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Politica di sicurezza italiana e innovazioni strategiche nell’Europa degli anni cinquanta
di Lorenza Sebesta
È importante ricordare, oggi, quanto lo strumento militare italiano debba poggiare su una politica di sicurezza nazionale e quanto essa, a sua volta, da una parte, debba inserirsi in un panorama internazionale storicamente preordinato, dall’altra possa, specialmente in momenti di distensione, contribuire alla sua trasformazione. La politica di sicurezza dell’Italia negli anni cinquanta, analizzata secondo tali parametri, è l’oggetto di questo saggio.
Dopo la scelta, ‘sofferta’, degli Stati uniti e della Nato come referenti principali (1948- 1949), essa si dissolse in una serie di iniziative mal coordinate; si cercò, da una parte, di accentuare l’adesione piena all’atlantismo tramite la rapida assunzione di alcuni nuovi caratteri dell’alleanza (armi tattiche nucleari); dall’altra venne tentato lo sviluppo di settori potenzialmente alternativi (Mediterraneo).
Tale politica si risolse nella rielaborazione degli spunti offerti dalle ‘occasioni’ storiche. Poche furono le possibilità di pesare in campo europeo — perlomeno finché non fosse riacquistata la certezza dei confini nazionali (questione di Trieste) e delle basi giuridiche della propria autonomia (Trattato di pace); debole fu l’elaborazione teorica e pochi, mal funzionanti, i luoghi istituzionali di coordinamento entro cui sviluppare tale riflessione; eccessive furono, infine, la polarizzazione dell’arena politica (dentro e fuori dal paese) e la finalizzazione interna della politica di sicurezza italiana. Parte degli elementi che impedirono, allora, una rielaborazione fattiva degli spunti distensivi esterni sono oggi venuti meno, mentre il sistema politico interno rimane invariato: ripensare il ruolo strategico dell’Italia vuol dire fare i conti anche con questo.
It is perhaps worth reminding how much the Italian military structure relies upon a national security policy that fits into an historically given framework, to the reshaping of which this same policy may well in turn contribute for its own part.
After the “deeply felt” choice of the United States and Otan as a fundamental term of reference (1948-1949), the Italian security policy dispersed in a series of ill-coordinated initiatives, trying, on the one hand, to tighten its full adhesion to atlantism through a quick endorsement of the new characters assumed by the alliance (tactical nuclear weapons); and, on the other hand, seeking new and potentially alternative roads in the Mediterranean area.
This policy resulted in a clear-cut tendency to reshape the occasional openings offered by historical “opportunities". But rather few were the chances of weighing in the European context, at least until a renewed certainty might be reached as to the national borders (the question of Trieste) and the juridical foundations of national independence (the peace treaty); very poor were the theoretical developments and few and feeble the institutional centers where such a reflection could be brought on; and finally, overwhelming were both the polarization in the political arena and the use of the Italian security policy for internal purposes.
Some of the elements that prevented a viable development of the emerging chances of détente have since faded away, whereas the internal political system remains unchellanged: rethinking the Italian strategic role today means facing also this crucial issue.
Italia contemporanea”, giugno 1990, n. 179
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La politica militare italiana nel secondo dopoguerra
Il ruolo dell’apparato militare nella politica estera italiana ha subito una notevole evoluzione nel secondo dopoguerra: esso si è infatti progressivamente ampliato rispetto al concetto tradizionale di supporto alla difesa operativa del paese — funzione che permane tutt’oggi ma è affiancata da quella primaria di sostegno alla politica estera nazionale e, più in generale, al mantenimento dell’ordine internazionale, quale emerge dalla stessa Costituzione italiana: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo” (articolo 11)1.
Individuare le radici storiche di questa evoluzione è essenziale per dare spessore al principio spesso ripetuto dell’importanza dell’Italia nel teatro strategico europeo. In particolare, tale affermazione, inconfutabile da un punto di vista puramente geopolitico, subì un processo di ‘riformulazione’ dopo l’esperienza bellica.
L’interesse della prima parte della ricerca sarà quindi quello di avviare una riflessione
storica sui mezzi e sui fini attraverso i quali il governo italiano si preoccupò di teorizzare e mettere in pratica una politica di sicurezza conforme alla nuova situazione emersa dal conflitto mondiale e che ruolo giocarono, in questo processo, le componenti ‘occidentale’ e ‘mediterranea’ della sua attività militare e diplomatica. Nella seconda parte, verrà invece analizzato brevemente il ruolo della tematica nucleare nel dibattito strategico interno all’Alleanza atlantica, e in Italia in particolare, facendo riferimento a una serie di coordinate internazionali che segnarono la problematica affermazione della massive retaliation come modello di strategia atlantica e l’introduzione delle armi atomiche tattiche nel teatro europeo.
Il contenimento dell’apparato bellico italiano da parte delle potenze alleate dopo la fine della seconda guerra mondiale fu un aspetto essenziale del ridimensionamento del suo ruolo politico; con questa logica venne redatto il Trattato di pace, il cui fine era quello di togliere il supporto militare ad ogni velleità non solo espansionistica ma anche di rinascita di una politica estera militarmente sostenuta, tramite una drastica riduzione delle forze armate e delle potenzialità industriali belliche nazionali2.
A tale contenimento corrispondeva, sul piano internazionale, l’irrigidimento delle relazioni fra Stati uniti e Unione sovietica e
Questo saggio è stato preparato nell’ambito delle ricerche svolte per il convegno “L’Europa e la politica di potenza: alle origini della Comunità economica europea”, Firenze, 23-27 settembre 1987.1 Cfr. Maurizio Cremasco, Le possibili situazioni di crisi e gli eventuali scenari di confronto. Quale strumento militare per farvi fronte?, in M. Cremasco (a cura di), Lo strumento militare italiano, Milano, Angeli, 1986, pp. 53-54; Stefano Silvestri, Il quadro generale e i problemi della difesa italiana, ivi, p. 20; Carlo Jean, Sicurezza e difesa in Italia, “Rivista italiana di scienza politica”, 1987, n. 3, pp. 377-397.2 La storiografia relativa al Trattato di pace è scarsa: cfr. Giuseppe Vedovato, Il Trattato di pace con l ’Italia, Firenze, Edizioni Leonardo, 1947; su aspetti specifici, relativi a ciascuna delle tre armi, Giovanni Bernardi, La Marina, gli Armistizi e il Trattato di pace, Roma, Ufficio storico della Marina militare, 1979; Aldo Mola (a cura di), Le Forze armate dalla liberazione all’adesione dell’Italia alla Nato, Atti del convegno, Torino, 8-10 novembre 1985, Roma, Ufficio storico Stato maggiore dell’esercito, 1986. Recentemente, il tema è stato analizzato, per gli aspetti riguardanti la genesi, da Ilaria Poggiolini, Una pace di transizione: gli alleati e il problema del Trattato di pace italiano, 1945-1947, Tesi di dottorato, 1988.
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la progressiva strutturazione delle reciproche sfere d’influenza. Nasceva quindi, per l’Italia, la necessità di elaborare con estrema prudenza una strategia ‘di sicurezza’ che, da una parte, tagliasse i ponti con la tradizione nazionalistica di stampo fascista, dall’altra, si inserisse realisticamente nel panorama internazionale dal quale emerse dopo il 1947 — e con sempre maggior perentorietà nel 1948 — la scelta atlantica come opzione irrinunciabile e unica, tenuto conto della scarsa concretezza dell’alternativa europea3. La difficoltà di tale elaborazione derivava da numerose circostanze, prima fra tutte la precarietà della situazione economica nazionale e l’oggettiva necessità — riconosciuta, seppur con moventi diversi, da tutte le forze politiche — di risolvere innanzi tutto i problemi interni di consolidamento dello Stato. A ciò si aggiungeva il diffuso sentimento neutralista che, come una sorta di tematica ‘trasversale’, veniva condiviso non solo dai partiti appartenenti all’area socialcomunista, ma da consistenti frange della stessa democrazia cristiana.
In termini strettamente militari, i limiti giuridici imposti dal Trattato di pace erano andati a colpire un settore già di per sé delegittimato dalla negativa prestazione dei ver
tici delle forze armate dopo l’armistizio del settembre 1943. Al giornalista americano Ar- nolf Wolfers che lo interrogava nel febbraio 1948 in merito ai problemi della difesa europea, il ministro degli Esteri Carlo Sforza dichiarava, significativamente, di considerare la questione “puramente accademica”, in quanto la debolezza degli eserciti del vecchio continente rendeva impensabile qualsiasi ipotesi difensiva. La rinascita economica e il contenimento del comuniSmo erano visti da Sforza come gli obiettivi più immediati del governo4.
Oltre a questi freni oggettivi, pesava sulla politica estera italiana una diffusa difficoltà di percepire correttamente i mutamenti in corso nell’arena internazionale. Ciò era dovuto, in parte, all’incerto comportamento delle potenze maggiori, in parte al retaggio di schemi interpretativi classici del gioco diplomatico multipolare — e, quindi, di concetti quali il colonialismo e il nazionalismo — che rendevano lenta e difficile l’analisi delle coordinate internazionali entro cui situare le scelte di politica estera; c’era, infine, da aggiungere l’avversione verso forme di alleanze internazionali, quelle militari, che richiamavano memorie storiche infauste5.
Quindi, se era del tutto prematuro pensare
3 Cfr. Enzo Collotti, Collocazione internazionale dell’Italia dall’armistizio alle premesse dell’Alleanza atlantica (1945-1947), in Aa.Vv., L ’Italia dalla liberazione alla repubblica, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 27-118.4 In termini simili si espresse il Primo ministro De Gasperi; Joint Chiefs of Staff files, Microfilms (Istituto universitario europeo, Firenze), Europe and Nato, Reel IV, Conversations of Arnold Wolfers with leading italians, February 1948.5 Per le difficoltà di percezione, cfr. Brunello Vigezzi, La politica estera italiana e le premesse della scelta atlantica. Governo, diplomatici, militari e le discussioni dell’estate 1948, in B. Vigezzi (a cura di), La dimensione atlantica e le relazioni internazionali nel dopoguerra (1947-1949), Milano, Jaca Book, 1987, pp. 62-63. Per il permanere della concezione multilaterale, cfr. Ennio Di Nolfo, The Shaping o f Italian Foreign Policy during the Formation o f the East-West Blocs. Italy between the Superpowers, in Josef Becker and Franz Knipping (a cura di), Power in Europe, Great Britain, France, Italy and Germany in a Postwar world, 1945-1950, Berlin-New York, Walter de Gruyter, 1986, pp. 492-502; per la componente colonialista nella politica estera del governo italiano durante la seconda metà degli anni quaranta, che si concretizzò nella volontà di mantenere almeno parte delle posizioni italiane prebelliche in Africa, cfr. Gianluigi Rossi, L ’Africa italiana verso l ’indipendenza (1941-1949), Varese, Giuffrè, 1980, pp. 277- 589; cfr. inoltre Rosaria Quartararo, Italia e Stati uniti, gli anni difficili (1948-1952), Napoli, Esi, 1986, pp. 419- 462. Infine, per Fawersità ai patti militari (di cui Fautore parla a proposito della non adesione italiana alFUnione occidentale), Pietro Pastorelli, La politica europeistica di De Gasperi, “Storia e politica”, settembre 1984, p. 339 (ora riunito, assieme ad altri saggi, nel volume La politica estera italiana del dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 1987).
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a una politica di sicurezza che poggiasse sullo strumento militare, era impossibile pensare alla rinascita di uno strumento militare che a tale politica si ispirasse. La rinascita militare italiana, al di là del limite oggettivo del Trattato di pace, rimase così legata, da una parte, ad esigenze finanziarie ed economiche di bilancio, dall’altra, all’apporto quantitativo e qualitativo degli aiuti militari americani e al tipo di pianificazione in vigore nella Nato — sui quali non sempre i rappresentanti italiani furono in grado di incidere6. Né va d’altronde sottovalutato a questo proposito il peso che sulla rinascita dello strumento militare nazionale ebbero, almeno fino al 1948, le ipotesi di una insurrezione interna piuttosto che di un attacco esterno.
