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R E P U B B L I C A I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di Appello di Roma SSeezziioonnee IIIIII^̂ CCiivviillee
composta dai signori magistrati
Dott. Giuseppe Lo Sinno PRESIDENTE, relatore/est.,
Dott. Michele Di Mauro CONSIGLIERE,
Dott. Fioravante Del Giudice CONSIGLIERE,
ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
nella causa civile su rinvio disposto dalla Corte Suprema di Cassazione iscritta al N. 4259/2015 del Ruolo Generale degli Affari Civili Contenziosi, posta in decisione ex art.352 c.p.c. all’udienza dell’11.10.2016 (con concessione dei termini ex art.190 c.p.c. di gg. 60 + 20 scaduti il 02.01.2017) e vertente
tra
BIVONA MARINA, nata a Roma il 13.02.1958 (c.f. BVNMRN58B53H501X), rappresentata e difesa dall’avv. Costantino Francesco Baffa del foro di Roma ed elettivamente domiciliata in Roma, via Giovanni Gentile n. 22, presso lo studio del medesimo avv.to, giusta delega in atti;
-ATTRICE in riassunzione (già appellante) -
c/
ISTITUTO FIGLIE DI SAN CAMILLO – OSPEDALE MADRE GIUSEPPINA
VANNINI (c.f. 01588540581), in persona del suo legale rapp.te p.t., con sede in Roma, via dell’Acqua Bullicante n.4, e
RAVALLESE dott. FERDINANDO, nato a Roma il 9.04.1952 (c.f. RVLFDN52D09H501R),
entrambi rapp.ti e difesi dall’avv. Raoul Rudel del foro di Roma e dom.ti in Roma, via G. Vasari n. 5, presso lo studio del medesimo avvocato, giusta delega in atti;
- CONVENUTI – (già appellati e appellanti incidentali) - nonché
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GENERALI ITALIA S.p.A. (c.f. 00885351007) già Ina Assitalia S.p.A., in persona del suo legale rapp.te p.t., con sede in Mogliano Veneto (TV), via Marocchesa n.14, rapp.ta e difesa dall’avv. Giuseppe Ciliberti del foro di Roma e dom.ta in Roma, via Monte Zebio n.28, presso lo studio del medesimo avvocato, giusta delega in atti;
- CONVENUTA (già appellata) - Oggetto: Appello avverso sentenza del Tribunale di Roma n. 24619/03 su rinvio disposto dalla Corte di Cassazione con sentenza n.12718/2015 (materia: risarcimento danni per responsabilità sanitaria).
CONCLUSIONI DELLE PARTI: come da rispettivi atti introduttivi richiamati nel verbale
dell’udienza di p.c. dell’11.10.2016.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La signora Bivona Marina aveva convenuto in giudizio, davanti al Tribunale di
Roma, l'Ospedale Maria Giuseppina Vannini dell’Istituto Figlie di San Camillo di
Roma, nonchè quattro medici e quattro infermieri operanti nel medesimo nosocomio
perché venissero riconosciuti responsabili della morte del di lei padre - sig.
Bivona Francesco - che si era suicidato il 13.10.1994 mentre era ricoverato nel
nosocomio a seguito di un precedente tentativo di suicidio; a tal fine aveva
dedotto che, nonostante un ulteriore tentativo suicidario posto in essere il giorno
1.10.1994, il personale medico e paramedico non aveva assunto alcuna misura -
farmacologica e di vigilanza - volta ad evitare che il paziente riuscisse nell'intento
di togliersi la vita; domandò pertanto il risarcimento del danno, quantificandolo
in €. 450.000,00.
I convenuti contestarono la domanda e chiamarono in manleva l'Assitalia -
Le Assicurazioni d'Italia - S.p.a. e la Lloyd Adriatico s.p.a..
Nelle more del giudizio di primo grado, la vedova del defunto, sig.ra Andronico
Silvestra, ed altre due figlie, sigg.re Bivona Antonietta e Doriana, si costituirono
parti civili nel parallelo procedimento penale, che si concluse - in primo grado -
con la condanna del dr. Ravallese Ferdinando ed - in secondo grado - con il
proscioglimento dell'imputato per intervenuta prescrizione, ma con conferma dei
capi civili della sentenza di I grado.
Le predette parti civili adirono successivamente il Tribunale di Roma che liquidò
il risarcimento in oltre 237.000,00 euro in favore della vedova ed in oltre
203.000,00 euro ciascuna in favore delle figlie Antonetta e Doriana Bivona.
Nel frattempo l’altra figlia Bivona Marina (che non si era costituita parte civile
nel procedimento penale) aveva proposto appello avverso la sentenza n.
24619/2003 emessa dal Tribunale Civile di Roma che le aveva negato il
richiesto risarcimento del danno.
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Provvedendo sul così sollevato gravame, la Corte di Appello di Roma aveva
dichiarato l’inammissibilità dell'impugnazione per difetto di specificità dei motivi.
La sig.ra Marina Bivona proponeva ricorso per cassazione e la Suprema Corte,
con sentenza depositata in data 19.06.2015 con il n.12718/15, accoglieva il 1° motivo
del ricorso (dichiarando assorbito il secondo) cassando la sentenza impugnata con
rinvio alla Corte di appello di Roma per il nuovo giudizio ed anche per il regolamento
delle spese del giudizio di legittimità.
Con citazione notificata in data 27-28 marzo 2015 la sig.ra Bivona Marina ha
riassunto il giudizio innanzi a questo giudice di rinvio chiedendo la riforma della
sentenza di I grado e, nel merito, l’accoglimento della domanda già proposta con la
condanna delle parti appellate, da dichiarare responsabili del fatto dedotto, al
pagamento dei danni da essa subiti (sia materiali che non patrimoniali) oltre che
delle spese dei vari gradi di giudizio.
Si sono costituite innanzi a questa Corte:
l’Ospedale Madre Giuseppina Vannini ed il dr. Ravallese per chiedere il rigetto
dell’appello, ritenuto inammissibile ed infondato; ed in via di impugnazione
incidentale, il solo dr. Ravallese, chiedendo l’accoglimento della domanda di
manleva a carico della Compagnia assicuratrice;
nonché Generali Italia S.p.A. (che aveva assorbito Ina Assitalia) per chiedere il
rigetto dell’appello con conferma della sentenza del Tribunale.
