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RIFLESSIONI SULLA SICUREZZA ALIMENTARE
Gianfranco Corgiat Loia
La sicurezza alimentare è un tema di grande attualità, un requisito spesso esibito e
vantato ma che stenta a tradursi, nella pratica operativa, in effettiva garanzia. Soprattutto
perché oggi la varietà dell’universo produttivo (agricolo, artigianale, industriale) del
settore alimentare, resa più complessa dai molteplici intrecci distributivi e commerciali,
rende oggettivamente difficile un efficace governo sanitario. Da qui l’esigenza, per una
sempre maggior tutela dei consumatori, di creare, a livello europeo e nazionale, speciali
organismi, definiti Authority, per coordinare i vari elementi del sistema, vigilando affinché
l’elemento sicurezza sia centrale in tutte le fasi del processo produttivo.
Un discorso che deve valere per ogni tipo di alimento, dal prodotto tipico alle
preparazioni di massa.
In Piemonte la sicurezza alimentare è garantita, in tutti i livelli della catena alimentare,
da una rete molto valida costituita da servizi sanitari seri e rigorosi, ben supportati da
laboratori pubblici efficienti ed accreditati e da Istituzioni universitarie di prestigio. Una
rete che ha stimolato un alto grado di consapevolezza nel ricco e variegato mondo dei
produttori che operano, anche con inevitabili momenti dialettici, in stretta
collaborazione con gli organi di vigilanza. I risultati di queste sinergie si traducono in
concrete garanzie offerte ai consumatori ed in una serie di consolidate esperienze
operative che possono essere vantaggiosamente esportate.
Per garantire una reale sicurezza al consumatore gli elementi da considerare sono
numerosi. Innanzi tutto va definita, a livello generale e di ogni singola filiera, la mappa dei
pericoli da cui partire per una corretta valutazione dei rischi considerando le sostanze
sicuramente nocive, e quelle per le quali la sicurezza non è dimostrata.
Soltanto una accurata valutazione del rischio può consentire un adeguato sistema di
controlli tale da poter neutralizzare le frodi e da permettere la correzione di
inconvenienti igienici derivanti di standard di qualità insufficienti.
Particolare attenzione va anche rivolta alle impostazioni alimentari errate ed agli stili di
vita scorretti che possono, attraverso una domanda impropria, condizionare
negativamente gli orientamenti produttivi.
A fianco dei controlli di processo che ricadono sotto la responsabilità delle imprese
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della filiera agro-zoo alimentare (autocontrollo), per garantire ai cittadini la sicurezza
alimentare è necessario un buon sistema di controllo pubblico, che deve essere
indipendente, totalmente affrancato alle pressioni del mondo produttivo che tende
inevitabilmente a richiedere la semplice legittimazione dell’esistente.
Altro punto chiave è la flessibilità dell’impostazione organizzativa, nelle strategie, nei
programmi e nel costante adeguamento dei metodi di analisi. La chimica e la tecnologia
alimentare propongono di continuo nuove molecole ed adottano modifiche nei processi
produttivi: il rischio sanitario, immediato o dilazionato nel tempo, deve essere
costantemente monitorato e valutato evitando che a guidare la danza sia solo la legge
del profitto ad ogni costo.
Emerge pertanto l’esigenza di uno stretto rapporto con il mondo della ricerca
scientifica, un supporto indispensabile sia per prevenire effetti indesiderati sulla salute
sia per la lealtà della competizione commerciale. L’obiettivo della qualità e della
valorizzazione dei prodotti agro-alimentari nazionali passa inevitabilmente attraverso la
certezza che non ci sono effetti indesiderati, né immediati né potenziali, sulla salute
pubblica.
Lo stretto intreccio tra le politiche di sicurezza alimentare e quelle di sostegno della
qualità delle produzioni italiane ha generato malintesi e confusioni: prosciutto crudo,
parmigiano e gorgonzola sono senz’altro prodotti eccellenti sotto il profilo qualitativo
ma ciò non è sufficiente a garantire automaticamente la sicurezza sanitaria (e lo
dimostrano gli stati di allerta comunitari!).
Anche la tracciabilità e le garanzie di informazione ai consumatori sono state spesso
presentate come garanzie di sicurezza alimentare anziché come strumenti che
concorrono a migliorare le possibilità di controllo e a circoscrivere le responsabilità
soggettive degli operatori della filiera zoo-agro-alimentare.
L’indicazione dell’origine dei prodotti alimentari che si consumano e la corretta
informazione sulle principali fasi del processo di trasformazione possono orientare gli
acquisti dei consumatori in particolari situazioni di allerta (es. diossina in carni
provenienti dal Belgio, colorante Sudan in peperoncino macinato proveniente dall’India
ecc..)
Sempre più il consumatore deve essere informato del fatto che il “rischio zero” è
un’utopia. Il miglioramento delle tecniche e delle tecnologie impiegate nell’analisi
chimica, fisica e batteriologica degli alimenti destinati all’uomo consente oggi di
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evidenziare quantità infinitesimali di residui potenzialmente nocivi la cui pericolosità
deve essere valutata in rapporto a diversi fattori di rischio (analisi del rischio).
Anche gli esami biologici hanno fatto progressi molto rapidi e fino a qualche anno fa
inimmaginabili: gli studi di biologia molecolare hanno reso accessibile anche nella routine
esami basati sulla moltiplicazione ed amplificazione di filamenti di acidi nucleici o di
proteine patogene (prioni della BSE) in passato non rilevabili se non in quantità elevate.
Ciò non significa che il consumatore debba accettare il rischio con rassegnazione e
senso di impotenza ma occorre maggiore equilibrio e senso di responsabilità nel
valutare le notizie di stampa e nell’approfondire gli argomenti per non restare
intrappolati nel giudizio di altri.
Valutazione e controllo dei pericoli in campo alimentare.
E’ necessario un approccio più razionale e pragmatico al concetto di rischio la cui
valutazione deve essere fatta sempre più sulla base di conoscenze scientifiche
interdisciplinari.