La pianificazione militare nazionale nell’anno della firma del Patto atlantico, prevedendo l’arresto del nemico sui confini nazionali, la protezione del traffico marittimo e l’avvio di campagne antisommergibile, si presentava quindi come un esercizio retorico con pochi legami con la reale consistenza delle forze armate che avrebbero dovuto attribuire concretezza a tali ipotesi difensive7. Considerando, a titolo d’esempio, l’Esercito — che era, fra le tre armi, quella cui fu data più sollecita attenzione nei progetti di riarmo intrapresi dopo la fine del regime armistiziale — lo stesso ministro della Difesa de
scriveva in termini catastrofici la sua situazione di fronte al Consiglio dei ministri riunito alla fine del gennaio 1949: Randolfo Pacciardi parlava di cinque divisioni con non più di una giornata di fuoco a disposizione. Se è vero che il ministro era pronto, in un’analisi retrospettiva (e pubblica) fatta a qualche anno di distanza, ad esprimersi con più ottimismo sullo status delle forze armate nel 1949 e se è vero che, nel settembre dello stesso anno, in un suo intervento davanti alla Camera dei deputati, le cinque divisioni erano già diventate otto (da completare), resta il fatto che la loro ubicazione — la Cremona a Torino, la Legnano a Pavia, la Friuli a Firenze, la Mantova a Udine e la Folgore a Vittorio Veneto —, la qualità dell’equipaggiamento e la quantità delle munizioni testimoniavano l’inadeguatezza dello strumento militare nazionale a fronte delle ipotesi difensive di tutela delle frontiere nazionali8.
L ’Italia come teatro strategico
L’interesse americano per la penisola nacque nei primi anni postbellici da un timore di carattere politico più che militare: l’obbiettivo principale di breve periodo non era infatti quello di salvare la penisola da un’invasione militare sovietica quanto piuttosto,
6 Lorenza Sebesta, I programmi di aiuto militare nella politica americana per l ’Europa. L ’esperienza italiana, “Italia contemporanea” , 1988, n. 173, p. 52.7 National Archives Washington (d’ora in poi Naw), RG 59, 840.20/9-1249, Translation of revised memorandum received from the Italian Ministry of Defense, 12 August 1949, Problems involved in the strengthening of the Italian Armed Forces Under the Atlantic Pact, The American Embassy in Rome to the Secretary of State, n. 1148.8 Archivio centrale dello Stato (d’ora in poi Acs), Verbali riunione Consiglio dei ministri, b. 19/XVI, 28 gennaio 1949; Ministero della Difesa, Le nuove Forze armate italiane nel quadro della ricostruzione e del progresso nazionale, Roma, 1953, p. 32; A tti Parlamentari, Camera dei Deputati, seduta del 27 settembre 1949, pp. 11281-11282. Per l’ubicazione delle forze, L ’esercito e i suoi corpi, Roma, Ufficio storico Stato maggiore dell’esercito, 1971. Non si intende, naturalmente, affrontare in questa sede il tema della ricostruzione in termini di effettivi, armamenti, e dottrina militare d’impiego delle forze armate italiane. Ciò è già stato fatto, sulla base di fonti di tipo secondario, da Enea Cerquetti, Le forze armate italiane dal 1945 al 1975. Strutture e dottrine, Milano, Feltrinelli, 1975 e con l’ausilio di fonti primarie, per i primi anni del secondo dopoguerra, da Leopoldo Nuti, Le forze armate italiane, Roma, Ufficio storico Stato maggiore dell’esercito, 1988.
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come è stato più volte ribadito dalla storiografia, di evitare che le forze della sinistra arrivassero, con mezzi legali o illegali, al potere, scatenando una possibile reazione a catena in altri paesi ‘mediterranei’9.
A questo timore di carattere politico si aggiungeva un diffuso interesse per le potenzialità strategiche della penisola. Da un punto di vista militare, la percezione comune dell’Italia era quella di teatro strategico, non attore in ambito strategico. Il termine ‘teatro’ acquistò nei primi anni postbellici un’ampia gamma di valenze. L’ipotesi più accreditata di attacco all’Italia era quella di un’invasione sovietica — con l’ausilio della Jugoslavia prima del giugno 1948 e invece attraverso la Jugoslavia (partendo presumibilmente da basi ungheresi) dopo il distacco di Tito da Stalin. Conseguentemente, il ruolo della penisola risultava essere in primo luogo, quello di appendice del fronte centrale europeo, poiché, chiaramente, l’attacco sovietico contro la frontiera nordorientale italiana sarebbe avvenuto subordinatamente a quello contro il fronte centrale dell’Alleanza. Con un’azione offensiva nei confronti dell’Italia, l’Unione sovietica avrebbe tentato di aprire un secondo fronte in Francia passando dalla Pianura padana e sorpren
dendo le difese dell’Europa centrale alle spalle, cercando inoltre di acquistare una posizione di controllo dei traffici mediterranei diretti all’Europa centrale. Le previsioni americane in merito alla capacità di resistenza delle forze armate italiane in caso di aggressione da est facevano riferimento, nel 1948, a un probabile immediato arretramento della prima linea di difesa sull’Appennino toscoemiliano10. Ciononostante, ad un anno di distanza, i Joint Chiefs o f Staff caldeggiavano una difesa europea coincidente con quella nazionale dell’Italia dichiarando che “i vantaggi della partecipazione italiana alla difesa dell’Europa sopravanza[vano] qualsiasi economia di forze che [avrebbe potuto] essere raggiunta difendendo la frontiera franco-italiana piuttosto che quella nordorientale italiana”11.
L’Italia appariva inoltre come ‘teatro di riconquista’ (attraverso la Sicilia, la Sardegna e, possibilmente, tutta l’Italia del Sud) sul modello della seconda guerra mondiale, una volta che si fosse dato seguito ai piani strategici americani e a quelli dell’Unione occidentale che prevedevano un ritiro delle proprie forze dal fronte europeo e una riconquista in tempi successivi da alcune teste di ponte, fra cui il Nord Africa12. Come tea-
9 Cfr. Timothy Smith, Security and Italy. The Extension o f Nato to the Mediterranean, 1945-49, in Lawrence Kaplan (a cura di), Nato and the Mediterranean, Wilmington, Scholarly Resources, 1985, pp. 137-156; Antonio Var- sori, La scelta occidentale dell’Italia (1948-1949), “Storia delle relazioni internazionali”, 1985, n. 1, pp. 95-159 e n. 2, pp. 303-368; James Miller, The Unites States and Italy, 1940-1950, The Politics and Diplomacy o f Stabilization, Chapel Hill and London, The University of North Carolina Press, 1986.10 Foreign Relations of the United States (d’ora in poi Frus), 1948, III, Working Group to the Ambassador’s Committee, Washington Security Talks, December 1948, pp. 333-342: 340; Naw, RG 319, entry 154, box 241, P. and O., 381 Europe TS, sec. II, case 53/5, Jcs 1868/86, May 28, 1949, Western Union Review of Strategic Background, by Jspc. Per le previsioni americane, Naw, RG 319, entry 154, box 18, P. and O. 091, Italy TS, F/W 15/9, P. and O. Division, Brief for participants to preliminary discussions with Marras, US Army Intelligence estimate of Italian Military Capabilties, October 14, 1948, Appendix B to Enclosure D.11 Jcs files, Europe and Nato, part II, reel 4, Jcs 1868/63, March 8, 1949, p. 467.12 L. Sebesta, L ’Italia e la questione della sicurezza europea, 1948-1952: piani strategici e aiuti militari, Tesi di dottorato, 1988, pp. 139-141. Per il testo del primo piano strategico a breve termine americano del dopoguerra — approvato il 19 maggio 1948 —, Thomas Etzold and John Lewis Gaddis, Containment: Documents on American Policy and Strategy, 1945-1950, New York, Columbia University Press, 1978, Brief of Short Range Emergency War Plan (Halfmoon), Jcs 1844/13, pp. 315-323. Su questo, cfr. Ottavio Bariè, Gli Stati Uniti, l ’Unione occidentale e l ’inserimento dell’Italia nell’Alleanza atlantica, in O. Bariè (a cura di), L ’Alleanza occidentale. Nascita e sviluppo di un sistema di sicurezza collettivo, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 121-123.
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tro fu senz’altro considerata la penisola nell’ambito logistico della pianificazione americana — in concomitanza con l’elaborazione del piano Offtackle (prima metà del 1949) — relativamente alla funzione di base di appoggio per aerei militari americani13; una ulteriore funzione, destinata ad acquistare grande rilevanza nella prima metà degli anni cinquanta, fu quella di via di comunicazione per le forze alleate del fronte europeo centrale, con il duplice scopo di rifornirle e costituire una sicura via di ripiego per quelle, fra esse, che non avessero potuto ritirarsi attraverso i porti predisposti in Germania e in Francia14.
L’elaborazione del Piano di difesa a medio termine della Nato (approvato dal Comitato di difesa il 1° aprile 1950) sembrò rappresentare un chiaro riconoscimento dell’opportunità di difendere la penisola sulle sue frontiere geografiche, prevedendo, fra le varie linee di contenimento dell’ipotetica offensiva sovietica, quella Alpi italoaustria- che-Isonzo. Le stime fornite successivamente dallo Standing Group riguardo alle forze necessarie per mettere in pratica il piano entro la data finale (target date) del 1954 — novanta divisioni, fra effettivi e riserve — sembrarono tuttavia rendere nulla la praticabilità di tale ipotesi15. Le stesse forze pre
viste per l’Italia, sedici divisioni e un terzo, non erano solo superiori al totale permesso dal Trattato di pace ma anche, e soprattutto, irraggiungibili entro i margini finanziari fissati dal bilancio militare nazionale.
Sintomatiche, a proposito della dicotomia teatro/attore, furono le riserve mantenute dai Jcs americani nei confronti dell’ipotesi di una collaborazione militare con l’Italia in operazioni di ritardo sul confine italoau- striaco. Nel maggio 1951, all’interno di una direttiva dei Jcs al Comandante in capo delle forze americane in Austria, si invitava Geoffrey Keyes a prendere tutti gli opportuni contatti con i comandanti delle zone inglesi e francesi per avviare una pianificazione comune delle operazioni di ritardo nella zona settentrionale e orientale del paese allo scopo di difendere la linea montana passante vicino al confine con l’Italia. Allo stesso tempo, Keyes era pregato di non comunicare questa novità agli italiani, con i quali, si diceva, si sarebbe invece provveduto a discutere il piano a breve termine nell’ambito dell’Emmo (Gruppo Europa meridionale- Mediterraneo occidentale della Nato)16. Ma il piano al quale i Joint Chiefs o f Staff si riferivano, che effettivamente prevedeva un ritiro congiunto delle forze d’occupazione
13 Naw, RG 319, entry 154, box 265, P. and O. 686 TS F/W 3, Jspc 684/52, March 23, 1949, Requirements for military rights in foreign territories; più in generale, T. Smith, The Fear o f Subversion: the United States and the Inclusion o f Italy in the North Atlantic Treaty, “Diplomatic History”, 1983, n. 2, p. 137.14 Alla questione dello stabilimento di una linea di comunicazione (Loc) diretta verso il Centro Europa attraverso l’Italia, il Dipartimento di Stato — sulla scorta di suggerimenti provenienti dallo stesso Omar Bradley, a capo dei Joint Chiefs o f Staff, fin dal novembre 1948, attribuì dal settembre 1950 in poi un’importanza maggiore, arrivando a stabilire una relazione diretta fra la sua soluzione e il grado di resistenza delle forze alleate in Austria — ed eventualmente di quelle a Trieste. Per Bradley, Naw, RG 218, Ccs 092, Western Europe, See. A, case 4/32, Memorandum for Director P. and O., November 17, 1948; Naw, RG 59, box 3954, 756.5 Map/6-250, Dep. of State to Rome, June 2, 1950; cfr. James Huston, One o f AU. Nato Strategy and Logistic through the Formative Period (1949- 1969), Newark, University of Delaware Press, 1984, pp. 75-76.15 Kenneth Condit, The History o f the Joint Chiefs o f Staff. The Joint Chiefs o f S ta ff and the National Policy, vol. II, 1947-1949, Wilmington, Michael Glazier, 1979, p. 405 e Walter Poole, The History o f the Joint Chiefs o f Staff. The Joint Chiefs o f S ta ff and National Policy, vol. IV, 1950-1952, Washington, Historical Division Joint Secretariat Joint Chiefs of Staff, 1979, pp. 183-184.16 Naw, RG 218, box 7, Ccs 383.2, Austria (1-21-44), Sec. 18, Csusa to Cgusfa, Salzburg, May 19, 1951, DA 91739.
