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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DEL SALENTO
FACOLTA’ DI INGEGNERIA
CORSO DI LAUREA IN INGEGNERIA DEI MATERIALI
TESI DI LAUREA
IN
MATERIALI NON METALLICI
SINTESI E CARATTERIZZAZIONE DI UNA NUOVA CLASSE DI
DISPOSITIVI MEDICI IMPIANTABILI A BASE DI COLLAGENE
PER APPLICAZIONI IN TISSUE ENGINEERING
Relatore: Laureando:
Ing. ALESSANDRO SANNINO ESPOSITO MATTEO COSIMO
ANNO ACCADEMICO 2009-2010
INTRODUZIONE
Nonostante i notevoli progressi scientifici e tecnologici raggiunti negli ultimi anni in
ambito medico e biomedico, migliaia di persone muoiono ancora in attesa di un
trapianto di organi o tessuti a causa della mancanza di donatori o di dispositivi adatti
a sostituirli.
Le protesi artificiali costituiscono una soluzione spesso solo temporanea, che non
permette il completo recupero di tutte le funzioni; i trapianti possono essere causa di
rigetto (nel caso di trapianto di organi) o di nascita di forme tumorali (nel caso di
trapianto di tessuti), e sono, comunque, legati alla disponibilità di donatori
compatibili. Inoltre, l’insorgere frequente di focolai di infezione nei siti di
intervento rappresenta, ancora oggi, una delle complicazioni più indesiderate.
Gli sforzi prodotti in questi ultimi anni nel tentativo di rivoluzionare gli approcci
clinici e terapeutici, con l’obiettivo di realizzare nuovi dispositivi medici in grado di
riparare, ripristinare o riprodurre efficacemente le funzioni di un organo o un tessuto
mal funzionante o danneggiato (per cause patologiche o traumatiche) derivano
proprio dall’esigenza di superare i numerosi limiti dei metodi di intervento
tradizionali e hanno portato alla nascita di un nuovo campo del sapere: l’Ingegneria
Tissutale.
L’espressione “Ingegneria Tissutale” è la traduzione italiana di “Tissue
Engineering”, termine coniato ufficialmente nel 1988 dalla National Science
Foundation per definire un campo di studi multidisciplinare che si avvale dei
principi e dei metodi delle scienze biologiche e dell’ingegneria, oltre che della
chimica e della fisica, per realizzare dei sostituti artificiali bioattivi in grado di
indurre la riparazione e la rigenerazione di tessuti o organi [1].
Il metodo della Tissue Engineering, altamente innovativo, prevede la semina di
cellule su complesse strutture 3D (scaffold), realizzate con opportuni materiali e
dotate di specifiche proprietà e, generalmente, la loro coltivazione in appositi
incubatori (bioreattori), fino alla colonizzazione dello scaffold ed alla produzione di
nuovo tessuto.
Le applicazioni della Tissue Engineering possono essere classificate in due ampie
categorie: applicazioni terapeutiche, nelle quali il tessuto viene cresciuto
direttamente nel paziente (in vivo) o all’esterno del paziente (in vitro) e poi
trapiantato; e applicazioni diagnostiche, nelle quali il tessuto è creato in vitro, e poi
utilizzato per testare il metabolismo e l’assorbimento di un farmaco, la tossicità, la
patogenicità, e così via. Le caratteristiche dei materiali per ognuna di queste due
ampie categorie sono in generale diverse ma possono spesso sovrapporsi.
Grazie alla piena comprensione sia dei meccanismi che sono alla base dei processi
cellulari che dell’organizzazione e dell’architettura dei tessuti, e all’ausilio delle
continue innovazioni offerte dalla chimica, dalla fisica, dalla scienza e tecnologia
dei materiali e dall’ingegneria, la Tissue Engineering ha, dunque, come obiettivo
quello di progettare e sviluppare dei costrutti (scaffold) all’interno dei quali far
ricrescere o rigenerare uno specifico tessuto, in vitro o in vivo.
L’Ingegneria Tissutale possiede, dunque, tutti gli strumenti e il potenziale per
permetterci di pensare alla possibilità concreta che, in un futuro non lontano, saremo
capaci di produrre un vero e proprio serbatoio di tessuti, o addirittura organi,
sintetizzati ex vivo, e questo rappresenta senz’altro il traguardo più stimolante di un
settore in continua evoluzione.
Uno tra i più importanti biomateriali utilizzati per le realizzazione di scaffold per
applicazioni biomediche è il collagene che, grazie alle sue caratteristiche biologiche
e alle sue proprietà meccaniche e chimico-fisiche, è diventato una risorsa primaria
nella sintesi di prodotti e dispositivi per la rigenerazione di tessuti e organi. Molti
polimeri naturali e i loro analoghi sintetici sono stati e sono utilizzati quali
biomateriali ma le peculiarità del collagene sono tali da renderlo unico nelle
modalità di interazione e integrazione all’interno dell’organismo.
L’obiettivo di questo lavoro di tesi è stato quello di realizzare e caratterizzare
scaffold (biodegradabili e biocompatibili) tubolari, altamente porosi in collagene per
la rigenerazione del sistema nervoso periferico e di sperimentare una nuova tecnica
di sterilizzazione per questi dispositivi medici, la sterilizzazione termica,
analizzandone approfonditamente l’impatto sulle proprietà di interesse
ingegneristico.
Dopo l’iniziale resoconto sullo stato dell’arte, saranno riportati dei cenni sulle
tecniche utilizzate fino ad ora per la produzione degli scaffold e sulla biologia del
sistema nervoso periferico. Successivamente ci si soffermerà sui materiali e metodi
utilizzati durante il processo di sintesi, fabbricazione, reticolazione e sterilizzazione
dello scaffold, con un’accurata descrizione degli strumenti utilizzati, delle
tecnologie applicate e delle modalità di esecuzione delle prove. Infine, l’ultima parte
sarà dedicata all’analisi dei risultati ottenuti ed ad alcune raccomandazioni per il
futuro.
L’INGEGNERIA TISSUTALE: STATO DELL’ARTE
Nell’ultimo secolo, la speranza di vita degli uomini è notevolmente aumentata. Di
pari passo è aumentata anche la richiesta di riparare o di ristabilire la funzionalità di
tessuti e organi malati o danneggiati. A differenza di alcuni piccoli animali come le
lucertole, le salamandre e alcuni tipi di rane, che sono in grado di rigenerare le
zampe o la coda in seguito alla loro perdita, gli animali più grandi come l’uomo non
hanno questa capacità. E’ sorprendente come il corpo di questi animali sappia quale
parte del corpo far ricrescere, e che lo sappia fare esattamente con la stessa forma.
Nell’uomo, invece, le cellule non hanno la capacità di ricrescere e organizzarsi
nell’architettura anatomica precedente. Infatti, numerosi tessuti dell’organismo
umano non sono in grado di rigenerare spontaneamente (è ben noto che la capacità
delle cellule di proliferare non garantisce la rigenerazione di un tessuto adulto
lesionato) e anche i tessuti che sono in grado di farlo possono non rigenerare
spontaneamente quando gravemente danneggiati (e.g., ossa). Essi, inoltre, tendono a
“ripararsi”, intervenendo nel sito della lesione con le formazione di tessuto
connettivo (i.e., tessuto cicatriziale, che chiude la ferita e limita l’ulteriore
estensione del danno), piuttosto che rigenerare.
2.1 La Tissue Engineering
Attualmente gli approcci principali per far fronte alla perdita o alle lesioni di tessuti
e organi sono la chirurgia ricostruttiva, il trapianto o il ricorso a dispositivi
meccanici (e.g., macchine per emo-dialisi). Tuttavia, tutte queste strategie
presentano, ancora oggi, dei limiti considerevoli e degli aspetti indesiderati: la
chirurgia può dar luogo a problemi di lungo termine (il cancro al colon spesso si
sviluppa dopo il trattamento chirurgico dell’incontinenza perché l’urina può
penetrare nel colon), il trapianto è fortemente condizionato dalla sempre maggiore
scarsità di donatori (in Europa i problemi renali causano più di 30.000 morti
all’anno a fronte di 2.000 ÷ 3.000 trapianti), i dispositivi meccanici non sono in
grado di svolgere tutte le funzioni di un singolo organo (perciò non possono
prevenire il progressivo deterioramento del paziente).
Nel tentativo di trovare una soluzione a questi problemi, ovvero di rivoluzionare gli
approcci clinici e terapeutici, con l’obiettivo di realizzare nuovi dispositivi medici
per mezzo dei quali ripristinare o migliorare efficacemente la funzionalità di organi
o tessuti mal funzionanti o danneggiati (per cause patologiche o traumatiche), è
emersa una nuova scienza, l’Ingegneria Tissutale.
Con il termine “Ingegneria Tissutale” si traduce l’espressione anglosassone “Tissue
Engineering” coniata ufficialmente nel 1988 dal National Science Foundation per
indicare un nuovo campo multidisciplinare che applica i principi e i metodi
dell’ingegneria e della biologia per la comprensione delle relazioni
struttura/funzione dei tessuti dei mammiferi e che sviluppa sostituti biologici per la
rigenerazione, il mantenimento o il miglioramento delle prestazioni dei tessuti
stessi. È seguita nel 1998 la definizione della Commissione Europea: “l’Ingegneria
Tissutale è la rigenerazione dei tessuti biologici attraverso l’uso di cellule ottenute
con l’aiuto di strutture di supporto e/o biomolecole”.
In altre parole, la Tissue Engineering ha l’obiettivo di realizzare opportuni
supporti/sostituti biocompatibili e bioattivi su cui far avvenire i processi biologici
per indurre la rigenerazione di un particolare tessuto o organo.
La sfida dell’Ingegneria Tissutale è duplice: da un lato ha il compito di progettare
un supporto (scaffold) che permetta alle cellule di organizzarsi in strutture
complesse, dall’altro ha il compito di capire e riprodurre le condizioni che
consentono a queste ultime di crescere, moltiplicarsi e differenziarsi nei diversi tipi
di tessuti.
Quindi, da un lato, gli scaffold devono essere progettati in modo da disciplinare
l’adesione e la migrazione cellulare (attraverso la chimica superficiale e la
morfologia), favorire la proliferazione (attraverso la diffusione di sostanze nutritive
e fornendo appropriati segnali biochimici e meccanici) e tutte le attività cellulari
(attraverso l’adsorbimento di proteine, fattori di crescita e altre molecole), aiutare le
cellule ad esprimere il fenotipo specifico e controllare la formazione della ECM.
Dall’altro, è di fondamentale importanza identificare i fattori endogeni che
prevengono la rigenerazione spontanea e causano la modifica del micro-ambiente
cellulare conseguente alla lesione, sopprimendo o limitando l’azione dei fattori
inibitori, in modo da istruire le cellule verso la rigenerazione piuttosto che la
riparazione.
In generale, un costrutto di Ingegneria Tissutale è formato, dunque, da una
componente cellulare che viene seminata su una matrice di base (lo scaffold),
costituita da una componente artificiale o naturale, che garantisce un supporto e una
guida per la crescita e lo sviluppo delle cellule e dei tessuti di interesse, permettendo
loro di organizzarsi in particolari strutture biologiche (Fig. 1).
Fig. 2.1 Il metodo della Tissue Engineering
Per poter fornire in vitro l’ambiente funzionale per lo sviluppo del tessuto e i
nutrienti necessari, inoltre, si utilizza un incubatore, detto bioreattore. I bioreattori
sono generalmente definiti come dei dispositivi in cui si sviluppano processi
biologici e biochimici sotto stretto monitoraggio, sotto condizioni ambientali
controllate e sotto condizioni operative date (pH, temperatura, pressione, apporto di
elementi nutritivi, smaltimento scorie, ecc.). L’alto grado di riproducibilità, il
controllo e l’automazione introdotti attraverso l’utilizzo dei bireattori per specifici
processi biologici hanno permesso lo sviluppo di applicazioni su larga scala [1].
I materiali utilizzati per la realizzazione di scaffold per l’Ingegneria Tissutale
possono essere divisi in organici sintetici (tra cui, ad esempio, i poliesteri alifatici e
il polietilenglicole), organici naturali (collagene, gel di fibrina, acido ialuronico,
chitosano, gelatina, etc.), inorganici sintetici (idrossiapatite, fosfato di calcio, vetro
ceramico) e inorganici naturali.
I materiali di tipo polimerico sono tra i più utilizzati per applicazioni di Ingegneria
Tissutale. Essi possono essere divisi in 3 gruppi: polimeri sintetici, polimeri
naturali, polimeri derivanti da una combinazione dei polimeri precedenti.
Per quanto riguarda i polimeri sintetici, sono definite tutte le proprietà chimiche e
fisiche, come ad esempio peso molecolare, tempo di degradazione e idrofobicità, e
sono di facile fabbricazione. Tra i più popolari polimeri sintetici organici
ricordiamo: l’acido poli-lattico (PLA), l’acido poli-glicolico (PGA), il loro
copolimero (PLGA), il poli-caprolattone (PCL), etc.; il poli-etilenglicole (PEG); il
poliuretano (PU); etc.
I polimeri naturali comprendono le proteine della matrice extracellulare (ECM) e i
loro derivati, la cellulosa, il chitosano, etc. Il più importante di questi composti è il
collagene.
Il collagene è la principale proteina strutturale negli animali e la più abbondante nei
mammiferi (più del 30% di tutte le proteine dei vertebrati). Nell’uomo costituisce
circa il 6% del peso corporeo: più del 90% delle proteine extracellulari dei tendini e
delle ossa, e più del 50% di quelle della pelle sono costituite da collagene. Il
collagene rappresenta l’elemento primario della matrice extracellulare, alla quale
conferisce le proprietà di framework di supporto (struttura scaffold-like),
permettendo e mediando le interazioni tra le cellule arrangiate al suo interno, e
garantendo, così, la stabilità meccanica e biochimica dei tessuti. L’onnipresenza di
questa scleroproteina e il suo arrangiamento architetturale determinano proprietà
fondamentali dei vari tipi di tessuto connettivo, quali la resistenza meccanica e
l’attivazione del processo di coagulazione del sangue, oltre che la conformazione
anatomica e la morfologia.
Molti polimeri naturali e i loro analoghi sintetici sono stati e sono utilizzati quali
biomateriali per la realizzazione di scaffold per applicazioni biomediche ma le
peculiarità del collagene sono tali da renderlo unico nelle modalità di interazione e
integrazione all’interno dell’organismo.
