#politicanuova - 02

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n. 02 - settembre 2013 Quadrimestrale marxista della Svizzera italiana.

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02quadrimestrale marxista della Svizzera italiana

settembre 2013

Internazionale Dossier Svizzera Ticino EconomiaEditoriale

2 - 3

Editoriale

A distanza ravvicinata dalla prima uscita di #politicanuova (luglio 2013), abbiamo deciso di subito proporvi questo secondo numero del giornale. L’anticipo sul calendario è dovuto a due temi che secondo noi andavano presentati subito. Questo numero del giornale, fra le altre tematiche che affronta, si concentra infatti soprattutto sulla Turchia, paese protagonista negli ul-timi mesi di una lotta di valenza storica e con potenzialità progressive non indifferenti. Riteniamo importante, infatti, che la sinistra riscopra lo spirito migliore dell’internazionalismo, non solo per solidarizzare, ma anche per imparare dai movimenti di lotta più sviluppati al di fuori dei nostri confini nazionali. Per quanto invece concerne l’attualità di politica interna, la que-stione del servizio militare obbligatorio, in votazione popolare prossi-mamente, rappresenta una campagna su cui i giovani comunisti hanno molto investito in questi ultimi anni. Una visione a rischio di dogmati-smo e poco connessa con la realtà del nostro Paese, in voga purtroppo anche a sinistra, vorrebbe esaltare il sistema di milizia interclassista che ogni anno indottrina in Svizzera migliaia di giovani al nazionali-smo, al militarismo e al conformismo borghese. Noi marxisti del 21° secolo, invece, vogliamo indebolire la macchina militare imperialista elvetica alleata alla NATO e al sionismo e riteniamo che, abolendo la scuola reclute obbligatoria, si possa creare una rottura fra le masse e l’esercito, pilastro del dominio borghese della Confederazione.

Per chi non l’avesse ancora fatto rinnoviamo l’invito a volersi abbonare alla nostra rivista, l’unica che esplicitamente nella Svizzera Italiana, si richiama al marxismo e al movimento comunista internazionale. Il prossimo numero, per rispettare le scadenze quadrimestrali che ci sia-mo prefissati, è previsto all’inizio del 2014.

La redazione

Indice

Editoriale

In Turchia il problema è economico e la lotta è di classe

Due tesi sulla rivoluzione in Turchia: confronto fra il Partito dei Lavoratori (IP) e il Partito Comunista (TKP)

Il razzismo: un’arma usata per dividere il movimento anti-Erdogan

Il servizio militare obbligatorio: uno strumento per addomesticare la società. Aboliamolo!

«Le classi dominanti svizzere hanno potuto disporre dell’esercito di leva contro scioperi e movimenti sociali»

La pericolosa trasformazione dei servizi pubblici in “unità amministrative autonome”

Non è la maleducazione del Mattino a preoccuparci, ma la “austerity”!

Tragedia greca alla lusitana: cronaca dell’austerità imposta al Portogallo

Giù le mani dalla Siria! No alla guerra!

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DirettoreDavide Rossi

Progettazione graficaRoby Gianocca

Abbonamenti25.- Normale50.- Sostenitori30€ Esteri

EditorePartito Comunista

Indirizzoc/o Max Ay, Via Birreria 19, 6503 Bellinzona

CCP69-3914-8 Partito Comunista6900 Lugano

#politicanuova

quadrimestrale marxista della Svizzera italiana

nr. 2settembre 2013anno I

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BUONGIORNO, VORREI IL PIÙ GRANDE CARTELLO CHE POSSOPERMETTERMI.

Dossier Svizzera Ticino EconomiaEditoriale Dossier Svizzera Ticino EconomiaEditoriale

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InternazionaleInternazionale Editoriale

2 Si tratta degli Investimenti Diretti all’Estero. Sono indicatori importanti per il processo di internazionalizzazione delle imprese.

3 L’economista turco Emre Deliveli ha ammesso nel maggio 2013 che “il successo turco è stato costruito sul mettere a posto le banche”.

4 Questo significa che la Turchia continua a importare più di quello che esporta e l’economia cresce solo perché arrivano capitali freschi dall’estero.

5 A. Tetta, “Economia turca: quando la tigre abbaia”, Osservatorio Balcani e Caucaso, 13 agosto 2012.

1 Lo storico dell’economia Sevket Pamuk della London School of Economics (non propriamente un istituto bolscevico) ammette: “a un aumento seppure ridotto degli stipendi, fa da contraltare l’aumento del costo della vita nelle città e un’inflazione all’8,9% che rende impercet-tibile questo cambio”.

In Turchia il problema è economico e la lotta è di classe

Massimiliano Ay

I mass-media occidentali hanno inizialmente spie-gato le tensioni degli ultimi mesi in Turchia come una protesta ambientalista sorta intorno alla deci-sione di cementificare il Gezi Park, l’ormai noto par-co urbano a Istanbul. Dal momento che la situazione oltrepassava in modo evidente i limiti del mero – seppur importante – discorso ecologista, la disinfor-mazione di molte agenzie stampa (riprese ciecamen-te pure alle nostre latitudini) si è concentrata su altri dettagli: il più utilizzato è sicuramente la contraddi-zione laicismo/islamismo. Questo aspetto è assolutamente vero, ma non va neppure enfatizzato, anche perché in piazza vi era la minoranza islamico-alawita (solitamente rispettosa dei precetti laici del kemalismo), così come il colletti-vo dei musulmani anti-capitalisti. Il problema di fon-do è infatti un altro: il capitalismo, e lo diciamo a ra-gion veduta, non per ideologismo. Ma andiamo con ordine senza trascurare neanche il problema religioso.

● La sintesi turco-islamicaLa Turchia, paese musulmano, dal consolidarsi del-la Repubblica nel 1923, è dichiaratamente laicista (non solo laico): la totale secolarizzazione delle isti-tuzioni voluta da Mustafa Kemal Atatürk ha subìto però un gravissimo arretramento, in particolare, con il golpe del 1980 guidato dal generale Kenan Evren. Evren ebbe il compito storico, affidatogli da Washington, di snaturare del tutto quello che resta-va del pensiero di Atatürk (già fortemente indeboli-to dai governi di destra precedenti) attraverso la co-siddetta “sintesi turco-islamica”. Quest’ultima abolì di fatto cinque dei sei principi su cui si fonda il ke-malismo, “salvandone” solo uno: il “patriottismo”, reinterpretandolo in modo tendenzialmente fascista e facendolo convivere con l’islamismo. Si tratta di un’aberrazione, se ci riferiamo al pensiero originario di Mustafa Kemal, il quale chia-riva che: “noi siamo patrioti che rispettano e onora-no ogni nazione e che collaborano con ognuna. Il nostro patriottismo non è in nessun modo egoista e supponente”. Egli, peraltro, affermava pure che: “è una guida debole, colui che ha bisogno della religio-ne per mantenersi al governo, è come se volesse in-trappolare il proprio popolo. Il mio popolo imparerà i principi della democrazia, i dettati della verità e gli insegnamenti della scienza”. La “sintesi turco-isla-mica” è insomma un’ideologia borghese imposta dall’imperialismo per soggiogare il Paese, in una svolta reazionaria, sfruttando l’integralismo islami-co. L’opera di Evren continuò – tornata una parven-za di democrazia – dal presidente Turgut Özal e dal-

la premier Tansu Ciller. Quest’ultima, ad inizio de-gli anni ’90, ebbe modo di esclamare, noncurante del ridicolo: “finalmente il socialismo è caduto anche in Turchia!”. Nel 2002 – dopo una fase politica altalenante –tutto precipita con l’elezione di Erdogan: egli compie anzitutto una scissione nell’SP, il partito islamista (che in passato si era avvicinato a Gheddafi), il quale crolla nei consensi. Costituisce in seguito – con ampi finanziamenti esteri – il suo AKP, fornendogli un’immagine subito mediatizzata in Occidente di “islam moderato” sullo stile dei partiti democristia-ni europei. Egli ha così iniziato a lottizzare l’appara-to pubblico con esponenti della setta del magnate Fetullah Gülen (una sorta di “Comunione e Libera-zione” in versione islamica) fino alle purghe ai piani alti dell’esercito. La sollevazione popolare che abbia-mo visto negli ultimi mesi ha quindi radici profonde.

● Crescita dell’economia o della disuguaglianza?Il dato reale che molti media hanno semplicemen-te nascosto è un elemento che ogni marxista sa es-sere sempre di primaria importanza: non è la so-vrastruttura ideologica (in questo caso religiosa) a muovere la storia, ma la lotta di classe! E’ la strut-tura della società, l’elemento squisitamente econo-mico insomma, che conta. Ridurre il tutto alla con-traddizione laicismo/islamismo o autoritarismo/libertà è invece una lettura semplicistica e funzio-nale alla borghesia, ai suoi media e ai suoi professo-ri: in caso contrario bisognerebbe infatti iniziare a dire cose realmente di sinistra. Non sia mai! L’eco-nomia turca sarebbe così, secondo questo pensiero unico, in crescita: è questa la litania che anche ci raccontano rifiutando di prendere in considerazio-ne un fatto molto semplice: non esiste crescita, se il popolo sta peggio di prima!1

Certamente dal 2001 in poi si producono effetti-vamente notevoli cambiamenti in Turchia, ma co-me vedremo le apparenze ingannano. Da una cresci-ta del PIL disastrosa pari a –9,4% a un’inflazione galoppante che viaggia intorno al 68% annuo (con una media europea del 2,4%), la Turchia, a fianco di un’ampia fetta di agricoltura, si ritrova con un appa-rato produttivo industriale obsoleto e incentrato su alcune aziende statali di epoca kemalista nei settori strategici, lasciate però deperire. Nel 2002 il governo di Bülent Ecevit annaspa nel mezzo della crisi finanziaria: l’anziano premier socialdemocratico si trova costretto ad inserire nella compagine governativa l’ex-vice-presidente della Banca Mondiale, il neo-liberista Kemal Dervis, che opera scientemente per far crollare il premier e per-mettere ad AKP di vincere le elezioni così come ri-chiesto da Washington. Ed ecco che “miracolosa-mente” tutti gli indicatori macroeconomici iniziano a subire scarti accentuati rispetto al passato. Il “merito” della cosiddetta crescita economica va