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americane di stanza in Austria e Trieste attraverso l’Italia con collaborazione delle due forze armate, venne definito dal rappresentante degli Stati uniti presso l’Emmo, Richard Conolly, irrealistico e inattuabile, in quanto privo di attinenza con l’effettivo status delle forze militari presenti nell’area17.
L’importanza dell’Italia, emergeva in definitiva con più forza nzWambito logistico che non in quello operativo, dove ostacoli di varia natura sembravano impedire un efficace contributo nazionale alla Nato in termini di uomini e di equipaggiamento. Fra questi, il Trattato di pace rappresentava non solo, come si è già visto, un limite tecnico-militare alle aspirazioni dei vertici militari nazionali, ma anche e soprattutto un retaggio della condizione di inferiorità con la quale l’Italia era emersa dal conflitto. Sulla sua revisione si attestarono quindi all’inizio degli anni cinquanta le attenzioni del governo italiano, suffragato fra gli altri, dal Congresso americano e dal Dipartimento della difesa, che rilevavano l’impossibilità per l’Italia di contribuire in maniera adeguata alla difesa europea finché il suo apporto fosse stato limitato a quello previsto dal Trattato stesso18.
In questo senso, l’argomento ‘militare’ fu perfettamente funzionale alle aspirazioni politiche del governo italiano che con la dichiarazione tripartita del 26 settembre 1951 — in cui Stati uniti, Gran Bretagna e Francia si dichiaravano disponibili a dare una favorevole considerazione a una richiesta di
abrogazione — e le successive fasi della revisione ‘informale’ si assicurò non solo il permesso di aumentare le proprie forze armate, ma anche una più indipendente identità politica da far valere in campo internazionale19.
II Mediterraneo: un fronte alternativo?
Se, quindi, il mutamento degli equilibri internazionali non aveva avuto una ripercussione immediata sulla direttrice tradizionale della difesa nazionale — la frontiera nord orientale — c’era un altro fronte che sembrò acquistare, fin dal periodo posteriore alla firma dell’armistizio, nuove potenzialità per la politica estera italiana: il Mediterraneo.
Sintomatiche, a questo proposito, le parole che Pietro Badoglio aveva rivolto, nell’aprile 1944 — dopo il riconoscimento diplomatico dell’Italia da parte dell’Unione sovietica — al rappresentante degli Stati uniti presso la Commissione consultiva: “Gli americani sbagliano quando a lunga scadenza rinunciano alla loro posizione nel Medi- terraneo. Il Mediterraneo diverrà in futuro il perno di un nuovo sistema politico euroafricano, nel quale l’Italia avrà certo un suo ruolo. I vostri alleati inglesi e sovietici sembrano rendersene conto. Perché voi vi ritirate?” (Badoglio alludeva all’esitazione degli alleati nell’offrire il riconoscimento diplomatico allo stato italiano)20. La citazione non vuol certo stabilire delle paternità, ma
17 Jcs files, Europe and Nato, part li, reel 5, Jcs 2073/75, December 12, 1950.18 Frus 1951, IV, 1, Editorial Note, p. 545; ivi, Summary of Studies prepared in the Department of Defense. The Effects of Limitations imposed by Italian Treaty oh obligations under Nato Plans, September 17, 1951, pp. 670- 671.19 Sulla vicenda della revisione del Trattato di pace, A. Sterpellone, Vent’anni di politica estera, in Massimo Bo- nanni (a cura di), La politica estera della Repubblica italiana, vol. II, Milano, Edizioni di Comunità, 1967, pp. 266- 274. Un resoconto fattuale della vicenda è in Presidenza del Consiglio, Come si è giunti alla revisione dell’ingiusto Trattato, “Documenti di Vita italiana”, marzo 1952. Per uh recente aggiornamento che si avvale di fonti archivisti- che anglosassoni, T. Smith, From Disarmament to Rearmament: The United States and the Revision o f the Italian Peace Treaty o f 1947, “Diplomatic History” , voi. 13, 3, Summer 1989, pp. 359-382.20 Frus, 1944, III, Murphey a Hull, 22 aprile 1944, pp. 1102-1104, cit. in E. Di Nolfò, La svolta di Salerno come problema internazionale, “Storia delle relazioni internazionali” , 1985, n. 1, pp. 26-27.
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solo ricordare come la diffusa sensibilità per il ruolo mediterraneo dell’Italia — che, data la provenienza, avrebbe potuto essere considerato di matrice nazionalista e colonialista — si caricasse già prima della fine della guerra di una valenza significativa: quella della necessità del sostegno americano all’Italia e della presenza degli Stati uniti nel Mediterraneo come una sorta di garanzia preliminare per il ripristino dell’equilibrio settoriale di potenza. Tale concetto, legato a quello del rifiuto della tutela inglese in questo settore, ebbe un ruolo primario nel caratterizzare l’azione diplomatica italiana che si sviluppò, non a caso, all’ombra del rafforzamento dell’interesse americano per il Mediterraneo e in antitesi ai tentativi di egemonia inglese. Illuminante, a questo proposito, è un appunto redatto dalla direzione generale del ministero degli Affari esteri in previsione della visita del capo di Stato maggiore dell’esercito Efisio Marras negli Stati uniti (dicembre 1948), dal quale emergeva la volontà di arrivare a una sorta di collaborazione militare diretta e bilaterale con gli Stati uniti. Nel documento era scritto, fra l’altro: “Detto in termini duri, si tratterebbe anche di far capire che, per le stesse esigenze di basi e agevolazioni per l’organizzazione difensiva in Nord Africa, saremo certo degli alleati assai più comodi degli Inglesi”21. Esi
steva, dunque, anche in questo caso, un uso cosciente di tematiche militari da parte dei responsabili del ministero22. Esso appariva, d’altronde, privo di sbocchi di ampia portata — come è dimostrato dai risultati della visita di Marras — perché gli Stati uniti erano orientati, in Europa occidentale, verso un sistema di sicurezza collettiva23, rimanendo invece legati, per l’area mediterranea, a un’innegabile relazione privilegiata con la Gran Bretagna.
È importante quindi ricordare che all’Italia era sì riconosciuta una funzione vitale nell’ambito della difesa degli interessi americani in questo teatro24, ma proprio tali interessi stentavano a trovare una definizione univoca e completa da parte dell’amministrazione Truman. La stessa incertezza dimostrata durante le trattative per la formazione del Patto atlantico riguardo all’opportunità di estendere l’area di pertinenza del Trattato dall’Atlantico verso il Mediterraneo sembrava riflettere tanto il desiderio di limitare geograficamente il Patto quanto quello di mantenere un rilevante grado di libertà d’azione nel settore mediterraneo; questo non era, del resto, che una riprova della generale volontà americana, espressa da Acheson nell’aprile 1949, di non voler pensare ad un intervento in Europa “nei termini di una linea fissa o statica”25.
21 Asmae, AP, Italia, busta 150, fascicolo 1, Appunto s.d. Direzione generale Ministero degli Esteri.22 In occasione della visita di Marras negli Stati uniti, era pervenuto alle autorità militari americane uno studio dello Stato maggiore italiano nel quale si sottolineava l’importanza strategica della penisola, che nasceva dal supposto interesse sovietico all’eliminazione delle basi angloamericane nel Mediterraneo e all’isolamento delle forze militari greche e turche; Naw, RG 319, entry 154, box 17, P. and O. 091, Italy TS, Sec. I, part IV, Case 1/5 Office Military Attaché to Director Intelligence, Aprii 28, 1948, transmitting an Italian General Staff Study.23 Vedi L. Nuti, La missione Marras, 2-22 dicembre 1948, “Storia delle relazioni internazionali”, 1987, n. 2, pp. 343-368.24 Le testimonianze sono innumerevoli: dai documenti elaborati dal National Security Council fra la fine del 1947 e i primi mesi del 1948 (per tutti, vedi Nsc 1/3, Position of the United States with Respect to Italy in the Light of the Possibility of Communist Participation in the Government by Legal Means, March 8, 1948, in Frus, 1948, III, pp. 775-779) a quelli discussi alle Washington Security Talks (Report of the International Working Group..., Washington Security Talks, December 24, 1948, in Frus 1948, III, p. 340) e quelli redatti dagli stessi organi militari statunitensi (Joint Strategie Planning Group, 684/52, Requirements for Military Bases in Foreign Territories, March 23, 1949, in Naw, RG 319, entry 154, box 265).25 Frus, 1949, IV, Memorandum of Conversation by the Secretary of State, April 1, 1949, p. 266.
Politica di sicurezza italiana 291
Da un punto di vista strettamente militare, le trattative statunitensi per il ripristino della base bellica angloamericana di Mellah- la in Libia — sviluppatesi in due tempi, tra il gennaio 1948 e il 195126 — lo scarso entusiasmo americano nei confronti dei tentativi inglesi di creare una organizzazione di difesa collettiva nel Medio Oriente — Middle East Command nel 1951, Middle East Defence Organization nel 1952 — e, più tardi, gli accordi per le basi in Spagna (1953), dimostrarono come la tendenza americana fosse quella di risolvere nella bilateralità i problemi relativi al teatro mediterraneo. Nell’ambito della Nato, d’altronde, era chiara la tendenza a considerare il ‘fianco sud’ come un fronte d’appoggio rispetto a quello dell’Europa centrale, luogo geografico e simbolico dello scontro Est-Ovest.
Le vicende della partecipazione italiana alla Nato negli anni cinquanta furono una conferma della ‘doppia vocazione’, europea e mediterranea, del paese. D’altro canto, esse dimostrarono una ben ferma volontà degli alleati di considerare l’Italia come partner politicamente ‘minore’ e militarmente periferico.
Respinte furono, nel 1949, la candidatura italiana allo Standing Group — al quale vennero ammessi Stati uniti, Gran Bretagna e Francia — e al Gruppo di pianificazione dell’Europa occidentale — uno dei cinque in cui era diviso, operativamente, il territorio dell’Alleanza27. Non migliore sorte toccò ad una ben più ampia proposta italiana, avan
zata da Sforza durante il Consiglio atlantico dell’aprile 1950, in merito alla formazione di un esercito integrato europeo con la più estesa standardizzazione degli armamenti e la creazione di un comando unificato, che risolvesse, tramite l’integrazione in unità operative multinazionali e un forte sistema di comando internazionale, il problema del riarmo tedesco. La proposta italiana, cogliendo alla sprovvista il Dipartimento di stato americano, venne interpretata come un ostacolo all’allora in corso processo di definizione della migliore tattica per affrontare la questione e come tale immediatamente archiviata28.
La Nato trasse dal tentativo americano di arrivare a una soluzione del problema tedesco — e, indirettamente, dallo scoppio della guerra di Corea — un enorme spinta in termini di organizzazione, forze e dottrine militari. Tramite l’impostazione elaborata congiuntamente dal Dipartimento della difesa e da quello di stato e poi nota sotto il nome di ‘pacchetto’ — successivamente rielaborata in sede Nato da Charles Spofford per renderla accettabile dai francesi — si giunse così ad un do ut des in cui l’assenso europeo al riarmo della Germania veniva ‘barattato’ con un duplice impegno americano: di partecipare, contrariamente ai preventivi impegni, ad una struttura di comando operativa nella Nato e collaborare con un accresciuto contingente di forze terrestri alla difesa europea29.
