 ss.7 A. Giannuli, Bombe a inchiostro, cit., pp. 245-246.
50
Chomsky ed Herman, richiamata nell'introduzione, secondo cui è possibile
analizzare i mass media a partire dalle loro omissioni, si può qui mettere in rilievo
il ruolo svolto da «L'Arena» che appare contraddittorio rispetto alla retorica
ricerca di giustizia che il giornale invocò il 16 dicembre, con editoriale dal titolo
«"L'Italia tutta invoca giustizia"»8. Vennero infatti pubblicati solamente tre articoli
sulle indagini di cui sopra.
Il primo articolo in merito fu pubblicato il 20 febbraio 1970. «Attentati: si
cerca di chiarire la posizione di due trevigiani» così titola «L'Arena» che citerà,
sulla «strana vicenda», la lettera dell'avvocato di Guido Lorenzon, nonché
deputato Dc, in risposta all'on. Ugo d'Andrea del Partito Liberale Italiano che
«aveva presentato una interrogazione al ministro della giustizia “circa pretese
interferenze di un deputato di Treviso sull'operato dei magistrati che stanno
conducendo l'indagine sulle stragi di Milano e di Roma”»9. L'articolo, il primo a
riferire delle indagini portate avanti a Treviso, tuttavia si concentra principalmente
sulle dichiarazioni di Giovanni Ventura, che etichetta Guido Lorenzon come
debole a livello psichico, usando questo escamotage come prova della propria
innocenza. Come riportato dal quotidiano, infatti, secondo Ventura:
in Guido Lorenzon la notizia della strage di Milano provocò in quei giorni
“un corto circuito mentale e psichico, al punto da trasferire le vicende che
vedeva svolgersi nel paese in un ambito di diretto dominio ed investirne
persone nel caso il sottoscritto, che in realtà con quelle vicende, nulla hanno a
che fare”10.
Inoltre, dopo le affermazioni di Ventura trovano spazio, anche senza un
collegamento logico all'interno dell'articolo, le parole di un teste che smentisce
l'alibi di Pietro Valpreda. L'articolo – l'unico dell'anno – è paradigmatico dello
spirito critico del giornale che, affidandosi alle agenzie di stampa, rifiuta di
8 "L'Italia tutta invoca giustizia", «L'Arena», 16 dicembre 1969.9 Attentati: si cerca di chiarire la posizione di due trevigiani, «L'Arena», 20 febbraio 1970.10 Ibidem.
51
intraprendere alcuna forma di giornalismo d'inchiesta che si stava invece
affermando nella stampa italiana, rimanendo così espressione di un giornalismo di
provincia, passivo spettatore della società italiana. Ma ciò mostra anche la volontà
ideologica di porre perennemente in risalto la figura di Valpreda dato che un
articolo, che avrebbe potuto svelare strade diverse, insiste invece nel voler de-
costruire l'alibi dell'ex ballerino anarchico allora sotto assedio mediatico. Certo,
era più che lecito mostrare le discrepanze dell'alibi di Valpreda ma non altrettanto
lecito è stato omettere, per scarsa volontà critica e, forse, per impostazione
ideologica, il seguito delle importanti indagini che erano partite da Guido
Lorenzon, in particolare lasciando ampio spazio alla difesa di Giovanni Ventura.
Il secondo articolo, comparso il 14 aprile 1971 in un clima accusatorio e
giornalistico in mutazione, riferirà di Ventura e Freda riportando
cronachisticamente i fatti, e cioè l'accusa di associazione eversiva in collegamento
al famoso “libretto rosso”, ma a questo non seguirà un collegamento ovvio con la
strage di Piazza Fontana che, viceversa, il primo articolo aveva fatto. Sull'articolo
si legge che gli arresti «sono da mettere in relazione alla pubblicazione di un
“libretto rosso”» in cui «viene elaborata una “ricostruzione” della dinamica degli
attentati dinamitardi compiuti a Padova tra l'aprile del 1968 e il maggio del
1969», gli stessi attentati per cui erano stati accusati degli anarchici, e che, dopo la
strage, ebbero modo di surrogare la tesi della pista anarchica11.
Il successivo articolo intitolato «Castelfranco: quattro mandati di cattura»12,
pubblicato nel dicembre successivo, avrà la stessa impostazione, non indicando
nessun collegamento con la strage di Piazza Fontana e quindi con l'ipotesi,
avanzata fin dai primi giorni successivi alla strage, di un attentato di matrice
neofascista. Il giornale veronese scrive:
11 Nell'articolo sul "suicidio" di Giuseppe Pinelli del 16 dicembre 1969, «L'Arena» riporta il fatto che il dott. Guida precisò che «il Pinelli era pure sospettato per gli attentati del 25 aprile a Milano». Cfr., Anarchico si uccide gettandosi da una finestra durante un interrogatorio in questura a Milano, «L'Arena», 16 dicembre 1969.
12 Castelfranco: quattro mandati di cattura, «L'Arena», 24 dicembre 1971.
52
Secondo la motivazione del provvedimento Franco Freda e Giovanni
Ventura sono imputati di associazione sovversiva per avere organizzato e
diretto un gruppo che aveva le finalità proprie del disciolto partito fascista,
mirante cioè a sovvertire l'ordinamento sociale ed economico dello Stato, e
di aver detenuto ed occultato armi, munizioni ed esplosivo e, infine, di avere
cooperato alla preparazione e diffusione di libri stampati e scritti nei
quali c'è, tra l'altro, propaganda ed istigazione alla sovversione e al
razzismo13.
Le accuse mosse contro gli imputati sono certamente gravi, ma diverso peso
comunicativo avrebbero avuto se collegate, come stava emergendo, con la strage
di Piazza Fontana. Un'ipotesi ben suffragata dagli elementi emersi essendo stati
Freda e Ventura incriminati per gli attentati avvenuti a Padova tra il 1968 e il 1969
e che vennero collegati, ad esempio, da Vincenzo Nardella nel volume Noi
accusiamo! edito da Jaca Book nel 1971. Oltretutto già l'inchiesta di
controinformazione La strage di Stato, pur concentrandosi sulla figura di Stefano
Delle Chiaie, fornì «immediatamente una serie di indicatori su cui orientare
l'inchiesta»14.
Questi dati saranno collegati solo il 23 marzo15 con l'incriminazione ufficiale di
Franco Freda, Giovanni Ventura e Pino Rauti per la strage di Piazza Fontana,
soltanto dopo due anni, nonostante il primo articolo pubblicato in merito avrebbe
potuto aprire la strada per una inchiesta che seguisse, almeno in parte, le indagini
del giudice Stiz. «L'Arena», oltre alla retorica indignazione per la strage, decide di
affidarsi ad articoli di cronaca redazionale ed ad attacchi accusatori contro la pista
anarchica e, in particolare, contro Pietro Valpreda.
Dopo tutto questo, il 23 marzo un inviato del giornale (lo stesso che aveva
13 Ibidem.14 Cfr., G. De Paolo – A. Giannuli, La strage di Stato. Vent'anni dopo, Roma, Edizioni Associate,
1989, p. 21. Il volume riporta integralmente il testo de La Strage di Stato a cui viene anticipata una introduzione di De Paolo e Giannuli che, oltre a specificare le peculiarità e il successo della controinchiesta, ne evidenzia i limiti e gli errori.
15 Ventura, Rauti e Freda accusati della strage di Piazza Fontana, «L'Arena», 23 marzo 1972.
53
redatto l'articolo «continuità dell'anarchia» di cui abbiamo parlato nel secondo
capitolo) potrà affermare che «a Treviso se l'aspettavano»16, dopo le incriminazioni
per gli attentati sui treni e le affermazioni di Guido Lorenzon. Lorenzon infatti, ci
fa sapere l'inviato, «diventa perciò la chiave di volta di quest'ultimo
provvedimento del giudice Stiz»17. Ma il professore democristiano era già chiave
di volta il 15 dicembre 1969 e avrebbe potuto esserlo precedentemente se il
giornalismo, anche e sopratutto quello di provincia più vicino alle zone di
riferimento, avesse avuto il coraggio di adempire al proprio ruolo, se non di
“quarto potere”, almeno di informazione, di ricerca della verità sulla strage ,ruolo
da molti rivendicato, ma solo a parole.
16 G. Brugnoli, un «escalation» della violenza a monte degli avvisi di reato, «L'Arena», 23 marzo 1972.
17 Ibidem.
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RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Abbiamo analizzato fin qui una narrazione che, tra il 1969 e il 1972, si è
sviluppata sulle colonne de «L'Arena» seguendo non tanto le effettive indagini e i
possibili spazi di comunicazione alternativa al quadro proposto dalle questure, ma
che, viceversa, si è adeguata a quanto diffuso dalle agenzie di stampa. Una
ricostruzione che ha potuto essere inflazionata anche dal contributo politico
culturale del giornale che ne diffondeva l'eco attraverso la riproposizione
dell'anarchico dinamitardo, tale per indole e cultura. Arrivati a questo punto,
risulta allora interessante illuminare uno scorcio della successiva cronaca, ovvero
capire come si è comportato il quotidiano veronese quando ormai la pista nera era
diventata notizia nazionale. Nel corso dell'elaborato è stata infatti documentata
una svolta de «L'Arena» tra il 1971 e la fine del 1972, che vede il giornale
allinearsi al più generale contesto nazionale. Per verificare in ultima istanza l'esito
di questa virata è quindi necessario allungare lo sguardo oltre il 1972, approdando
al biennio 1973-74 anni in cui il processo Valpreda non è terminato e viene, anzi,
affiancato da quello nei confronti di Rauti, Ventura e Freda.
Dopo che il 23 marzo 1972 verrà pubblicata in prima pagina la notizia
dell'imputazione per la strage a Ventura, Freda e Rauti, nei confronti degli indagati
della pista nera ci sarà da parte del giornale un procedere attento a non porre
accuse prima che queste possano essere documentate. Questo atteggiamento è
riscontrabile sia nei numerosi articoli che seguiranno la vicenda dell'imputazione
di Rauti, che verrà successivamente scarcerato, sia per le accuse che man mano
emergeranno nei confronti di Franco Freda e Giovanni Ventura.
In merito alle indagini sulla pista nera non sarà infatti possibile riscontrare
articoli come quelli analizzati per Valpreda e Pinelli, non sarà fatta nessuna
ricostruzione della cultura politica dei neofascisti, come non sarà possibile leggere
55
titolazioni cariche di patos giustizialista nei confronti degli indagati. Emerge
piuttosto un procedere attento al proseguire delle indagini, come giustamente
dovrebbe essere. Ciò che rappresenta meglio questa situazione sono proprio i titoli
degli articoli. Se con Valpreda abbiamo potuto leggere titoli “caldi” qui,
all'opposto, le titolazioni appaiono “fredde”, riferendo dei dibattimenti in corso,
piuttosto che porsi come accusatori. Gli articoli di marzo 1972 titolano ad
esempio: «Rauti: “indizzi insufficienti”»1, «Alla Corte di cassazione il caso Rauti –
Ventura – Freda»2, «L'istruttoria Rauti al giudice D'Ambrosio»3. Ancora, andando
avanti con i mesi e arrivando al 1973 si legge: «Indagini di parte negherebbero
ogni responsabilità di Ventura»4, «Nuove accuse contestate a Freda interrogato in
carcere dal giudice»5, «Ventura resta in prigione. Forse altri due indiziati»6.
