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sentenza 7 luglio 1986, n. 178 (Gazzetta ufficiale, 1 a serie speciale, 16 luglio 1986, n. 34); Pres.Paladin, Rel. Pescatore; Intendenza di finanza di Matera c. Carmentano; Min. finanze c.Cordova (Avv. Pascasio); interv. Pres. cons. ministri (Avv. dello Stato La Porta). Ord. Comm.trib. II grado Matera 30 novembre 1985 e Cass. 24 gennaio 1986 (G. U. n. 10, 1 a serie speciale,1986)Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 9 (SETTEMBRE 1986), pp. 2067/2068-2085/2086Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180622 .
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2067 PARTE PRIMA 2068
modo come non sono configurabili limiti alla risarcibilità del danno biologico, quali quelli posti dall'art. 2059 c.c., non è
ipotizzabile limite alla risarcibilità dello stesso danno, per sé
considerato, ex art. 2043 c.c. Il risarcimento del danno ex art. 2043 è sanzione esecutiva del
precetto primario: ed è la minima (a parte il risarcimento ex art. 2058 c.c.) delle sanzioni che l'ordinamento appresta per la tutela d'un interesse.
Quand'anche si sostenesse che il riconoscimento, in un deter
minato ramo dell'ordinamento, d'un diritto subiettivo non esclude
che siano posti limiti alla sua tutela risarcitoria (disponendosi ad
esempio che non la lesione di quel diritto, per sé, sia risarcibile
ma la medesima purché conseguano danni di un certo genere) va
energicamente sottolineato che ciò, in ogni caso, non può accade
re per i diritti e gli interessi dalla Costituzione dichiarati
fondamentali. Il legislatore ordinario, rifiutando la tutela risarci
toria (minima) a seguito della violazione del diritto costituzional
mente dichiarato fondamentale, non lo tutelerebbe affatto, almeno
nei casi esclusi dalla predetta tutela. La solenne dichiarazione
della Costituzione si ridurrebbe ad una lustra, nelle ipotesi escluse dalla tutela risarcitoria: il legislatore ordinario rimarrebbe
arbitro dell'effettività della predetta dichiarazione costituzionale.
Con l'aggravante che, mentre il combinato disposto degli art. 32
Cost, e 2043 c.c. porrebbe il divieto primario, generale, di ledere
la salute, il fatto lesivo della medesima, per il quale non è
previsto dalla legge ordinaria il risarcimento del danno, o, assur
damente, impedirebbe al precetto primario d'applicarsi (il risar
cimento del danno rientra, infatti, nelle sanzioni che la dottrina
definisce esecutive) o, dovrebbe ritenersi giuridicamente del tutto
irrilevante.
Dalla correlazione tra gli art. 32 Cost, e 2043 c.c., è posta,
dunque, una norma che, per volontà della Costituzione, non può limitare in alcun modo il risarcimento del danno biologico.
20. - Un'ultima osservazione: alle conclusioni ora indicate si
può opporre il timore d'un'eccessiva uniformità di determinazione
e liquidazione del danno biologico. Va precisato che non si è inteso qui proporre un'assolutamente
indifferenziata, per identiche lesioni, determinazione e liquidazio ne di danni: ed in proposito è da ricordare la recente giurispru denza di merito che assume il predetto criterio liquidativo dover risultare rispondente da un lato ad un'uniformità pecuniaria di base (lo stesso tipo di lesione non può essere valutato in maniera del tutto diversa da soggetto a soggetto: è, infatti, la lesione, in se e per se considerata, che rileva, in quanto pregna del disvalore
giuridico attribuito alla medesima dal divieto primario ex art. 32 Cost, e 2043 c.c.) e dall'altro ad elasticità e flessibilità, per adeguare la liquidazione del caso di specie all'effettiva incidenza dell'accertata menomazione sulle attività della vita quotidiana, attraverso le quali, in concreto, si manifesta l'efficienza psico fisica del soggetto danneggiato.
21. - La precedente disamina conduce a ribadire conclusiva
mente che, oltre alla voce relativa al risarcimento, per sé, del
danno biologico, ove si verifichino, a seguito del fatto lesivo della
salute, anche danni-conseguenze di carattere patrimoniale (esem
pio lucro cessante) anch'essi vanno risarciti, con altra autonoma
voce, ex art. 32 Cost, e 2043 c.c. Cosi, ove dal fatto in
discussione derivino danni morali subiettivi, i medesimi, in
presenza, nel fatto, anche dei caratteri del reato, vanno risarciti
ex art. 2059 c.c.
Il cumulo tra le tre voci di danno, pur generando pericoli di
sperequazioni (i soggetti che percepiscono un attuale reddito
lavorativo hanno diritto a richiedere una voce di danno in più)
dovrebbe consigliare cautela nella liquidazione dei danni in
esame, onde evitare da un canto duplicazioni risarcitorie e
dall'altro gravi sperequazioni nei casi concreti.
22. - Tutto quanto innanzi rilevato chiarisce, che, pur partendo
da diverse interpretazioni dell'art. 2043 c.c., la giurisprudenza e la
dottrina, nell'assoluta maggioranza, non soltanto ritengono il dan
no biologico compreso e disciplinato dal predetto articolo ma
indicano in quest'ultimo la disposizione, di carattere generale, che
consente la risarcibilità, senza alcuna limitazione, del precisato
danno. Non v'è dubbio, pertanto, che i risultati ai quali perven
gono le prevalenti giurisprudenza e dottrina, dalle pur diverse
interpretazioni dell'art. 2043 c.c., coincidono; e non v'è dubbio,
pertanto, che esiste, in materia, un diritto vivente al quale questa
corte si richiama.
Le precisazioni qui offerte in ordine alle norme, primaria e
secondaria, che si ricavano, nel vigente sistema desunto anche
dalle dispozioni costituzionali, dal combinato disposto degli art.
32 Cost, e 2043 c.c. conducono agli stessi risultati.
Poiché le ordinanze di rimessione chiedono la dichiarazione
d'illegittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c., nella parte in cui
prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante
dalla lesione del diritto alla salute soltanto in conseguenza di
reato: poiché qui si è preso atto del diritto vivente, per il quale l'art. 2059 c.c. attiene esclusivamente ai danni morali subiettivi e non esclude che altre disposizioni prevedano la risarcibilità, in
ogni caso, del danno biologico, per sé considerato; poiché lo stesso diritto vivente individua nell'art. 2043 c.c., in relazione all'art. 32 Cost., la disposizione che disciplina la risarcibilità, per sé, in ogni caso, del danno biologico; mentre va dichiarata
infondata la questione di legittimità costituzionale, così come
prospettata, dell'art. 2059 c.c., va dato atto che il combinato
disposto degli art. 32 Cost, e 2043 c.c. consente la risarcibilità, in
ogni caso, del danno biologico. Per questi motivi, la Corte costituzionale, riuniti i giudizi
proposti con le ordinanze dell'8 ottobre 1979 del Tribunale di
Genova e del 4 dicembre 1981 del Tribunale di Salerno, dichiara
non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c., sollevata in riferimento
agli art. 2, 3, 1° comma, 24, 1° comma, e 32, 1° comma, Cost., dalle predette ordinanze.
I
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 7 luglio 1986, n. 178 (Gaz zetta ufficiale, 1a serie speciale, 16 luglio 1986, n. 34); Pres.
Paladin, Rei. Pescatore; Intendenza di finanza di Matera c.
Carmentano; Min. finanze c. Cordova {Avv. Pascasio); interv.
Pres. cons, ministri (Aw. dello Stato La Porta). Ord. Comm.
trib. II grado Matera 30 novembre 1985 e Cass. 24 gennaio 1986 (G. U. n. 10, 1* serie speciale, 1986).
Reddito delle persone fisiche (imposta sul) — Redditi soggetti a tassazione separata — Indennità di buonuscita — Criteri di
tassazione — Questioni inammissibili ed infondate di costitu
zionalità (Cost., art. 3, 38, 53, 76; d.p.r. 29 settembre 1973 n.
597, istituzione e disciplina dell'imposta sul reddito delle perso ne fisiche, art. 12, 13, 46; d.p.r. 29 settembre 1973 n. 600, di
sposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi, art. 23; 1. 26 settembre 1985 n. 482, modificazioni
del trattamento tributario delle indennità di fine rapporto e
dei capitali corrisposti in dipendenza di contratti di assicura
zione sulla vita, art. 1, 2, 4). Reddito delle persone fisiche (imposta sul) — Redditi soggetti
a tassazione separata — Indennità di buonuscita — Mancata
previsione della non tassabilità della parte di indennità corri
spondente ai contributi versati dal pubblico dipendente — In costituzionalità (Cost., art. 53; 1. 26 settembre 1985 n. 482, art. 2, 4).
Sono inammissibili, per difetto di motivazione in ordine alla
rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale degli art. 23
d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597 e dell'art. 1 l. 26 settembre 1985 n. 482, nella parte in cui modifica l'art. 13 d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597, in riferimento agli art. 3, 38 e 53 Cost. (1)
É infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, lett. e), d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597, come modificato dall'art. 1 l. 26 settembre 1985 n. 482, nella parte in cui assimila l'indennità di buonuscita alle altre indennità di fine rapporto, in riferimento all'art. 76 Cost. (2)
(1-5) Con rapidità davvero encomiabile, la Corte costituzionale ha provveduto a rimettere in sesto (se non vi saranno nuove sorprese) il rinnovato sistema impositivo delle indennità di buonuscita, tenuto a battesimo con la 1. 26 settembre 1985 n. 482 e subito attaccato — sotto il profilo di eventuali vizi di legittimità costituzionale — non più di sei mesi or sono (le ordinanze di rimessione Comm. trib. II grado Matera 30 novembre 1985 e Cass. 31 gennaio 1986, n. 48 sono riportate rispettivamente in Fisco, 1986, 396 e Bollettino trib., 1986, 251, in Foro it., 1986, I, 1157, con nota di richiami; per l'aggiornamento dei più recenti interventi sul tema cfr. De Lorenzo, Normativa sulla riscossione e rimborsi di i.r.p.e.f. sulle indennità di buonuscita, in Tributi, 1985, fase. 5, 29; Di Ciaccia, Un eccesso di delega a danno del lavoratore dipendente. Art. 13 d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597, in Fisco, 1985, 2864; Marcelli, La tassabilità delle indennità di buonu scita e le problematiche ad essa connesse, in Comm. trib. centr., 1984,
Il Foro Italiano — 1986.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 46 d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597, dell'art. 1 l. 26 settembre 1985 n. 482, nella parte in cui modifica l'art. 12, lett. e), d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597, e degli art. 2 e 4 della stessa legge nella parte in cui: a) consentono la tassazione dell'indennità di
buonuscita, ai fini i.r.p.e.f., con criteri diversi da quelli dettati
per i capitali riscossi in dipendenza di contratti di assicurazio ne sulla vita, b) assoggettano all'i.r.p.e.f. l'indennità di buonu scita senza tenere conto della natura previdenziale di questa indennità, in riferimento agli art. 3, 38 e 53 Cost. (3)
Sono costituzionalmente illegittimi, per violazione dell'art. 53
Cost., gli art. 2 e 4 l. 26 settembre 1985 n. 482 nella parte in cui non prevedono che dall'imponibile dell'indennità di buo nuscita da assoggettare ad imposta vada detratta anche una somma pari alla percentuale dell'indennità, corrispondente al
rapporto esistente — alla data del collocamento a riposo — tra il contributo del 2,50 % posto a carico del pubblico dipendente e l'aliquota complessiva del contributo previdenziale obbligato rio versato al fondo di previdenza dell'E.n.p.a.s. (4)
II
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 22 aprile
1986, n. 2827; Pres. Granata, Est. R. Sgroi, (P. M. Dettori
(conci, conf.); Min. finanze (Avv. dello Stato Laporta) c. Geri; Geri (Aw. C. M. Barone) c. Min. finanze. Cassa Comm. trib.
centrale 14 luglio 1984, n. 7554.
Reddito delle persone fisiche (imposta sul) — Redditi soggetti a
tassazione separata — Indennità di buonuscita — Tassabilità
(D.p.r. 29 settembre 1973 n. 597, art. 12; 1. 26 settembre 1985
n. 482, art. 1). Tributi in genere — Contenzioso tributario — Appello — Tem
pestività — Accertamento — Fattispecie (D.p.r. 26 ottobre
1972 n. 636, revisione della disciplina del contenzioso tribu
tario, art. 22).