Questo secondo periodo di rinnovata atti-
26 G. Rossi, L ’Africa italiana, cit., pp. 318-319.2' L. Sebesta, L ’Italia e la questione della sicurezza europea, cit., pp. 177-183.28 Frus, 1950, III, The Ambassador in Italy to the Acting Secretary of State, Rome, May 5, 1950, pp. 91-93; ivi, The Acting Secretary of State to London, May 12, 1950, note 2, p. 96; ivi, Acheson to the Acting Secretary of State, May 11, 1950, p. 96; ivi, The Secretary of State to the Acting Secretary of State, May 16, 1950, pp. 105-108. Per Quaroni, Asmae, Amb. Parigi, b. 476, fase. 1, tel n. 355/1183, 27 marzo 1950. Riferimenti al piano italiano, considerato come precursore del piano Pleven, in Alfredo Breccia, L ’Italia e la difesa dell’Europa. Alle origini del Piano Pleven, Roma, Istituto di studi europei Alcide De Gasperi, 1984, pp. 193-195.29 Frus 1950, III, The Secretary of State and the Secretary of Defense to the President, September 1950, pp. 273- 278. Tale direttiva divenne politica di governo con il nome di Nsc 82, approvata da Truman T ll settembre 1950, ivi, nota 1, p. 273.
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vità organizzativa trovò espressione formale in un documento approvato dallo Standing Group nel dicembre 1950 dal titolo “La creazione di una forza integrata di difesa europea, lo stabilimento di un quartiergenerale in Europa e la riorganizzazione militare della Nato”30. Materialmente esso ebbe inizio con la nomina al posto di Comandante supremo alleato (Saceur) del generale Dwight Eisenhower, popolare in Europa per la sua esperienza presso il Comando supremo alleato durante la seconda guerra mondiale e noto negli Stati uniti, oltreché per i suoi meriti acquisiti in campo, per la sua esperienza come pianificatore e per la sua riservatezza in materia di preferenze politiche.
Nasceva così, per l’Italia, una nuova possibilità di riscatto legata prima di tutto alla soppressione dei gruppi regionali e alla riformulazione della struttura operativa; all’inizio del 1951, il governo si impegnava, rispondendo all’invito di Eisenhower, ad affidare allo Shape due divisioni di fanteria (la Mantova, la Folgore) — a cui si sarebbe aggiunta entro breve la Legnano —, una brigata corazzata (l’Ariete) e una brigata alpina (la Julia), oltreché un limitato numero di mezzi navali e aerei31.
I nuovi obiettivi di forza approvati al Consiglio atlantico di Lisbona del febbraio 1952, che prevedevano, per l’Italia, un contributo immediato di undici divisioni e due
terzi (attive e di riserva) e di sedici divisioni e un terzo entro il 1954 confermavano, da una parte, l’importanza del contributo italiano al fronte terrestre —- il numero di divisioni era secondo solo a quello della Francia —, dall’altra la sanzione ufficiale del superamento del Trattato di pace in sede atlantica32. L’esercitazione della Nato Lago di Garda, effettuata nella prima metà dello stesso anno, contribuì a consolidare l’ipotesi della funzionalità europea della frontiera nordorientale italiana33. A questi sviluppi in campo internazionale corrispondeva un’evoluzione del bilancio della difesa — ordinario e straordinario — e degli aiuti militari americani all’Italia che proprio nell’esercizio finanziario 1952-1953 toccava la punta massima. Il programma di riarmo pluriennale, accompagnato da una serie di provvedimenti economici volti a regolamentare l’attività produttiva, avrebbe registrato nel giro dei quattro esercizi finanziari di durata (dal 1950-1951 al 1953-1954) un incremento del 20 per cento34.
Nel frattempo, lo sviluppo organizzativo del settore mediterraneo entro la Nato appariva travagliato e lento, non solo per l’inesistenza di un fronte strategico continuo, ma, soprattutto, per la difficoltà di definirne il duplice ruolo di appoggio al fronte continentale e di sostegno al British Defence
30 Frus, 1950, III, December 12, 1950, pp. 548-562. Per i profondi mutamenti organizzativi che accompagnarono la formazione dello Shape, Lawrence Kaplan, A Community o f Interest: Nato and the Military Assistance Program, 1948-1951, Washington, U.S. Government Printing Office, 1980, pp. 131-135.31 Acs, Verbali riunione Consiglio dei ministri, 5 gennaio 1951; Naw, RG 319, G-3, box 117, 091 Italy, Memo Conversation Taylor-De Castiglioni, July 5, 1951; A tti Parlamentari, Camera dei Deputati, 6 marzo 1951, p. 26793. La decisione non venne sanzionata da alcuna autorizzazione parlamentare, non necessaria, secondo il ministero della Difesa, fintantoché le truppe non avessero varcato i confini nazionali; ivi.32 W. Poole, The History o f the Joint Chiefs o f Staff, cit., p. 293. Per le stime avanzate a Lisbona, si è fatto riferimento al volume sulla storia ufficiale dei Jcs perché esso riporta, a differenza di altri testi, la fonte primaria, ovvero un documento tuttora classified degli stessi Jcs. Le stime totali per quanto riguarda le forze terrestri, erano 53 divisioni e 2/3 (attive e di riserva) entro il 1952, 72 e 1/3 entro il 1953 e 89 e 2/3 entro il 1954. Per l’Italia, il contributo sarebbe stato di 11 divisioni e 2/3 entro il 1952, 15 e 1/3 entro il 1953 e 16 e 1/3 entro il 1954.33 E. Cerquetti, Le forze armate italiane, cit., pp. 117-118.34 Cfr. L. Sebesta, I programmi di aiuto militare nella politica americana, cit., p. 62.
Politica di sicurezza italiana 293
Coordination Committee, Middle East — da cui dipendevano le forze inglesi impegnate nella difesa del Medio Oriente.
Il Comando delle forze alleate del Sud Europa venne stabilito in forma provvisoria più di un anno dopo la creazione dello Shape, nel giugno 1951, e ad esso sottoposto; era la fine di un braccio di ferro tra Gran Bretagna e Stati uniti, in cui questi ultimi erano alla fine riusciti a far prevalere il principio della subordinazione del comando a quello del fronte centrale, legittimando quindi, a livello organizzativo, il concetto del Mediterraneo come ‘fronte di appoggio’ rispetto al teatro centrale contro quello, sostenuto dagli inglesi, del Mediterraneo come trait d ’union fra fronte europeo e fronte mediorientale, indipendente dal Saceqr.
Robert Carney, comandante delle forze navali americane nell’Atlantico settentrionale e nel Mediterraneo, venne nominato responsabile del nuovo comando con la carica di Commander, Allied Forces, Southern Europe (Cincsouth) e stabilì il suo quartierge- nerale a Napoli. Le trattative ripresero con l’arrivo dei conservatori al potere in Gran Bretagna — Churchill non perdonava agli americani di aver voluto per sé la carica di Supreme Allied Commander, Atlantic, nel febbraio 1951 — e vennero complicate dall’accesso di Grecia e Turchia al Patto atlantico nel febbraio 195235. Si giunse infine ad una divisione funzionale del comando: la carica venne sdoppiata tra Carney — che, pur mantenendo il titolo di Cincsouth, rimase responsabile della sola VI Flotta americana,
con funzioni di appoggio negli attacchi di bombardamento strategico e di copertura delle forze impegnate sul continente — e l’inglese Lord Mountbatten — Commander in Chief, Allied Forces, Mediterranean (Cin- cafmed) — cui venne affidato il compito di controllare i traffici marittimi e appoggiare le manovre del teatro mediorientale, senza necessità alcuna, per questa zona, di far riferimento all’autorità gerarchica della Nato, Era la rivincita inglese, temperata dalla dichiarata provvisorietà delle nomine effettuate nonché dal fatto che le forze navali francesi, italiane, greche e turche sottoposte al Cincafmed sarebbero rimaste responsabili nei confronti dei rispettivi governi, con funzioni di “carattere nazionale” non meglio specificate36.
Un italiano, il generale Maurizio L. De Castiglioni, venne posto nel maggio 1951 a capo del Comando alleato per le forze terrestri del Sud Europa (con sede a Verona) che venne diviso, dopo l’ingresso della Grecia e della Turchia nell’Alleanza, in due teatri operativi: un comando del Sud, con sede a Napoli e sotto l’autorità del successore di De Castiglioni, generale Enrico Frattini, e uno del Sudest europeo, guidato dal generale americano Willard G. Wyman e formato da truppe greche e turche affidate alla Nato, A Firenze, infine, venne stabilito nel giugno dello stesso anno, sotto la guida del generale americano David M. Schlatter, il comando del Sud Europa per le forze aeree, il cui primo compito fu l’organizzazione e l’addestramento delle unità di aviazione italiane37.
35 W. Poole, The History o f the Joint Chiefs o f S ta ff, cit., pp. 230-241 e 310-318.36 Public Record Office, London, Prem 11/44, TS From Chief of Air Staff and First Lord of the Sea to Minister of Defence, 21/11/1952; Prem 11/44, Cos (S) 17th, 28/11/1952. Il comando di Lord Mountbatten (che aveva rivestito cariche di comando di primo piano durante la seconda guerra mondiale) venne attivato nel marzo 1953, dopo l’approvazione da parte del Consiglio atlantico del dicembre 1952, cfr. W. Poole, The History o f the Joint Chiefs o f Staff, cit., p. 317.37 Naw, RG 59, Monthly report, July 1952; “11 Tempo” , 19 giugno 1951. Nel 1956 anche il Comando delle forze aeree per il Sud Europa sarebbe stato diviso in due, con una conseguente separazione delle sedi di comando (Vicenza e Smirne). Naw, RG 59, box 3489, First Annual Report of Commander in Chief, Allied Forces, Southern Europe, June 8, 1952.
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Nonostante le divergenze tra la Marina italiana e il Comitato di difesa dell’Alleanza atlantica riguardo alle forze necessarie per adempiere ai compiti fissati nel primo piano militare della Nato, il settore mediterraneo si presentò come un campo promettente di affermazione per le forze armate nazionali, di cui Carney, nel rapporto svolto alla fine del suo mandato, lodò la rinascita in atto38. Contribuirono a evidenziare l’importanza dell’Italia in questo teatro le estese esercitazioni svolte durante il successivo triennio del fianco sud della Nato39. L’accresciuto interesse per il valore strategico della penisola venne sanzionato durante l’amministrazione Eisenhower dal massimo organo di elaborazione della politica estera americana, il National Security Council, in un documento innovatore sulla politica statunitense per l’Italia. La principale novità del testo (Nsc 5411/2, approvato il 15 aprile 1954) rispetto al suo predecessore (l’Nsc 67/3, approvato il 5 gennaio 1951) era infatti proprio l’insistenza sulla importanza della posizione geografica della penisola nel perimetro difensivo della Nato (che trovava origine nelle modificazioni apportate alla stesura originale del testo dai Jcs) come “contrafforte meridionale del fronte centrale e, assieme alla Jugoslavia, bastione del fianco occidentale delle forze terrestri del fianco sud” . Altrettanto importante era il riferimento
fatto alle potenzialità del paese come base, aerea e navale, per le forze della Nato, nonché come produttrice di materiale bellico per le altre nazioni appartenenti al Patto atlantico40.
La diplomazia italiana parve muoversi, nel settore mediterraneo, con andamento rapsodico. Ciò era evidentemente una conseguenza della difficoltà — emersa con ricorrenza ciclica fin dal 1949 — di decidere se la politica mediterranea era destinata a rimanere una ‘articolazione’ di quella atlantica o se attraverso essa fosse stato possibile avviare una riflessione su un concetto di sicurezza nazionale più vasto e in un certo senso indipendente dalla stessa Alleanza atlantica41. A ciò si aggiungeva la difficoltà di definire geograficamente i limiti del settore sul quale si intendeva adottare un atteggiamento di attivo interessamento, nonché quella, più profonda, di comprendere entro uno schema interpretativo onnicomprensivo un teatro composito (che dal Mediterraneo occidentale si estendeva al Medio Oriente), per gran parte scosso da elementi di contrasto molteplici — dovuti ad un generalizzato blocco dello sviluppo economico, unito alla duplice tensione tra nazionalismo e colonialismo da una parte, stati arabi e stato d’Israele dall’altra42.