Il collagene, infatti, è altamente biocompatibile (antigenicità e immunogenicità
molto basse), resistente alla proteolisi (grazie alla sua struttura molecolare) ma
facilmente riassorbibile (con possibilità di modularne ad hoc il profilo di
biodegradabilità tramite opportuni trattamenti), sinergico con i componenti bioattivi
e compatibile con i polimeri sintetici; ha ottime proprietà emostatiche ed è
opportunamente modificabile tramite i suoi gruppi funzionali. Inoltre, le sue
macromolecole sono in grado di formare delle fibre caratterizzate da elevata
resistenza e stabilità. Tutte queste caratteristiche fanno del collagene un substrato
ideale per lo svolgimento delle funzioni cellulari: adesione, migrazione,
proliferazione, etc. Esso, inoltre, può essere processato in svariate forme (polveri,
microparticelle, mini-pellet, grani, soluzioni e dispersioni, gel, film, sponges, etc.)
per trovare naturale applicazione in numerosi settori, tra cui, come detto, quello
medico e biomedico, ma anche in quello cosmetico, farmaceutico e alimentare.
In definitiva, i polimeri naturali possono ricreare meglio l’ambiente cellulare nativo
e non producono prodotti di degradazione tossici per l’organismo, mentre quelli
sintetici danno la possibilità di un controllo delle proprietà meccaniche e chimiche
migliore dei precedenti, oltre a vantaggi in termini di costo e riproducibilità.
2.2 Lo scaffold
Se l’obiettivo della prima generazione di materiali e dispositivi biomedici, durante
gli anni ’60 e ’70, era quello di ottenere adeguate proprietà fisiche tali da uguagliare
il tessuto sostituito e quello della seconda generazione (anni ’80) di indurre reazioni
controllate nell’ambiente fisiologico, l’obiettivo dei biomateriali di nuova
generazione è quello di combinare queste due proprietà in modo tale da stimolare
specifiche risposte cellulari a livello fisiologico.
Un passo fondamentale compiuto dall’Ingegneria Tissutale è stato proprio quello di
comprendere l’importanza rivestita dal substrato nel processo di rigenerazione
tissutale, ovvero dalla capacità di progettare e sviluppare particolari e adeguate
matrici tridimensionali, o scaffold, in grado di svolgere determinate e specifiche
funzioni di sostegno e di guida, oltre che di protezione e di signalling per le cellule.
Essi, infatti, idealmente dovrebbero essere in grado di mimare fedelmente il
microambiente cellulare (specifico per ogni particolare tessuto), di favorirne
l’adesione, la proliferazione e la migrazione, ovvero di svolgere la funzione
normalmente svolta dalla matrice extracellulare (ECM), ma anche garantire la
vascolarizzazione del neo-tessuto, oltre che permettere il trasporto di nutrienti e
biomolecole (fattori di crescita, geni, etc.) [2].
Una volta esplicate tali funzioni, inoltre, questi costrutti devono poter essere
riassorbiti senza la necessità di interventi addizionali di rimozione, portando alla
completa integrazione del tessuto rigenerato nell’organismo.
Essi, dunque, giocano un ruolo chiave nella strategia di intervento alla base del
metodo dell’Ingegneria dei Tessuti. Scaffold tridimensionali porosi sono stati
ampiamente usati in applicazioni di Ingegneria Tissutale e numerosi studi, basati sul
loro utilizzo, sono stati condotti, in vitro, per comprendere approfonditamente i
meccanismi di interazione cellula-scaffold, e in in vivo, nel tentativo di indurre la
rigenerazione dei tessuti [4].
Tuttavia, nonostante i sorprendenti progressi compiuti negli ultimi anni grazie ai
mezzi tecnologici e scientifici sempre più potenti che consentono analisi e sempre
più approfondite e accurate, effettuate nel tentativo di comprendere a fondo i
meccanismi di base dei processi biologici e di replicarli, molti problemi rimangono
ancora da risolvere nell’ottimizzazione delle loro performance.
Diversi requisiti fisici e strutturali si sono rivelati da subito fondamentali per il
corretto e efficace funzionamento di uno scaffold. Tra essi, i più importanti sono:
struttura tridimensionale con un’elevatissima porosità interconnessa (intorno
al 95%) in modo da massimizzare il rapporto area/volume e favorire le interazioni
cellula-substrato, ovvero, la migrazione e la crescita delle cellule, nonché, il
trasporto dei nutrienti anche nelle parti più interne dello scaffold [4-7].
dimensione ottimale del poro (quella che permette da un lato di determinare
un passaggio selettivo dei vari tipi di cellule, l’adesione e la crescita delle stesse, e
dall’altro di ottenere adeguate proprietà meccaniche) che può variare all’interno di
un range che va da 20 µm (limite inferiore sotto in quale gli scaffold sono inattivi)
fino a 100- 200 µm (limite superiore oltre il quale non svolge la funzione di
selezionatore di cellule) [4-7]; da notare che tale range varia in base alle
caratteristiche del tessuto da rigenerare e delle relative cellule [5, 6];
presenza di pattern e gradienti di porosità, che influenzano l’adesione, i
percorsi di migrazione e la densità e l’omogeneità di distribuzione delle cellule
all’interno della matrice [5];
biocompatibilità e biodegradabilità, affinché, lo scaffold possa interagire ed
essere assorbito dall’organismo senza problemi, in particolar modo, con una
velocità di degradazione controllata e simile a quella di ricrescita del nuovo tessuto;
appropriate superficie specifica e chimica superficiale , tali da garantire
l’adesione, la proliferazione e la differenziazione cellulare [5];
proprietà bio-meccaniche comparabili con quelle del tessuto considerato e, in
particolare, capacità di sostenere i carichi;
capacità di replicare forme complesse in base ai difetti tissutali da sostituire;
possibilità di rilasciare in maniera controllata fattori di crescita, farmaci,
nutrienti e geni incorporati al loro interno;
2.2.1 La progettazione degli scaffold
La struttura degli scaffold usati nell’Ingegneria Tissutale deve essere progettata per
incontrare un numero consistente di requisiti come la biocompatibilità, la velocità di
degradazione, la morfologia e la capacità di rispondere adeguatamente agli stimoli
meccanici [7]. Tali requisiti spesso risultano essere in conflitto tra di loro:
l’incremento delle caratteristiche meccaniche, ad esempio, richiederebbe uno
scaffold con una densità maggiore, mentre, per favorire l’interazione cellula-
substrato, è richiesto uno scaffold altamente poroso [8].
Diversi metodi sono stati sviluppati per produrre scaffold porosi. I più importanti
sono [2]:
Solvent casting \ particulate leaching: questa tecnica prevede la produzione di
una soluzione di polimero in cloroformio con l’aggiunta di particelle porogene con
un diametro specifico per produrre una sospensione uniforme (Mikos e al., 1994-
1996). Il solvente viene fatto evaporare permettendo la formazione di una struttura
altamente porosa;
Gas foaming: per eliminare la necessità di solventi organici nel processo di
formazione dei pori, è stata introdotta questa tecnica che usa un gas come agente
porogeno. Il processo comporta la saturazione di un polimero biodegradabile (PGA,
PLLA, PLGA) con anidride carbonica (CO2) ad alta pressione. La pressione del gas
è fatta decrescere poi rapidamente fino alla pressione atmosferica. Usando questa
tecnica si ottiene uno scaffold altamente poroso con dimensioni dei pori maggiori di
100 μm, ma i pori sono fortemente disconnessi.
Fiber bonding: questa tecnica consiste nell’unione di fibre di PGA seguendo
2 diverse tecniche:
1) le fibre di polimero sono immerse in una soluzione di PLLA,
successivamente il solvente viene fatto evaporare, formando in questo modo una
struttura in cui rimane intrappolato il PLLA. A questo punto il composito così
ottenuto viene riscaldato al di sopra della T di fusione di entrambi i polimeri, il
PLLA fonde per primo riempiendo tutti i vuoti lasciati dalle fibre. Questa tecnica
genera un dispositivo con una porosità intorno all’80% con pori di diametro di circa
500 μm;
2) Le fibre di polimero sono nebulizzate con PLLA o PLGA disciolte in un
solvente, successivamente il solvente evapora lasciando le fibre incollate con il
polimero;
Entrambe le tecniche permettono di produrre scaffold altamente porosi, ma
utilizzano solventi che potrebbero rivelarsi tossici per le cellule se non rimossi
completamente. Per rimuovere queste sostanze, i dispositivi devono essere essiccati
sotto vuoto per diverso tempo;
Separazione di fase \ emulsione: sono tecniche basate sull’aggiunta di un
agente porogeno. Includono le tecniche di emulsione, del freeze-drying e della
separazione di fase liquido/liquido, e permettono di ottenere porosità intorno al 90%
e dimensioni dei pori di circa 100 μm;
Esistono anche nuove tecniche di produzione degli scaffold che offrono la
possibilità di generare una migliore interconnessione dei pori; fra queste, la più
innovativa è la prototipazione rapida (RP). Questo processo permette di realizzare
un oggetto tridimensionale attraverso deposizioni successive di strati di materiale,
utilizzando una serie di dispositivi controllati da un computer seguendo un modello
bidimensionale della selezione dell’oggetto da ottenere. Tra le principali tecniche di
RP ricordiamo:
3D printing: il materiale in polvere viene compattato con un solvente o
collante sottoforma di strati sottili. Progressivamente questi strati sono compattati
per formare il dispositivo finale. Un parametro fondamentale di questa tecnica è la
granulometria delle polveri;
Fused deposition modelling (FDM): questa tecnica consiste nella
deposizione piano dopo piano tramite una testina dalla quale fuoriesce un polimero
semifuso;
Stereolitografia: questa tecnica si utilizza con polimeri fotosensibili ed è
suddivisa in 4 fasi: preparazione, costruzione, pulizia e post-trattamento. Attraverso
un raggio laser si effettua la polimerizzazione di un polimero allo stato liquido strato
per strato fino ad ottenere il dispositivo finale;
Selective laser sintering: permette la sinterizzazione laser di un materiale
sotto forma di polvere.
In questo lavoro di tesi verrà utilizzata la tecnica dello spinning associata alla
tecnica della liofilizzazione, brevettata per la prima volta dal’Ing. A. Sannino e altri
[34]: tale tecnica permette di ottenere scaffold altamente porosi di forma tubolare
senza ricorrere all’ausili di complessi sistemi di stampo.
La tecnica prevede che una sospensione collagene in acqua, iniettata all’interno di
un tubo in PVC o silicone a sua volta posto all’interno di uno stampo cilindrico in
rame, venga fatta ruotare molto velocemente (spinning) intorno all’asse
longitudinale dello stampo stesso, per un determinato periodo di tempo e ad una
specifica velocità di rotazione. In questo modo, a causa della differenza di densità
tra i componenti della miscela, il collagene tende a sedimentare verso le pareti
interne del contenitore (tubo), mentre l’acqua rimane nelle zona centrale.
La sospensione viene, poi, sottoposta ad un rapido congelamento (freezing)
immergendo lo stampo in un bagno di azoto liquido, in modo da fissare
(“congelare”) la separazione di fase così ottenuta. In seguito alla rapida
solidificazione, infatti, il collagene rimane confinato nella regione più esterna del
lumen del tubo. Il freezing della sospensione determina la formazione di una rete
interconnessa di cristalli di ghiaccio, che crescono e si sviluppano nella direzione
della diffusione del calore (radiale).
La successiva sublimazione del solvente (acqua), concentrato principalmente nella
regione centrale del lumen del tubo, ottenuta attraverso il processo di liofilizzazione,
porta all’ottenimento di una struttura tubolare, altamente porosa.
Questa particolare tecnica consente di ottenere supporti tubolari le cui pareti
esibiscono una struttura porosa caratterizzata da allineamento radiale dei pori ma,
soprattutto, nei casi di estrema sedimentazione, da un vero e proprio gradiente
di porosità radiale, per il quale la regione più esterna della parete del tubo mostra
una maggiore frazione volumetrica di solido e una minore dimensione media dei
pori rispetto alla regione più interna, in accordo con la necessità di dotare il
campione di determinate proprietà di permeabilità per i fattori nutrienti delle cellule.
Questa significativa differenza nella distribuzione dei pori è da attribuire all’effetto
combinato della sedimentazione, dovuta allo spinning, e del trasferimento di calore,
dovuto al freezing.
Così, la regione interna della parete del tubo forma una zona permeabile alle cellule
che possono migrare all’interno dello scaffold dalla parte interna del tubo, mentre la
regione esterna della parete costituisce una “barriera” impermeabile alle cellule ma
non alle proteine. Uno scaffold avente una simile struttura può facilitare lo studio
della direzione di migrazione cellulare durante la rigenerazione del nervo
periferico.
2.3 La componente cellulare
Il metodo della Tissue Engineering (Fig. 1) si avvale, dunque, oltre che di
complesse strutture di supporto (naturali o artificiali) progettate ad hoc, anche della
componente cellulare.
Le cellule utilizzate possono essere specifiche del particolare tessuto che si vuole
rigenerare (differenziate o progenitrici) oppure staminali (embrionali o adulte);
inoltre, possono essere autologhe (provenienti da parti sane dello stesso paziente),
allogeniche (provenienti da organismi della stessa specie) o xenogeniche
(provenienti da organismi di specie diverse). Esse devono essere capaci di
proliferare e rigenerare in condizioni controllate e riproducibili.
Cellule mature isolate tramite biopsia tissutale possono essere reimpiantate nello
stesso donatore evitando reazioni di rigetto e trasmissione di malattie, ma non sono
le migliori data la bassa capacità replicativa.
Le staminali, al contrario, sono cellule indifferenziate capaci di rigenerare per tempi
prolungati. Le cellule staminali adulte hanno mostrato una sorprendente versatilità
ed un discreto potenziale proliferativo, per questo sono adatte per la rigenerazione
tissutale, anche se, rispetto le cellule staminali embrionali, possiedono un potere
proliferativo più limitato [3].
2.4 La rigenerazione dei tessuti ed organi
Il ricorso sempre più ampio all’uso di biomateriali nella fabbricazione di dispositivi
medici per Terapie Avanzate (Tissue Engineering) ha permesso la realizzazione di
sistemi innovativi per il trattamento di numerose patologie o difetti: sistemi per il
trasporto mirato di medicinali e per la rigenerazione di muscoli cardiaci infartuati e
di tessuti come la pelle, la cartilagine, le ossa, i vasi sanguigni e i nervi [9].
Nonostante ciò, molti sono ancora i problemi incontrati nella rigenerazione di
tessuti più complessi come, ad esempio, fegato e reni. Le maggiori difficoltà
riscontrate sono principalmente due. La prima consiste nella difficoltà di strutturare
i diversi tipi di tessuto che compongono gli organi più complessi; la seconda
consiste nel facilitare la vascolarizzare di una struttura tridimensionale complessa e
ciò pone notevoli limiti alle dimensioni massime da sostituire.