L'indennità di buonuscita erogata dall'E.n.p.a.s. ai dipendenti
statali, per l'equipollenza rispetto ai trattamenti di fine rapporto
(in quanto la cessazione dal servizio è il fondamento dell'in
dennità) e per la commisurazione alla durata del rapporto, è
soggetta a tassazione ai fini i.r.p.e.f., anche dopo le modifiche introdotte dalla l. 482/85. (5)
II, 914; Petrucci, Trattamento di fine rapporto - Aspetti fiscali, in
Legislazione economica (gennaio 1982-dicembre 1983), 1985, 589). Non
solo, ma i giudici della Consulta hanno fornito una serie di indicazioni decisamente chiarificatrici relativamente al grosso nodo problematico che si era già venuto creando intorno alla previgente disciplina del
d.p.r. 597/73 nella formulazione originaria e che il nuovo testo
legislativo non era riuscito a sciogliere con sufficiente convinzione. In primo luogo, la sentenza liquida immediatamente un paio di
questioni denunciandone il difetto di motivazione in ordine alla
rilevanza nei giudizi a quibus (ma mentre per la prima di esse non vi sono dubbi al riguardo — si trattava dell'art. 23 d.p.r. 600/73, che
disciplina la determinazione della misura della ritenuta d'acconto alla fonte sui redditi di lavoro dipendente — per la seconda non sembra che ve ne fosse traccia nell'ordinanza della corte di legittimità: leggere per credere!) per poi dichiarare l'infondatezza della questione, solleva ta dall'organo di giustizia tributaria di Matera, relativa al presunto contrasto della nuova versione dell'art. 12, lett. e), d.p.r. 597/73 rispetto ai criteri indicati nella legge di delega per la riforma
tributaria, con conseguente violazione del canone costituzionale ex art. 76 Cost.: non senza « tirare le orecchie » ai giudici remittenti che non si erano avveduti del fatto che — se pur vi fosse stato il denunciato contrasto — il testo introdotto dalla 1. 482/85 non era stato certo emanato in virtù della delega di cui alla 1. 825/7il.
Arriviamo, cosi, al nocciolo della questione; ossia, ai tre interrogati vi sollevati dall'ordinanza della Cassazione in cui si fondevano i diversi profili (dell'an e del quantum) relativi alla tassazione della c.d.
liquidazione e, in particolare, dell'indennità di buonuscita. Il primo punto, come si ricorderà, riguardava l'annosa questione della tassabili
tà, in astratto, delle somme percepite dai pubblici dipendenti; questio ne che la corte di legittimità riteneva preliminarmente di risolvere in
positivo alla stregua del dato normativo (come del resto ha fatto la coeva sent. 2827/86 che si riporta), ma non considerava completamen te esaurita in relazione al profilo della « necessità di una completa esclusione della tassazione ed [a] quello, più graduato, della illegitti mità costituzionale del concreto sistema attuale di tassazione sotto
l'aspetto quantitativo e cioè della misura concreta di prelievo fiscale
che tale sistema consente ». Giuocando la partita sul terreno della
capacità contributiva che giustifica la tassazione ex art. 53 Cost., la
corte ha ribadito il proprio orientamento che afferma « l'idoneità del
soggetto all'obbligazione d'imposta, desumibile dal presupposto econo
La tempestività dell'appello avverso la decisione della commis
sione tributaria di I grado, nell'ipotesi in cui l'atto d'appello
depositato presso la segreteria e la copia notificata alla contro
parte presentino indicazioni di data diversa, può esser accertata
anche dalla Commissione tributaria centrale mediante i poteri istruttori conferiti dagli art. 35 e 36 d.p.r. 636/72 (nella specie, si trattava di verificare la corrispondenza tra i numeri di
protocollo apposti sugli atti e la data del registro conservato
presso la segreteria). (6)
I
Diritto. — 6. - I giudizi promossi con le ordinanze in epigrafe riguardano questioni identiche o strettamente connesse, per cui vanno riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.
7. - Le questioni sollevate hanno ad oggetto: l'art. 23, 2°
comma, d.p.r. 29 settembre 1973 n. 600 come modificato dalla 1. n. 482 del 1985; gli art. 1 1. 26 settembre 1985 n. 482 — nella
parte in cui modifica l'art. 12, lett. e), d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597 — 2 e 4 della stessa legge, in quanto applicabili all'inden
mico al quale la prestazione risulta collegata, presupposto che consiste in qualsiasi indice rivelatore di ricchezza »: sicché il carattere previ denziale dell'indennità non esclude l'esistenza di un « indice rivelatore di ricchezza » e semmai può incidere sulle concrete forme di imposi zione per assicurare la predetta finalità previdenziale (e su questo corollario torneremo tra un momento; tra i più recenti interventi della Corte costituzionale sul tema della capacità contributiva v. sent. 23 maggio 1985, n. 159, Foro it., 1985, I, 1577; 15 febbraio 1984, n. 25, id., 1984, I, 1803; per un'esauriente ricostruzione delle vicende interpretative legate alla disposizione dell'art. 53, 1° comma, cfr., da ultimo, Marongiu, Il principio di capacità contributiva nella giurispru denza della Corte costituzionale, in Dir. e pratica trib., 1985, I, 6).
Ancor più semplice la risoluzione del secondo quesito, attinente alla diversa disciplina dettata per i capitali percepiti in relazione a contratti assicurativi sulla vita e per le indennità del pubblico impiego, a fronte di una sostanziale identità degli strumenti di raccolta (e successiva erogazione) dei capitali. Al di là delle analogie che si possono riscontrare tra il meccanismo assicurativo strido sensu ed i sistemi previdenziali (cfr., per una recente riconsiderazione del proble ma, Santoro-Passarelli, Dall'indennità di anzianità al trattamento di fine rapporto, (Milano, 1984, 32-58, 111-113), non sorgono dubbi sulla diversità della natura (previdenza volontaria in un caso, obbligatoria nell'altro) e della tecnica (premi pagati solo dall'assicurato e contributi erogati dallo Stato con obbligo di rivalsa nei confronti del dipendente per una sola parte); diversità che legittimano il differente trattamento tributario, preordinato — nell'ipotesi delle assicurazioni sulla vita — « alla tutela di obiettivi di politica economica » (cosi De Mita, Natura reddituale e fine previdenziale nell'indennità di buonuscita, in Bolletti no trib., 1986, 357, 359, che prosegue: « si vuole agevolare un certo settore dell'economia. E in ciò non vi è incostituzionalità: altrimenti le esenzioni ed i regimi sostitutivi sarebbero tutti incostituzionali per definizione »).
Dove, invece, la 1. 482/85 non ha retto alle critiche della Cassazione è stato con riguardo all'uguale tassazione predisposta e per i tratta menti di fine rapporto dovuti per i contratti di lavoro privato e per le indennità spettanti ai dipendenti pubblici. In linea con le precedenti affermazioni circa il significato da attribuire alla nozione di capacità contributiva, i giudici della Consulta hanno evidenziato come il diverso meccanismo di contribuzione incida necessariamente sul « grado » di
capacità contributiva, che si manifesta — « effettivamente » — in misura diversa per i lavoratori privati e per i dipendenti del settore pubblico. Di qui l'intervento, modificativo rispetto alla tecnica imposi tiva delineata dagli art. 2 e 4 1. 482/85, che si è riassunto nella massima (4) ed al quale si sono immediatamente adeguati gli uffici dell'E.n.p.a.s., come testimoniato dalla circolare ministeriale in data 8 agosto 1986 con cui sono stati dettati i criteri per procedere alla nuova liquidazione delle indennità (il testo della c.m. è riportato in Fisco, 1986, 4932; per chi volesse valutare, cifre alla mano, la differenza introdotta dalla sentenza della Corte costituzionale si rinvia a Scorda, Il nuovo trattamento tributario dell'indennità di buonuscita, in Corriere trib., 1986, 2115).
Tutto a posto, si direbbe; ma non c'è il tempo per riordinare le idee ed ecco affacciarsi un nuovo ordine di problemi, questa volta di natura prettamente processuale. Mentre, infatti, la Cassazione ha sostenuto, sia nell'ordinanza che nella sentenza qui riportata, la tesi che ritiene immediatamente applicabile lo ius superveniens di cui alla 1. 482/85 ai giudizi in corso, al di là della presentazione dell'istanza per la riliquidazione dell'imposta prevista dall'art. 4, 5° comma, si levano voci che non condividono punto un tale orientamento (cfr. Franco, Il giudice può applicare la legge 482 se manca l'istanza di riliquidazione dell'imposta?, ibid., 1785). Ma sul punto avremo occa sione di ritornare in futuro.
(6) Unico precedente è costituito dalla sentenza ora cassata, Comm. trib. centrale 14 luglio 1984, n. 7554, Foro it., 1985, III, 82, con nota di richiami. [S. Di Paola]
Il Foro Italiano — 1986 — Parte /-135.
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2071 PARTE PRIMA 2072
nità di buonuscita di cui all'art. 3 d.p.r. 29 dicembre 1973 n. 1032 e successive modificazioni; l'art. 13 d.p.r. n. 597 del 1973, come modificato dall'art. 1 1. n. 482 del 1985; l'art. 46 d.p.r. n. 597 del 1973.
Secondo le ordinanze di rimessione le suddette norme sarebbero
in contrasto: a) con gli art. 38 e 53 Cost, giacché la tassazione, da esse prevista, dell'indennità di buonuscita erogata dal
l'E.n.p.a.s. — costituente risparmio accantonato a fini previdenzia li — sottrarrebbe alla loro destinazione mezzi destinati al soddi
sfacimento delle esigenze di vita dei pubblici dipendenti; b) con l'art. 53 Cost, perché, ove si riconosce all'indennità di buonuscita
erogata dell'E.n.p.a.s. carattere indennitario, per essere destinata a
reintegrare il pubblico dipendente dal « danno » conseguente alla
cessazione del rapporto di lavoro, la sua percezione non costitui
rebbe acquisizione di nuova ricchezza e quindi idoneo indice di
capacità contributiva; c) con gli art. 3, 38, 2° comma, e 53, 1°
comma, Cost, in quanto il meccanismo di tassazione previsto dalle norme impugnate per l'indennità di buonuscita, anche dopo i correttivi apportati dalla 1. n. 482 del 1985, non sarebbe conforme al carattere previdenziale dell'indennità, in mancanza di accorgi menti idonei a salvaguardarne la funzione e risulterebbe sperequa to rispetto alla effettiva capacità tributaria; d) con gli art. 3 e 53 Cost, per essere state tassate in maniera particolarmente gravosa le indennità di buonuscita derivanti dai rapporti di minore
durata; e) con l'art. 3 Cost, perché pur avendo l'indennità di
buonuscita erogata dall'E.n.p.a.s. caratteri che la renderebbero
assimilabile ai capitali percepiti in relazione a contratti di assicu
razione sulla vita, l'averla assoggettata ad un diverso trattamento
fiscale (essendo stati i suddetti capitali esentati da imposizione fino all'entrata in vigore della 1. n. 482 del 1985 e da questa
sottoposti ad una tassazione più vantaggiosa rispetto a quella
riguardante le indennità di fine rapporto) sarebbe irragionevole e
lesivo del principio di uguaglianza; /) con gli art. 3 e 53 Cost,
perché sottoporrebbero le indennità di buonuscita erogate dal
l'E.n.p.a.s. allo stesso trattamento tributario delle indennità di fine
rapporto dovute in relazione a rapporti di lavoro privato nono
stante la diversità di natura esistente tra esse, avendo l'indennità
di buonuscita funzione previdenziale e le altre indennità funzione
retributiva ed essendo solo le indennità di buonuscita (e non le
altre indennità di fine rapporto) formate anche con il contributo
degli aventi diritto.
L'art. 12, lett. e), d.p.r. n. 597 del 1973, secondo la Commissio
ne tributaria di II grado di Matera, sarebbe inoltre in contrasto
anche con l'art. 76 Cost., poiché l'assimilazione, sotto l'aspetto impositivo, della indennità di buonuscita alle indennità di fine
rapporto ex art. 2120 c.c., non sarebbe conforme ai principi stabiliti nell'art. 2, n. 19, lett. b), della legge di delegazione n. 825 del 1971.
8. - Va pregiudizialmente respinta l'eccezione d'inammissibilità
(cfr. n. 4) sollevata dal presidente del consiglio dei ministri nel
giudizio proposto dalla Corte di cassazione, sotto il profilo che la corte stessa non era chiamata a dare applicazione alla normativa della 1. n. 482 del 1985, in quanto sopravvenuta alla decisione della commissione centrale tributaria impugnata.
Deve infatti rilevarsi che, sull'applicabilità nel giudizio a quo di tale nuova normativa, la Corte di cassazione — giudice istituzionalmente competente a decidere al riguardo — ha am
piamente motivato nell'ordinanza di rimessione, così assolvendo alla prescrizione dell'art. 23 1. 11 marzo 1953 n. 87.
Viceversa va dichiarata l'inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale dell'art. 23, 2" comma, d.p.r. n. 600 del
1973, sollevata dalla Commissione tributaria di II grado di Matera, in riferimento agli art. 3, 38 e 53 Cost, senza alcuna motivazione
sulla rilevanza nel giudizio a quo delle prescrizioni contenute in
tale norma, riguardante la determinazione della misura della
ritenuta d'acconto alla fonte sui redditi di lavoro dipendente.