Non sempre l’obiettivo sarà quello dell’eliminazione del rischio; in qualche caso ci si
dovrà accontentare dell’obiettivo meno ambizioso ma più realistico della riduzione o
minimizzazione del rischio.
Anche per questi motivi assume una particolare importanza la “comunicazione del
rischio” rivolta ad informare correttamente il consumatore per evitare atteggiamenti di
minimizzazione o di sopravalutazione del rischio sanitario (particolarmente evidenti
negli ultimi anni), elementi che concorrono alla formazione di una categoria di giudizio
che risponde al nome di “qualità percepita”.
Alcuni problemi di sanità pubblica (es. salmonella o listeria in alimenti destinati al
consumo) richiedono un approccio diverso: non è ammissibile dire che i controlli per
questi microrganismi patogeni sono stati costantemente negativi (o sono stati cercati in
matrici sterili o si è usata una tecnica di laboratorio inappropriata). Un atteggiamento
serio e responsabile potrebbe essere quello di definire livelli di attenzione che mettano
in moto procedure operative rivolte a ridurre al minimo il rischio negli impianti di
produzione (trattamenti di sanificazione, rilavorazione dei prodotti ecc..) fino a
prevedere informazioni di uso per i consumatori (es. da consumarsi esclusivamente
cotto) o dichiarazioni di idoneità per alcune fasce di consumatori (anziani, bambini,
soggetti immunodepressi ecc..)
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Ad es. tutti sanno che le cozze crude o poco cotte possono essere pericolose; per
minimizzare il rischio la norma stabilisce regole di allevamento (bacini controllati), criteri
di qualità delle acque, criteri di controllo sul pescato ma senza un’adeguata informazione
del consumatore (far cuocere il prodotto) il rischio sanitario potrebbe esser comunque
elevato.
In altri casi l’unica garanzia di sicurezza alimentare potrebbe essere quella della
sterilizzazione dei prodotti posti in commercio. Gli americani, ad es. a seguito di alcuni
casi di enterite emorragica mortale in alcuni bambini attribuita al consumo di
hamburgher contenenti un microrganismo particolarmente aggressivo (Coli o 157
citotossico) hanno autorizzato l’irraggiamento delle carni per assicurare l’inattivazione
degli eventuali germi presenti. Le ragioni di una decisione simile sono evidentemente
legate all’analisi dei costi e dei benefici di un simile intervento (gli americani non
rinuncerebbero mai all’hamburgher e l’industria degli hamburger occupa un posto
importante nell’economia americana).
E’ una strada che può rivelarsi pericolosa perché se il produttore sa che al termine del
processo tutto si può risolvere con un trattamento risanatore potrebbero venir meno
le attenzione sui livelli di igiene di base.
La difesa della tipicità e della tradizione
In Europa, e soprattutto in Paesi come la Francia e l’Italia gli orientamenti sono
sostanzialmente e comprensibilmente diversi.
In Italia si producono circa 350 tipi di formaggio ed altrettanti specialità si contano nel
settore dei salumi, con tecniche, tecnologie di produzione e prodotti molto diversi e
spesso dipendenti dall’azione di particolari microrganismi “buoni”. Soluzioni
“all’americana” (sterilizzazione dei prodotti) potrebbero distruggere l’economia del
paese ed irritare i consumatori italiani, abituati ad un equilibrato compromesso tra
sicurezza sanitaria e gusto dei prodotti.
Se vogliamo mantenere la produzione di formaggi a base di latte crudo (e quindi più a
rischio di quelli ottenuti da latte pastorizzato) è necessario innalzare i requisiti di igiene
e la qualità delle materie prime ed avviare iniziative di formazione e responsabilizzazione
dei produttori.
Da una parte le esigenze di tutela dei prodotti tipici e della cultura gastronomica,
dall’altra l’indifferenza o la cattiva informazione sulla destinazione dei prodotti alimentari
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che escono dal sistema distributivo ordinario.
I punti deboli della ristorazione
Uno dei canali più diffusi e meno controllabili per la circolazione di alimenti di dubbia
qualità organolettica o sanitaria è quello della ristorazione pubblica (ristoranti, bar,
trattorie, agriturismi, mense aziendali ecc..). L’enorme numero di esercizi da controllare,
l’esiguità delle risorse disponibili e la complessità dei flussi di approvvigionamento e
trasformazione di alimenti destinati alla somministrazione lascia spazio ad illeciti la cui
gravità è spesso sottovalutata.
In Italia, la capacità di controllo di questa rete è tale da poter assicurare, nelle aree
meglio organizzate, un’ispezione, in media, ogni tre-quattro anni per ogni punto di
somministrazione. La situazione è migliore nella ristorazione scolastica ed in quella
ospedaliera dove la frequenza dei controlli può raggiungere i 2-3 accertamenti all’anno,
ai quali si aggiunge anche una più attenta attività di autocontrollo da parte delle aziende
appaltatrici.
Non si spiegherebbe, ad esempio, come mai sia estremamente difficile rintracciare
alimenti di discutibile qualità organolettica (es. polli congelati in salamoia provenienti dal
Brasile, carni ricostruite con l’impiego di transglutaminasi, alimenti di basso costo
provenienti da Paesi Terzi in cui il sistema di controllo è risultato carente ecc.) che non
risultano transitare in laboratori o in industrie di trasformazione ma che sono registrate
in ingresso dai posti di ispezione posti alle frontiere dell’Europa (PIF – Posti di Ispezione
Frontaliera).
Eppure qualche “sintomo” c’è. Resta da spiegare come siano possibili ribassi del 30 o
40% sui prezzi a base d’asta fissati con criteri di mercato. Carne bovina a 1 euro al
chilogrammo o vino ad 1 euro al bottiglione devono far sorgere il dubbio sulla qualità
del prodotto acquistato o quantomeno sulla trasparenza dei canali commerciali
attraverso i quali l’alimento è giunto alla mensa.
Non è sempre vero che l’alimento che costa di più sia anche quello che ha qualità
superiori ma è certo che l’alimento che costa molto poco rispetto al valore di mercato
deve essere trattato come alimento a rischio.
