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Sezione VI; decisione 12 febbraio 1980, n. 159; Pres. Laschena, Est. Noccelli; Comune diTerracina (Avv. Colacino) c. Soc. Stemar (Avv. M. Nigro, Ranaldi, Sciacca). Conferma T.A.R.Lazio, Sez. II, 23 maggio 1979, n. 351Source: Il Foro Italiano, Vol. 103, PARTE TERZA: GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA (1980),pp. 237/238-245/246Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23171160 .
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GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA
organico di origine) ed una riparazione economica per maggiori
spese e per disagi legalmente presunti. Ma oltre al diritto a percepire l'indennità di missione in base
all'art. 53 legge n. 1034/1971, il Giambartolomei ha anche lo
status di impiegato comunale, comandato a prestar servizio
presso una amministrazione dello Stato (art. 10, penultimo com
ma). Questo status, che nella fattispecie ha profili peculiari con
sistenti nella durata indeterminata e nell'esclusione di una espres sione di volontà da parte dell'interessato per il suo conferimento,
comporta tra l'altro che il Giambartolomei non ha altra sede di
servizio che quella di destinazione, cioè Roma (circ. della presi denza del Consiglio dei ministri n. 82638 del 22 dicembre 1973).
In conseguenza, in applicazione di un principio generale del
pubblico impiego chiaramente enunciato nell'art. 12 t. u. 10 gen naio 1957 n. 3, ir predetto dipendente comunale ha anche l'ob
bligo di « risiedere nel luogo ove ha sede l'ufficio cui è desti
nato ».
Il termine risiedere è usato nel citato art. 12 nel suo signi ficato tecnico-giuridico di « avere la dimora abituale » (art. 43
cod. civile). Ha, cioè, il medesimo significato della espressione usata nell'art. 3 legge n. 836/1973, quando stabilisce che l'in
dennità non è dovuta per le missioni compiute « nelle località
di abituale dimora ».
È, quindi, evidente che non possono trovare applicazione con
temporaneamente l'art. 53 legge n. 1034/1971 (che concede il
diritto all'indennità di missione), l'art. 12 t. u. n. 3/1957 (che
impone al dipendente la dimora abituale in Roma) e l'art. 3
legge 836/1973 (che esclude l'indennità per le missioni nella lo
calità di abituale dimora). Nel contrasto, quest'ultima norma deve cedere, poiché vani
ficherebbe alla radice il diritto all'indennità concessa. Essa, è,
quindi, inapplicabile. Per completezza è bene chiarire che è del tutto ininfluente
sulla questione in esame la residenza anagrafica, sulla quale si
sofferma l'amministrazione.
In relazione al disposto dell'art. 2 legge n. 1228/1954 e del
l'art. 11 d. pres. n. 136/1958, chiunque fissa la dimora abituale
in un comune è tenuto a richiedere la relativa iscrizione anagra fica entro venti giorni (salvo le eccezioni stabilite).
Ma l'adempimento — o l'inadempimento — di questo ob
bligo amministrativo non ha alcuna rilevanza, sia ai fini del do
vere sostanziale di tutti gli impiegati addetti alla segreteria del
T.A.R. di risiedere in Roma, sia ai fini dell'applicazione del
l'art. 3 legge n. 836/1.973. Come si è già detto, queste norme tengono solo conto dell'ef
fettività della dimora abituale, secondo concezioni simili a quel le analiticamente approfondite dalla dottrina e dalla giurispru denza in occasione delle controversie per un tributo comunale
oggi abrogato: l'imposta di famiglia. Per le ragioni suesposte l'appello dell'avvocatura generale deve
essere respinto e respinta si deve intendere la domanda di so
spensione della sentenza appellata. Sussistono, però, giuste ra
gioni per disporre l'integrale compensazione delle spese ed ono
rari di giudizio. Per questi motivi, ecc.
CONSIGLIO DI STATO; Sezione VI; decisione 12 febbraio
1980, n. 159; Pres. Laschena, Est. Noccelli; Comune di Ter
racina (Aw. Colacino) c. Soc. Stemar {Aw. M. Nigro, Ra
naldi, Sciacca). Conferma T.A.R. Lazio, Sez. II, 23 maggio 1979, n. 351.
Edilizia e urbanistica — Cava — Difetto di concessione di costru
zione — Provvedimenti cautelativi e repressivi — Illegittimità
(Legge 28 gennaio 1977 n. 10, norme per la edificabilità dei suo
li, art. 1, 4, 13, 15; d. pres. 24 luglio 1977 n. 616, attuazione
della delega di cui all'art. 1 legge 22 luglio 1975 n. 382, art.
62, 80).
Sono illegittimi i provvedimenti cautelativi e repressivi nei con
fronti dell'attività di coltivazione di una cava, adottati dal sin
daco sul presupposto che per l'esercizio di tale attività sia ne
cessaria la concessione di costruzione (nella motivazione è pre cisato che è la legislazione regionale, per il Lazio ancora non
emanata, che deve disciplinare l'attività estrattiva per armoniz
zarla con le esigenze urbanistiche). (1)
(1) La soluzione accolta dal Consiglio di Stato, sulla base della normativa della legge 28 gennaio 1977 n. 10, è quella che era
dominante nel diritto pre-vigente: v. la nota di Montanari alla sentenza del T.A.R. Emilia-Romagna 27 novembre 1975, n. 554, Foro
La Sezione, ecc. — Diritto — La sezione è chiamata a pro nunciarsi sul complesso problema se le attività cosiddette estrat
tive cadano o meno sotto la disciplina urbanistica e se, quindi, sia o meno necessaria per l'apertura e coltivazione di cava (per tale sola attività, con esclusione degli impianti ed altre opere edi
lizie in senso proprio) la concessione prevista dall'art. 1 legge n. 10/77.
Prima dell'entrata in vigore di quest'ultima legge la questione era stata risolta in senso prevalentemente negativo dalla giurispru denza (cfr., ad es., Sez. V 22 giugno 1964, n. 574, Foro it., Rep. 1964, voce Piano regolatore, nn. 438, 453), soprattutto dopo la in
terpretazione riduttiva che della materia « urbanistica » aveva da
to la Corte costtiuzionale con la sentenza n. 141 del 1972 (id.,
1972, I, 3348) (si vedano: Sez. V 17 aprile 1973, n. 406, id.,
Rep. 1973, voce Edilizia e urbanistica, n. 312; T.A.R. Toscana 14
novembre 1974, n. 149, id., Rep. 1975, voce Miniera, n. 20; 23
aprile 1975, n. 134; T.A.R. Piemonte 10 dicembre 1975, n. 356,
id., Rep. 1976, voce cit., n. 11; T.A.R. Marche 20 maggio 1975, n. 50, id., Rep. 1975, voce cit., n. 22; 7 novembre 1975, n. 135,
id., Rep. 1976, voce Edilizia e urbanistica, nn. 333, 574; T.A.R.