Parimenti, per la stessa ragione, va dichiarata l'inammissibilità
della questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Corte
di cassazione, dell'art. 1 1. n. 482 del 1985, nella parte in cui ha
modificato l'art. 13 d.p.r. n. 597 del 1973, sottraendo alla forma
di tassazione separata ivi prevista i redditi di cui alla lett. e) dell'art. 12 dello stesso d.p.r. e prevedendo una nuova aliquota
per i redditi sottoposti a tassazione separata ove nei due anni
precedenti il soggetto non abbia avuto redditi.
9. - Passando all'esame del merito, va preliminarmente dichiara
ta l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art.
12, lett. e), d.p.r. n. 597 del 1973, sollevata in riferimento all'art.
76 Cost, sotto il profilo della non conformità ai principi stabiliti
dall'art. 2, n. 19, lett. b), della legge di delegazione n. 825 del
1971. Infatti, l'ordinanza di rimessione ha ritenuto rilevante nel
giudizio a quo e non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 12, lett. e), d.p.r. n. 597 del
1973, nel testo sostituito a quello originario dalla 1. n. 482 del
1985; cosicché in relazione a detta nuova norma, non emanata in base a delegazione legislativa, una violazione dell'art. 76 Cost, non è configurabile, riguardando l'art. 76 esclusivamente la legi slazione delegata.
10. - Prima di venire all'esame delle altre questioni, va ricorda to come esse siano in gran parte simili a quelle già discusse dinanzi a questa corte all'udienza del 6 dicembre 1983. I giudizi allora promossi riguardavano gli art. 12, lett. e), 14 e 46 d.p.r. n. 597 del 1973, gli art. 85, 87, 89 e 140 del d.p.r. n. 645 del 1958 e l'art. 34 d.p.r. n. 601 del 1973. Le ordinanze di rimessione ne
avevano prospettato l'illegittimità costituzionale, in riferimento
agli art. 3, 38 e 53 Cost., in quanto: a) sottoponevano ad
imposizione fiscale le indennità di buonuscita erogate dal
l'E.n.p.a.s. nonostante che queste avrebbero carattere previdenzia le, non costituirebbero reddito e non sarebbero indice di
capacità contributiva; b) dette indennità, irragionevolmente, sa
rebbero state tassate in maniera deteriore rispetto ai capitali
percepiti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita, esentati da ogni imposizione; c) irragionevolmente le indennità di
buonuscita percepite dai dipendenti statali sarebbero state tassate in maniera identica alle indennità di fine rapporto percepite dai
dipendenti privati, in quanto solo i pubblici dipendenti sono tenuti al versamento di contributi.
La corte, in quell'occasione, sollevò d'ufficio, dinanzi a sé,
questione di legittimità costituzionale della norma (l'art. 13 d.p.r. n. 597 del 1973) che stabiliva le modalità di tassazione delle
indennità di fine rapporto in generale, affermando di non potere prescindere dall'esame delle forme e dei criteri dell'imposizione al fine di decidere sulle questioni proposte.
Nell'ordinanza si rilevava in proposito che l'art. 13 d.p.r. n. 597 del 1973 non teneva adeguato conto delle caratteristiche proprie delle indennità in questione e non prendeva in considerazione in
giusta misura l'arco di tempo in cui erano andati maturando i diritti alle indennità medesime. Infatti esso prevedeva che per tutte le indennità di fine rapporto (assoggettate a tassazione
separata) l'imposta fosse determinata applicando all'ammontare dell'indennità « l'aliquota corrispondente alla metà del reddito
complessivo netto del contribuente nel biennio anteriore all'anno
in cui è sorto il diritto alla loro percezione». L'imponibile, a
norma del successivo art. 14, era ridotto del 50 % se l'ammontare
delle liquidazioni non superava i dieci milioni, del 30 % se era
superiore a dieci ma non a venti milioni, del 20 % se era
superiore a venti ma non a cinquanta milioni e in ogni caso « successivamente alla precedente riduzione in quanto spettante, di lire centomila per ogni anno o frazione di anno preso a base
per la somministrazione dell'indennità ».
Se l'ammontare della liquidazione superava dette somme, l'im
posta era ridotta nella misura necessaria ad evitare che il reddito
residuo scendesse al disotto della cifra risultante dall'applicazio ne dell'imposta su un ammontare pari, rispettivamente, a dieci, venti o cinquanta milioni.
11. - A seguito dei rilievi di questa corte, il legislatore è
intervenuto, ridisciplinando in gran parte la materia con la 1. 26 settembre 1985 n. 482 che ha modificato (art. 1) gli art. 12, lett.
e), e 13 d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597 ed integralmente sostituito (art. 2) l'art. 14 di detto d.p.r. con normativa (art. 4)
applicabile ai giudizi in corso.
In base al nuovo testo dell'art. 14 la tassazione dell'indennità di fine rapporto, di qualunque tipo, resta regolata unitariamente. Essa è stata sganciata dal reddito complessivo netto degli anni
precedenti e si è stabilito che tali indennità sono imponibili per un ammontare che si determina riducendo il loro importo netto di una somma pari a lire cinquecentomila per ogni anno
preso a base di commisurazione con esclusione dei periodi di anzianità convenzionali. L'imposta si applica con l'aliquota, con riferimento all'anno in cui è sorto il diritto alla percezione, corrispondente all'importo che risulta dividendo il predetto am montare netto per il numero degli anni e frazione di anno preso a base di commisurazione e moltiplicando il risultato per dodici.
Con tali innovazioni legislative, si è cosi inteso eliminare l'elemento d'irrazionalità, presente nella precedente disciplina co stituito dal collegamento dell'imposizione sulle indennità di fine
rapporto al reddito complessivo netto dell'ultimo biennio, che è un elemento estraneo al rapporto di lavoro al quale si ricollega la
percezione dell'indennità, tale da risultare spesso inidoneo a fornire giusti indici d'imponibilità. Inoltre, la nuova normativa ha tenuto conto della durata del rapporto di lavoro ed ha apprestato un congegno d'imposizione del tutto particolare rispetto ai norma
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
li meccanismi di tassazione dei redditi, dando cosi rilievo alle
speciali caratteristiche delle indennità di fine rapporto. 12. - Ciò premesso, deve passarsi all'esame della questione di
legittimità costituzionale degli art. 1 I. 26 settembre 1985 n. 482 — nella parte in cui modifica l'art. 12, lett. e, d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597 — 2 e 4 della stessa legge, in quanto applicabili alle indennità di buonuscita corrisposte dall'E.n.p.a.s., dell'art. 46
d.p.r. n. 597 del 1973, sollevate sotto il profilo che tali norme, considerando « reddito » le indennità di buonuscita corrisposte dall'E.n.p.a.s. ed assoggettandole ad imposizione fiscale, violereb bero gli art. 38 e 53 Cost., avendo dette indennità natura
previdenziale o indennitaria e, pertanto, non essendo adeguato indice di capacità contributiva.
La questione non è fondata. I giudici a quibus, partendo dall'affermazione di una sostanziale diversità giuridica tra le indennità di buonuscita erogate dall'E.n.p.a.s. e l'indennità di fine rapporto erogata ai dipendenti privati, accentuano la natura
previdenziale delle prime o — in alternativa — ne allegano la natura indennitaria, rivendicandone la intassabilità in quanto non costituirebbero reddito.
Peraltro, questa corte ha costantemente affermato che per
capacità contributiva, ai sensi dell'art. 53 Cost., deve intendersi
l'idoneità del soggetto all'obbligazione d'imposta, desumibile dal
presupposto economico al quale la prestazione risulta collegata,
presupposto che consiste in qualsiasi indice rivelatore di ricchez
za, secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il controllo
di costituzionalità sotto il profilo dell'arbitrarietà o irrazionalità
(da ultimo sent. 15 febbraio 1984, n. 25, Foro it., 1984, I, 1803; 1° aprile 1982, n. 63, id., 1982, I, 1216; e 20 aprile 1977, n. 62, id., 1977, I, 1056).
In tale ottica, pur tenendosi conto della garanzia apprestata in
materia previdenziale dall'art. 38 Cost., l'allegata natura dell'in
dennità di buonuscita erogata dall'E.n.p.a.s., non ne esclude la
tassabilità, se non nei limiti minimi indispensabili ad assicurarne
le finalità previdenziali, secondo valutazioni che competono al
legislatore e risultano nel caso di specie immuni da irrazionalità.
Infatti — come sopra si è detto — il congegno impositivo
previsto all'art. 2 1. n. 482 del 1985, tenendo conto delle caratte
ristiche dell'indennità di fine rapporto, esenta da imposizione una
larga fascia di tali indennità, d'importo crescente in relazione alla
durata del rapporto di lavoro, secondo una scelta ragionevole nella sua discrezionalità, ed assicura per tutte le liquidazioni, di
qualsiasi importo, una quota esente.
Né può trovare accoglimento la tesi del carattere indennitario
delle liquidazioni erogate dall'E.n.p.a.s., non essendo il diritto a
percepirle ricollegato dal legislatore ad un danno bensì unicamen
te alla cessazione del rapporto di lavoro dopo il trascorrere di un
periodo minimo, restando giuridicamente indifferente che la ces
sazione comporti per il pubblico dipendente un danno o un
vantaggio (come nel caso di cessazione per il passaggio ad altra
attività più remunerata). 13. - Del pari non fondata è la questione di legittimità
costituzionale della normativa risultante dai suddetti articoli, sollevata sotto il profilo della violazione dell'art. 3 Cost, in
quanto le buonuscite erogate dall'E.n.p.a.s. sono assoggettate ad un diverso e meno favorevole trattamento fiscale rispetto ai
capitali percepiti in relazione a contratti di assicurazione sulla
vita, per i quali l'art. 6 1. 26 settembre 1985 n. 482 così dispone: « sui capitali corrisposti in dipendenza di contratti di assicurazio ne sulla vita, esclusi quelli corrisposti a seguito di decesso
dell'assicurato, le imprese di assicurazione devono operare una
ritenuta, a titolo d'imposta e con obbligo di rivalsa, del 12,5 %. La ritenuta va commisurata alla differenza tra l'ammontare del
capitale corrisposto e quello dei premi riscossi, ridotta del 2 %
per ogni anno successivo al decimo se il capitale è corrisposto dopo almeno dieci anni dalla conclusione del contratto di assicu razione ».
Invero tale censura è certamente inconferente riguardo all'art. 46 d.p.r. n. 597 del 1973, il quale — nello stabilire che costitui
scono redditi di lavoro dipendente anche le indennità di cui alla
lett. e) dell'art. 12 dello stesso d.p.r. — non attiene alla modalità
della tassazione delle indennità di fine rapporto. Parimenti lo è
riguardo all'art. 1 1. n. 482 del 1985 — nella parte in cui ha
modificato l'art. 12, lett. e), d.p.r. n. 597 del 1973 — che si limita
a stabilire, per quanto interessa in questa sede, che le indennità
di fine rapporto sono soggette a tassazione separata, restando
demandata ad altra norma di determinare il quomodo di tale
tassazione.
Quanto agli art. 2 e 4 1. n. 482 del 1985, essi effettivamente
disciplinano la tassazione delle indennità di fine rapporto in
modo meno vantaggioso di quanto previsto dall'art. 6 della stessa
legge per i capitali percepiti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita. Deve ritenersi, peraltro, che trattasi di somme percepite in base a titoli completamente diversi ed in relazione a fattispecie che presentano — al di là di alcune
analogie — elementi di differenziazione tali da non renderle non
comparabili ai fini del giudizio di costituzionalità alla stregua del
principio di uguaglianza. Infatti, i capitali percepiti in base a
contratti di assicurazione sulla vita, lo sono in conseguenza di un atto previdenziale volontario — il contratto di assicurazione —
retto da una particolare disciplina, caratterizzata, per quel che in
questa sede interessa, dalla proporzionalità tra premio e rischio e dall'essere il premio pagato dall'assicurato e il rischio assunto
dall'impresa assicuratrice, secondo una logica che rapporta il
capitale assicurato al premio pagato, in base al calcolo di
probabilità dell'evento.
L'impresa assicuratrice si obbliga ad inserire, secondo le regole della tecnica e secondo le norme che ne qualificano l'esercizio, il rischio singolo in una massa di rischi, attraverso un procedimento di omogeneizzazione e di neutralizzazione. Si profila ed assume
rilievo, dunque, l'attività imprenditoriale come strumento di rea lizzazione del contenuto dell'operazione economica perseguita dal le parti contraenti.
Le buonuscite erogate dall'E.n.p.a.s. sono prestazioni previden ziali obbligatorie, caratterizzate dall'automaticità e dalla mancanza
di un rapporto sinallagmatico tra contributi versati e indennità di
buonuscita, non essendo i primi rapportati ad un rischio, bensì
alla retribuzione del pubblico dipendente. Inoltre — e ciò vale a
togliere ogni dubbio sulla non comparabilità delle situazioni — il
fondo per le liquidazioni erogate dall'E.n.p.a.s. è costituito da
contributi erogati dallo Stato, con obbligo di rivalsa per una
quota imputabile al pubblico dipendente.
