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Ai miei genitori, a mio fratello,
al loro paziente rincorrermi attraverso i labirinti
dell’esistenza.
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Il potere di oggi, il potere della civiltà dei consumi riesce ad ottenere perfettamente
questa acculturazione, questa omologazione,
distruggendo le varie realtà particolari, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini
che l’Italia ha prodotto in modo storicamente molto differenziato.
Pier Paolo Pasolini - 1974
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Indice
Introduzione
1. L’età contemporanea. Parte prima.
1.1 Premesse al secolo diciannovesimo.
1.2 Diffusione internazionale dei prodotti e selezione della specie.
1.3 Procedimenti di conservazione e industrializzazione degli
alimenti.
1.4 Calorie e dietetica.
1.5 Adulterazioni alimentari.
1.6 La scienza gastronomica.
2. L’Artusi.
2.1 La cucina borghese italiana.
2.2 Pellegrino Artusi.
2.3 Marketing artusiano.
2.4 Le ragioni del successo.
3. L’eta contemporanea. Parte seconda.
3.1 Perdita e recupero del senso della tradizione.
3.2 Il paradosso della globalizzazione.
3.3 La cucina del territorio come identità culturale.
3.4 Un affresco poco rassicurante.
3.5 Il cibo come cultura.
3.6 La nuova gastronomia.
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4. Artusopoli.
4.1 Una storia di comunicazione.
4.2 La Festa Artusiana.
4.3 Casa Artusi.
Appendice.
Conclusioni & ringraziamenti.
Bibliografia.
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Introduzione
L’argomento di cui tratta la presente tesi, trova fondamenta nel rapporto
che unisce Forlimpopoli ad un suo illustre cittadino: Pellegrino Artusi.
Questo rapporto, sornione e disinteressato per buona parte del secolo
appena trascorso, dal 1997 è celebrato attraverso quell’evento che –
correttamente definito non solo per il termine utilizzato, ma anche per lo
spirito che racchiude – è stato nominato “Festa Artusiana”. Oggetto e fine
ultimo della ricerca è il tentativo d’analisi di come l’amministrazione locale,
proprio attraverso lo strumento della Festa Artusiana, comunica e promuove
il territorio cittadino e circostante.
Attraverso una breve analisi storico-gastronomica del periodo in cui
visse e operò – analisi indispensabile per meglio comprendere i meccanismi
socio-culturali che, attraverso l’Ottocento e per tutto il Novecento, hanno
portato all’odierno dualismo cucina del territorio/cucina globale – si arriverà
ad una panoramica del contemporaneo rapporto tra l’uomo e il suo
nutrimento, il cibo.
Partendo dall’eredità lasciata da Artusi con il suo “La Scienza in cucina
e l’Arte di mangiar bene ”, verranno affrontati i punti cardine del pensiero
artusiano, quei principi sui quali poggia il successo di quest’opera, ormai
indiscusso classico della letteratura italiana.
Abbracciando una chiave di lettura che esalti la riscoperta del valore
culturale dell’alimentazione umana, saranno affrontati vari temi, primo su
tutti la consacrazione del cibo come vera e propria espressione di cultura.
Si analizzerà, in un epoca in cui la spinta omogeneizzante della
globalizzazione sembra far dimenticare l’esistenza di miriadi di realtà
particolari e uniche, come questi eventi abbiano portato ad una generalizzata
perdita e recupero del senso della tradizione, come evidenzia l’Assessore
alla Cultura del Comune di Forlimpopoli, Mauro Grandini:
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Penso che ognuno di noi si renda conto di quanto l’apertura di
frontiere o la velocità dei trasporti ci metta ogni giorno in contatto
con persone provenienti da altri luoghi, altre nazioni, altri continenti.
Viene facile sottolineare quanta ricchezza culturale comporti questo
vortice di contatti, ma, inesorabilmente, ci ritroviamo prima o poi a
fare i conti con la volontà di distinguere le radici, le tradizioni, le
consuetudini. La convivenza dei popoli nasce da un incontro delle
culture, da un volersi avvicinare e intendere, senza necessariamente
fondersi1.
Tratteremo l’argomento gastronomia in sintonia con la duplice linea che
governa l’esperienza della Festa Artusiana e del Premio Artusi: da un lato la
linea della cucina e del cibo come momento di piacere e di godimento,
dall’altro, parallelamente, la linea del cibo come bisogno, come necessità,
come fame.