Si può affermare che da una parte il nostro sistema di produzione e di controllo degli
alimenti stia migliorando sotto il profilo delle regole generali, dei rapporti tra controllori
e controllati e della qualità del controllo.
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Migliorano infatti anche le tecnologie di laboratorio e le tecniche di indagine, migliora,
seppure lentamente, l’organizzazione dei controlli e le garanzie di informazione.
In passato si ignoravano molte cose ed il controllo sanitario degli alimenti era limitato
a valutazioni sensoriali (vista, tatto, olfatto) o a un evidente collegamento tra malattia e
causa determinante (es. intossicazione alimentare, teniasi, tubercolosi ecc..). Oggi le
patologie croniche legate alla contaminazione ambientale o ad abusi nell’uso di farmaci
o all’impiego illecito di sostanze ad azione estrogena sono difficilmente correlabili
all’alimento consumato.
Basta pensare a come sia cambiato il significato di “sicurezza alimentare” negli ultimi 50-
60 anni. Per i nostri nonni la sicurezza alimentare era la disponibilità di alimenti in
quantità sufficiente da poter sfamare la famiglia, per noi, oggi, il concetto di sicurezza
alimentare è legato alla salubrità ed all’igiene all’alimento. La disponibilità è fuori
discussione.
Tracciabilità - rintracciabilità
Sono due concetti apparentemente simili ma che presuppongono diverse responsabilità.
La tracciabilità non è altro che la documentazione delle attività di controllo svolte lungo
il processo produttivo, ovvero i sassolini che Pollicino lascia per poter ritrovare la via di
casa.
La rintracciabilità è la possibilità di percorrere a ritroso le fasi del processo di
produzione per poter bloccare la commercializzazione di prodotti risultati pericolosi
per la salute pubblica e per accertare le responsabilità soggettive. La rintracciabilità è il
presupposto fondamentale per la predisposizione ed attuazione delle procedure di
ritiro dal mercato di prodotti non conformi e per l’applicazione di misure sanitarie
urgenti (sistema di allerta).
Tracciabilità e rintracciabilità non sono informazioni direttamente disponibili al
consumatore finale ma sono un obbligo per le industrie alimentari e sono
un’opportunità straordinaria per gli organi di controllo (ASL, NAS). Alcune di queste
informazioni possono raggiungere il consumatore con l’etichetta apposta sui prodotti o
per effetto di norme specifiche come, ad esempio, quella riguardante l’etichettatura delle
carni bovine, resa obbligatoria dopo la crisi BSE per riconquistare la fiducia dei
consumatori e rilanciare i consumi di carne.
Per poter avviare il sistema di etichettatura della carne bovina si è dovuto partire
dall’anagrafe zootecnica nazionale, ovvero dall’identificazione di tutti i bovini allevati in
Italia e dalla registrazione dei loro spostamenti, fino alla macellazione ed al commercio
delle carni.
Sono ora allo studio dell’Unione Europea e dello Stato Italiano progetti di etichettatura
volontaria di altri alimenti e, in particolare, delle carni di pollame. Le iniziative di
informazione rivolte al consumatore dipendono molto dalle loro sollecitazioni,
particolarmente forti in occasione di emergenze sanitarie ma insufficienti in altri periodi.
Sistema di allerta comunitario
Per migliorare l’efficienza e l’efficacia i sistemi di controllo in occasione di emergenze
sanitarie internazionali l’Unione Europea ha fornito precise indicazioni procedurali che
definiscono il cosiddetto “Sistema di allerta comunitario”
Si tratta di un sistema di comunicazione tra Paesi aderenti all’Unione che sfrutta gli
obblighi di tracciabilità e di autocontrollo per assicurare il blocco della
commercializzazione di prodotti non conformi ed il ritiro degli stessi dal mercato.
Il sistema di allerta prevede interventi rapidi degli organi di controllo nei casi in cui il
prodotto in commercio provenga da un altro Stato membro e obblighi di segnalazione
e di intervento diretto nei casi in cui lo stabilimento che ha prodotto gli alimenti non
conformi sia sul territorio nazionale.
Questo sistema ci ha permesso di ottenere, in tempi accettabili, le informazioni sulla
presenza di diossina in carni provenienti dal Belgio, la presenza di medrossiprogesterone
acetato in carni provenienti dall’Olanda, la presenza di Sudan 1 in peperoncino
proveniente dall’India e molte altre segnalazioni riguardanti la presenza di microrganismi
potenzialmente pericolosi in alimenti destinati all’uomo.
Ma occorre fare attenzione a non abusare di questo sistema per inconvenienti sanitari
di scarsa rilevanza o circoscritti ad ambiti territoriali molto stretti per evitare di
commettere l’errore di Pierino che gridava “al lupo, al lupo” anche quando non era
necessario.
Nell’ambito di questo sistema di comunicazione tra Amministrazioni pubbliche a cui
competono i controlli sanitari non è necessario ricontrollare gli alimenti già analizzati in
altri laboratori pubblici: le imprese di produzione si assumono la responsabilità di
ritirare i prodotti del lotto risultato non idoneo al consumo o di accettarne la
distruzione in loco, fatte salve le responsabilità penalmente perseguibili.
Il sistema di allerta poggia sul principio che, se un prodotto appartenente ad un
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determinato lotto di una determinata ditta, ben identificato come modalità di
presentazione e di scadenza, risulta non idoneo a Palermo o a Parigi, non è idoneo al
consumo neanche a Torino, indipendentemente dal fatto che lo si ricontrolli o meno.
In sintesi, un bel risparmio di tempo e di danaro per il Servizio Sanitario Nazionale!
I controlli di laboratorio
Il campionamento e l’analisi degli alimenti costituisce un importante supporto alle
attività di controllo ufficiale ed autocontrollo degli alimenti ma, a partire dagli anni ’90,
l’analisi di laboratorio ha assunto via via un significato più ampio e completo.