Già l'art. 1 d.p.r. 5 giugno 1965 n. 759 stabili infatti che dal
1° marzo 1966 il contributo a carico di ogni iscritto al fondo di
previdenza fosse dovuto nella misura del 5,10 % di cui il 2,50 %
a carico dell'iscritto e la parte restante a carico dell'amministra
zione di appartenenza. Stabili, inoltre, che a partire dal 1°
gennaio 1968 e successivamente ogni due anni il contributo fosse
maggiorato, a carico dell'amministrazione, in ragione dello 0,50 %
fino a raggiungere l'aliquota complessivamente dell'8,10 %. In
seguito, l'art. 37 d.p.r. n. 1092 del 1973 determinò la scala
crescente dei contributi previdenziali obbligatori in favore del
l'E.n.p.a.s., nella misura del 7,10 % della base contributiva sino al
31 dicembre 1975, del 7,60% sino al 31 dicembre 1977, del
l'8,10 % sino al 31 dicembre 1983. Infine, l'art. 18 1. 20 marzo 1980
n. 75 elevò detti contributi dal 1° gennaio 1984 al 9,60%. La
rivalsa a carico dell'iscritto all'E.n.p.a.s. sulle somme, sempre direttamente corisposte dalla p.a., invece, è sempre rimasta fissa
alla percentuale del 2,50 % della base imponibile.
La diversità delle situazioni legittima quindi il differente regime tributario e rientra nella discrezionalità del legislatore prevedere
per i premi assicurativi e per i capitali percepiti in relazione a
contratti di assicurazione sulla vita, forme di totale o parziale esenzione fiscale, quali mezzi d'incentivazione della previdenza
volontaria, secondo i propri indirizzi di politica legislativa. 14. - Le ordinanze di rimessione prospettano infine, come si è
detto, questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli art. 3 e 53 Cost., dell'art. 1 1. 26 settembre 1985 n. 482 — nella
parte in cui ha modificato l'art. 12, lett. e), d.p.r. 29 settembre
1973 n. 597 — 2 e 4 della stessa legge, in quanto applicabili all'indennità di buonuscita corrisposta dall'E.n.p.a.s., nonché del
l'art. 46 d.p.r. n. 597 del 1973, sotto il profilo che illegittimamen te sottoporrebbero le indennità di buonuscita erogate dal
l'E.n.p.a.s. allo stesso trattamento tributario delle indennità di fine
rapporto dovute in relazione al contratto di lavoro privato, nonostante che solo le indennità di buonuscita sono formate
anche con il contributo degli aventi diritto.
La censura è inconferente rispetto all'art. 46 d.p.r. n. 597 del
1973 che, come si è già detto, non attiene alle modalità di
tassazione delle indennità di fine rapporto e all'art. 1 1. n. 482 del
1985, nella parte in cui ha modificato l'art. 12, lett. e), d.p.r. n.
597 del 1973, il quale — come pure si è visto — si limita a
disporre che le indennità di fine rapporto sono soggette a
tassazione separata. 15. - La questione è invece fondata, nei limiti che si diranno,
per quanto attiene agli art. 2 e 4, 1° e 4° comma, 1. n. 482 del
1985. Infatti l'elemento indicato nelle ordinanze di rimessione (la contribuzione degli aventi diritto) è necessariamente rilevante al
fine di assicurare il principio del rispetto della capacità contribu
tiva, giacché non appare razionale la tassazione anche di quella parte delle indennità di buonuscita erogate dall'E-n.p.a.s. percepite
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2075 PARTE PRIMA 2076
in correlazione ai contributi versati dallo Stato che gravano sui
dipendenti statali.
Invero, se la capacità contributiva deve essere intesa come
idoneità soggettiva all'obbligazione tributaria (cfr. sent. 15 feb
braio 1984, n. 25, cit.), ne deriva che il legislatore, insieme
all'osservanza del principio di non imporre prestazioni che siano in contrasto con le garanzie fondamentali sancite dalla Costitu
zione a tutela della persona, è tenuto a commisurare il carico
fiscale in modo tale da colpire effettive manifestazioni di capacità contributiva. Nel caso in esame, invece, ha sottoposto ad imposi zione somme affluite al fondo gestito dall'E.n.p.a.s., in base a
contribuzioni, gravanti sul dipendente e corrisposte diretta
mente dallo Stato. Si che, lo Stato, verrebbe a colpire col tributo
un esborso da se stesso effettuato (ma con incidenza diretta sul
pubblico dipendente a seguito della rivalsa), trascurando anche la
circostanza che le somme versate sono affidate alla esclusiva ed
autonoma gestione di un apposito ente con relativi redditi ed
incrementi, dei quali nessun meccanismo assicura i favorevoli
riflessi sul soggetto inciso al momento della percezione della
indennità di liquidazione. Per la parte afferente in via virtuale a tale contribuzione è
illogico e arbitrario ritenere che l'indennità di buonuscita si
profili come reddito, quale che sia la concezione economica e
giuridica che al riguardo si segue. Il che priva di fondamento il
rilievo che il vizio impositivo potrebbe essere superato dalla
circostanza che non è prevista alcuna tassazione né al momento
del versamento dei contributi (che, come si è detto, viene
effettuato direttamente dallo Stato all'E.n.p.a.s., in esecuzione di
una obbligazione ex lege, sia pure con diritto a rivalsa) né in
quello della percezione dell'indennità.
Ne deriva che le indennità di buonuscita erogate dall'E.n.p.a.s. limitatamente alla quota relativa ai versamenti a carico del
dipendente, non dovevano essere sottoposte a tassazione. L'impo sizione di essa, infatti, ha leso il principio di capacità contributi
va; tenuto anche conto che l'art. 53, 1° comma, Cost, va
interpretato nel senso che a situazioni uguali debbono corrispon dere uguali regimi impositivi e, correlativamente, a situazioni
diverse un trattamento tributario disuguale: cosicché il legislatore avrebbe potuto e potrebbe legittimamente trattare in modo unita
rio il regime tributario dell'indennità di fine rapporto, soltanto in
assenza, tra le diverse indennità, di sostanziali elementi di diffe
renziazione. La circostanza che le indennità erogate dall'E.n.p.a.s. siano formate anche con contributi del pubblico dipendente, oltre
che dello Stato, è un elemento che conferisce ad esse struttura e
fisionomia differenziate, che dovevano essere congruamente valu
tate e trattate dal punto di vista fiscale.
Al fine di ricondurre il sistema di tassazione previsto dagli art.
2 e 4, 1° e 4° comma, 1. n. 482 del 1985 al rispetto di quel
principio, è dunque indispensabile tener conto, nella determina
zione dell'imponibile, anche dell'ammontare dei contributi gravan ti sul pubblico dipendente.
Ancorché — come sopra si è visto — trattasi di situazioni
giuridicamente differenziate, non è inopportuno osservare, al ri
guardo, che nella tassazione delle indennità percepite in relazio
ne ai contratti di assicurazione sulla vita, il legislatore — con
un'operazione impositiva meritevole di considerazione — ha di
sposto la detrazione dall'imponibile del coacervo dei premi versati
(art. 6 1. n. 482 del 1985), sebbene (a differenza di quello che
avviene per i contributi previdenziali versati all'E.n.p.a.s.), tali
premi, per meccanismi collegati al rapporto assicurativo, siano
protetti e accresciuti con particolare efficacia (ad es. cointeressen
za all'operazione di investimento della riserva matematica, ecc.). Tenuto conto del contributo del lavoratore, deve, dunque,
ritenersi che, per ricondurre il sistema di tassazione stabilito dagli art. 2 e 4, 1° e 4° comma, 1. n. 482 del 1985 al rispetto dell'art.
53 Cost., è indispensabile che l'imponibile ivi previsto sia prece duto anche dalla detrazione di una somma pari alla percentuale dell'indennità di buonuscita corrispondente al rapporto esistente
(alla data del collocamento a riposo) tra il contributo del 2,50 %
posto a carico del pubblico dipendente e l'aliquota complessiva del contributo previdenziale obbligatorio versato al fondo di
previdenza dell'E.n.p.a.s. Per questi motivi, la Corte costituzionale, riuniti i giudizi
indicati in epigrafe, dichiara inammissibile la questione di legitti
mità costituzionale dell'art. 23, 2° comma, d.p.r. 29 settembre
1973 n. 600 (disposizioni comuni in materia di accertamento delle
imposte sui redditi) sollevate dalla Commissione tributaria di II
grado di Matera, con l'ordinanza di cui in epigrafe, in riferimento
agli art. 3, 38 e 53 Cost.; dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 1 1. 26 settembre 1985 n. 482
(modificazioni del trattamento tributario delle indennità di fine
rapporto e dei capitali corrisposti in dipendenza di contratti di
assicurazione sulla vita), nella parte in cui ha modificato l'art. 13
d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597, sollevata dalla Corte di cassazio
ne, con l'ordinanza di cui in epigrafe, in riferimento agli art. 3, 38 e 53 Cost.; dichiara l'illegittimità costituzionale degli art. 2 e
4, 1° e 4° comma, 1. 26 settembre 1985 n. 482, nella parte in cui non prevedono che dall'imponibile da assoggettare ad imposta vada detratta anche una somma pari alla percentuale dell'indenni
tà di buonuscita (di cui all'art. 3 d.p.r. n. 1032 del 1973),
corrispondente al rapporto esistente alla data del collocamento a
riposo tra il contributo del 2,50 % posto a carico del pubblico dipendente e l'aliquota complessiva del contributo previdenziale obbligatorio versato al fondo di previdenza dell'E.n.p.a.s.; dichia ra non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.
12, lett. e) , d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597, nel testo di cui alla 1. 26 settembre 1985 n. 482, sollevata dalla Commissione tributa ria di II grado di Matera con l'ordinanza di cui in epigrafe in
riferimento all'art. 76 Cost.; dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale dell'art. 1 1. 26 settembre 1985 n. 482, nella parte in cui modifica l'art. 12, lett. e), d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597 e dell'art. 46 d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597, sollevate dalla Commissione tributaria di II grado di Matera e dalla Corte di cassazione, con le ordinanze di cui in epigrafe, in
riferimento agli art. 3, 38 e 53 Cost.
II
Svolgimento del processo. — L'E.n.p.a.s. liquidava a favore del
dott. Vinicio Gerì, magistrato collocato a riposo nel 1981, l'in
dennità di buonuscita, operando la ritenuta a titolo di i.r.p.e.f. Assumendo l'illegittimità totale della ritenuta, per intassabilità del
cespite, il dott. Geri chiedeva all'intendenza di finanza di Roma
il rimborso dell'i.r.p.e.f. trattenuta e — nel silenzio dell'intenden
za — proponeva ricorso alla commissione tributaria di primo
grado, che l'accoglieva.
L'intendenza di finanza proponeva appello, sostenendo l'assog
gettamento ad i.r.p.e.f. dell'indennità di buonuscita. Il Geri ecce
piva l'inammissibilità dell'appello, per tardività, in quanto la
decisione della commissione di primo grado era stata comunicata
all'ufficio il 18 marzo 1983 e l'appello era stato proposto il 18
maggio 1983, come risultava dalla data apposta dalla segreteria della commisione di primo grado nella copia a lui notificata il
18 maggio 1983, mentre non poteva aver valore la data del 16
maggio 1983 risultante pure dal timbro apposto sulle altre copie
dell'impugnazione esistenti presso la segreteria della commissione
stessa, in quanto nel contrasto fra le due date doveva darsi la
preferenza a quella apposta sulla copia a lui notificata, per il
principio della ricettività dell'impugnazione nei riguardi dell'ap
pellato. La commissione tributaria di secondo grado accoglieva l'ecce
zione di decadenza dall'impugnazione, con decisione del 29 set tembre 1983.
L'ufficio finanziario proponeva ricorso alla Commissione cen
trale, deducendo l'erroneità della decisione in ordine all'inammis sibilità dell'impugnazione per decadenza ed insistendo, nel me
rito, sulla legittimità della pretesa fiscale. Il Geri resisteva con
controricorso, sostenendo l'esattezza della decisione d'appello circa l'inammissibilità dell'appello ed insistendo, nel merito, nella richiesta di dichiarare intassabile l'indennità di buonuscita.
La Commissione tributaria centrale, con decisione n. 7554
depositata il 14 luglio 1984 (Foro it., 1985, III, 82), rigettava il ricorso dell'intendenza di finanza nel merito e — in riforma della decisione impugnata — confermava la decisione di primo grado.
Osservava, in ordine alla questione processuale, che l'art. 22
d.p.r. 26 ottobre 1982 n. 636 regola due fasi del processo di
impugnazione: una propria di colui che propone l'impugnazione, l'altra affidata invece all'attività della segreteria della commissio ne.
