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Sezione II civile; sentenza 23 ottobre 1959, n. 3060; Pres. Di Pilato P., Est. Pedroni, P. M. Toro(concl. conf.); Siciliano (Avv. Santoro-Passarelli, Lecciso) c. Vergori (Avv. Grosso)Source: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 4 (1960), pp. 621/622-623/624Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23151319 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
della Cassa vorrebbe trarre dall'asserta unicità del mutuo
stesso, invece incensurabilmente esclusa dalla Corte di merito. (Omissis)
Per questi motivi, rigetta, ecc.
CORTE SUPREMA DI GÀSSÀZIONE.
Sezione II civile ; sentenza 23 ottobre 1959, n. 3060 ; Pres.
Di Pilato P., Est. Pedroni, P. M. Toro (conci, conf.) ; Siciliano (Avv. Santoro-Passarelli, Lecciso) c. Ver
gori (Avv. Grosso).
(Conferma App. Lecce 19 aprile 1958)
Donazione — Usufrutto congiuntivo — Clausola di
accrescimento — Validità -— Accettazione della
donazione — Irrilevanza (Cod. civ., art. 773, 796).
Alla donazione di usufrutto congiuntivo non si applicano ne
il divieto stabilito nell'art. 796 cod. civ. per l'usufrutto successivo, ne la limitazione posta dall'art. 773 cod. civ., che subordina la validità della clausola di accrescimento
alla mancanza di accettazione della donazione da parte di
uno dei donatari. (1)
La Corte, ecc. — Col primo mezzo di annullamento si
denuncia la violazione degli art. 698, 773, 796, 979, 1014
cod. civ., e falsa applicazione dell'art. 678 stesso codice, in
relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., e si cen
sura la sentenza impugnata per aver ritenuto valido il
patto di accrescimento nella donazione di usufrutto anche
nella ipotesi in cui uno degli usufruttuari venga a mancare,
dopo aver conseguito il possesso della cosa su cui cade
l'usufrutto, e ciò sull'erroneo riflesso che l'art. 773 cod. civ.
concerne le donazioni di proprietà e non quelle di usufrutto.
Si sostiene, per contro, che tale patto sarebbe inficiato
da invalidità, perchè in contrasto : a) con l'art. 979 cod.
civ., il quale stabilisce che la durata dell'usufrutto non può eccedere la vita dell'usufruttuario ; b) con l'art. 698 cod.
civ., che sancisce il divieto dell'usufrutto successivo, dispo nendo che il legato di usufrutto, fatto a più persone succes
sivamente, ha valore soltanto a favore di quelli che alla
morte del testatore si trovano primi chiamati a goderne ;
c) con l'art. 773 cod. civ., norma di portata generale per la
donazione, che riconosce la validità della clausola di accre
scimento soltanto per la ipotesi in cui uno dei donatari
non possa o non voglia accettare, senza far distinzione fra
donazione di proprietà e donazione di usufrutto, come la
Corte del merito ha erroneamente ritenuto ; d) con l'art.
796 cod. civ., il quale consente al donante di riservare
l'usufrutto dei beni donati a proprio vantaggio, e dopo di
lui a vantaggio di un'altra o anche di più persone, ma non
successivamente ; e) col generale divieto dei patti successori.
Vero è, si soggiunge, che di fronte a queste disposizioni sta quella dell'art. 698 cod. civ., concernente l'accrescimento
nei legati di usufrutto ; ma tal norma, per il suo carattere
chiaramente eccezionale, non è suscettibile di applicazione
analogica, epperò non può essere estesa alla donazione di
usufrutto. Ritiene la Suprema corte che la censura non meriti
accoglimento. Per la esatta soluzione della questione prospettata col
mezzo in esame occorre rifarsi alla disciplina che lo ius
adcrescendi riceve nel sistema successorio, di cui è istituto
peculiare, disciplina che si verifica a seconda che la dispo sizione di ultima volontà riguardi la proprietà ovvero l'usu
frutto. Nei lasciti aventi ad oggetto la proprietà, in ordine ai
quali la legge fa costante riferimento al diritto di rappre sentazione espressamente dichiarandolo salvo in ogni caso
(art. 674 e 675 cod. civ.), l'accrescimento ha soltanto ca
rattere originario, è destinato, cioè, ad operare soltanto
(1) La sentenza confermata, App. Lecce 19 aprile 1958, è
pubblicata in Foro it., 1959, I, 1957, con nota di richiami.
quando in una parte del lascito si determini una vacanza,
perchè il coerede o collegatario non possa o non voglia accettare. Non è dunque ammissibile un accrescimento
successivo all'accettazione, giacché, per effetto di essa, le
quote spettanti ai congiuntamente chiamati son entrate a far parte dei rispettivi patrimoni, dei quali seguono le
sorti, trasmettendosi, in caso di morte dell'accettante, agli eredi. Ciò, evidentemente, in ossequio al generale principio che non ammette la investitura temporanea della proprietà, e in aderenza al divieto delle sostituzioni fedecommissarie
e dei patti successori.