All’udienza collegiale dell’11.10.2016, precisate le conclusioni, la causa è stata
trattenuta per la decisione ai sensi dell’art.352 c.p.c. con concessione dei termini
fissati dall’art.190 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
In conseguenza della cassazione della sentenza di II grado (dichiarativa
dell’inammissibilità dell’appello della signora Marina Bivona) a questo Collegio
compete la decisione del merito dell’originaria impugnazione sollevata dalla qui
attrice in riassunzione rilevato che la Cassazione aveva motivato che “alla luce di
un tale quadro giurisprudenziale di riferimento, ritiene il Collegio che dall'atto di
appello emergano chiaramente le censure mosse alla sentenza di primo grado. Deve
rilevarsi, infatti, che i motivi di gravame sono stati formulati mediante espresso
riferimento alle argomentazioni logico-giuridiche contenute nelle due sentenze
penali, sì che non pare dubitabile che il richiamo agli accertamenti di fatto e
alle correlate argomentazioni logico-giuridiche dei giudici penali costituisca
l'argomentata confutazione logico-giuridica della sentenza di primo grado. Più
specificamente, l'appellante ha premesso la trascrizione dei passaggi della
sentenza penale di primo grado che descrivono le misure adottate dal Ravallese
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ed ha evidenziato come entrambe le sentenze penali abbiano ritenuto la "assoluta
inconsistenza" di tali cautele, respingendo altresì la tesi della inevitabilità
dell'atto suicidario. Ciò consente di escludere che l'atto di impugnazione difetti
della necessaria specificità e comporta l'accoglimento del primo motivo e
l'assorbimento del secondo (che censura le affermazioni della sentenza
impugnata in punto di non operatività del giudicato extrapenale, assumendo
che - in ogni caso - la Corte avrebbe dovuto prendere in esame "i fatti
materiali emersi in sede penale costituenti prova certa di responsabilità anche
civile") in quanto attinente ad una questione che la Corte territoriale ha
dichiarato di non poter esaminare in dipendenza della ritenuta genericità
dell'appello”.
Pertanto passando al merito della controversia ed al proposto gravame avverso
la sentenza n. 24613/2003 emessa dal Tribunale di Roma, va innanzitutto
evidenziato come risultino del tutto irrilevanti, inammissibili ed ultronee le nuove
eccezioni di “inammissibilità” sollevate dai convenuti dr. Ravallese ed Istituto Figlie
di San Camillo (da ora in poi Istituto) posto che in sede di giudizio di riassunzione a
seguito di rinvio da parte della Corte di Cassazione non può trovare applicazione né
il novellato art. 348 bis c.p.c. (per ragioni anche, ma non solo, temporali dovendosi
far riferimento all’originario atto di appello e non alla citazione in riassunzione
come atto di impugnazione) né l’art. 342 c.p.c. tanto più in un caso come quello
all’esame di questa Corte di appello, quale giudice di rinvio, adita proprio dopo che il
Supremo Collegio aveva disatteso l’analoga eccezione di inammissibilità basata
sull’art.342 c.p.c. (vigente ratione temporis) e cassato la sentenza d’appello che
aveva ritenuto (errando) che il gravame non rispondesse ai requisiti di specificità
richiesti dalla suddetta norma.
Venendo ora al <<merito>> dell’impugnazione a suo tempo sollevata dalla sig.ra
Marina BIVONA, ed al gravame avverso la decisione di rigetto della sua domanda
di risarcimento dei danni subiti in conseguenza della morte del padre Francesco,
ritiene questo Collegio che l’impugnazione sia fondata e vada riformata
integralmente la sentenza di I grado.
Al fine di dar conto di questo giudizio di accoglimento è necessario partire da
una considerazione di ordine generale: le sentenze emesse nel parallelo
procedimento penale a carico del dr. Ravallese, pur non avendo efficacia vincolante
in questo giudizio civile, possono fornire elementi di valutazione su cui poter
fondare il giudizio sul risarcimento del danno tanto più dove la sentenza di appello
penale, pur dichiarando l’estinzione del reato contestato per intervenuta
prescrizione, aveva confermato le statuizioni civili che si basavano sulla accertata
presenza di un fatto illecito potenzialmente generatore di un danno a terzi (cfr.
Cass. civ., sez. III, 04-11-2014, n. 23429: <<la condanna generica al risarcimento
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del danno contenuta nella sentenza del giudice penale dichiarativa dell’estinzione
del reato per prescrizione non implica alcun accertamento in ordine alla concreta
esistenza di un danno risarcibile ma postula soltanto l’accertamento della
potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso
di causalità tra questa e il pregiudizio lamentato, restando salva nel giudizio civile
di liquidazione del quantum la possibilità di escludere l’esistenza di un danno
eziologicamente conseguente al fatto illecito>>); inoltre in applicazione del principio
di autonomia e separazione dei giudizi penale e civile, il giudice civile investito della
domanda di risarcimento del danno da reato deve procedere ad un autonomo
accertamento dei fatti e della responsabilità con pienezza di cognizione, non
essendo vincolato alle soluzioni e alle qualificazioni del giudice penale; nondimeno lo
stesso giudice civile può legittimamente utilizzare come fonte del proprio
convincimento le prove raccolte in un giudizio penale definito con sentenza passata
in cosa giudicata e fondare la decisione su elementi e circostanze già acquisiti con
le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine a diretto esame del
contenuto del materiale probatorio, ovvero ricavando tali elementi e circostanze
dalla sentenza, o se necessario, dagli atti del relativo processo, in modo da
accertare esattamente i fatti materiali sottoponendoli al proprio vaglio critico
(così Cass. civ., sez. III, 17-06-2013, n. 15112).
Orbene, tenuto conto delle ragioni specifiche che portarono all’annullamento
della sentenza di secondo grado, non sembrano esservi dubbi che – sulla base della
valutazione qui compiuta dal Collegio dei dati emergenti dal giudizio in ambito
penale ed in difetto di elementi di portata contraria che, in verità, era specifico
onere delle parti convenute, qui appellate, dimostrare – il diritto della sig.ra Bivona
ad essere risarcita per i danni subiti in conseguenza della morte per suicidio del
padre presso il reparto di medicina dell’Istituto convenuto (e dove operava quale
responsabile di reparto il dr. Ravallese), sia fondato e che la sentenza di primo
grado meriti di essere riformata.