Veneto 10 febbraio 1976, n. 108, id., Rep. 1976, voci Edilizia e
urbanistica, n. 113, Miniera, n. 10, Veneto, n. 13; la decisione
Sez. VI 29 aprile 1975, n. 135, id., 1976, I, 57, pur riconoscendo
che il giudizio sulla compatibilità delle attività estrattive con gli strumenti urbanistici spettasse al comune, limitò tuttavia la por tata di questa affermazione alle « opere » eventualmente necessa
rie per l'esercizio dell'impresa mineraria). L'unico precedente con
trario, costituito da T.A.R. Emilia-Romagna 27 novembre 1975, n.
554 (id., 1977, III, 107), è stato tuttavia seguito da numerose pro nunce successivamente all'entrata in vigore della legge n. 10/77
(T.A.R. Toscana 22 marzo 1978, n. 105; T.A.R. Veneto 24 otto
bre 1978, n. 879; 28 febbraio 1979, n. 1; T.A.R. Lombardia, Sez.
Brescia, 9 febbraio 1979, nn. 54 e 55, id., 1979, III, 535; Pret.
Pavia 16 giugno 1978; Pret. Salò 6 marzo 1979, id., 1979, II, 463).
I) - La tesi prevalentemente seguita dalla più recente giurispru denza degli organi di primo grado della giurisdizione ordinaria e
amministrativa si basa essenzialmente sulla portata asseritamente
innovativa dela legge n. 10/77, che avrebbe concluso un lungo
processo evolutivo della legislazione tendente a realizzare una
graduale « socializzazione della proprietà delle aree » e quindi a comporre, in una visione pianificata e unitaria dell'uso di
tutte le risorse del territorio, la molteplicità degli interessi ine
renti alle esigenze di vita delle comunità di base.
La tesi, per quanto suggestiva e confortata da argomenti anche
d'ordine testuale tutt'altro che irrilevanti, non può tuttavia con
dividersi.
II) - Si può o meno convenire che i postulati sociologici e po litici che sottendono a questa visione, per cosi' dire, integrata e
globale (altri usa il termine di panurbanesimo) della molteplicità di interessi inerenti alla gestione e al governo del territorio; è an
che probabile che vi sia uno sviluppo, nella concezione socio
economica dell'urbs (la città-regione, come da taluno è stata de
finita), tendente a focalizzare nella sede cittadina il centro pro
pulsore di tutte le attività esplicantisi nell'ambito territoriale del
la regione, e quindi a individuarvi anche il luogo dove si com
pongono, armonizzandosi, la globalità degli interessi e dei biso
it„ 1977, III, 107, che, però, con presa di posizione isolata, già al
lora aveva richiesto la licenza edilizia per la coltivazione di una cava, in base ad una disposizione di un regolamento edilizio, considerata
meramente esplicativa di quanto già desumibile dalla legislazione ur
banistica. Comunque, nella nota suddetta era richiamata Cons. Stato, Sez. V, 29 aprile 1975, n. 135, id., 1976, III, 57, con nota di Pia, un obiter dictum della cui motivazione avrebbe già adombrato la so
luzione della necessità della licenza edilizia. Soluzione che è stata generalmente accolta dai tribunali ammini
strativi regionali, dopo l'entrata in vigore della legge n. 10 del 1977:
T.A.R. Lombardia, Sez. Brescia, 9 febbraio 1979, nn. 54 e 55, id.,
1979, III, 535, con nota di richiami di precedenti in tale senso, ai
quali adde, successivamente, nel medesimo senso, T.A.R. Piemonte
27 giugno 1979, n. 329, Trib. amm. reg., 1979, I, 2541; T.A.R. Emilia
Romagna, Sez. Bologna, 5 aprile 1979, n. 161, ibid., 1710; T.A.R. Ve
neto 28 febbraio 1979, n. 31, ibid., 1200; T.A.R. Sardegna 8 novem
bre 1978, n. 391 (in relazione ai bacini di estrazione del cloruro di
sodio), ibid., 357; T.A.R. Veneto 24 ottobre 1978, n. 879, id., 1978,
I, 4542. T.A.R. Toscana 7 giugno 1978, n. 270, ibid., 3403, ha ri
chiesto la concessione edilizia per opere collegate funzionalmente
alla coltivazione di una cava, nella specie una strada.
£ la presa di posizione della decisione ora riportata, e della confer
mata sentenza T.A.R. Lazio, Sez. II, 23 maggio 1979, n. 351, che
perciò appare adesso isolata; ma il divario è molto meno ampio di
quel che possa apparire a prima vista: la opposta giurisprudenza dominante dei tribunali amministrativi regionali si basa largamente sulla legislazione regionale integrativa di quella statale, che appunto mancava nella regione nel cui territorio è sita la cava in questione.
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PARTE TERZA
gni emergenti dalla vita associata del gruppo insediato nel ter
ritorio.
Ma sarebbe erroneo e fuorviante muovere dalla rilevazione di
un certo contenuto sociale e politico — aprioristicamente indivi
duato — per ricucirvi sopra nozioni, istituti, interi sistemi giuri dici, perché — quali che siano i rapporti intercorrenti tra realtà
normativa e realtà sociale — i concetti giuridici vanno desunti
esclusivamente dal sistema positivo, nel quale le norme (che tut
te insieme compongono un ordine ideale, in certo modo contrap
posto al contingente e mutevole fluire della realtà fattuale) si com
pongono secondo una gerarchia di scelte e di valori non sindaca
bile da parte dell'interprete. Il problema, quindi, non è quello di postulare l'esigenza di una
disciplina integrata dalla pianificazione territoriale — sul che po
trebbe, in ipotesi, convenirsi — sibbene quello di individuare qua li strumenti operativi a tale scopo appresti l'ordinamento, e so
prattutto quali moduli organizzativi questo ordinamento, nella sua
globalità, utilizzi al fine di far corrispondere nella massima mi
sura le strutture giuridiche con i processi di sviluppo spontanei della comunità di base.»
Ili) - Una corretta esegesi della legislazione statale relativa alle
materie che qui interessano non consente di accedere a una no
zione si lata della materia urbanistica da ricomprendervi ogni at
tività programmata di utilizzazione del territorio.
È certamente vero che si può individuare un linea di tendenza
nell'ordinamento positivo verso una disciplina integrata delle va
rie materie attribuite alle potestà, legislativa e amministrativa, del
le regioni, com'è vero anche che la legislazione regionale nel suo
complesso tende a pianificare a sua volta in modo uniforme e glo bale i molteplici possibili usi delle risorse territoriali.