Emerge chiaramente dalla semplice lettura di alcuni titoli la marcata differenza
tra quella che è stata la comunicazione proposta per la pista anarchica e quella che
è stata invece la pista nera. A questo punto bisogna controllare, anche solamente
attraverso un veloce inquadramento, come è continuata la narrazione in merito a
Valpreda e gli anarchici dopo il 1972.
Gli articoli mostrano chiaramente uno spostamento dell'asse mediatico.
Saranno pochissimi nel 1973 e non molti di più l'anno successivo, anno in cui si
apre il processo a Catanzaro, i testi che si riferiranno all'ex ballerino. Anche in
questo caso, inoltre, i titoli rendono in modo lapalissiano la diversa posizione
assunta dal quotidiano veronese. È in particolare il contenuto di un articolo del 17
marzo 1974 a evidenziare la svolta che, a questo punto è scontato dirlo, è
definitiva rispetto a quanto scritto subito dopo la strage. Un'intera terza pagina
sarà dedicata a Valpreda alla vigilia dell'inizio del processo, con un articolo
centrale che si premura di avvertire i lettori, con il sottotitolo, che «altri magistrati
1 Rauti: "indizzi insufficienti". Feltrinelli: nuova perizia, «L'Arena», 25 marzo 1972.2 Alla Corte di cassazione il caso Rauti – Ventura – Freda , «L'Arena», 26 marzo 1972.3 L'istruttoria Rauti al giudice D'Ambrosio , «L'Arena», 29 marzo 1972.4 Indagini di parte negherebbero ogni responsabilità di Ventura, «L'Arena», 16 gennaio 1973.5 Nuove accuse a Freda interrogato in carcere dal giudice, «L'Arena», 10 amggio 1973.6 Ventura resta in prigione. Forse altri due indiziati, «L'Arena», 5 settembre 1973.
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nel corso di laboriose indagini ritengono d'aver individuato i veri colpevoli: una
ricerca scrupolosa della verità non può ignorare questa circostanza»7. Nell'articolo
in questione è proposta al lettore una “cronistoria dell'inchiesta” in cui la vicenda
Pinelli è riportata secondo i dati che, fin dai giorni successivi alla morte, erano
disponibili ma a cui, inizialmente, il giornale non fece cenno: un fermo abusivo e
un alibi che reggeva. Parimenti la confessione di Rolandi viene ricordata per gli
«interminabili dubbi» che farà sorgere e che «eppure (…) sarà il cardine
dell'accusa». Anche l'alibi di Valpreda «sembrava inattaccabile», continua l'articolo,
«ma tutte e quattro le congiunte del ballerino furono accusate di falsa
testimonianza».
Ormai la svolta è assodata, ma si è dovuto aspettare anni perché un'accurata e
spassionata ricerca della verità avesse luogo. La strage di Piazza Fontana ha
scavato un trauma profondo nella storia dell'Italia Repubblicana, lasciando una
macchia indelebile che, seppur fin troppo spesso dimenticata, a più di quarant'anni
dall'attentato è in grado di smuovere facilmente gli animi. Infatti, l'uscita del libro
di Paolo Cucchiarelli "Il segreto di Piazza Fontana"8, nel 2009, ha sollevato molte
polemiche. La tesi del libro è che il 12 dicembre furono due le bombe, una
depositata da Valpreda che avrebbe dovuto esplodere a banca chiusa come
attentato dimostrativo e una depositata da un fascista che, scoppiando, avrebbe
attivato anche la prima bomba, raddoppiandone l'impatto. Le polemiche hanno
poi avuto modo di crescere con il film di Marco Tullio Giordana, "Romanzo di
una strage", che ha preso ispirazione dal libro. Studiosi, protagonisti, militanti e
persone qualunque hanno avuto modo di contrapporre fatti e opinioni, in merito
al tentativo di portare nuova luce su quegli eventi. Non si vuole entrare nel
merito del problema anche se, è necessario dirlo, la tesi di Cucchiarelli appare
debole in particolare perché si affida alle rivelazioni di un esponente della destra
7 Dalla strage di Piazza Fontana alla Corte d'assise di Catanzaro, «L'Arena», 17 marzo 1974.8 Cfr., P. Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana, Milano, Ponte alle Grazie, 2009.
57
dell'epoca, che rimane però anonimo9.
La memoria della storia d'Italia appare anche qui traumatica, colma di ferite
profonde che non si riesce a rimarginare. C'è chi denuncia l'assenza di un “quadro
interpretativo d'insieme”10 sugli anni di piombo ma, forse, mancano anche le fonti
necessarie a fornire un'interpretazione complessiva di quei difficili anni oltre che
la mancata volontà degli attori in gioco di raggiungere una memoria condivisa.
D'altronde ciò che gli anni di piombo e, in particolare, la strategia della tensione
esprimono sono sentimenti, idee, fatti e memorie troppo distanti per essere
pacificate sia dal tempo che dalle proprie posizioni politiche. Ma anche la
presenza di archivi inaccessibili, per lo stato di mantenimento, e quindi della
perpetua sottovalutazione dell'importanza, non solo meramente storica, del
consolidamento di una cultura che non possa essere oggetto di strumentalizzazioni
politiche, rende gli anni Sessanta e Settanta scivolosi piani di discussione pubblica.
9 Si veda l'articolo che Aldo Giannuli ha scritto in merito al libro http://www.aldogiannuli.it/2009/06/approfondimento-bibliografico-%E2%80%9Cil-segreto-di-piazza-fontana-di-paolo-cucchiarelli/ . Per altre osservazioni in merito si veda in particolare il libro di Adriano Sofri "43 anni", disponibile al link http://www.osservatoriodemocratico.org/public/SOFRI.pdf. Importanti contributi sono disponibili anche al sito http://stragedistato.wordpress.com/ curato da ex membri del Circolo 22 Marzo (ultima visualizzazione 7/06/2013).
10 A. Campi, Il terrorismo, la violenza politica e le trappole della memoria, «Il Messaggero», 9 maggio 2013.
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BASTA CON LA VIOLENZA
[L'Arena, 13 dicembre 1969]
Dopo le intimidazioni, le sopraffazioni, le violenze, la parabola del terrore ha
raggiunto il suo apogeo: il tritolo e la strage. Ed ora? Ora, di fronte al caos in cui
sta per precipitare la vita italiana, di fronte allo sdegno e all'esecrazione di tutta la
nazione, partiti e uomini politici, governo e sindacati si affrettano a costruirsi un
alibi, invocando l'immediata individuazione e la severa punizione dei colpevoli.
Ma assai più appropriato sarebbe parlare degli «esecutori» della strage, perché
»colpevoli» tutto lo sono, tutti lo siamo: in maniera diretta o indiretta, maggiore o
minore, per aver provocato o alimentato, consentito o sopportato, la nascita e lo
sviluppo di un clima di illegalità e di eversione, in cui l'anarchia sarebbe
inevitabilmente sfociata nella sua più tradizionale manifestazione: il tritolo e la
dinamite. Attentati bestiali come quelli di ieri non si verificano improvvisamente e
inaspettatamente in un paese ordinato e civile, in un clima di legalità e di
democrazia. Maturano e si attuano solo in quei paesi dove i contrasti sociali e
sindacali si trasformano in lotta di classe, dove al rispetto della legge e dei diritti
dei singoli cittadini si sostituisce il sopruso e la violenza organizzata, dove la lotta
politica per il governo della nazione diventa un'attività preordinata per la
distruzione della nazione stessa e dove i partiti e gli uomini responsabili della cosa
pubblica non hanno il potere, la capacità o la volontà di far rispettare le leggi su
cui si regge lo Stato. I maggiori responsabili di questa situazione, i partiti
dell'estrema sinistra e le centrali sindacali, da cui sono germogliati gruppi e
movimenti dichiaratamente anarchici e sovversivi, tentano oggi di rovesciare la
situazione affermando, come fa il PCI, che gli attentati sono «diretti a creare un
clima di allarme e di confusione e favoriscono manovre reazionarie interne ed
esterne»; o asserendo, come fanno le segreterie delle tre confederazioni sindacali,
che i «i fatti si inquadrano in un disegno terroristico e reazionario». In parole
povere, gli attentati, la strage, sarebbero stati organizzati dalle «forze reazionarie»
71
per giustificare una politica di repressione! Questo tentativo di additare un
colpevole, prima ancora che affiori il minimo indizio sugli autori dell'attentato,
dimostra in maniera evidente che le coscienze non sono completamente tranquille.
Che di atti terroristici siano il frutto di una «spirale di violenza e di terrore», della
«predicazione della violenza come metodo e come fine dei rapporti sociali», non
lo dicono solo gli esponenti di partiti, come il PSU e la DC, che nel giudizio
dell'estrema sinistra possono essere anche definiti «reazionari». L'on. Nenni, che
certamente nessuno potrà mai definire un «reazionario» ha ieri dichiarato che gli
attentati terroristici sono «la conferma di uno stato morboso di degenerazione
morale e politiche che, se non fermata a tempo, apre paurose prospettive». É
evidente che il primo dovere del governo è, oggi, quello di individuare gli autori
della strage di Milano e degli altri attentati dinamitardi. Questo chiede innanzi
tutto la coscienza della nazione, che è rimasta sconvolta dall'eccidio e che ha visto
realizzarsi in modo così mostruoso i timori e le paure accumulatisi dopo tanti
episodi di violenza. La scoperta degli attentatori permetterà anche di individuare i
gruppi, gli ambienti, i partiti, che costituiscono in questo momento il pericolo più
diretto e immediato alla sopravvivenza della nostra nazione, come società civile
democraticamente organizzata. Né ci sembra di anticipare o sovrapporci all'opera
della giustizia, augurandoci che l'individuazione di quei centri di sovversione e di
terrorismo siano duramente colpiti, in base alle leggi dello Stato, e messi al bando
della vita politica italiana. Ma l'individuazione e la punizione dei criminali non
sarà sufficiente a eliminare i pericoli che incombono sul nostro paese, se il
governo, il parlamento, i partiti, le organizzazioni sindacali non si impegneranno a
riportare la via italiana sulla strada della legalità e delle convivenza sociale. Sarà
perfettamente inutile scoprire e condannare gli assassini di ieri, se domani sarà
ancora consentito a gruppi di facinorosi di ostruire il traffico, di distruggere le
proprietà private, di intimorire o usare la violenza contro altri cittadini in nome
del «diritto di sciopero»; o permettere che altri facinorosi impediscano ad altri
cittadini di recarsi a teatro o di festeggiare il capodanno, invocando principi che
tralignano perfino la tradizionale demagogia per ricollegarsi ad aberranti
72
«rivoluzioni culturali» di origine asiatica. Non è necessario per questo ricorrere a
leggi speciali o poteri eccezionali. Le leggi esistenti sono più che sufficienti. È
necessario solo che il governo abbia la capacità e la volontà di far rispettare quelle
leggi da tutti: individui, gruppi, associazioni; e che trovi nel parlamento, nei pariti,
negli organi dello stato, l'appoggio politico necessario a bloccare con fermezza
ogni tentativo di sovversione. Sull'appoggio della pubblica opinione nessun
governo può avere dubbi di sorta. É da tempo che il popolo italiano chiede un
governo capace di ricondurre la nazione nella legalità democratica.