Infine analizzeremo come l’amministrazione locale organizza l’evento
Festa Artusiana. Focalizzando l’attenzione sul forte aspetto comunicativo
che, sin dai primi passi, ha marcato e contraddistinto la Festa, non mancherà
un’analisi curata riguardo a tutti gli elementi, le azioni, gli obiettivi e i
traguardi che concorrono a formare l’evento. Concludendo, vedremo quali
sono le prospettive future legate all’inaugurazione di Casa Artusi, per un
progetto di sviluppo del territorio mirato a quello che, negli ultimi anni, si è
identificato come vero e proprio trend: il turismo culturale e, in particolar
modo, il turismo legato al cibo.
1 Programma Festa Artusiana 2006, presentazione.
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1. L’epoca contemporanea. Parte prima.
Esiste un’abitudine, quella di riunire il XIX e il XX secolo sotto il
termine di “epoca contemporanea”, caratterizzata da una rivoluzione
industriale (che dall’inizio del XIX alla fine del XX secolo, non ha smesso
di riproporsi), dall’esodo contadino e dall’incredibile espansione delle città,
dal trionfo totale dell’economia di mercato sull’economia di sostentamento
(nelle campagne come nelle città), dal formidabile sviluppo dei trasporti e
del commercio mondiale2.
1.1 Premesse al secolo diciannovesimo.
Se la Rivoluzione Francese, considerata il grande spartiacque della storia
moderna, continua ad ispirare con le sue ideologie e le sue passioni la
politica dell’Ottocento, sotto molti aspetti questo secolo sviluppa tendenze
già presenti nella società settecentesca. Le campagne napoleoniche, animate
da un sogno di potenza non nuovo nella storia europea, creano però negli
Stati occupati strutture amministrative più razionali, bruciando gli ultimi
residui del costume feudale e creando le premesse per un nuovo sviluppo
internazionale di quella borghesia che già in Francia e in Inghilterra aveva
dato nuovo impulso all’attività economica e aveva cominciato a sovvertire
le tradizionali idee d’immutabilità dell’ordine sociale3.
La società dell’Ottocento gode nel complesso di un benessere mai
raggiunto prima. Lo sviluppo demografico (tra il 1800 e il 1900 la
popolazione europea raddoppia) iniziato nel secolo precedente continua,
2 Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari. 3 Cfr, da Storia della gastronomia, M. L. Migliari e A. Azzola, Edipem, Novara 1983
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sostenuto da uno sforzo produttivo che consente all’Europa di raggiungere il
culmine della sua potenza, come centro di una rete commerciale che copre
ormai tutti i continenti; mantiene la sua supremazia grazie alla disponibilità
di capitali ingenti e all’applicazione di nuovi procedimenti tecnici che
rivoluzionano gradualmente tutti i campi della produzione e della stessa vita
sociale.
Si perfezionano i metodi di lavorazione dell’acciao; si sviluppa
l’industria elettrica mentre quella chimica, che ha mosso i primi passi
all’inizio del secolo, mette a disposizione del consumatore coloranti,
concimi artificiali, anestetici e disinfettanti.
La rivoluzione industriale incide su molti aspetti della storia
dell’alimentazione, primo dei quali lo sviluppo delle industrie alimentari.
Prodotti intermedi (farina, olio, zucchero, aceto ecc), che una volta erano
preparati artigianalmente, escono dalle grandi fabbriche: industrie molitorie,
oleifici, raffinerie ecc. Con il trascorrere del secolo, altre imprese
prepareranno cibi e condimenti pronti al consumo: alcuni di questi non
esistevano in precedenza, come il cioccolato in tavolette o il latte
condensato o in polvere; altri, invece, erano già prodotti dagli artigiani o dai
contadini – come il burro e il formaggio – e la maggior parte erano preparati
dalla massaia o dal cuoco (marmellate, conserve ecc.).
Altro aspetto fondamentale è il contributo dato alla notevole riduzione
del personale domestico: le popolane hanno preferito sempre di più il lavoro
in fabbrica o negli uffici alla condizione di domestiche. La scomparsa delle
cuoche dalle case borghesi ha trasformato in cuoche le signore; infine una
certa idea di emancipazione femminile ha fatto sì che preferissero un’attività
esterna4. Certo non era una novità, per quanto riguardava le classi popolari
(cioè la maggioranza della popolazione) , il “lavoro femminile”: nell’antica
società le donne lavoravano altrettanto se non più degli uomini. Si trattava 4 Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari
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per lo più di lavori di carattere domiciliare e domestico, il che permetteva
loro di organizzarsi in modo tale da occuparsi sia della casa e dei bambini
sia del lavoro stesso. Ma in seguito alla rivoluzione industriale aumenta il
numero delle donne che lavorano in fabbrica ed è sempre più difficile
combinare le attività professionali con quelle casalinghe. Perciò l’aumento
delle donne impiegate in fabbriche o negli uffici ha contribuito in maniera
determinante allo sviluppo dell’industria alimentare.