Partendo, a tal proposito, proprio dall’analisi del profilo della natura della
responsabilità ascrivibile all’Istituto (qui convenuto in riassunzione), ritiene questa
Corte di rinvio che sussiste senz’altro quella contrattuale (in specie ricollegata alla
natura delle prestazioni assunte direttamente dall’Istituto e dal suo personale
sanitario dipendente che svolgeva anche i compiti di controllo e sorveglianza dei
pazienti ricoverati presso lo stesso).
Non vi è dubbio, infatti, che l’evento dannoso trovasse una sua specifica origine
causale tanto in un inadempimento della struttura sanitaria che in un fatto illecito
(omissivo) del personale che in quella struttura operava alle dipendenze della
prima.
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Può trovare, in questa situazione, applicazione l’orientamento della
giurisprudenza che – pur distinguendo i profili di responsabilità – ne afferma la
comune sussistenza nel caso delle Ospedali o Case di Cura e del personale che in
esse vi opera (nel caso in cui il paziente o cliente non abbia scelto anche il soggetto
che debba assisterlo).
Si è pervenuti, infatti, a un’autonoma valutazione della responsabilità della
struttura sanitaria, la cui fonte non è più da ricercarsi nell’eventuale negligenza dei
singoli operatori, bensì nell’inadempimento delle obbligazioni specificamente
dedotte nel contratto di cui la medesima è diretta parte contraente, impostazione
atta a valorizzare «la complessità e l’atipicità del legame che si instaura, che va
ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a
disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l’apprestamento di
medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni»,
poiché in virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una
prestazione assai articolata, definita genericamente di «assistenza sanitaria», che
ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale (assistenziale, medica, ecc.)
anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori; quando un medesimo
danno è provocato da più soggetti, per inadempimenti di contratti diversi,
intercorsi rispettivamente tra ciascuno di essi e il danneggiato, tali soggetti
debbono essere considerati corresponsabili in solido, non tanto sulla base
dell’estensione alla responsabilità contrattuale della norma dell’art. 2055 c.c.,
dettata per la responsabilità extracontrattuale, quando perché, sia in tema di
responsabilità contrattuale che di responsabilità extracontrattuale, se un unico
evento dannoso è imputabile a più persone, al fine di ritenere la responsabilità di
tutte nell’obbligo risarcitorio, è sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso
di causalità ed il concorso di più cause efficienti nella produzione dell’evento (dei
quali, del resto, l’art. 2055 costituisce un’esplicitazione), che le azioni od omissioni
di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrlo (cfr. Cass. civ., sez. III,
03-02-2012, n. 1620).
Precisato quanto sopra (a confutazione della questione della carenza di domanda verso l’Istituto o della inammissibile modifica delle domanda proposte nei gradi precedenti), deve passarsi alla questione più strettamente collegata alle ragioni dell’appello a suo tempo proposto dalla sig.ra Marina Bivona: e cioè all’esame del fatto accaduto al ricoverato sig. Bivona Francesco ed al nesso di causa tra il danno insorto ed il fatto/comportamento delle parti convenute; a tal riguardo deve procedersi (seguendo la traccia delle due sentenze penali prodotte dalla attrice) ad una distinta ed autonoma valutazione del materiale probatorio comunque acquisito al giudizio, facendo riferimento anche a dati non contestati e, quindi, da considerare “oggettivi”. Tenendo conto di tutto il materiale indicato, e facendo ponderata valutazione di quanto risulta riportato nelle due sentenze penali (del Tribunale di Roma e della
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Corte di Appello di Roma) ritiene questa Collegio che la decisione del primo giudice non sia condivisibile e che la stessa vada riformata dovendosi qui affermare la sussistenza di un fatto illecito ascrivibile alle due parti qui convenute, entrambe responsabili per l’evento accaduto al paziente ricoverato presso la struttura ospedaliera. Prima di analizzare i due profili di rispettiva responsabilità, questa Corte ritiene necessario e doveroso evidenziare come nella specie la situazione vada affrontata partendo da un dato, forse, trascurato o non focalizzato a sufficienza. Nel concreto si trattava di un caso di una persona malata con problemi anche psico/patologici (circostanza che emerge evidente nella ricostruzione dei fatti riportata tanto dalle due sentenze penali, come pure dalle “premesse in fatto” esposte nei rispettivi atti dalle parti in causa) che non venne affidata all’Istituto convenuto per ragioni edonistiche (casa di riposo) o di semplice assistenza (come per le case di cura per anziani soli o non autosufficienti) o di semplice “degenza” (come se si trattasse di un soggetto necessitante di una semplice degenza ospedaliera legata ad una transitoria patologia), ma più concretamente perché necessitante di assistenza specifica per esigenze di terapia, di cura e di assistenza scaturita da un ben preciso episodio di <<autolesionismo>> con finalità suicidiarie. Dall’esame delle sentenza penale del Tribunale di Roma emerge chiaramente come il sig. Bivona il giorno 1° ottobre 1994 fosse giunto al p.s. con accettazione per “ferita da punta emitorace sinistro autoprocurata” e che dopo un secondo tentativo di suicidio, avvenuto in data 12.10.1994 durante il ricovero ospedaliero, il dr. Centracchio (assistente presso il reparto dove il paziente era ricoverato) avesse richiesto per il paziente “una nuova consulenza psichiatrica urgente per eventuale trattamento sanitario obbligatorio all’Ospedale San Giovanni territorialmente competente nel caso di specie”. Era la condizione di salute del sig. Francesco Bivona che imponeva alla struttura sanitaria di svolgere (tramite i suoi dipendenti) i compiti di cura, assistenza e sorveglianza calibrati a quella specifica condizione “psichiatrica” presentata dal paziente senza alcuna possibilità di ritenere i dipendenti dell’Istituto legittimati ad un minor