Molti progressi sono stati compiuti dalla Medicina Rigenerativa negli ultimi anni
per quanto riguarda la rigenerazione di vari tipi di tessuti, ma il sogno della
comunità scientifica è quello di poter creare ex vivo tessuti e organi completamente
nuovi da impiantare.
2.4.1 La rigenerazione della pelle
Lo sviluppo di nuovi materiali e il miglioramento dei materiali esistenti per
promuovere la rigenerazione della pelle costituiscono una vasta area di ricerca nella
Tissue Engineering. I traumi della pelle possono essere causati dal calore, da agenti
chimici, dalle folgorazioni, dai raggi ultravioletti, dall’energia nucleare, oppure, da
incidenti che determinano l’usura del derma [9].
La pelle è stato il primo tessuto a essere ingegnerizzato e ad essere impiantato su un
paziente. Sono state messe a punto diverse tecniche per ottenere un tessuto
ingegnerizzato utilizzabile in, particolare, nei casi clinici di maggiore gravità
(innesti di pelle di cadaveri o xeno-innesti), ma spesso tali metodi non sono immuni
da ulteriori problematiche, come ad esempio, il rigetto del tessuto stesso da parte
dell’organismo [9].
Un altro metodo è quello di favorire la rigenerazione naturale attraverso l’innesto di
pelle autologa, ma il deficit tissutale che si crea nel sito di prelievo (donor site)
rappresenta un limite notevole di questa tecnica [9].
Oggi l’Ingegneria Tissutale permette di ottenere il tessuto in vitro attraverso colture
tridimensionali di fibroblasti prelevati, ad esempio, dalla placenta dei neonati e posti
su scaffold polimerici, in modo che producano una miscela di fattori di crescita e
proteine per la formazione della ECM [9].
Tali scaffold sono caratterizzati da una elevatissima porosità, necessaria per
permettere la diffusione di nutrienti, proteine e acqua e, dunque, per prevenire la
disidratazione del tessuto, ma anche da proprietà meccaniche e strutturali
comparabili a quelle della pelle e da una cinetica di degradazione controllata [9].
2.4.2 La rigenerazione della cartilagine
Negli ultimi anni una delle aree di ricerca più importanti dell’Ingegneria Tissutale è
stata quella relativa alla rigenerazione della cartilagine. I difetti della cartilagine non
possono essere adeguatamente curati con le normali procedure cliniche e la ricerca
di nuovi metodi di cura ha portato al miglioramento delle condizioni di vita di
milioni di pazienti [9].
I polimeri studiati per rigenerare la cartilagine possono essere di due tipi: polimeri
non degradabili e polimeri degradabili; tuttavia oggi i ricercatori protendono a
utilizzare maggiormente polimeri degradabili poiché permettono di ottenere scaffold
temporanei [9].
Rispetto ad altri tessuti, la cartilagine possiede caratteristiche che consentono una
facile ingegnerizzazione; essa, infatti, non ha grandi esigenze nutrizionali e non
richiede la formazione di nuovi vasi sanguigni, perciò lo scaffold può essere
progettato in modo da avere un’elevata densità cellulare, minimizzando la porosità
necessaria per l’apporto di nutrienti e ossigeno e l’eliminazione delle scorie [9].
2.4.3 La rigenerazione dell’osso
È noto che il corpo umano è in grado di auto-riparare i piccoli difetti dell’osso
prodotti in seguito a traumi. Tuttavia, difetti più grandi necessitano di interventi
clinici adeguati.
I primi materiali utilizzati per la realizzazione di scaffold per la rigenerazione
dell’osso erano di natura ceramica (e.g., titanio), ma, spesso, questi dispositivi
avevano tempi lunghi di riassorbimento. Oggi si sono fatti strada polimeri
contenenti idrossiapatite con migliori proprietà di riassorbimento [9].
Per questo tipo di difetti, la Tissue Engineering ha sviluppato scaffold con
un’elevata densità e un’alta stabilità meccanica, in grado di fungere da ancoraggio e
da indicatore strutturale per le cellule [9].
2.4.4 La rigenerazione dei condotti vascolari
Una delle principali malattie del sistema vascolare (vasi sanguigni) è costituita
dall’arteriosclerosi, che determina un restringimento dei vasi che ostruisce il
passaggio del sangue. Un trattamento clinico di questo difetto consiste nel bypassare
l’area interessata con un innesto artificiale o un innesto autologo [9].
Tuttavia, non sempre sono disponibili innesti autologhi, perciò l’Ingegneria
Tissutale ha sviluppato diverse procedure per ottenere innesti artificiali
biocompatibili. Una di queste tecniche prevede la coltivazione di cellule endoteliali
dell’aorta bovina, cellule del muscolo liscio e fibroblasti. Il primo step di tale
tecnica prevede la disposizione su un manicotto di forma cilindrica di una coltura di
collagene e cellule del muscolo liscio, in modo da formare la cosiddetta tunica
liscia dei condotti vascolari; successivamente, tale struttura viene ricoperta con i
fibroblasti per l’ottenimento della tunica avventizia e, infine, si procede con
l’estrazione del manicotto e con la semina delle cellule endoteliali per promuovere
la formazione della tunica intima [9].
2.5 La rigenerazione del sistema nervoso periferico
2.5.1 Cenni di anatomia e biologia del sistema nervoso
Il sistema nervoso umano “raccoglie” informazioni all’interno del corpo e
dall’ambiente esterno e organizza le reazioni più appropriate dirigendo l’attività
muscolare e l’attività degli organi interni. Si suddivide in sistema nervoso centrale
(SNC), composto da cervello e midollo spinale, e sistema nervoso periferico (SNP),
costituito dai nervi, che rappresentano le “vie di trasmissione” degli impulsi nervosi
provenienti dal sistema nervoso centrale.
In questo studio cercheremo di capire più a fondo l’anatomia e il funzionamento del
sistema nervoso periferico. Come già accennato, il SNP trasmette segnali elettrici
tra il SNC e i recettori motori e sensoriali in modo da regolare tutti i movimenti e le
sensazioni. I neuroni (Fig. 2.2) sono le cellule specializzate che permettono di
condurre questi impulsi elettrici.
Il neurone è costituito da un voluminoso corpo centrale, chiamato soma, in cui
vengono prodotti gli impulsi nervosi e da prolungamenti lunghi e sottili, attraverso
cui viaggiano gli impulsi stessi. Esistono 2 tipi fondamentali di questi
prolungamenti: i dendriti, più corti e ramificati, che ricevono gli stimoli dalla
periferia, e gli assoni (ogni neurone possiede un solo assone), che trasporta gli
impulsi elettrici verso la periferia.
Gli assoni sono spesso lunghissimi (raggiungono il metro di lunghezza) e sono
caratterizzati da un rivestimento isolante, la cosiddetta guaina mielinica. La regione
terminale in cui incontra la cellula è detta sinapsi. La guaina mielinica è prodotta
dalle cellule di Schwann che circondano gli assoni. Ogni cellula di Schwann riesce a
ricoprire con la mielina solo piccolissimi tratti di assoni, per questo motivo, intorno
all’assone, occorrono numerose cellule di questo tipo. Alcune piccole aree degli
assoni non sono circondate dalla guaina mielinica, tali zone sono chiamate nodi di
Ranvier e permettono la trasmissione dei segnali in maniera molto più veloce.
Fig. 2.2 Il neurone
Migliaia di assoni sono raggruppati insieme all’interno di una guaina di tipo
connettivo, chiamato perinevrio. Infine, tutto il nervo è protetto da uno strato di
tessuto connettivo che prende il nome di epinevrio che ha la funzione di proteggere
il nervo dalle aggressioni fisiche esterne [10].
2.5.2 Danneggiamento di un nervo
Quando un assone viene danneggiato, la parte collegata direttamente al soma
continua a sopravvivere (parte prossimale), mentre la restante parte (parte distale) in
condizioni normali muore.
Più in particolare, nel momento in cui l’assone viene danneggiato si ha la perdita di
materiale nervoso fino a quando non interviene la membrana a chiudere la soluzione
di continuità e a cicatrizzare la ferita. Contemporaneamente il segmento distale
dell’assone degenera perché privo della sua fonte di nutrimento; il processo di
degenerazione può durare anche più di un mese anche se il collegamento sinaptico
si interrompe quasi istantaneamente.
In alcune situazioni, gli assoni del sistema nervoso possono rigenerare e ristabilire
connessioni sinaptiche grazie a dei fattori neurotrofici prodotti dalle cellule di
Schwann che mantengono vitale il corpo cellulare e stimolano la ricrescita
dell’assone che raggiunge il tessuto bersaglio seguendo i segnali chimici nella
matrice extra-cellulare; laddove questo non fosse possibile si capisce l’importanza
della presenza di un opportuno supporto che funga da ponte per ristabilire il
collegamento nervoso interrotto.
2.5.3 Trattamenti clinici sul nervo danneggiato
I principali trattamenti clinici attualmente utilizzati per curare le lesioni complete
dei nervi sono la sutura diretta dei due monconi e l’innesto di nervo autologo [12].
La sutura diretta permette di ricollegare le due estremità di un nervo lesionato.
Questo approccio può essere utilizzato solo quando la distanza tra i due monconi
nervosi adiacenti è inferiore a 5 mm. Per distanze maggiori si creano tensioni che
impediscono un recupero adeguato del nervo [12].
I trapianti di nervo autologo sono usati per trattare i difetti con una distanza
superiore ai 5 mm. Tale tecnica consiste nel prelevare dal paziente stesso una parte
di nervo (solitamente il nervo surale) da utilizzare come innesto per collegare i
monconi nervosi lesionati. La procedura, tuttavia, presenta diversi svantaggi, tra cui:
il sacrificio di una parte sana da cui prelevare l’innesto, la difficoltà di trovare
adeguati spessori e distanze di innesto, la limitata disponibilità di siti donatori e la
necessità di più interventi chirurgici [12-15].
2.6 Sviluppi recenti nella progettazione di scaffold per la rigenerazione del SNP
Per ovviare a tutti questi problemi, l’Ingegneria Tissutale ha cercato delle
alternative meno invasive basate sull’utilizzo di innesti sintetici. Tra le più
interessanti ed efficaci la tecnica della tubulazione si è mostrata fin dai primi
tentativi in grado di facilitare e stimolare la rigenerazione nervosa (SNP). Per
tubulazione si intende il ricorso ad un condotto tubolare (nerve conduit o nerve
chamber), opportunamente progettato, per guidare la riconnessione tra le estremità
(monconi) di un nervo periferico danneggiato (reciso) e indurre la rigenerazione del
segmento nervoso.
Fig. 3.3 Rappresentazione schematica della tecnica della tubulazione
Tali scaffold oltre a fornire un substrato ideale (in termini di morfologia e risposte
agli stimoli meccanici) allo svolgimento delle funzioni cellulari permettono, inoltre,
di: regolare il microambiente al loro interno, grazie alla possibilità di incorporare
nella struttura biomolecole o, eventualmente, cellule precedentemente seminate e
coltivate; evitare l’infiltrazione di cellule infiammatorie e/o inibitorie all’interno del
lumen del tubo, prevenendo il fenomeno di riparazione (cicatrizzazione) naturale; di
dirigere l’elongazione degli assoni attraverso il gap [16-18].
Questo dispositivi vengono progettati utilizzando numerose varietà di polimeri
naturali e sintetici. In particolare, alcuni componenti della ECM, come il collagene,
hanno portato all’ottenimento di un nervo rigenerato di buona qualità, in termini di
numero e diametro medio degli assoni rigenerati, di grado di mielinazione, di
distanza massima del gap lungo la quale la rigenerazione può essere ottenuta con
successo e di velocità di rigenerazione [16, 19].
Per ottenere una buona rigenerazione dei nervi periferici, gli scaffold tubolari porosi
devono presentare proprietà adeguate come: una buona biodegradabilità, una
porosità orientata radialmente (maggiore verso l’interno e minore verso l’esterno),
in modo da impedire ai miofibroblasti (agenti cicatrizzanti) di arrivare presso i siti
danneggiati del nervo, ma contemporaneamente, permettere alle proteine e agli
agenti nutrienti di penetrare all’interno del sito in cui avviene la rigenerazione e
apportare il loro contributo positivo [20].
MATERIALI E METODI
Lo scaffold ha un ruolo molto importante nell’Ingegneria Tissutale e deve possedere
proprietà adeguate per promuovere l’adesione e la crescita cellulare e per favorire la
rigenerazione di tessuti o organi danneggiati da patologie, traumi o procedure
chirurgiche. Tra le proprietà più importanti, gli scaffold devono possedere: porosità
adeguata, composizione chimica appropriata, proprietà meccaniche e termiche
desiderate [4, 5, 13, 21].
In questo capitolo si analizzerà il materiale utilizzato per la fabbricazione dello
scaffold, il collagene, specificandone la struttura e le proprietà, successivamente
verrà descritta la tecnica di ottenimento dello slurry e, infine, verranno illustrate la
tecnica di fabbricazione degli scaffold e gli strumenti utilizzati per la
caratterizzazione delle proprietà fisiche, meccaniche e morfologiche di interesse
ingegneristico.
3.1 Il collagene
Il collagene è la proteina strutturale principale del corpo umano, rappresentando
circa il 30% di tutte le proteine dei vertebrati; più del 90% delle proteine che
compongono il tendine e l’osso e più del 50% delle proteine della pelle sono
costituite da collagene [23].
Il collagene gioca un ruolo molto importante nella formazione e nel mantenimento
di tessuti e organi ed è coinvolto in numerose funzioni cellulari. Il collagene, infatti,
è il costituente principale della matrice extracellulare (ECM), ovvero di quella rete
organizzata di proteine (elastina, laminina, fibronectina, proteoglicani) responsabile
del sostegno, della stabilità meccanica e biochimica dei tessuti, e della regolazione
delle interazioni tra le cellule e tra cellule ed ECM [22]. In condizioni normali, la
ECM è mantenuta sotto costante remodelling da parte dell’organismo. Il
remodelling è un processo che avviene continuamente nel corpo umano e consiste
nell’assorbimento della vecchia ECM e nella sintesi di nuova.
Il danneggiamento di un tessuto innesca il meccanismo di riparazione, attraverso il
quale l’organismo produce una risposta uniforme, che si traduce in un aumento
dell’attività cellulare e in un incremento di sintesi di collagene. Il processo di
riparazione serve a minimizzare l’estensione iniziale del danno e preserva le
funzioni del tessuto. L’incremento della sintesi di collagene è un’importante aspetto
di questo processo [26].