La complessità della questione veniva
38 Naw, RG 59, box 3489, First Annual Report of Commander in Chief, Allied Forces, Southern Europe, June 8, 1952; Naw, RG 218, Jcs files 1951-53, Western Europe, box 80, Jcs 2073/243, November 8, 1951.39 E. Cerquetti, Le forze armate italiane, cit., pp. 117-131 e First Annual Report, cit., per quelle tenute nel 1951-52 (Lago di Como, Lago di Garda, Grand Slam).40 Jcs files, reel II, Nsc 67/3, The position of the US with respect to the Communist Threat to Italy, January 5, 1951; Frus 1952-54, vol. IV, US Policy toward Italy, April 15, 1954, p. 1680.41 Vedi, ad esempio, la polemica fra Vittorio Zoppi, Segretario generale del ministero degli Affari esteri, e Renato Prunas (inviato in Egitto per aprire una sede d’ambasciata), Asmae, Dgap, Italia, b. 229, Prunas al ministero degli Esteri, 11 luglio 1950; Asmae, Dgap, Egitto, b. 851, Zoppi a Prunas, 1 dicembre 1950; Asmae, Dgap, Egitto, b. 851, Prunas al ministero degli Esteri, 16 gennaio 1951. L’espressione usata dal testo è in un rapporto di Quaroni al ministro degli Esteri, Asmae, Amb. Parigi b. 18 (coll, provv.), 14 dicembre 1953.42 Giampaolo Valdevit, American Policy in the Mediterranean: the operational codes, 1945-1953, Eui, Working Paper 87/310, 1987, pp. 37-38.
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pubblicamente affrontata dalle colonne dell’organo ufficiale della Farnesina, la rivista “Esteri”, che si esprimeva nell’aprile 1951 (in occasione delle prime ipotesi di formazione di un comando collettivo mediorientale con la partecipazione inglese e americana, senza la presenza italiana) con queste parole: “Non si tratta (...) oggi di fare soltanto un piano di emergenza d’ordine tattico per determinate eventualità di difesa, ma si tratta di dare una sistemazione politica, diplomatica, strategica e logistica a tutto il Medio oriente”43. Alcuni anni più tardi, con la formalizzazione del concetto di Northern Tier, teorizzato durante l’amministrazione Truman e messo in pratica da quella successiva — tramite l’appoggio risolutivo agli accordi bilaterali turco-pakistano e turco-iracheno completati dall’accessione a quest’ultimo della Gran Bretagna nell’aprile 1955 (e la conseguente nascita del patto di Bagdad) e del Pakistan, nel luglio seguente —, la bipo- larizzazione già in atto in Europa sembrò estendersi a una parte consistente del Medio Oriente44. Le vigorose proteste verbali sovietiche e la notizia delle forniture di armi cecoslovacche all’Egitto nel settembre dello stesso anno accentuarono questo trend. Alla luce della successiva vicenda di Suez, la dichiarazione della rivista “Esteri” sarebbe apparsa allora quanto mai profetica e foriera di una stagione molto fervida di elaborazione politica all’interno del ministero degli Affari esteri.
Per il momento, le potenzialità diplomatiche italiane erano tutte rivolte alla soluzione di una questione geograficamente più limita
ta ma politicamente ben più importante per la stessa identità nazionale dello stato, quella riguardante la definitiva sistemazione del Territorio libero di Trieste. Analogamente a quanto era successo con il Trattato di pace, ma con più drammaticità date le conseguenze reali che da essa scaturivano per una parte della stessa popolazione italiana, la vicenda costituì, per tutta la prima metà degli anni cinquanta, non solo un ostacolo allo sviluppo di normali rapporti (e quindi di ipotesi difensive comuni) con la Jugoslavia, ma anche e soprattutto, come era successo con il Trattato di pace, un elemento di disturbo nel recupero di una piena autonomia di azione diplomatica internazionale. Anche in questo caso, come già ai tempi del Trattato di pace, i rappresentanti diplomatici italiani insistettero sull’impossibilità di sfruttare a pieno le potenzialità militari della penisola — specialmente per quanto riguarda una ipotetica collaborazione bellica fra Jugoslavia e Italia — finché il problema non fosse stato risolto45. Anche la strutturazione militare dell’alleanza balcanica (avvenuta nell’estate 1954) venne interpretata, conseguentemente, come un tentativo pericoloso di istituzionalizzare ipotesi di difesa autonoma nei Balcani, creando così un gap difensivo nel fronte sud della Nato al confine fra Italia e Jugoslavia46. Ma il vero interesse italiano era quello di liberarsi, con una soluzione anche provvisoria (come sarà quella adottata nell’ottobre 1954), dell’ultimo ostacolo nei confronti di un più pieno sviluppo di una politica di sicurezza di ampio respiro.
Così Manlio Brosio, appena giunto a Washington come ambasciatore italiano agli
43 “Esteri” , n. 7, 1-15 aprile 1951, p. 93.44 Per una retrodatazione di questo processo, cfr. Bruce Robellet Kuniholm, The Origins o f the Cold War in the Middle East. Great Power Conflict and Diplomacy in Iran, Turkey and Greece, Princeton, Princeton University Press, 1980.45 Frus, 1951, III, The Minister in Luxembourg to the Secretary of State, Memo of Eisenhower visit to Italy, January 19, 1951,p. 443.46 Asmae, Dgap, busta 992, Telespresso Segr. Pol. 2073/c, 27 settembre 1954.
296 Lorenza Sebesta
inizi del 1955 avrebbe osservato a questo proposito: “Risolta la questione di Trieste è venuto meno l’unico grave ostacolo di carattere internazionale all’assunzione da parte dell’Italia di una funzione più attiva, di maggior responsabilità e anche di maggior prestigio nel mondo occidentale e in particolare in seno all’Alleanza nordatlantica. La politica europeista” proseguiva Brosio “non è più ostacolata da una grossa controversia di confine”47.
Questo mutamento di status — alla luce dei profondi cambiamenti internazionali che avevano segnato, e stavano ancora segnando, la prima metà degli anni cinquanta dalla morte di Stalin alla fine del conflitto coreano e all’avvio del processo di distensione nelle conferenze diplomatiche internazionali, dalla diminuzione della pressione sul fronte europeo centrale al consolidamento dell’interesse americano e sovietico per il Mediterraneo — offriva all’Italia nuove occasioni per ripensare la propria politica di sicurezza al riparo dalle ‘urgenze’ politiche interne ed economiche che avevano contraddistinto il periodo precedente.
La Nsc 5411/2, d’altronde, forniva una legittimazione importante alla presenza italiana nel Mediterraneo. Come auspicato fin dall’inizio dalla diplomazia italiana, gli Stati uniti erano entrati come attore di primo piano nel Mediterraneo, ma, come forse non tutti al ministero degli Affari esteri avevano capito, questa presenza avrebbe limitato l’autonomia dell’azione diplomatica nazionale imponendo un’impronta atlantica alla presenza italiana nel Mediterraneo e legando il fronte sud a quello centrale. Nel momento stesso in cui all’Italia veniva riconosciuto un ruolo militare nel fianco sud dell’Alleanza, si profilavano quei limiti politici alla formulazione di una politica estera di sicurezza au
tonoma del bacino mediterraneo che solo negli anni settanta sarebbero stati messi in discussione dalla Farnesina e dal ministero della Difesa.
Una difesa nucleare tattica per l’Europa?
Se, per gli anni immediatamente postbellici, la questione della difesa italiana sembrò giocarsi attorno alla coppia di variabili fronte centrale-fronte mediterraneo, a partire dai primi anni cinquanta su questa principale dicotomia si innestò un nuovo nodo tematico, quello relativo all’introduzione delle armi atomiche tattiche in Europa. L’avvio del processo di distensione in Europa, rivelando da una parte l’infondatezza del carattere permanente del conflitto Stati uniti-Unione sovietica, sembrò d’altro canto — considerate le innovazioni tecnologiche in campo sovietico, prima fra tutte la bomba atomica— colpire gravemente la credibilità della garanzia nucleare americana. Il concetto di sicurezza collettiva, attorno al quale era nata e si era strutturata l’Alleanza atlantica, veniva così a perdere due essenziali caposaldi: la minaccia sovietica da una parte, la possibilità di ritorsione atomica dall’altra.
Parallelamente, fra la fine degli anni quaranta e l’inizio del decennio successivo, si svolgeva negli Stati uniti un processo di revisione del crash program in campo nucleare— che aveva portato alla decisione di costruire la bomba H dopo l’esplosione della bomba A sovietica nell’agosto del 1949; ad opera degli scienziati che avevano avversato tale strategia, primo fra tutti Robert Oppenheimer (che verrà in seguito anche per questo processato), venne formato un gruppo di studio Comprendente scienziati e militari
J ' L’appunto venne redatto durante la fase preparatoria della visita del presidente del Consiglio Mario Sceiba e del ministro degli Esteri Gaetano Martino negli Stati uniti, Asniae, Dgap, 1955, busta 369, Brosio a Martino, 2 marzo 1955.
Politica di sicurezza italiana 297
provenienti dalle tre forze armate, il cui compito era quello di “riportare la guerra nel campo di battaglia” , ovvero di tentare una sistematizzazione concettuale dello sfruttamento dell’energia nucleare nell’am- bito della tattica militare. Lo studio emerso da questo gruppo di ricerca — noto con il nome di Progetto Vista — affrontava per la prima volta in modo organico il problema dell’impiego delle armi nucleari suggerendo lo sviluppo di una serie di armi atomiche di potenza subkilotonica da usarsi, in modo particolare, in Europa48. I due concetti essenziali avanzati dal gruppo erano i seguenti:1. l’impiego delle armi nucleari a livello tattico avrebbe reso rischiosa l’applicazione del principio della concentrazione delle forze che aveva, fino a quel momento, presieduto i piani di battaglia, poiché i concentramenti di truppe sarebbero stati difficilmente difendibili da un attacco nucleare tattico,2. le armi atomiche tattiche avrebbero portato a un aumento considerevole della potenza di tiro di ogni unità, permettendo così di ridurre uomini e livelli di costo per un dato livello di potenza di fuoco49.
Questi dati, anche se destinati a una revisione profonda durante gli anni cinquanta costituivano un’indubbia attrattiva per un’alleanza in cerca di un metodo per accordare necessità militari di espansione con priorità economiche e politiche interne dei
paesi membri che andavano nella direzione opposta50. Il Consiglio atlantico riunito a Lisbona nel febbraio 1952, fissando il numero minimo delle divisioni che avrebbero garantito la difesa della Nato, aveva infatti costretto gli alleati a prendere coscienza di una questione fino allora rimossa: quella del legame fra la strategia dell’Alleanza atlantica e i mezzi per farvi fronte. Dal primo punto di vista, gli obbiettivi di Lisbona erano chiaramente qualcosa in più rispetto a ciò che, teoricamente, erano le implicazioni a livello di forze della cosiddetta teoria del ‘campanello d’allarme’, secondo cui le forze terrestri non avrebbero rappresentato altro che una linea di prima resistenza il cui attacco avrebbe scatenato automaticamente una rappresaglia nucleare. Tale strategia, infatti, non avrebbe richiesto che contingenti simbolici; al contrario le direttive del Consiglio atlantico prevedevano non solo un aumento di effettivi estremamente cospicuo, ma anche il raddoppio dei fondi devoluti ai programmi comuni di infrastrutture e l’ampliamento del numero dei partecipanti al programma (fra i quali, in quest’occasione, venne inclusa anche l’Italia). Il programma, iniziato in sordina nel 1950, prevedeva la costituzione di una rete di installazioni di vario tipo — dagli aeroporti, ai sistemi di comunicazione e di rifornimento di carburante, ai quartiergenerali — con un particolare sistema di ripartizione delle spese, e confermava
48 Cfr. Robert Gilpin, American Scientists and Nuclear Weapons Policy, Princeton, Princeton University Press, 1962, p, 115, Fra 1 contributi più recenti (1 documenti relativi al Progetto Vista sono stati solo da poco declassificati), David Elliot, Project Vista and Nuclear Weapons to Europe, “International Security”, Summer 1986, vol, 11, n. 11, pp. 163-183. Va ricordato che il documento finale venne accantonato in seguito alle pressioni dell’Aeronautica che scorgeva nelle sue conclusioni un attacco al proprio predominio sulle altre due forze armate.