Da semplice accertamento delle caratteristiche intrinseche di un prodotto alimentare
campionato in una qualsiasi fase del processo produttivo l’analisi di laboratorio è
diventata anche uno strumento per monitorare i punti critici dei processi produttivi e
per verificare l’idoneità dei sistemi di sorveglianza basati sul sistema HACCP messi in
atto dalla imprese, che ricadono nella più ampia sfera dell’autocontrollo.
L’attuale sistema di controlli sulla sicurezza alimentare prevede due piani distinti anche
nelle attività di analisi: l’uno, associato all’autocontrollo, fa capo a laboratori privati
accreditati ed inseriti in registri regionali, l’altro, associato al controllo ufficiale, fa capo
alla rete dei laboratori pubblici dell’Istituto Zooprofilattico e dell’ARPA (Agenzia
Regionale per l’Ambiente).
Per assicurare l’omogeneità dei controlli pubblici e privati la norma ha previsto che tutti
i laboratori che operano nel settore degli alimenti siano conformi a quanto stabilito da
specifiche norme internazionali (ISO-EN). La verifica della conformità (accreditamento)
spetta ad un organismo cosiddetto “di parte terza”
L’attuale sistema di controllo degli alimenti tende a ridurre quantitativamente i controlli
pubblici migliorandone la qualità ed orientandoli in prevalenza a valutare l’adeguatezza
ed attendibilità dei sistemi di autocontrollo privati.
L’impiego di sofisticate apparecchiature per la ricerca di residui chimici e di
microrganismi pericolosi per la salute pubblica rende altamente efficace l’attuale sistema
di sorveglianza, anche quando gli organi di stampa evidenziano irregolarità e denunciano
pericoli per il consumatore. Un buon sistema di controllo evidenzia sempre irregolarità:
risposte costantemente negative dovrebbero far sospettare irregolarità nei prelievi o
nell’analisi di laboratorio e sarebbero inutilmente onerose per la collettività.
Il campionamento e l’analisi degli alimenti sono attività che devono trovare un equilibrio
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tra le esigenze di tutela della salute ed il diritto dei produttori a difendersi dalle accuse
degli Organi di controllo: due principi costituzionali che le norme sulla sicurezza
alimentare e la tutela dei consumatori tengono in buona considerazione anche quando,
per motivi di deteriorabilità dell’alimento occorre svolgere accertamenti semplificati ed
in tempi relativamente ristretti.
La principale carenza del sistema pubblico di controllo sta proprio nelle norme di
garanzia nei confronti dei produttori: coloro che utilizzano in modo spregiudicato
sostanze chimiche nuove e non ben conosciute nell’allevamento degli animali o nei
trattamenti delle colture agricole sanno di poter contare sul vantaggio della prima
mossa fintanto che i laboratori pubblici non mettono a punto metodiche analitiche
legalmente inoppugnabili e scientificamente attendibili.
La battaglia contro i sofisticatori dura da decenni ed i risultati sono, almeno in Piemonte,
di buon livello, anche se non sempre al riparo dalle periodiche notizie di stampa che
anziché valorizzare l’impegno degli operatori del Servizio Sanitario Nazionale
preferiscono sottolinearne i ritardi e l’inefficienza (la “malasanità” fa più notizia della
buona sanità).
Il principio di precauzione
La prevenzione in campo sanitario consiste in un insieme di regole e di comportamenti
messi in atto per evitare l’insorgenza di un evento negativo noto. Si fa prevenzione nei
confronti della tubercolosi, della salmonellosi, dell’epatite, di forme degenerative,
dismetaboliche o allergiche.
Il principio di precauzione, introdotto dalla Commissione CEE a partire dagli anni ’80 ed
inizialmente riferito a temi ambientali, è stato via via esteso anche alla sicurezza
alimentare come strategia di controllo di eventi non ancora ben conosciuti e nei
confronti dei quali sono in corso od occorrono approfondimenti scientifici. La
“precauzione” è l’arma comunitaria contro i nuovi pericoli non ancora sufficientemente
noti.
In un interessante documento del 2 febbario 2000 (COM 2000 1) la Commissione CE
asserisce che quando esistono ragionevoli motivi per ritenere che i pericoli potenziali
possono pregiudicare la salute ambientale o umana, animale o vegetale e quando nel
contempo la mancanza di informazioni scientifiche impedisce una valutazione
dettagliata, il principio di precauzione risulta essere la strategia di gestione del rischio
politicamente accettata in numerosi campi.
Sempre secondo la Commissione, per evitare il ricorso ingiustificato al principio di
precauzione o a forme dissimulate di protezionismo i provvedimenti assunti dalla
pubblica amministrazione devono essere:
proporzionali al livello di protezione scelto;
non discriminatori nella loro applicazione;
coerenti con i provvedimenti similari già adottati;
devono basarsi su un esame dei costi e dei benefici potenziali dell’azione o
dell’assenza di azione;
essere oggetto di revisione alla luce dei nuovi dati scientifici;
definire le responsabilità - o l’onere della prova – la valutazione completa del rischio.
Nell’adottare misure di tipo precauzionale la Commissione tiene conto dei principi
generali e della giurisprudenza (Corte di giustizia) e fa sì che la protezione della salute
abbia comunque la precedenza sulle considerazioni economiche.
Il principio di precauzione non deve essere inteso né come politicizzazione della scienza
né come accettazione del rischio zero; esso fornisce una base di azione quando la
scienza non è in grado di fornire una chiara risposta.
E’ evidente che a determinazione di ciò che si ritiene un rischio accettabile per l’UE
rientra nella responsabilità politica e tiene conto delle espressioni dei cittadini europei.
Deve essere da tutti accettato che il principio di precauzione non possa essere o
diventare una giustificazione per ignorare nuove prove scientifiche o per adottare
decisioni protezionistiche
Le leggi dell’U.E. in materia di alimenti di origine animale
La prima direttiva sul controllo delle carni in Europa risale al 1964. Da allora, prima per
il settore delle carni fresche, poi per le carni trasformate, fino alle più recenti
disposizioni riguardanti il settore ittico, il settore lattiero caseario e quello degli
ovoprodotti, si è venuto a creare un corpo giuridico rilevante, basato su norme
cosiddette “verticali” (settoriali) ed orizzontali (che toccano in modo trasversale più
settori, anche di interesse non veterinario).