In questa ottica è importante considerare la ristorazione e le sue funzioni.
Da un lato una funzione gastronomica. Alcuni ristoranti sono diventati i
templi dell’alta cucina ed è proprio li che officiano sempre più i grandi
cuochi, quelli che un tempo erano al servizio di principi e signori. Questa
trasformazione è stata favorita da un nuovo statuto della gastronomia nella
società borghese. Altrettanto verò è che, la funzione gastronomica
interessava unicamente i ristoranti di lusso: quando non si era abbastanza
ricchi era possibile rivolgersi ad ogni sorta di ristoranti più modesti, in cui si
andava per godere della convivialità e della gola, concedendosi l’illusione di
uscire un po’ dal proprio stato. L’altra, e non meno importante, funzione dei
ristoranti era quella di nutrire una clientela sempre più numerosa di uomini e
donne che non consumano i loro pasti a casa – sia perché non c’è nessuno
per prepararli, sia perché lavorano troppo lontano da casa. In ogni caso
questo esilio di coloro che mangiano rimanda alle trasformazioni
dell’economia, al “lavoro femminile” e all’espansione degli agglomerati
urbani5.
Le applicazioni della macchina a vapore di Watt al campo dei trasporti
portano alla diffusione di piroscafi e ferrovie che dal 1830 cominciano a
sostituire velieri e diligenze. L’incremento e l’accelerazione dei trasporti e
delle comunicazioni (il telegrafo di Morse è del 1844, del 1876
l’apparecchio telefonico di Bell) apre nuove possibilità allo sviluppo del 5 Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari
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commercio, alla facilità di approvvigionamento che rende disponibili agli
europei alimenti provenienti da tutto il mondo.
Anche l’agricoltura trae vantaggio dalle nuove invenzioni: si mettono a
coltura vaste estensioni di terreno un tempo inutilizzate, si accresce la
produttività di quelle già sfruttate con nuovi metodi di drenaggio e aratura
profonda, e si diffonde l’uso delle macchine come la seminatrice, la
trebbiatrice e la mietitrice.
Gli studi chimici e biologici (tra cui emergono Liebig e Pasteur)
contribuiscono a una migliore conoscenza dei processi di nutrizione e
crescita delle piante: si introduce l’uso di fertilizzanti come il guano, mentre
verso la fine del secolo la teoria batterica di Pasteur permetterà di lottare con
successo contro varie malattie e di ottenere sostanziali progressi nel campo
dell’allevamento.
Questa popolazione più numerosa, più mobile, nel complesso meglio
alimentata e padrona di strumenti sconosciuti alle generazioni passate, è
anche agitata da fermenti culturali e politici nuovi: le spinte all’eguaglianza
presenti già nella Rivoluzione Francese continuano ad operare per tutto il
secolo (due esempi rilevanti sono l’abolizione della servitù della gleba in
Russia nel 1861 e la fine della schiavitù dei neri d’America decretata nel
1865). Se la borghesia è in piena ascesa e va creando nell’Europa
occidentale una società a propria misura, il proletariato, le cui condizioni
critiche costringono ancora grandi masse all’emigrazione, comincia a
imporre i suoi problemi all’attenzione dei governi.
Ma la scienza più che l’arte è il grande mito del secolo: le nuove teorie
sulla formazione dell’universo e sull’evoluzione della specie, la
classificazione degli elementi di Mendeleev6 e la legge della conservazione
6 www.wikipedia.org, Dmitrij Ivanovic Mendeleev: Nel 1869 iniziò a scrivere il suo libro, Principi di chimica. Il suo progetto prevedeva la sistematizzazione di tutte le informazioni dei 63 elementi chimici allora noti. Lo scienziato russo preparò 63 carte, una per ciascun elemento, sulle quali dettagliò le caratteristiche di ciascun elemento. Ordinando le carte, secondo il peso atomico crescente, si accorse che le proprietà chimiche degli elementi si
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dell’energia sembrano dare risposte e sistemazioni definitive ad antiche
ricerche, e dalla scienza si attende l’eliminazione dei mali che religione e
filosofia non erano riuscite a lenire.