ANARCHICO SI UCCIDE GETTANDOSI DALLA FINESTRA DURANTE UN
INTERROGATORIO IN QUESTURA A MILANO
[«L'Arena», 16 dicembre 1969]
Milano, martedì mattina. Poco dopo la mezzanotte uno dei fermati per le indagini
sull'attentato di Milano, si è gettato dalla questura e è deceduto verso le ore 2 di
stamane all'ospedale Fatebenefratelli in conseguenza delle gravissime ferite
riportate nel tragico salto. Si tratta del ferroviere Giuseppe Pinelli, di 41 anni, che
la questura definisce «anarchico individualista». Il suo fermo era avvenuto nella
notte fra venerdì e sabato, poche ore dopo gli attentati.
L'uomo ha approfittato di un attimo di disattenzione degli agenti, ha aperto una
finestra e si è lanciato, in piedi, nel vuoto. Egli è caduto su una piccola siepe che
delimita una delle aiuole del cortile della questura stessa e ciò ha attutito il colpo.
Immediatamente soccorso, appariva privo di sensi, ma ancora in vita.
Successivamente è stato trasportato all'ospedale Fatebenefratelli, che dista poche
centinaia di metri dalla questura, dove i medici lo hanno immediatamente
sottoposto ad un delicato intervento chirurgico nella speranza di salvargli la vita,
ma il tentativo non è riuscito. «Il Pinelli era fortemente indiziato – ha detto il
questore di Milano, dott. Guida – ; aveva presentato un alibi per venerdì
pomeriggio ma questo alibi era caduto completamente. Nell'ultimo interrogatorio
il funzionario dott. Calabrese (sic!) gli aveva rivolto contestazioni piuttosto precise
73
e lui era sbiancato in volto. Il dottor Calabrese aveva allora momentaneamente
sospeso l'interrogatorio per andare a riferire al capo dell'ufficio politico dottor
Allegra. «Col Pinelli erano rimasti nella stanza tre sottufficiali di polizia e un
ufficiale dei carabinieri che assistevano all'interrogatorio. Improvvisamente – ha
proseguito il dott. Guida – il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra
che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto». Dopo aver
precisato che il Pinelli era pure sospettato per gli attentati del 25 aprile a Milano e
sui treni in varie località d'Italia in agosto, il dott. Guida ha detto: «Era tutta una
catena di sospetti: il principale era per venerdì e poi si andava indietro. È stato un
gesto, quello del Pinelli questa sera – ha detto ancora il questore – che certo a noi
non fa piacere». Il Pinelli, che abitava in via Preneste, era sposato con due figlie di
nove e di otto anni. Egli era capo-manovratore allo scalo Garibaldi. Il questore ha
detto che era responsabile del circolo anarchico «Ponte della Ghisolfa».
ORDINE DI CATTURA PER VALPREDA: CONCORSO CONTINUATO IN
STRAGE
[«L'Arena», 19 dicembre 1969]
Il sostituto procuratore della Repubblica, dott. Vittorio Occorsio, ha firmato
stamattina l'ordine di cattura nei confronti dell'anarchico trentaseienne Pietro
Valpreda per il reato di concorso in strage con l'aggravante della continuazione. Il
che, in parole povere, significa due cose; che l'istruttoria si è aperta a Roma a
carico del dinamitardo assassino, e che l'accusa è così sicura di avere colto nel
segno arrestandolo, che gli contesta non solo l'attentato a Milano alla sede della
Banca nazionale dell'agricoltura, ma anche in concorso e la preparazione degli altri
due attentati al «Vittoriano» e alla banca nazionale del lavoro di Roma.
L'aggravante della continuazione, prevista dall'art. 81 del codice penale e che va
ad aggiungersi agli articoli 422 (strage) e 110 (concorso), sta a significare che il
magistrato intende indagare anche gli altri attentati effettuati a Roma dinanzi al
palazzo di Giustizia di Roma e dinanzi alle sedi del Senato della Repubblica e della
74
Pubblica istruzione per controllare se anch'essi recano la firma del Valpreda. É
probabile che qualche altro anarchico della «22 Marzo» andrà a fare compagnia al
Valpreda nel carcere di Regina Coeli e alcuni per rispondere degli stessi reati
addebitati all'ex-ballerino. Quest'ultimo non ha battuto ciglio quando alle 15.30 di
oggi il capitano Antonio Varisco gli ha letto a Regina Coeli l'ordine di cattura con
le pesanti imputazioni in esso contenute. In piedi, pallido in volto, Pietro Valpreda
ha seguito la breve lettura del documento che dà il via all'istruttoria sommaria a
suo carico. Il primo gradino verso il processo. Se la corte proverà che il dott.
Occorsio ha colpito nel segno non vi sarà ergastolo più meritato per un criminale
che ha mietuto tante vittime innocenti. Con l'emissione dell'ordine di cattura la
magistratura romana, come avevamo previsto ieri, ha superato lo scoglio della
competenza e cioè se la istruttoria fosse di competenza della procura romana
oppure di quella milanese. È toccato a Roma indagare su questi dinamitardi che
hanno sconvolto l'Italia con le loro gesta criminali. E possiamo essere certi che la
magistratura andrà fino in fondo. Dopo l'inizio della istruttoria a carico di
Valpreda si è appreso che l'ex ballerino anarchico, alla già lunga serie di conti con
la giustizia (scontati o da scontare) aveva in corso una istruttoria per vilipendio
alla magistratura. Tale indagine, affidata al sostituto procuratore della Repubblica,
dott. Dore, era stata aperta dopo il famoso sciopero della fame, iniziato il 25
settembre scorso dinanzi al palazzo di Giustizia dal Valpreda insieme ad altri otto
«compagni» e precisamente: Paolo Demedio di 18 anni, studente; Fernando
Visona, di 18 anni, studente; Maurizio Di Mario, di 18 anni, studente; Rossella
Palaggi, di 19 anni, studentessa; Leonardo Clamp (sic) di 29 anni, residente a
Novara; Giorgio Spanò, di 30 anni, studente; Franco Montanari, di 17 anni,
apprendista commesso; Giovanni Ferraro, di 31 anni, meccanico. Naturalmente
tutti costoro sono stati interrogati subito dalla polizia romana dopo gli attentati e
alcuni figurano fra i 14 fermati in attesa che il magistrato decida sulla loro sorte. I
due giovani anarchici Emilio Borghese e Roberto Mander si trovano ora rinchiusi
nell'istituto di rieducazione di «Aristide Gabelli» essendo entrambi minorenni. Si
comportano disciplinatamente. Sembra meno a disagio nel carcere di Rebibbia la
75
giovane tedesca Elga Borth, soprannominata «Maria Dutschke», conosciuta come
«Mucky». Qualche altro nome dei fermati è trapelato oggi a Roma. Eccone alcuni:
Antonio Serventi, Emilio Bagnoli, Angelo Fascetti. A Regina Coeli si trovano, a
disposizione del magistrato, Angelo Casile, Giovanni Arcò e Mario Merlino, di 25
anni, uno dei fondatori del movimento «22 Marzo». Merlino uscì dal MSI e fondò
un gruppo neo – fascista cui dette il nome di «Avanguardia nazionale». Nel 1968
lasciò questo movimento e viaggiò a lungo all'estero prendendo perfino parte ai
moti studenteschi di Parigi. Al ritorno in Italia ruppe i ponti con i partiti di destra
e si schierò con gli anarchici romani partecipando alla costituzione del circolo «22
Marzo» che, nella sua breve vita, non ha avuto mai più di una ventina di iscritti.
Oltre al Merlino un'altra persona che frequentava il gruppo «22 Marzo», Antonio
Serventi, fermato dai funzionari dell'ufficio politico proveniva da «Avanguardia
nazionale», l'organizzazione neo – fascista di cui era promotore Stefano Delle
Chiaie. Il Serventi è noto tra gli estremisti di destra e di sinistra. Ha una
quarantina d'anni e fino a tre anni fa aveva militato nel MSI e poi nei gruppi
dissidenti neofascisti coi quali continuava ad avere rapporti. Una volta, nel corso
di una zuffa, si lanciò contro un gruppo di comunisti gridando: «Passatemi i
nastri!». Intendeva, nell'esaltazione, quelli delle mitragliatrici. Viene indicato dai
giovnai che frequentavano piazza Spagna, piazza Navona e piazza Santa Matia in
Trastevere come uno stravagante bevitore che andava in giro fino a qualche tempo
fa con un cobra avvolto intorno al corpo. Fu implicato anche in una denuncia per
sevizie. Uno dei giovani trattenuti nell'ufficio politico della questura, Emilio
Bagnoli, è uno studente della facoltà d'ingegneria di Roma. È l'unico figlio della
vedova di un'ingegnere del genio civile. La madre appartiene ad una famiglia
patrizia ed abita in via Gozzi, 77. La donna ga detto che non le risulta che il figlio
frequentasse gli anarchici di via Baccina e di via Governo Vecchio. «Quando gli
agenti sono venuti a casa – ha detto – hanno trovato nella stanza di Emilio una
storia dell'America, un Vangelo e “Topolino”». A Milano, in merito all'autopsia del
Pinelli, il sostituto procuratore della Repubblica, dott. Caizzi, ha detto stamane
che la decisione di affidare ad un collegio di periti la necroscopia è stata presa per
76
non lasciare adito a dubbi e a sospetti di qualsiasi natura. Indagini sono in corso
nel Napoletano per rintracciare e interrogare il diciassettenne Aniello D'Errico,
che sarebbe amico di Pietro Valpreda. Si tratta dello stesso giovane che – secondo
quanto detto ieri in una conferenza stampa degli anarchici del circolo «Ponte della
Ghisolfa» di Milano – frequentava come «simpatizzante» la sede del circolo ed
avrebbe fatto «confidenze» alla polizia in merito agli attentati di Milano e Roma.
CONTINUITÀ DELL'ANARCHIA
[Giuseppe Brugnoli, «L'Arena», 19 dicembre 1969]
Sembrava che fossero soltanto un cimelio storico, anacronistico e quasi
commovente, i superstiti vecchi anarchici. Con le loro cravatte alla Lavalliere e i
cappellacci a cencio non riuscivano più a far paura neppure ai bambini. Invece,
sono stati proprio gli anarchici, a fare quel gran sconquasso di Milano, che la
gente è ancora attonita e spaventata, e quasi soltanto adesso lo stupore cede il
passo all'indignazione. Ma qualcuno si affretta subito a precisare che della strage
di Milano non hanno colpa i vecchi anarchici, quelli buoni, ma i giovani, cattivi e
contestatori, mala erba cresciuta tra le fila sempre più rade del buon anarchismo,
che rifugge dalla violenza e tutt'al più si accontenta di esercitarla verbalmente,
attraverso colorite invettive, proposte catastrofiche e previsioni apocalittiche quali
cercano più un'emozione estetica che una verifica concreta. Sarà, ma la storia non
lo dice. Anche se è facile rimanere sentimentalmente attaccati al vecchio cliché
dell'anarchico verboso e inoffensivo, utopista e innocuo; quasi una macchietta, ma
non è proprio vero che sia così, e in fondo il Valpreda e i suoi compagni sono figli
non degeneri di quei vecchi anarchici che le lenti sfocate del tempo ci fanno
vedere in un'aura equivoca, quasi cavalieresca. Ma è proprio Errico Malatesta, uno
dei patriarchi più venerati dell'anarchismo italiano, che lo afferma a chiare lettere
in una corrispondenza del 1883 a Francesco Saverio Merlino, un altro dei «patres
conscripti» del movimento anarchico: «Noi ci vantiamo di essere, oggi, gli uomini
della violenza. E da parte nostra ci serviremo della violenza senza sentirci
77
nullamente legati dalla forma e dai pregiudizi della cavalleria. Ché noi facciamo
del codice della cavalleria lo stesso che dello statuto, del codice civile e del penale,
del galateo e della morale ufficiali, di tutta insomma quella congerie di leggi, usi e
convenienze che hanno fatto gli uomini solo schiavi, ma schiavi volontari». Parole,
si dirà; che tuttavia trovano ogni volta puntuale, circostanziata verifica nei fatti, i
quali sono assassinii, stragi, moti rivoluzionari e tentativi di rivolta sanguinosa.