Ma questo non vuol dire, o non vuol dire ancora, che la distin
zione tra le varie materie, già consacrata dalla Costituzione (art.
117), non conservi la sua rilevanza ad altri fini, e più precisa mente al fine di definire esattamente i rapporti tra lo Stato e le
altre articolazioni territoriali, da un lato, e, dall'altro lato, i con
fini interni, per cosi dire, tra le varie sfere di competenza perti nenti al complesso regioni-enti territoriali minori. La pianifica zione totale del territorio, quindi, se può considerarsi il punto
d'approdo della completa attuazione dell'ordinamento regionale, non vale a caratterizzare un contenuto tipico della materia urba
nistica quale definita dall'art. 1 legge n. 10/77.
Appare infatti evidente che la distinzione concettuale tra « in
cremento edilizio » e « sviluppo urbanistico » — distinzione che
il comune appellante cerca di valorizzare al massimo, in questa sede, per avallare la tesi di una innovazione decisiva introdotta
dall'art. 1 legge n. 10/77 della nozione tradizionale di urbanisti
ca — era già presente nell'art. 1 della legge n. 1150/42, e non va
dimenticato che l'art. 7 della stessa legge, ancora prima delle mo
difiche apportate dalle leggi n. 765/67 e n. 1187/68, tale distin
zione poneva a fondamento del processo pianificatorio dell'intero
territorio comunale, appunto contrapponendo la programmazione dell'attività edilizia in senso stretto a quello avente ad oggetto le
direttrici di espansione dell'aggregato urbano, nonché l'individua zione delle aree da destinare ad opere ed impianti di interesse
collettivo e sociale; la circostanza, poi, che l'obbligo della pre via licenza edilizia fosse previsto inizialmente per le sole costru
zioni da eseguirsi nei centri abitati significa solo che il legislatore del 1942 non riteneva necessario alcun controllo sulle attività co
struttive svolgentisi al di fuori dei centri abitati e delle eventuali direttrici di espansione; non significa però che il potere pianifica torio del comune — e quindi la disciplina urbanistica — non po tesse estendersi all'intero territorio comunale.
Non è tuttavia contestabile che una evoluzione vi sia stata nel la nozione di urbanistica e nella individuazione dei limiti del con nesso potere pianificatorio demandato alle autorità comunali; se il vecchio regolamento edilizio (art. 23 legge n. 1150/42) prescri veva soltanto astratte misure di valori e rapporti; se il piano re
golatore, il programma di fabbricazione, e via via gli altri stru
menti urbanistici previsti da leggi speciali, devono invece indivi duare anche le linee di sviluppo dell'aggregato urbano e loca lizzare gli interventi sul territorio preordinati ad assicurare « stan dards » minimi di servizi sociali (cfr. art. 1 legge 19 dicembre 1968 n. 1187, che modifica l'art. 7 legge urbanistica; art. 18, 8° e 9s comma, legge n. 765/67; d. m. 2 aprile 1968); se, infine, le
esigenze di vita delle collettività insediate sul territorio hanno reso indispensabile un ampliamento e una specificazione del con cetto di « opere di urbanizzazione », i cui costi sociali si è ritenu to indispensabile redistribuire in modo più equo per la comunità
(cfr., part. art. 8 legge n. 765/67 per le lottizzazioni convenzio
nate, e, ora, art. 3 legge n. 10/77; il graduale ampliamento del concetto di urbanizzazione si può seguire attraverso la lettura
degli art. 10 legge 16 aprile 1962 n. 167, 4 legge 29 settembre
1964 n. 847, 44 legge 22 ottobre 1971 n. 865), tutto ciò dimostra un progressivo evolversi ed espandersi della disciplina urbanistica in senso lato, che tenda a concretizzarsi nei suoi contenuti e nei suoi scopi, ponendosi essa stessa come fattore di propulsione dello
sviluppo ordinato della comunità territoriale; in questa più lata
accezione, quindi, la pianificazione urbanistica abbraccia certa
mente non le sole attività costruttive ma attività molteplici, come ad esempio l'individuazione di aree destinate a usi sociali, la distri buzione razionale degli spazi e delle forme che vi ineriscono, la
localizzazione delle iniziative industriali e commerciali, più in
genere gli impieghi di riserve, individuali e sociali, volte ad assi curare standards minimi di servizi « a livello d'uomo ».
Ma si tratta — come risulta evidente dal complesso di norme
testé richiamate — pur sempre di attività che attengono alle ne
cessità di vita connesse con il « fatto » di un insediamento abita
tivo; interventi, localizzazioni, opere di urbanizzazione, più in ge nere distribuzione di spazi e adeguamenti di forme e strutture, sono volti a realizzare una crescita ordinata, in senso edilizio urbanistico appunto, della comunità in quanto stabilmente inse diata sul territorio; e sono quindi le specifiche esigenze di vita sottese dallo sviluppo dell'urbs i fattori che condizionano la
pianificazione urbanistica e sono da questa condizionati. È sintomatico, in proposito, che l'unico « valore » esterno ai
contenuti urbanistici come sopra definiti (cioè l'interesse alla con
servazione e alla valorizzazione dei beni « ambientali ») viene fatto
oggetto di specifica e puntuale considerazione normativa (cfr. art.
7, n. 5, legge 1150, modif. dalla legge n. 1187/68, e art. 10, lett. c,
legge n. 1150 modif. dall'art. 3 legge n. 765/67) al fine di sottrarne
la tutela all'iniziativa esclusiva del comune (cfr. art. 10, 3° comma,
legge n. 1150/42); e non è un caso che, pur nella visione « panur banistica » cui si ispira — secondo la tesi della prevalente giu risprudenza cui si è fatto cenno sub n. 1 — l'art. 80 d. pres. n.
616/77, le funzioni urbanistiche trasferite alle regioni (d. pres. 15
gennaio 1972 n. 8, specialmente art. 1, lett. d), non comprendono la salvaguardia dei valori ambientali, la cui individuazione è solo « delegata » alle regioni medesime (cfr. art. 82 d. pres. n. 616/77).
IV) - La legislazione mineraria corre parallelamente a quella urbanistica, senza mai presentare punti di interferenza o di con
tatto.
Si è già ricordato come l'art. 10, lett. c), legge n. 1150/42 pre vede, nel procedimento di formazione del piano regolatore gene rale, un momento di partecipazione di autorità diverse dall'ente comune per la tutela di valori che trascendono la dimensione (in senso geografico e socio-economico) del territorio comunale, si
può aggiungere, ora, la considerazione che gli stessi valori ven
gono in rilievo in altri provvedimenti legislativi specifici, dove si
pongono quali limiti proprio all'attività imprenditoriale di sfrut
tamento minerario (cfr. la legge 29 novembre 1971 n.1097, recante
norme per la tutela delle bellezze naturali e ambientali e per le
attività estrattive nel territorio dei Colli Euganei, ritenuta costitu zionalmente legittima da Corte cost. 20 febbraio 1973, n. 9, id.,
1973, I, 371).