La normativa comunitaria si è sviluppata partendo da un’impostazione che privilegiava i
requisiti strutturali ed igienico funzionali degli stabilimenti che chiedevano
l’autorizzazione a commercializzare gli alimenti in tutta Europa, per arrivare ad un
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sistema di garanzie che mantiene alto il livello di attenzione sugli standard strutturali ma
che abbraccia anche aspetti di carattere organizzativo, gestionale e funzionale (sistema
di garanzie aziendali e pubbliche – autocontrollo e controllo ufficiale).
Soltanto negli anni ’90 si inizia a porre l’attenzione anche nei settori degli alimenti non
di origine animale con alcuni provvedimenti comunitari che affrontano
complessivamente il problema dell’igiene alimentare con un approccio più moderno
basato sull’analisi dei pericoli e sul controllo dei punti critici noto come HACCP
(Hazard Analisys and Critical Control Point)
Mentre per tutti gli stabilimenti che operano nei settori di interesse veterinario è
previsto l’obbligo di identificare l’unità di produzione sottoposta a controllo veterinario
con un apposito “marchio” anche noto come Bollo CEE (un ovale in cui è racchiuso un
numero di identificazione univoco e la sigla dello Stato Membro in cui sorge l’impianto)
nel settore degli alimenti non di origine animale non è ancora previsto l’obbligo di
identificazione degli stabilimenti di produzione che, quindi, operano in base a regole
nazionali (in Italia la Legge 283/62 e relativo Regolamento di attuazione approvato con
DPR 327/80).
Le emergenze sanitarie degli ultimi 15 anni hanno sollecitato una revisione generale
della normativa comunitaria nel settore degli alimenti. Prima con il cosiddetto “Libro
Bianco” voluto dalla Presidenza Prodi, poi con il Regolamento 178/2000 con il quale si
è istituita l’Authority comunitaria per la sicurezza alimentare, poi con provvedimenti
settoriali quali la decisione 471/2001 riguardante il controllo microbiologico delle carni
nei macelli, si sta via via delineando un nuovo ordinamento comunitario in materia di
sicurezza alimentare.
Sono allo studio della Commissione Ce importanti provvedimenti che rivedranno
l’impostazione delle norme settoriali riferite agli alimenti di origine animale, alcune
norme di polizia veterinaria riguardanti la sanità degli animali ed il settore degli alimenti
non di origine animale.
E’ prevista l’abrogazione di 17 direttive comunitarie degli anni ’80 e ’90 e saranno
ridefiniti i compiti e le responsabilità dei produttori e degli Organi di vigilanza
nell’ambito delle attività di produzione, trasformazione, commercio e somministrazione
di alimenti e bevande.
Il problema degli scarti alimentari
Le emergenze sanitarie relative alla presenza di diossina in carni provenienti dal Belgio
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e la più recente vicenda della cosiddetta “mucca pazza” hanno messo in evidenza lo
stretto legame tra alimentazione animale e consumo di alimenti da parte dell’uomo.
L’alimentazione zootecnica ha stretti collegamenti con la gestione degli scarti
dell’industria alimentare: la zootecnica intensiva risparmia sui costi di alimentazione del
bestiame e permette all’industria alimentare di risparmiare sui costi di smaltimento. In
altri termini si potrebbe affermare che una certa zootecnica si è specializzata nello
smaltimento di alcuni materiali di scarto.
Oli di recupero contenenti diossina, animali morti diventati farine per uso zootecnico,
residui dell’industria laniera diventati lettiera e fonte di contaminazione da cromo sono
alla base delle più note e recenti emergenze sanitarie.
L’industria alimentare e quella zootecnica producono scarti che devono essere smaltiti
e, all’inizio degli anni ’90, qualcuno ha pensato che un buon sistema poteva essere quello
di chiudere il cerchio: gli animali morti in un allevamento venivano recuperati e
trasformati in farina proteica in impianti specializzati. Le farine proteiche erano utilizzate
nella dieta degli animali produttori di alimenti ed i grassi fusi erano utilizzati come
combustibile o come integratori per il latte destinato ai vitelli.
E il ciclo continuava a ripetersi all’infinito.
Oggi quando si macella un animale, si devono distruggere (senza possibilità di riutilizzo)
tutti gli organi che possono essere potenzialmente pericolosi per la presenza di prioni
(circa trenta chili per ogni bovino macellato). Sono migliorate le garanzie di difesa della
salute dei consumatori ma in Piemonte, tutti i giorni, si producono ottanta tonnellate di
scarti da allevamenti e da macelli che devono essere inceneriti.
I costi di produzione sono cresciuti ma nessuno è disposto a pagare i costi generati
dall’applicazione delle nuove misure di controllo.
I ricchi Paesi industrializzati hanno finora prestato poca attenzione al problema delle
eccedenze produttive e dei cosiddetti “scarti” alimentari. Supermercati e mense
spediscono in discarica ingenti quantitativi di risorse alimentari prossime alla scadenza
o non riutilizzabili nello stesso circuito (ad.es. mense scolastiche) ma ancora idonee al
consumo, mentre un crescente numero di indigenti non ha di che sfamarsi e le
Associazioni di volontariato o i centri di accoglienza chiedono finanziamenti per poter
sostenere iniziative come il “Banco Alimentare” o le “Mense dei Poveri”.
E’ opportuno sottolineare che il termine di consumo indicato in etichetta non è
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sinonimo di alterazione o di cattiva conservazione dell’alimento ma, per evitare il
riciclaggio indiscriminato dei prodotti che escono dal commercio ordinario, servono
interventi legislativi che dettino le regole per il recupero di alimenti ancora idonei al
consumo e consenta al nostro Paese di uscire dall’ipocrisia generale che fa credere ai
consumatori ed ai media che tutto ciò che esce dal circuito commerciale normale sia
incenerito o, nella migliore delle ipotesi, destinato agli animali.