ricercato nel Fondo Monetario Internazionale (FMI). Già nel febbraio 2002 parte infatti l’operazio-ne che spinge Ankara ad una esposizione complessi-va verso il FMI per l’astronomica cifra di 31 miliardi di dollari. Il motivo è anche geopolitico: la Turchia non può crollare, poiché serve agli USA come retro-terra per le operazioni belliche neocoloniali che si stanno preparando contro l’Irak di Saddam Hussein. Le condizioni poste dal FMI per “salvare” la Turchia sono però draconiane: la riduzione del de-bito pubblico con vincoli di bilancio, il rafforza-mento del settore privato e un adeguamento dell’investiment climate. In pratica il paese deve aumentare l’efficienza economica, mediante un piano di liberalizzzaioni ponendo un accento parti-colare sulla competitività del settore industriale orientato all’esportazione. Dal 2003 al 2005 fra le varie riforme dall’accen-tuato carattere classista, ne troviamo una in partico-lare che merita attenzione. Si tratta di una legge a favore degli investimenti esteri, in cui si fissa anzi-tutto il divieto per l’ente pubblico di procedere a qualsiasi esproprio. La volontà è chiaramente quella di incoraggiare il capitale estero ad investire nel paese, garantendo ora persino la possibilità per i capitalisti stranieri di controllare fino al 100% delle aziende turche. Sono pure eliminati numerosi vari vincoli burocratici: saltano così le tutele sia sindacali sia ambientali. Oltre a ciò si aprono delle zone economiche spe-ciali in cui non solo viene abolita l’IVA per le impre-se, ma vengono alleviati i contributi pensionistici per gli operai e le terre sono cedute gratuitamente alle aziende straniere. Persino le imposte doganali per l’importazione di macchinari decadono e le ali-quote sui redditi d’impresa scendono al 20% (fra le più basse d’Europa). Il lavoro interinale viene istitu-zionalizzato e il caporalato sui cantieri diviene uno standard. La Turchia arriva poi ad avere, con le sue 53 ore, la settimana lavorativa media più alta d’Eu-ropa. Drammatica anche la situazione della sicurez-za sul posto di lavoro: il governo Erdogan conquista la macabra medaglia d’oro di ben 3 morti bianche al giorno! Grazie a quella che a tutti gli effetti possia-mo chiamare una “estorsione” di pluslavoro operaio, il paese cambia faccia: se nel 2003 gli IDE 2 ammon-tavano a 1,3 miliardi di dollari, nel 2007 essi erano cresciuti addirittura a 22 miliardi di dollari. Una dinamica simile ha coinvolto le società eco-nomiche con capitale internazionale, cresciute di cinque volte nel medesimo lasso di tempo e l’infla-zione (che creava problemi soprattutto alle banche) viene abbattuta a poco sotto il 9%3. A questo punto resta una fragilità di fondo: la bilancia dei pagamen-ti denota infatti un saldo negativo4 e, nonostante tut-to, l’economia turca appare ancora estremamente vulnerabile stando anche all’Economist e al Finan-cial Times. In effetti “quando l’economia a livello globale attraversa una fase positiva c’è un forte af-

flusso di denaro verso la Turchia che offre alti tassi di profitto e la lira turca acquista di valore, aumen-tano gli import e il disavanzo nella bilancia com-merciale. Ma quando gli investitori hanno paura al-lora i capitali escono dal mercato turco più rapida-mente rispetto ad altri paesi, provocando una ridu-zione della domanda interna”5. Nel 2007 i mercati sono in espansione ed Erdogan ha gioco facile e vin-ce le elezioni con quasi il 47%. L’anno successivo rinnova – rimangiandosi la promessa elettorale – gli accordi con il FMI: altri aiuti in cambio di una nuova tranche di privatizza-zioni (ponti, porti, aeroporti, dighe, ospedali), l’au-mento dell’età pensionabile a 65 anni per tutti (quando l’aspettativa di vita è di 72 anni per gli uo-mini). Nel 2009 la crisi provoca la caduta del PIL al 4,8%, Erdogan cerca di sfruttare la ripresa dell’an-no successivo con l’avventurismo militare in Libia e in Siria. Intanto il governo turco ha sì saldato i debiti con l’FMI, ma ottenendo crediti da altre en-tità imperialiste e creando enormi buchi nel bilan-cio della Repubblica. Un circolo vizioso che i lavoratori turchi stanno pagando alla grande, senza che nessun esperto eco-nomista intervistato dai nostri media l’abbia indivi-duato, evidentemente ciò non conviene alle agenzie stampa controllate dagli oligarchi da cui attingono le informazioni troppi giornalisti.

● Privatizzare e distruggere la sovranità economicaLa marcia forzata imposta da Erdogan alla Turchia per conto dell’imperialismo statunitense ed europeo non è indifferente: nel 2003 si apre il cantiere della privatizzazione parziale della TurkTelekom. Nel 2004 si getta le basi per la svendita dell’a-zienda pubblica TEKEL, attiva nella produzione di alcolici e tabacco (e simbolicamente fondata proprio da Atatürk) che sarà ceduta totalmente nel 2007. Nel medesimo anno si comprime la partecipazione sta-tale nella compagnia aerea di bandiera THY e si ri-nuncia totalmente al mandato pubblico sulle accia-ierie. Sempre nel 2004 sono privatizzate le fabbriche della TUGSAS, l’industria statale dei fertilizzanti, nonché tutte le cartiere pubbliche SEKA. Nel 2008 è il turno della rete elettrica con la vendita delle due compagnie pubbliche di erogazione di Ankara e Sa-karya-Kocaeli. La banca statale HalkBank viene privatizzata nel medesimo anno e ancora il governo rinuncia al 15% del pacchetto azionario rimastogli delle TurkTelekom. Nel 2009 Erdogan modifica la legge sulle risorse idriche del paese e concede l’uti-lizzo dell’acqua di fiumi e laghi a società private, spesso straniere. Le risorse idriche, che fino ad allora erano controllate dal servizio pubblico di distribu-zione, venivano così di fatto trasferite alle multina-zionali. Nulla poté l’importamente resistenza del sindacato contadino Çiftçi-Sen (sostenuto dall’orga-nizzazone internazionale degli agricoltori progressi-

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InternazionaleInternazionale

Due tesi sulla rivoluzione in Turchia: confronto fra il Partito dei Lavoratori (IP) e il Partito Comunista (TKP)

Aytekin Kaan Kurtul

I tre partiti più grandi della sinistra radicale turca (Partito dei Lavoratori – IP; Partito Comunista di Turchia – TKP e Partito Libertà e Solidarietà – ÖDP) sono stati costretti a collaborare per non divi-dere il movimento nella lotta contro il regime neoli-berale e fondamentalista. Nello svolgimento delle ultime manifestazioni, tuttavia, ÖDP (membro del-la “Sinistra Europea”) si era separato dalle masse, bollandole come “nazionaliste”.

● Classi sociali e alleanzeStoricamente IP è un partito fondato dal Movimen-to “Aydınlık”, il quale seguiva una linea filo-cinese, mentre TKP è un partito fondato dal Movimento “Sosyalist İktidar”, il quale seguiva una linea filo-sovietica, pur opponendosi alle politiche di Perestoj-ka e Glasnost. Già questo spiega alcune differenze negli approcci dei due partiti alla questione sociale. Secondo IP la Turchia non è un paese capitalista svi-luppato (ma è sfruttata dal capitalismo internazio-nale) e le relazioni tra le classi sociali nelle provincie orientali sono ancora prevalentemente feudali. L’al-leanza tra il proletariato e i contadini non è quindi solo fondamentale ma assolutamente necessaria per realizzare la rivoluzione. Sempre secondo IP, il fatto che il sistema neoliberale, guidato dall’oligarchia fi-nanziaria, miri a distruggere le forze produttive na-zionali nella periferia usando il libero mercato, ren-de la piccola borghesia nazionale una componente importante del movimento rivoluzionario, in quan-to soggetto sociale ormai in decadenza a causa della perdita della quota di mercato e della sostituzione di essa con la borghesia “parassitaria” che dipende dal capitale straniero. TKP, per contro, ipotizza che “solo un nuovo mo-vimento proletario costruito su basi marxiste-leni-niste può salvare la Turchia dalla crisi del neolibera-lismo” descrivendo il proletariato come l’unica com-ponente prevalente della rivoluzione e rifiutando una collaborazione con la piccola borghesia (descrit-ta come “quella borghesia che non è capace di colla-borare con gli imperialisti, è una classe caratteristi-camente antiproletaria”) rifacendosi così alla retori-ca del Comintern. Durante la Sollevazione di giugno abbiamo visto che la piccola borghesia (prevalente-mente kemalista) è scesa in piazza insieme al prole-tariato per lottare per la propria esistenza.

● L’uso della bandiera nazionale

Un altro argomento di dibattito tra i due partiti è stato l’uso della bandiera nazionale. IP ne ha sempre difeso l’uso nelle manifestazioni in quanto “la ban-diera turca è il simbolo unificante di tutta la nazio-ne: essa simbolizza l’amore patriottico dei nostri cit-tadini curdi, il sangue sparso dai nostri contadini durante la Guerra d’Indipendenza e il sudore dei nostri operai sottomessi alla volontà delle società multinazionali per sopravvivere”. TKP, invece, non ha mai avuto un approccio fa-vorevole all’uso della bandiera nazionale durante le manifestazioni poiché “la bandiera turca è stata usa-ta dai golpisti e da vari reazionari (come i lupi grigi) per reprimere i rivoluzionari”. Tuttavia il TKP ha nel frattempo cambiato la sua posizione dopo la Sol-levazione di giugno, affermando che: “la bandiera turca è diventata di nuovo la bandiera dei rivoluzio-nari”. Essa era infatti il simbolo del movimento, in-sieme alla figura di Mustafa Kemal Atatürk.

● Rapporto con il kemalismoRiguardo all’eredità della Rivoluzione kemalista IP la definisce come “la prima avanzata repubblicana ed antimperialista” e perciò “la base su cui costrui-remo la società di domani”. TKP, pur opponendosi al carattere “nazionalista” della Rivoluzione kemali-sta, afferma che “non si deve diventare kemalisti per difendere il progresso sociale realizzato durante la Rivoluzione kemalista, noi siamo marxisti-leninisti e non dimentichiamo che la Rivoluzione kemalista era un passo avanti nella storia del nostro paese”. Bi-sogna notare a questo punto che uno degli slogan condivisi sia dai piccoli borghesi che dagli operai che sono scesi in piazza era “siamo i difensori di Mustafa Kemal”, ciò significa che il kemalismo è, come dice-va il teorico marxista-leninsta Mahir Çayan, “la bandiera della resistenza di tutti i rivoluzionari pa-triottici nei paesi del mondo oppresso”.

● I punti di affinitàI due partiti hanno anche delle similitudini: en-trambi si oppongono alla NATO e all’UE; entrambi sostengono una soluzione unitaria e socialista in Si-ria; entrambi condannano la collaborazione tra il regime Erdogan e il PKK; ed entrambi hanno una posizione laicista e pubblica per la politica scolastica. Tali aspetti non basteranno per creare un’alleanza organica, ma saranno indubbiamente le fonti princi-pali di una collaborazione fra IP e TKP. Peraltro i marxisti sono al servizio del popolo e il popolo co-stringe a collaborare poiché l’avversario è unico e il popolo ha bisogno di unità.

Nota bene: le fonti in turco da cui sono tratte le citazioni e le informazioni dell’articolo non vegono qui riprodotte per mancanza di spazio, ma sono a disposizione in redazione per i lettori interessati.

sti “Via Campesina”) che assieme ad oltre cento for-ze di opposizione marciarono a Istanbul nel marzo di quell’anno, a margine del Forum Mondiale dell’Ac-qua. Nel 2011 il governo Erdogan avvia poi le tratta-tive per la privatizzazione di 2’000 chilometri di au-tostrade e di ponti in tutto il Paese. L’esecutivo cede al capitale privato (in gran parte straniero) nove au-tostrade e due ponti sul Bosforo e prepara un piano strategico che prevede la dismissione definitiva di aziende tessili, petrolifere, minerarie, ecc. Insomma il ruolo di Erdogan, tanto osannato dall’Occidente, è stato quello di aver letteralmente distrutto i settori strategici (e non solo) dell’econo-mia nazionale e di aver riportato la Repubblica ad uno stadio di colonia. Senza parlare poi della riforma del diritto del lavoro varata nel 2011 che colpisce so-prattutto i giovani non solo consolidando il precaria-to ma anche riducendo il salario minimo e autoriz-zando l’assunzione di lavoratori senza alcuna sicurez-za sociale e pensionistica.