La differenza tra impiego strategico e tattico va spiegata in relazione agli obbiettivi di tali armi: strategiche sono le armi destinate a colpire le potenzialità belliche di un paese — forze militari, impianti economici e industriali, centri urbani —, tattiche sono le armi il cui uso è legato a operazioni campali. Cfr. David Schwartz, N ato’s Nuclear Dilemmas, Washington DC, The Brooking Institution, 1983, p. 2, nota.49 D. Schwartz, N ato’s Nuclear Dilemmas, cit., p. 22.55 Gregg Herken, The Winning weapon. The Atomic Bomb in the cold war, 1945-1950, New York, Alfred Knopf, 1980, pp. 292. Sulle prime ipotesi avanzate dai militari nel 1949 in merito all’impiego tattico di armi nucleari, ivi, pp, 389-397.
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quindi l’interesse della Nato per gli aspetti logistici del dispositivo difensivo occidentale che non si poteva accontentare di promesse di interventi esterni51.
Dal secondo punto di vista, l’approvazione a Lisbona del documento elaborato dal Temporary Council Committee consacrava un cambiamento importante nel metodo di riarmo atlantico: ad una programmazione poco vincolante legata a un obbiettivo statico di medio termine, il 1954 (anno di “massimo pericolo” secondo il Piano a medio termine del 1950) veniva sostituita una pianificazione in progress e più aderente alle esigenze di un rafforzamento deciso e protratto nel tempo della potenza militare atlantica (la cosiddetta Annual Review). Veniva così introdotto un triplice riferimento temporale: la fine del 1952 per obbiettivi irrinunciabili di riarmo, il 1953 per le stime provvisorie e il 1954 come limite di una programmazione da rivedere annualmente (con la conseguente estensione del riferimento temporale), soggetta a modificazioni future dettate da possibili mutamenti nelle relazioni internazionali e variazioni della minaccia militare nonché dallo sviluppo di nuove armi52.
Le difficoltà politiche ed economiche di una repentina conversione alla produzione bellica nonché la stabilizzazione della situazione militare in Corea, indussero gli stati europei a una profonda resistenza nei confronti dell’adesione agli obbiettivi di Lisbona. Ne\YAnnual Review redatta nel 1952 venne riconosciuta l’impossibilità di rag
giungere le previsioni di forza per il 1954 fissate dal Consiglio atlantico in febbraio. Anche il riarmo nel breve periodo sembrava segnare il passo: il direttore del Mutual Security Program, Averell Harriman, constatava sconsolatamente nella seconda metà dell’agosto 1952 come si fosse ben lontani dall’a- ver raggiunto, in Europa, il numero di forze previsto per la fine del 195253.
Con l’avvento dell’amministrazione Eisenhower dopo le elezioni del novembre 1952, d’altra parte, riemerse con forza il tema dell’impiego tattico delle armi nucleari, relegato negli anni precedenti alle sfere militari (o a quelle dei gruppi di lavoro speciali con poca operabilità immediata). Tale impiego venne visto da più parti come un metodo per superare il dilemma fra possibilità (politico-economiche) e necessità (militari) dell’Alleanza e degli stessi Stati uniti e sembrò fornire un’agile scappatoia per evitare la scelta tra “sicurezza e prosperità” in un momento in cui Stati uniti e Unione sovietica si avviavano verso un grado superiore di parità nella corsa agli armamenti nucleari54. II 12 agosto 1953, infatti, l’Unione sovietica, a poco meno di un anno di distanza dagli Stati uniti, sperimentava il primo ordigno termo- nucleare55. “Non c’è ancora una forza della Nato capace di difendere l’intera area in caso di attacco, cioè di attuare la strategia avanzata” scriveva un mese dopo al segretario di Stato il suo assistente per gli affari europei, James Bonbright. “Fino a che sia-
51 J. Huston, One o f all, cit., p. 161; Lord Ismay, Nato\ The First Five Years, 1949-1954, Utrecht, Bosch, s.d., pp. 114-116.52 Naw, RG 59, 740.5 Msp, From Paris to Eca, December 15, 1951; W. Poole, The History o f the Joint Chiefs o f Staff, vol. IV, cit., p. 292.53 Frus, 1952-54, vol. I, part 1, Report Prepared by the Office of the Director of Mutual Security (Harriman), Nsc 135 n. 3, August 18, 1952, p. 517.54 Thomas Etzold, The End o f the Beginning... N ato's Adoption o f Nuclear Strategy, Olav Riste (a cura di), Western Security: The Formative Years. European and Atlantic Defence, 1947-1953, Oslo, Norwegian University Press, 1985, p. 292.55 Robert Watson, History o f the Joint Chiefs o f Staff, The Joint Chiefs o f S ta ff and National Policy, 1953-1954, vol. V, Washington, Historical Division, Jcs, 1986, p. 40; R. Hewlett and F. Duncan, A History o f the Atomic Energy Commission, II, The Atomic Shield, University Park, Pennsylvania State University Press, 1969, p. 673.
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mo in grado di assicurare una valida deterrenza, abbiamo il tempo di completare il riarmo: ma se non chiudiamo il divario esistente fra possibilità e necessità, sarà forse possibile per noi vincere, in ultima istanza, un conflitto, ma non potremmo mai attuare l’unico piano politicamente accettabile della Nato, la strategia avanzata”56.
Superata la fase sperimentale, l’efficacia delle armi nucleari tattiche nel teatro europeo venne verificata in un’esercitazione della Nato, la Monte Carlo, compiuta sulla riva orientale del Reno nella porzione centrale del suo corso nel settembre 1953 con l’impiego di mezzi aerei e terrestri francesi, belgi e americani57. Altre esercitazioni con impiego di ordigni nucleari ebbero luogo nel biennio successivo; da una di queste, la Carte Bianche — che vide la partecipazione di 11 paesi fra cui anche l’Italia — risultò che l’impiego di 355 armi nucleari per la difesa dell’Europa occidentale avrebbe causato un milione e settecentomila morti e tre milioni e mezzo di feriti nella sola Germania58.
Nonostante la gravità dei risultati che cominciavano ad essere raccolti grazie a queste prime esperienze, e nonostante l’esito negativo di studi condotti dal Saceur circa la pos
sibilità di ridurre, tramite l’introduzione delle nuove armi, il numero di uomini impiegati nella difesa dell’Europa, i primi cannoni 280 mm (che potevano funzionare con munizione normale e atomica) arrivarono a Bremerhaven e furono presi in consegna dalle truppe americane di stanza in Germania nell’ottobre 195359. Alla fine dello stesso mese, l’impiego tattico delle armi atomiche acquistò una legittimità istituzionale con l’approvazione da parte del presidente Eisenhower di un documento del National Security Council (Nsc 162/2) destinato a costituire la base teorica della politica di sicurezza dell’amministrazione per molti anni a venire. Rilevando il diminuito effetto deterrente del potere atomico americano nei confronti di possibili ‘aggressioni periferiche’ dato l’aumento della capacità nucleare sovietica, gli autori del documento consigliavano, fra le altre contromisure, quella di far uso delle armi atomiche considerandole alla stregua degli altri tipi di armi convenzionali60.
Il Consiglio atlantico riunito a Parigi nel dicembre 1953, dopo aver auspicato — sulla scia del noto discorso di Eisenhower Atom for Peace — lo sviluppo dell’uso pacifico dell’energia atomica, si occupò per la prima
56 Frus, 1952-54, V, 1, Memorandum by the Deputy Assistant Secretary of State for European Affairs (Bonbright) to the Secretary of State, September 24, 1953, p. 442. La strategia avanzata cui si fa riferimento è quella adottata nel Piano a medio termine della Nato secondo cui la difesa europea andava estesa a tutta la Germania occidentale seguendo la linea segnata dai fiumi Reno e Jissel.37 Lord Ismay, Nato: The first five years, cit., p. 105.ss D. Schwartz, N ato’s Nuclear Dilemmas, cit., pp. 42-43; Henry Kissinger, Nuclear Weapons and Foreign Policy, New York, Harper and Brothers, 1957, pp. 291-297.39 Keesings' Contemporary Archives, 1952-54, pp. 13357. È interessante ricordare che già nell’aprile 1953 il Dipartimento della Difesa americano aveva annunciato l’avvio di corsi di warfare atomico per i comandanti della Nato presso la Weapons Schools a Garmish, nella Germania meridionale. William Park, Defending the West. A History o f Nato, Brighton, Wheatseaf Books, 1986, p. 35 e Lord Ismay, Nato-, The First Five Years, cit., p. 106. Il trasferimento dei cannoni 280 mm era stato richiesto, fin dal giugno, dal generale Ridgway succeduto al generale Eisenhower alla carica di Saceur, ed era stato approvato dai Jcs e dal Dipartimento di Stato. Cfr. David Rosenberg, The Origin o f the Overkill. Nuclear Weapons and American Strategy, 1945-1960, “International Security”, Spring 1983, pp. 30-31; R. Watson, History o f the Joint Chiefs o f Staff, vol. V, cit., p. 298.60 Frus, 1952-54, vol. II, part 1, “Basic National Security Policy”, October 30, 1953, p. 581 e p. 593 (pp. 557-597 per il testo completo).
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volta di “armi moderne dell’ultimo tipo per rinforzare il sistema difensivo della Nato” (è interessànte notare come una sorta di tabù linguistico abbia spesso impedito agli estensori dei comunicati delle sedute di impiegare gli aggettivi “nucleare” o “atomico”)61. I ministri partecipanti presero atto, con soddisfazione, della dichiarazione del segretario della Difesa americana Charles Wilson circa l’intenzione del proprio governo di chiedere al Congresso una modifica del MacMahon Act — legge approvata nel 1946 per impedire la diffusione di notizie concernenti la produzione di materiale fissile, il suo impiego nella produzione di armi atomiche nonché l’utilizzo delle stesse armi62. La modifica di tale legge era auspicata per fornire ai comandanti della Nato i dati relativi all’efficacia dell’impiego delle armi atomiche — con particolare riguardo per l’artiglieria atomica — per fini di pianificazione. Contemporaneamente, il Consiglio ritoccava, abbassandole, le stime avanzate a Lisbona riguardo agli obiettivi di forza per il 1954, mentre il segretario della Difesa Charles Wilson prospettava un aumento delle forze aeree americane da assegnare all’Europa, assieme all’invio di due squadre di missili Matador nel 1954 e altre due nel 195563. Il dibattito sull’Èdc e 1’ “agonizing reapprisal” minacciata dal segretario Foster Dulles — che costituirono pur sempre due importanti fulcri di dibattito in seno al Consiglio — non parvero influenzare lo sviluppo della tematica nucleare.Nel gennaio 1954, il generale Alfred Gruen-
ther — che aveva sostituito il generale Matthew Ridgway nella carica di Saceur nel luglio 1953 — cercava di riformulare operativamente la nuova strategia, affermando: “Abbiamo [...] uno scudo aereo-terrestre che, anche se non ancora sufficientemente forte, costringerà il nemico a operare una concentrazione di forze prima dell’aggressione. Così, tali forze saranno estremamente vulnerabili nei confronti di attacchi atomici [...]. Ora siamo in grado di impiegare armi atomiche contro un aggressore, impiegando non solo aerei a largo raggio, ma anche aerei a breve raggio e artiglieria da280mm. [..,]”64.
Il presidente Eisenhower gli faceva eco durante l’annuale messaggio dell’Unione parlando della necessità di condividere con gli alleati alcune nozioni sull’impiego tattico delle armi nucleari, di attuare economie di uomini e di perseguire una mobilità d’azione allargata tramite la creazione di riserve strategiche in mano americana, poste in condizione di essere rapidamente impiegate65. Alcune settimane più tardi, con il carattere esplicito che gli era peculiare, il segretario di Stato Dulles, affermava davanti al Council o f Foreign Relations di New York di voler perseguire la difesa collettiva il più efficacemente e, allo stesso tempo, con il minor dispendio possibile: gli Stati uniti avrebbero quindi, d’ora in poi, attribuito un maggior peso alla deterrenza rispetto al potere di difesa locale, riservandosi di “contrattaccare istantaneamente, con mezzi e in luoghi di scelta [propria]” . Per far ciò, Dulles auspicava, sulla scorta del documento Nsc 162/2,
61 Texts o f Final Communiques, 1949-1970, Issued by Ministerial Sessions of the North Atlantic Council, the Defence Planning Committee, and the Nuclear Planning Group, Bruxelles, Servizio informazioni Nato, s.d.; Communiques of Paris, 14-16 December 1953, p. 72.62 Giuridicamente nota come Atomic Energy A ct, tale legge puniva i reati ascrivibili a tali catégorie con la pena di morte. Sezione 10 (b) (1), Robert Kromer, New Weapons and Nato. Solutions or Irritants?, New York, Greenwood Press, 1987, p. 44. La modifica di tale legge era auspicata per fornire ai comandanti della Nato i dati relativi all’efficacia dell’impiego delle armi atomiche — con particolare riguardo per l’artiglieria atomica.63 R. Watson, History o f the Joint Chiefs o f Staff, vol. V, cit., p. 299.64 Lord Ismay, Nato: The First Five Years, cit., p. 108.65 Usis, US Information Service, Sezione Stampa, giovedì 7 gennaio, vol. 4, n. 4.