controllo o sorveglianza (o addirittura a nessun controllo) del paziente in relazione ad una asserita non prevedibilità dell’evento (il suicidio) e, soprattutto, alla sua inevitabilità. Poiché il paziente era stato ricoverato presso l’Ospedale Madre G. Vannini in quanto necessitante di cura immediata per la grave ferita al torace (e per questo ricoverato presso il reparto di chirurgia), ma poi ivi trattenuto anche per la diagnosticata (mediante videat neurologico in data 11.10.1994) <<sindrome depressivo-ansiosa ad impronta psicotica>>) necessitante di specifiche cure psichiatriche (poi approntate dal dr. Angelucci al momento della consulenza psicologica da lui effettuata; come risulta dalla sentenza penale del Tribunale a pag.12), non poteva essere messo in dubbio che rientrasse tra i compiti ed i doveri delle parti qui convenute anche quello di sorvegliare il paziente ponendolo in una condizione di “tutela” o “controllo” per poter impedire (anche se nei limiti del prevedibile) atti lesivi non solo verso terzi ma soprattutto verso se stesso (non
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essendo fatto ignoto, anche a chi non è un tecnico del settore psichiatrico, che molto spesso i malati di mente, per sindromi depressive od altre patologie psichiatriche, possono procurare danni a sé stessi anche mediante atti di autolesionismo); tanto più quando uno specifico caso di tentato suicidio era stato sventato il giorno precedente presso lo stesso nosocomio e con modalità identiche a quelle poi funeste del 13.10.1994. A tal proposito (e confermando il giudizio espresso dai giudici penali circa la prevedibilità dell’evento) deve essere posto in evidenza che, trattandosi di un paziente affetto da sindrome ansioso-depressiva ad impronta psicotica e in terapia con farmaci (che il dr. Ravallese aveva ritenuto di dover ridurre per le ragioni evidenziate a pagina 12 della sentenza penale del Tribunale), è lecito aspettarsi che il medico di turno, oltre al personale addetto all’assistenza, supervisionasse lo stato del paziente (non limitandosi agli accorgimenti indicati in sede penale tanto più in presenza di una minore copertura farmacologica antidepressiva), per esempio controllando di continuo il paziente nei momenti in cui non era possibile far più affidamento sulla presenza dei familiari dello stesso. Non vi è dubbio, infatti, che tra i compiti di cura ed assistenza da prestare nei riguardi di un paziente ricoverato – ed in particolare di un paziente affetto da sindrome ansioso-depressiva ad impronta psicotica necessitante di una più specifica assistenza - fosse necessario attuare una più idonea sorveglianza in una fase di riduzione della terapia farmacologica consigliata dallo psichiatra (trattandosi di farmaci con effetto “depressore”) e, quindi, in un contesto che avrebbe dovuto far sorgere la preoccupazione per la possibilità di una ripresa delle spinte psicopatologiche di cui il sig. Bivona era portatore (come del tutto condivisibilmente aveva spiegato il Tribunale nella sentenza penale di condanna del Ravallese). E di fronte ad un episodio eclatante, come quello avvenuto durante il ricovero nell’Istituto convenuto (il gettarsi del paziente dalla finestra della camera dove era ricoverato), vi è una sicura colpa della struttura sanitaria convenuta nell’avere omesso il necessario (nonché doveroso) controllo della condizione complessiva del paziente affetto dalla accertata (in quella stessa sede) “sindrome ansioso/depressiva ad impronta psicotica”; nonché nell’avere collocato il paziente in un luogo non idoneo a prevenire episodi del genere (si rammenta che il sig. Bivona venne collocato in una stanza posta nel reparto di medicina dell’Istituto al terzo piano e con finestre prive di grate o altri sistemi di ritenzione atti ad evitare cadute o gesti similari). Anche per le strutture sanitarie private, come per gli ospedali pubblici, rientra nei compiti specifici di assistenza (oltre che sanitaria) anche quella di sorveglianza del malato implicante l’adozione di tutte quelle cure ed attenzioni volte a prevenire atti e comportamenti che possano portare a conseguenze dannose e negative per sé e per gli altri. Peraltro, in materia di assistenza dei malati, in genere, e di quelli di mente, in particolare, è nota la distinzione tra prestazioni sanitarie in senso stretto (diagnostica, cura, terapia ecc.) ed attività socio-assistenziali (sia intra che extra
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ospedaliere) prive di rilievo sanitario; in queste ultime rientra sicuramente l’attività di assistenza e sorveglianza di cui necessita un soggetto malato di mente o con problemi psichiatrici accertati, al fine di prevenire forme di eteroaggressività e rendergli meno penosa l’esistenza (cfr. Cass. civ., sez. un., 27-01-1993, n. 1003). Rilevava, pertanto, la qualità dell’assistenza che l’Istituto ed il medico convenuti dovevano, in astratto, assicurare al paziente piuttosto che discettare di quale fosse concretamente la sorveglianza ed assistenza da attuare in relazione alle manifestazioni di autolesionismo ed alla condizione psichica del paziente stesso, pur in relazione alle patologie in atto ed alle capacità/dotazioni tecniche dell’ospedale in discorso. E poiché si trattava di un soggetto affetto anche da una sindrome ansioso-depressiva ad impronta psicotica - con comparsa di gravi manifestazioni autolesionistiche nell’arco di pochi giorni - l’assistenza socio-assistenziale che doveva essere prestata al paziente doveva essere spinta sino a quella volta a prevenire danni alla sua stessa persona, prevenendo forme estreme di etero aggressività (come il già tentato episodio del gettarsi dalla finestra da parte del Bivona il giorno 12.10.1994), risultando oltremodo evidente che un ulteriore episodio di autolesionismo fosse sia prevedibile che, in concreto, anche evitabile.
E, come detto in precedenza, l’assistenza sanitaria ordinaria doveva imporre alla
struttura, ed al responsabile del reparto quale medico di turno del medesimo, un
dovere di sorveglianza e di attenzione verso un paziente “particolare” e con
patologia psichiatrica comportante crisi di tipo funzionale su base isterica ad
insorgenza occasionale ma, certamente, ampiamente prevedibili.