Epperò la rilevanza economica generale delle attività estrattive è messa in luce dalla stessa legislazione statale in materia di bel lezze naturali, se è vero — com'è vero — che la commissione
competente a individuare tali beni ambientali deve essere inte
grata da un esperto minerario, ai sensi dell'art. 2 legge 29 giugno 1939 n. 1497 (sulla obbligatorietà di tale partecipazione, cfr. Sez. VI 29 aprile 1975, n. 135, id., 1976, III, 57) e che, inoltre, a tu tela dell'ambiente non già divieti assoluti, ma solo prescrizioni di limiti e distanze possono essere imposti alle attività estrattive (art. 11 legge n. 1497/39); ed è molto significativo, in proposito — co me sopra detto — che anche l'ultimo provvedimento legislativo di attuazione dell'ordinamento regionale riservi allo Stato il giu dizio finale di compatibilità dell'attività economica di coltivazione
di cava con le esigenze di tutela dell'ambiente, limitandosi a « delegare » alle regioni la funzione relativa (cfr. art. 82 d. pres. n. 616/77).
Tutto questo dimostra — ad avviso della sezione — che la ma teria delle cave e torbiere, già individuata dalla Costituzione co me affatto separata e distinta dalla materia urbanistica (art. 117
Cost.), non è stata confusa con questa neppure dalla legislazione statale sopravvenuta al testo costituzionale; né avrebbe potuto esserlo.
Quale che sia, infatti lo « statuto » della proprietà avente ad
oggetto terreni coltivabili a cava — si tratti, cioè, di un diritto di
proprietà ad esercizio obbligato, o di un diritto funzionalizzato a un fine pubblico, o di una situazione soggettiva di altro genere, inserita in una disciplina di settore che ne accentua il carattere strumentale rispetto ai fini produttivi di ordine generale — certo è che il bene-cava ha una sua rilevanza socio-economica che ne
sottrae la disciplina alla mera logica del profitto privato, perché — come chiaramente è stato messo in luce dalla Corte cost. 9
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GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA
marzo 1967, n. 20 (id., 1967, I, 1135) — vi ineriscono natural
mente interessi di dimensione superindividuale, talché la fisiono
mia giuridica del diritto sulla cava è tale da inglobare in sé un
valore pubblico, non dissociabile dall'interesse privato che ne è
alla base.
Ma, se questa è la natura del bene, al di là della formale impu tazione soggettiva del diritto che vi si sovrappone, se, cioè, il be
ne in quanto tale, nella sua funzione oggettiva, si appartiene alla
collettività (che può sottrarne la « disponibilità » al proprietario senza indennizzo, attivando quel « valore » economico generale che è dentro, e non fuori, la struttura stessa del diritto di pro
prietà), si comprende allora il significato della distinzione costitu
zionale tra « materie » oggettivamente diverse quali appunto la
materia delle cave e quella urbanistica — poiché appunto di
versi sono i poteri di pianificazione e di concreta disciplina de
mandati in tali materie alle organizzazioni territoriali minori, e
diversi devono anche essere nel disegno costituzionale — le nor
me di principio della legislazione statale nell'una e nell'altra
materia.
Uno sviluppo tendenziale della pianificazione urbanistica verso
ogni possibile forma di utilizzazione del territorio — qual'è quel lo postulato dall'indirizzo giurisprudenziale più recente di cui si
è detto — altro non vuol dire che appropriazione, da parte del
l'ente territoriale minore, di funzioni che la Costituzione vuole
siano esercitate dall'ente maggiore, e significa anche, al di là di
ogni apparenza, necessità di ripianificazione del territorio secon
do principi fondamentali già cristallizzati nella legislazione statale
urbanistica, con ulteriore limitazione della potestà legislativa re
gionale anche in materie e settori oggettivamente diversi da
quelli che specificamente concernono lo sviluppo urbano.
V) - Vero è invece che la discontinuità e la frammentarietà del
la legislazione statale, articolata secondo rigide divisioni di com
petenze e con molteplici discipline di settore, sono destinate a ve
nir meno con il concreto esercizio della potestà legislativa regio nale nelle varie materie che all'ente-regione riserva la Costitu
zione.
Ma questo vuol dire che la regione, e non altri, è l'ente rap
presentativo della totalità degli interessi emergenti dalla dimen
sione territoriale — costituzionalmente definita — della comunità
che in essa si organizza e giuridicamente si esprime: alla regione, e non ad altri, Costituzione e leggi statali attuative demandano
l'approvazione dei piani territoriali di coordinamento (art. 5 leg
ge n. 1150/42; art. 1, lett. a, d. pres. n. 8/72, art. 1, lett. d), dei
piani di zona per l'edilizia popolare ed economica (d. pres. n. 8/72, art. 1, lett. /), la redazione e approvazione dei piani territoriali
paesistici (art. 5 legge n. 1497/39, art. 1, lett. c, d.pres. n. 8/72),
l'approvazione dei piani di assetto del territorio e le indicazioni
programmatiche e di urbanistica commerciale vincolanti per i
piani di sviluppo e adeguamento della rete commerciale del co
mune (art. 11, 12, 13 e 14 legge 11 giugno 1971 n. 426, art. 32
d. m. 14 gennaio 1972, modif. dall'art. 21 d. m. 28 giugno 1976, che approva il regolamento di esecuzione della legge n. 426),
l'approvazione dei piani regolatori, delle aree e dei nuclei di
sviluppo industriale (art. 146 t. u. delle leggi sugli interven
ti del Mezzogiorno approvato con d. pres. 30 giugno 1967 n.
1523; art. 4 legge 6 ottobre 1971 n. 853), la redazione dei piani di risanamento delle acque (art. 4 legge 10 maggio 1976 n. 319), e cosi via.
La pianificazione urbanistica, quindi, va integrata, armonizzata
e coordinata con altre forme e tipi di intervento sul territorio, ed
è chiaro che non può essere il comune, ente territoriale minore, a mediare tali e tanti interessi di diverso segno, che la Costitu
zione vuole invece siano espressi a livello regionale.