L’eccellente biocompatibilità, le buone proprietà emostatiche, la buona adesione
cellulare, l’elevata biodegradabilità (regolabile attraverso vari trattamenti di
stabilizzazione esogena), la bassa antigenicità, la non tossicità e le singolari
proprietà meccaniche hanno reso il collagene uno tra i più usati biomateriali per
applicazioni biomediche. Tutte queste proprietà, oltre alla sua composizione
chimica, influenzano notevolmente la bioattività di uno scaffold, cioè la sua capacità
di stimolare, di indurre o influenzare i comportamenti e le risposte cellulari. Per tutti
questi aspetti, il collagene è considerata la proteina che nel prossimo futuro darà i
migliori risultati [22].
Esistono 19 differenti tipi di proteine riconducibili alla famiglia del collagene,
accomunate dalla stessa struttura molecolare, in grado di conferire proprietà
biologiche specifiche ai vari tipi di tessuti connettivi. I vari tipi di collagene si
differenziano per variazioni nella lunghezza della tripla elica, nella natura e nella
dimensione di porzioni terminali della struttura non a elica, nelle modalità e nei
livelli di assemblamento e formazione delle strutture più complesse.
Il collagene di tipo I è quello predominante nelle specie animali e nell’uomo. Da
questa proteina derivano le proprietà biomeccaniche e la resistenza a trazione delle
ossa, della pelle, dei tendini dei legamenti e della cartilagine. La molecola base del
collagene di tipo I è costituita da 3 catene polipeptidiche, chiamate catene-α. Le 3
catene sono organizzate in modo tale da formare una tripla-elica. Gli altri tipi di
collagene più diffusi nei vertebrati sono il tipo II e III [22 - 28].
Tale molecola si è dimostrata essere il substrato ideale nei processi riparativi e
rigenerativi: molti tipi di cellule (epiteliali, endoteliali, fibroblasti, osteoblasti ecc)
sono in grado si aderire alle fibre di collagene di tipo I, di proliferare, di migrare e
orientarsi per formare o riparare un tessuto.
3.1.1 Sequenza strutturale del collagene di tipo I
La struttura base della molecola del collagene di tipo I è costituita da 3 catene
polipeptidiche, due delle quali identiche, denominate catene-α1(I), e l’altra, di
differente composizione, chiamata catena-α2(I). Ogni catena polipeptidica contiene
circa 1000 aminoacidi. Un aminoacido è un monomero con un’unità ripetitiva base
che può legarsi ad altri aminoacidi (Fig. 3.1).
Fig 3.1 Struttura di un amminoacido
L’aminoacido più semplice è la glicina (Gly) in cui R=H (Fig. 3.2).
Ogni catena ha una struttura ripetitiva del tipo (- Gly – X – Y -)n dove Gly
rappresenta la glicina, X e Y rappresentano le posizioni solitamente occupate,
rispettivamente, dalla prolina (Pro) e dall’idrossiprolina (Hyp). La catena è
organizzata in modo che ogni terzo residuo sia occupato dalla glicina.
Fig 3.2 Struttura della glicina
La prolina è un amminoacido primario ed è l'unico ad avere il gruppo amminico
secondario. In Fig 3.3 è rappresentata la sua struttura:
Fig 3.3 Struttura della prolina
In Fig 3.4 si può notare come la glicina formi un gomito sottile all'interno dell'elica,
e che la prolina e l'idrossiprolina piegano dolcemente la catena proteica a forma di
elica.
Fig 3.4 Struttura delle catene α
Da notare, infine, che il collagene bovino ha una composizione istologica identica a
quella del collagene umano. Le tre catene-α si combinano tra loro a formare una
triplice elica; quest’ultime si legano e si organizzano tra loro associandosi
lateralmente e longitudinalmente per formare le fibrille e poi ancora a formare le
fibre (Fig 3.5) [11].
Fig. 3.5 Stadi di formazione delle fibre di collagene
3.2 La sintesi dello slurry
Esistono diverse procedure per la sintesi di preparati a base di collagene da
utilizzare per la realizzazione di matrici e substrati da impiegare come scaffold per
la rigenerazione tissutale. Per la fabbricazione delle neuro-guide oggetto di studio si
è partiti da sospensioni concentrate di collagene (soluto) in acqua (solvente),
comunemente denominate slurry, quali materiali di base. senza l’aggiunta di altri
materiali come i glisaminoglicani (GAGs)
La scelta dell’utilizzo del solo collagene è motivata dai sorprendenti risultati (in
termini di rigenerazione assonale e risposta dell’organismo ospite) già ottenuti in
seguito all’utilizzo di questi dispositivi in test preliminari condotti su modello
animale, nonché dalla volontà di evitare l’impiego di materiali (i.e.,
glicosamminoglicani) il cui ruolo/effetto (inibitorio secondo alcuni autori) sul
processo di rigenerazione del nervo è dibattuto [29-33].
3.2.1 Preparazione della sospensione a base di collagene
La sintesi dello slurry, sebbene preveda la semplice solubilizzazione delle fibre di
polimero in acqua distillata, è un processo che richiede particolare cura e attento
monitoraggio, per prevenire, in seguito all’idratazione e al miscelamento,
l’alterazione della delicata struttura del collagene.
In questo studio sono state prodotte sospensioni con concentrazioni di collagene pari
a 1%wt, 2% wt, 3% wt e 5% wt. Il collagene utilizzato è prodotto dalla Kensey-Nash
Corporation (Exton, PA) ed è un collagene di tipo I in forma fibrillare, estratto da
derma bovino e purificato per via enzimatica, disponibile in commercio sotto forma
di fiocchi (Fig. 3.6).
Fig. 3.6 Collagene
L’esatta quantità di proteina da dissolvere per ottenere la concentrazione desiderata,
stabilita a monte dell’operazione, viene dapprima pesata, tramite una bilancia di
precisione (mod. Sartorius) e poi riversata, in piccole dosi, in un becker incamiciato,
contenente acqua distillata mantenuta in costante agitazione da un miscelatore
magnetico (mod. Velp Scientifica) e a una temperatura sufficientemente bassa (<
10°C) da un sistema di raffreddamento custom-built, cercando di evitare la
formazione di grumi.
La necessità di condizionare la temperatura deriva dalla volontà di prevenire la
possibile denaturazione delle fibre di collagene (ossia la rottura dei ponti H intra- e
inter-molecolari), che, in queste condizioni, comincerebbe, per effetto del calore
generato in seguito alla miscelazione, intorno ai 28°C. La verifica delle condizioni
termiche viene effettuata da un controller che mediante una termocoppia posta sulla
superficie direttamente a contatto con la sospensione in miscelazione, ne misura la
temperatura.
La miscelazione viene effettuata, come detto, mantenendo in costante debole
agitazione la sospensione per mezzo di uno stirrer magnetico (o di uno shaker
meccanico), a temperatura controllata (e pamb) per almeno 12 ore, per permettere lo
swelling e la completa solubilizzazione delle fibre.
3.2.2 Processo di degasazione
Per eliminare le inclusioni di aria inevitabilmente introdotte a causa della
miscelazione, lo slurry viene, poi, trasferito in una provetta, posta all’interno di una
centrifuga (IEC CL31 Multispeed, Fig. 3.8) per effettuarne la degasazione (R =
9000 rpm, t = 15 min).
Fig. 3.8 Centrifuga IEC CL31 Multispeed
La sospensione è, quindi, pronta per l’uso e va conservata a 4°C per non più di un
mese, tempo oltre il quale è molto probabile si verifichino fenomeni di
contaminazione batterica o degradazione. Nel caso di riutilizzo ri-miscelare e
centrifugare se necessario.
3.3 La fabbricazione di uno scaffold
3.3.1 La tecnica dello spinning
Per la fabbricazione degli scaffold è stata utilizzata, come già ampiamente riportato,
la tecnica dello spinning (dall’inglese spin = ruotare) brevettata dall’ingegnere
Alessandro Sannino (ricercatore presso l’Università del Salento) e colleghi.
La sospensione degasata di collagene viene iniettata in un contenitore tubolare in
PVC o silicone, rivestito con un sottile foglio di rame e sigillato all’estremità
inferiore con un tappo in polisilossano, utilizzando una pipetta graduata e
procedendo con molta cura per evitare l’introduzione di bolle d’aria.
Il tubo in PVC viene, poi, inserito in uno stampo in rame (Fig. 3.9), quest’ultimo
chiuso e serrato direttamente all’utensile rotante, il Dremel (Fig. 3.10), dalla sua
parte superiore.
Fig 3.9 Stampo in rame con inserto in PVC
La scelta del rame è dovuta alla elevata conduttività termica che caratterizza questo
materiale, che permette un rapido raffreddamento della sospensione di collagene,
scongiurandone ogni rimescolamento.
Fig 3.10 Dremel con relativo supporto.
A questo punto sì da il via allo spinning: lo stampo (montato in posizione verticale)
viene fatto ruotare in aria a una velocità angolare molto elevata (R, rpm) per un
determinato tempo di spinning (ts, min), per indurre, a causa della elevata forza
centrifuga, la sedimentazione del soluto verso la parete interna del tubo (spinning
phase). Trascorso ts, lo stampo viene immerso rapidamente in un bagno di azoto
liquido (T = -195°C), dove continua a ruotare alla stessa velocità angolare (R) per
uno specifico tempo di freezing (tf, min), per fissare la separazione dei due
componenti (freezing phase). Al termine della fase di freezing, lo stampo viene
estratto dal fluido criogenico e il tubo di PVC contenente la sospensione congelata
rapidamente rimosso dallo stampo di rame e posto in un freezer a una temperatura
di -45°C.
Il sottile rivestimento in rame si è rivelato molto efficace nel contenere le
deformazioni che il tubo contenitore subisce a causa dell’elevata forza centrifuga
cui è sottoposto durante lo spinning e nel facilitarne la sfilatura dallo stampo al
termine del freezing, garantendo al contempo una maggiore continuità nel
trasferimento di calore in direzione radiale rispetto al caso di eccessivo gioco tra
tubo e parete interna dello stampo. L’operazione di sfilatura del campione dallo
stampo richiede molta attenzione, perché la struttura ottenuta è molto fragile e può
andare incontro a danni permanenti.
3.3.2 La liofilizzazione
Il prodotto così ottenuto (sospensione congelata caratterizzata da una netta
separazione di fase al suo interno) viene posto in un liofilizzatore (Advantage
Freeze-Dryer, Virtis), strumento in grado di imporre una ben determinata storia di
temperatura e pressione (Fig. 3.11).
Fig 3.11 Liofilizzatore
Il processo fondamentale cui va incontro il campione in seguito alla liofilizzazione è
la sublimazione del solvente, ovvero la transizione diretta dalla fase solida a quella
gassosa [35].
Osservando il diagramma del punto triplo dell’acqua ci si accorge, infatti, di come
questo sia possibile solo in particolari condizioni di temperatura e pressione (Fig.
3.12).
Fig 3.12 DDS dell’acqua (punto triplo: T=0,01 °C, P=6,04*10-3
atm)
La possibilità di eliminare il solvente (acqua in questo caso) senza passare
attraverso lo scongelamento/rimescolamento della sospensione, ovvero attraverso la
fusione dei cristalli di ghiaccio e la conseguente distruzione dei pattern cristallini
ricreati in seguito al congelamento, permette di ottenere un costrutto deidratato
costituito unicamente da collagene: i cristalli di ghiaccio, in seguito alla
sublimazione dell’acqua, “scompaiono” lasciando rapidamente il posto al vuoto, e
trasformandosi in pori. Questo trattamento consente di generare matrici dalla
struttura sponge-like, in cui il network di pori interconnessi finale è l’esatta replica
del network di cristalli di ghiaccio esistente prima della sublimazione, e il collagene,
che non va incontro ad alcuna modifica del suo arrangiamento spaziale in seguito
alla transizione di fase, ne costituisce le trabecole.
La ricetta utilizzata in questa operazione (Fig 3.13) prevede due fasi: nella prima,
dopo un pre-vuoto iniziale (fino ad una pressione di 500 mTorr), la temperatura
viene portata da Tamb a -40°C, ad una velocità di 0,9 °C/min. La pressione viene
quindi ridotta a 200 mTorr mentre la temperatura mantenuta costante per circa 60
minuti: in questo intervallo temporale i campioni congelati vengono prelevati dal
freezer e inseriti nella camera del freeze-dryer. Nella seconda fase, la temperatura
viene portata repentinamente a 0°C e mantenuta a questo valore per 17 ore: in
queste condizioni avviene, ad una pressione minore di 100 mTorr, la sublimazione
primaria, cioè, l’eliminazione delle molecole d’acqua separatesi dalla parte solida.
L’ultima fase della ricetta prevede, sempre in condizione di vuoto spinto, il
riscaldamento dei prodotti (T = 20°C) per 120 minuti: questo step può essere
interpretato come una sublimazione secondaria in cui si eliminano le molecole di
acqua legate chimicamente al collagene.
Fig 3.13 Ricetta operativa del liofilizzatore
3.3.3 La sformatura
Attraverso la tecnica della liofilizzazione è possibile ottenere matrici caratterizzate
da elevata porosità (fino a circa il 90%) [32]. I campioni, però, al termine del
processo si trovano ancora nel tubo in PVC dal quale vanno sformati prestando
molta cura: a causa della struttura microporosa, della geometria macroscopica
(forma tubolare a parete sottile) e della estrema sensibilità del collagene all’umidità
gli scaffold sono, infatti, in questa fase, molto deformabili, e anche piccole
sollecitazioni possono provocarne il collasso della struttura.
Per prima cosa il tubo in PVC viene spogliato dalla sottile lamina di rame che lo
avvolge; successivamente, utilizzando, delle pinzette da laboratorio, viene sfilato il
-50
-40
-30
-20
-10
0
10
20
30
0 200 400 600 800 1000 1200 1400
Tempo (min)
Tem
per
atu
ra (
° C
)
tappo in polisilossano (Fig. 3.14).
Fig 3.14 Estrazione del tappo dall’interno del tubo
A questo punto, con l’aiuto di un perno, lo scaffold viene spinto fuori dal tubo (Fig.
3.15).
Fig 3.15 Estrazione dello scaffold dall’interno del tubo
3.3.4 La reticolazione
Gli scaffold in collagene così ottenuti non possiedono ancora le proprietà richieste
nel campo bioingegneristico per essere impiantati all’interno degli organismi,
infatti, a contatto con i fluidi corporei nel sito d’impianto, il collagene andrebbe
incontro ad una rapida dissoluzione e non permetterebbe allo scaffold di esplicare le
sue funzioni. A causa di ciò, gli scaffold tubolari porosi in collagene devono essere
sottoposti a determinati trattamenti per stabilizzare la struttura del collagene contro
la rottura e la scissione delle catene peptidiche, per aumentare la biocompatibilità,
per conferire una maggiore rigidezza alle matrici e una maggiore integrità
strutturale [36]. Queste proprietà possono essere ottenute attraverso opportuni
trattamenti di reticolazione (cross-linking) esogena, che permettono di introdurre
legami forti (covalenti) inter- e intra-molecolari addizionali nell’architettura
strutturale del collagene [37-39].