A fronte di tale dato fattuale, collegato alla gamma di doveri contrattuali e non contrattuali gravanti sulle parti qui convenute, nessun elemento probatorio è stato dalle stesse fornito sia per consentire di verificare l’esatto adempimento dell’obbligazione contrattuale (ex art.1218 c.c.) che per verificare l’assenza di colpa in coloro i quali svolgevano i concreti compiti di assistenza sanitaria e di sorveglianza del paziente ricoverato (il c.d. “rapporto di cura”), posto che nei giudizi di risarcimento del danno causato da inadempimento dei doveri rientranti nel rapporto di cura ed assistenza (come nel campo dell’attività medica in senso stretto), l’attore ha l’onere di allegare e di provare l’esistenza del rapporto di cura, il danno ed il nesso causale, mentre ha solo l’onere di allegare (ma non di provare) la colpa dell’agente (di colui che aveva in cura il paziente); quest’ultimo, invece, ha l’onere di provare che l’evento dannoso è dipeso da causa a sé in alcun modo imputabile. In presenza di non idonee misure di tipo cautelativo (dettagliatamente indicate a pagina 10 della sentenza penale del Tribunale di Roma), ed in difetto di prove sul come venisse in concreto attuata l’assistenza sanitaria ordinaria nei confronti del Bivona durante il ricovero presso l’Istituto convenuto, e nell’assoluta irrilevanza della non necessità di una sorveglianza continua come causa escludente la responsabilità del sanitario, non vi era altra soluzione se non quella
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dell’affermazione di responsabilità delle parti convenute per la morte del paziente e per i conseguenti danni subiti dalla sua erede (la figlia Marina); risultando “più probabile che non” vi sarebbe stato l’insano gesto del paziente ove il dr. Ravallese avesse predisposto una serie di misure di maggior rigore e controllo del paziente anche chiedendo ai responsabili della struttura sanitaria di autorizzare (sino al momento del trasferimento del paziente presso l’Ospedale San Giovanni dotato di un reparto attrezzato) : - o una sorveglianza 24h/24h; - o il trasferimento del paziente in una stanza di un reparto sito al piano terra o ad una altezza inferiore (onde ridurre il rischio di impatti da caduta). Peraltro, la presenza in ospedale dei familiari del paziente (e della moglie in particolare) rendeva più agevole l’adozione delle misure indicate poiché si trattava di assicurare una maggiore sorveglianza nei lassi temporali durante i quali ad assistere il paziente non vi era nessun parente (ed infatti l’evento tragico avvenne proprio subito dopo che la consorte aveva lasciato l’ospedale). Il giudizio di rinvio deve trovare definizione nel senso sopra indicato con la conseguente dichiarazione di fondatezza dell’appello a suo tempo proposto dalla odierna attrice in riassunzione. Sui danni da risarcire.
Rileva questa Corte che la attrice non ha depositato il suo fascicolo del giudizio innanzi al Tribunale (essendo stati depositati gli atti dei soli grado di appello e di Cassazione) e che nel fascicolo di ufficio del primo grado (qui acquisito) risultano esservi copie della comparsa conclusionale della replica ex art.190 c.p.c.; dall’ultima pagina della comparsa conclusionale datata 14 marzo 2003 a firma avv. Ettore d’Ovidio risulta che la erede del defunto sig. Bivona Francesco aveva chiesto il ristoro della grave sofferenza morale determinata dalla perdita del padre e la sua quota-parte ereditaria (2/9) di indennizzo per il danno biologico subito dal padre sia durante il penoso ricovero sia per effetto della morte che non è stata istantanea alla caduta.
Tali richieste non risultano maggiormente specificate nella citazione in riassunzione fatta eccezione per una indicazione, nelle conclusioni ivi riportate, relativa alla richiesta di “oltre al danno materiale subito anche il lucro cessante poichè il Bivona Francesco era l’unico mezzo di sostentamento della famiglia dell’istante”, che appare del tutto inammissibile.
Di tanto dovrà tenersi conto nella liquidazione che questo giudice di rinvio è chiamato a compiere una volta che si è affermata la responsabilità della struttura sanitaria qui convenuta e del suo sanitario dipendente, ribadendo la natura di “giudizio chiuso” del procedimento azionato dopo il rinvio disposto dalla Suprema Corte di Cassazione (cfr, per tutte Cass. Sez. I, 21.02.2007 n. 4096: <<la riassunzione
della causa - a seguito di cassazione con rinvio della sentenza - dinanzi al giudice di rinvio instaura un
processo chiuso, nel quale è preclusa alle parti, tra l’altro, ogni possibilità di proporre nuove domande,
eccezioni, nonché conclusioni diverse, salvo che queste, intese nell’ampio senso di qualsiasi attività
assertiva o probatoria, siano rese necessarie da statuizioni della sentenza della cassazione;
conseguentemente, nel giudizio di rinvio non possono essere proposti dalle parti, né presi in esame dal
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giudice, motivi di impugnazione diversi da quelli che erano stati formulati nel giudizio di appello
conclusosi con la sentenza cassata e che continuano a delimitare, da un lato, l’effetto devolutivo dello
stesso gravame e, dall’altro, la formazione del giudicato interno>>, nella specie, la suprema corte ha confermato la sentenza di merito che aveva qualificato come domanda nuova inammissibile quella con cui, rispetto ad una originaria domanda di risarcimento del danno, erano state introdotte nuove voci di danno separatamente quantificate).
Ragion per cui alcune delle domande che la attrice ha inteso formulare a pagina 7 della citazione in riassunzione sono sicuramente inammissibili perché mai introdotte nei precedenti gradi del giudizio.
Pertanto, dovrà essere riconosciuto alla attuale attrice il solo danno non patrimoniale per la perdita del rapporto parentale legato alla morte del proprio genitore che è una tipica voce di danno a più facce afferente anche le sofferenze di tipo morale subite dalla persona (cfr. tra le più recenti Cass. civ., sez. III, 08-07-2014, n. 15491: <<il danno qualificabile come «edonistico» per la perdita del rapporto
parentale deve essere valutato unitamente al risarcimento del danno morale iure proprio; infatti il
carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. preclude un
risarcimento separato e autonomo per ogni tipo di sofferenza patita dalla persona, fermo l’obbligo del
giudice di tener conto nel caso concreto di tutte le peculiari modalità di manifestazione del danno non
patrimoniale, così da assicurare la personalizzazione della liquidazione>>).