Tutti giustificati a priori dall'assunto fondamentale dell'anarchismo. Disgrazia a le
nazioni in cui lo Stato s'immischia di regolare la vita popolare e il libero pensiero
degli individui, fosse anche in nome della morale più pura!» scrive il Bakunin, il
russo fondatore del movimento anarchico in Italia, subito dopo la sua venuta nel
nostro Paese, e poiché l'assoluta libertà degli individui è la condizione
fondamentale per la realizzazione dell'umanità, ecco che lo scopo unico degli
anarchici non può essere che quello di abbattere, con ogni mezzo, qualsiasi forma
di autorità: statale, religiosa, politica. É una visione messianica, una volontà
missionaria: dalla violenza, la libertà, con una stortura ideologica e morale che poi
sarà mutata puntualmente e quasi pedissequamente dal comunismo bolscevico:
non importa il sacrificio attuale degli individui e dei popoli, purché la rivoluzione
trionfi. Una sorta di redenzione laica e terrena, di uno stoicismo esasperato e
inumano, perché al vinto, al sacrificato di oggi non lascia neppure la pallida
speranza di una vita e di una ricompensa futura. Cosicché gli anarchici, dai primi
agli ultimi, dai precursori volenterosi agli stanchi epigoni, possono portare avanti,
con una distorta ma raziocinante dicotomia logica, il loro insito dagherrotipo di
uomini giusti e saggi che uccidono con sereno distacco, con superiore indifferenza,
che sterminano con freddezza in vista di un bene supremo; la libertà assoluta,
l'anarchia mitica per i superstiti. Perciò, contrari per principio alla morale
«borghese», possono tranquillamente essere padri solleciti e rigidi, mariti affettuosi
e fedeli, anche se le loro brevi permanenze in famiglia sono intervallate da lunghe
pause, necessarie a preparare ed eseguire attentati ed a subirne le conseguenze
nelle carceri dell'«establishment». «Non è l'aver sparso sangue dei carabinieri che ci
fa onta – afferma Carlo Cafiero, componente con Errico Malatesta della “banda
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del Matese”, davanti alla Corte d'assise di Benevento – ma l'accusa di averlo fatto
per “lascivia di sangue”. Se noi avessimo ucciso un'intera legione di carabinieri in
combattimento, noi non ce ne sentiremmo offesi: ma quando ci si dice che
abbiamo uccido per una mosca per lascivia di sangue, la nostra coscienza si ribella
a questa accusa». Sull'altare della dea Anarchia, le vittime umane vengono
sacrificate senza rimorso; il sacrificio non soltanto è giustificato, è sacrosanto. C'è
indubbiamente un ritualismo, in tutto questo, una intenzione propiziatoria. Ed è
lo stesso ritualismo che ritroviamo, a tanti anni di distanza (il processo alla «Banda
del Matese» è del 1878) nel gesto dell'attentatore della Banca dell'agricoltura di
Milano. Una strage che voleva essere ammonitrice, anche la sua, un «bagno di
sangue» in cui la «società del benessere» avrebbe dovuto riscoprire, inorridita e
attonita, la precarietà della sua esistenza della sua sopravvivenza. È lo stesso
identico ritualismo che ha presieduto ad un'altra strage, condotta con la stessa
freddezza, con la stessa assenza di un qualsiasi fremito di umanità, con la stessa
assenza di un qualsiasi fremito di umanità, anche se forse con maggior crudeltà. La
strage di Bel Air, in cui trovarono orribile morte l'attrice Sharon Tate e i suoi
amici. Un eccidio, quello di California, a cui l'efferatezza e il sadismo aggiungono
repulsione, ma forse meno «perfetto», meno «puro» dal punto di vista
dell'anarchismo classico, perché preordinato, indirizzato ad un certo gruppo
selezionato di persone, ad un clan caratterizzato della società. L'eccidio di Milano,
in cui la scelta delle vittime è lasciata al caso, al gioco della sorte, risponde meglio
ai canoni classici dell'attentato anarchico, che deve essere «apatico», senza
passionalità. Anche a Bel Air, come a Milano, un uomo che si è lasciato
emarginare dalla società, dopo essersi macchiato di delitti comuni e squallidi, e
che di questa esclusione ha tratto motivo di autoesaltazione, di vendetta
mascherata da ideali «superiori». La stessa etichetta anarchica o anarcoide, forse la
stessa matrice ideale o ideologica. Dopo tanti anni in cui i nostri anarchici
sembravano ridotti al rango di inoffensive comparse nel gran teatro del mondo,
che la loro virulenza terroristica pareva vaccinata dalla società affluente e
attenuata dagli anticorpi dell'organismo civile, sconcerta questa improvvisa,
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esplodente eruzione. «Siamo stufi di morire per rivoluzioni che danno il potere a
chi poi ci stermina», ha detto all'ultimo congresso anarchico di Carrara, nell'agosto
dello scorso anno, Alberto Failla, il leader della Federazione anarchica italiana.
Era una confessione di impotenza, un atto formale di rinuncia a portare avanti la
lotta. Ma al congresso di Carrara era comparso anche Cohn Bendit, lo studente
che fu a capo del «maggio radioso» francese. Espulso dall'assemblea, organizzò un
«controgongresso» sulla spiaggia di Marina di Carrara. «Il problema – disse –
consiste nello scoprire e mettere in opera i metodi più radicali in vista della
rivoluzione». Tra i seguaci di «Dany le rouge» c'era anche Pietro Valpreda.
Semplice alunno o interprete pronto ad assumere ruoli di protagonista? Ma il
«maggio francese» ha ispirato anche l'ultimo libro del profeta del nuovo
anarchismo utopistico, della contestazione giovanile: Herbert Marcuse. Che nel
«Saggio sulla liberazione» afferma come «la distinzione tradizionale tra violenza
legittima e illegittima diventa discutibile». «V'è una forte componente di
spontaneità, addirittura anarchismo, in questa ribellione, espressione della nuova
sensibilità. L'iniziativa si sposta ai piccoli gruppi, ampiamente dispersi e con un
alto grado di autonomia, di flessibilità, di mobilità». Il gruppo della «valle della
morte» che uccise Sharon Tate e i suoi amici può certo identificarsi in uno di
questi gruppetti anarchici e autonomi propugnati da Marcuse: anche il gruppo di
«anarchici individualisti» che frequentava il Valpreda. Da Milano a Los Angeles,
due eccidi così lontani e apparentemente così diversi forse trovano una unica
motivazione, un solo stimolo: anche il seme della violenza, quando cade su un
terreno acconcio, rispunta con frutti abbondanti.
SI CERCANO I MANDANTI DEL VALPREDA E DEI GIOVANI ANARCHICI
ARRESTATI
[«L'arena», 21 dicembre 1969]
Poche «tessere» mancano ancora per comporre il mosaico della preparazione e
della esecuzione degli attentati compiuti a Milano e a Roma nel pomeriggio del 12
80
dicembre. Anche oggi l'ufficio politico della questura romana ha lavorato
intensamente: il dott. Provenza e i suoi collaboratori hanno cercato di raccogliere
elementi per trovare l'uomo che ha fornito al Valpreda e ai cinque studenti
arrestati perché ritenuti responsabili degli attentati, il tritolo per compierli e la
località dove l'esplosivo è stato tenuto e dove, presumibilmente, sono state
confezionate le bombe. É significativa, a tale proposito, una frase pronunciata dal
capo dell'ufficio politico: «Cerchiamo mandanti al più alto livello» e non è stato
escluso che della faccenda possa occuparsi anche l'Interpol. Inoltre è di una certa
importanza il fatto che la questura milanese ha nuovamente fermato oggi e
trattenuto per essere messo a disposizione della «politica» l'anarchico Leonardo
Claps, il giovane che, fermato nei giorni scorsi per gli attentati era stato trasferito
a San Vittore e che veniva scarcerato ieri sera. Intanto il sostituo procuratore della
Repubblica di Roma, dott. Occorsio, ha spiccato oggi ordine di cattura contro la
giovane tedesca Anneliese Borth, di 17 anni, residente ad Amburgo, fermata
durante le indagini sugli attentati dinamitardi. Alla ragazza sono state contestate la
violazione delle norme di P.S. sul soggiorno degli stranieri in Italia e la falsa
attestazione sulla propria identità personale. La Borth è ora trattenuta nel carcere
di Rebibbia. In ambienti vicini alla Procura si danno già per iniziate indagini molto
più approfondite su questa giovane venuta clandestinamente nel nostro Paese e
che dovrebbe aver tenuto i collegamenti tra gli anarchici italiani del gruppo «22
Marzo» e i compagni di oltre confine. Successivamente il dott. Occorsio si è recato
a Regina Coeli per rivolgere altre domande agli studenti colpiti ieri sera da
mandato di cattura: Mario Merlino, Emilio Bagnoli, Emilio Borghese, Roberto
Gargamelli e Roberto Mander. Intanto i difensori di Valpreda hanno ottenuto dal
magistrato inquirente copia dell'ordine di cattura, contestato all'imputato due
giorni fa. Soltanto oggi quindi si è appreso che Valpreda è stato incriminato.
1) Per aver provocato lo scoppio di una carica esplosiva – realizzandone
personalmente la esecuzione materiale – alle ore 16.30 del 12 dicembre
1969 all'interno della Banca nazionale dell'Agricoltura di Milano – Piazza
Fontana – provocando la morte di 14 persone e il ferimento di altre 80;
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2) per aver curato lo scoppio di altra carica esplosiva – lasciando ad altri
l'esecuzione materiale – alle ore 16.55 del 12 dicembre 1969 all'interno
della Banca nazionale del Lavoro in via San Basilio a Roma, provocando il
ferimento di 17 persone;
3) per aver collocato altra carica esplosiva rinvenuta alle 16.30 del 12
dicembre 1969 all'interno della Banca Commerciale Italiana in Milano,
piazza della Scala.
E ancora dei reati di cui agli articoli 110 e 81 del codice penale e agli articoli 2 e 4
della legge 2 ottobre 1967, n. 855, per avere in concorso con altri fatto esplodere
due ordigni all'Altare della Patria, in Roma, allo scopo di incutere pubblico timore
e di attentare alla sicurezza pubblica.» Infine l'autorità giudiziaria di Roma ha fatto
conoscere oggi ufficialmente la sua decisione di considerarsi competente per
territorio in merito al procedimento per gli attentati dinamitardi di Roma e di
Milano.