La densità dei cross-links introdotti artificialmente, per via chimica o fisica, con la
reticolazione influenza notevolmente le proprietà meccaniche (resistenza
meccanica), le proprietà biologiche (velocità di degradazione in vivo) e le proprietà
termiche (temperatura di denaturazione) [38]. Infatti, un maggior numero di legami
covalenti porta all’ottenimento di scaffold caratterizzati da maggiore stabilità, sia
chimica che fisica.
La stabilità chimica si manifesta con una maggiore resistenza alla degradazione
enzimatica in vitro e in vivo. La velocità di biodegradazione, inoltre, può essere
modulata agendo sull’intensità del particolare trattamento di reticolazione utilizzato,
in modo tale da avere un tempo di riassorbimento simile a quello di rigenerazione
del tessuto. Infatti, se durante le prime fasi lo scaffold deve guidare la formazione
del neo-tessuto, successivamente deve poter essere riassorbito dall’organismo, in
modo da non ostacolare il processo naturale di remodeling che avviene
continuamente nel nostro corpo.
La stabilità termica si manifesta, invece, con un incremento della temperatura di
denaturazione del collagene. La temperatura di denaturazione è la temperatura alla
quale la struttura a tripla elica del collagene si rompe, poiché vengono meno i
legami deboli (legami idrogeno, legami di Wan der Waals, ecc.) che tengono
insieme la tripla elica. Sebbene non sia possibile collegare direttamente la
temperatura di denaturazione alla densità di reticolazione e, quindi, al numero di
legami covalenti, è stato dimostrato che un grado di reticolazione maggiore
determina una maggiore temperatura di denaturazione negli scaffold e, quindi, una
maggiore stabilità termica.
In generale, la stabilità termica e le proprietà chimico-fisiche degli scaffold in
collagene possono essere modulate attraverso il metodo, il tempo e l’intensità di
reticolazione.
3.3.4.1 I principali metodi di reticolazione
Esistono 2 classi di reticolazione: la reticolazione chimica, che si avvale di agenti
chimici reticolanti; la reticolazione fisica, che si avvale di tecniche come i raggi UV
e la somministrazione di calore [39].
Tra i reticolanti chimici, il più importante è sicuramente la glutaraldeide (GTA). La
GTA è stata ampiamente utilizzata, poiché induce un elevato numero di legami
covalenti nelle strutture in collagene e permette di raggiungere proprietà
termomeccaniche tra le più alte [38, 40]. Inoltre, diversi studi hanno dimostrato che
passando dalla reticolazione con GTA ottenuta trattando il collagene in soluzione
acquosa, alla reticolazione indotta attraverso vapori di GTA, aumenta il tempo di
degradazione [38,40]. Ciò nonostante, l’utilizzo della GTA nel campo biomedico è
limitato a causa della sua forte citotossicità [38, 40].
Un altro importante agente reticolante è il dimetil-suberimidato (DMS), che pur
dimostrando una minore citotossicità, induce un minore numero di legami covalenti
rispetto alla GTA e perciò, permette di raggiungere proprietà termomeccaniche più
basse [38].
Tra i reticolanti più efficaci c’è la formaldeide. Essa possiede una molecola molto
piccola che penetra facilmente all’interno della struttura della tripla elica del
collagene, assicurando la formazione di legami covalenti molto forti. Tuttavia,
anche il suo utilizzo in ambito biomedico è molto limitato a causa della forte
citotossicità [40].
Altri reticolanti utilizzati spesso sono l’esaetilene-diisocianato (HMDC) e il
dimethyl 3,30-dithiobispropionimidate (DTBP). In particolare, il DTBP risulta
essere un buon reticolante a causa della presenza di legami bisolfuro [38].
Molte tecniche di reticolazione, inoltre, sono ottenute combinando la reticolazione
chimica con la reticolazione fisica [38, 41].
In questo studio si è fatto ricorso all’utilizzo della reticolazione termica. Tale
metodo di reticolazione permette di eliminare i problemi legati alla citotossicità dei
reticolanti chimici, induce un elevato numero di legami covalenti, permette di
preservare l’integrità strutturale e la morfologia dello scaffold e, infine, di ottenere
la resistenza alla biodegradazione voluta [41].
3.3.4.2 La reticolazione termica (DHT)
Nell’ambito del presente studio, gli scaffold sono stati trattati facendo ricorso
unicamente alla reticolazione termica, o DeHydroThermal cross-linking. Essa
prevede il riscaldamento dei campioni, in condizioni di vuoto spinto (p < 100
mTorr), ad una temperatura di 121°C per tempi ben determinati (in questo studio 24
e 48 ore).
Fig 3.16 Stufa da vuoto
Tale trattamento, condotto in una stufa da vuoto (Fig. 3.16), determina un
incremento della temperatura di denaturazione poiché provoca la rimozione delle
molecole di acqua ancora presenti nella struttura del collagene e determina la
formazione di cross-link tra le triple-eliche (inter-chain), quale risultato delle
reazioni di condensazione in seguito a esterificazione o formazione di una ammide.
Inoltre, il grado di reticolazione può essere modulato variando la durata e l’intensità
di esposizione del trattamento, permettendo di ottenere un controllo preciso della
velocità di degradazione dello scaffold.
3.3.5 La sterilizzazione
La sterilizzazione è un termine assoluto per indicare la distruzione di ogni forma di
vita [42]. La ricerca di un processo di sterilizzazione efficace e che non danneggi
l’integrità strutturale, le proprietà e la funzionalità dei dispositivi medici
impiantabili, come ad esempio quelli costituiti da collagene, rappresenta ancora
oggi uno dei problemi più importanti nel campo dei biomateriali.
La sterilizzazione può essere classificata come fisica o chimica e può essere
effettuata con sostanze liquide, gassose, oppure, attraverso radiazioni
elettromagnetiche. Nell’agosto del 2002 la FDA (Food and Drug Administration) ha
effettuato una classificazione dei vari metodi di sterilizzazione individuando 2
classi: metodi tradizionali e metodi non-tradizionali [42].
I metodi di sterilizzazione tradizionali sono: a secco con calore; in umido con
calore; con ossido di etilene (EtO) in camera a vuoto; con radiazioni (elettroni o
raggi γ); con sterilizzanti chimici liquidi. I metodi non-tradizionali sono: EtO usato
in assenza di camera da vuoto; iniezione di EtO in polimeri porosi in combinazioni
con processi quali il metodo a secco, il metodo a diffusione, il metodo a iniezione,
raggi ultravioletti, gas combinato a plasma, sistemi a vapore e altri [42].
La ricerca di un processo di sterilizzazione efficace che non alteri o danneggi
l’integrità strutturale, le proprietà e la funzionalità di dispositivi medici impiantabili
(protesi e scaffold), in particolare di quelli costituiti da biomateriali come il
collagene, rappresenta oggi una tra le più importanti sfide nel campo dell’Ingegneria
Tissutale.
3.3.5.1 I principali metodi di sterilizzazione
I più importanti metodi utilizzati nella pratica per la sterilizzazione di biomateriali o
dispositivi medici, verranno ora descritti e messi a confronto in modo da illustrare
vantaggi e svantaggi e, infine, verrà illustrato il metodo utilizzato per questo lavoro:
la sterilizzazione termica.
La sterilizzazione con calore in umido è ottenuta dalla saturazione del vapore sotto
pressione. I vantaggi di questo procedimento sono: tempi di esposizione al processo
ristretti, ma sufficienti a distruggere ogni forma di vita (15 min a 121°C e 1 atm);
forte e rapida penetrazione; nessuna tossicità. Lo svantaggio principale è
rappresentato dal fatto che il collagene è un biomateriale altamente sensibile
all’umidità (water-sensitive) [44].
L’ossido di etilene (EtO) permette di ottenere gli stessi risultati della sterilizzazione
con calore in umido senza riportare gli effetti negativi di questi processi. Nonostante
ciò, l’EtO lascia numerosi residui tossici che hanno bisogno di molto tempo per
essere eliminati [42 - 46, 48].
Gli sterilizzanti liquidi includono, ad esempio, la glutaraldeide, formaldeide e acido
peracetico. Il liquido comunemente più usato è la glutaraldeide, esso è un potente
agente biocida. È usato quando il calore umido, il calore secco o altri metodi di
sterilizzazione non possono essere usati sul materiale. Risulta essere, però, un
agente chimico tossico [42, 45, 46].
Il metodo delle radiazioni comprende: le micronde, raggi β, raggi UV, raggi X, i
raggi γ e gli elettroni. Numerosi studi dimostrano, però, che tali metodi sono
altamente dannosi per le molecole del collagene [42]. Tra quest’ultimi metodi, i
raggi γ sono quelli che hanno riscosso più interesse.
La possibilità di utilizzare radiazioni γ per la sterilizzazione dei materiali biomedici
ha avuto un significativo sviluppo perché può essere effettuata dopo che i
contenitori sono stati . Tuttavia l’efficacia delle radiazioni dipende dal dosaggio
utilizzato. Le radiazioni γ a 1 Mrad riescono a sterilizzare molti materiali, ma a
questo basso dosaggio, sono altamente dannose per il collagene [42-47]. Il
danneggiamento del collagene è chiaramente dimostrato dal venir meno
dell’integrità strutturale della proteina e da una drammatica diminuzione della
resistenza alla degradazione enzimatica [44]. Infatti, dall’analisi del peso molecolare
si osservano catene peptidiche con un elevato range di pesi molecolari differenti,
sinonimo della rottura dei legami inter- e intra-molecolari [43, 45, 46, 49]
Risultati leggermente migliori sono stati ottenuti con l’utilizzo di raggi elettronici,
ma permangono ancora molte delle criticità riscontrate con i raggi γ [45].
3.3.5.2 La sterilizzazione termica (DHS)
Nel nostro caso (scaffold altamente porosi prodotti mediante la tecnica dello spin-
casting e sfruttando il processo di liofilizzazione, e reticolati seguendo una
procedura di reticolazione termica standard) si è deciso di utilizzare la
sterilizzazione termica, o “Dry-Heat Sterilization” (DHS), metodo riconosciuto
come “tradizionale e certificato dalla FDA”.
Il metodo consiste nel porre gli scaffold reticolati in una stufa da vuoto in
condizioni standard (2 ore a 160°C, sotto vuoto spinto). Gli scaffold, prima di essere
posti in stufa, sono alloggiati in contenitori di alluminio, come in Fig. 3.17. In
questo modo tutte le spore di batteri eventualmente presenti sugli scaffold vengono
eliminate, dato che già alla temperatura di 121°C tutti i batteri muoiono.
Fig 3.17 Crogiuolo in alluminio
In questo studio cercheremo di dimostrare che l’impatto di questo tipo di
sterilizzazione sulla morfologia e sulla geometria della struttura tubolare (forma,
diametri, spessori della parete), e sulle proprietà microscopiche della struttura
tubolare degli scaffold (orientazione, forma e dimensione) è trascurabile.
3.4 I metodi di caratterizzazione
Le strutture tubolari porose degli scaffold in collagene ottenute attraverso la
combinazione della tecnica dello spinning e del freeze-drying sono state
caratterizzate attraverso l’utilizzo di determinati apparecchi.
A tal fine sono stati utilizzati il reometro per stabilire le proprietà viscoelastiche
(analisi dinamico-meccanica, o DMA), il calorimetro a scansione differenziale
(DSC) per le proprietà termo-fisiche e il microscopio elettronico a scansione (SEM)
per le proprietà macro e micro - morfologiche
3.4.1 Il reometro
Il reometro è uno spettrometro dinamico che studia le relazioni sforzo-deformazione
dei fluidi, dei liquidi o di una sospensione, permettendo così di prevedere il
comportamento di un materiale sotto determinate condizioni di utilizzo. Le tecniche
di misura si basano sull’applicazione di uno sforzo di taglio che permette di
calcolare l'entità e la velocità della deformazione o, viceversa, nell'applicazione di
una deformazione con una certa velocità per misurare lo sforzo.
In particolare, il reometro rotazionale ARES (Advanced Rheometric Expansion
System, Fig. 3.18) a controllo di deformazione, ha un range operativo della coppia
torcente che va da 2*10-6 a 2*10-1 Nm, quello della forza normale da 2 a 2000 g. Il
motore ha una modalità di funzionamento dinamica (sinusoidale) ed una stazionaria.
In regime di funzionamento dinamico, lo strumento ha una frequenza operativa
massima di 100 rad/sec. Per la misura degli sforzi, lo strumento è accessoriato con
trasduttore multirange per misure su fluidi a bassa e alta viscosità. Infine, per misure
ad alte temperature, lo strumento dispone di un forno costituito da una camera a
convezione forzata che racchiude il campione.
Fig 3.18 Reometro
La deformazione è applicata dal motore elettrico, mentre il momento torcente con
cui reagisce il campione alla deformazione applicata, è rilevato dal trasduttore.
Attraverso le prove effettuate al reometro è possibile calcolare il valore di grandezze
quali la viscosità in regime stazionario η, il modulo complesso G*, la viscosità
complessa η*, la deformabilità complessa J*, lo storage modulus e il loss modulus.
La deformazione di scorrimento vale:
K
dove:
γ rappresenta la deformazione applicata;
θ è pari alla deviazione angolare del motore in radianti;
Kγ rappresenta la costante di deformazione.
Lo sforzo di taglio è espresso invece dalla seguente relazione:
KM
dove:
τ rappresenta la forza generata dal momento torcente per unità di area della
superficie di riferimento;
M è pari al momento torcente opposto dal campione alla deformazione;
Kτ rappresenta la costante dello sforzo.
Per quanto riguarda lo sforzo normale, vale la seguente relazione:
ZZ FKN
dove:
N è lo sforzo normale;
FZ rappresenta la forza normale.
Il valore delle costanti di taratura è dato dalla dalle seguenti relazioni:
H
RK
3
10
2
R
GK C
dove:
GC rappresenta la costante gravitazionale;
R è pari al raggio dei piatti [ mm ]
H è il gap tra i piatti [ mm ].
Nel presente studio sono state effettuate prove su sospensioni di collagene e acqua
con una concentrazione di collagene rispettivamente del 1%, 2%, 3%, 5% per
calcolare la vistosità, il modulo G’ e G’’e, infine, determinare l’andamento tan δ. I
tool utilizzati presentano una geometria piatto-piatto, uno dei quali ruota con
velocità angolare Ω, mentre l’altro rimane fisso (Fig. 3.19).