Questa Corte, infatti, ritiene del tutto condivisibile il principio “contenitivo/restrittivo”, affermato dalle sezioni unite della Cassazione nella sentenza dell’11 novembre 2008 n.26974, per cui dà luogo a una duplicazione del risarcimento la congiunta attribuzione, al familiare della persona defunta (o gravemente lesa al punto da determinarne lo stato vegetativo o il coma), del danno morale e del danno da perdita del rapporto parentale, in quanto la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita dai familiari e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subìta non sono ontologicamente diverse e sottendono lo stesso disagio psichico e, dunque, la lesione del medesimo bene della vita; per contro, il danno morale che degeneri in pregiudizio alla sfera psichica - traducendosi in un danno di tipo biologico - non può essere considerato un «mero doppione» del danno da perdita del rapporto parentale ma – tuttavia - necessita di una specifica domanda, oltre che della prova della sua concreta ricorrenza.
Premesso ciò, al fine della concreta determinazione del danno spettante alla
sig.ra Bivona deve farsi uso delle tabelle adottate presso il Tribunale di Milano
(edizione 2014); tali tabelle possono essere applicate in virtù del richiamo che la
Suprema Corte ha inteso fare con la nota sentenza n.12408/2011, con la
precisazione che “le tabelle elaborate dal Tribunale di Milano a partire dal 2009, che la
sentenza Cass. n. 12408/11 ha dichiarato applicabili, da parte dei giudici di merito, su tutto il
territorio nazionale, non hanno mai cancellato la fattispecie del danno morale intesa come
voce integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale; tali tabelle, infatti,
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propongono la liquidazione congiunta del danno non patrimoniale conseguente alla lesione
permanente dell'integrità psicofisica suscettibile di accertamento medico legale e del danno
non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di dolore, sofferenza
soggettiva in via di presunzione in riferimento a un dato tipo di lesione, vale a dire la
liquidazione congiunta dei pregiudizi in passato liquidati a titolo di danno biologico
standard, personalizzazione del danno biologico, danno morale” (così Cass. 12.9.2011 n.
18641).
Le tabelle in uso presso il Tribunale di Milano prevedono i seguenti importi per il caso di perdita del genitore a favore di ciascun figlio:
una somma tra €. 163.990,00 ed €. 327.990,00;
con una forbice di risarcimento che deve essere colmata facendo ricorso a tutte le circostanze del caso concreto e tenendo conto che: a) la categoria generale del danno non patrimoniale, attinente alla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da valore di scambio, è di natura composita e si articola in una pluralità di aspetti, quali il danno morale (da intendersi nella duplice accezione di patema d’animo e di lesione alla dignità o all’integrità morale), il danno biologico e il danno da perdita del rapporto parentale o c.d. esistenziale; b) il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai corrispondere all’esatta commisurazione del pregiudizio, sicché se ne impone la valutazione equitativa, da condursi con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, dovendosi considerare in particolare la rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e i vari fattori incidenti sulla gravità della lesione e facendo ricorso a criteri idonei a consentire la personalizzazione del ristoro, al fine di pervenire a una liquidazione equa, e cioè congrua, adeguata e proporzionata; c) in virtù del principio dell’integralità del ristoro, la liquidazione del danno non patrimoniale non deve essere puramente simbolica o irrisoria o comunque priva di correlazione all’effettiva natura o entità del danno, ma deve tendere, in considerazione della particolarità del caso concreto, alla maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento e deve comprendere tutti gli aspetti della composita categoria del danno non patrimoniale, pur evitando inammissibili duplicazioni, il giudice, nel liquidare il danno non patrimoniale, deve dare conto del particolare significato che ha attribuito al danno morale, e cioè se lo abbia valutato non solo quale patema d’animo, sofferenza interiore o perturbamento psichico, di natura meramente emotiva o interiore (danno morale soggettivo), ma anche in termini di dignità o integrità morale e riconoscere il danno da perdita del rapporto parentale o esistenziale in caso di sconvolgimento della vita subìto da uno dei coniugi per la morte dell’altro (così Cass. civ., sez. III, 23-01-2014, n. 1361).
Nel caso in questione tenuto conto che si tratta di morte dovuta a carente assistenza di un paziente ricoverato presso un ospedale, per un soggetto dell’età di anni 65 (essendo nato il 9.05.1929) che conviveva con la moglie, e che aveva anche tre figlie (la attrice che all’epoca del decesso aveva una età di anni 36) che in difetto di prova positiva devono essere considerate tutte come non conviventi con
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il padre al momento dell’evento, si ritiene di poter riconoscere il danno non patrimoniale per la morte del congiunto nella somma di € 200.000,00 per la odierna parte attrice, con valutazione all’attualità .
Le somme sopra liquidate non possono essere ulteriormente aumentate per
l'incidenza della svalutazione monetaria maturatasi post factum perchè in questa
sede si è proceduto ad una liquidazione con valutazione con moneta attuale, posto
che il criterio tabellare è frutto di liquidazione eminentemente equitativa che
tiene conto dei valori attuali, e che la rivalutazione non è altro che il mezzo di
attualizzazione, alla data della decisione, dell'ammontare del debito di valore fatto
valere dal creditore.
Spettando, invece, gli interessi atti a risarcire il danneggiato per il lucro
cessante, e per effettuare la relativa operazione, seguendo un orientamento ormai
consolidato in giurisprudenza (V. per tutte Cass. Sez. unite 17.02.1995 n.1712), si
fa ricorso a diversi tassi ove sia necessario calcolare gli accessori del credito di
valore (rivalutazione e/o interessi).
Dove il credito sia stato conteggiato già con la rivalutazione (per liquidazione
all’attualità) il ricorso agli indici FOI, indici nazionali dei prezzi al consumo per le
famiglie di operai e impiegati, pubblicati dallo ISTAT e reperibili sul sito web
“istat.it”, vengono in rilievo per il calcolo della c.d. “somma devalutata”.
Per calcolare il lucro cessante, invece, si può fare ricorso o al rendimento medio
dei titolo di stato, sul presupposto che il creditore, se avesse potuto disporre della
somma l’avrebbe investita in titoli di stato (c.d. “rendistato”, pubblicato dalla
Banca d’Italia), ovvero al tasso legale di interesse (in caso di prova mancante, come
nel caso in esame).
Poiché la somma è stata liquidata ai valori attuali, il tasso di rendimento va
applicato sulle somme devalutate dividendo la somma liquidata per i coefficienti
F.O.I, così determinando anno per anno il reddito non percepito dal creditore; e poi
applicati i soli tassi di interesse legale sulle somme anno per anno rivalutate.