Politica di sicurezza italiana 301
la creazione di un esteso sistèma di basi e fa cilities che sarebbero state costruite con probabilità nei territori dei paesi alleati più vicini al territorio sovietico66.
Due sembravano quindi essere le componenti della politica di ‘rappresaglia massiccia’: una era quella della dissuasione rinforzata nei confronti dell’Unione sovietica, l’altra — attinente ai rapporti fra Stati uniti-Europa — riguardava il tentativo di supplire all’impossibilità di ottemperare alle previsioni di Lisbona e alla scarsa possibilità di tener fede agli impegni presi dai sei paesi europei a Parigi per la creazione di un esercito europeo integrato67.
Incaricato di comporre queste direttive per certi aspetti divergenti fu il Comitato militare della Nato che, dopo un’elaborazione lenta e travagliata, arrivò nel 1954 alla stesura definitiva del documento Me 48 in cui si prendeva atto che, anche con l’apporto tedesco, l’Alleanza non sarebbe stata in grado di respingere un’invasiòne nemica di vaste proporzioni se non facendo ricorso ad armi nucleari, qualsiasi fosse stato il tipo di attacco subito, nucleare o convenzionale68. Il documento sollevava però due gravi problemi. In Vista della sua presentazione al Consiglio atlantico, il sottosegretàrio di Stato per gli Affari europei Livingston Merchant, scrivendo a Dulles, chiarì il maggiore dei due in questi termini: “Mentre gli alleati europei avevano originariamente sperato che
una strategia nucleare Nato avrebbe abbassato sia i costi che i pericoli, il documento chiarirà che non solo essa non costerà meno e potrà anzi costare di più, ma che il crescente potere nucleare sovietico sta creando nuovi pericoli. In un certo senso, la speranza può lasciar spazio alla paura”69. I rappresentanti europei al Consiglio atlantico di dicèmbre non sembrarono però particolarmente sensibili a questo problema quanto piuttosto a quello, più concreto e pratico, del controllo politico dell’impiego delle armi atomiche. Le autorità militari della Nato — alle quali, fin dall’inizio dell’anno, i rappresentanti italiani e francesi avevano chiesto cosa sarebbe successo il giorno dell’eventuale scoppio delle ostilità, quando tutto il potere decisionale sull’uso delle armi atomiche (tattiche e non) fosse ricaduto esclusivamente sugli Stati uniti — avevano infatti deciso di demandare ai leader politici dell’Alleanza la decisione di concedere o meno il preventivò potere di impiegare le armi atomiche in caso di necessità. In sede atlantica, la risposta, pur con varie sfumature, fu nel senso di riservare ai singoli governi il diritto di decidere se e quando dare avvio all’impiego delle armi atomiche sul proprio territorio, pur lasciando all’autorità militare della Nato il compito di pianificare e apprestare le difese tenendo conto della disponibilità di tali ordigni70. Con tale riserva, l’Mc 48 venne approvata dal Consiglio.
66 John Foster Dulles, The evolution o f Foreign Policy, “Department of State Bulletin”, voi. 30, January 25, 1954, pp. 107-110.67 D. Rosenberg, Reality and Responsability: Power and Process in the Making o f US Nuclear Strategy, 1945- 1968, “The Journal of Strategic Studies”, 1986, n. 1, p. 42.68 Un breve riassunto del documento, ancora classified, è in Frus, 1952-54, V, 1, Memo by the Assistant Secretary of State for European Affairs (Merchant) to the Secretary of State, November 1, 1954, p. 528. Cfr. anche Asmae, Dgap, Amb. Parigi, b. 40 (coll, prow .), Appunto relativo alla riunione del Consiglio atlantico, 17-18 dicembre 1954, Direzione generale Cooperazione internazionale, 30 dicembre 1954.69 Frus, 1952-54, V, 1, Memo by the Assistant Secretary of State for European Affairs (Merchant) to the Secretary of State, November 1, 1954, p. 529; in termini analoghi si esprimevano, il giorno seguente, i segretari di Stato e della Difesa in un messaggio congiunto inviato allo stesso Eisenhower, ivi, Memo by the Secretary of State ad the Secretary of Defense to the President, November 2, 1954, pp. 531.70 Frus, 1952-54, V, 1, Statement by the Secretary of State to the North Atlantic Council closed Ministerial Session, Paris, April 23, 1954, p. 512; anche Texts o f final Communiques, 1949-1970, cit., pp. 78-80; per gli interventi dei rappresentanti italiano e francese, cfr. R. Watson, History o f the Joint Chiefs o f Staff, vol. V, cit., p. 305.
302 Lorenza Sebesta
L’intera costruzione concettuale si basava sulla possibilità di distinguere fra armi nucleari tattiche e armi nucleari strategiche, tracciando una linea divisoria quanto mai problematica da individuare non solo da un punto di vista tecnico, ma politico. Una volta sancita la ‘spendibilità’ dell’armamento atomico, ne sarebbe stato attenuato il valore deterrente, mettendo a repentaglio la credibilità della neonata massive retaliation: la minaccia (politica e diplomatica) di una apocalittica rappresaglia massiccia sembrava lasciare il posto all’uso (militare) mirato di armi nucleari la cui pericolosità veniva in qualche modo esorcizzata dal fatto di essere ‘tattiche’. Strateghi anglosassoni di generazioni e tendenze diverse — Liddell Hart, Bernard Brodie, William Kaufman, Henry Kissinger fra i tanti — avrebbero cercato la soluzione di questo dilemma a partire dalla metà degli anni cinquanta.
L’impiego di armi nucleari in Europa sollevava altre questioni non secondarie: da una parte, infatti, a poca distanza dalle dichiarazioni trionfalistiche sui possibili risparmi derivati dalla nuova strategia, un’esame più attento veniva a rovesciare le iniziali ipotesi di convenienza economica. D’altra parte, alla retorica del jusqu’au bout si contrapponeva una pratica che, da un punto di vista tecnico militare, dimostrava una distruttività controproducente — ne era una riprova l’esercitazione Carte Bianche — e da un punto di vista politico, una difficoltà di impiego che la rendeva praticamente inattuabile in campo europeo. Proprio lo scarto fra una politica declaratoria impostata sulla massive retaliation e una pratica legata più alla preparazione di un’azione difensiva locale (che dipendeva sempre, in ultima analisi, dagli Stati uniti) avrebbe costituito la ci
fra dei rapporti euroamericani durante gli anni cinquanta e una delle componenti fondamentali della crisi di fiducia sviluppatasi al loro interno.
L ’Italia e le ‘armi nuove’
Vi fu chi, nel ministero degli Affari esteri italiano, fu pronto a cogliere l’importanza della questione nucleare e trarne conseguenze dirette per il paese. Massimo Magistrati (allora direttore generale della Cooperazione internazionale del ministero degli Affari esteri), definì il problema come “l’argomento ‘principe’” della riunione atlantica del dicembre 1953, “prodromo di una vera e propria rivoluzione di tutto l’assetto difensivo dell’Alleanza” , dalla quale si sarebbe inevitabilmente giunti a una revisione “anche sul terreno finanziario e economico dell’intero piano protettivo”71.
Alcuni mesi più tardi, in un appunto della Direzione generale Affari politici dal titolo Nuovi concetti strategici americani, si rilevava come il crescente “affidamento sul potenziale atomico-termonucleare” , pur non eliminando completamente il concetto di difesa locale, ne diminuisse drasticamente l’importanza. Da qui discendeva una probabile diminuzione dell’influenza degli alleati minori, destinati a essere considerati, principalmente, come basi logistiche per l’attività delle forze aeree americane72. Questa ipotesi acquistava rilevanza speciale nell’autunno dello stesso anno con la firma dell’accordo bilaterale italoamericano sulle facilities, in base al quale venivano definiti i caratteri giuridici ed economici di un gruppo di intese particolari (tuttora segrete) riguardanti installazioni aeree e navali di uso americano in
71 Appunto sulla XII sessione del Consiglio Nord Atlantico, Parigi, 14-16 dicembre 1953, Asmae, Amb. Parigi, busta 18 (collocazione provvisoria), n. 21-4105. Cfr. Antonio Varsori, L ’Italia fra alleanza atlantica e Ced (1949- 1954), “Storia delle relazioni internazionali”, 1988, n. 1, pp. 151-152.72 Asmae, Dgap, busta 286, 14 aprile 1954.
Politica di sicurezza italiana 303
Italia73. Nonostante l’auspicio del ministro degli Esteri Gaetano Martino, un anno più tardi (durante l’approvazione dell’Mc 48 al Consiglio atlantico del dicembre 1954) di limitare il progresso in campo atomico al periodo in cui “non fosse ancora stato possibile raggiungere una convenzione universale circa la limitazione degli armamenti e l’uso delle armi atomiche”74, tale compito venne demandato all’Onu e la Nato si concentrò piuttosto, da quel momento in poi, sui metodi per rendere operativi i vantaggi dell’uso militare della nuova energia.
La richiesta italiana di introdurre nel comunicato finale del Consiglio un plauso per l’accordo sul controllo degli armamenti in discussione presso l’Onu, venne accettata dalla delegazione americana con una certa freddezza. Nel resoconto fatto dalla Direzione generale Cooperazione internazionale del ministero degli Affari esteri italiano, d’altronde, la richiesta veniva giustificata più come una preoccupazione nei riguardi dell’opinione pubblica dei paesi membri (in quanto le indiscrezioni stampa sul documento Me 48 potevano creare l’impressione di un diminuito interesse dell’Alleanza verso un effettivo disarmo) che non come un sincero interessamento per l’accordo in sé75.
Tra il settembre e l’ottobre 1955 la questione delle armi atomiche tattiche acquistò
per l’Italia una concretezza tutta particolare. Dopo la firma del Trattato di pace austriaco, le truppe americane d’occupazione — un contingente di circa cinquemila uomini — vennero infatti dislocate nel Nord Italia, a Vicenza. Dotate di missili a breve raggio Honest John, queste forze formarono la Setaf — Southern Europe Task Force —, ovvero una forza di esclusiva formazione americana, guidata dal generale Michaelis, sotto la responsabilità formale del Comandante delle forze terrestri alleate per il Sud Europa, il generale italiano Clemente Premieri, nuovo Comandante delle forze terrestri del Sud Europa — ma le cui armi nucleari rimasero sotto l’esclusivo controllo americano76.