Quel che si nega in questa sede è che nell'attuale momento sto
rico, in questo sistema giuridico e politico, l'ente-comune abbia
tali caratteristiche da assumere idoneità rappresentativa assoluta
ed esclusiva (o comunque prevalente) di tutti gli interessi della
comunità, in guisa da porsi come luogo esclusivo di mediazione
di quegli interessi e centro — unico o principale — di propul sione di ogni attività di gestione del territorio. A una siffatta
dilatazione dei poteri comunali, che si vorrebbe avallare attra
verso l'estensione della funzione di pianificazione urbanistica, oste
rebbe, ove non bastassero le precedenti osservazioni, la disposi zione dell'art. 118 Cost., che solo per materie «di interesse esclu
sivamente locale » consente che la legge statale ordinaria intro
duca limiti alle potestà legislativa e amministrativa delle regioni.
VI) - Le considerazioni svolte sub n. V) spiegano anche come
non sia sufficiente, per giustificare l'attrazione indiscriminata nel
la « materia » urbanistica di ogni possibile tipo di utilizzazione
del territorio, il riferimento alla potestà pianificatoria generale che oggi spetta alla regione in virtù del trasferimento delle varie
materie previste dall'art. 117 Cost. Se queste materie fossero state
riconducibili nell'ambito della pianificazione edilizia e urbana —
come si pretende in questa sede da parte del comune appellante anche in base al dato formale fornito dall'art. 80 d. pres. n.
616/77 — l'armonizzazione tra le varie forme d'uso del territo rio sarebbe consentita, alla regione, entro i ristretti limiti indi cati dall'art. 10 della legge n. 1150/42 (come modif. e integrato dall'art. 3 legge 765/67 e dall'art. 1, capov., legge n. 291/71);
poiché appunto la legislazione urbanistica statale si imporrebbe come legge di principio alla potestà pianifìcatoria della regione in tutte le materie riconducibili, secondo la tesi che qui si re
spinge, a quella urbanistica.
Ciò dimostra ancora una volta che la necessità di distinguere tra le varie materie, e quindi di delimitare i settori entro cui si esercitano le potestà pianificatone del comune e della regione, na sce dal disegno costituzionale (cui non potrebbero introdurre
deroghe leggi statali ordinarie), e resta viva anche dopo che l'ente
regione abbia, in ipotesi, disciplinato con proprie leggi l'una o
l'altra o tutte insieme le materie di propria competenza.
VII) - L'eccezione, sollevata in questa sede dalla difesa del co
comune, secondo cui una considerazione riduttiva dell'ambito ur
banistico finirebbe con lo svuotare la potestà pianifìcatoria del
l'ente territoriale minore, è certamente valida ma non decisiva.
Indubbiamente la pianificazione del territorio sotto il profilo edilizio-urbanistico tende ad abbracciare l'intera estensione del
territorio comunale (cfr. i già citati art. 1 e 7 legge n. 1150/42 con successive modificazioni), e si è già visto come nell'eserci
zio delle funzioni ad essa attribuite, in tale materia, la regione non possa modificare sostanzialmente le scelte operate dal co
mune. Ma proprio questo rilievo induce a contenere la nozione di « urbanistica » entro confini ontologicamente definiti, perché solo in tal modo è possibile individuare gli interessi sostanziali
alla cui tutela la disciplina urbanistica è precisamente rivolta e
quindi delimitare la potestà di programmazione dell'ente terri
toriale minore rispetto alla più vasta gamma di interessi coin
volti alla gestione globale del territorio (che per espressa volon tà del costituente spetta all'ente regione).
Il pericolo, paventato dal comune appellante, che interventi
episodici e settoriali possano pregiudicare l'attuazione del piano urbanistico, esiste certamente, ma questo significa che se la pro
grammazione urbanistica può abbracciare l'intero territorio co
munale, in senso geografico, ha tuttavia anche dei limiti intrin
seci, quali appunto sono quelli segnati dalla rilevanza di altri
interessi — diversi da quelli urbanistici — diversamente e au
tonomamente considerati dall'ordinamento; si tratta, comunque, di un pericolo transitorio, discendente (non dalle lacune della
disciplina statale delle cave e torbiere, bensì') dall'inerzia degli
organi regionali, chiaro essendo che questo inconveniente è de
stinato a venir meno nel momento stesso in cui l'ente regione
provvede a legiferare nelle varie materie e ad armonizzarle, pro
grammando in modo sistematico e con procedure razionalmente
articolate tutti i possibili tipi di intervento sul territorio.
Vili) - Alcune leggi regionali (che sono pur sempre parte dell'ordinamento generale dello Stato, e non vanno quindi tra
scurate dall'interprete nella analisi del sistema intesa a ricostrui
re i caratteri di un istituto giuridico valido anche per l'ordina
mento regionale) rivelano la tendenza delle regioni medesime a
svolgere nel modo più giusto questa funzione di unificazione e
mediazione di molteplici interessi refluenti nel processo pianifi catorio del territorio. Si possono ricordare, tra le più recenti, la
legge reg. Emilia-Romagna 2 maggio 1978 n. 13, che prevede
piani comprensoriali e comunali delle attività estrattive (aventi efficacia di « variante specifica agli strumenti urbanistici vigen ti ») e delega al sindaco il rilascio delle necessarie autorizzazio
ni; la legge prov. Trento 12 dicembre 1978 n. 59, che predispone un complesso procedimento volto a contemperare gli interessi
economici delle attività estrattive con le scelte urbanistiche, e
conferisce all'autorizzazione del sindaco — quando appunto si
tratti di coltivazione di cave — natura di provvedimento di
controllo attuativo delle scelte di piano; la legge reg. Piemonte
22 novembre 1978 n. 69, che impone ai sindaci di apprestare le necessarie varianti agli strumenti urbanistici quando vengono
scoperti nuovi giacimenti di cava, e attribuisce all'autorizzazio
ne (che è regionale quando vi sia contrasto con le destinazioni
del piano urbanistico) valore e funzione di « atto di avvio del
procedimento di variante » dello strumento pianificatorio comu
nale.
In senso più o meno analogo dispongono le leggi reg. del Friuli
Venezia Giulia 16 agosto 1974 n. 42, dell'Umbria 2 settembre
1974 n. 53, della Lombardia 14 giugno 1975 n. 92, nelle quali
non solo si prevede la programmazione dell'attività di cava e il
suo assoggettamento a regime autorizzatorio, ma in diversa mi
sura si impongono all'imprenditore privato oneri vari per la col
tivazione del giacimento e per il recupero ambientale dei ter
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PARTE TERZA
reni interessati dagli scavi (si vedano, in particolare, l'art. 6
legge Friuli-Venezia Giulia n. 42/1974; l'art. 13 legge Umbria n. 53/74; gli art. 2, 4 e 14 legge Lombardia n. 92/75; ecc.).
Il complessivo disegno enucleabile da questa copiosa legisla zione regionale è quello di un quadro programmatico globale, nel quale la disciplina urbanistica entra come una componente, e neppure la più rilevante, della complessiva pianificazione del l'assetto territoriale.