Pertanto la somma liquidata all’attualità deve essere ricalcolata per determinare
l’importo c.d. “devalutato” all’ottobre 1994 (per rapportarla ai valori di quell’epoca):
detto nuovo importo è pari a € 130.548,30 e su questa specifica somma deve, in
seguito, essere calcolata la rivalutazione anno per anno con la maggiorazione degli
interessi legali; la somma raggiunge l’importo finale di €. 315.482,17 come risulta
dalla tabella riepilogativa che segue (elaborata facendo uso di un calcolatore
informatico di comune utilizzo reperibile su siti web, e secondo i criteri di cui alla
citata sentenza Sez. Unite n.1712/1995):
I^ operazione: DEVALUTAZIONE
Importo da Devalutare: € 200.000,00
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Dal mese di: Novembre 2016
Al mese di: Ottobre 1994
Indice Istat utilizzato: FOI generale
Indice Novembre 2016: 100
Indice Ottobre 1994: 109,5
Raccordo Indici: 1,678
Indice di Devalutazione: 0,653
Totale Devalutazione: € 69.451,70
Importo Devalutato: € 130.548,30
II^ operazione: Rivalutazione+interessi dal 13.10.1994 all’attualità;
Servizio Richiesto: Calcolo Interessi Legali sul Capitale Rivalutato Annualmente
Data Iniziale: 13/10/1994
Data Finale: 30/11/2016
Capitale Iniziale: € 130.548,30
Interessi Legali: Nessuna capitalizzazione, Anno Civile (365 gg)
Decorrenza Rivalutazione: Ottobre 1994
Scadenza Rivalutazione: Novembre 2016
Indice Istat utilizzato: FOI generale
Dal: Al: Capitale Rivalutato: Tasso: Giorni: Interessi:
13/10/1994 13/10/1995 € 138.120,10 10,00% 365 € 13.812,01
13/10/1995 13/10/1996 € 142.167,10 10,00% 366 € 14.255,66
13/10/1996 31/12/1996 € 144.516,97 10,00% 79 € 3.127,90
01/01/1997 13/10/1997 € 144.516,97 5,00% 286 € 5.661,90
13/10/1997 13/10/1998 € 146.866,84 5,00% 365 € 7.343,34
13/10/1998 31/12/1998 € 149.477,80 5,00% 79 € 1.617,64
01/01/1999 13/10/1999 € 149.477,80 2,50% 286 € 2.928,13
13/10/1999 13/10/2000 € 153.394,25 2,50% 366 € 3.845,36
13/10/2000 31/12/2000 € 157.441,25 2,50% 79 € 851,91
01/01/2001 13/10/2001 € 157.441,25 3,50% 286 € 4.317,77
13/10/2001 31/12/2001 € 161.488,25 3,50% 79 € 1.223,33
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01/01/2002 13/10/2002 € 161.488,25 3,00% 286 € 3.796,08
13/10/2002 13/10/2003 € 165.274,15 3,00% 365 € 4.958,22
13/10/2003 31/12/2003 € 168.146,21 3,00% 79 € 1.091,80
01/01/2004 13/10/2004 € 168.146,21 2,50% 287 € 3.305,34
13/10/2004 13/10/2005 € 171.540,47 2,50% 365 € 4.288,51
13/10/2005 13/10/2006 € 174.412,53 2,50% 365 € 4.360,31
13/10/2006 13/10/2007 € 177.937,33 2,50% 365 € 4.448,43
13/10/2007 31/12/2007 € 183.942,55 2,50% 79 € 995,31
01/01/2008 13/10/2008 € 183.942,55 3,00% 287 € 4.339,03
13/10/2008 13/10/2009 € 184.334,20 3,00% 365 € 5.530,03
13/10/2009 31/12/2009 € 187.467,36 3,00% 79 € 1.217,25
01/01/2010 13/10/2010 € 187.467,36 1,00% 286 € 1.468,92
13/10/2010 31/12/2010 € 193.472,58 1,00% 79 € 418,75
01/01/2011 13/10/2011 € 193.472,58 1,50% 286 € 2.273,97
13/10/2011 31/12/2011 € 198.694,51 1,50% 79 € 645,08
01/01/2012 13/10/2012 € 198.694,51 2,50% 287 € 3.905,84
13/10/2012 13/10/2013 € 200.000,00 2,50% 365 € 5.000,00
13/10/2013 31/12/2013 € 200.261,09 2,50% 79 € 1.083,60
01/01/2014 13/10/2014 € 200.261,09 1,00% 286 € 1.569,17
13/10/2014 31/12/2014 € 200.261,09 1,00% 79 € 433,44
01/01/2015 13/10/2015 € 200.261,09 0,50% 286 € 784,58
13/10/2015 31/12/2015 € 200.000,00 0,50% 79 € 216,44
01/01/2016 13/10/2016 € 200.000,00 0,20% 287 € 314,52
13/10/2016 30/11/2016 € 200.000,00 0,20% 48 € 52,60
Indice alla Decorrenza: 109,5
Indice alla Scadenza: 100
Raccordo Indici: 1,678
Coefficiente di Rivalutazione: 1,532
Totale Rivalutazione: € 69.451,70
Capitale Rivalutato: € 200.000,00
Totale Colonna Giorni: 8084
Totale Interessi: € 115.482,17
Rivalutazione + Interessi: € 184.933,87
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Capitale Rivalutato + Interessi: € 315.482,17
La somma determinata, infine, andrà aumentata dei soli interessi al tasso legale
dalla data della sentenza al saldo, con condanna a carico dei soli dr. Ravallese e
dell’Istituto Figlie di San Camillo, in solido, essendo carente la attrice di domanda
nei confronti della Generali Italia S.p.A..
Ed infatti, l’eccezione di carenza di legittimazione attiva è fondata non avendo,
la odierna attrice in riassunzione, azione diretta nei confronti della Compagnia di
assicurazioni che garantiva il dr. Ravallese essendo solo questi titolare di un diritto
in virtù della polizza sottoscritta e trattandosi di garanzia propria non estensibile,
pur su apposita domanda, al terzo danneggiato.
Sulla domanda di manleva del dr. Ravallese.
Il convenuto ha proposto, in via incidentale, domanda di condanna della propria compagnia di assicurazione alla manleva in caso di condanna, e la stessa è ammissibile e fondata.