Il Kemalismo

Si tratta del pensiero di Mustafa Kemal Atatürk, fondatore della Repubblica e coman-dante della Rivoluzione anti-imperialista turca del 1923. Il kemalismo si riconosce come ideologia del “socialismo di stato” (Devlet Sosyalizmi) e si basa su sei pilastri: statalismo, laicismo, repubblicanismo, populismo, patriottismo e rivoluzionarismo. Una citazione spesso censurata di Atatürk diceva: “Si deve innanzitutto percepire la materia, poi si arriva all’idea: cosi si costruisce il socialismo”. Ampia parte dei marxisti turchi considera strategico completare la rivoluzione kemalista in quanto fase nazional-democratica (di alle-anza fra proletariato, contadini e piccola borghesia) necessaria per raggiungere la so-vranità dall’imperialismo e rendere così matura la futura transizione al socialismo.

Mustafa Kemal isn’t a marxist. However, it’s obvious that he’s a perceptive leader and a progressive statesman. He has been able to understand the importance of the October Revolution and thus treats the Soviets with utmost respect and amity. Right now, he is leading a war of independence against imperialist invaders. I have no doubt that he will break the pride of the imperialists. The Soviets will surely aid him and the Turkish people in achieving their most glorious goal.” (Vladimir I. Lenin, 1921)

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DossierInternazionale

1 In Irlanda del Nord, il 30 gennaio 1972, tredici persone, perlopiù giovanissimi, muoiono e quattordici sono ferite dai colpi sparati dalle reclute inglesi su cittadi-ni inermi che mani-festavano pacificamente contro il decreto del governo che limitava i diritti civili degli irlandesi. Quel giorno segna l’inizio della guerra civile in Irlanda del Nord.

2 Vedi: «Armee zweiter Klasse», in: NZZ-Online, 10 luglio 2010.

3 Vedi: “Marx-Engels-Werke”, Vol. XXII, Dietz Verlag: Berlino (DDR) 1963, p. 251.

4 Antonio Gramsci (1891-1937), uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia nel 1921, elaborò il concetto di egemonia, grazie al quale la bor-ghesia impone i propri valori culturali, mo-rali e politici a tutte le classi sociali creando consenso verso il proprio potere.

5 Karl Liebknecht (1871-1919) fu deputato marxista tedesco. Dal 1907 al 1910 fu presidente dell’ Internazionale socialista giovanile e fu parti-colarmente attivo contro la guerra. Venne assas-sinato dai soldati agli ordini del governo del socialdemocratico Ebert.

Il servizio militare obbligatorio: uno strumento per addomesticare la società. Aboliamolo!

Massimiliano Ay

E’ pensiero diffuso, a sinistra, che il servizio militare obbligatorio permetta – proprio per il suo struttura-le legame con le masse popolari (costrette ad arruo-larsi) – un controllo democratico sulle forze armate borghesi. Un esercito di leva rappresenterebbe, in-somma, non solo una garanzia contro svolte autori-tarie e colpi di stato, ma anche un impedimento all’utilizzo delle truppe per soddisfare le spinte espansioniste della borghesia (imperialista) del pro-prio Paese. Sarebbe, insomma, il legame diretto con il popolo ad ostacolare tali degenerazioni militariste e belliciste dell’esercito (e di chi lo manovra). La storia ha però ampiamente dimostrato come ciò non sia stato quasi mai il caso: non solo la presen-za di elementi reazionari negli eserciti di leva è da considerarsi strutturale tanto quanto in quelli pro-fessionisti, ma le stesse mire espansioniste ed anti-democratiche non sono certo mancate: è stato l’eser-cito di leva turco ad aver instaurato la dittatura fa-scista di Kenan Evren, è stato l’esercito di leva cileno ad aver rovesciato il presidente socialista Salvador Allende, è stato l’esercito di leva svizzero a sparare contro gli operai in sciopero, sono stati i paracaduti-sti di leva inglesi a sparare contro i 17enni irlandesi che sfilavano pacificamente in quel “bloody sunday”1 e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Il fattore “popolare” non ha quindi sostanzialmente impedito i peggiori crimini che sono stati perpetrati nella sto-ria recente contro l’umanità. Vi sarebbero anzi interi capitoli di storia con-temporanea che meriterebbero un approfondimento non solo storico, ma anche psicologico, per compren-dere al meglio il tema di cui trattano queste pagine, come, per esempio, i cosiddetti “mischling” dell’e-sercito di leva tedesco: indegni di ricevere incarichi di comando ma utili alla macchina da guerra tede-sca, decine di migliaia di giovani poco più che ragaz-zi, ebrei, combatterono per una patria e un regime che intanto mandava nei lager le loro famiglie e pro-gettava la pulizia etnica del loro stesso popolo. Se poi mettiamo sotto la lente la situazione sviz-zera, ecco che notiamo come l’esercito, vera e propria “vacca sacra” della Confederazione, non è di fatto più obbligatorio per i giovani provenienti da fami-glie benestanti e con un livello scolastico superiore: in modo particolare gli inabili al servizio militare si trovano fra i liceali (cioè i futuri accademici). Ciò testimonia la crisi dell’esercito elvetico e il fatto che esso non sia ormai più realmente “di popolo”: per

questo normalmente si tace sui cambiamenti socio-culturali in atto nella truppa: sono perlopiù i figli dei naturalizzati, spesso relegati a professioni subalter-ne e a tirocini professionali, a prestare servizio2. In sintesi: più che l’organizzazione delle forze armate è semmai il carattere di classe dell’esercito a dover es-sere preso in considerazione e conseguentemente la sostanziale differenza fra un esercito in regime capi-talista (in particolare allo stadio imperialista) e di un esercito in regime socialista.

● Engels e Liebkencht sull’arruolamento forzatoFriedrich Engels nel 1891 analizza il crescente con-senso elettorale della sinistra tedesca come un fatto-re che determinerà una maggioranza socialista an-che all’interno delle forze armate, essendo queste ultime organizzate sul principio della leva obbliga-toria: “Si diventa elettori a 25 anni, soldati a 20; ma proprio perché noi reclutiamo i nostri adepti soprat-tutto fra i giovani, se ora abbiamo già un soldato su cinque, ben presto avremo un soldato su tre; e intor-no al 1900, l’esercito diventerà in maggioranza socia-lista. Anche il governo se ne accorge, ma non può fa-re nulla”3. Questo passaggio di Engels porta a un vicolo cieco strategico, secondo il quale il movi-mento operaio conquisterà il potere quasi per un fattore spontaneo. Engels sembra qui scordarsi di prendere in con-siderazione il fatto che la società si sviluppa in modo dialettico, così come fa lo stesso dominio di classe. Per riprendere Antonio Gramsci4 potremmo parlare del consolidamento di un potere “massiccio” della borghesia, la quale – da quel dato momento – può contare su nuovi strumenti che le garantiscono una “salda presa sulla società”, un potere fondato “sulla centralità della casta militare”. Non è certo per ingenuità o per costrizione, in-somma, che la classe dirigente permette, anzi obbli-ga (!) la classe subalterna ad “armarsi”: a differenza di qualche utopista che sogna l’insurrezione rivolu-zionaria del proletariato con il fucile d’ordinanza, la borghesia è ben consapevole del fatto, che i rischi che potrebbe comportare il fornire un addestramento militare alla classe operaia possono essere facilmen-te controllati e, anzi, rivoltati a proprio favore. Engels, per dirla con lo storico Luciano Canfora, “apparteneva a un’altra generazione (…) ed ora non intendeva pienamente il mondo che velocemente gli cambiava intorno, a precipizio, verso l’era agghiac-ciante e senza scrupoli della lotta tra imperialismi, nella quale la democrazia politica sarebbe rapida-mente divenuta un gingillo superfluo”. Karl Liebknecht5, giovane deputato e futuro fon-datore del Partito Comunista di Germania, a diffe-renza di Engels, riconobbe che un’epoca nuova si sta-va per aprire: quella che avrebbe unito un nuovo militarismo di massa con l’evolversi delle contraddi-zioni inter-imperialiste. La nuova fase storica rico-nosciuta da Liebknecht è quella caratterizzata – per

Il razzismo: un’arma usata per dividere il movimento anti-Erdogan

Aytekin Kaan Kurtul

Il metodo classico per sciogliere un movimento di lotta come quello turco dell’ultimo mese è quello di dividerlo. Il gruppo “Sinistra Turca” (Türk Solu) guidato da Gökçe Firat, il quale non ha nessun lega-me con alcun partito progressista turco, usa ad esempio una retorica razzista contro i curdi per alie-narli dal movimento e dalla lotta anti-imperialista. Secondo il quotidiano comunista “Aydınlık” ta-le gruppo è finanziato dai servizi segreti. Anche il principale partito di opposizione, il CHP, Partito Re-pubblicano del Popolo (Cumhuriyet Halk Partisi, sezione turca dell’Internazionale Socilalista) condi-vide questa posizione e lo ha infatti allontanato dai cortei. I membri di Türk Solu hanno provato a di-stribuire le loro bandiere in piazza, senza alcun esito. I kemalisti di sinistra, i socialisti e i comunisti in Turchia, evidentemente, non vogliono in piazza gruppi razzisti che si oppongono alla fratellanza del-le etnie e all’unità nazionale! Quanto messo in atto da Türk Solu fra i turchi è una realtà anche da parte curda, tramite il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) guidato da Ab-dullah ‘Apo’ Öcalan. Specialmente negli anni in cui il PKK veniva ancora considerato un’organizzazione “di sinistra” (e addirittura “maoista”) Öcalan ha di-viso i comunisti del Paese su base etnico-razziale, tra chi voleva la separazione dei curdi e chi voleva un paese unitario e inter-etnico. Non a caso le prime vittime della “guerriglia” del PKK non furono bor-ghesi o fascisti, ma alcuni dirigenti del Partito Ope-raio e Contadino di Turchia (Türkiye Isçi Köylü Par-tisi), la formazione maoista (poi repressa dal golpe militare del 1980) che ha preceduto l’attuale Partito dei Lavoratori (Isçi Partisi). Negli anni ‘90 il PKK (specialmente dopo che Öcalan ha lasciato la Siria) ha sempre avuto una fun-zione filo-statunitense e filo-sionista, provando a divi-dere la lotta di classe unitaria in Turchia contro l’im-perialismo e formando organizzazioni affiliate in Iran e in Siria per combattere (al soldo delle potenze occidentali) i governi anti-imperialisti di questi paesi. Dopo la salita al potere in Turchia del partito AKP del premier Recep Tayyip Erdoİan, il PKK ha avuto la possibilità di diffondersi e negli ultimi anni è diventato l’alleato principale del governo (attraver-so la sua “branca legale”, il BDP, partito osservatore dell’Internazionale Socialista) sostenendo la propo-sta del governo Erdogan di un ordinamento federale di tipo statunitense e appoggiando i disegni di legge portati avanti dai delegati dell’AKP nella commisio-

ne per il rinnovo in senso liberista della Costituzione. Tale sostegno al governo è stato testimoniato anche durante le manifestazioni di Taksim: all’inizio Öca-lan ha “salutato” i manifestanti chiedendo però loro di “non permettere ai kemalisti e ai patrioti di do-minare le piazze”. Come si può vedere in ogni foto su qualunque giornale, i kemalisti sono la maggioranza tra i mani-festanti (con le bandiere turche e le immagini di Mustafa Kemal Atatürk), appare quindi chiaro che Öcalan si è reso utile al regime in due modi: da un lato tentando di alienare la maggioranza della popo-lazione dalle piazze (perché in pochissimi accette-rebbero di manifestare al fianco dei separatisti), dall’altro dividendo i manifestanti curdi dai mani-festanti di origini etniche diverse. Invano! Nella se-conda settimana delle manifestazioni, il co-segreta-rio del BDP (Barısİ ve Demokrasi Partisi, la branca “legale” del PKK), Selahattin Demirtaİ, ha attacca-to nel suo discorso due organizzazioni che avevano appoggiato il movimento con tutte le loro forze, il Partito dei Lavoratori (Isçi Partisi) e l’organizzazio-ne studentesca antimperialista TGB, Unione Giova-nile di Turchia (Türkiye Gençlik Birligi). Questo atteggiamento ha sottolineato di nuovo la posizione attuale del movimento sciovinista e se-paratista curdo, il quale continua a negoziare col go-verno per una balcanizzazione del Paese, così come previsto dal Pentagono.