Ora, se la Regione Lazio non ha ancora provveduto a disci
plinare con legge le attività estrattive (vi è agli atti del processo un disegno di legge, in ordine al quale, peraltro, il commissario del Governo ha mosso rilievi), i paventati pregiudizi che da ini
ziative imprenditoriali episodiche e scoordinate possono derivare alla attuazione degli strumenti urbanistici devono essere impu tati a questa inerzia della regione, non certo alla distinzione, che si impone per la tutela di superiori esigenze, tra la materia
urbanistica ed altre materie, nelle quali le scelte del comune non
possono interferire; estendere la nozione di « urbanistica » sino a comprendervi attività preordinate a realizzare interessi di di versa natura e dimensione, al solo scopo di scongiurare il rischio che una utilizzazione sfrenata e indiscriminata delle risorse mi nerarie pregiudichi le direttrici di espansione urbana quali pre figurate in sede di pianificazione comunale, significa eliminare
un inconveniente sostituendolo con altri e più difficili problemi, e non è certo con questo mezzo che può realizzarsi, nella inter
pretazione degli istituti giuridici, l'unità e la razionalità del si
stema.
È più logico quindi pensare che la rilevanza economica delle
attività lavorative estrattive, che non rispondono a una logica meramente privatistica, come messo in rilievo sub n. IV, si pon
ga quale limite intrinseco alla potestà pianificatoria del comune, ma anche come un obiettivo di sviluppo realizzabile — e dove
rosamente da realizzare — ad opera della pianificazione regio nale. Ed alla regione spetterà di armonizzare, nell'ambito dei
programmi economici nazionali e dei principi fondamentali del
l'ordinamento, questa molteplicità di interessi, molti dei quali di opposto segno, operando scelte oculate e predisponendo pro cedure integrate al fine di assicurare la partecipazione di tutti
i soggetti, privati e pubblici, interessati alla complessiva gestio ne del territorio.
IX) - Da tutto quanto sopra detto risulta chiaro "che la legge c. d. Bucalossi, non può applicarsi alle attività estrattive in ge nere, e a quelle concernenti lo sfruttamento dei giacimenti di
cava, in specie. Non va dimenticato poi che la più profonda innovazione in
trodotta — secondo la prevalente opinione — dalla legge n. 10
del 1977 concerne il mutamento del regime proprietario per ciò
che attiene all'esercizio del c. d. ius aedificandi, essendosi avocata
alla mano pubblica l'uso di questa facoltà, che tradizionalmente
è stata intesa come potere di utilizzazione del suolo a fini edi
ficatori.
Lo sfruttamento delle risorse minerarie, peraltro, è una ti
pica attività d'impresa, riconducibile — è vero — a talune delle « facoltà » insite nel diritto dominicale, ma tale da costituire
oggetto di un'autonoma considerazione normativa proprio per la
particolare natura del bene sul quale l'attività stessa si esercita.
Il passaggio da un regime di piena libertà, quale quello pre
figurato dalla legislazione statale in materia di cave, a un re
gime concessorio, qual'è invece quello imposto dalla legislazio ne urbanistica, avrebbe richiesto quanto meno una previsione
esplicita da parte del legislatore statale, se non addirittura una
riserva originaria di attività d'impresa e non è pensabile che
una siffatta riserva, oltre tutto neppure accompagnata da nor
me transitorie atte a salvaguardare le situazioni pendenti, possa essere stata introdotta dalla legge statale, con una formula me
ramente descrittiva qual'è quella contenuta nell'art. 1 legge n.
10/77. X) i A queste considerazioni possono aggiungersi quelle svolte
nell'impugnata sentenza — e ribadite in questa sede dalla so
cietà appellata — relative alla difficoltà di adattamento di ta
luni istituti della normativa urbanistica alle attività estrattive.
E vero che si tratta di difficoltà non insormontabili — e che
sono anzi destinate a cadere una volta che la regione avrà prov veduto a pianificare anche queste forme di utilizzazione della
risorsa-suolo — epperò non può ignorarsi che taluni caratteri
peculiari della concessione edilizia (quale ad esempio la sua
efficacia limitata nel tempo) allo stato attuale non appaiono lo
gicamente coordinabili con l'intrinseca natura dell'attività im
prenditoriale di cava se non a patto di introdurre nella struttura
stessa del provvedimento concessorio modifiche tali da alternar
ne la naturale fisionomia giuridica (ad esempio, molteplici suc
cessive proroghe, indispensabili per assicurare una certa conti
nuità dello strutturamento minerario e quindi la remunerazione dei fattori ivi impiegati).
Altrettanto può dirsi per la c. d. periodizzazione dell'attività di cava — su cui particolarmente insiste la difesa dell'appellata società Stemar — anche se bisogna riconoscere che la regola zione temporale dello sfruttamento minerario, come conseguen za del suo inserimento in un programma pluriennale di attua
zione, non è del tutto illogica né assolutamente incompatibile con l'attuale disciplina delle attività estrattive: e tuttavia sarà
pur sempre in sede di pianificazione regionale che tale risultato
potrà e dovrà essere raggiunto. Per converso, non appaiono rilevanti le contrarie argomenta
zioni addotte dal comune appellante. Non è pertinente, innanzi tutto, il riferimento alla formula
dell'art. 10 legge n. 10/77, poiché questa norma, se richiama le
attività industriali « dirette alla trasformazione di beni e alla
prestazione di servizi », non delle attività in sé considerate mo stra di occuparsi, sibbene delle attività in quanto comportino « costruzioni » e « impianti » e quindi, ancora una volta, opere edilizie in senso tecnico.
IÈ vero, peraltro, che la stessa disposizione impone anche per le attività industriali il contributo di concessione, ma questo contributo viene commisurato alla incidenza delle opere di
urbanizzazione e di quelle necessarie per il trattamento e lo smaltimento di rifiuti solidi liquidi e gassosi, cioè è riferito ad
attività ed opere che non appaiono connaturali al tipo di atti
vità industriale di cui qui si discute.
L'unico riferimento legislativo che può avere un qualche ri
lievo per la coltivazione di cava è quello che concerne i lavori
di « sistemazione dei luoghi quando ne vengano alterate le ca
ratteristiche », ma la formula legislativa è cosi generica da po tersi adattare a qualsiasi tipo di intervento sul suolo, sicché non
può essere utilizzata per individuare e qualificare l'una piuttosto che l'altra delle dette attività industriali.