GLI ULTIMI RISOLUTIVI COLPI ALL'ALIBI DI VALPREDA
[«L'Arena», 11 febbraio 1970]
L'inchiesta a carico dell'ex ballerino Pietro Valpreda, ritenuto il principale
responsabile degli attentati terroristici di Milano e di Roma il 12 dicembre dello
scorso anno, «continua con sviluppi molto interessanti» lo si è appreso stamane al
palazzo di giustizia dalla bocca del sostituto procuratore dott. Occorsio. Sull'esito
degli accertamenti viene, però, mantenuto il più stretto riserbo, poiché – si dice –
le indagini sono in una fase molto delicata. Si controlla, infatti, l'alibi di Pietro
Valpreda in tutti i suoi risvolti per stabilire se l'ex ballerino ha detto la verità».
Stamane, prima di recarsi nel nuovo ufficio di piazzale Clodio a conferire con il
giudice istruttore Ernesto Cudillo, il sostituto procuratore della Repubblica dott.
Occorsio, si è incontrato con il procuratore capo Augusto De Andreis per
informarlo dei nuovi sviluppi che l'indagine sta assumendo. In piazzale Clodio, il
dott. Occorsio si è recato insieme con il capo dell'ufficio politico della questura di
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Roma dott. Bonaventura Provenza, il quale era accompagnato da un funzionario.
Il dott. Provenza, secondo quanto si è saputo, ha fatto al magistrato un primo
rapporto verbale sulle indagini che sono in corso per stabilire se Pietro Valpreda il
13 dicembre dello scorso anno si trovava a Milano, come afferma, in casa della
nonna. Gli inquirenti, com'è noto, ritengono che l'ex ballerino si sia allontanato
dalla città lombarda subito dopo le tragiche esplosioni. In tal modo cadrebbe l'alibi
al quale Valpreda attribuisce la fondamentale importanza di dimostrare la sua
estraneità ai fatti che gli vengono contestati. Prima di ricevere il dott. Occorsio ed
i due funzionari, il dott. Cudillo aveva interrogato alcune persone. La deposizione
di queste ultime apparirebbe di notevole importanza per l'inchiesta e sembra
destinata a riservare nuove ed interessanti sorprese. Sui recenti sviluppi, però,
viene mantenuto il più stretto riserbo.
I LIMITI DEL CARCERE PREVENTIVO
[Giuseppe Della Torre, «L'Arena», 30 dicembre 1972]
Confermando le indiscrezioni apparse ieri su qualche organo d'informazione,
questa mattina la sezione istruttoria della Corte d'appello di Catanzaro,
conformemente al parere favorevole espresso dal procuratore generale della Corse
stessa, ha accolto la istanza in tal senso presentata giorni dal collegio di difesa ed
ha concesso la libertà provvisoria per Pietro Valpreda, Roberto Gargamelli, Emilio
Borghese e Mario Merlino. Il provvedimento – auspicato ormai da larghissimi
strati dell'opinione pubblica, ma fino ad oggi inattuabile prevedendo l'art. 225 del
codice di procedura penale la scarcerazione automatica solo dopo quattro anni di
custodia preventiva – è stato reso possibile grazie all'entrata in vigore della legge
stralcio della riforma del codice di procedura penale nella parte che attribuisce al
giudice la facoltà di concedere la libertà provvisoria anche agli imputati di reati
per i quali, il mandato di cattura è obbligatorio, provvedimento legislativo di
grande rilievo approvato dallo scorso mese dal consiglio dei ministri.
Evidentemente la notizia della disposta scarcerazione di Valpreda e compagni,
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presunti responsabili dei sanguinosi attentati del 12 dicembre 1969, non può che
essere accolta con favore da quanti hanno a cuore che la giustizia sia
sostanzialmente, e non solo formalmente, giusta. Si tratta, infatti, di un
provvedimento ispirato a giustizia, se si pensa che a tre anni dai tragici fatti di
Milano il «processo Valpreda» non è ancora iniziato, e se si pensa che anorma
dell'art. 27 della Costituzione «l'imputato non è considerato colpevole sino alla
condanna definitiva». Ora non è ammissibile che in casi come questo à in cui cioè
non vi sono già state condanne in primo o secondo grado, non vi sono ricorsi
pendenti per motivi speciosi e gli stessi indizi nei confronti degli imputati sono
molto labili – il cittadino imputato di un reato, che per la legge deve considerarsi
innocente fino alla condanna definitiva, veda protrarsi oltremodo i termini della
carcerazione preventiva per colpa del pessimo andamento della nostra macchina
giudiziaria. Astraendo dal caso Valpreda, potremmo dire al riguardo che se, senza
alcun dubbio, un ingiustificato prolungarsi della carcerazione preventiva non è
giusto nei confronti di chi si è effettivamente reso colpevole del reato
contestatogli, tanto più è ingiusto nei confronti dell'innocente detenuto per tre o
quattro anni in attesa del processo. Chi mai potrà ripagare a costui il danno
morale, sociale ed economico subito? Detto questo, bisogna però aggiungere che
la nuova disposizione della legge sulla libertà provvisoria -detta orma «legge
Valpreda» dal nome del suo più noto beneficiario, ma della quale hanno già
beneficiato decine di imputati in attesa di processo – altro non è che un palliativo
ai mali cronici di cui soffre la nostra macchina giudiziaria, ma nient'altro che un
palliativo. DI qui la necessità, anzi l'urgenza di riprendere il discorso sulla riforma
globale del nostro processo penale, per renderlo più adeguato alle esigenze di una
società civile e democratica com'è quella italiana attuale, e soprattutto per
renderlo più snello e più veloce. Per quanto riguarda Valpreda e compagni, è
auspicabile che il processo prenda l'avvio e sia condotto sino in fondo, senza
ulteriori interruzioni, il più celermente possibile. Troppo tempo, infatti, è ormai
passato da quel pomeriggio di dicembre del 1969, e da troppo tempo le vittime
degli attentati e la stessa opinione pubblica attendono una risposta.
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ATTENTATI: SI CERCA DI CHIARIRE LA POSIZIONE DI DUE TREVIGIANI
[«L'Arena», 20 febbraio 1970]
L'on. De Poli (DC) ha scritto una lettera al senatore Ugo D'Andrea (PLI) il quale
aveva presentato una interrogazione al ministro della giustizia «circa pretese
interferenze di un deputato di Treviso sull'operato dei magistrati che stanno
conducendo l'indagine sulle stragi di Milano e di Roma». «Credendo di ravvisarmi
nell'indicazione – scrive l'on De Paoli – ritengo da parte mia atto di cortesia nei
suoi confronti informarla direttamente che sono il legale che assiste il prof. Guido
Lorenzon si Maserada di Treviso, come risulta dettato a verbale negli atti
giudiziari in corso. Ritengo ancora di inviare, per opportuna conoscenza, copia di
questa mia lettera al ministra di grazia e giustizia. Sperando di avere l'occasione di
conoscerla anche personalmente- conclude la lettera De Poli – le porto i più
cordiali saluti». Il prof. Guido Lorenzon, che ha 30 anni, insegna all'istituto
magistrale «Madonna del Grappa» di Treviso ed è segretario della sezione DC di
Maserada sul Piave, ha accusato l'amico Giovanni Ventura, editore anch'egli di
Treviso, si essere coinvolto, come finanziatore, in alcuni attentati dinamitardi
compiuti lo scorso anno. Ma il Ventura, dal canto suo, sostiene che in Guido
Lorenzon la notizia della strage di Milano provocò in quei giorni «un corto
circuito mentale e psichico, al punto da trasferire le vicende che vedeva svolgersi
nel paese in un ambito di diretto dominio ed investirne persone nel caso il
sottoscritto, che in realtà con quelle vicende, nulla hanno a che fare». Parlando del
prof. Lorenzon, Ventura ha detto che egli «è individuo propenso a considerare
alternativamente uno stesso fenomeno nella misura e nei termini più disparati;
questo perché egli ha una realtà psichica molto poco equilibrata (ha già avuto
negli ultimi tempi almeno un paio di esaurimenti nervosi)». «Una tesi su Celine –
ha detto Ventura – per elaborare la quale lavorammo insieme assiduamente,
diventò per lui, ad un certo momento, una sorta di mania, un fenomeno quasi
ossessivo, al punto che si propose di scrivere un romanzo a sfondo politico-
terroristico-rivoluzionario il cui tessuto narrativo avrebbe dovuto rappresentare,
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appunto, circostanze di questo genere. DI questo romanzo mi parlò più volte,
chiedendomi indicazioni su una più precisa materia di documentazione, relativa a
fenomeni di organizzazione rivoluzionaria, tecnica della guerra sovversiva e, in
genere, della lotta politica violenta». Quanto, il 12 dicembre, avvennero gli
attentati di Milano e Roma, Lorenzon – scosso dalla notizia della strage – si recò
da un magistrato di Treviso ed esplose i suoi sospetti su Ventura, in relazione
appunto, agli attentati. La intera faccenda fu rimessa al giudice istruttore Cudillo il
quale, a sua volta, ricevette le deposizioni dei due protagonisti della vicenda. In un
secondo momento Lorenzon smentì più volte, anche per iscritto, le proprie
accuse, il ventura presentò un esposto alla magistratura, ma poco tempo fa il
Lorenzon ha nuovamente ribadito i propri sospetti al magistrato romano che si
occupa delle indagini. Il Ventura, la scorsa settimana, è stato così convocato dal
giudice Cudillo a Roma, per fornire al magistrato ulteriori spiegazioni,
«spiegazioni – ha detto – che non sono stato ovviamente in grado di dargli». «Ora
– ha detto il Ventura – mi trovo in una situazione di pazzesco danneggiamento nei
miei confronti e non riesco a sapere assolutamente nulla circa la mia posizione in
relazione alle accuse calunniose del Lorenzon». Frattanto Giuseppina Vigato Orpi,
l'infermiera citata da Pietro Valpreda nel corso dei suoi interrogatori e che,
interrogata dal giudice Cudillo, non ha confermato la presenza del ballerino
anarchico in casa dei nonni la mattina del 14 dicembre scorso, ha ripetuto stamane
a Milano di non ricordare assolutamente la circostanza. «Come ho già riferito al
magistrato – ha detto la donna – non posso assolutamente ricordare se quella
domenica mattina mi sono recata a casa dei signori Lovati, in viale Molise 47, per
fare delle iniezioni: a quel tempo effettivamente praticavo delle iniezioni al signor
Paolo Lovati, ma non tutti i giorni, anzi a periodi alternati piuttosto lunghi. Non
ricordo neppure di avere mai visto in casa dei Lovati o altrove una faccia che
assomigliasse a quella del Valpreda. Tra l'altro ho saputo soltanto dai giornali che
Valpreda era nipote dei Lovati, gente che io conosco da tanto tempo».
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TRE ARRESTI NEL VENETO PE RUN «LIBRETTO ROSSO»
[«L'Arena», 14 aprile 1971]
Tre persone, l'editore Giovanni Ventura di 27 anni di Castelfranco Veneto
(Treviso), il procuratore legale dott. Franco Freda di 34 anni di Padova e lo
studente Aldo Trinco di 38 anni, anch'egli di Padova, sono stati arrestati in
esecuzione di un mandato di cattura dal giudice istruttore di Treviso, dott.