Fig. 3.19 Piatti del reometro
3.4.2 Il calorimetro a scansione differenziale (DSC)
Il DSC è uno strumento in grado di misurare il flusso termico necessario a
mantenere alla stessa temperatura il provino e il campione di riferimento, quando
questi vengono riscaldati con velocità controllata o mantenuti a temperatura
costante (Fig. 3.20).
Fig. 3.20 Il DSC Mettler
Il calore totale Q fornito (o sviluppato) durante un processo endotermico (o
esotermico) è pari all’integrale, esteso a tutto il periodo del processo, della
differenza di flusso termico.
dTdt
dHQ
f
i
)(
Poiché si opera a velocità di riscaldamento costanti, si ha proporzionalità fra
intervalli di tempo e temperatura e il calore totale è proporzionale all’area sottesa
nel termogramma.
Durante una fase di transizione, in prossimità dei valori di temperatura ad essa
relativi, il grafico modificherà visibilmente il suo andamento.
Lo scopo principale di questo tipo di test fisico è di ricavare le informazioni sui
parametri termodinamici di un materiale associati alle transizioni di fase indotte
termicamente indipendentemente dalle condizioni di prova [50].
In particolare, in questo studio si è voluto osservare come varia la temperatura di
denaturazione del collagene (temperatura alla quale si rompono i legami secondari
della tripla elica del collagene) in funzione della reticolazione e della sterilizzazione.
La temperatura di denaturazione è definita come la temperatura alla quale avviene la
transizione del collagene da tripla elica a randon-coil. Durante la fase di transizione
i legami deboli che tengono legate le 3 catene del collagene e stabilizzano la
struttura a tripla elica vengono rotti a causa della somministrazione di calore [51].
3.4.2.1 Il DSC: funzionamento
La macchina è predisposta mettendo sui rispettivi alloggiamenti i due crogioli
identici scelti in modo da resistere alle temperature di prova senza interagire con il
campione in esame. Uno dei due crogioli rimane vuoto in quanto servirà come
riferimento, mentre nell’altro è posto il materiale da esaminare.
A questo punto si chiude ermeticamente l’alloggio dei due crogioli in modo da
isolare l’ambiente di prova dall’esterno. Una volta inserito il programma termico,
all’interno dell’alloggio contenete il materiale da analizzare viene creata
un’atmosfera inerte con un flusso continuo e uniforme di azoto.
Una volta iniziata la prova, il calore ceduto riscalda sia il campione che il provino di
riferimento in ugual modo. Ogni variazione di temperatura tra i due è dovuta a
fenomeni che insorgono nel materiale da analizzare. Se il campione subisce una
transizione di fase indotta dalla temperatura, la quantità di calore fornito alla cella
campione viene assorbito o liberato dal campione stesso, e si svilupperà una
differenza di temperatura tra la cella campione e la cella di riferimento. Il sistema
strumentale di controllo rileva questa differenza di temperatura e fornisce più o
meno calore alla cella campione in modo da annullare la differenza di temperatura.
L’energia necessaria per neutralizzare questo squilibrio è direttamente monitorata
come variazione di corrente in funzione della temperatura.
Durante tutto l’arco dell’esperimento un sistema di termocoppie raccoglie i dati di
temperatura e li invia ad un elaboratore che mediante l’apposito software elabora il
segnale elettrico registrato fornendo un termogramma con la quantità di calore
ceduta o acquistata in funzione della temperatura (Fig 3.21). Una volta terminata la
prova il sistema di raffreddamento permette all’operatore di aprire la macchina e
rimuovere i crogioli.
Fig. 3.21 Esempio di curva al DSC
3.4.2.2 Analisi termica al DSC
Le serie di campioni analizzate sono riassunte nelle Tab. 3.22 e 3.23:
%wt collagene Nessun
trattamento
DHT
(121°C–24 h)
DHT
(121°C–48 h)
1 % N=3 N=3 N=3
2 % N=3 N=3 N=3
3 % N=3 N=3 N=3
5 % N=3 N=3 N=3
Tabella 3.22 Scaffold analizzati al DSC a differenti tempi di reticolazione
%wt collagene DHT (121°C–24 h) +
DHS (160°C–2 h)
DHT (121°C–48 h) +
DHS (160°C–2 h)
1 % N=3 N=3
2 % N=3 N=3
3 % N=3 N=3
5 % N=3 N=3
Tabella 3.23 Scaffold analizzati al DSC reticolati e sterilizzati
3.4.3 Il microscopio elettronico a scansione (SEM)
Le tecniche di microscopia elettronica si basano sull’analisi delle interazioni fascio
di elettroni/campione e consentono ingrandimenti elevatissimi utili, ad esempio, per
studiare fenomeni che non sarebbe possibile osservare con i normali microscopi
ottici. Il microscopio ottico a scansione elettronica (SEM) è uno dei più versatili
strumenti per l’investigazione della microstruttura dei materiali. Paragonato al
microscopio ottico, esso espande il range di risoluzione di più di un ordine di
grandezza, sino a 10 nm. Gli ingrandimenti arrivano 150.000x. La profondità di
campo, che può variare da 1 nm a 10.000x a 2 nm a 10x, supera di 2 ordini di
grandezza quello ottico.
Nel SEM i diversi punti del campione sono esplorati da un sottile fascio elettronico
con un energia fino a 30 keV che scansiona per linee parallele tutta la superficie del
campione e focalizza l’immagine all’interno del microscopio.
L’interazione tra elettrone e campione da origine a molti segnali. Le interazioni
comunemente utilizzate sono le seguenti:
a) Interazione di tipo elastica elettrone-nucleo (elettroni backscatterati). Gli
elettroni backscatterati (BSE) hanno alta energia (maggiore di 50 eV) e sono
scatterati con un angolo molto piccolo; sono dovuti all’interazione con strati
molto spessi (alcuni µm) rispetto a quelli interessati nella produzione dei
secondari; portano informazioni relative al numero atomico del materiale
studiato e quindi danno indicazioni sulla composizione chimica.
b) Interazioni di tipo anelastica elettrone-elettrone (elettroni secondari). Gli
elettroni secondari (SE) sono emessi dall’interazione tra il fascio incidente e
gli elettroni della banda di conduzione debolmente legati, e provengono da
spessori superficiali del campione (≈10 nm); hanno bassa energia (pochi
eV). Si definiscono elettroni secondari tutti quelli provenienti dal campione
con energia inferiore a 50 eV. Gli elettroni secondari sono utilizzati per
ottenere immagini ingrandite fino a 200.000x con una risoluzione fino a 5
nm. Gli SE forniscono informazioni sulla topografia delle superfici e sulla
presenza e distribuzione di campi magnetici o elettrici.
c) Raggi X. Queste radiazioni sono caratteristici degli elementi che
compongono il campione in esame, possono essere registrati e discriminati
sulla base della loro lunghezza d’onda o dell’energia. L’intensità di queste
radiazioni è proporzionale alla concentrazione dell’elemento nel campione.
L’analisi ai raggi X fornisce informazioni specifiche sulla composizione, la
distribuzione e la quantità degli elementi del campione.
I diversi elettroni emessi sono catturati dai rispettivi rilevatori.
3.4.3.1 Caratteristiche e componenti del SEM
Le sorgenti di elettroni. Le sorgenti che generano gli elettroni sono di tre tipi:
filamento di tungsteno (effetto termoionico), emettitore di LaB6 (effetto
termoionico), FEG (field emission gun).
Le lenti. Le lenti servono a ridurre il diametro del fascio (crossover diameter), a
convogliare gli e lungo l’asse ottico e a focheggiare l’immagine. Sono generalmente
presenti da una a tre lenti condensatrici che controllano le dimensioni del fascio. La
lente obiettivo è l’ultima nel percorso degli elettroni verso il campione. Subito dopo
la lente obiettivo c’è il diaframma, il cui foro centrale determina la dimensione
finale reale del fascio. L’apertura della lente obiettivo controlla il diametro finale, la
corrente e l’angolo di convergenza del fascio elettronico.
Parametri importanti del SEM. I parametri importanti che determinano la qualità
dell’immagine nel SEM sono:
Densità di corrente di elettroni emessa;
Densità di corrente del fascio;
Luminosità;
Massima luminosità teorica per gli emettitori ad effetto termoionico.
3.4.3.2 Funzionamento del SEM
Lo schema di un SEM è mostrato in Fig 3.24.
Fig 3.24 Schema di un microscopio elettronico a scansione
Il fascio elettronico è emesso da un filamento di tungsteno riscaldato ed è
focalizzato da un sistema di lenti elettromagnetiche (di solito due condensatrici ed
una lente obiettivo).
I voltaggi di accelerazione vanno da 1 a 30 kV. La corrente degli elettroni primari,
attraverso la superficie del campione, è 10-8 - 10-7 A. Tale corrente, può essere
incrementata usando una fonte di elettroni più brillante, come catodi di esabouro di
lantanio (LaB6) o i catodi ad emissione di campo. Per generare il vuoto richiesto
(che serve a non creare ostacolo al moto degli elettroni lungo il loro percorso verso
il campione), è usata una pompa. Il fascio elettronico scandaglia il provino. Un
generatore di scansione che controlla la corrente delle bobine di scansione, deflette
il fascio lungo linee molto vicine tra loro.
L’ingrandimento cambia variando la corrente nelle bobine delle lenti obiettivo.
Quando il fascio primario di elettroni giunge sulla superficie del campione,
determina una serie di fenomeni emissivi. In particolare, sono emessi degli elettroni
che determinano la formazione dell’immagine su un tubo a raggi catodici (CRT).
3.4.3.3 Analisi morfologiche al SEM
Nei campioni analizzati al SEM per la determinazione della struttura e della
morfologia deve essere completamente assente l’acqua (campioni anidri), oppure,
l’acqua contenuta non deve essere rilasciata nel momento in cui il provino è portato
sotto vuoto.
I campioni selezionati devono avere forme tridimensionali e sono adagiati su un
supporto porta-campione che generalmente è costituito da un vetrino per
microscopio, oppure, da una basetta in alluminio. Per fissare i campioni può essere
usato nastro bi-adesivo conduttivo a base di grafite, oppure, una pasta collante a
base di grafite o argento.
Nel caso in cui il campione non sia costituito da materiale conduttivo, deve essere
reso conduttivo almeno nel suo strato superficiale attraverso la copertura di un
sottile film di oro, carbonio sottoforma di grafite, oppure, altri metalli.
Il SEM ha permesso l’analisi della struttura porosa e della morfologia degli scaffold
ottenuti attraverso lo spinning e sottoposti a reticolazione e sterilizzazione. Sono
state scannerizzate diverse sezione trasversali. Per questo lavoro è stato utilizzato un
SEM EVO 40 ZEISS che permette di raggiungere diverse pressioni di lavoro e un
vuoto molto spinto (10-4 bar). In particolare, sono stati studiati scaffold (Tab. 3.25)
caratterizzati dai seguenti parametri di sintesi: n = 27000 rpm, Ts = 15 min, Tf = 2
min.
%wt collagene Nessun
trattamento
DHT
(121°C – 24 h)
DHT (121°C – 24h) + Sterilizzazione
(160°C – 2 h)
1 % N=6 N=6 N=6
2 % N=6 N=6 N=6
3 % N=6 N=6 N=6
5 % N=6 N=6 N=6
Tabella 3.25 Scaffold analizzati al SEM
RISULTATI E DISCUSSIONE
Sono state prodotte 4 distinte serie di scaffold, caratterizzate da concentrazioni di
collagene differenti, in particolare: 1%wt, 2%wt, 3%wt e 5%wt, realizzando 25
campioni per ciascuna serie.
Sebbene la particolare tecnica di fabbricazione (spinning) offra la possibilità di
ottenere una elevata precisione e ripetibilità nelle caratteristiche geometriche
(macroscopiche) e strutturali degli scaffold, l’abilità dell’operatore è di
fondamentale importanza per il corretto svolgimento di tutte le fasi del processo
produttivo (molte delle quali prevedono una grande manualità), considerato che
anche il minimo errore può inficiare la complessa struttura delle protesi,
traducendosi in difetto (e non sempre si riesce a risalire alla causa che lo ha
generato).
Gli scaffold sono stati prodotti cercando di rispettare le seguenti dimensioni
obiettivo della geometria tubolare:
Diametro interno ≈ 1,8 mm
Diametro esterno ≈ 3 mm
Lunghezza ≈ 20 mm
Per lo spinning della sospensione di collagene (slurry) è stato utilizzato, come
precedentemente accennato (Cap. III, Par. 3.3), uno stampo in rame con un foro di
diametro pari a 5,1 mm e una lunghezza di 40 mm, all’interno del quale viene
alloggiato il tubo di PVC contente lo slurry. In Fig. 4.1 è rappresentato il disegno
costruttivo dello stampo in rame.
Fig. 4.1 Stampo in rame
Prima di essere introdotto all’interno dello stampo in rame il tubo in PVC,
caratterizzato da Dint ≈ 3 mm e Dest ≈ 4,5 mm, è stato avvolto da un sottile foglio di
rame dello spessore di 0,1 mm. Tale operazione risulta essere molto utile perché
limita le deformazioni cui il tubo in PVC è soggetto durante la forte rotazione
impressa con lo spinning, ne facilita la sformatura dallo stampo in rame e permette
di ridurre il gioco tra la parete interna dello stampo e la parete esterna del tubo,
spesso causa di notevole eccentricità del foro dello scaffold.
Per quanto riguarda il set up dei parametri di processo (velocità di rotazione R,
tempo di spinning ts, tempo di freezing tf), sono stati utilizzati dei valori tali da
garantire condizioni di estrema sedimentazione, al fine di ottenere matrici che
presentassero, nella loro struttura, evidenti fenomeni di sedimentazione, ovvero un
foro passante ben definito, pori di forma e geometria allungata con orientazione
radiale dei pattern di micro-porosità, ed, infine, un vero e proprio gradiente nella
dimensione e distribuzione dei pori.
Per tutte le serie si scaffold sono stati adottati i seguenti parametri di spin-casting:
R = 30000 rpm;
ts = 15 min, tf = 2 min;
tubo in PVC con 1 foglio di rivestimento in rame;
e le seguenti condizioni di trattamento post-fabbricazione:
reticolazione DHT standard a T = 121°C, p = 100 mTorr, per due tempi di
esposizione (24h e 48 h);
sterilizzazione DHS standard a T = 160°C, p = 100 mTorr, per 2h.