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10 Cfr. “Die Zeit”, Nr. 23, 31 maggio 2012.

11 Ci si riferisce qui all’introduzione della leva militare obbligatoria nella sola Repubblica Federale Tedesca (BRD): nella ex-Repubblica Democratica Tedesca (la DDR socialista, annessa nel 1989 alla BRD) il servizio militare divenne infatti obbligatorio solo nel 1962. Cfr. Giulio Micheli (2010): “Il Muro di Berlino: una frontiera archiviata troppo rapidamente. Bilancio critico della Germania socialista”. Infogiovani, Bellinzona. Pag. 39.

12 Becker H.; O. Leist (a cura di): “Militarismus in der Bundesrepublik”, Colonia 1981, pag. 96

13 Jean Ziegler (1976): “Una Svizzera al di sopra di ogni sospetto”. Milano: Arnoldo Mondadori Editore, p. 190.

14 Jean Ziegler (1976): op.cit., p. 149.

15 Vedi: «Die Schweiz ist eine Armee», NZZ-Online, 31. Oktober 2010. In merito vedi anche al capitolo 4.2.1.

6 Vedi: Karl Liebknecht, “Scritti politici”, Feltrinelli: Milano 1971, p. 101

7 Rosa Luxemburg (1870-1919) fu una rivo-luzionaria tedesca che si dedicò all’analisi economica dell’impe-rialismo e alla lotta per la pace. Venne assassinata assieme a Karl Liebknecht

8 Tobia Schnebli, “Le citoyen-soldat: aux origines d’un mythe”, GSsA: Ginevra 1997

9 Cfr. al riguardo il docu-mento “Per un partito marxista flessibile e al passo coi tempi”, tesi del 21° Congresso del Partito Comunista del Canton Ticino

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professionisti. Secondo alcuni esponenti della sini-stra “è fondamentale vedere l’esercito di leva come luogo della lotta di classe”. Certamente: anche nell’esercito di una società capitalista esiste una con-trapposizione fra classi. Concepire però quel terreno come un luogo prioritario del conflitto politico e so-ciale appare altamente discutibile, soprattutto in una società avanzata come quella occidentale, in cui assistiamo non solo a una imponente parcellizzazio-ne della classe operaia (e quindi alla polverizzazione del soggetto rivoluzionario) ma anche, di conseguen-za, a una difficoltà enorme, per i partiti comunisti di radicarsi nei luoghi della produzione9.

● Democratizzare le forze armate dall’interno?La fase odierna è caratterizzata da organizzazioni di massa neo-corporative, totalmente integrate nel si-stema sociale, disinteressate a costruire la benché minima egemonia culturale in senso anti-borghese e incapaci di organizzare le classi popolari in un’otti-ca conflittuale. I partiti di tradizione operaia sono ridotti al lumicino (quelli rivoluzionari) oppure sono ridotti a mere macchine elettoraliste inserite in una dimensione meramente istituzionale (quelli rifor-misti). I conflitti inter-imperialisti sono in aumento a causa anche della crisi sistemica del capitalismo e della naturale caduta tendenziale del saggio di pro-fitto, che impone regolarmente ai paesi avanzati di promuovere guerre per il solo rilancio economico. Oltre a ciò il mondo multipolare (nonostante l’a-vanzata della Cina e dell’America latina) non esiste ancora, perlomeno non in maniera tale da poter ga-rantire l’equilibrio che regnava fino al 1989. La pos-sibilità quindi di una terza guerra mondiale (simile nel suo sviluppo proprio alla carneficina del ‘14-‘18) appare nella sua tragicità un fattore da non sottova-lutare. La crescita in Europa e negli USA del nazio-nalismo, delle politiche securitarie, della xenofobia e delle proposte neofasciste non sono affatto una mera casualità, ma un lavoro sottile sulle coscienze degli esseri umani per prepararli psicologicamente a un futuro tutt’altro che roseo. La risposta deve quindi essere adattata alla fase, con la propaganda a favore dell’obiezione di coscien-za dei coscritti, con l’indebolimento della macchina repressiva della borghesia, e con un possente lavoro di penetrazione culturale fra le masse giovanili (le uniche che possono cambiare e far cambiare qualco-sa!) affinché sia chiaro a tutti che la “guerra fra po-veri” in ogni ambito (dal possibile conflitto militare al più immediato conflitto sindacale e sociale in cui lavoratori immigrati o frontalieri sono messi contro lavoratori indigeni) altro non è che un inganno della classe dirigente per indebolire la resistenza delle fa-sce popolari subalterne che aspirano a una società più equa, il socialismo. La leva obbligatoria è stata ed è strumento anche psicologico di contenimento sociale, inquadramento reazionario delle masse, re-pressione dei movimenti sociali, strumento di ogni

dirla sempre con Canfora – dagli “effetti capillari di asservimento nei confronti di ciascun cittadino, at-traverso la poderosa macchina del servizio militare, da parte dei ceti dirigenti”. Uno dei miti della sinistra (ieri e in parte ancora oggi) era la trasformazione dell’esercito (borghese) in una milizia (proletaria). A cogliere i limiti di tale impostazione fu Liebknecht: nel capitalismo, infat-ti, le forze armate hanno un ben definito compito repressivo e di classe! Nel suo saggio “Militarismo e antimilitarismo con particolare riguardo al movi-mento giovanile internazionale”, (1907) scriverà: “Si cerca di domare gli uomini come si domano le bestie. Le reclute narcotizzate, confuse, lusingate, com-prate, oppresse; così si mescola e si impasta il cemen-to per la poderosa costruzione dell’esercito; così si le-ga pietra a pietra per la costruzione del baluardo contro la sovversione”6. Liebknecht riconosce luci-damente il servizio militare obbligatorio come una fucina interclassista del consenso nei confronti della destra. Egli aggiunge, quasi rispondendo indiretta-mente a Engels, che se a livello puramente numeri-co e di composizione di classe l’esercito tedesco è ef-fettivamente “rosso”, in realtà per l’impreparazione politica delle giovani reclute, l’influenzabilità di ra-gazzi di 18 anni e la poderosa macchina propagandi-sta dell’esercito, questo rafforza unicamente il con-trollo che la borghesia dispone delle larghe masse subalterne.

● Esercito di leva “migliore” dell’esercito volontario?Rosa Luxemburg7 riconosce il peso sempre più grande che l’apparato militare raggiunge nell’eco-nomia liberale “in ragione dell’incremento conside-revole delle spese militari e del formidabile sviluppo tecnico degli armamenti, che generano una parte sempre più importante del plusvalore capitalista”. In questo senso “il servizio militare universale non servirebbe ad altro che a rendere ancora più evi-denti le contraddizioni dello stato di classe, dove una minoranza dominante impiega una parte del popolo contro gli interessi di quello stesso popolo” 8. Addi-rittura l’esercito di leva prussiano aveva introdotto ore di istruzione contro il partito socialdemocratico quale parte integrante dell’addestramento delle re-clute di estrazione operaia. Situazioni simili, peraltro, sono tutt’oggi visibi-li, anche se espresse in modo più subdolo e apparen-temente meno fazioso: in Svizzera, ad esempio, pres-so la scuola quadri dello Stato Maggiore Generale di Kriens (Lucerna), esiste una “Doktrinstelle”, un uf-ficio politico preposto alla trasmissione della “dot-trina” agli ufficiali che ogni anno si ritrovano con migliaia di nuovi giovani coscritti da omologare. E la dottrina è, naturalmente, quella delle missioni imperialiste cosiddette di “peace keeping”.La tendenza attuale, in molti paesi imperialisti, è la trasformazione dell’esercito di leva in esercito di soli

buona pace dei fautori di sinistra della leva obbliga-toria – “impedisce praticamente alla classe operaia l’accesso ai gradi superiori”13. L’esercito (che per Zie-gler “è sempre la violenza sociale istituzionalizzata”) serve: “…a combattere il nemico interno. In Svizze-ra il nemico interno è rappresentante da qualsiasi gruppo, partito, movimento, sindacato o organizza-zione che metta veramente in pericolo l’egemonia politica dell’oligarchia imperialista. Mantenere l’or-dine pubblico significa anche mantenere l’ordine del capitalismo monopolistico. In questo senso la pre-senza di una maggioranza di dirigenti del capitale finanziario e dei membri del Parlamento infeudato in seno al comando dell’esercito obbedisce alla logica profonda del sistema”14.

● “La Svizzera è un esercito”?La retorica patriottarda secondo cui la Svizzera “non ha un esercito, ma è un esercito” è una delle tante mezze verità che la classe dirigente afferma nel ten-tativo di mantenere in vita l’esercito. La realtà è di-versa: la Costituzione federale del 1848 statuiva sì il servizio militare come un obbligo generale maschi-le, imponeva però ai cantoni un contingente di uo-mini limitato al 4,5% della rispettiva popolazione: per la maggior parte dei cantoni ciò significava riu-scire a coprire tale fabbisogno con una leva volonta-ria, rinunciando dunque al reclutamento forzato. In sostanza quindi, dal XVII fino alla metà del XIX se-colo, la Svizzera conobbe una milizia composta prin-cipalmente di volontari. E’ nel 1868 che l’idea di un’esercito nazionale che “intruppasse” tutti gli uo-mini abili si concretizzò attraverso la riforma Welti. È solo con la Costituzione federale del 1874 l’obbligo generale di leva maschile fu sancito15. L’iniziativa popolare che voteremo il 22 settem-bre 2013 per abolire l’obbligo di leva (art. 59 cpv. 1 Cost.) pur mantenendo il principio dell’esercito di milizia (art. 58 cpv. 1 Cost.), quindi, non è nulla di rivoluzionario: al contrario si tratta della situazione che caratterizzava le forze armate nello spirito origi-nario dello stato federale elvetico.