L'accrescimento nei legati di usufrutto è regolato a
parte dall'art. 698, il quale dispone che l'accrescimento ha
luogo anche quando uno dei collegatari sia venuto a mancare
dopo conseguito il possesso della cosa su cui cade l'usufrutto.
La norma non ha carattere anomalo o chiaramente ecce
zionale, come a torto si sostiene dal ricorrente, ma, come
meglio sarà precisato in seguito, è perfettamente aderente
alla struttura dell'usufrutto, che ha natura temporanea, è
espressamente svincolato del diritto di rappresentazione
(art. 467) ed è insuscettibile di trasmissione agli eredi.
Il codice vigente, a differenza di quello abrogato, che
ignorava l'accrescimento nei negozi inter vivos, ha esteso
l'istituto alla donazione, statuendo all'art. 773, 2° comma, che è valida la clausola con cui il donante dispone che, se
uno dei donatari non possa o non voglia accettare, la sua
parte si accresca agli altri. La disposizione ora citata, che
contiene in sè implicito il divieto dell'accrescimento post
adquisitwn emolumentum, tace delle donazioni di usufrutto, ma non può fondatamente dubitarsi che tale divieto, sic
come coerente con quelli dianzi accennati, cui si ispira la
disciplina dei lasciti di proprietà, nel sistema successorio, concerna unicamente le donazioni di proprietà, e non anche
quelle riguardanti l'usufrutto per le quali, nella analogia della
situazione giuridica, ben può farsi ricorso al principio san
cito dall'art. 698, principio che seppur pronunciato in tema
di legati, non ha, come si è detto, carattere anomalo, ma è
strettamente coerente alla natura dell'usufrutto. Invero la
diversa fonte del rapporto non rivela alcuna valida ragione che giustifichi in ordine al diritto di accrescimento la sog
gezione delle donazioni di usufrutto ad una disciplina diversa
da quella contemplata per i legati di usufrutto nel sistema
successorio, che, anche sotto tale profilo, è da rilevare che
la donazione rappresenta il tipo di negozio inter vivos che
più si accosta al testamento. E in mancanza di siffatte
valide ragioni, non può ammettersi che la legge, mentre
ha riconosciuto meritevole di tutela una volontà presunta del testatore, qual'è quella che sta alla base dell'accresci
mento de iure nei legati di usufrutto, abbia invece voluto
legare tale tutela ad una volontà espressa del donante, mirante a conseguire lo stesso risultato della progressiva concentrazione del diritto di usufrutto in capo all'ultimo
superstite tra i titolari congiuntamente chiamati, e del dif
ferimento della consolidazione al momento della morte di
costui. Nè può dirsi che il conseguimento di tale risultato
esuli dai limiti imposti all'autonomia negoziale dall'ordina mento positivo. Il patto di accrescimento nella donazione
di usufrutto non impinge, infatti, in alcuno dei divieti di
ordine pubblico sanciti dalla legge. Non nel divieto dell'usufrutto successivo, giacché, es
sendo l'usufrutto congiuntivo concepito come potenzial mente pieno in ciascuno dei partecipanti, e soltanto limitato
nel godimento dal concorso solidale dei contitolari, l'ope rare dell'accrescimento non determina una vera e propria successione di più soggetti nello stesso diritto, ma la natu
rale espansione del godimento per effetto del venir meno
del limite originario costituito dal concorso altrui ; sì che
a tal proposito più propriamente si parla di ius non de
crescendi più che di accrescimento.
Non nel divieto dei patti successori e dei fedecommessi,
giacché il diritto di usufrutto, estinguendosi con la morte
dell'usufruttuario, non è trasmissibile agli eredi, di guisa che non può, ovviamente, concepirsi nè un regolamento
negoziale della successione dell'usufruttuario, nè tantomeno
una sostituzione fedecommissaria in un diritto che non va
oltre la vita del titolare.