Già da qualche tempo la pubblicistica militare italiana aveva iniziato ad occuparsi dell’impiego delle armi atomiche, nonostante la difficoltà di apprezzarne a pieno le novità tecniche a causa della frammentarietà di notizie provenienti dall’estero e della profonda confusione vigente negli stessi Stati uniti circa valore deterrente e valore d’uso di tali armi77. In linea generale, nell’Aeronautica si diffuse la tendenza a interpretare le novità in campo atomico alla luce del dettato douhettiano di “resistere in superficie e far massa nell’aria” in vista di recuperare una funzione preminente all’interno delle forze armate nazionali. Pur guardando con
73 Asmae, Dgap, busta 286, Appunto Direzione generale, Nuovi concetti strategici americani, 17 aprile 1954. Ivi, Appunto Magistrati incontro Dulles-Scelba, 2 maggio 1954. L’accordo bilaterale dell’ottobre 1954 non va confuso con la convenzione di Londra — 16 giugno 1951 — sullo status delle forze armate dei paesi della Nato e con il protocollo di Parigi — 28 agosto 1952 — sullo status dei quartieri generali militari internazionali dell’Alleanza, ratificate entrambe nel novembre 1955 dall’Italia. Nato Documentazione, a cura del servizio informazioni della Nato, Roma, Notizie Nato, 1977 (V ed.), pp. 331-344 e pp. 354-359.74 Frus, 1952-54, V, 1, The U.S. Delegation at the North Atlantic Council meeting to the Department of State, December 18, 1954. Cfr. A. Varsori, L ’Italia fra alleanza atlantica e Ced, cit., p. 160.75 Asmae, Amb. Parigi, b. 40 (coll, prow .), XV riunione Consiglio Atlantico, 17-18 dicembre 1954, Direzione generale Cooperazione internazionale, 30 dicembre 1954.76 Annuario di politica internazionale (1955), Milano, Ispi, pp. 879-882; Marco De Andreis, The Nuclear Debate in Italy, “Survival” , May-June 1986, p. 195.7' L. Sebesta, ‘Two Scorpions in a Bottle’: la bomba H fra strategia e politica, “Storia delle relazioni internazionali”, 1987, n. 2, pp. 340-348.
304 Lorenza Sebesta
cautela alla possibilità di impiego delle armi atomiche strategiche sul suolo europeo, i suoi rappresentanti furono pronti a recepire l’importanza per un’aviazione come quella italiana — che difficilmente avrebbe potuto far uso di bombardieri strategici! — dello sviluppo di armi di potenza subkilotonica78. Le linee portanti del ragionamento dei rappresentanti dell’Aeronautica emergono chiaramente da uno studio sull’argomento redatto dal generale Giachino, rappresentante dell’Aeronautica presso la Delegazione italiana Ced (smobilitata nel settembre 1954). “Il mezzo tecnicamente superiore — scriveva Giachino — e per noi decisivo, è rappresentato dall’arma atomica che, impiegata dall’aviazione tattica, potrà da sola sconvolgere e rivoluzionare tutti i criteri di lotta sinora concepiti, riducendo l’importanza della massa delle forze terrestri ed imponendo limiti molto bassi al principio di saturazione degli spazi”79. L’interesse del generale non era quindi solo quello di sottolineare l’importanza del nuovo mezzo per l’Aeronautica, ma anche di presentare la propria arma come quella meglio attrezzata per sfruttare con più efficacia quella innovazione tecnologica.
Ma c’era già chi, all’interno dell’esercito (per opposte ragioni), stava pensando proprio alla revisione dei principi di saturazione
cui Giachino faceva cenno. Già sollevata nel corso del 1949 dalle pagine della “Rivista militare”80, la questione acquistò un carattere pressante nel 1954-1955 quando l’ipotesi di un impiego nel teatro europeo delle artiglierie atomiche tattiche acquistò particolare verosimiglianza. Già nel marzo 1954, il maggiore d’artiglieria Giuseppe Maria Vaccaro (dando notizia dell’imminente pubblicazione della circolare riservata n. 4000, Cenni sulla difesa atomica campale) rilevava dalle pagine della “Rivista militare” la sostanziale modificazione dello spiegamento di forze in campo richiesta dall’impiego di tali nuovi mezzi. Si trattava di introdurre rilevanti novità di organizzazione e impiego delle forze militari, capovolgendo il concetto classico della concentrazione a favore di quella della dispersione delle postazioni — dispersione resa necessaria dall’ampio raggio d’azione delle armi nucleari nonché (specularmente) quello della ricerca del punto debole nello schieramento avversario a favore invece della ricerca del punto forte — per ottenere il massimo rendimento distruttivo81. L’idea fu rielaborata con riferimento alla esistente circolare per la difesa tattica campale di cui il generale di brigata Pietro Mellano propose, nel giugno del 1954, una revisione. Egli parlò infatti dell’opportunità di “alleggerire la consistenza dei capisaldi previsti dalla circolare 3.000 a
78 Oscar Di Giambernardino, Attualità della teoria Douhet, ‘♦Rivista aeronautica”, aprile 1950, pp. 269^71; Francesco Roluti, Atomica-Europa-Itaiia. “Rivista aeronautica”, gennaio 1949, pp. 17-34; Id., Aeronautica nostra, “Rivista aeronautica”, pp. 827-834. Per Douhet, Giulio Douhet, La guerra integrale, Roma, Franco Campitelli, 1936, p. 400. Va ricordato qui come in questi anni si attuasse l’estromissione dalla “Rivista aeronautica” del suo stesso direttore, Amedeo Mecozzi (alias Demèzio Zèmaco), che aveva sempre osteggiato le teorie douhettiane nonché la dottrina americana della massive retaliation; cfr. Virgilio Ilari, Le forze armate tra politica e potere, 1943- 1976, Firenze, Vallecchi, 1978, p. 38. Gli aspetti relativi alla discussione della tematica atomica entro la Marina non sono trattati in questa sede in quanto essi formano l’oggetto di una relazione redatta nello stesso gruppo di lavoro da Ezio Ferrante.79 Asmae, Amb. Parigi b. 40 (coll, prow.), fase. 4, Ambassade d’Italie, Attaché de l’air, 20 settembre 1954, p. 10.80 Sugli esordi della tematica nucleare in Italia (1945-1950), cfr. Ferruccio Botti - V. Ilari, Il pensiero militare italiano dal primo al secondo dopoguerra (1919-1949), Roma, Ufficio storico Sme, 1985, pp. 665-678.81 Giuseppe Maria Vaccaro, Lo sviluppo della regolamentazione tattica e addestrativa italiana nel 1953, “Rivista militare”, marzo 1954, pp. 247-260.
Politica di sicurezza italiana 305
vantaggio di mobilissime riserve, frazionate, ben occultate ed in condizioni di far massa nel punto e nel momento adatto”82. Lo spunto di Mellano venne in seguito ripreso, pur con accenti diversi, all’interno di vari contributi apparsi sulla “Rivista militare” e ufficialmente elaborato in una nuova serie dottrinale che, dal 1955 in poi, impegnò il generale Giorgio Liuzzi per i suoi quattro anni di permanenza in carica come capo di Stato maggiore dell’Esercito83. Il tema trovò definitivamente sistemazione dottrinale nel 1958 con l’approvazione in forma definitiva di una circolare logistica completa circa la difesa e offesa campale con armi atomiche tattiche (la nota serie dottrinale 600). Basata sul binomio unità corazzate-armi atomiche, e quindi sulla bivalenza, la circolare faceva un particolare riferimento alla necessità di aumentare la profondità, la flessibilità e la reattività delle nuove postazioni difensive per rispondere ad un attacco atomico campale84.
Due questioni rimanevano aperte: quella della disponibilità di ordigni atomici, necessaria per qualsiasi forma di efficace difesa da un attacco non convenzionale — come
sostenuto nella serie dottrinale 600 —, e quella delle conseguenze in termini di fall out atomico sull’agibilità dei terreni difesi o conquistati. Quando e come l’esercito italiano sarebbe venuto in possesso delle armi già introdotte nella sua dottrina operativa non era chiaro, così come non risultava chiaro in questa dottrina fino a che punto le armi atomiche fossero considerate una rivoluzione e non semplicemente una evoluzione quantitativa di quelle convenzionali.
L’Italia, quindi, viveva in pieno quella contraddizione che l’adozione dell’armamento nucleare da parte della Nato aveva introdotto nei rapporti fra Stati uniti ed Europa. Da una parte infatti, nella ‘versione strategica’ (relativa cioè alla possibilità di impiegare per scopi strategici le nuove armi), questa adozione riduceva gli alleati a semplici pedine del gioco bellico fra Stati uniti e Unione sovietica (e le vicende dello stabilimento e smantellamento degli Intermediate Range Ballistic Missiles in Italia a cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta lo avrebbero dimostrato). Dall’altra, nella ‘versione tattica’ (relativa cioè all’impiego tattico delle armi nucleari), essa avrebbe au-
82 Pietro Mellano, Orizzonti tattici, “Rivista militare”, giugno 1954, p. 582. In termini sintetici, la circolare Organizzazione difensiva n. 3000, approvata dallo Stato maggiore dell’esercito nel giugno 1948, prevedeva la rinuncia alla continuità di fronte a favore della flessibilità della manovra e dell’autonomia logistica dei gruppi tattici (a livello di battaglione di fanteria). La direttiva venne in seguito (luglio 1950) completata dalla circolare Difesa su ampie fronti n. 3100, la quale, sulla base delle indicazioni emerse dal Piano a medio termine della Nato prevedeva l’impiego di capisaldi cooperanti con fronti più ampie rispetto alla n. 3000 nelle sole zone dove l’attacco era più prevedibile. Cfr. F. Botti - V. Ilari, Il pensiero militare italiano, cit., pp. 644-652 e E. Cerquetti, Le forze armate italiane, cit., pp. 107-116.83 Andrea Cucino, Un problema che s ’impone: concepire una nuova dottrina, “Rivista militare”, luglio-agosto 1954, pp. 732-747; Antonio Saltini, Evoluzione atomica, “Rivista militare” , settembre 1954, pp. 863-870; cfr. Filippo Stefani, La storia delta dottrina e degli ordinamenti dell’esercito italiano, voi, III, tomo 1, Roma, Ufficio storico Sme, 1987, p. 1003.84 F. Stefani, La storia della dottrina e degli ordinamenti dell’esercito italiano, cit., pp. 1021-1099; Luigi Salatiello, Mutamenti della concezione difensiva italiana dalla fine delta seconda guerra mondiale a oggi, “Rivista militare”, gennaio 1974, pp. 31-39.
Contemporaneamente si procedette alla creazione di strutture istituzionali militari entro cui avviare lo studio e la ricerca in campo nucleare. Fra queste, la Scuola unica interforze difesa A.B.C. (1954), il Centro applicazioni militari energia nucleare (Camen) presso l’Accademia navale di Livorno, poi trasferito a Pisa (1955), il Poligono sperimentale interforze (Sperinter) di Salto di Quirra, “gestito dall’Aeronautica, per l’esecuzione di lanci sperimentali di missili balistici” . F. Botti, V. Ilari, Il pensiero militare italiano, cit., p. 672.
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mentato enormemente le potenzialità degli alleati ‘minori’ che, per motivi economici e politici, non avevano mai devoluto quote alte del proprio Gnp alle spese belliche convenzionali. Ma si trattava di una ipotesi, come si è visto, di difficile (e pericolosa) attuazione.
In tutti e due i casi, non sembra esserci mai stata da parte dei responsabili della politica estera italiana — con l’eccezione di qualche dibattito in sede parlamentare — una riflessione articolata sul rapporto fra sicurezza nazionale e armamenti nucleari. Questo perché, dal lato operativo, trattative e accordi — per le basi americane prima e per lo stabi
limento della Setaf poi — vennero conclusi nel più ampio riserbo; sul piano della pubbli- cistica, d’altra parte, il dibattito venne incanalato in riviste specialistiche militari, assumendo, com’è logico, toni eminentemente tecnici. Pur non sottovalutando il pericolo di essere fuorviati, in un giudizio del genere, dalla limitatezza delle fonti, è difficile sottrarsi all’impressione che sulla tematica nucleare venisse più o meno volontariamente imposto a partire dagli anni cinquanta un tabù di cui ancora oggi emergono visibili tracce e al quale fa riscontro l’esiguità di contributi storici85.
Lorenza Sebesta
85 Uno dei pochi testi che tratti i risvolti politici della tematica nucleare negli anni cinquanta — al quale fa difetto (e nessuno può stupirsene) l’apparato critico — è Roberto Guidi, Politica estera e armi nucleari, Rocca San Cascia- no, Cappelli, 1964. Costituisce un contributo importante per colmare questa lacuna la relazione di L. Nuti N ato’s Nuclear Choices: The Italian Case, 1955-1963, presentata al convegno “Nato’s First Decade: Harmony and Dissonances within the Alliance”, Oxford, 9-12 aprile 1990.
Lorenza Sebesta, borsista Cnr in Gran Bretagna, ha scritto una tesi di dottorato sulla politica di sicurezza italiana negli anni cinquanta; si occupa attualmente dei problemi della sicurezza militare nel Mediterraneo orientale-Medio Oriente nello stesso periodo.