L’ammissibilità deriva dalla circostanza stessa della natura della domanda di manleva azionata dal convenuto che, in esito al giudizio di I grado, abbia visto respinta la domanda del danneggiato che si era rivolto nei suoi diretti confronti; in tale situazione l’assicurato, a fronte dell’appello del danneggiato soccombente, deve solo riproporre la domanda di manleva innanzi al giudice di secondo grado non essendo necessario l’appello incidentale proprio perché la sentenza di I grado non lo aveva visto affatto soccombente.
La riproposizione della domanda di manleva legittimava il dr. Ravallese a chiedere la garanzia assicurativa in caso di eventuale riforma della decisione di I grado.
Nel merito la domanda di manleva è fondata essendo basata sulla polizza sottoscritta a suo tempo con la Assitalia S.p.A. con il limite del massimale di LIRE 100milioni (e dei già avvenuti pagamenti di provvisionali in sede penale).
Sull’onere delle spese processuali.
In conseguenza dell’esito finale del giudizio (riconsiderato complessivamente dopo il rinvio disposto dalla Cassazione) le parti qui appellate/convenute – parte soccombente - vanno condannate in solido al pagamento delle spese dei vari gradi del giudizio, a favore della attrice in riassunzione; spese liquidate tenuto conto del valore della controversia (il decisum pari alla somma attribuita: valore tra
260.000 e 520.000 euro) e delle attività compiute dal procuratore della parte nel giudizio secondo i parametri ministeriali attualmente in vigore - d.m. 10.3.2014 n.55 (che trovano applicazione per tutti i gradi di giudizio già svolti dovendo darsi rilievo al momento in cui il giudice procede alla loro concreta determinazione; cfr. Cass. civ., sez. un., 12-10-2012, n. 17405).
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Sentenza n. 1345/2017 pubbl. il 28/02/2017RG n. 4259/2015
r.g. n. […] 17
Per il I° grado (con 3 fasi processuali senza istruttoria) applicandosi i valori
“medi” si ottiene la somma di €. 11.472,00 di compenso + spese vive (€ 400,00 per
contributo unificato).
Per la causa avanti alla Corte di Appello i parametri ministeriali per le fasi processuali n.1 – 2 – 4 di tabella, prevedono un compenso di €. 13.560,00 + spese vive (310,00 contributo unificato + 8,00 per marca bollo).
Per la causa avanti alla Cassazione il compenso è pari a € 10.260,00;
Per il giudizio di rinvio (per le fasi processuali n. 1 – 2 e 4) il compenso è pari a € 13.560,00 oltre spese vive (€ 675,00 per contributo unificato+ 27 per marca bollo).
Infine, sussistono evidenti e giusti motivi per compensare le spese dei vari gradi del giudizio con riferimento alla posizione della Generali Italia SpA; infatti, nonostante la affermata debenza dell’obbligo di manleva, non può non tenersi conto dell’interesse concreto ed autonomo che legittimava l’assicurato ad una difesa in proprio rispetto alle pretese della danneggiata (e tenendo conto che la Compagnia aveva già ampiamente esaurito il massimale con pagamenti delle provvisionali liquidate in sede penale.
P. Q. M.
LA CORTE DI APPELLO DI ROMA
- Terza Sezione Civile -
definitivamente pronunciando su rinvio disposto dalla Suprema Corte di Cassazione
(con la sentenza n. 12718/2015), così decide sull’appello avverso la sentenza del
Tribunale di Roma emessa in data 13.07.2003 (depositata il 21.07.2003 con il N.
24619/03) proposto da Bivona Marina nei confronti dell’Istituto Figlie di San
Camillo - Ospedale Madre Giuseppina Vannini, Ravallese Ferdinando (appellante
incidentale) e di Generali Italia S.p.A.:
a) in accoglimento per quanto di ragione dell’appello proposto, ed in riforma della
sentenza appellata, Dichiara che il decesso di Bivona Francesco, avvenuto in data
13.10.1994, va ascritto a fatto e responsabilità dell’Istituto Figlie di San Camillo-
Ospedale Madre Giuseppina Vannini e del dr. Ferdinando Ravallese;
b) per l’effetto, Condanna l’Istituto Figlie di San Camillo- Ospedale Madre
Giuseppina Vannini, in persona del suo legale rappresentate pro tempore, e
Ravallese Ferdinando, in solido tra loro, al pagamento, in favore di Bivona Marina,
della somma di €. 315.482,17#, con l’aggiunta degli interessi al tasso di legge a
decorrere dalla data della presente sentenza sino al saldo effettivo;
c) Condanna le medesime parti indicate sub b) in solido tra loro, alla rifusione
delle spese processuali sostenute da Bivona Marina nei vari gradi di giudizio,
liquidandole:
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Sentenza n. 1345/2017 pubbl. il 28/02/2017RG n. 4259/2015
r.g. n. […] 18
per il I° grado in €. 400,00 per spese e €. 11.472,40 per compenso (oltre
rimborso forfettario, IVA e CAP come per legge),
per il giudizio di appello in €.318,00 per spese ed € 16.272,00 per compenso (oltre
rimborso forfettario, IVA e CAP come per legge),
per il giudizio avanti alla Cassazione in €. 10.260,00 per compenso (oltre rimborso
forfettario, IVA e CAP come per legge),
e per questo giudizio di rinvio in €. 777,00 per spese ed €. 13.560,00 per
compenso (oltre forfettario, IVA e CAP come per legge);
d) dispone la distrazione delle spese processuali sopra liquidate a favore dell’avv.
Costantino Francesco Baffa che si è dichiarato antistatario;
e) condanna, infine, la Generali Italia S.p.A. a manlevare il dr. Ravallese
Ferdinando da quanto questi sarà chiamato a pagare in esecuzione della presente
sentenza nei limiti del massimale fissato nella polizza sottoscritta e tenendo conto
di quanto già versato dalla stessa Compagnia per il medesimo titolo; compensando
integralmente le spese dei vari gradi nel rapporto Ravallese/Generali Italia S.p.A..
Così decisa in Roma nella camera di consiglio del 24.01.2017.
Il Presidente est.
(dr. Giuseppe Lo Sinno)
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Sentenza n. 1345/2017 pubbl. il 28/02/2017RG n. 4259/2015