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623 PARTE PRIMA 624
Non contrasta, infine, il patto ili esame col principio della limitazione vitalizia dell'usufrutto sancito dall'art.
979, 1° comma, cod. civ., l'osservanza di codesta norma
risultando pienamente assicurata sol che si consideri che
la durata dell'usufrutto congiuntivo resta pur sempre con
tenuta nei limiti della vita del più longevo tra i titolari
contemporaneamente investiti del diritto.
Nelle suesposte considerazioni trova conferma la esat
tezza della già fatta affermazione, e cioè che il principio, dettato dall'art. 698 cod. civ. per la disciplina dell'accresci
mento nei legati di usufrutto, non ha quel carattere anomalo
e di eccezione che il ricorrente pretende attribuirgli. Col secondo mezzo di annullamento si denuncia la vio
lazione degli art. 773, 796, 1362 e segg., 788 cod. civ., nonché
difetto di motivazione ai sensi dell'art. 360, ri. 5, cod.
proc. civ., e si assume che la sentenza impugnata sarebbe
incorsa in errore per non aver avvertito la essenziale diffe
renza tra l'accrescimento de iure, discendente dalla unità
dell'attribuzione e dell'oggetto nella disposizione testamen
tale, e la clausola espressa di accrescimento necessaria nella
donazione a norma dell'art. 773. Tale clausola, nella specie, mancherebbe del tutto, dacché le espressioni contenute
nell'atto costitutivo e nella scrittura privata a questo pre
cedente, in base alle quali la Corte del merito ha accertato la
sussistenza della clausola medesima, avrebbe dovuto essere
interpretata, non già nel senso che l'intero usufrutto si sa
rebbe estinto alla morte del cousufruttuario superstite, sibbene nel senso che la durata dell'usufrutto era commisu
rata, per le rispettive quote ideali, alla vita di ciascuno
degli usufruttuari, e che i fondi dovevano essere restituiti
liberi fro quota dopo la morte di ciascuno degli usufruttuari.
Né, si conclude, la Corte del merito poteva trarre argo mento per la decisione dalla scrittura che aveva preceduto l'atto pubblico, quest'ultimo soltanto potendo determinare
la portata della donazione anche in ordine all'eventuale
accrescimento.
Ma anche queste censure sono prive di fondamento.
Non è esatto, anzitutto, che la sentenza impugnata sia
incorsa nella confusione addebitatale dal ricorrente, tra
accrescimento de iure e accrescimento negoziale, dal mo
mento che ha avuto cura di indagare se dall'atto pubblico costitutivo della donazione o dalla precedente scrittura
privata, in detto atto espressamente ed integralmente confermata, emergesse la manifestazione di volontà del
donante diretta a porre in essere la clausola di accresci
mento. E a conclusione di tale indagine, condotta nel
rispetto delle norme di ermeneutica, ha espresso il motivato
convincimento che siffatta manifestazione di volontà in
dubbiamente sussistesse.
Onde è che le censure contenute nel mezzo in esame si
rivelano sostanzialmente dirette a sostituire una interpre tazione propria del ricorrente a quella che i Giudici del
l'appello hanno tratto dai documenti di causa, interpreta zione quest'ultima che riflettendo una quaestio voluntatis e
risultando congruamente motivata ed immune da vizi
logici e giuridici, si sottrae al sindacato in questa sede di
legittimità. Per questi motivi, rigetta, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione I civile ; sentenza 22 ottobre 1959, n. 3027 ; Pres.
Lorizio P., Est. Arras, P. M. Tavolaro (conci, conf.) ; Tommasi (Aw. Romanelli) c. Scalera (Avv. Orgera).
(Cassa App. Roma 19 maggio 1958)
Arbitrato — Decreto di esecutorietà del lodo — Ri
fiuto — Diritto degli arbitri al compenso — Perdita — Presupposti (Cod. proc. civ., art. 813, 2° comma, 814 ; cod. civ., art. 2236).
Il rifiuto del decreto di esecutorietà al lodo arbitrale priva gli arbitri del diritto al compenso, sol se sia giustificato dal
comportamento doloso o gravemente colposo degli arbitri
stessi. (1)
La Corte, ecc. — Fatto. — Michele e Salvatore Scalera
da un lato e Michele Olian deferirono ai dottor Angelo
Tommasi, prof. Mario Rotondi ed on. Armando Angelini,
quali arbitri amichevoli compositori, la risoluzione di al
cune controversie. La nomina ad arbitro degli on. Angelini e prof. Rotondi fu fatta rispettivamente dagli Scalera e
dall'Olian, il dottor Tommasi fu nominato terzo arbitro
e presidente del collegio d'accordo dagli altri due arbitri.