Soltanto la prima fase si deve svolgere nel termine di legge (sessanta giorni di cui al 1° comma) per cui, qualora nel sessantesimo giorno avvenga la ricezione dell'impugnazione da
parte della segreteria della commissione, la successiva attività della segreteria può esplicarsi successivamente. Inoltre, l'unica data rilevante ai fini dell'impugnazione è quella certificata al momento della consegna o ricezione dell'impugnazione, per cui sarebbe ininfluente una diversa data che apparisse sull'atto notifi cato alla controparte; e nel caso la data di ricezione dell'atto era
quella apposta sull'atto stesso consegnato alla segreteria (16 maggio 1983), per cui l'appello era tempestivo.
Il Foro Italiano — 1986.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
In ordine al merito, rilevava: per aversi tassazione dell'indenni
tà di buonuscita con l'i.r.p.e.f. sarebbe necessario che essa costi
tuisca reddito, ai sensi dell'art. 1 d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597 e dell'art. 12, 1" parte, dello stesso d.p.r., e cioè un incremento di ricchezza che dà luogo ad una maggiore capacità contributiva) in alcuni casi il legislatore stabilisce l'esenzione fiscale di alcuni
introiti, in quanto esclude per essi il carattere di reddito come nelle ipotesi di quanto corrisposto dallo Stato o da altri enti
pubblici a titolo assistenziale e dei capitali percepiti in dipenden za di contratti di assicurazione sulla vita (art. 34 d.p.r. n. 597 e succ. mod.); nei suddetti casi la ratio della norma sta nel fatto che difetta la natura di reddito, nell'un caso per lo stato di
bisogno che ha originato l'elargizione pubblica, nell'altro per il
carattere previdenziale del contratto di asssicurazione, avente a base il rischio-vita assicurato, situazione che esclude una maggio re capacità contributiva del soggetto; le caratteristiche dei due
introiti sopra esaminati si riscontrano puntualmente nell'indennità di buonuscita corrisposta ai sensi del d.p.r. 29 dicembre 1973 n.
1032, e cioè quella dell'assistenzialità e del capitale percepito in
dipendenza di contratto di assicurazione, perché: a) l'indennità è formata in parte con i contributi del dipendente e con quelli corrisposti dallo Stato; ha la finalità di assicurare al dipendente un esborso in denaro in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, quando si riducono gli introiti; il fine assistenziale è
evidenziato dall'art. 48, 2° comma, d.p.r. cit., che dichiara non costituire reddito l'importo dei contributi versati; b) l'indennità
spetta al dipendente statale solo se è in vita al momento della cessazione del servizio; se tale rapporto si interrompe per la sua
morte, l'indennità non è acquisita al suo patrimonio, e per tale fatto non diviene trasferibile mortis causa, ma è corrisposta a determinati congiunti che abbiano diritto a pensione di riversibili tà (art. 5 t.u. 29 dicembre 1973 n. 1032) e si trovino cioè in situazione di bisogno; inoltre l'indennità spetta solo se il dipen dente ha diritto a pensione. Da ciò si arguisce che l'indennità ha non solo carattere assistenziale, ma anche di capitale riscosso per l'avveramento di un evento futuro ed incerto (la cessazione dal
servizio con diritto a pensione e non per causa di morte), evidenziando una caratteristica propria del contratto di assicura zione sulla vita; diverso è invece il regolamento dell'indennità di fine lavoro privato, regolata dal codice civile che viene corrisposta dal datore di lavoro a suo totale carico; di essa, sia pure con alcu ne limitazioni, il lavoratore può disporre con testamento (art. 2122
c.c.; v. sent. Corte cost. 19 gennaio 1972, n. 8, id., 1972, I, 275); essa presenta indubbie caratteristiche di retribuzione differita e come tale è vero reddito; invece, non avendo l'indennità di buonuscita corrisposta ai dipendenti statali natura di reddito, non
può essere soggetta a tassazione i.r.p.e.f.
Avverso la suddetta sentenza l'amministrazione finanziaria ha
proposto ricorso per cassazione. Il Geri ha resistito con controri corso ed ha proposto ricorso incidentale. La causa, fissata all'u dienza del 25 settembre 1985, è stata rinviata con ordinanza
(motivata dalla già avvenuta promulgazione della legge di modifi ca della materia, pubblicata poi nella G. U. 30 settembre 1985) ed è stata rifissata all'odierna udienza. Le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione. — 1. - I ricorsi devono essere riuniti
(art. 335 c.p.c.). Secondo l'impostazione del ricorrente incidentale è necessario
esaminare preliminarmente il suo ricorso, perché di carattere assorbente rispetto a quello principale, in quanto attinente ad una
questione pregiudiziale di rito. Tale impostazione non è conforme alla più recente giurisprudenza di questa corte, secondo la quale il principio in forza del quale il ricorso incidentale della parte totalmente vittoriosa nel merito (sia esso condizionato o non) deve essere esaminato in via prioritaria quando investe una
questione pregiudiziale rilevabile d'ufficio (quale è quella dell'e
saurimento della funzione giurisdizionale in un momento addirit
tura anteriore alla emanazione della sentenza impugnata, per tardività dell'appello e conseguente formazione del giudicato for
male interno) non è applicabile quando la questione pregiudiziale, essendo stata affrontata e decisa dal giudice del merito (come avvenuto nel presente caso) è rilevabile in Cassazione non più
d'ufficio, ma soltanto in forza dell'impugnazione proposta. In
questa situazione, infatti, il riesame della questione medesima
postula la proposizione di un'impugnazione ammissibile pure sotto il profilo dell'interesse e, pertanto, è consentita soltanto nel
caso di accoglimento del ricorso principale avverso la decisione
di merito (cfr. per tutte le altre conf., sez. un. 10 febbraio 1982, n. 832, id., 1982, I, 379; 8 marzo 1983, n. 1693, id., Rep. 1983,
voce Cassazione civile, n. 193; sez. un. 22 maggio 1985, n. 3104;
id., Rep. 1985, voce cit., n. 107; 3 giugno 1985, n. 3306, ibid., n.
108). Si è, altresì, precisato che se il ricorso incidentale è condiziona
to è necessaria una preventiva delibazione del fondamento del
ricorso principale, che consente il riesame della questione pregiu
diziale solo in caso di esito positivo di tale delibazione (sez.
un. 15 ottobre 1983, n. 6051, id., Rep. 1983, voce cit., 197).
2. - Con il ricorso principale, l'amministrazione finanziaria
deduce la violazione e falsa applicazione degli art. 1, 12, lett. e),
e 46, 2° comma, d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597, oltre che degli
art. 1 ss. d.p.r. 29 settembre (rectius: dicembre) 1973 n. 1032, in
relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., osservando che l'art. 46, 2°
comma, d.p.r. n. 597 dispone che costituiscono reddito (e sono
soggetti a tassazione separata, secondo l'art. 12) le indennità ed
ogni altra somma percepita una volta tanto per la cessazione di
rapporti di lavoro dipendente e che — poiché l'indennità di
buonuscita a cui il dipendente statale ha diritto alla cessazione
del servizio (art. 3 d.p.r. 1032/73) è genericamente collegata al
pregresso rapporto d'impiego con la p.a. — è indubitabile che
essa vada ricompresa, come somma percepita una tantum per la
cessazione di un rapporto di lavoro dipendente fra i redditi di
lavoro imponibili ai fini dell'i.r.p.e.f.
In ordine agli argomenti contrari adottati dalla Commissione
tributaria centrale, l'amministrazione osserva che il fine previden ziale dell'indennità di buonuscita non osta alla sua imponibilità, dal momento che a norma degli art. 12 e 46 d.p.r. n. 597 sono
imponibili — come reddito di lavoro — anche le indennità di
previdenza, specificamente menzionate accanto a quelle di anzia
nità e di preavviso e che, sia pure per via dell'assimilazione posta della norma, deve convenirsi che il fine di previdenza (o assi
stenziale, secondo la terminologia dell'impugnata decisione) non
basta a sottrarre la buonuscita E.n.p.a.s. dall'orbita tributaria; e
che, inoltre, la stessa indennità di anzianità (giudicata dalla
Commissione centrale correttamente soggetta ad imposta) persegue finalità previdenziali.
L'amministrazione deduce che neppure può ritenersi esatto — e
men che mai capace di giustificare il confronto con il capitale assicurativo — il rilievo secondo cui la buonuscita sarebbe in
parte formata dai contributi versati dallo stesso dipendente,
perché il contributo obbligatorio a cui è tenuto, in via di parziale
rivalsa, il dipendente statale concorre ad alimentare il fondo di
previdenza e cioè la massa patrimoniale autonoma a cui fa carico
la buonuscita, ma non refluisce in un monte nominativo di
pertinenza del singolo iscritto; ne segue altresì che, per l'assenza
di una relazione di sinallagmaticità fra contributi a carico dell'as
sistito ed erogazione dell'indennità (arg. dall'ultimo comma del
l'art. 37 d.p.r. n. 1032/73) non è correttamente proposto neppure il parallelismo fra buonuscita e capitale assicurativo.
D'altra parte, l'argomento desunto dalla prevista esenzione del
capitale assicurativo è inconsistente, perché l'esenzione è un'e
spressa sottrazione all'orbita tributaria di una fattispecie che, di
versamente, vi ricadrebbe.
In ordine alla diversità di regime per il caso di morte del
dipendente in attività di servizio, rispetto all'indennità di anziani
tà, l'amministrazione osserva che le più accentuate finalità previ denziali evidenziate dall'attribuzione della buonuscita ai più stret ti congiunti del dipendente non tolgono all'indennità il carattere
di prestazione collegata alla prestazione dell'attività lavorativa ed
integratrice del trattamento di quiescenza, complessivamente risa
lente, come a sua causa, al pregresso rapporto di impiego. È questa — conclude l'amministrazione — la connotazione
essenziale ed unicamente rilevante dell'indennità di buonuscita, fermo rimanendo — secondo l'art. 2, n. 19, lett. b) della
legge-delega n. 825/71 — che il diritto alla stessa si rende attuale
all'atto della cessazione del rapporto, ancorché non per tale solo
fatto (richiedendosi anche l'avvenuto conseguimento del diritto
alla pensione). Nell'espressione « per » di cui all'art. 12 d.p.r.
597/73 deve vedersi tradotta quella della legge-delega (all'atto)
con la conseguenza che l'ulteriore presupposto del diritto alla
buonuscita non vale a fare di questa una prestazione svincolata
dall'attività lavorativa, della quale, in ultima analisi, costituisce
remunerazione differita, cosi da integrare per il percipiente un
reddito di lavoro soggetto ad i.r.p.e.f.
3. - Il collegio rileva che dopo la proposizione del ricorso è
entrata in vigore la 1. 26 settembre 1985 n. 482 ed il primo
problema è quello della sua applicabilità al presente giudizio. La
risposta deve essere positiva, in base all'espresso dettato del 1°
comma dell'art. 4. Né si può obiettare che il 5° comma dello
Il Foro Italiano — 1986.
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2079 PARTE PRIMA 2080
stesso art. 4 dispone: « la riliquidazione dell'imposta ai sensi dei
commi precedenti deve essere richiesta » per inferirne che anche
l'applicabilità in giudizio della nuova legge è condizionata a detta
richiesta. Invero il 1° comma riguarda anche altre ipotesi (oltre che quella della pendenza di giudizi) e — mentre la dizione
generale « deve » riguarda le suddette altre ipotesi — per il
caso di giudizi « ritualmente promossi e pendenti » l'ultimo inciso
del 5° comma dispone in modo più specifico — e quindi escludendo la dizione generale — che l'istanza può (non deve) essere presentata, e comporta la rinuncia ai giudizi. A parte il
singolare risultato a cui si perverrebbe con l'opposta tesi — per la verità non sostenuta dalle parti, ma dal p.m. — in quanto, non appena presentata l'istanza il giudizio si concluderebbe con
una declaratoria di estinzione e non con un'applicazione della
nuova normativa, è chiaro che la legge conferisce alla parte
privata la scelta fra il continuarlo e farlo estinguere. Nel primo caso, il giudizio resta fermo con tutto il suo
contenuto, in relazione alle domande proposte ed alle questioni sollevate (che possono andare dalla richiesta dell'assoluta intassa
bilità, anche a tenore della nuova legge, alla questione di
illegittimità costituzionale di quest'ultima; alle questioni proces suali di carattere preclusivo, ecc.) e comprende anche la possibili tà che il giudice riconosca, in base alla nuova normativa, la
necessità di verificare la legittimità del rifiuto originario dell'am
ministrazione di restituire la ritenuta d'imposta operata a suo
tempo dall'E.n.p.a.s., con conseguente modifica delle decisioni
diverse, aventi come contenuto sia la dichiarazione di assoluta e
totale illegittimità del rifiuto, sia la conferma della legittimità di
esso. Invece, il giudice dovrebbe dichiarare l'obbligo dell'ammi
nistrazione di riliquidare l'imposta, facendo salva in ogni caso
l'esclusione dell'applicazione di una maggiore imposta, rispetto a
quella già ritenuta.