Il consumatore deve sviluppare un maggiore senso critico ed imparare ad incanalarlo
nelle giuste direzioni attraverso l’associazionismo o la partecipazione politica alle scelte
del nostro Paese ma deve essere più disincantato; vivere nell’ignoranza e illudersi che
tutto sia perfetto aiuta a vivere più sereni ma espone a grandi rischi e genera reazioni
incontrollate o ingiustificate nei confronti di pericoli indicati dai media che non sempre
coincidono con i pericoli reali.
E’ lecito porsi la seguente domanda “Che fine fanno gli alimenti giudicati non più idoneo
al consumo umano o ritirati dai banchi di vendita”?
E’ quasi scontato sentirsi rispondere frettolosamente “sono destinati ad uso zootecnico
o vanno alla distruzione”.
IL concetto di pericolo sanitario è un concetto scientifico universale perché si basa sulla
certezza che un residuo chimico, un virus o un batterio non solo possa ma abbia
sicuramente colpito negativamente uno o più individui. Il concetto di rischio, invece, è
legato alla società che affronta i pericoli e dipende dalle risorse che si spendono per
controllare i pericoli, dall’atteggiamento culturale dei cittadini, dalla conoscenza del
problema e dalla possibilità di controllarlo.
Generalmente l’uomo accetta di correre rischi se ritiene che vi siano benefici e vantaggi
che giustificano il rischio stesso e se ritiene che le misure di controllo del pericolo
attuate siano comunque di buon livello (es. viaggiare in aereo, correre in formula 1). Si
accetta il rischio anche nei casi in cui si è costretti a scegliere tra due rischi alternativi
(es. gettarsi dal balcone quando l’abitazione è in fiamme).
La presenza di un microrganismo patogeno è un pericolo ma non sempre gli Stati
forniscono le stesse risposte (es. limiti accettabili di cariche microbiche) venendo meno,
in alcuni casi, al principio della libera circolazione delle merci (un prodotto idoneo al
consumo nel Paese produttore potrebbe non esserlo nel Paese di destinazione).
Anche la gestione degli scarti o dei resi alimentari non trova ancora un’adeguata
regolamentazione a livello comunitario. Un alimento non più destinato al consumo (es.
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alimenti con data di scadenza superata) non è sempre un alimento pericoloso per la
salute o in cattivo stato di conservazione. Il termine di consumo viene fissato dal
produttore per la vendita del prodotto tal quale ma se quest’ultimo, ritirato in
prossimità della scadenza ed inviato in un impianto di trasformazione diventa un altro
prodotto alimentare (es formaggi fusi) la vita commerciale si allunga.
IL recupero e la valorizzazione di alimenti in scadenza o di scarti produttivi derivanti da
difetti tecnologici (es. confezionamento difettoso, fuoriuscita dai contenitori, rifilature
ecc..) sono realtà spesso sconosciute ai consumatori e possono alimentare circuiti
industriali (es. produzione di estratti di carne, gelatine alimentari, formaggi fusi ecc..) o
servizi di volontariato nel campo dell’assistenza a persone non abbienti (poveri vecchi,
extracomunitari, centri di recupero per tossicodipendenti ecc.).
La produzione di scarti nei sistemi industriali complessi come quello agro-zoo-
alimentare pone problemi anche sotto il profilo economico (lo smaltimento degli scarti
costa) e sono inevitabili le confluenze tra il sistema alimentare umano e l’industria
mangimistica che rifornisce gli allevamenti.
Scarti alimentari non più idonei al consumo alimentare umano sono spesso dirottati nel
settore mangimistico e soltanto da pochi anni queste attività sono disciplinate in modo
rigoroso per gli scarti di origine animale (in risposta all’emergenza BSE) ma in modo
ancora insufficiente per gli scarti di altra natura (residui dell’industria risicola, molitoria,
prodotti da forno scaduti, residui della lavorazione di prodotti agricoli ecc…).
Molto resta ancora da fare in questo settore ma il consumatore deve sapere che la
sicurezza alimentare non è sinonimo di qualità delle materie prime utilizzate e che alcuni
alimenti “industriali” (estratti di carne, formaggi fusi, polveri di formaggio, carni
ricostruite, surimi ecc.) originano da materie prime di qualità inferiore se non da residui
della lavorazione delle pelli come nel caso delle gelatine alimentare.
Forse l’ansia dei consumatori dipende proprio dal fatto che si è perso lo stretto legame
tra produzione e consumo di alimenti, tipico delle civiltà contadine, e dalla scarsa
conoscenza dei processi produttivi sempre più complessi e sempre più lontani. Forse è
un’ansia da globalizzazione.
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LA SICUREZZA ALIMENTARE NELLA LEGISLAZIONE NAZIONALE
(Appunti liberamente tratti dall’intervento di Anna Bartolini)
Da alcuni anni si è aperto un dialogo tra Europa e Stati Uniti, per cercare di trovare dei
fili conduttori comuni nella regolamentazione in materia di sicurezza dei prodotti, onde
evitare gli attuali contrasti, soprattutto in alcuni settori quali la sicurezza alimentare, il
commercio elettronico e la proprietà intellettuale.
Tra i contrasti più evidenti che ci sono oggi tra Europa e Stati Uniti, c’è quello che tocca
il problema della globalizzazione, soprattutto per la parte agro - alimentare; è un
contrasto serio, profondo, per cui noi ci troviamo a gestire una situazione che ha
un’infinità di incertezze e di cui non conosciamo quali saranno gli sbocchi futuri, ma che
fanno intravedere un’infinità di problematiche assai serie, una per tutte: la BSE.
La BSE è stata sicuramente la molla che ha fatto scattare, nell’Unione Europea, la
necessità di avere il “libro bianco” per la sicurezza alimentare.A questo è correlata la
questione della tracciabilità, che noi consumatori chiediamo da anni.
Altre cose importanti, che sono conseguenze del libro bianco, sono le norme
veterinarie, la direttiva sull’etichettatura dei prodotti che costituisce un grande
strumento d’azione, e l’autorità alimentare, la quale è purtroppo una rappresentanza
dei paesi membri.