Questo dossier è composto di estratti del libro di prossima pubblicazione del segretario del Partito Comunista sull’esercito visto in ottica marxista. È possibile ordinarlo a: info@partitocomunista.ch

forma di prevaricazione e imperialismo. L’esercito di leva, dunque, è servito e serve per formare cittadi-ni ubbidienti, lavoratori che rispondono “signorsì” al loro superiore. La coscrizione obbligatoria ha voluto da sempre formare gli uomini, lavoratori e capifamiglia, edu-candoli in senso autoritario, instillando l’assenza di pensiero critico, promuovendo il valore della gerar-chia contro quello della cooperazione. Il servizio mi-litare serve per intimorire e reprimere la creatività dei giovani, soffocarne ogni istinto di ribellione, far comprendere, con brutale chiarezza, che il potere e il sistema non accettano devianze e che tutte le propo-ste e i pensieri non asserviti alla logica del pensiero dominante capitalista, saranno ritenuti – appunto – devianze. Interessante in merito il recente studio dell’Uni-versità di Tübingen, il quale ha stabilito che la fer-ma militare di nove mesi (prevista fino a pochi anni fa in Germania) era fonte di danni nello sviluppo psichico dei giovani soldati. In modo particolare è stato scoperto che coloro i quali dopo il liceo erano finiti in una scuola reclute, risultavano meno inte-ressati alla letteratura e all’arte e ritenevano noiose le discussioni filosofiche. Chi aveva indossato la divisa risultava diffiden-te e poco socievole nei confronti delle persone estra-nee, inoltre non si poneva questioni riguardanti le conseguenze delle proprie azioni e il proprio ruolo nella società. La ricerca ha pure dimostrato che ri-spetto ai loro coetanei astretti al servizio civile, gli ex-soldati risultavano maggiormente aggressivi e meno attenti ai sentimenti umani10. Osserviamo ora il caso della Germania. Berlino ha infatti deciso di recente di abolire la coscrizione obbligatoria: è la prima volta dal 195611 che i giovani tedeschi non si dovranno sottoporre al reclutamento militare. Si è aperta così una nuova fase storica in cui anche i marxisti sono chiamati a ripensare la prospettiva del proprio lavoro anti-militarista. I giovani comunisti tedeschi della SDAJ riten-gono che “in questo modo viene bloccata un’impor-tante possibilità del militarismo germanico di in-fluenza sulla gioventù”. Attraverso il servizio milita-re si formavano infatti le nuove generazioni nell’ot-tica della sottomissione al sistema nazionalista bor-ghese: “la Scuola della Nazione doveva rendere i giovani dei soldati e dei soldati fare dei cittadini in uniforme” e ciò significa nient’altro che intruppare i ragazzi legandoli indissolubilmente “a questo Stato, all’ordinamento sociale capitalista e alla necessità della sua difesa armata”. Qualcosa di ben chiaro nella mente degli im-prenditori tedeschi, che, non a caso, potevano ben affermare: “Questi giovani lavoratori, che ritornano dal loro servizio militare sono in ordine. Sono ragaz-zi magnifici e molti, in questo periodo di tempo, sono completamente cambiati”12. Il sistema svizzero della “milizia” – ammette il sociologo Jean Ziegler, con

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«Le classi dominanti svizzere hanno potuto disporre dell’esercito di leva contro scioperi e movimenti sociali»Intervista di Aris Della Fontana a Tobia Schnebli, rap-presentante del Gruppo per una Svizzera senza esercito (Gsse) e uno dei promotori dell’iniziativa popolare per abolire la leva obbligatoria.

una nuova iniziativa per l’abolizione dell’esercito che però raccolse molto meno voti della precedente. L’e-sercito stava riducendo gli effettivi da 400’000 a 200’000 e il mondo era appena entrato nella «guerra globale e permanente» lanciata da George W. Bush dopo gli attentati dell’11 settembre. Il GSse è stato al centro delle mobilitazioni contro le guerre in Afgha-nistan e in Irak. L’obiettivo di fondo è sempre quello del disarmo, in Svizzera e nel mondo. I membri atti-vi del GSse in Svizzera sono forse un centinaio, quel-li «passivi», alcune migliaia, gli abbonati ai giornali (tedesco e francese) circa 25’000.

A.D.F. Perché il GSse, che auspica l’abolizione tout court dell’esercito svizzero, ora si “limita” a chiedere di abolire la sola leva obbligatoria? Non c’è il rischio che senza l’esperienza (spesso negati-va) della scuola reclute possa calare la disaffezio-ne nei confronti del militare e quindi diminuire il numero di “abolizionisti”?T.S. Riguardo al rischio di veder calare l’opposizio-ne al militare, non siamo d’accordo con la logica del «tanto peggio, tanto meglio». Seguendo questa logi-ca il GSse avrebbe dovuto opporsi all’introduzione del servizio civile sostitutivo. Qualsiasi riforma che riduce la presenza o i costi del militare avrà un effet-to di riduzione della critica e dell’opposizione al mili-tare. Per arrivare al disarmo bisogna «smilitarizza-re le teste». Per questo sono utili anche le iniziative e le campagne che si limitano a sopprimere o impedi-re una parte del sistema militare. Già oggi comun-que chi veramente non vuole prestare servizio mili-tare riesce a evitarlo. Un terzo dei giovani maschi svizzeri sono dichiarati «inabili» prima del servizio militare, un altro 10% sceglie il servizio civile e solo un terzo di tutti quelli che prestano servizio militare effettuano la totalità dei giorni di servizio obbligatorio.

A.D.F. Senza l’obbligo di leva vi è il rischio di tra-sformare l’esercito svizzero in un esercito profes-sionista?T.S. Per la trasformazione in un esercito profes-sionista sarebbe necessaria un’altra votazione per modificare l’articolo 58 della Costituzione che di-ce: «La Svizzera ha un esercito. L’esercito svizzero è organizzato fondamentalmente secondo il principio di milizia.» L’iniziativa lascia intatto questo articolo della Costituzione.

A.D.F. Una parte della sinistra teme che senza la leva obbligatoria l’esercito diventerebbe un covo di mercenari esaltati e sarebbe più facilmente utilizzabile per missioni imperialiste all’estero. Cosa rispondi?T.S. L’esperienza di molti paesi (Svezia, Belgio, Francia, Irlanda, Olanda, Germania, …) che non ap-plicano più la leva obbligatoria dimostra che il peri-colo dell’esercito di «mercenari esaltati» o di «Ram-

bo» non è realistico. Quanto al rischio di invio di soldati svizzeri in guerre imperialiste, oggi lo si può escludere. Nella seconda metà degli anni novanta, sotto l’allora capo del dipartimento militare Adolf Ogi, la Svizzera aderì al “Partenariato Per la Pace” della NATO e nel 2000 decise di inviare un contin-gente in Kossovo, tuttora presente. In seguito però i progetti di cooperazioni internazionali per l’esercito svizzero si sono fermati. Nel 2001 c’è stato un voto molto risicato (appena il 51% di favorevoli, grazie all’opposizione congiunta di sinistra pacifista e de-stra nazional-conservatruice) sull’armamento dei militari svizzeri all’estero. Poi, l’inversione di ten-denza si è accentuata con il rigetto molto forte tra la popolazione delle guerre “neo-imperiali” in Afgha-nistan e soprattutto in Irak. Nel 2007-9 Samuel Schmid ha finito per ritirare an-che i due o tre ufficiali osservatori presenti in Afgha-nistan e in parlamento l’alleanza “contro natura” di UDC, Verdi e sinistra socialista ha bocciato l’acqui-sto di aerei da trasporto militari come pure la possi-bilità di effettuare dei corsi di ripetizione all’estero. Il naufragio definitivo di queste velleità è avvenuto nel 2010 col rifiuto del progetto (voluto dall’allora ministra socialista Micheline Calmy-Rey) di parte-cipazione all’operazione «Atalanta» contro la pirate-ria al largo delle coste somale. E questo malgrado il fatto che i militari svizzeri partecipanti dovessero essere volontari. Oggi il problema molto più verosimile è costituito dal progetto “Ulteriore sviluppo dell’esercito (USEs)” lanciato ufficialmente da Ueli Maurer in giugno di quest’anno che focalizza le missioni dell’esercito sulla sicurezza all’interno. Questo progetto concretizza il concetto di “Rete integrata Svizzera per la sicurezza (RSS)” adottato dal Consiglio federale nel 2010, che è tutto rivolto alla “sicurezza interna” contro le “nuove minacce” come il terrorismo, le ondate di ri-fugiati, i disordini sociali europei che si ripercuoto-no sulla Svizzera,... Nel passato le classi dominanti svizzere hanno potuto disporre in modo efficace dell’esercito di leva contro scioperi e movimenti so-ciali. Lo sciopero generale del 1918 è stato represso e sconfitto con l’invio massiccio nei centri urbani di truppe provenienti dai cantoni rurali. Più recente-mente le mobilitazioni dell’esercito per «protegge-re» il vertice del G8 a Evian o il WEF di Davos si sono svolte senza problemi con l’esercito di leva. E non vi saranno problemi anche con l’impiego dei nuovi battaglioni di polizia militare per missioni di sicurezza interna contro dei manifestanti, e con l’u-tilizzo di unità di fanteria per fermare un arrivo massiccio di rifugiati alle frontiere. Tanto più che oggi la stragrande maggioranza di giovani con uno spirito critico nei confronti del militare non è più in-corporata nell’esercito. Andrebbe poi fatta anche tutta una riflessione sulla presunta «garanzia demo-cratica» che costituirebbe l’esercito di leva. Mi limi-

to a ricordare che in Germania la leva fu reintrodot-ta da Hitler nel 1935 dopo che era stata abolita sotto la repubblica di Weimar e che i colpi di stato in Spa-gna, Grecia, Turchia, Cile, Argentina,… sono stati effettuati da eserciti basati sulla coscrizione obbliga-toria.

A.D.F. Finita la guerra fredda ci si illudeva di entrare in un’epoca di pace, mentre a vent’anni dalla caduta del blocco sovietico i conflitti sem-brano aumentati. In questo contesto c’è un’ampia fetta della popolazione che crede che l’esercito svizzero sia utile a difendere la pace. Cosa propo-ne concretamente il GSse nell’agenda politica?T.S. Le disuguaglianze economiche abissali, le ingiustizie sociali e il saccheggio delle risorse natu-rali del pianeta sono le cause principali dei conflitti. Per ridurre i conflitti bisogna ridurre la portata di queste cause. L’esercito svizzero non serve in nessun modo a ridurre i conflitti nel mondo, e ancora meno a dissuadere i nostri vicini dalla tentazione di inva-dere la Svizzera, ma unicamente a dare una specie di garanzia di sicurezza completamente illusoria a una popolazione fragilizzata dall’insicurezza economica in Svizzera e nel mondo. Concretamente e nell’im-mediato, il GSse propone di ridurre drasticamente gli effettivi dell’esercito e di rinunciare all’acquisto di nuovi areri da combattimento. Con i risparmi re-alizzati si potrebbe aumentare la sicurezza sociale in Svizzera e contribuire, seppure in minima misura, a ridurre le cause dei conflitti nel mondo.

A.D.F. Per quale motivo secondo te il parlamen-to non ha presentato alcun controprogetto all’ini-ziativa? Sono così sicuri di stravincere?T.S. Da una parte i partiti borghesi sono abba-stanza sicuri di vincere, ma dall’altra ci sono anche dei motivi concreti. I due controprogetti presentati chiedevano di istituire un obbligo di servizio gene-ralizzato, esteso anche ad altre attività oltre al servi-zio militare. Queste proposte sono problematiche per due ragioni principali. Da una parte c’è il proble-ma dell’uguaglianza con le donne e il fatto che l’e-stensione di un nuovo obbligo di servizio alle donne comporterebbe un funzionamento e una struttura ancora tutti da inventare. Dall’altra c’è il problema che nell’ordinamento democratico-liberale, al di fuori del sistema penale, lo Stato non ha il diritto di obbligare i cittadini a prestare servizi alla società, eccetto che per la difesa da una minaccia esistenzia-le per la società stessa, come potrebbe essere la mi-naccia d’invasione militare. Senza parlare poi della pressione sull’impiego e sui salari che eserciterebbe-ro le attività di un servizio obbligato generalizzato, per esempio nei settori della salute e delle cure alle persone anziane.