Il termine per la pronuncia del lodo a seguito di proroghe risultò fissato al 15 luglio 1954. Quale fondo spese ed ono
rari per gli arbitri le parti versarono in giusta metà lire 14
milioni. Al lodo, sottoscritto il 2 luglio e depositato presso la Cancelleria della Pretura di Roma il 17 luglio 1954, il
Pretore negò l'esecutorietà (decreto 15 luglio 1954) perchè era sottoscritto da due arbitri, ed i tre arbitri nelle confe
renze personali del 17 e 18 giugno 1954 si erano limitati
a delibare la causa (tale il significato attribuito alla
dichiarazione contenuta nel lodo, secondo cui la causa era
stata decisa « in via di massima »), rinviando la delibera
zione ad una successiva conferenza, che non vi era più stata.
Il provvedimento del Pretore reclamato fu confermato
dal Presidente del Tribunale di Roma, il quale, dalla narra
tiva del lodo, rilevò che nei giorni 17 e 18 giugno 1954 la
causa era stata decisa in via di massima e rinviato l'esame
della minuta del lodo, alla cui stesura era stato delegato il
presidente, al 30 giugno, che in tale adunanza l'arbitro
Angelini non si era presentato ed era rimasto assente anche
all'adunanza del 2 luglio ore 11, fissata, come da comunica
zione a lui fatta, per la lettura e firma del testo definitivo, da ciò desunse che la decisione definitiva della causa era av
venuta il 30 giugno, mentre il 18 giugno vi era stato solo
un progetto di decisione, e pertanto risultava almeno dub
bio che il lodo fosse frutto della decisione di tutti gli arbi
tri in conferenza personale. A seguito della negata esecutorietà del lodo, i fra
telli Scalera richiesero al dottor Tommasi la metà della
somma che si era attribuita a titolo di compenso quale
presidente del collegio arbitrale, con riserva di chiedere
tale restituzione anche agli altri arbitri. La richiesta venne
respinta. Quindi con citazione 17-22 giugno 1955 Michele e Sal
vatore Scalera convennero avanti il Tribunale di Roma i
predetti Angelo Tommasi, Mario Rotondi ed Armando
Angelini per sentirli dichiarare tenuti a restituire agli istanti metà di quanto avevano percepito a titolo di com
penso per l'opera prestata quali componenti del collegio arbitrale nella vertenza fra essi Scalera e il Michele Olian, e per sentirli di conseguenza condannare al pagamento a favore degli attori della complessiva somma di lire 7 mi
lioni con gli interessi dalla domanda e le spese del giudizio. Si costituirono in giudizio le parti, tranne l'Angelini rimasto
contumace.
I convenuti eccepirono che nelle conferenze personali del 17 e 18 giugno i tre arbitri avevano deciso la causa, restando aperta solo la possibilità di apportare qualche mo
difica di contorno, fino alla sottoscrizione del lodo ; che se
(1) La sentenza del Tribunale di Roma 27 luglio 1950, confermata in appello dalla decisione cassata dalla Suprema corte, è riassunta in Foro it., Rep. 1957, voce Arbitrato, nn. 104, 105.
App. Palermo 5 febbraio 1952 (id., 1952, I, 1018) ha ritenuto « che gli arbitri perdono il diritto al compenso nelle ipotesi di dolo ed a titolo di colpa, soltanto nelle due ipotesi dell'art. 813 cod. proc. civile. Non può quindi essere escluso il loro diritto al
compenso nè nell'ipotesi di colpa ordinaria, nè nell'ipotesi di
colpa grave ». In dottrina, sulla responsabilità degli arbitri, vedi : Car
nelutti, Lez. dir. proc. civ., Padova, 1923, vol. Ili, pag. 438, n. 273 ; Satta, Dir. proc. civ., Padova, 1957, pagg. 663 e segg. e 667 e segg. ; Redenti, Compromesso, in Nuovissimo digesto italiano, pag. 791 ; Biamonti, Arbitrato, in Enciclopedia del
diritto, pagg. 920-921. La sentenza riportata è annotata fla Barba, in Giust. civ.,
1960, I, 311.
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