Vi sono alcuni problemi che devono essere affrontati prioritariamente dall’autorità
alimentare: le sostanze allergogene, con la loro identificazione in un regolamento e
con l’obbligo, per tutti i produttori mondiali, di indicare nell’etichetta la presenza di
queste sostanze negli alimenti (il latte e i derivati, ad esempio, le noccioline e tutto
quello che è ormai scientificamente dimostrato che sia allergenico); l’analisi del
rischio e l’informazione sul rischio.
Fra i nuovi problemi che si affacciano in Europa oggi e che creano ancora notevole
preoccupazione alla Comunità Europea dal punto di vista della sicurezza alimentare, due
sono particolarmente rilevanti: la presenza di PCB e la resistenza agli antibiotici.
In uno studio pubblicato nella rivista “Que choisir”, risulta che la resistenza agli
antibiotici dei francesi è passata dal 5 al 50%; la Francia è quindi il paese europeo che ha
la più alta resistenza agli antibiotici; il problema si fa grave rispetto all’uso degli antibiotici
per i neonati. Esiste un malcostume nell’uso degli antibiotici, che ha portato ad un tasso
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troppo elevato nel loro consumo.
Da ricerche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, emerge che l’otite,
soprattutto quella infantile, è una malattia sulla quale è inutile dare gli antibiotici sia ai
bambini che agli adulti, perché gli antibiotici non hanno nessuna funzione su certi tipi di
malattie.
Per quanto riguarda la direttiva sull’etichettatura alimentare, essa dovrà essere
adottata dagli stati membri; non ha nessun effetto cogente come ne ha, invece, un
regolamento ma potrebbe diventare un testo unico per tutta l’Europa sulla normativa
alimentare. Questa direttiva offre degli strumenti validissimi, perché pone nei confronti
del legislatore nazionale ed europeo degli obblighi precisi: nessuna etichetta può essere
fatta in modo da trarre in inganno il consumatore.
L’Europa ha, sotto il profilo della sicurezza alimentare, una buona legislazione: la Francia,
l’Inghilterra e la Germania hanno delle autority alimentari che lavorano molto bene.
Un grosso problema è oggi quello dell’importazione, e crescerà nei prossimi anni con
l’entrata dei nuovi paesi candidati nell’Unione Europea.
Nel momento in cui in un paese europeo la legislazione sta cominciando ad imporre
l’HACCP, la tracciabilità e tutta una serie di divieti di usare sostanze nocive per allevare
il bestiame, i capitali nazionali e multinazionali emigrano nei paesi dove si può produrre
senza controlli. Prendiamo l’esempio della carne di pollo: l’Europa, lo scorso anno, ne ha
importato 80.000 tonnellate; non polli interi, bensì soltanto, dal Brasile, parti di pollo.
Poiché in questo modo gli importatori pagano una tariffa doganale inferiore. Queste
carni arrivano in Europa ad un prezzo che è il 50% inferiore a quello della produzione
europea, portando ad una turbativa del mercato. Questa carne viene utilizzata quasi
esclusivamente nelle ristorazioni scolastiche e industriali, e dalle aziende che fanno
prodotti a base di pollo già elaborati. Le analisi hanno individuato una sostanza che è
estremamente tossica, che l’Unione Europea vieta.
Sono state invece bloccate le frontiere con la Cina, perché i polli che arrivavano erano
infetti di salmonellosi. Ciò è stato possibile anche perché la Cina aveva accettato i
controlli veterinari in loco. Occorre che il consumatore acquisti soltanto quei prodotti
che indicano in etichetta il luogo da dove viene il prodotto, dove è stato allevato, come
è stato alimentato; è quindi importante che non vengano comperati prodotti di pollo
trasformato che siano anonimi; non esiste però per il produttore italiano che usa
prodotti non suoi, importati magari dall’estero, l’obbligo di indicare in etichetta la
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provenienza del prodotto.
Nel rapporto e nella normativa sulla sicurezza alimentare in Europa, l’esperienza della
BSE ha avvicinato competenze. Le criticità arrivano però oggi dal mercato globale.
Veniamo ora al TACD ( Trans Atlantic Consumer Dialogue). La prima questione è
l’OGM. L’Europa si è pronunciata per avere una tracciabilità degli OGM e quindi
un’etichettatura di indicazione che rispetti la scelta del consumatore. In Italia i semi di
OGM sono ammessi soltanto nelle coltivazioni a livello sperimentale; sulla nostra linea
politica c’è la Francia e altri paesi europei, mentre i più vicini agli americani sono gli
inglesi; la Gran Bretagna ha però inserito in internet un documento che tiene conto di
tutti gli aspetti degli OGM:dal punto di vista nutrizionale, dal punto di vista delle possibili
allergie, e, soprattutto, dal punto di vista delle possibili contaminazioni alimentari.
Su questo argomento il dialogo tra Europa e Stati Uniti è assai difficile, poiché questi
ultimi sono già pronti ad avere animali e piante geneticamente modificati. Gli Stati Uniti
hanno tra l’altro un atteggiamento ricattatorio nei confronti dei paesi del Sud del
mondo. Questo desta molta preoccupazione perché se le compagnie multinazionali
vendono semi transgenici nei paesi poveri, si verificherebbe una grande diffusione delle
coltivazioni transgeniche.
Negli Stati Uniti il salmone transgenico è allevato in allevamenti chiusi; esiste però il
rischio che una fuga accidentale di un animale inquini tutti gli altri salmoni, con un effetto
a catena, per diffondersi nei vari fiumi e laghi, creando a livello mondiale un problema
che non sarebbe più governabile.
Riprendiamo il discorso degli antibiotici. Gli americani hanno rinunciato a fare un
sistema di controllo igienico come l’HCCP. In America, è stato dimostrato, stanno
usando l’irraggiamento per rendere i prodotti igienicamente sicuri, ciò significa che sono
utilizzati i raggi gamma, in particolare nelle carni, nei polli, nella frutta e nella verdura.