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A.D.F. Tobia, parlaci del Gruppo per una Svizze-ra senza esercito (GSse): quando è nato, con quali obiettivi, quanti membri ha, che linea politica persegue, ecc.?T.S. Il GSse è stato fondato nel 1982 da giovani socialisti, pacifisti e antimilitaristi con l’obiettivo di lanciare un’iniziativa popolare per l’abolizione dell’esercito svizzero. Era l’anno della sconfitta della grande mobilitazione in tutta l’Europa, Svizzera compresa, contro la folle corsa al riarmo, all’apice della guerra fredda con l’istallazione degli euromis-sili nucleari della Nato e del Patto di Varsavia. Definita una proposta utopica e controproducente anche da una parte della sinistra, la prima iniziati-va del GSse ottenne un risultato molto sorprenden-te nella votazione popolare del 26 novembre 1989 : 36% di Sì con una partecipazione del 65%. I canto-ni del Giura e di Ginevra votarono a favore dell’ini-ziativa. L’esercito Svizzero contava allora 625’000 soldati e il muro di Berlino era appena caduto due settimane prima. L’attività del GSse è continuata con numerose iniziative popolari e referendum su obiettivi parziali (contro l’acquisto di nuovi aerei da combattimento, contro l’armamento dei soldati sviz-zeri all’estero, contro le esportazioni di armamenti, per un servizio civile volontario,…) e, nel 2001 con

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A.D.F. Se passasse l’iniziativa e la leva non fosse più obbligatoria anche il servizio civile divente-rebbe solo volontario. Non ti dispiace?T.S. A prima vista sì. Ma bisogna considerare anche le distorsioni del sistema attuale di servizio civile. Esso è riservato unicamente a chi è dichiarato abile al servizio militare. In molti ambiti il servizio civile costituisce un trampolino per l’entrata nel mondo del lavoro per i giovani che lo svolgono. Ma le giovani donne e chi non ha il passaporto svizzero sono esclusi da questa possibilità. L’unico modo per soppri-mere questa discriminazione e aprire il servizio civile alle donne e ai non-svizzeri è far passare l’iniziativa.

A.D.F. La borghesia di tanti paesi europei ha ri-tenuto opportuno abolire la leva obbligatoria. La borghesia svizzera invece pare arroccata a difen-dere la milizia forzata a tutti i costi. Come mai?T.S. Ci sono dei rappresentanti borghesi «rifor-matori» come il consigliere di stato liberale-radicale ginevrino Pierre Maudet che ha già presentato un progetto di esercito con 20’000 uomini. Ma per la de-stra nazional-conservatrice e populista (UDC, Le-ga,…) il servizio militare obbligatorio è indissolu-bilmente legato all’idea della difesa nazionale del territorio. È un elemento basilare dell’ideologia poli-tica di questa parte della destra, secondo la quale gli svizzeri (salvo alcuni fannulloni) stanno bene e non devono lasciarsi togliere questo benessere dal resto del mondo che va male. La borghesia svizzera ci tie-ne a mantenere una forza armata accanto alle poli-zie cantonali. Sta riducendo gli effettivi e una parte dell’armamento pesante (blindati, artiglieria) pro-pria della difesa nazionale, ma ha capito che senza l’appoggio della destra nazional-conservatrice la ri-forma dell’esercito non è possibile e per questo non osa toccare il servizio militare obbligatorio. Penso che nelle prossime settimane sentiremo parlare sempre più spesso delle meravigliose virtù del nostro esercito «del popolo, per il popolo», dei valori profon-damente elvetici insiti nel «cittadino-soldato», ecc,…

A.D.F. Recentemente in Austria la popolazione ha votato per mantenere obbligatorio il servizio militare. Come leggi questo risultato in relazione al voto di settembre nel nostro Paese? Sono possi-bili paragoni? T.S. Tecnicamente, la votazione in Austria ver-teva sull’introduzione di un esercito professionista, mentre l’iniziativa in Svizzera mantiene il principio della milizia, che passerebbe da forzata a volontaria. Ma probabilmente la principale differenza con la Svizzera è che la leva è applicata in modo molto più parziale e leggero in Austria. Con 30’000 soldati, l’e-sercito austriaco ha degli effettivi quattro volte infe-riori a quelli attuali dell’esercito svizzero (120’000). Solo una minoranza di giovani compie il servizio

militare e per un periodo di tempo più corto che in Svizzera. Sembra che gli ambienti militari e con-servatori austriaci abbiano saputo far valere con successo anche l’argomento del mantenimento del servizio civile.

1.1 Due strumenti di lavoro.

Le UAA introducono due nuovi strumenti di lavoro:il mandato di prestazione (contratto di prestazio-ne): rappresenta lo strumento di gestione principa-le. Indica concretamente gli obiettivi che devono essere raggiunti da parte della UAA: le caratteristi-che, i destinatari, gli standard qualitativi, i costi unitari e complessivi. La SUPSI ricorda (pag. 57) che l’elaborazione di un mandato di prestazione esige molta attenzione, sovente sottovalutata: in particolare si riscontra un insufficiente grado di dettaglio e difficoltà nel definire adeguati indicato-ri dei risultati conseguiti; il conto prestazioni : è il documento in cui sono riassunti i principali gruppi di prestazioni dell’UAA, corredati di qualità e costi pianificati.

1.2 Separazione politica strategica e operativa.

Un’altra caratteristica fondamentale dell’UAA è la separazione tra la conduzione politico-strategica e quella operativa.

1.3 Vantaggi e svantaggi. La SUPSI riassume come segue i vantaggi delle UAA: aumento della flessibilità operativa maggio-re motivazione del personale attenuazione del regi-me di monopolio statale utilizzo di strumento tipici dell’economia privata in grado di favorire la con-correnza maggior efficacia orientamento alla co-pertura dei costi esplicitazione dei conflitti di inte-resse tra parlamento, governo e amministrazione. Gli svantaggi sarebbero invece i seguenti: è ne-cessario un ripensamento politico sono necessari importanti modifiche di legge il rispetto dei man-dati deve essere assicurato con dei meccanismi di controllo che generano costi elevati il processo per creare un’UAA è lungo e complesso.

1.4 Uno staff dipartimentale. La SUPSI rileva ancora la necessita di disporre pres-so le Direzioni dei dipartimenti di uno staff di spe-cialisti in grado di elaborare dei mandati di presta-zione sufficientemente dettagliati, per almeno atte-nuare “l’asimmetria informativa” e la cosiddetta cattura del controllore da parte del controllato.

1.5 Filosofia. Per quanto riguarda l’aspetto politico la SUPSI os-serva che la UAA costituisce una filosofia di gestio-ne. Non si è mai discusso invece delle possibili mo-dalità di coinvolgimento del livello politico.

1.6 Un’inchiesta. La SUPSI per sostenere la sua proposta ricorda che inchieste in quattro cantoni (Basilea-Campagna, Soletta, Turgovia e Zurigo) hanno rilevato un gra-

La pericolosa trasformazione dei servizi pubblici in “unità amministrative autonome”

Graziano Pestoni

● Introduzione

Con il messaggio 6716 del 5.12.2012 il Consiglio di Stato ha proposto un progetto di “Legge sul finan-ziamento tramite il budget globale e il mandato di prestazione delle Unità amministrative autono-me” (LUAA). Concretamente chiede la trasforma-zione in Unità amministrative autonome (UAA) di cinque servizi, tra cui l’Organizzazione sociopsi-chiatrica cantonale, coinvolti nella fase pilota sin dal 2006 e la possibilità di estendere tale modo di gestione ad altri servizi. Nel presente documento cercheremo di dimo-strare che questi strumenti impongono un lavoro burocratico complesso e oneroso, sono inutili e dan-nosi e, nell’ottica di un servizio pubblico, possono perfino essere pericolosi. Nel nostro lavoro ci rife-riremo soprattutto all’esempio dell’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale (OSC), per la quale lo strumento dell’Unità amministrativa autonoma (UAA) appare particolarmente inadeguato. L’UAA, come ricorda anche il CdS, è uno stru-mento proposto nel 1998 dalla ditta Arthur Ander-sen (AA), autrice del rapporto “Amministrazione 2000”, la discussa riforma dell’Amministrazione cantonale ticinese. La AA non era una ditta qualsi-asi. Essa aveva sposato i concetti del New public management (NPM), la cosiddetta “nuova gestio-ne pubblica”, figlia dell’ideologia liberista, secondo la quale il mercato, la concorrenza e il profitto sa-rebbero i migliori strumenti per gestire la cosa pubblica. La AA aveva proposto la privatizzazione di una serie di servizi cantonali e le UAA avrebbero dovuto costituire una prima tappa verso la priva-tizzazione totale dei servizi. Esse costituiscono quindi un reale pericolo, poiché potrebbero essere il grimaldello verso la cessione successiva ai privati di importanti servizi pubblici.

1. Definizione, scopo e funzionamentoIl CdS ha affidato alla SUPSI il mandato di seguire la fase sperimentale e di formulare una precisa proposta. Essa è contenuta in un rapporto del 15 novembre 2010, allegato al messaggio governativo. Nel messaggio e nel rapporto della SUPSI si ricor-dano le caratteristiche delle UAA, i vantaggi e gli svantaggi, nonché la filosofia. Questi aspetti si pos-sono riassumere come segue.

Il servizio militare obbligatorio in Svizzera è parziale e dise-guale, selettivo e diseguale. Lo possiamo vedere da questa semplice statistica che dimostra, basandosi sulla proporzione di giovani dichiarati abili al reclutamente, come la distribuzione dell’obbligo di servizio sia altamente ineguale e quindi discriminatorio.

Cantone %di abili al Servizio militare

Argovia 75,0%Ginevra 55,9%Giura 55,7%Lucerna 78,2%Neuchâtel 56,0%Nidwaldo 79,0%Zurigo 53,8%

Ticino 61,4%

Il servizio militare obbligatorio non ha niente di universale. Ecco le fasce della popolazione escluse dall’obbligo di leva.

Categorie sociali % della popolazione

Donne 51%

Cittadini stranieri 12%

Inabili al servizio 15%

Servizio civile 6%

Non compiono tutti i giorni di servizio militare 12%

Compiono tutti i giorni di servizio militare 4%

Totale 100%

(Calcoli del GSsE. Fonti: DDPS, UFS, NZZ, Sonntagszeitung.)

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Ticino

do di soddisfazione pari al 62%. Sono stati tuttavia interpellati soltanto membri del parlamento, del governo e quadri dell’amministrazione e sono in-vece stati esclusi dall’inchiesta il personale, i sinda-cati, l’utenza.