4.1 Caratterizzazione reologica dello slurry (reometro)
Il primo tipo di analisi condotta ha riguardato la caratterizzazione delle proprietà
reologiche (viscoelastiche) degli slurry, indagate per mezzo del reometro.
Come detto nel Cap. III, questo strumento consente di studiare le relazioni sforzo-
deformazione nei corpi fluidi, permettendo così di prevedere il comportamento di
un materiale sotto determinate condizioni di utilizzo, ovvero di ricavare, attraverso
prove specifiche e modalità di test molto particolari, il valore di grandezze quali la
viscosità in regime stazionario η, il modulo complesso G*, la viscosità complessa
η*, la deformabilità complessa J*, lo storage modulus (G’) e il loss modulus (G’’).
Nell’ambito del presente studio l’attenzione è stata focalizzata sulla determinazione
della viscosità η e dei moduli G’ G’’, attraverso i quali ricavare G e tan δ.
Le prove sono state effettuate su slurry con una concentrazione di collagene pari a
1%wt, 2% wt, 3% wt, 5% wt. Per ogni serie di slurry sono state condotte 3 prove e
successivamente è stata ricavata una curva media per ogni tipo di prova.
In Fig. 4.2 è riportato il grafico con l’andamento delle curve medie delle viscosità
dei 4 tipi di slurry: dal loro confronto si può notare che al crescere della shear rate
(velocità di deformazione di taglio) la viscosità diminuisce. Tale comportamento è
tipico di un fluido non-newtoniano, perciò possiamo desumere che la sospensione in
collagene rientra all’interno di tale categoria di materiali. Inoltre, si può notare che
al crescere della concentrazione di collagene, i valori di viscosità aumentano.
1 10 100
1
10
100
Vis
cosi
ty [P
a s]
Rate [s-1]
slurry 1%
slurry 2%
slurry 3%
slurry 5%
Fig. 4.2 Andamento della viscosità
Successivamente sono state effettuate delle prove di frequecy sweep per
caratterizzare il materiale dal punto di vista dinamico-meccanico: sono stati
determinati i moduli G’ e G’’ e tan δ in funzione della frequenza per un fissato
valore di deformazione. Per la scelta di tale valore di deformazione è stata eseguita
preliminarmente una prova di strain sweep, cioè una prova dinamica controllata in
frequenza in cui varia la deformazione. Il valore della deformazione preso in
considerazione è quello che ricade nella zona in cui il materiale presenta una
viscoelasticità lineare, cioè nella zona in cui modulo elastico non varia con la
deformazione ε.
La Fig. 4.3 rappresenta lo strain sweep test effettuato su uno slurry con una
concentrazione di collagene al 3% wt. Si è scelto di effettuare le prove di frequecy
sweep test imponendo una deformazione dell’1%.
0,01 0,1 1 10
0,1
1
10
100
log
G',
G'',
tan
[Pa]
log
G'
G''
tan
Fig. 4.3 Prova di strain sweep effettuata su slurry 3% wt
In Fig. 4.4 e in Fig. 4.5 sono rappresentate le curve medie delle prove eseguite sui 4
tipi di slurry per determinare G’ e G’’ in modo da poterle confrontare: si può
osservare che sia il modulo G’, sia il modulo G’’ crescono all’aumentare della
concentrazione di collagene e all’aumentare della frequenza.
1 10 100
0,1
1
10
100
log
G' [
Pa]
log frequency [rad/s]
slurry 1%
slurry 2%
slurry 3%
slurry 5%
Fig. 4.4 Andamento di G’
1 10 100
0,1
1
10
100
log
G''
[Pa]
log frequency [rad/s]
slurry 1%
slurry 2%
slurry 3%
slurry 5%
Fig. 4.5 Andamento di G’’
Infine, la Fig. 4.6 rappresenta l’andamento di tan δ dato da G’’/ G’:
1 10 100
1
log
tan
log frequency [rad/s]
slurry 1%
slurry 2%
slurry 3%
slurry 5%
Fig. 4.6 Andamento tan δ
A questo punto possiamo calcolare il modulo elastico:
* 2 2( ') ( '')G G G
Con G’ e G’’ calcolati in corrispondenza di f = 1 rad/s. otteniamo:
- G* (1%) = 0.81 Pa - G* (3%) = 10.83 Pa
- G* (2%) = 2.76 Pa - G* (5%) = 36.65 Pa
Come potevamo attenderci, il valore di G* aumenta all’aumentare della
concentrazione di collagene.
4.2 Caratterizzazione termica (DSC)
Come già accennato nel Cap. III, la calorimetria a scansione differenziale (DSC) è
una tecnica utilizzata per studiare cosa accade nei polimeri quando vengono
riscaldati o raffreddati in maniera controllata. In particolare, con il DSC possono
essere messe in risalto le temperature alle quali avvengono le transizioni termiche
all’interno del polimero, cioè le temperature alle quali si verificano i cambiamenti di
stato di un polimero. In Fig. 4.7 è rappresentata una tipica curva ottenuta al DSC per
analizzare scaffold in collagene:
Fig. 4.7 tipica curva al DSC
Possiamo subito notare che la Fig. 4.7 presenta 3 picchi endotermici: il primo
rappresenta il picco di denaturazione (transizione da una struttura a tripla elica a una
conformazione random-coil, con rottura dei ponti idrogeno inter e intra-molecolari a
causa del riscaldamento e del rilascio parziale di acqua), il secondo rappresenta il
picco evaporazione dell’acqua residua fortemente legata e i cambiamenti della
conformazione della super-elica (cominciano a essere liberati prodotti a basso peso
molecolare), mentre l’ultimo picco rappresenta la degradazione termica del
collagene, che porta alla distruzione della struttura molecolare e alla
decomposizione del materiale.
exo
end
o
Hea
t f
low
ΔQ
,
Denaturazione termica: si ha
una transione dalla tripla elica
alla conformazione random coil
Evaporazione dell’acqua residua
fortemente legata e cambiamenti
della conformazione della super-
elica (cominciano a essere liberati
prodotti a basso peso molecolare)
Degradazine termica:
decomposizione
Dall’analisi al DSC è possibile notare che il secondo e terzo picco sono posizionati
sempre in un range di temperature molto ristretto che vanno, rispettivamente, da
195°C a 210°C e da 300°C a 305°C, rispettivamente. Invece, il primo picco
(denaturazione termica) risente in maniera non trascurabile sia della concentrazione
del collagene sia dei trattamenti termici effettuati.
Dall’analisi dei dati ottenuti al DSC opportunamente graficati, possono essere fatte
alcune considerazioni:
1 ) Analisi della variazione della Td in funzione della concentrazione di collagene a
parità di trattamenti termici.
Dalle Fig 4.8, 4.9, 4.10, 4.11 e 4.12, possiamo notare che a parità di tipologia e
condizioni di trattamento post-fabbricazione (reticolazione e sterilizzazione),
variando la concentrazione di collagene la temperatura di denaturazione si sposta
verso temperature più alte e, in particolare, aumenta al crescere della
concentrazione di collagene.
A titolo esemplificativo, possiamo notare che:
In Fig. 4.8 (scaffold solo liofilizzati) la Td varia da 54,6±1,8°C per scaffold
con concentrazioni di collagene pari all’1% a 72,8±0,2°C per scaffold con
concentrazioni di collagene pari al 5%.
1% 2% 3% 5%40
50
60
70
80
TE
MP
ER
AT
UR
E, (°
C)
(Mean ± sd; n=3)
Campioni liofilizzati
Fig 4.8 scaffold solo liofilizzati
In Fig. 4.9 (scaffold reticolati 24h a 121°C) la Td varia da 54,9±4,9°C per
scaffold con concentrazioni di collagene pari all’1% a 73,1±0,2°C per scaffold con
concentrazioni di collagene pari al 5%.
1% 2% 3% 5%40
50
60
70
80
90Campioni liofilizzati, DHT 24h
TE
MP
ER
AT
UR
E, (°
C)
(Mean ± sd; n=3)
Fig 4.9 scaffold reticolati 24h
In Fig. 4.10 (scaffold reticolati 48h a 121°C) la Td varia da 58,4±2,5°C per
scaffold con concentrazioni di collagene pari all’1% a 77,4±6,1°C per scaffold con
concentrazioni di collagene pari al 5%.
1% 2% 3% 5%40
50
60
70
80
90
TE
MP
ER
AT
UR
E, (°
C)
(Mean ± sd; n=3)
Campioni liofilizzati, DHT 48h
Fig 4.10 scaffold reticolati 48h
In Fig. 4.11 (scaffold 5%, reticolati 24h a 121°C, sterilizzati 2h a 160°C) la Td
varia da 58±1,4°C per scaffold con concentrazioni di collagene pari all’1% a
71,8±1°C per scaffold al 5%.
1% 2% 3% 5%40
50
60
70
80
TE
MP
ER
AT
UR
E, (°
C)
(Mean ± sd; n=3)
campioni liofilizzati, DHT 24h, sterilizzati 2h
Fig 4.11 scaffold reticolati 24h, sterilizzato 2h
In Fig. 4.12 (scaffold reticolati 48h a 121°C, sterilizzati 2h a 160°C) la Td
varia da 53,2±2,3°C per scaffold con concentrazioni di collagene pari all’1% a
77,6±3 ,1°C per scaffold 5%.
1% 2% 3% 5%40
50
60
70
80
90
TE
MP
ER
AT
UR
E, (
°C)
(Mean ± sd; n=3)
campioni liofilizzati, DHT 48h, sterilizzati 2h
Fig 4.12 scaffold reticolati 48h, sterilizzato 2h
La tendenza della Td ad aumentare al crescere della concentrazione del collagene a
parità di tipologia, di durata e di intensità di trattamento termico di reticolazione,
può essere spiegata attraverso il concetto di “polimer in a box”, secondo il quale la
velocità di sfaldamento delle fibre è abbassata dalla vicinanza tra le molecole
circostanti presenti all’interno delle fibre stesse. Infatti, all’aumentare della
concentrazione di collagene, la densità molecolare e il numero di legami covalenti
inter e intra-molecolari naturali aumentano. Le molecole fungono da scatola,
intrappolando la configurazione molecolare del polimero. In questo modo, le
configurazioni molecolari possibili si riducono cosi come l’entropia delle fibre che
si disgregano, abbassando di conseguenza la velocità di sfaldamento.
2 ) Analisi della variazione della Td in funzione dei trattamenti termici a parità di
concentrazione di collagene.
Mantenendo costante la concentrazione di collagene e variando l’intensità dei
trattamenti termici, come ad esempio, l’intensità della reticolazione, si assiste, con
l’intensificarsi del trattamento, ad un aumento della temperatura di denaturazione.
Ciò indica che il trattamento di reticolazione a cui sono stati sottoposte le varie
serie di scaffold aumenta il grado di reticolazione e, di conseguenza, determina un
aumento della stabilità termica dello scaffold stesso.
Inoltre, attraverso il processo di sterilizzazione, oltre a eliminare eventuali agenti
patogeni (batteri, spore ecc.), permette di ottenere un leggero aumento della Td sia
per i campioni reticolati 24h, sia per i campioni reticolati 48h. Ciò indica che il
processo di sterilizzazione ha apportato un ulteriore aumento del grado di
reticolazione e della stabilità termica degli scaffold in collagene.
1% 2% 3% 5%40
50
60
70
80
90
TE
MP
ER
AT
UR
E, (°
C)
(Mean ± sd; n=3)
F-D
F-D, DHT24
F-D, DHT48
Fig 4.13 Confronto tra scaffold liofilizzati, scaffold reticolati 24h a 121°C e scaffold reticolati 48h
a 121°C.
In Fig 4.13 è rappresentato il confronto tra scaffold liofilizzati, scaffold reticolati
24h a 121°C e scaffold reticolati 48h a 121°C. Possiamo notare come, ad esempio,
nel caso di scaffold con una percentuale di collagene pari al 5% si passi da una Td di
72,8±0,2 per scaffold liofilizzati a una Td di77,4±6,1 per scaffold liofilizzati e
reticolati 48h a 121°C.
1% 2% 3% 5%40
50
60
70
80
90
TE
MP
ER
AT
UR
E, (°
C)
(Mean ± sd; n=3)
F-D
F-D, DHT48
F-D, DHT48, S2
Fig. 4.14 Confronto tra scaffold liofilizzati, scaffold reticolati 48h a 121°C e scaffold reticolati
48h a 121°C e sterilizzati 2h a 160°C.
In Fig. 4.14 è rappresentato il confronto tra scaffold liofilizzati, scaffold reticolati
48h a 121°C e scaffold reticolati 48h a 121°C e sterilizzati 2h a 160°C. Sempre a
titolo esemplificativo, possiamo osservare come, nel caso di scaffold con una
concentrazione di collagene pari al 3%, si passi da una Td di 67,4±2,1 per scaffold
liofilizzati a una Td di 76,4±1,5 per scaffold liofilizzati e reticolati 48h a 121°C e
sterilizzato 2h a 160°C.
1% 2% 3% 5%40
50
60
70
80
TE
MP
ER
AT
UR
E, (°
C)
(Mean ± sd; n=3)
F-D
F-D, DHT24
F-D, DHT24, S2
Fig. 4.15 Confronto tra scaffold liofilizzati, scaffold reticolati 24h a 121°C e scaffold reticolati
24h a 121°C e sterilizzati 2h a 160°C.
Infine, in Fig. 4.15 è rappresentato il confronto tra scaffold liofilizzati, scaffold
reticolati 24h a 121°C e scaffold reticolati 24h a 121°C e sterilizzati 2h a 160°C.
Come ultimo esempio, possiamo notare come, nel caso di scaffold con una
concentrazione di collagene pari al 3%, si passi da una Td di 67,4±2,1 per scaffold
liofilizzati a una Td di 69±3,6°C per scaffold liofilizzati e reticolati 24h a 121°C e
sterilizzato 2h a 160°C.
4.3 Caratterizzazione morfologica al SEM
Attraverso l’analisi morfologica al SEM è stato condotto uno studio per determinare
sia le caratteristiche geometriche macroscopiche (forma, diametri e spessore delle
pareti del tubo) sia le caratteristiche microstrutturali (orientamento, forma e
dimensione media dei pori) degli scaffold.
Sono state analizzate le sezioni superiore, media e inferiore di 6 scaffold con una
percentuale di collagene pari al 3% wt, poiché, tale concentrazione ha mostrato
avere: buone proprietà reologiche (viscosità) per ottenere una buona iniettabilità
della sospensione all’interno dello stampo; permettere di raggiungere un buon
compromesso tra le proprietà morfologiche (porosità e gradiente di porosità) e le
proprietà termiche (Td) volute; e, infine, permette di ottenere scaffold facilmente
maneggiabili durante le fasi d’impianto.