Nel secondo caso (presentazione dell'istanza) si estingue il
giudizio per rinunzia e si dà luogo alla riliquidazione in via
amministrativa, salvi i rimedi autonomi contro tale atto che
potranno essere esperibili. Poiché la scelta è devoluta alla volontà delle parti, nonostante
che per essa sia posto il medesimo termine del 28 febbraio 1986, e poiché essa è valutata dal giudice in termini di « rinuncia » al
giudizio, dato atto che l'istanza che comporterebbe la rinuncia
non esiste, si deve procedere all'esame della controversia.
Nelle considerazioni che precedono è contenuta la risposta
negativa alla richiesta della difesa dell'amministrazione di rinviare
la trattazione del ricorso a data successiva al 28 febbraio 1986,
pur dovendosi dare atto che la parte interessata conserva il
proprio diritto di scelta fino al termine stabilito, con le conse
guenze di legge; ma, se non presenterà l'istanza, non verrà
pregiudicato comunque il suo diritto alla riliquidazione ai sensi
della nuova legge — se ed in quanto esistente — sotto forma del
riconoscimento giudiziale di un diritto minore rispetto a quello richiesto originariamente (diritto derivante da ius superveniens
applicabile d'ufficio, giusta il testuale disposto del 1° comma
dell'art. 4 che rinvia anche al 4° comma, per cui è fuori luogo la
tematica comune dei rapporti fra una domanda giudiziale di
totale esclusione dell'imposta e la possibilità di riconoscere in
giudizio una minore imposta, senza espressa domanda subordina
ta).
4. - Prima di esaminare la nuova normativa, occorre darsi carico
di un'obiezione illustrata nella discussione orale dalla difesa del
Geri, secondo cui — poiché il ricorso è impostato sulla tesi della
natura retributiva dell'indennità E.n.p.a.s. — una volta dimostrata
la fallacia della tesi, perché la giurisprudenza della Corte costitu
zionale, di questa Corte di cassazione e del Consiglio di Stato ne
hanno sempre ritenuto la natura previdenziale (affermata anche
dalla Commissione centrale nella decisione impugnata) non vi
dovrebbe esser luogo ad alcuna altra questione, dovendosi ritene
re passata in giudicato quella decisione. L'assunto — ad avviso
del collegio — è infondato, perché (a parte il fatto che l'ammi
nistrazione sostiene la natura retributiva, ma anche spiccatamente
previdenziale dell'indennità in esame) la tesi del ricorso è quella
che la legge fiscale testualmente la ricomprende fra i « redditi »
imponibili con l'i.r.p.e.f., per cui tutte le successive sono argo
mentazioni intese a superare l'assunto di una sua esclusione (o
esenzione, concetto, quest'ultimo, ovviamente diverso dal primo)
dall'imposizione. Il collegio ritiene fermamente — come sarà
chiarito — che le leggi fiscali succedutesi nel tempo abbiano
testualmente ricompreso l'indennità nell'ambito dell'imposizione
sul reddito e che, a tale fine, non sia necessario esaminare
funditus il carattere dell'indennità stessa, come pure la questione
se essa possa qualificarsi « reddito » o capitale indennitario, ecc.
Questo esame più penetrante è necessario soltanto allo scopo di
deliberare — anche d'ufficio — la non manifesta infondatezza
delle questioni di legittimità costituzionale della normativa, sia
pure strumentalmente preordinate al rigetto del ricorso della
finanza ed all'accoglimento della domanda iniziale del Geri;
deliberazione che ha come punto fermo di partenza l'interpreta zione della legge fiscale nel senso sostenuto dalla ricorrente
(ricomprensione dell'indennità nell'imposizione i.r.p.e.f.), mentre
tutto il resto del ricorso costituisce argomentazione contraria
all'impostazione data al problema dalla Commissione centrale; ma
poiché tale impostazione è metodo logicamente errato, non è
neppure necessario esaminare le argomentazioni rispettive, dato
che l'interpretazione della legge invocata a sostegno di qualsiasi ricorso per violazione di legge può essere compiuta dalla Supre ma corte d'ufficio, purché nei limiti del motivo enunciato.
È poi evidente che deve applicarsi d'ufficio lo ius superveniens
giusta giurisprudenza pacifica (Cass. 8 settembre 1978, n. 4058,
id., Rep. 1978, voce cit., n. 76; 6 luglio 1978, n. 3348, id., 1979,
I, 137) con particolare riguardo alle norme dichiarate espressa mente applicabili ai giudizi in corso (fra le altre, v. Cass. 1°
settembre 1982, n. 4780, id., Rep. 1982, voce Contratti agrari, n.
193, in tema di nuove norme sui contratti agrari) quali sono
quelle della 1. n. 482 (v. Corte cost., ord. 17 dicembre 1985, n.
351, id., 1986, I, 1156, nonché il paragrafo precedente).
5. - Di fronte ad una legislazione fiscale attuativa di una vasta
riforma, non si può procedere all'interpretazione fissando una
nozione di « reddito » con riguardo all'ipotesi più evidente (retri buzione in corrispettivo di un lavoro prestato) e negare che il
legislatore abbia voluto assimilare a questa ipotesi altre che —
nell'ambito di quel vasto disegno — ha ritenuto di sottoporre al
medesimo trattamento tributario (sia pure con i correttivi della
tassazione separata e quelli stabiliti dal precedente testo dell'art.
14 d.p.r. n. 597). Anche ammesso che l'indennità di cui è causa
non sia « retribuzione differita », questo elemento non ha alcun
valore decisivo, perché essa potrebbe costituire reddito a diverso
titolo. Ed anche ammesso che non sia reddito, ma « capitale », niente vieterebbe al legislatore di sottoporla a tassazione sul
reddito (salvi i controlli di legittimità costituzionale).
Esattamente la difesa dell'amministrazione osserva che i « capi tali » riscossi in dipendenza di un'assicurazione sulla vita non
erano escludibili dall'imposizione in base al testo originario del
d.p.r. n. 597, ma furono « esentati » soltanto (significativamente al
di fuori della delega di cui alla 1. n. 825 del 1971) con la 1. 13
aprile 1977 n. 114, art. 15 (con effetto, ex art. 23, dal 1° gennaio 1974 e cioè dall'entrata in vigore del d.p.r. n. 597) con norma di
esenzione aggiunta all'art. 34 d.p.r. n. 601, che presuppone l'astratta imponibilità. E del resto, nell'ambito del medesimo art.
12, lett. e), d.p.r. n. 597 erano fin dall'inizio incluse nell'imposi zione le somme derivanti da capitalizzazioni di pensioni.
Si vuol dire che è scorretto partire da un'ipotesi di esenzione,
per ritenere esclusa dalla tassazione un'altra ipotesi simile;
perché, anzi, la mancanza di un'analoga norma agevolativa per
questa seconda ipotesi è la più chiara dimostrazione della sua
sottoposizione ad imposta, dato che le norme agevolative o di
esenzione non sono suscettibili di interpretazione analogica. La verità è che il legislatore delegante del 1971 e quello
delegato del 1973 non sono partiti da una nozione di reddito
delle persone fisiche in termini unitari ed omogenei, ma si sono
limitati ad attribuire ad esso il significato di un'unità onnicom
prensiva (risultante della somma di singoli cespiti) e cioè di una
base imponibile che comprende ogni entità o ricchezza nuova che
aumenti la capacità contributiva. Ne deriva l'impossibilità di dare
una nozione legislativa di reddito in termini omogenei, perché il
criterio per la determinazione del presupposto dell'i.r.p.e.f. consi
ste nell'imputabilità al soggetto di redditi provenienti da qualsiasi
fonte, mentre manca la considerazione unitaria del reddito com
plessivo e la legge enumera le componenti reddituali. Ma neppure nell'ambito di ogni categoria vengono utilizzati criteri omogenei,
perché è necessario esaminare il contenuto delle norme che
individuano le componenti positive e negative di ogni categoria di reddito (che concorre a formare quello complessivo).
Una significativa riprova del modo di procedere del legislatore è data da quel passo della relazione al disegno di legge-delega dove si dice che la nozione di reddito, anche nella futura
legislazione, continuerà ad essere conforme alla nozione econo
mica ed ai criteri di cui al t.u. n. 645 del 1958, ma si dice
contestualmente che si chiarisce che concorrono a formare il
reddito complessivo anche le sopravvenienze attive e le plusva
lenze, per evitare dubbi insorti circa il carattere di reddito di tali
Il Foro Italiano — 1986.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
entità, e per evitare altresì che, in mancanza di una generale
imposizione sugli incrementi patrimoniali, le suddette si trovas sero esenti da ogni imposizione.
Il collegio osserva che la medesima preoccupazione di renderle tassabili con l'unica forma di imposizione prevista (quella sul
reddito) in mancanza della previsione di una generale imposta patrimoniale, potrebbe avere avuto il suo peso nella disciplina della tassabilità di altre entità che — pur non essendo puri « redditi » — sono ricchezze nuove, determinando la disciplina fiscale delle indennità di fine rapporto di lavoro, compresa quella di cui è causa.
La differenza specifica interna fra le varie indennità non è
parsa al legislatore di tanto peso da dettare una disciplina differenziata, secondo un modo di procedere di cui si deve
prendere atto, in quanto l'unico controllo possibile è quello della costituzionalità della disciplina concreta, per ogni caso. Invero, il carattere enumeratorio delle singole componenti dei redditi risulta dalle formule usate (« costituiscono reddito di lavoro dipendente anche le pensioni o gli assegni ad esse equiparati o le indennità e le altre somme di cui alla Iett. e dell'art. 12»: cosi l'art. 46
d.p.r. n. 597, si vedano poi le varie « assimilazioni » di cui all'art.
47) e rende evidente che la legge ricomprende in un'unica
categoria un tipo di reddito nel quale si riscontrano indefettibil
mente le caratteristiche proprie della nozione, anche in senso
economico, del reddito considerato (per esempio: la retribuzione,
per il reddito di lavoro dipendente) e poi estende la medesima
disciplina ad altre forme di ricchezza che possono comprendersi in forza di più o meno accentuati elementi di identità (o anche di sola assimilazione) nella stessa categoria.
La determinazione dei requisiti necessari per l'appartenenza alla
categoria, con riguardo al tipo fondamentale di reddito che vi
appartiene (nella specie: la retribuzione, ai sensi del 1° comma
dell'art. 46 d.p.r. n. 797) non svolge un ruolo decisivo per
interpretare la legge allo scopo di conoscere se un'altra ricchezza è sottoposta alla medesima disciplina, quando — come si vedrà — l'interpretazione della legge è per altri versi univoca nel senso
che la suddetta altra ricchezza è compresa nella categoria consi derata. Infatti, qualunque rilievo delle diversità rispetto al tipo fondamentale (od anche altri tipi assimilati: per esempio, le indennità ex art. 2120 c.c.) non potrebbe mai condurre ad
un'interpretazione abrogante della norma (quale è quella che ha
compiuto la Commissione centrale).
Sulla base delle suddette premesse, è agevole interpretare la
normativa vigente, in virtù della quale la lett. e) dell'art. 12 d.p.r. n. 597 è sostituita dalla seguente: « trattamento di fine rapporto di cui all'art. 2120 c.c. indennità equipollenti, comunque denomi
nate, commisurate alla durata dei rapporti di lavoro dipenden te ...; altre indennità e somme percepite una volta tanto in
dipendenza della cessazione dei predetti rapporti ».
L'indennità di buonuscita è pari a tanti dodicesimi della base contributiva di cui all'art. 38 d.p.r. n. 1032 del 1973 quanti sono
gli anni di servizio computabili ai sensi del successivo capo III
(art. 3, 2° comma, d.p.r. n. 1032) ed essa è riconosciuta al
dipendente statale che cessa per qualunque causa dal servizio,
purché sia stato iscritto per almeno un anno al fondo di
previdenza (art. 7 1. 29 aprile 1976 n. 177, modificativo dell'art.
3, 1° comma, del precedente testo). Ricorrono entrambi i requisiti posti dall'art. 12, lett. e), novella
ta: l'equipollenza dell'indennità (a prescindere dalla sua denomi
nazione di buonuscita) ad un trattamento di fine rapporto, perché la cessazione dal servizio è fondamento del diritto all'indennità; la sua commisurazione alla durata del rapporto.
D'altronde, non è seriamente discutibile che l'indennità
E.n.p.a.s. sia ricompresa nella normativa fiscale, ove si tenga conto: a) che non è possibile dubitare che il legislatore abbia
tenuto presente l'esistenza del vasto contenzioso in materia, per cui una supposta volontà di escludere l'indennità E.n.p.a.s. dalla
tassazione i.r.p.e.f. avrebbe dovuto essere espressa esplicitamente; b) che è fuori della realtà anche di attribuire al legislatore del
1985 un'intenzione diversa e cioè quella di ricomprendere (e con
effetto retroattivo anche sui giudizi pendenti, nonché sulle inden
nità riscosse negli anni passati, ed in particolare dal 1980, ex art.