2. Una (inaccettabile) scelta ideologicaL’adozione delle UAA costituisce una scelta ideologi-ca che considera i principi dell’economia privata mi-gliori rispetto a quelli dell’economia pubblica. Nel rapporto della SUPSI si indica chiaramente che si vorrebbe introdurre la concorrenza e sopprimere monopoli pubblici, nonché privilegiare gli aspetti di mercato rispetto alla soddisfazione dei bisogni dell’utenza. Si tratta di principi liberisti. Non sorprende la posizione del Consiglio di Stato in quanto questa scelta, fatta negli anni Novanta, è stata sistematicamente confermata, come lo confer-mano ancora le recenti proposte di contenimento dei costi. Sorprende invece che le stessa filosofia sia stata adottata acriticamente anche dalla SUPSI. I vantaggi dell’UAA indicati dalla SUPSI sono affermazioni generiche non suffragate da fatti, ad-dirittura a volta smentite dai fatti stessi. Perché il privato sarebbe più efficiente del pubblico? Perché il monopolio pubblico (in taluni settori particolar-mente delicati quali la prevenzione nel campo socia-le e psicosociale) dovrebbe essere connotata negati-vamente? Quali vantaggi apporterebbe la concor-renza? L’affermazione secondo la quale l’UAA mi-gliorerebbe la motivazione del personale è smentita dai fatti. Nel periodo coperto dalla fase sperimenta-le la situazione presso l’Organizzazione sociopsichia-trica cantonale è peggiorata. L’inchiesta effettuata dalla commissione del personale sul personale della Clinica psichiatrica cantonale ( autunno 2011) ha dato, tra l’altro, i se-guenti risultati: il 78% giudicava negative le sue condizioni di lavoro il 77% che i cambiamenti inter-venuti negli ultimi anni hanno avuto un’incidenza negativa sulla qualità di vita, sulla qualità del lavoro (67.5) e sull’utenza (89%). Il regime contrattuale previsto dalla UAA, con-trariamente a quanto si vorrebbe far credere, non introduce più flessibilità, poiché definisce per un certo periodo la quantità e la qualità delle prestazio-ni (sulla base di principi finanziari) e solo con diffi-coltà il servizio potrebbe adeguarsi ai mutamenti dei bisogni dell’utenza. Questo sistema privilegia l’a-spetto aziendale (e quindi anche la limitazione delle prestazioni), al diritto del cittadino di disporre per esempio di un servizio sociale o sanitario previsto dalla legge. Si introduce il principio della scarsità delle risorse e si rimette in discussione il principio dell’uguaglianza di trattamento. Va ancora rilevato che l’esigenza di una maggiore autonomia gestiona-le, soprattutto in campo finanziario, sarebbe possi-bile con un semplice adeguamento della legge in materia, per esempio conferendo la possibilità di ri-

portare all’anno successivo l’avanzo d’esercizio oppure di superare il credito concesso.

3. Complesse, inutili, pericolose, dannose

3.1 Gli indicatori di prestazione: complessi e manipolabili

L’UAA necessita di un contratto tra il Dipartimento e la Direzione dell’unità amministrativa. La SUPSI ammette che questa operazione è complessa, diffici-le e onerosa e necessiterebbe, tra l’altro di uno staff specialistico dipartimentale per la definizione delle prestazioni da erogare (quantità e qualità). Oltre all’onere supplementare richiesto, il sistema si scon-tra con altre difficoltà:- l’impossibilità di standardizzare ogni prestazio-ne per misurarne la qualità e la quantità: come si potrebbe quantificare, per esempio in campo sociop-sichiatrico, l’attività di prevenzione sul territorio? Individuale e di gruppo? Oppure la presa a carico dei pazienti psichiatrici? - la rigidità: il personale dovrebbe occuparsi del paziente secondo i suoi bisogni o limitare l’attività sulla base di parametri finanziari? E se la casistica dovesse peggiorare e necessitare complessivamente di più risorse? Si dovrebbe aspettare la fine del man-dato per adeguare le risorse ai bisogni? - la manipolazione degli indicatori: tutta la lette-ratura in materia (vedi ad esempio Peter Knoepfel, Idheap) attira l’attenzione sulle difficoltà di mettere in atto un sistema efficace di controllo delle presta-zioni. L’asimmetria dell’informazione e delle com-petenze, inevitabile, tra i responsabili dell’UAA e il Dipartimento, impedisce di fatto un reale control-lo. Il controllore per svolgere il proprio compito di-penderebbe dal controllato.

3.2 L’UAA riduce il controllo democratico L’UAA limita i compiti del Gran Consiglio e del Consiglio di Stato che sarebbero chiamati soltanto a definire le scelte strategiche generali. Il dipartimen-to dovrebbe stipulare il contratto di prestazione. L’UAA è responsabile dell’operatività. Lo Stato (GC, CdS) dovrebbe quindi evitare di intervenire nella gestione quotidiana. È noto tuttavia che il modo con cui una decisione viene applicata è spesso determinante per il destina-tario e quindi, la rinuncia volontaria dello Stato a svolgere direttamente taluni compiti riveste un’im-portanza capitale, poiché priva l’Ente pubblico e quin-di la collettività delle possibilità di intervento. A lun-go termine assisteremo a conflitti di interesse poiché le esperienze dimostrano che il Parlamento vorrà ri-prendere prerogative abbandonate all’esecutivo.

3.3 L’UAA sviluppa il corporativismoIl responsabile dell’UAA sarà interessato unicamen-te all’ottenimento dei risultati nel proprio settore, perché è su questo che verrà premiato o sanzionato.

Avrà tendenza a trascurare la collaborazione con al-tre unità ammnistrative , salvo laddove i suoi compi-ti glielo prescrivono esplicitamente.

3.4 La realizzazione degli obiettivi non è garantita

Il responsabile dell’UAA deve eseguire i compiti prescritti dal contratto di prestazione. Tuttavia la sua responsabilità è limitata poiché comporta unica-mente l’obbligo di “diligenza” per realizzare lo scopo prefissato. Potremo pertanto assistere a manifeste inadempienze, senza che ci sia la possibilità di inter-venire fino alla scadenza del mandato.

3.5 Peggioramenti per il personaleLe norme contrattuali, almeno nella fase attuale, ri-mangono quelle prescritte per tutti i dipendenti del-lo Stato. Due sono comunque le modifiche di rilievo. Primo. La possibilità per il responsabile dell’UAA di assumere personale precario. In caso di bisogno di personale supplementare si potrebbe pertanto assi-stere nuovamente all’aumento di personale con me-no diritti. Secondo. Vista l’accresciuta competenza del responsabile dell’UAA, in caso di necessità sarà più difficile per il personale chiedere l’intervento del Consiglio di Stato.

● ConclusioniL’UAA è fondata su principi finanziari . Essa dimentica i valori, fondamentali, della collaborazione, scorda vo-lutamente che il cittadino ha precisi diritti, sanciti dal-la legge. Il cliente (perché l’UAA di fatto trasforma il cittadino in cliente) può beneficiare di prestazioni sol-tanto nella misura in cui è in grado di pagare. Non a caso la ditta Arthur Andersen ha proposta anche l’in-troduzione del cosiddetto principio della corresponsio-ne, ossia la fatturazione sistematica di ogni prestazione. Si tratta di uno stravolgimento dei rapporti tra Stato e cittadino: un allontanamento del cittadino dall’ammi-nistrazione e dai servizi sociali e sanitari. Per risolvere il problema di una maggiore autono-mia delle unità amministrative, sicuramente necessa-ria in una certa misura, non è necessario l’adozione di un sistema tanto complesso e oneroso, con così tante controindicazioni. Si può accordare la necessaria auto-nomia alle varie unità amministrativa senza aumenta-re la burocrazia. L’elaborazione del mandato di prestazione e la defi-nizione degli indicatori quantitativi e qualitativi e di tante altre cose, necessitano di tempo e risorse. Tempo e risorse che vengono sottratte all’attività. Riteniamo pertanto inadeguato, inutile e dannoso lo strumento dell’UAA. Auspichiamo quindi che il Gran Consiglio metta fine a questa esperienza e sappia invece garanti-re la qualità del servizio pubblico attraverso la rivaluta-zione dei principi fondamentali del pubblico impiego, quali la socialità, la disponibilità, la giustizia, l’equità.

Non è la maleducazione del Mattino a preoccuparci, ma la “austerity”!

Comitato Cantonale del Partito Comunista

Il 19 ottobre 2013 è stata convocata una manifesta-zione di piazza a Lugano per rivendicare lo sviluppo dei diritti sociali in Ticino sulla base di un appello che denuncia giustamente i tentativi di divisione dei lavoratori, la precarizzazione nel mondo del lavoro, lo smantellamento dello stato sociale, la discrimina-zione nei confronti dei migranti, la corruzione e l’in-filtrazione della malavita nel tessuto economico del nostro Paese, ecc. Il Partito Comunista non condivide però la vo-lontà di focalizzare l’attenzione su due “star” leghi-ste, come Lorenzo Quadri e Marco Borradori: non è tanto la pur deprecabile maleducazione del Mattino della Domenica a preoccuparci, quanto piuttosto la crisi economica, le misure di austerità imposte dai poteri forti di questo Cantone, i diktat dell’Unione Europea che la Svizzera recepisce passivamente, il razzismo che non è solo quello delle iniziative xeno-fobe ma soprattutto quello frutto delle politiche vol-te a favorire una guerra fra poveri che sono comuni anche a quella parte di padronato che con la Lega non c’entra. L’opposizione va dunque fatta nei con-fronti di tutti i partiti di governo e di un padronato sempre più arrogante. E’ la politica di destra in quanto tale che va con-trastata per costruire un progetto di società alterna-tiva in cui si ridefiniscano i rapporti sociali in favore dei lavoratori, delle lavoratrici e dei ceti popolari. La Svizzera non sarà un’isola felice per sempre: la crisi che si rafforza anche nel nostro Paese rischia di por-tarci a situazioni simili alle “macellerie sociali” di altri paesi d’Europa, dove le forze dell’estrema destra fascista stanno oltretutto proliferando. Occorre quindi scendere in piazza e occupare le pubbliche vie in maniera compatta; tuttavia non basta manifesta-re una volta ogni tanto quasi a mo’ di scampagnata: bisogna ricominciare a costruire delle stagioni di lotta sul territorio per promuovere gli interessi dei ceti popolari in tutti gli ambiti della società, sui po-sti di lavoro e nelle scuole. In primis attraverso lo sciopero in autunno contro il preventivo 2014 già de-finito come “lacrime e sangue”. Bisogna che le organizzazioni operaie, studente-sche e progressiste si uniscano in un progetto strate-gico di azione per preparare le dure battaglie in dife-sa dei diritti e per promuovere un alternativa politi-ca al neo-liberismo e al consociativismo borghese e partitocratico, che rende la Svizzera un paese immo-bilista in grado di parare i contraccolpi che si pro-spettano nei prossimi mesi e nei prossimi anni al seguito del rafforzarsi della crisi solo imponendo sa-crifici a chi già oggi tira la cinghia.

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EconomiaEconomia

1 L’attuale governo ha finora ricevuto cinque mozioni di sfiducia, record per un governo dai tempi della Rivoluzione dei Garofani.2 Prova né è la pubblica-zione nei media di una lettera. firmata da figure di spicco del padronato e dell’economia, in cui si sprona il Presidente della Repubblica a far trovare un accordo tra i partiti.