Giancarlo Stiz, per «Associazione sovversiva». Il provvedimento è stato eseguito
dai carabinieri di Treviso al comando del maresciallo Murari. Primi ad essere
arrestati sono stati il Freda ed il Trinco; l'editore Ventura, appena appresa la
notizia dell'arresto dei due che sono suoi amici, si è costituito ai carabinieri di
Treviso. I tre arresti sono da mettere in relazione alla pubblicazione di un «libretto
rosso» pubblicato mesi fa da un non meglio identificato «Fronte popolare
rivoluzionario», intitolato «La giustizia è come il timone; dove la si gira va» che
conteneva pesanti considerazioni su due magistrati padovani (il giudice istruttore
Francesco Ruberto ed il capo della procura della Repubblica di Padova, Aldo Fais).
Nell'opuscolo viene elaborata una «ricostruzione» della dinamica degli attentati
dinamitardi compiuti a Padova tra l'aprile del 1968 e il maggio del 1969, che
coinvolsero penalmente l'ex-capo della «Mobile» dott. Pasquale Juliano ed altre
persone. Nel libretto rosso sono contenute offensive e lesive dell'allora prefetto
dott. Allitto Bonanno (attuale questore di Milano), dell'attuale questore di Padova,
Federico Manganella e dello stesso capo della «Mobile» Juliano. Alcune migliaia di
questi opuscoli vennero sequestrati alla direzione delle posta padovane ed il
procuratore Aldo Fais aprì un'inchiesta, ripresa dalla procura generale di Venezia
ed i cui atti vennero inviati alla Corte di Cassazione. Seguì una serie di accuse
contro l'avv. Freda ritenuto, con altre persone, responsabile di calunnia e
vilipendio dell'ordine giudiziario ed il relativo provvedimento è ora davanti alla
Corte d'assise di Trieste «per legittima suspicione». Interrogati, a suo tempo, sia il
Freda sia il Ventura negarono ogni responsabilità. La decisione della magistratura
di arrestare i tre sotto l'accusa di «Associazione sovversiva» costituirebbe, tuttavia,
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il risultati dell'inchiesta sul «libretto rosso».
CASTELFRANCO: QUATTRO MANDATI DI CATTURA
[«L'Arena», 24 dicembre 1971]
Il giudice istruttore di Treviso dott. Stiz, ha emesso quattro mandati di cattura, a
conferma degli arresti ordinati dal giudice di Padova dott. Cera ed ha disposto la
scarcerazione di altre due persone ritenute estranee al ritrovamento delle armi a
Castelfranco. I mandati di cattura sono stati emessi contro Franco Freda, Giovanni
e Angelo Ventura e Ruggero Pan. Le scarcerazioni – che sono state già eseguite
stamane – riguardano Giancarlo Marchesin e Franco Comacchio. Secondo la
motivazione del provvedimento Franco Freda e Giovanni Ventura sono imputati
di associazione sovversiva per avere organizzato e diretto un gruppo che aveva le
finalità proprie del disciolto partito fascista, mirante cioè a sovvertire
l'ordinamento sociale ed economico dello Stato, e di aver detenuto ed occultato
armi, munizioni ed esplosivo e, infine, di avere cooperato alla preparazione e
diffusione di libri stampati e scritti nei quali c'è, tra l'altro, propaganda ed
istigazione alla sovversione e al razzismo. Per quanto riguarda Angelo Ventura e
Ruggero Pan il magistrato ha considerato che occorrono altri accertamenti sulla
loro posizione e che «la cautela processuale impone almeno temporaneamente la
custodia preventiva». Giancarlo Marchesin e Franco Comacchio sono stati
accusati, a piede libero, di detenzione di armi, accusa che li accomuna al Freda, ai
fratelli Ventura, al Pan e a Ida Zanon, moglie del Comacchio, sempre rimasta a
piede libero. Poiché queste accuse – secondo la nuova procedura – non prevedono
mandato di cattura obbligatorio, Marchesin e Comacchio sono stati scarcerati.
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INTERVISTA A ENRICO DI COLA
Con la strage di Piazza Fontana la pista anarchica, già battuta in riferimento
agli attentati della fiera di Milano in aprile e dei treni in agosto, fu rilanciata.
Nonostante le affermazioni delle forze dell'ordine secondo cui le indagini erano
dirette in tutte le direzioni, la sinistra risultava l'area più colpita. In questo
contesto il Circolo 22 Marzo fu messo da subito sotto accusa. Quale fu la vostra
reazione appena saputo della strage, con l'avvio delle indagini?
Come è noto - e ben documentato - fin da subito le indagini furono dirette
contro la sinistra ed in particolar modo gli anarchici, nonostante le frasi di
pragmatica delle questure, soprattutto quella di Roma e Milano ovviamente, di
aver indirizzato le indagini “in tutte le direzioni”. Basta leggere gli elenchi dei
fermati e delle perquisizioni per rendersene conto. Oggi sappiamo, grazie ai
documenti desecretati, che i nostri sospetti erano giusti e che l'unica pista seguita
fu quella anarchica.
Per quanto ci riguarda come anarchici e come circolo, già da diversi mesi
eravamo perseguitati dalla polizia politica (fermi, controlli, minacce, pedinamenti,
telefoni sotto controllo, carcere), tanto che il 19 novembre venimmo addirittura
fermati “preventivamente” - in una decina di compagni – e tenuti in Questura per
molte ore, al fine di impedirci di partecipare alla manifestazione nazionale per la
casa indetta per quel giorno.
Per uno dei tanti casi del destino, proprio la sera del 12 dicembre, dopo aver
partecipato alla famosa conferenza sulle religioni nel circolo 22 marzo, io, Emilio
Bagnoli e Amerigo Mattozzi ci eravamo recati nella sede della Lega per i Diritti
Umani che si trovava vicino a Piazza Venezia per denunciare la polizia per questi
continui abusi. Giunti lì, ci dissero che vi erano stati degli attentati, che la
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situazione era grave, e che quindi era meglio aspettare che la situazione si calmasse
per fare la nostra denuncia.
Appresa la notizia tornammo immediatamente al circolo per vedere se c’era
ancora qualche compagno ed informarli dei fatti. Scambiammo solo poche parole
con alcuni compagni nella sede e decidemmo che era meglio andare tutti a casa
per seguire le notizie e capire cosa era avvenuto. Sapevamo che erano scoppiate
delle bombe a Milano, ma nulla più. Si parlava di feriti e forse qualche morto, ma
tutto in modo approssimativo, tanto è vero che se avessimo saputo delle bombe
all’altare della patria sicuramente ci saremmo recati lì per vedere cosa era successo
prima di tornare al circolo.
Restammo attoniti di fronte la notizia della strage – come credo lo fu tutta
l’Italia. Il nostro primo pensiero fu che le notizie che circolavano da mesi negli
ambienti di sinistra - che ci sarebbero state nuove bombe e forse mortali per
provocare un tentativo di colpo di stato - si fossero alla fine concretizzate. Più che
le bombe, di cui in quel momento ignoravamo l’esito mortale e l’orribile
carneficina che avevano causato a Milano, avevamo timore di un imminente colpo
di Stato.
All’epoca non esistevano i cellulari, la Rai aveva uno o due reti televisive che,
oltre a finire presto, davano le notizie col contagocce. Molti di noi erano giovani
studenti che dovevano rispettare certi orari per rientrare a casa o avevano genitori
che non gli permettevano di fare uso del telefono (costava). Non era quindi facile
per nessuno riempire il vuoto informativo esistente per poter capire cosa diavolo
stesse succedendo.
Tornato a casa vidi il telegiornale e – non mi vergogno a dirlo – ebbi davvero
paura. Dati i precedenti persecutori di cui ti ho parlato, almeno io, davo per
scontato che la polizia avrebbe rotto le scatole a qualcuno di noi anche questa
volta. Lo stato d’animo iniziale, comunque, era che dopo l’ennesimo controllo e
interrogatorio ci avrebbero rilasciato (...sempre che non ci fosse stato il colpo di
stato, ovviamente). Io non ebbi molto tempo per farmi tante altre domande
perché a poche ore di distanza dagli attentati (intorno alle 22:30-23) fui svegliato
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dai carabinieri, che entrarono in casa coi mitra puntati, la perquisirono e mi
portarono con loro in caserma.
Anche se ci sono tre verbali da me firmati, il che potrebbe far pensare a tre
differenti occasioni, devo dire che fui sottoposto ad un unico, interminabile,
interrogatorio. Fui portato in un ufficio al terzo piano dove c’era la squadra
omicidi. Il “primo” verbale, riflette una parte di interrogatorio abbastanza
tranquillo, poi successe qualcosa che ancora oggi mi sfugge ma che è
estremamente interessante: il giorno 13 dicembre infatti, gli investigatori
iniziarono a concentrare la loro attenzione su Valpreda (fate attenzione a questo
particolare, perché le questure di Roma e Milano hanno sempre sostenuto
ufficialmente che il nome Valpreda fu fatto solo il giorno 14 dicembre) cercando
di costringermi a dire che lo avevo visto partire per Milano con una scatola da
scarpe piena di esplosivo o di firmare, addirittura, un verbale in bianco che poi
loro avrebbero riempito. Dopo una notte ed un giorno tenuto senza dormire,
senza mangiare o bere, trattato a suon di sberle e di ogni genere di delizia tipica di
questi signori, per farmi firmare quello che volevano, venni improvvisamente, e
senza spiegazione alcuna, rilasciato non prima comunque di essere stato
minacciato di morte.
Quel tipo di domande e quel trattamento “speciale” durante gli interrogatori
mi fecero capire che gli inquirenti erano disperati di trovare un colpevole ad ogni
costo e che in qualche modo eravamo nel loro mirino (Valpreda quale
trasportatore dell’esplosivo a Milano se non altro).
Ricapitolando: fui portato in caserma dai carabinieri alle ore 23:00 del 12
dicembre e rilasciato la sera del 13. Il 14 parlai del mio “strano” interrogatorio
con alcuni compagni che erano venuti a salutarmi dopo il rilascio e venni a sapere
che diversi altri compagni – sia del nostro gruppo che del circolo Bakunin – erano
stati prelevati e non ancora rilasciati. Insomma potemmo parlarci in pochi perché
per ognuno di noi che rilasciavano ne “spariva” qualche altro e quindi era
impossibile incontrarci tutti assieme per valutare quello che stava accadendo!
Il mio timore era – fino a quel momento - che per placare la sete di sangue della
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stampa, volessero buttare in galera qualcuno di noi per poi rilasciarlo – magari di
nascosto e in silenzio – dopo qualche mese. Vedevo ancora le cose in questa ottica
sia perché questo era lo schema che conoscevamo in quanto era quello che
avevano usato a Milano per arrestare i nostri compagni per accusarli delle bombe
fasciste, cioè degli attentati sui treni dell’8 agosto e quelle del 25 aprile, sia perché
io e gli altri compagni (pochi per la verità) fermati dai carabinieri eravamo tutti
stati rilasciati. Sapevamo con certezza che quegli attentati non potevano essere
stati opera di anarchici ed eravamo – abbastanza ingenuamente devo dire – certi
che alla peggio in un eventuale processo tutte quelle infami accuse sarebbero
crollate (per i compagni di Milano ingiustamente accusati per le bombe fasciste ciò
avverrà solo dopo tre anni, nel 1971).