5), nella tassazione l'indennità predetta, che invece precedente mente sarebbe stata esclusa dall'i.r.p.e.f.
Tale intento « peggiorativo » non sarebbe giustificato proprio dalle ben note vicende in cui si è inserita la legge, la quale —
sul presupposto di una pacifica imponibilità col tributo personale dell'indennità E.n.p.a.s. — ha voluto rispondere ai fondatissimi
sospetti di incostituzionalità della precedente disciplina, anche se
tali sospetti investivano una materia più vasta (anche, ma non
solo, le indennità di anzianità ex art. 2120 c.c.; cfr. Corte cost.,
ord. 20 giugno 1984, n. 179, id., 1984, 1, 1761). Che la nuova
legge sia riuscita ad evitare i dubbi di incostituzionalità è un
altro quesito (a cui, secondo questa corte, deve darsi risposta
negativa: v. ordinanza emanata in questa udienza nel ricorso n.
589/85); ma che la disciplina dell'imponibilità sia nel solco della
continuità emerge, in conclusione, dalla stessa efficacia retroattiva
della nuova legge, che ha voluto modificare il quantum e non
1 'an dell'imposizione. Né si potrebbe dire, in contrario, che il testo originario della
lett. e) dell'art. 12 era formulato in modo che — secondo la
prevalente opinione, espressa anche nel presente ricorso — l'in
dennità E.n.p.a.s. era compresa nella dizione « ogni altra somma
percepita una volta tanto per la cessazione di rapporti di lavoro
dipendente » ed osservare che la predetta formula è ripetuta nel
nuovo testo e che, tuttavia, non in essa, bensì' nella precedente
già citata si deve ricomprendere l'indennità E.n.p.a.s., per cui nel
vecchio testo mancava una formulazione idonea a ricomprenderla. Si osserva, in contrario: a) che si potrebbe anche sostenere che
l'indennità E.n.p.a.s. era ricompresa fra le « indennità di previ denza » enumerate espressamente nel vecchio testo, non essendovi
alcuna ragione per limitare tale espressione a quelle regolate
dagli art. 2117 e 2123 c.c.; indennità di previdenza non escluse
affatto dal nuovo testo, che le ricomprende nella dizione « inden
nità equipollenti »; b) che, indipendentemente dalla precedente
osservazione, la dizione precedente « ogni altra somma percepita una volta tanto per la cessazione di rapporti di lavoro dipenden te » era un'espressione amplissima, comprensiva di ogni entrata
occasionale collegata con la suddetta cessazione, che non doveva
distinguersi dalle altre indennità di fine rapporto, dal momento
che tutte erano soggette al medesimo trattamento tributario, ex
art. 13 e 14; c) che, invece, ora il trattamento tributario è
differenziato, rispettivamente in base al 1° ed al 2° comma
dell'art. 14 novellato dall'art. 2 d.p.r. n. 597; d) che, di conse
guenza, deve ricomprendersi nella dizione più specifica, a cui si
adatta il trattamento tributario del 1° comma dell'art. 14 novella
to, l'indennità E.n.p.a.s. da considerarsi « indennità equipollente commisurata alla durata del rapporto di lavoro dipendente », lasciando la dizione generica <« indennità e somme, ecc. ») ad
identificare altre entità economiche, fra cui per esempio gli incentivi per anticipate dimissioni, nonché quelle che la legge
espressamente cita, come le indennità di preavviso e quelle attribuite a fronte dell'obbligo di non concorrenza; e) che non si
può negare una maggiore analiticità e precisione della nuova
legge, proprio in vista di alcune diversità sui criteri di tassazione, mentre per quanto attiene all'an della tassazione si tratta soltanto
di dizioni chiarificatrici, ma non innovatrici.
Il discorso si è svolto non per pura accademia, ma perché la
ricomprensione nella formula « indennità equipollenti » dell'in
dennità E.n.p.a.s. comporta il trattamento più favorevole di cui al
1° comma dell'art. 14 novellato (riduzione dell'ammontare netto di lire 500 mila per ciascun anno preso a base di commisurazio
ne).
6. - Quanto si è esposto condurrebbe all'accoglimento — per quanto di ragione — del ricorso dell'amministrazione, con l'av
vertenza già fatta che il giudizio sulla illegittimità del rifiuto dell'amministrazione di restituire la ritenuta i.r.p.e.f. al dott. Gerì
dovrebbe però essere rinnovato, alla stregua della nuova normati
va, da cui può sorgere il diritto alla restituzione di somme in base alla riliquidazione (e mai l'obbligo di pagare altre imposte). Ma sarebbe, questa, una conclusione che non tiene conto dei fondati dubbi di legittimità costituzionale della nuova normativa,
già elencati sotto numerosi profili di violazione degli art. 3, 38 e 53 Cost, nell'ordinanza emessa da questa corte alla stessa udienza in altra causa analoga, in cui il giudizio di rilevanza era pacifico. Nella presente causa, invece, quel giudizio di rilevanza (che deve
logicamente precedere quello sulla non manifesta infondatezza:
cfr. Cass. 7 maggio 1979, n. 2591, id., Rep. 1979, voce Corte
costituzionale, nn. 71, 73) non può essere condotto con gli stessi
criteri, perché il giudizio potrebbe essere definito (in esito all'ac
coglimento del ricorso incidentale, il cui interesse è determinato dal possibile accoglimento del ricorso principale, nei sensi già esposti, a prescindere dalla questione di legittimità costituzionale) su una questione pregiudiziale che porterebbe all'affermazione di
un giudicato formale favorevole per il Geri (l'ordine di restituzio ne di tutta l'imposta ritenuta). Di fronte a tale possibile giudica to, formatosi in questo stesso processo, perderebbe rilevanza la
questione di legittimità costituzionale delle norme sostanziali
applicate, da rimettere alla decisione della Corte costituzionale
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2083 PARTE PRIMA 2084
con conseguente sospensione del presente giudizio. Invero, si ritiene già sorto l'interesse del ricorrente incidentale, già indicato nel paragrafo 1) della presente motivazione, anche per un princi pio di economia processuale (si renderebbe infatti inutile la decisione della Corte costituzionale ove fosse al senso della dichiarazione di infondatezza ovvero in termini più limitati ri spetto ad una declaratoria di totale illegittimità del tributo, perché in tali casi, una volta riassunto il presente giudizio dopo la sospensione, si dovrebbe esaminare comunque il ricorso inci dentale).
In altre parole, se il ricorso incidentale riguarda una questione assolutamente pregiudiziale, quale è quella del giudicato endopro cessuale, è sufficiente condizione di ammissibilità del suo esame la delibazione della fondatezza del ricorso principale della parte soccombente sul merito, a prescindere peraltro dalla risoluzione delle questioni di legittimità costituzionale delle norme sostanziali da applicare. Invero, interferiscono principi aventi valenza supe riore, quale quello della necessità del giudizio di rilevanza ex art. 23 1. n. 87 del 1953, rilevanza che riguarda la dipendenza assoluta della definizione del presente giudizio dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale, che deve costituire un antecedente logico-giuridico necessario della decisione della pre sente lite. Ciò non si verifica, per le ragioni che seguono (cfr., per l'affermazione di un principio analogo, Corte cost. 30 luglio 1980, n. 139, id., Rep. 1981, voce Bigamia, n. 3).
7. - Col ricorso incidentale il dott. Geri deduce la violazione e falsa applicazione degli art. 17, 22, 32, 38, 39 d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 636, come mod. dal d.p.r. n. 739 del 1981, 136, 137 c.p.c. in relazione all'art. 360, n. 3, stesso codice, nonché omessa o
quanto meno insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, osservando che (dopo aver avvertito che esisteva ed esiste contrasto fra la data del 18 maggio 1983 di
consegna alla segreteria della commissione di primo grado del
l'appello dell'intendenza, coeva a quella della notifica al contri buente del medesimo appello, e la data del 16 maggio 1983 risultante da altra copia di quest'ultimo esistente nella medesima
segreteria) la Commissione centrale ha evitato ogni riferimento all'anzidetto contrasto, ritenendo rilevante ai fini della tempestivi tà del gravame solo la data del 16 maggio, come se fosse l'unica data certa, ed ignorando che la stessa segreteria aveva apposto sul medesimo atto con lo stesso timbro (o datario) l'altra data del 18 maggio 1983, ugualmente certificativa del deposito.
Il ricorrente osservava che non ha rilievo la circostanza che
una copia sia rimasta in segreteria e l'altra sia stata notificata al
contribuente, perché tutte le copie datate dalla segreteria sono
ugualmente certificative del deposito e la Commissione centrale non ha risposto al quesito di fondo: quale delle due date dovesse
prevalere e perché. Il ricorrente osserva, infine, che non può essere condivisa
neppure l'affermazione dell'assoluta irrilevanza della data di no
tifica perché essa coincideva con la data del deposito, per cui si
ricadeva nel contrasto di date e quindi nella necessità di dirimer lo dando la prevalenza alla data del 18 maggio, in quanto meno
sospetta perché coincidente con quella di notifica dell'interessato.
Il ricorso è fondato, nel senso che risulterà dai rilievi seguenti. La proposizione dell'appello, secondo l'art. 22 novellato del d.p.r.
n. 636 del 1972 è realizzata dalla consegna o spedizione alla
segreteria della commissione di primo grado, per cui esattamente
la decisione impugnata sottolinea l'irrilevanza della notifica (a cura della segreteria e non di parte: cfr. fra le molte conf. Cass.
26 settembre 1983, n. 5692, id., 1984, I, 1018) al fine di accertare
la tempestività del gravame. Richiamando una regolamentazione (non completamente) analo
ga e cioè la proposizione dell'appello nel rito del lavoro, è stato
affermato (cfr. Cass. 23 aprile 1980, n. 2689, id., Rep. 1980, voce
Lavoro e previdenza (controversie), n. 348) che la tempestività
dell'impugnazione va verificata con esclusivo riferimento alla data
della presentazione del ricorso, per cui è irrilevante la diversa
data indicata nella copia notificata all'altra parte, in quanto in
caso di discordanza dall'originale prevale quest'ultimo, non po tendosi fare ricorso ai ben noti principi giurisprudenziali (richia mati a torto dalla difesa dello Stato nel controricorso) secondo
cui, in caso di discordanza, deve aversi riguardo alla data
risultante dalla copia per ciò che riflette le decadenze a danno del
notificato, mentre deve aversi riguardo alle risultanze dell'origina le per eventuali decadenze a danno del notificante (fra le altre, v.
Cass. 19 ottobre 1983, n. 6137, id., Rep. 1983, voce Notificazione
civile, nn. 42, 44; 10 novembre 1983, n. 6677, ibid., n. 41). Ritiene il collegio che nel campo del contenzioso tributario si
devono affermare principi in parte uguali ed in parte diversi.
Anche in questo rito, in dipendenza del sistema della presenta zione del gravame all'ufficio, non si possono seguire le due
alternative suddette per il caso di discordanza di date, posto che
la data è necessariamente unica ed è quella della presentazione all'ufficio. Si tratta di stabilire come si deve provare la suddetta
data, nel caso che essa sia diversa nella copia notificata.
In proposito, non può seguirsi l'orientamento supra citato circa
l'irrilevanza della diversa data (del deposito del ricorso presso
l'ufficio) indicata nella copia notificata, perché per il rito del
lavoro tale orientamento è giustificato dalla circostanza che è
previsto il decreto presidenziale di fissazione dell'udienza, nonché
la notifica alla controparte del ricorso e del decreto (art. 435
c.p.c.), in copia integrale dell'atto formata dall'ufficio e rilasciata
alla parte ai fini della notifica. In altri termini, prevale la data
sull'originale che resta in ufficio.
Invece, l'art. 22 d.p.r. n. 636 del 1972 novellato prevede che la
copia che la segreteria deve notificare è esclusivamente la copia di un atto di parte, formata da quest'ultima, che deve allegarla all'atto d'appello ovvero può produrla entro un anno dalla sua
proposizione, per evitare l'estinzione (cfr. il 2° ed il 6" comma
dell'art. 22). E pertanto la copia, per quanto riguarda l'attestazio
ne della data del deposito a cura della segreteria non è da
considerare « copia » (con le già affermate conseguenze in ordine
all'efficacia subordinata rispetto all'originale, che prevale in caso
di discordanza ed in difetto di querela di falso).
Per quanto riguarda tale attestazione, si tratta sempre di
un originale. A dimostrazione di tale assunto si deve citare il
caso in cui — come è possibile — le date sono diverse, perché la parte ha depositato l'originale e la copia in tempi diversi; in
tal caso la controparte deve essere messa in grado di conoscere
entrambe le date, la prima per assicurarsi della proponibilità
dell'appello e la. seconda per controllare la sua procedibilità e
l'insussistenza di una causa di estinzione (art. 22, ult. comma).