Resta invece il fatto che, nell'ambito concettuale definito dalla
norma, preminente rilievo è dato a « costruzioni e impianti »
cioè — sembra opportuno ribadire — a strutture comportanti
appropriazione privata di spazi sovrastanti il suolo e, al più, mo
dificazione di rapporti stabili nella sistemazione pianificata de
gli insediamenti urbani: si tratta, quindi, di un ambito che so
stanzialmente coincide con quello già definito della precedente
legislazione, nel quale vengono in rilievo le « costruzioni » in
senso tecnico e le conseguenti, necessarie opere di urbanizza
zione.
Nemmeno è pertinente — ad avviso della sezione — il ri
chiamo all'ampia formula descritta contenuta nell'art. 80 d. pres. n. 616/77. Come sopra si è già posto in rilievo non può negarsi che esista una tendenza, nella legislazione statale più recente a
superare i tradizionali schemi delle suddivisioni per materie e
submaterie in riferimento al complesso delle attività gestionali demandate all'ente regione; ma questo significa che le forze
politiche dominanti — storicamente variabili — interpretano il
dettato costituzionale, nell'attuale momento, nel senso di fo
calizzare in un unioo centro decisionale la programmazione glo bale della gestione del territorio, non significa, invece, che la
distinzione sia stata soppressa ad ogni altro fine, e cioè appunto
quando si tratta (non già di regolare i rapporti tra Stato e re
gione, sibbene) di delimitare all'interno dell'articolazione orga nizzativa regioni-ente locali la sfera di competenze di ciascuno
dei detti enti territoriali minori.
Ciò emerge chiaramente dal raffronto dell'art. 80 con il suc
cessivo art. 81, dove il legislatore si preoccupa di individuare le residue competenze statali in riferimento al complesso dei
poteri spettanti, nell'uso e nella gestione del territorio, all'ente
regione; ma emerge ancor più chiaramente da tutte le precedenti
disposizioni che ripropongono, ad altri fini, quella stessa distin
zione per materie che l'art. 80 sembrerebbe voler sopprimere. Risulta, quindi, chiaro che l'ampia formula descrittiva del
l'art. 80, cui non può disconoscersi una tendenziale forza espan siva quando si tratti di individuare i poteri pianificatori della
regione nei confronti delle residue competenze statali (in ma
teria di assetto e gestione del territorio), non è tuttavia utilizza
bile ad altri fini, poiché la stessa materia urbanistica, cosi vaga mente definita, è suscettibile di frazionarsi in altre materie o sub materie dotate di autonomia concettuale e normativa quando ap punto si passi a individuare in concreto le singole funzioni tra
sferite alle regioni e i limiti che, per materie appunto, la legisla zione statale è abilitata a imporre alla potestà legislativa regio nale.
Sotto questo specifico profilo non può omettersi di considerare
che l'art. 62 dello stesso d. pres. n. 616/77 ancora una volta
richiama la materia delle cave e torbiere per individuare uno
specifico settore di interventi sul territorio, in riferimento al
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GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA
quale, peraltro, né lo stesso art. 62, né il precedente d. pres. 14
gennaio 1972 n. 2 da esso richiamato, mostrano di voler inno
vare alla previgente disciplina delle attività estrattive, particolar mente per quanto attiene al regime delle autorizzazioni.
XI) - Discende dalle suesposte considerazioni che il primo mo
tivo di appello è infondato.
Deve rilevarsi che il comune appellante ha censurato la sen tenza del T.A.R. Lazio solo sotto il profilo della violazione e
falsa applicazione dell'art. 1 della legge n. 10/77, senza . ripro durre in questa sede le altre argomentazioni, svolte in prime cure, dirette a sostenere la legittimità degli impugnati provvedi menti sindacali per la parte in cui fanno riferimento ai diversi interessi pubblici (paesaggistici, idrogeologici) che avrebbero im
posto la riduzione in pristino dei luoghi: tali questioni, non ri
proposte espressamente in questa sede, devono ritenersi quindi
precluse. Infondato, peraltro, è anche il secondo motivo d'appello.
(Omissis) Per questi motivi, ecc.
CONSIGLIO DI STATO; Adunanza plenaria; decisione 29 gen naio 1980, n. 4; Pres. Levi Sandri, Est. Alibrandi; Min. finanze
(Avv. dello Stato Cosentino) c. Mangano.
Giustizia amministrativa — Impiegato pubblico collocato a riposo — Provvedimenti relativi al trattamento di quiescenza — Ri
corso — Tribunale regionale amministrativo territorialmente
competente (Legge 6 dicembre 1971 n. 1034, istituzione dei tri
bunali amministrativi regionali, art. 3).
Il ricorso proposto dal pubblico dipendente collocato a riposo, contro i successivi provvedimenti ministeriali relativi al tratta
mento di quiescenza, rientra nella competenza territoriale del
tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione esso
risiede, e non in quella del T.A.R. per il Lazio (nella motiva
zione è precisato che la regola del c. d. foro del pubblico im
piego è comunque inapplicabile al personale non più in ser
vizio). (1)
(1) Nello stesso senso, Cons. Stato, Sez. VI, 7 febbraio 1978, n.
204, Foro it., 1978, III, 654, che ha affermato che il ricorso proposto dal pubblico dipendente collocato a riposo, per ottenere il pagamento di somme di denaro in forza del cessato rapporto di pubblico impiego, rientra nella competenza del tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione esso ha domicilio. Successivamente, sull'inapplica bilità del c. d. foro del pubblico impiego ai ricorsi presentati dal pub blico dipendente cessato dal servizio, v. i richiami in nota a Sez. VI 14 luglio 1978, n. 974, id., 1979, III, 147, che ha affermato, peral tro, che il ricorso proposto dal pubblico dipendente contro il prov vedimento che dispone la sua cessazione dal servizio rientra nella
competenza del tribunale amministrativo regionale nella cui circoscri zione esso aveva la sua sede di servizio; su quest'ultima questione, Sez. IV 24 novembre 1978, n. 1042, Cons. Stato, 1978, I, 1625, rela tiva a magistrato, si è orientata nello stesso senso della rilevanza della sede di servizio, mentre con ordinanza 27 febbraio 1979, n. 158, id., 1979, I, 179, ha deferito all'adunanza plenaria il dubbio se la com
petenza sia del T.A.R. per il Lazio, invece che del tribunale ammini strativo regionale periferico.
Per altri riferimenti, Sez. VI 24 ottobre 1978, n. 1087, id., 1978, I, 1506, nel caso del provvedimento di liquidazione dell'indennità di' fine servizio emesso da un organo periferico di un ente nazionale, ha affermato la competenza del tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione tanto l'organo emanante aveva sede come il dipen dente precedentemente cessato dal servizio aveva la sede di servizio e aveva mantenuto la residenza. Mentre Sez. VI 5 febbraio 1980, n.