Il 16 dicembre sera fui gettato nell’incubo e nella disperazione leggendo
dell’arresto di Valpreda e della morte di Pino Pinelli. Capii che la situazione era
molto peggio di quella che pensavo e quella stessa sera iniziò la mia lunga
latitanza. Quel giorno la polizia mi cercò anche se il mandato di cattura fu emesso
soltanto il 6 gennaio. Ad essere precisi la polizia mi aveva cercato anche il 13
dicembre perché evidentemente i carabinieri non gli avevano comunicato del mio
fermo. Durante il processo di Catanzaro nel 1974 ci fu un gioco di rimpalli tra
polizia e carabinieri sul perché del mio fermo il 12 dicembre, anche perché in quel
momento – e lo dice il commissario della squadra politica romana, Falvella – non
vi erano ancora elementi contro di me.
Probabilmente ci fu un difetto di comunicazione tra i due corpi dello Stato: ero
stato fermato quando ancora “ufficialmente” non vi erano motivi per farlo. In
altre parole i carabinieri furono troppo solerti nel fermarmi e furono quindi
costretti a rilasciarmi, mentre la polizia stava aspettando di avere le prime delle
“chiamate a correo” che dessero una giustificazione plausibile per procedere al
mio fermo. Probabilmente gli serviva il secondo attentatore per l’altare della
patria.
Di tempo per parlare con gli altri compagni di quello che era avvenuto, di
quella infame strage, per quello che mi riguarda non ce ne è stato davvero molto.
92
Caso emblematico di come furono portate avanti le indagini fu la morte di
Pinelli. Da una parte si parlò di suicidio, dall'altra ci fu la ferma volontà di parlare
di omicidio. Quando hai saputo della morte di Pinelli, a cos'hai pensato? Successo
a Pinelli, sarebbe potuto succedere a chiunque altro?
Il 16 dicembre mi resi latitante per non finire in gattabuia come Valpreda e
tanto meno uscire da una finestra di questura come Pinelli. Come ti accennavo
precedentemente, durante il mio lunghissimo interrogatorio fui minacciato di
morte e quando lessi della fine di Pinelli mi convinsi che quelle che mi erano state
rivolte non fossero più solo delle semplici minacce, ma che in effetti la polizia era
anche in grado di metterle in atto (va tenuto presente che ero molto giovane,
avevo da poco compiuto i 18 anni).
Di persone entrate vive in una caserma o in una questura, in un carcere o un
manicomio e uscite poi morte ammazzate ne sono piene le pagine di cronaca dei
giornali. Non era solo un timore ipotetico che potessero avvenire certi fatti, ma
era ed è una realtà conclamata. Però ti rispondo che no, non credo affatto che
quello che è successo a Pinelli poteva accadere ad altri.
Se andiamo a leggere la stampa anarchica dell’epoca, ci accorgiamo che
nell’immediato non vi fu affatto un giudizio così preciso nel sostenere che si
trattava di omicidio. Questa accusa così netta venne solo dopo qualche giorno,
quando si seppero di tutte le contraddizioni nei racconti fatti ai giornalisti dai
dirigenti della questura, quando arrivarono le prime indiscrezioni. In quei primi
frenetici giorni vi fu una sorta di spaccatura nel movimento anarchico. Tutto ciò
che dico, deve comunque sempre essere inserito nel clima dell’epoca, nel costume,
e non ultimo vanno anche tenute in debito conto le tecnologie allora esistenti. Il
fatto che molti compagni di “primo piano” del movimento anarchico furono
coinvolti nelle perquisizioni e nei fermi non permise un dialogo tra le diverse
parti. A questo va aggiunto che le telefonate interurbane erano costose (oltre che
controllate) e quindi parlare liberamente tra compagni, informarsi non era cosa
agevole. Si usava accennare a qualcosa e darsi un appuntamento per parlare di
93
persona. Stiamo poi parlando di una strage di tale entità, come non ne erano
avvenute da molti decenni e del fatto che non solo Pinelli fosse volato dalla
finestra della questura ma anche che un altro anarchico, Valpreda, veniva accusato
nella stessa giornata di quella strage di innocenti. Io credo che il sentimento
dominante e incontrollato, purtroppo, fu di panico. Probabilmente anche il
ricordo di cosa avesse significato nel 1921 per gli anarchici l’attentato al Diana
(quello purtroppo compiuto per errore da alcuni compagni) e di come la
repressione avesse fatto quasi sparire le organizzazioni anarchiche dell’epoca, era
ancora vivo nella mente dei vecchi militanti e quindi ci fu il becero tentativo (di
difesa preventiva, lo chiamerei) di prendere le distanze da tutti i compagni
coinvolti nell’inchiesta, in attesa che si chiarisse il quadro d’insieme.
Sapevamo che Pinelli non poteva essere coinvolto in una porcata come quella,
che non aveva nessun motivo per suicidarsi, che aveva un alibi e quindi…perché
mai un innocente si dovrebbe suicidare? E poi avevamo la testimonianza del
nostro compagno Lello Valitutti - in stato di fermo in questura al momento della
morte di Pinelli - che ci raccontava ben altra verità. Questa convinzione,
dell’omicidio, si andò rafforzando nel tempo per tutte le incongruenze delle
testimonianze degli agenti presenti in Questura e la mancanza di vere indagini.
Per questo io, allora come oggi, sono convinto che Pinelli è stato assassinato. E
ritengo un insulto alla verità e alla intelligenza la vergognosa sentenza di
D’Ambrosio sul “malore attivo”: modalità di un malore mai verificatosi prima del
volo di Pinelli e mai ripetutasi dopo.
Quello che successe a Pinelli, a mio parere, non poteva avvenire con nessun
altro, semplicemente perché sono convinto che era Pinelli il “mostro” prescelto
per le bombe di Milano. Era da molti mesi che la questura cercava di incastrarlo
per gli attentati (quelli fascisti, dell’8 agosto ai treni) così come cercavano di
incastrare Valpreda. Non dimentichiamo che il fermo di Valpreda, su richiesta
della Questura romana, era per il famoso (e non esistente) “deposito di esplosivi”
a Roma e non per le bombe di Milano. Solo con la morte di Pinelli tutto si
concentra su di lui.
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Uno dei topos che furono portati avanti dalla stampa, e che il quotidiano di cui
mi sto occupando, «L'Arena», perorò fin dal 13 dicembre, fu che la strage era solo
l'ultimo episodio di una violenza che imperversa a partire dalle centrali sindacali e
dai partiti di estrema sinistra. Anche gli studi sul terrorismo di sinistra hanno
spesso collegato i successivi episodi del cosiddetto "partito armato" ricollegandolo
all'imperversare di un linguaggio anti-democratico, di matrice anti-statale. Come
anarchici la vostra era sicuramente una posizione anti-statalista, ma vi
riconoscevate nell'immagine violenta che vi veniva etichettata?
L’immagine che veniva (e viene tuttora) data degli anarchici è completamente
farsesca e quindi ben lungi da quello che siamo. E’ un’immagine stereotipata degli
anarchici dell’Ottocento e che non tiene conto dei cambiamenti avvenuti nella
società e tanto meno delle mille articolazioni esistenti in quello che si chiama
Movimento anarchico (dal pacifismo più assoluto all’accettazione della violenza
come estrema necessità, di difesa, contro l’oppressione dello Stato). Bisognerebbe
poi intendersi sul concetto di violenza. Oggi si parla di “violenza” perfino quando
si contesta qualche oratore di un partito politico o si occupano delle case! Certo
che no, non era assolutamente possibile - neanche lontanamente - riconoscersi
nell’immagine che si voleva dare di noi. Sia ben chiaro che io personalmente non
mi ritengo un pacifista e non sono contrario all’uso della violenza qualora essa si
rendesse necessaria. Però cerchiamo di capirci bene: noi stiamo parlando del
1969, stiamo parlando del vento di rivolta del ’68 che ancora girava nell’aria e che
coinvolgeva TUTTA la sinistra extraparlamentare. E quindi si, se la polizia
caricava per me non ci sarebbe stato nulla di strano a rispondere anche con le
molotov (noi non lo abbiamo fatto, ma ciò non toglie che avremmo anche potuto
farlo). Ma da questo a mettere delle bombe in mezzo a persone innocenti ce ne
corre e tanto! Comunque il nostro circolo era appena nato e non aveva ancora
una sua configurazione precisa (chi si richiamava alla FAGI, chi ai GIA chi al
sindacalismo rivoluzionario e chi all’individualismo anarchico) perché non ci fu
dato il tempo per poterlo fare visto che fummo colpiti mentre ancora dovevamo
95
terminare i lavori per rendere abitabile il locale (mancavano la luce, le sedie, ecc.).
Gli studiosi del “terrorismo di sinistra”, sempre che tale terminologia abbia un
senso per quello che riguarda l’Italia di quegli anni, sono impegnati essenzialmente
in una inutile battaglia: quella di riscrivere la storia di quegli anni per accattivarsi i
nuovi padroni al potere. Si aggrappano al linguaggio (il famoso dito) invece che ai
fatti (la luna): vogliono cancellare le stragi (da Portella della Ginestra in poi), le
mattanze di operai alle manifestazioni (centinaia di morti), le bombe fasciste, i
tentativi di colpo di stato (da la “Legge Truffa” al generale De Lorenzo tanto per
iniziare) , alle Gladio, alla lotta di liberazione nazionale di tanti paesi ancora
colonie del nord del mondo, alla repressione poliziesca e di magistrati che in
maggior parte avevano iniziato il loro lavoro sotto il fascismo, alla servitù agli USA
e alla NATO e così via. Questo e solo questo ha creato le condizioni della nascita
del cosiddetto “partito armato”. Basterebbe scavare nella storia italiana del
dopoguerra per trovare le cause che lo hanno generato e nutrito.
Continuando dalla domanda precedente, in un articolo in terza pagina del 19
dicembre, «L’Arena» fece un collegamento diretto tra gli attentati e la cultura
anarchica ottocentesca, citando Cafiero e Malatesta, e gli attentati contemporanei,
portando a supporto la presenza di Cohn Bendit al congresso di Carrara del 1968.
L’occhiello dell’articolo recitava significativamente «Da Bakunin a Bendit». Il
quotidiano veronese inoltre rimarcava spesso la natura “individualista” di voi
anarchici. Quali erano le vostre posizioni in merito all’anarchismo e all’uso della
violenza? E, in particolare, ci fu da parte vostra una risposta ad articoli come
quello citato, che collegavano una sorta di “cultura del terrorismo” tirando un file
rounge dall’Ottocento in poi?
Non ci fu, ne poteva esserci, nessun tipo di risposta a quei beceri e forcaioli
articoli (ma ce ne sono stati anche di peggio!) sia perché era praticamente
impossibile all’epoca conoscere quanto veniva pubblicato in altre città, ma anche e
soprattutto perché quando l’articolo a cui fai riferimento e tutti gli altri contro di
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noi vennero pubblicati, noi eravamo già in galera (io latitante) ed in uno stato di
isolamento totale durato 40 giorni. Va sottolineato per i più giovani – ma anche
per tanti smemorati di sinistra e di destra – che durante quei 40 giorni non fu ai
compagni possibile neanche incontrare un avvocato!