Tragedia greca alla lusitana: cronaca dell’austerità imposta al Portogallo

Stefano Araujo

● L’austerità prende il sopravventoNella primavera 2011 cade in Portogallo il governo socialista guidato da José Socrates a seguito della bocciatura in parlamento del PEC 4, un pacchetto di tagli alla spesa pubblica – dettato quasi interamente dall’Unione Europea – che doveva far fronte alla cri-si del debito pubblico portoghese. Vengono perciò indette elezioni legislative anti-cipate. A causa della crisi della zona Euro, il debito pubblico enorme, la carenza di investimenti esteri, il Portogallo si trova a dover richiedere aiuti sotto for-ma di crediti alla comunità internazionale, come già in precedenza fatto da Irlanda e Grecia. In cambio degli aiuti, per garantire fedeltà alla troika (composta dal Fondo Monetario Internazio-nale, la Banca Centrale Europea e l’Unione Euro-pea), questa obbliga i tre maggiori partiti: il PS (Par-tito Socialista), il PSD (Partito liberale/neoliberista, nonostante il nome fuorviante di Partito Socialdemo-cratico) e il CDS-PP (Centro Democratico Sociale-Partito Popolare, formazione democristiana conser-vatrice), a firmare un “Memorandum” d’intesa. Esso non è altro che un patto di impegno ad appli-care misure di austerità estreme per risanare il debi-to, con tagli enormi al sociale, ai servizi statali, ai salari dei dipendenti pubblici e liberalizzazioni. Il tutto in cambio di un “aiuto” di circa 70 miliardi di Euro e un’intera economia e mercato sotto “tutela” del FMI. Niente di nuovo se si pensa al caso Greco. Nell’estate dello stesso anno, vince le elezioni il PSD guidato da Pedro Passos Coelho, e per garantire una maggioranza di governo, si unisce a questo il CDS-PP guidato da Paulo Portas. Questo governo ha rappresentato la peggiore faccia dell’austerità e della troika. L’aumento della disoccupazione (oggi al 18% totale; 40% quella giovanile), la recessione, nuovi casi sociali e l’aumento dei suicidi sono alcuni degli esempi della devastazione sociale perpetrata dalla destra e dai partner internazionali. L’insoddisfazione non tarda ad arrivare, soprat-tutto da parte delle classi medie e dei lavoratori che si vedono da una parte tagliare le prestazioni sociali e dall’altra imporre un aumento massiccio delle im-poste – per esempio negli ultimi due anni i Porto-ghesi hanno dovuto devolvere metà della propria tredicesima allo Stato; un magazziniere si vede de-trarre dal salario sotto forma di imposta sul lavoro circa 250 euro, che sono quasi metà del salario mini-

mo nazionale! Insomma, a pagare, come sempre, non sono i facoltosi, bensì i lavoratori. A questa poli-tica di austerità si oppongono duramente i sindacati, che hanno indetto vari scioperi generali, e la sinistra parlamentare rappresentata dai comunisti del PCP, dai Verdi e dal BE (Bloco de Esquerda, partito di si-nistra nato dall’unione di vari movimenti di ispira-zione trotzkista, maoista e socialista), che fin dal pri-mo giorno si sono opposti al Memorandum, propo-nendo di stracciarlo e di rinegoziare totalmente il debito, alludendo al fatto che molti dei debiti con-tratti sono impropri o imposti dalla troika.

● Il “salvataggio” che in realtà distrugge il PaeseIl governo di destra va avanti, nonostante i continui dissapori interni tra il PSD e il CDS-PP e nonostante le mozioni di sfiducia presentate dall’opposizione di sinistra, che non vengono mai accolte1. Accade, però, che a inizio di luglio si dimette il Ministro delle Finanze José Relvas (PSD), il quale, tramite una lettera pubblica, motiva le sue dimissio-ni con l’ammissione di aver fallito con le proprie po-litiche economiche. Al suo posto viene nominata un’economista con precedenti incarichi nel Tesoro statale, Maria Luis Albuquerque, sgradita però al numero due della coalizione, il Ministro degli Esteri Paulo Portas, leader dei democristiani. Si apre una disputa nel governo, che culminerà con le dimissio-ni di Portas, senza che il Presidente della Repubbli-ca, Anibal Cavaco Silva (PSD), fosse avvisato. Ci sarebbero così tutti gli ingredienti per una crisi politica: il CDS-PP si trova in una situazione di impasse: continuerà o meno a far parte del governo? Garantirà la maggioranza in Parlamento? Il PS, all’opposizione, chiede elezioni anticipate, come pu-re la sinistra e i comunisti, alludendo al fatto che il governo non gode più di legittimità e di fiducia di-nanzi al popolo. Nei giorni seguenti avviene un pri-mo colpo di scena: dopo vari incontri, apparentemen-te i due leader tornano a intendersi: Portas annulla le proprie dimissioni, e il Premier lo propone suo vice – carica finora mai esistita – e Ministro delle Strategie Economiche, dandogli così la possibilità di controllare direttamente la neo-ministra delle finanze. Sembra tutto risolto, e invece il Presidente della Repubblica decide di incontrarsi con tutti i partiti parlamentari e i partner sociali (sindacati e padro-nati), per trovare una soluzione alla crisi politica. L’opposizione ribatte la necessità di elezioni antici-pate, mentre la destra governativa e il padronato spingono per mantenere attivo questo governo fino a giugno 2014, mese in cui il FMI abbandonerà il Por-togallo e il paese tornerà nei mercati senza la tutela internazionale. Dopo tali incontri, il Presidente del-la Repubblica boccia la proposta del governo di ri-mescolamento dei ministri, ma acconsente alla ri-chieste padronali2, imponendo che il PS, il PSD e il CDS-PP si incontrino per formare insieme un go-

verno di “salvataggio nazionale”, che continui con i dettami della troika e l’austerità fino all’estate, mo-mento proposto per le elezioni legislative anticipate. Una situazione simile a quanto accaduto in Gre-cia e in Italia (con l’accordo fra centro-sinistra e cen-tro-destra). Non si tratta di rispettare la volontà po-polare, bensì di una misura antidemocratica tesa a mantenere fino alla fine l’austerity che sta distrug-gendo il Portogallo; un colpo di stato istituzionale in piena regola. I partiti di destra pressano il PS affin-ché entri nel governo. I socialisti accettano il dialogo e invitano pure la sinistra a unirsi agli incontri, ri-marcando fin da subito che non accetterà più tagli al sociale e al numero di funzionari pubblici. Il PCP e il BE rifiutano di dialogare con la destra, afferman-do che è un ossimoro il termine “salvataggio”: è l’au-sterità a provocare la distruzione del tessuto econo-mico e sociale del paese.

● Ipotesi di governo per la sinistra unita? Nel frattempo, mentre gli incontri tra i tre partiti mag-giori hanno già preso avvio, il BE invita sia il PS che il PCP a negoziare le basi di un possibile futuro governo di sinistra unita. I comunisti si dicono interessati al dia-logo, mentre il PS, dopo un solo incontro con i “blocchi-sti”, decide di sospendere il dialogo, dando priorità agli incontri col governo. La risposta comunista non si fa attendere: il PS è più interessato a discutere con la de-stra e, preferisce parlare con chi vuole l’austerità che con chi propone l’alternativa. Il PS accusa a quel punto il PCP di settarismo, mentre i comunisti rinfacciano ai socialisti di aver pau-ra di un confronto e di essere più aperti alla destra libe-rale che alla sinistra. Nel mezzo il BE rimarca l’inten-zione di voler creare un’intesa, pregando il PS di lasciar perdere l’accordo con la destra. Peraltro anche ex-leader storici della sinistra, come i socialisti Mario Soares e Manuel Alegre, concordano: un governo PS con la de-stra sarebbe un disastro! Anzi: i socialisti dovrebbero unirsi alla sinistra sulla base della rinegoziazione del debito e la fine dell’austerità dettata dalla troika. Successivamente all’incontro PS-BE, quest’ulti-mo si incontra col PCP, il quale, al termine si rallegra della comunione di visione e di intenti sui problemi da risolvere e sulle soluzioni da adottare, riafferman-do la necessità che tutte le forze politiche e sociali che vogliono un’alternativa alla troika, alla destra e all’au-sterità debbano unirsi e progettare una via di uscita insieme, al di là delle diversità ideologiche. I comuni-sti precisano però che non di una coalizione elettorale si tratta, bensì di adottare proposte politiche comuni. Si attendono, perciò, prossimamente nuovi incontri che potranno chiarificare le intenzioni e le strategie della sinistra portoghese.

● Niente accordo, si continua a destra con l’austeritàDopo vari colloqui, cade la proposta presidenziale di governo di salvataggio: il PS comunica che non è sta-

ta trovata alcuna intesa programmatica, afferman-do che le parti hanno due visioni inconciliabili sulle politiche da attuare; più attenta alla crescita econo-mica e alle richieste sociali quella socialista, più at-tenta alla diminuzione della spesa e dei servizi pub-blici quella della destra. In particolare, il PS rimarca la sua opposizione totale al taglio di 4 miliardi alla spesa pubblica, al taglio del numero di dipendenti pubblici e dei loro salari, alle privatizzazioni di im-prese statali, proponendo invece un aumento dei sa-lari minimi nazionali e delle pensioni, diminuzioni delle imposte sul lavoro e dell’IVA nella ristorazione, oltre ad altre misure per rilanciare l’economia. Fallito il tentativo, il Presidente della Repubbli-ca decide di mantenere attivo l’attuale governo, sen-za annunciare alcun termine dello stesso, riaffer-mando che le elezioni anticipate sarebbero una tra-gedia e un disastro per i mercati. La destra applaude, i socialisti si rammaricano, mentre il PCP, in un co-municato diramato subito dopo il discorso di Silva, riafferma che il Paese si trova dinanzi all’ennesimo gioco presidenziale teso a salvare un governo com-pletamente delegittimato – prima dai propri mini-stri e poi, in un primo momento, pure dallo stesso Presidente quando costui non accettò il rimpasto – e un’austerità che sta distruggendo il Paese. “Il Presidente - afferma il segretario comunista Jeronimo de Sousa – non sciogliendo il Parlamento, conferma la propria opzione strategica: un interven-to al servizio degli interessi del grande capitale (i mercati) e delle potenze complici di un processo di espropriazione, estorsione delle ricchezze nazionali e dei redditi dei portoghesi. È chiaro che il denomina-to compromesso di ‘salvataggio nazionale’ non è sta-to altro che un esercizio per imprigionare il paese a favore della destra e del Patto di Aggressione (si trat-ta del Memorandum, ndr), che lo affonda, e della sot-tomissione esterna. [...]”3. In sintesi, la situazione non cambia a causa di un Presidente della Repubblica ostaggio del grande ca-pitale, sordo davanti alle richieste dell’opposizione e del popolo, sempre più stanco e sfiancato dall’auste-rità, che ha vinto questa ennesima battaglia istitu-zionale, a scapito degli interessi della popolazione. In attesa di novità, seguiremo con interesse gli incontri della sinistra – in particolare del PCP che ha in pro-gramma ancora, dopo quelli coi partiti e con i sinda-cati, vari incontri con figure democratiche indipen-denti nei prossimi giorni.

Giù le mani dalla Siria! No alla guerra!Qualche informazione sulla Siria: il governo del presidente Bashar Al-Assad è una coalizione fra socialisti baathisti e comunisti; l'istruzione e l'assistenza sanitaria sono gratuite e di buona qualità; i prodotti di base (come gli alimentari) sono sovvenzionati dallo Stato, i prezzi sono controllati e cal-mierati dallo Stato garantendo così l’accesso al consumo alle fasce meno abbienti; i sindacati degli operai e dei conta-dini (che aderiscono alla Federazione Sindacale Mondiale assieme ai sindacati comunisti di tutto il mondo, dal PAME greco alla CTC cubana) intervengono con potere decisiona-le nelle scelte economiche delle imprese; a dirigere il com-mercio estero è lo Stato e non le multinazionali occidentali; il settore pubblico impiega quasi la metà della forza lavoro si-riana; il ruolo della donna è riconosciuto nella società; ecc. La vittoria di una attacco imperialista o dei "ribelli" (in gran parte salafiti) - oltre a mettere a repentaglio la laicità della società e la pace fra etnie e confessioni - causerebbe un’on-data di privatizzazioni in svariati settori economici, lascian-do il paese in balia delle multinazionali e del neo-liberismo e distruggerebbe gran parte dei diritti sociali della popolazio-ne, degli studenti e dei lavoratori: Iraq, Libia, ecc. insegnano.