Se, invece, gli atti (originale e copia formata dalla parte) sono
depositati testualmente, la data dovrà essere apposta dall'ufficio
su entrambi, per le medesime finalità.
Nella specie, il problema dell'estinzione non sorge, perché è
pacifico che l'intendenza ha depositato originale e copia conte
stualmente, come risulta dalla identità del numero di protocollo
apposto sugli atti (che sono sovrabbondanti, e cioè in numero di
quattro). Tuttavia si deve affermare il medesimo principio, e cioè
che la data apposta dalla segreteria sui vari atti è attestazione in
originale del deposito di essi; ed anzi, proprio perché risulta che
sono stati depositati contestualmente, si ha un contrasto fra più attestazioni originali che — in difetto di querela di falso — deve
essere risolto. La soluzione del contrasto nel senso deciso dalla
decisione impugnata (che ha dato rilevanza solo all'atto che è
restato presso la segreteria della commissione, considerando l'altro
consegnato al Gerì come copia e quindi irrilevante) non è esatta,
in relazione al principio già affermato che l'apposizione della data
da parte della segreteria è attestazione originale su ciascuno degli
atti e tenuto conto che (al di fuori della possibilità di falso, che non
si rileva in difetto di querela) si può accertare l'errore di una
attestazione sulla base di altri elementi, quale è nella specie
identità del numero di protocollo, con conseguenziale necessa
ria corrispondenza fra quel numero e la data nel registro conser
vato presso la segreteria.
Per accertare tale elemento dirimente la Commissione centrale
ha un potere istruttorio a norma dell'art. 35 d.p.r. n. 636/72, che
non può non estendersi — oltre che per l'accertamento dei fatti
rilevanti per la decisione di merito, in riguardo della quale la
norma è letteralmente scritta, tanto da richiamare le singole leggi
d'imposta — all'accertamento dei fatti processuali, interni al pro cesso. Invero, il principio generale di diritto processuale è che il
giudice accerta e valuta d'ufficio le modalità di compimento degli atti processuali, quando si tratta di verificare una decadenza nel
loro compimento; di solito tali atti risultano dal fascicolo d'ufficio
o da quello di parte (art. 33 decreto cit.), ma quando — per la
struttura peculiare del procedimento tributario — possono avere
rilevanza atti conservati presso la segreteria delle commissioni, non si vede perché il giudice tributario non ne possa acquisire le
risultanze, con gli adempimenti istruttori di cui all'art. 35, nonché — se del caso — di cui all'art. 36, 3° comma, d.p.r. n. 636.
La decisione impugnata, pertanto, deve essere cassata, perché la
Commissione centrale stabilisca la tempestività dell'appello alla
commissione di secondo grado, dopo aver eseguito le verifiche
indicate, allo scopo di dirimere il contrasto fra le due date
originali del 16 e del 18 maggio apposte sugli atti menzionati.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
È evidente che non si ha dichiarazione di assorbimento del ricorso principale, perché la Commissione centrale sarà vincolata da quanto deciso sul merito della causa da questa corte, subordi natamente all'eventuale conferma della tempestività dell'appello.
Resta salva la proponibilità — su istanza di parte o d'ufficio —
delle questioni di legittimità costituzionale della normativa esami
nata, che diventerebbero rilevanti se l'appello dovesse essere ritenuto tempestivo in base ai nuovi accertamenti da compiere (salvo che, nel frattempo, la Corte costituzionale abbia già deciso sulle questioni sottopostele in ordine alla 1. n. 482). (Omissis)
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 7 luglio 1986, n. 176 (Gazzetta ufficiale, 1* serie speciale, 16 luglio 1986, n. 34); Pres. Paladin, Rei. Greco; Nalin c. Insirilli. Ord. Cass. 9 novembre 1984, n. 626 (G. U. n. 297 bis del 1985).
Lavoro (rapporto) — Lavoratore ultrasessantacinquenne privo dei requisiti per il pensionamento — Licenziabilità «ad nutum » — Incostituzionaltà (Cost., art. 3, 4; 1. 15 luglio 1966 n. 604, norme sui licenziaménti individuali, art. 1, 3, 11).
È illegittimo, per violazione degli art. 3 e 4 Cost., l'art. 11, 1" comma, l. 604 del 1966, nella parte in cui esclude l'applicabilità degli art. 1 e 3 della stessa legge nei riguardi di prestatori di lavoro che, senza essere pensionati o in possesso dei requisi ti di legge per avere diritto alla pensione di vecchiaia, abbiano superato il sessantacinquesimo anno di età. (1)
Diritto. — 1. - La Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale dell'art. 11, 1° comma, 1. 15 luglio 1966 n. 604, nel testo emendato con la sentenza di questa corte del 15 luglio 1971, n. 174 (Foro it., 1971, I, 2465), nella parte in cui esclude
l'applicazione del divieto di licenziamento senza giusta causa o
giustificato motivo ai lavoratori che hanno compiuto il sessanta
cinquesimo anno di età e non siano pensionati o non in possesso dei requisiti di legge per avere diritto alla pensione di vecchiaia.
Ha osservato che, con la detta sentenza n. 174/71, questa cor te ha esteso a tali lavoratori solo le garanzie di cui agli art. 2 (cioè la necessità della forma scritta del licenziamento e la comunica
zione, se richiesta, dei motivi) e 5 (onere della prova della giusta causa o del giustificato motivo a carico del datore di lavoro) della citata 1. n. 604/66, al fine di una loro più puntuale tutela, nell'ipotesi di licenziamenti determinati da motivi illeciti o da
ragioni di credo politico o fede religiosa, anziché il divieto più generale di cui agli art. 1 (necessità di giusta causa a fondamento del licenziamento del prestatore di lavoro ai sensi dell'art. 2119 c.c. o di un giustificato motivo) e 3 (sussistenza di un giustificato motivo determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro o al regolare funzionamento di essa).
Ed ha riferito il sollevato dubbio di legittimità costituzionale
agli art. 3, 4, 38 Cost, rilevando: a) che sussiste discriminazione
ingiustificata ed irrazionale tra lavoratori ultrasessantacinquenni che hanno diritto alla pensione di vecchiaia e lavoratori che non l'hanno ancora conseguita e sono perciò soggetti a licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo solo per avere raggiunto la detta età; b) che si verifica violazione del diritto al lavoro
perché i detti lavoratori subiscono la perdita delle garanzie di stabilità del posto di lavoro solo per la suddetta ragione; c) che
(1) Con la sentenza sopra riportata la Corte costituzionale dichiara fondata la questione di legittimità sollevata di recente dalla Corte di cassazione, con l'ordinanza 27 marzo 1984 (Foro it., 1986, I, 9, con nota di richiami, ove l'ordinanza stessa è indicata con la data di deposito 9 novembre 1984, n. 626). In materia affine cfr. Corte cost. 22 novembre 19&5, n. 300, ibid., 7, con la medesima nota in cui sono anche segnalate le ragioni per cui il giudizio di infondatezza espresso dalla corte per la simile disciplina dell'art. 27, lett. a), del regolamento allegato A al r.d. 8 gennaio 1931 n. 148 non pregiudicava l'esito della questione ora decisa.
In tema di lavoratori anziani cfr., inoltre, Cass. 19 novembre 1985, n. 5700 e 18 novembre 1985, n. 5659, ibid., 7, con la nota cit.; Cass. 21 giugno 1986, n. 4156, ibid., e Corte cost. 24 luglio 1986, n. 207, Gazz. uff. 1° agosto 1986, 1" serie speciale, n. 38, p. 5.
Va segnalato che nella sentenza in epigrafe non è traccia dei rapporti tra normativa denunciata e art. 38 Cost., norma, quest'ultima, pure invocata nell'ordinanza di rimessione.
la sopravvenuta carenza di stabilità si risolve in una remora
all'acquisizione del diritto al trattamento di quiescenza da parte di soggetti che ne sono ancora privi.
La corte remittente ha aggiunto che la scelta del legislatore è
ragionevole quando cade su coloro che, in caso di licenziamento, non restano senza retribuzione e senza trattamento di quiescenza (conforme sent. Corte cost. n. 174/71) ma non lo è quando cade
su lavoratori che sono licenziati solo per avere raggiunto i 65 anni di età, tanto più che non è precluso al datore di lavoro di fare accertare, nelle forme di cui all'art. 5 1. n. 300 del 1970, la
sussistenza della loro idoneità alla continuazione della prestazione di lavoro, conseguente al raggiungimento della detta età e concre tante una giusta causa o un giustificato motivo di recesso, mentre
agli stessi lavoratori dovrebbe essere garantito, in ogni caso, il
conseguimento del trattamento di quiescenza. 2. - La questione è fondata. Questa corte, nella sentenza n.
174/71 con la quale ha dichiarato la parziale illegittimità costitu
zionale della norma, ora di nuovo denunciata, in una fattispecie relativa a lavoratori ultrasessantacinquenni, licenziati per motivi
politici, religiosi o sindacali, senza la comunicazione scritta del
licenziamento e senza l'indicazione dei detti motivi, necessaria ai
fini della contestazione (art. 2 e 5 1. n. 604/66), ha formulato dei
principi che fondano anche la decisione della questione, ora
sottoposta al suo esame, la quale concerne la più generale ipotesi
di lavoratori licenziati solo per avere raggiunto il sessantacinque
simo anno di età, senza avere diritto a pensione o avere
conseguito le condizioni necessarie, previste dal legislatore per il
conseguimento della pensione di vecchiaia e l'applicabilità ad essi
degli art. 1 e 3 1. n. 604/66. La corte ritenne allora, ed ora non ha ragione di non ribadire,
che non potevano essere considerati sullo stesso piano lavoratori
che fossero in possesso dei requisiti di legge per avere diritto alla
pensione di vecchiaia e lavoratori che avevano comunque supera to il sessantacinquesimo anno di età senza diritto a pensione e
che sarebbero esposti alla perdita della retribuzione senza tratta
mento di quiescenza per vecchiaia; che, oltre a sussistere dispari tà di trattamento tra le due categorie di lavoratori, non risultava
attuata in concreto, per la seconda categoria, la tutela del diritto
al lavoro nei modi e nei limiti costituzionalmente garantiti.
Aggiunse che non ricorrevano particolari ragioni perché a quei lavoratori venisse negato o non egualmente riconosciuto il diritto
a determinate garanzie; che non poteva essere desunta a valida e
sufficiente ragione del trattamento differenziato la semplice mag
giore probabilità che, in quanto anziani, quei lavoratori non si
trovassero nelle migliori condizioni per il normale dispiegamento delle energie fisiche e psichiche in favore del datore di lavoro e
che questi, correlativamente, attraverso la loro collaborazione, non conseguisse il regolare adempimento delle obbligazioni con
trattuali e di legge, oppure il normale apporto all'esercizio del
l'impresa. 3. - Le suddette ragioni trovano oggi un maggior fondamento
perché la durata della vita media si è prolungata, mentre l'intro
duzione nelle fabbriche e, in genere, nelle imprese, di macchine
di varie specie ha reso il lavoro meno usurante.
Sicché devesi ritenere che non possono essere negate, per il
solo fatto dell'età, quelle cautele e quelle garanzie che sono
informate al rispetto della personalità umana e che costituiscono
altresì indici del valore spettante al lavoro nella moderna società.
Pertanto, anche al lavoratore anziano (cioè ultrasessantacin
quenne) va riconosciuta la medesima tutela che è accordata agli altri lavoratori. Per essi non opera il recesso ad nutum del datore
di lavoro solo per il raggiungimento della detta età, ma il loro
licenziamento deve trovare ragione in una giusta causa o in un
giustificato motivo, dati gli art. 1 e 3 1. n. 604/66. Inoltre, essi devono ricevere dal datore di lavoro la comunica
zione scritta del licenziamento con l'indicazione dei motivi, se
richiesta entro il termine di legge, mentre l'onere della prova della sussistenza del motivo è a carico del datore di lavoro (art. 2 e 5 1. n. 604/66).
L'inidonietà fisica, conseguente all'età, che impedisca la conti
nuazione della prestazione della sua opera a favore del datore di
lavoro in adempimento delle obbligazioni contrattuali o di legge 0 il normale apporto all'esercizio dell'impresa può concretare un
giusto motivo del licenziamento del lavoratore ma essa non può essere solo presunta per l'età (di oltre 65 anni) ma deve essere
provata ed il datore di lavoro può anche farla accertare con
1 mezzi e le modalità di cui all'art. 5 1. n. 300/70. La corte ribadisce anche (sent. n. 174/71) che la norma
denunciata risulta in contrasto con l'art. 4 Cost, ove si consideri che la tutela del diritto al lavoro è strettamente connessa all'at tuazione del principio di uguaglianza innanzi affermata.
Il Foro Italiano — 1986 — Parte I-136.
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