L’Unione Europea, invece, su questo tema ha inserito sul sito internet un documento
in cui si spiega quando è ammessa la ionizzazione, quando non presenta alcun rischio
per la salute.Viene sostenuto inoltre che l’irraggiamento non può mai sostituire
misure d’igiene e di buona pratica.
L’unico paese che utilizza le radiazioni ionizzanti in modo quasi trasversale è Israele;
negli altri paesi sono usate con cautela: in Italia sono ammesse solo per gli agli e le
cipolle; una ricerca recentissima dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, condotta su
topi da laboratorio che hanno mangiato alimenti irradiati, sostiene che fra loro si sono
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verificate delle morti premature, mutazioni genetiche, deficienze nutrizionali, problemi
riproduttivi, danni agli organi e dei tumori. L’organizzazione di Ralf Nader ha chiesto
quindi che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, insieme alla FAO, costituisca un
insieme di ricercatori indipendenti che possano dare indicazioni più corrette.
Se noi utilizziamo un prodotto diffuso a livello globale dobbiamo chiederci come sia
stato prodotto: tante carni provenienti dai paesi dell’est sono state respinte non tanto
per un problema di BSE ma per problemi di igiene.
Accanto al problema grave dei residui contaminanti, nel dialogo tra Stati Uniti ed
Europa ha un grosso peso quello dell’etichettatura. Prendiamo ad esempio la recente
direttiva creata in Italia con un decreto sugli integratori alimentari: sostiene che questi
prodotti sono alimenti e quindi, come tali, non possono promettere quello che fa un
farmaco; pertanto afferma che non si può usare nell’etichettatura di questi prodotti
nessuna parola, nessuna frase che possa indurre il consumatore a pensare che questi
eliminano il fattore di rischio; nella loro etichettatura invece, gli americani dicono solo,
per esempio, che l’aggiunta di calcio ad un alimento può contribuire a diminuire
l’incidenza di un fattore di rischio; negli integratori gli americani hanno aperto in modo
pazzesco; ciò significa che avremo prodotti funzionali di ogni genere, e tutto quello che
può essere fatto di sofisticazione viene fatto. Facciamo un esempio concreto: pensiamo
ad un gelato di crema e cioccolato a cui viene aggiunto il calcio; l’etichetta di questo
prodotto dirà che questo è un healthy product, perché contiene del calcio in dose
abbastanza elevata per cui lo si può assumere contribuendo ad eliminare un fattore di
rischio. Ma vogliamo parlare di quanto grasso c’è in questo prodotto o no? Perché quella
persona che lo consuma può avere dei problemi di assunzione di grassi; gli americani
non vogliono che si dica quanto grasso c’è in questo gelato, per cui ci troveremmo di
fronte a un’etichetta di un prodotto salutista che, dal punto di vista, invece,
dell’assunzione di acidi grassi saturi e insaturi è un disastro.
La nostra legislazione sull’etichettatura alimentare dice che gli ingredienti
devono essere indicati in ordine decrescente: grassi, proteine, eccetera; provate a
prendere un prodotto che contiene dei grassi: sull’etichetta c’è scritto:“grassi vegetali”,
quando sono grassi vegetali, ma quali sono i grassi vegetali che in tutto il mondo
vengono usati? Pensate che sia l’olio d’oliva? Assolutamente no, sono solo palma e
cocco, che, tra l’altro, danno dei problemi alla salute; vedete quindi che attraverso queste
etichette noi possiamo dire tutto e il contrario di tutto o, perlomeno, tacere delle cose
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che per il consumatore sono fondamentali.
Passiamo al problema degli antibiotici: gli americani non vogliono neanche iniziare il
dialogo con l’Europa sull’uso degli antibiotici. Nel caso degli OGM gli americani sono
andati così avanti perché sono partiti dal presupposto che è sufficiente che il produttore
dichiari che il prodotto contiene elementi geneticamente modificati e
contemporaneamente dichiari anche che non ci sono rischi per la salute.
I problemi della diossina sono sopiti fin tanto che non scoppierà un altro scandalo.
L’Italia non ha terminato l’anagrafe bovina, quindi le due etichette che attraverso
l’obbligo dei regolamenti comunitari avremo saranno una farsa, saranno due etichette
assolutamente inattendibili, perché per quanto riguarda l’etichetta che dice l’origine
della carne, nessuno è in grado di dare tutte le informazioni; forse soltanto chi ha un
allevamento di soli animali di razza piemontese, marchigiana, chianina, romagnola, può
dimostrare di allevare solo carne di quelle razze, ma per il resto nessuna di queste
etichette garantisce al consumatore l’origine della carne per il fatto che finché non c’è
un’anagrafe bovina, un allevatore può aver importato vitellini dalla Francia, ad esempio,
e allevarli qui dichiarando che sono italiani.
Abbiamo il problema della diossina perché ormai è nei rifiuti, e quello degli
additivi alimentari. Quest’ultimo, però, è un problema al quale l’industria alimentare
sta molto attenta, perché le associazioni dei consumatori hanno la possibilità di fare test
comparati; una certa tranquillità vi è anche sull’uso dei pesticidi: i risultati forniti dal
Ministero della Sanità e le indagini svolte dalle associazioni dei consumatori per l’Italia
sono rassicuranti; non abbiamo più, se non in casi rari, quelle quantità di pesticidi che
erano rilevate in passato.
Il rischio oggi nasce sul biologico, intanto perché abbiamo l’esplosione della domanda;
l’ultima indagine che è stata fatta dalla Coldiretti mostra che i consumatori sono disposti
a pagare di più per i prodotti alimentari quando è garantito che non contengano
organismi geneticamente modificati. Se nel settore della frutta e verdura il problema si
può delimitare, nel caso della carne il marchio biologico è una farsa, poiché gli animali
vengono trattati con farmaci, soprattutto antibiotici.
Un altro aspetto problematico è quello dei controlli. La divisione tra controlli sanitari e
controlli finalizzati a verificare che non esistano frodi negli alimenti, crea ancora delle
difficoltà: i dati non sempre sono reperibili.
ALLEGATI
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