127, id., 1980, I, 197, ha affermato che il ricorso contro il prov vedimento emesso da un organo periferico dello Stato rientra sem pre nella competenza del tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione esso ha sede, perché la residenza del destinatario del
provvedimento stesso può assumere rilevanza, eventualmente, solo se l'autorità emanante è un organo centrale dello Stato o di ente a carattere ultraregionale.
Successivamente ai precedenti richiamati nelle due note sopra indi
cate, la giurisprudenza relativa al c. d. foro del pubblico impiego ha mantenuto fermo il principio secondo il quale rientra nella compe tenza del T.A.R. per il Lazio il ricorso col quale un pubblico dipendente investe un atto inscindibile, e comunque nella sua in
terezza, che riguarda più pubblici dipendenti, aventi le proprie sedi di servizio nella circoscrizione di più tribunali amministrativi re
gionali: Sez. IV 27 novembre 1979, n. 1111, Cons. Stato, 1979, I, 1630; Sez. VI 30 ottobre 1979, n. 747, ibid., 1484; Sez. VI 24 ottobre 1978, nn. 1068 e 1070, id., 1978, I, 1479 e 1481, nonché 20 ottobre 1978, n. 1031, ibid., 530; la sede di servizio del ricorrente rileva, nel caso di ricorso contro un provvedimento che interessa tale pluralità di pubblici dipendenti, solo se questo sia
L'Adunanza, ecc. — La questione sottoposta all'esame della adunanza plenaria si sostanzia nel decidere quale sia il tribu nale amministrativo regionale competente per territorio a deci dere della impugnativa di un atto emesso da un organo centrale dello Stato in relazione ad un pregresso rapporto di pubblico impiego alle dipendenze dello Stato stesso.
Nella specie, infatti, il ricorrente Mangano — già dipendente di ruolo dell'amministrazione delle finanze e collocato a riposo con decorrenza dal 1° luglio 1975 — impugna il successivo prov vedimento ministeriale del 15 aprile 1976, con il quale vengono adottate talune statuizioni in ordine alla liquidazione del tratta mento pensionistico e della indennità di buonuscita. Il proble ma, come è chiaro, è circoscritto nell'ambito dell'interpretazione dell'art. 3 legge 6 dicembre 1971 n. 1034 e si risolve nello sta bilire se sia applicabile nella fattispecie il foro dell'efficacia territoriale dell'atto (individuato dal secondo comma del citato
art. 3) ovvero il foro del tribunale amministrativo regionale con
sede a Roma (individuato dal terzo comma dello stesso articolo). È, infatti, preliminarmente di tutta evidenza che nel caso in
esame debba essere escluso il riferimento al foro della sede di
servizio, che è foro speciale del contenzioso del pubblico im
piego ma limitatamente — per esplicita dizione di legge — ai
pubblici dipendenti tuttora in servizio alla data di emissione del
l'atto impugnato. Nella specie, come si è già detto, il rapporto di servizio del Mangano era già esaurito molti mesi prima del
l'emissione del provvedimento del 15 aprile 1976, sicché la de
terminazione del giudice competente a giudicare della impugna zione di tale atto deve prescindere da qualsiasi riferimento alla
sede del servizio pregresso. Cosi esattamente individuata la questione in esame, reputa il
collegio che i due criteri a confronto (foro dell'efficacia dell'atto
e foro del T.A.R. con sede a Roma) siano entrambi generali ed
alternativi l'un l'altro senza che, tuttavia, possa istituirsi un rap
porto di generalità o specialità fra di loro. Ciò risulta espressa mente dal tenore del 2° e 3° comma dell'art. 3, i quali — lungi dall'individuare elementi di condizionamento nell'applicabilità di
detti criteri — si limitano a porre una previsione largamente
generalizzata sia per il foro dell'efficacia dell'atto che per quello del T.A.R. con sede a Roma, con il richiamo ad una formula
zione (« gli altri casi » di cui al terzo comma) che individua una
distribuzione di competenze reciprocamente indipendenti. È utile, d'altra parte, sottolineare che la competenza attribuita al T.A.R.
con sede a Roma dal 3° comma dell'art. 3 ha natura e funzione
del tutto diverse dal foro della sede dell'ente emanante l'atto
impugnato, di cui all'art. 2 legge 6 dicembre 1971 n. 1034, tanto
è vero che per la operatività di detto terzo comma non è suffi
ciente che il provvedimento provenga da un organo centrale
dello Stato occorrendo anche che la sua efficacia si estenda a
tutto il territorio nazionale e non ad una regione soltanto. È
evidente, in altri termini, che la competenza del T.A.R. con sede
a Roma si aggiunge a quella già spettante al T.A.R. del Lazio
ai sensi dell'art. 2 della legge, ma che la prima è finalizzata ad
esigenze del tutto diverse da quelle della seconda e non può, per
tanto, essere concettualmente confusa con la competenza della
sede dell'ente che ha emanato l'atto.
Nel sistema delineato dalla legge del 1971 (art. 2 e 3) la com
petenza di cui al 3° comma dell'art. 3 finisce cosi con l'essere
generale ma residuale, nel senso che essa ricomprende tutti i casi
di impugnative di atti emessi da organi centrali dello Stato (o di enti pubblici a carattere ultraregionale) che non ricadano nel
foro della efficacia territoriale dell'atto ovvero in quello della
sede di ufficio.
La migliore conferma a questa interpretazione — già di per
scindibile: Sez. VI 17 novembre 1978, n. 1215, ibid., 1785; conse
guentemente, è stata affermata la competenza del tribunale ammini
strativo regionale nella cui circoscrizione ha la sede di servizio il ri
corrente contro II diniego di ammissione ad uno scrutinio compara tivo: Sez. IV 15 gennaio 1980, n. 17, id., 1980, I, 28; con
tro il provvedimento di esclusione da un concorso interno: Sez. VI
15 febbraio 1980, n. 202, ibid., 216; contro la graduatoria per il tra
sferimento di insegnanti, in quanto non comprendente il ricorrente stesso: Sez. VI 3 aprile 1979, n. 238, id., 1979, I, 570.
Però, se tra i provvedimenti impugnati ve ne è uno i cui effetti non siano limitati alla circoscrizione del tribunale amministrativo re
gionale periferico, allora la regola del c. d. foro del pubblico impie go non si applica: Sez. VI 12 febbraio 1980, n. 163, id., 1980,
I, 208. Conseguentemente, è stata affermata da competenza del T.A.R. per il Lazio sul ricorso contro il riparto del fondo nazionale a favore dei dipendenti del ruolo dei legali dell'I.n.a.m.: Sez. VI
15 giugno 1979, n. 460, id., 1979, I, 1117; e contro il bando
del concorso nazionale a direttore didattico: Sez. VI 5 giugno 1979, n. 442, ibid., 1103.
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