In particolare, per ognuno dei sei scaffold sono stati misurati: il diametro interno
(ID) e il diametro esterno (OD) delle tre sezioni: superiore (UCS), media (MCS),
inferiore (LCS), prima e dopo ogni trattamento. Successivamente, con l’ausilio di
un apposito software, sono stati misurati area, perimetro, diametro medio (MPD) e
rapporto di forma dei pori (AR).
Nella Tab. 4.17(1)
sono riportati i dati medi con deviazione standard dei diametri
interni ed esterni per ognuna delle tre sezioni raggruppati per tipologia di
trattamento:
CAMPIONE Diametro Interno Tubo ID, [mm] Diametro Esterno Tubo OD, [mm]
LCS MCS UCS LCS MCS UCS
F-D 1,8±0,08 1,84±0,08 1,78±0,13 2,97±0,05 3±0,11 2,93±0,1
F-D, DHT24 1,83±0,09 1,81±0,08 1,98±0,48 3,02±0,07 2,96±0,05 2,72±0,51
F-D, DHT24, S2 1,78±0,07 1,84±0,06 1,76±0,13 2,92±0,04 2,99±0,1 2,9±0,08
Tabella 4.17 Valori medi e deviazione standard del diametro interno ed esterno delle strutture
tubolari. (1) F-D: campioni liofilizzati; F-D DHT24 samples: campioni liofilizzati e reticolati 24h; F-D DHT 24h
S2 samples: campioni liofilizzati e reticolati 24h e sterilizzati 2h.
Dai dati riportati in Tab. 4.17, si nota che il diametro interno (ID) delle tre sezioni
relative ad una classe di scaffold (i.e. scaffold F-D) assumono valori omogenei. Ciò
indica che il particolare processo di fabbricazione utilizzato in questo studio per
ottenere gli scaffold porta alla realizzazione di scaffold tubolari omogenei lungo la
direzione assiale e non determina differenze sostanziali dei parametri
macrogeometrici delle 3 sezioni osservate.
Inoltre, confrontando le sezioni dei campioni, prima e dopo i trattamenti termici,
possiamo notare che sia la reticolazione termica, sia la sterilizzazione termica non
comportano variazioni rilevanti del diametro interno ed esterno e quindi, possiamo
dire, che i trattamenti termici a cui sono sottoposti gli scaffold non influenzano i
parametri macrogeometrici.
Le Fig. 4.18, 4.19 e 4.20 rappresentano degli esempi indicativi e mostrano,
rispettivamente, la sezione superiore (UCS), media (MCS) e inferiore (LCS) di uno
scaffold osservato al SEM per effettuare le misure del diametro interno (ID) ed
esterno (OD). In alto a destra di ciascuna immagine, sono riportati i valori dei
diametri interno ed esterno della geometria tubolare.
Fig 4.18 Sezione superiore dello scaffold (UCS)
Fig 4.19 Sezione media dello scaffold (MCS)
Fig. 4.20 Sezione inferiore dello scaffold (UCS)
Per quanto riguarda l’analisi della microstruttura porosa è stato utilizzato un
software specifico (Scion Image Analysis 4.0, Scion Corporation, Frederick, MD)
che ha permesso di rielaborare le immagini ottenute al SEM e di calcolare area,
perimetro, diametro medio (MPD) e rapporto di forma dei pori (AR).
Per ogni sezione trasversale di un dato campione sono state scelte 4 regioni da
analizzare al software, prima e dopo i trattamenti termici (Fig. 4.21). Tali regioni
sono state opportunamente ingrandite in modo da mettere in evidenza i pori e la
struttura porosa della sezione dello scaffold. Per ogni regione della sezione sono
stati presi in considerazione 25 pori, per un totale di 100 pori analizzati per ogni
sezione trasversali.
Fig. 4.21 Micrografia SEM della sezione trasversale presa in considerazione per la scelta e
l’analisi dei pori e dettaglio della regione da analizzare.
Nella Tab. 4.21(1)
sono riportati i dati del perimetro medio e dell’area media con
deviazione standard dei pori misurati sulle 3 sezioni delle 3 classi di scaffold
analizzati:
CAMPIONE Area, [µm
2] Perimetro, [µm]
LCS MCS UCS LCS MCS UCS
F-D 416,94±103,05 493,03±177,77 481,13±123,88 310,37±68,16 352,64±109,61 354,95±69,9
F-D, DHT24 390,65±82,03 488,5±203,96 505,34±125,89 302,53±66,47 345,95±138,86 396,92±109,33
F-D, DHT24, S2 407,32±119,11 486,35±148,18 730,89±332,29 302,53±82,25 345,64±125,16 515,77±191,11
Tab. 4.21 Area e perimetro medio dei pori delle sezioni degli scaffold analizzati. (1) F-D: campioni
liofilizzati; F-D DHT24 samples: campioni liofilizzati e reticolati 24h; F-D DHT 24h S2 samples: campioni
liofilizzati e reticolati 24h e sterilizzati 2h.
Anche da questa indagine quantitativa possiamo notare che l’area e il perimetro dei
pori nelle 3 sezioni trasversali relative ad una stessa classe di scaffold (i.e. scaffold
F-D) stesso scaffold non presentano differenze consistenti. Quest’ultima
considerazione conferma quanto detto precedentemente per il diametro interno ed
esterno delle strutture tubolari: il processo di fabbricazione utilizzato in questo
studio (spinning + freeze drying) per ottenere gli scaffold porta alla realizzazione di
scaffold tubolari omogenei lungo la direzione assiale e non determina differenze di
rilievo per quanto riguarda il perimetro e l’area media dei pori delle 3 sezioni di una
classe di scaffold.
Inoltre, confrontando i le sezioni dei campioni prima e dopo i trattamenti di
reticolazione e sterilizzazione termica, non si notano variazioni ragguardevoli
dell’area e del perimetro medio. Di conseguenza, possiamo affermare che i
trattamenti termici a cui sono sottoposti gli scaffold non influenzano l’area e il
perimetro dei pori
Infine, nella Tab. 4.22(1)
sono riportati i dati riguardanti diametro medio e rapporto
di forma dei pori analizzati per ogni sezione di ogni classe di scaffold.
CAMPIONE Diametro Medio Pori MPD, [µm] Rapporto di forma AR
LCS MCS UCS LCS MCS UCS
F-D 210,1±48,2 212,2±66,5 259,3±62 3,01±0,79 2,88±1,11 4,46±1,37
F-D, DHT24 198,8±47,2 220,8±65,9 265,2±67,1 3,03±0,87 3,19±0,97 4,29±1,31
F-D, DHT24, S2 211,9±51,8 227,2±70,1 323,3±81,8 3,37±0,98 3,55±1,55 4,72±1,27
Tab 4.22 Diametro medio e rapporto di forma dei pori analizzati. (1) F-D: campioni liofilizzati; F-D
DHT24 samples: campioni liofilizzati e reticolati 24h; F-D DHT 24h S2 samples: campioni liofilizzati e reticolati
24h e sterilizzati 2h.
Per calcolare il diametro medio dei pori e il rapporto di forma sono state utilizzate le
formule:
2
b+a25,1
22
MPD ),min(
),max(
ba
baAR
dove a e b sono gli assi maggiore e minore dell’ellisse (costruita dal software) che
meglio riproduce la sezione trasversale di un poro e il fattore 1,5 è un fattore
correttivo che tiene conto del fatto che i pori potrebbero non essere stati sezionati in
corrispondenza del loro diametro massimo.
Anche osservando i dati relativi al diametro medio dei pori (MPD) possiamo vedere
che i dati risultano essere molto omogenei sia per quanto riguarda le 3 sezioni
relative ad ogni classe scaffold. Inoltre, i vari trattamenti non influenzano la
dimensione media del diametro dei pori.
Infine, è interessante osservare i dati relativi al rapporto di forma (AR). Essi variano
in un range molto ampio: da 2,88 a 4,72 in una scala che va da 1 per i pori di forma
circolare, a 7 per i pori di forma molto allungata, con un valore medio di circa 3.6.
Questo indica che i pori hanno una forma colonnare notevolmente allungata,
costituendo dei veri e propri canali porosi: tale risultato è la conseguenza del
particolare processo di fabbricazione utilizzato, per effetto del quale si sommano i
contributi dati dalla sedimentazione (generata dalla forte rotazione imposta alla
sospensione) e dal gradiente di trasferimento del calore (generato dal rapido
congelamento in azoto liquido della sospensione stessa) imprimendo la peculiare
morfologia porosa.
Dalle immagini, inoltre, si può notare come l’orientazione radiale dei pori sia
accompagnata da un gradiente di porosità che caratterizza sia il numero sia la
dimensione dei pori lungo il raggio della sezione tubolare. Nella Fig. 4.23, ad
esempio, risulta evidente che la superficie esterna è caratterizzata da una più alta
densità relativa e una ridotta dimensione media dei pori rispetto la superficie
interna, caratterizzata, invece, da una frazione volumetrica di solido minore e una
dimensione media dei pori maggiore. Come detto nel Cap. II, una tale struttura
facilita la migrazione cellulare dall’interno del tubo verso l’esterno e impedisce
l’ingresso delle cellule dall’esterno, ma allo stesso tempo, permette l’ingresso degli
agenti nutrienti e delle proteine che, rispetto alle cellule, hanno dimensioni minori.
Fig. 4.23 Gradiente di porosità di uno scaffold
In definitiva, l’analisi morfologica delle caratteristiche macrostrutturali (forma,
diametri e spessore delle pareti del tubo) e l’analisi dei parametri microstrutturali
(orientamento, forma e dimensione media dei pori) degli scaffold condotta al SEM
ha confermato che il processo di sedimentazione e il trasferimento del calore per
effetto del gradiente termico avvengono in maniera omogenea lungo la direzione
assiale dello scaffold, inoltre, ha mostrato che i trattamenti termici di reticolazione e
sterilizzazione hanno impatti trascurabili o nulli sulle caratteristiche morfologiche
macro e microstrutturali degli scaffold.
Ad esempio, nelle Fig. 4.24 sono riportate i particolari delle sezioni superiore di uno
scaffold, prima e dopo i trattamenti termici:
Fig. 4.24 (a) Sezione superiore di uno scaffold liofilizzato
Fig. 4.24 (b) Sezione superiore di uno scaffold liofilizzato e reticolato termicamente 24h
Fig. 4.24 (c) Sezione superiore di uno scaffold liofilizzato reticolato termicamente 24h e
sterilizzato termicamente 2h
CONCLUSIONI
Scaffold a base di collagene per la rigenerazione del sistema nervoso periferico sono
stati prodotti utilizzando una tecnica innovativa di spin-casting associata al processo
di liofilizzazione. Tale tecnica permette di ottenere strutture tubolari con un elevata
porosità interconnessa ad orientazione preferenziale.
L’obiettivo del presente lavoro di tesi è stato quello di valutare l’impatto di
trattamenti post-fabbricazione (prevalentemente termici) sulle proprietà degli
scaffold.
La reometria ha permesso, anzitutto, di caratterizzare, nelle sue proprietà
viscoelastiche, la sospensione a base di collagene utilizzata quale materiale di
partenza per la produzione degli scaffold stessi.
In particolare, le prove di viscosità hanno dimostrato che la sospensione di
collagene e acqua (slurry) assume un comportamento tipico dei fluidi non
newtoniani (al crescere della velocità di deformazione, la viscosità diminuisce);
inoltre, la viscosità della sospensione aumenta al crescere del contenuto di
collagene. Le prove di frequecy sweep, condotte per caratterizzare il materiale dal
punto di vista dinamico-meccanico, hanno permesso, invece, di determinare
l’andamento dei moduli G’ e G’’ e di constatare che entrambi aumentano
all’aumentare della concentrazione di collagene (e, dunque, anche G).
La microscopia ha permesso, invece, di mettere in luce che la tecnica presentata
(spinning) permette di produrre strutture tubolari omogenee (in maniera semplice e
ripetibile e senza il ricorso a complessi sistemi di stampo) e altamente porose, che
esibiscono un gradiente di porosità ad orientazione radiale.
Tale risultato è dovuto all’effetto combinato dato dalla netta separazione di fase tra
solido (collagene) e liquido (acqua) che si riesce a imprimere, in caso di condizioni
di sedimentazione estreme, facendo ruotare vorticosamente la sospensione, e
dall’elevato gradiente di trasferimento del calore, che si riesce a sviluppare
imponendo a quest’ultima un rapido congelamento.
In questo modo la superficie esterna dello scaffold è caratterizzata da una maggiore
frazione volumetrica di solido e una ridotta dimensione media dei pori rispetto la
superficie interna, caratterizzata, invece, da una frazione volumetrica di solido
minore e una dimensione media dei pori maggiore.
Inoltre, il confronto dei campioni prima e dopo i trattamenti di stabilizzazione
(reticolazione) e sterilizzazione, ha permesso di osservare che questi non
determinano variazioni apprezzabili sia della proprietà geometriche e morfologiche,
a livello microscopico e macroscopico, che di quelle fisico-strutturali.
La calorimetria ha permesso, infine, di analizzare anche le proprietà termo-fisiche
degli scaffold. I dati ottenuti dimostrano che la temperatura di denaturazione del
collagene varia sia in funzione della sua concentrazione selezionata per la sintesi
delle sospensioni di partenza, sia in funzione del tempo di esposizione ai trattamenti
termici post-fabbricazione.
Infatti, le prove condotte al DSC hanno mostrato che la Td degli scaffold, a parità di
tipologia, di durata e di intensità dei trattamenti termici, cresce all’aumentare della
concentrazione di collagene e che, mantenendo costante la concentrazione di
collagene e variando l’intensità del trattamento di reticolazione, essa cresce in
seguito all’intensificazione del trattamento termico.
Questi risultati indicano che una maggiore concentrazione di collagene incrementa
la formazione di legami inter e intra-molecolari naturali e induce un maggior grado
di reticolazione all’interno degli scaffold. In definitiva, l’aumento della
concentrazione di collagene e l’intensificazione dei trattamenti termici producono
una maggiore stabilità termica delle strutture degli scaffold in collagene.
Infine, è stato osservato che il processo di sterilizzazione termica ha, anche esso, un
leggero effetto reticolante, poiché, è stato osservato un incremento della Td degli
scaffold.
Lavori futuri potrebbero riguardare lo studio di altri metodi di sterilizzazione con
scaffold tubolari con un elevato gradiente di porosità radiale.
Inoltre, potrebbero essere svolti studi sull’influenza della sterilizzazione sulla
velocità di rigenerazione del tessuto in vivo e di degradazione dello scaffold.
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