È quindi evidente che una volta tolto l’isolamento la prima e unica
preoccupazione fu essenzialmente quella di leggere gli atti e poter finalmente
rispondere a quella mole di ignobili e prefabbricate accuse. Forse sarebbe
interessante discutere di quanto peso abbiano avuto i media nella costruzione del
“mostro Valpreda” e della sua “banda di giovani idioti”, ma questo ci farebbe
deviare troppo dalla tua domanda e richiederebbe lo spazio di qualche libro e non
queste poche righe.
Però non posso tralasciare il fatto che l’articolo da te citato rientra proprio in
questo ambito di giornalismo-spazzatura o giornalismo-criminale come sarebbe
più corretto dire. In quel pezzo il giornalista Giuseppe Brugnoli riesce a
dimostrare una cosa soltanto: la sua malafede, la sua profonda ignoranza, il suo
servilismo verso l’autorità costituita e non da ultimo la sua scarsa professionalità.
Ricordiamo che siamo a pochi giorni dalla strage di piazza Fontana ed egli ha già
la sua granitica convinzione delle colpevolezza di un uomo, e quindi delle sue
idee, e questo soltanto sulla base di... qualche velina di polizia!
Lo stravolgimento che questo signore opera sull’ideale anarchico e sugli
anarchici richiederebbe la scrittura di un trattato solo per contestare le
carognesche falsità da lui scritte.
Egli estrapola a caso frasi di Malatesta o di Cafiero – sradicandole dal momento
e contesto storico in cui furono pronunciate – per arbitrariamente piegarle alla
spiegazione dei fatti dell’oggi! Questo signore parla della violenza anarchica
nell’Ottocento dimenticando completamente le guerre ed i massacri compiuti dei
regnanti dell’epoca (i vari monarchi o imperatori); della quasi totale mancanza di
diritti per le classi inferiori allora esistente (in Russia vi erano ancora forme di
schiavitù!). Rimuove totalmente il fatto che la fiducia nell'atto insurrezionale come
strumento di rinnovamento sociale, la speranza che bastasse solo un pugno di
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coraggiosi per dare un nuovo corso alle cose, fu tipica di tutto l'Ottocento
genericamente progressista ed in particolare "risorgimentale". Gli anarchici non
ebbero certo l'esclusiva di queste congiure. Prima di essi vi si erano dedicati i
carbonari, i mazziniani, gente che va da Ciro Menotti a Garibaldi, cui la
storiografia ufficiale si sente in dovere di tributare ben altro rispetto che a Cafiero,
a Bakunin o a Malatesta. E’ proprio vero che la storia la scrive sempre il vincitore!
Quel giornalista non ha neanche la più pallida idea dell’evoluzione del pensiero
di Malatesta, della sua battaglia contro certi tipi di individualismo e per la
creazione di una organizzazione anarchica. Non sa, ma pretende. Ignora, ma
sentenzia e condanna. Quanta beceraggine e che tristezza!
Sull’individualismo Malatesta scriveva a Luigi Fabbri (11 luglio 1913)
scherzosamente: «Per ciò che riguarda l’individualismo è una bestia che preferisco
nominare il meno possibile, perché si danno a quella parola tanti significati
diversi, che ogni volta che si pronuncia bisognerebbe aggiungere un capitolo di
spiegazioni. In un certo senso siamo tutti individualisti, anzi direi che siamo noi i
veri individualisti, ed in un altro senso l’individualismo è il borghesismo spinto
all’eccesso - e tra i due estremi si trovano tutte le gradazioni e tutti i miscugli
possibili»
La violenza di per sé, per gli anarchici, è nemica della libertà. Essa è una triste
necessità dell'anarchismo, ma solo nella fase negativa della distruzione delle forme
oppressive. Non posso parlare a nome degli altri compagni su questo punto
perché non è mai stato discusso tra di noi di queste cose. Posso dirti però il mio
punto di vista di allora (e credo che anche altri compagni del gruppo lo potessero
condividere): Io mi rifacevo al pensiero di Malatesta, all’idea che nessuno ha
diritto d’imporre con la forza, con la violenza, o la minaccia della violenza, agli
altri, - e con nessun pretesto, neppur quello di fare il loro bene -, le proprie idee, il
proprio modo di vivere e organizzarsi, o le leggi, ecc.
Logica conseguenza di tale assunto – almeno per me - è il pieno diritto dei
popoli e degli individui di ribellarsi ai governi ed ai padroni. Ribellione che in
sostanza non è altro che il «diritto di legittima difesa» contro le imposizioni
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coercitive dei secondi, i quali esercitano sui primi la loro oppressione e
sfruttamento per mezzo della violenza e con la minaccia della violenza o, che poi è
la stessa cosa, col ricatto della fame. Di qui la necessità della violenza
rivoluzionaria contro la violenza conservatrice dell’attuale organizzazione politica
ed economica della società.
Questa mia posizione nulla ha a che spartire con qualsivoglia forma di “cultura
del terrorismo”.
L’unico filo rosso che potesse esserci tra noi e gli anarchici dell’Ottocento era
quindi solamente “ideale”, nel senso che non rinnegavamo quegli atti, compiuti
con grande generosità e sacrificio individuale, ben tenendo presente che vi erano
distanze culturali e nella società stessa differenze abissali tra quell’epoca e la
nostra, come ho già cercato di spiegare.
Ti vorrei fare un'ultima domanda a cui, forse, hai già in parte risposto.
Parlando di terrorismo, uno storico autorevole quale Angelo Ventura ha scritto,
parlando delle diverse formazioni del "partito armato" negli anni Settanta, che
"non era in corso un pacifico dibattito politico culturale, ma una spietata guerra
unilaterale, dichiarata dal terrorismo contro lo Stato e la società civile". Secondo
te, si trattava davvero di una "guerra unilaterale" o c'era, forse, qualcosa di più?
Io cerco di parlare solamente delle cose che conosco per esperienza diretta o
che ho studiato a fondo e, in generale, non amo i tuttologhi. Nei primi anni ’70
ero già latitante (e poi, dal 1972, ero rifugiato in Svezia). Quindi posso dire ben
poco su cose che, quando lasciai l’Italia, erano ancora in stato embrionale.
Tenendo a mente questo, e il fatto che ancora non ho avuto l’opportunità di
leggere il libro di Ventura, spero mi si perdonino alcune eventuali inesattezze.
Come ho accennato precedentemente l’unica guerra unilaterale che ho potuto
vedere, e che ho subito sul mio corpo, è stata quella portata avanti dello Stato
stragista. Forse è il caso di sottolineare come in tutte le stragi avvenute in Italia si
siano poi potute trovare le tracce dei depistaggi e delle coperture date agli
99
attentatori da parte dei massimi vertici della polizia e dei vari servizi segreti oltre
che dai nostri governanti. Parlare quindi di “servizi” deviati o di “doppio Stato” è
totalmente risibile oltre che mistificatorio. Come mistificatorio è l’assimilare lo
Stato alla “società civile” come fossero la stessa cosa. Troppo facilmente ci si
dimentica che era la società stessa in quegli anni che manifestava e urlava per
chiedere giustizia e diritti per tutti, contro uno Stato immobile, arrogante,
repressivo, arretrato e clericale. Lo statuto dei lavoratori (pur con tutti i suoi
limiti) non venne forse approvato nel ’69? E la battaglia per il divorzio prima o
per l’aborto dopo, non mi sembra abbiano subito battute di arresto a causa ”del
terrorismo contro lo stato!!” all’epoca in atto. Ma stiamo scherzando? Vi era, vi è
sempre stata, una guerra unilaterale contro le classi più deboli, contro gli operai,
da parte dei poteri forti.
Dopo la strage di Stato alcune componenti della sinistra ritennero che fosse
giunto il momento di organizzarsi e rispondere a questa violenza. Di non lasciare
allo Stato ed ai fascisti il monopolio della violenza. Non vi fu una stagione del
terrorismo ma quella della lotta armata, che è cosa ben differente. Si può non
essere d’accordo ma non si può ignorare la sua genesi, la sua consistenza numerica
(anche come cultura di massa) e la sua lunga durata.
Per essere credibile Ventura ci dovrebbe spiegare con chi sarebbe stato possibile
affrontare un “pacifico dibattito politico culturale”: con lo Stato stragista? O forse
con i terroristi fascisti? Oppure con un PCI che capitolava ogni giorno di più verso
il potere ed i capitalisti e che sulle stragi si accontentava di fermarsi ai livelli bassi
per non toccare i poteri forti – colpevoli di quelle stragi – nella speranza un giorno
di arrivare nella cabina di comando. Ventura, come tanti i sui colleghi tende a
nascondere e modificare la verità storica invece di portarla alla luce del sole per
come realmente era e quindi poterla analizzare privi di occhiali ideologici.
100
RINGRAZIAMENTI
Fare ricerca credo sia mostrare il proprio debito nei confronti di chi ci ha
preceduto. Sono infatti convinto che una ricerca sia un lavoro collettivo. C'è
innanzitutto un lavoro collettivo e, successivamente, uno individuale. Tuttavia,
troppo spesso ci si dimentica del primo. Mi piacerebbe quindi ringraziare
innanzitutto tutti i professori e gli amici che, in diversi modi, mi hanno lasciato
qualcosa, negli studi come nella quotidianità, stimolando la mia personale ricerca
culturale, passando per la filosofia, l'antropologia, la comunicazione etc. Seppur
non sia possibile indicarli tutti, almeno il prof. Silvio Lanaro, che da poco è
venuto a mancare, è necessario ricordarlo non fosse altro perché il suo ultimo
corso di Storia Contemporanea ebbe come tema la destra italiana nel secondo
dopoguerra e, proprio lì, la mia passione per la storia dell'Italia repubblicana e per
la strage di Piazza Fontana ebbe modo di svilupparsi.
Un ringraziamento particolare va poi alla mia compagna, Domitilla, instancabile
segugio di errori nonché stimolo quotidiano e referente primo con cui discutere su
dubbi o, laddove ci siano, certezze da verificare. Altrettanto importante è stata la
mia famiglia senza di cui probabilmente non sarei nemmeno arrivato a laurearmi;
nonostante tutte le difficoltà il percorso scolastico è stato messo al primo posto
nella mia vita ed è stato fatto testardamente anche quando, per me, aprire un libro
era un peso. Un ringraziamento va poi all'Istituto veronese per la Storia della
Resistenza e dell'Età Contemporanea, in cui ho avuto la fortuna di fermarmi per
un periodo di tirocinio e in cui ho potuto consultare i documenti utilizzati nel
primo capitolo, e ai funzionari della Biblioteca Civica di Verona, sempre molto
cortesi e disponibili, in cui ho consultato «L'Arena». Infine, certo non per
importanza, un ringraziamento va al prof. Focardi che, prima ancora come
101
professore, devo ringraziare per lo spirito umano, mai categorico e autoritario,
sempre aperto e disponibile che ha avuto nei miei confronti e, credo, nei confronti
di tutti gli studenti.
Ogni responsabilità di quanto scritto e per eventuali errori è ovviamente mia.
102
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