Anche la vita d’ogni giorno risente di tante innovazioni: i rapporti sociali
divengono meno formali; il teatro e il caffè diventano i luoghi di riunione
preferiti dalla borghesia; la vita familiare si fa meno chiusa, la servitù si
riduce e il lavoro della donna è integrato o alleviato da strumenti nuovi
come la macchina per cucire o i primi alimenti prodotti industrialmente. Si
diffondono tra i ceti medi abitudini come la villeggiatura, i viaggi, la pratica
di sport, che portano anche all’adozione di un abbigliamento e di
atteggiamenti più semplici.
Il secolo si chiude su alcune delle invenzioni che maggiormente
caratterizzano la vita del nostro tempo: l’automobile di Daimler, la prima
pellicola dei fratelli Lumière e il telegrafo senza fili di Marconi.
1.2 Diffusione internazionale dei prodotti e selezione della specie.
La maggiore disponibilità di prodotti, dovuta al miglioramento
quantitativo e qualitativo delle colture, nonché all’ampliarsi dei mercati e
alla rivoluzione dei trasporti, è la caratteristica principale dell’alimentazione
nell’Ottocento.
Durante le guerre napoleoniche e nel periodo 1830-48 vi sono ancora
annate di crisi e cattivi raccolti, ma in seguito le condizioni dell’agricoltura
tenderanno ad un costante miglioramento e quando, nella seconda metà del
ripetevano periodicamente. Sistemò i 63 elementi conosciuti nella sua tavola e lasciò tre spazi vuoti per gli elementi ancora sconosciuti. Il grande scienziato russo non solo previde l'esistenza di altri elementi, ma ne descrisse pure le proprietà. L'importanza della tavola periodica e delle previsioni di Mendeleev furono riconosciute pochi anni dopo, in seguito alla scoperta degli elementi scandio, gallio e germanio, che andarono ad occupare alcuni posti lasciati vuoti nella tavola e possedevano le proprietà fisiche prevista dalla loro posizione in essa.
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secolo, la produzione europea non sarà più sufficiente ai bisogni della
popolazione, verrà integrata da importazioni come il grano americano, la
carne australiana e il riso dall’Asia, oltre a quelle tradizionali di tipici
prodotti coloniali. Non vi sono in questo secolo innovazioni di rilievo per
quanto riguarda le sostanze alimentari conosciute, piuttosto si selezionano le
specie animali e vegetali già note.
Brillat-Savarin affermando che “un pranzo quale si può avere a Parigi è
un tutto cosmopolita a cui ogni parte del mondo contribuisce con i suoi
prodotti”, citava fra questi “il riso dell’India, il sagu, il karrik, la soia, il
caffè, le patate dolci, gli ananas, il cioccolato, la vaniglia, lo zucchero ecc7”.
Alcune piante esotiche giunte in Europa nel Settecento, come il mango e
l’ananas, divengono di uso più comune e fanno la loro comparsa nuovi frutti
tropicali: le arachidi del Gambia, i datteri d’Algeria e le banane importate
dalla Giamaica. Le esigenze del mercato europeo impongono anche
l’estensione di alcune colture coloniali ad esso destinate: ad esempio il
cacao, originario dell’America tropicale, viene introdotto in Costa d’Oro e
Nigeria, mentre la coltivazione del tè dalla Cina si estende in India e a
Ceylon. Due piante, in modo particolare, assumono poi grande importanza
in questo secolo: la patata e la barbabietola da zucchero.
Nel campo dell’agricoltura, se il progresso delle tecniche e dei
rendimenti si è avviato più o meno presto a seconda dei paesi, si è però
dimostrato continuo, cosa che ha permesso non solo di rispondere alla sfida
demografica del XIX secolo ma assieme ha procurato un miglioramento
netto dell’alimentazione europea8.
L’allevamento in genere, come l’agricoltura, beneficia delle nuove
scoperte scientifiche, che permettono di selezionare le razze e di migliorarle
con incroci e con un’alimentazione più razionale. Le grandi città hanno 7 Cfr, da Storia della gastronomia, M. L. Migliari e A. Azzola, Edipem, Novara 1983 8 Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari
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mercati generali pubblici, come le Halles di Parigi, dove si trattano verdure,
frutta, salumi giunti per ferrovia dalle zone di produzione, e macelli che
garantiscono un certo controllo sanitario delle carni. In alcuni Paesi, quali
Stati Uniti, Germania e Olanda, il bestiame viene allevato all’aperto e
alimentato, oltre che con foraggio fresco, con scarti di patate e di
lavorazioni industriali come quella della birra e delle barbabietole. Nella
seconda metà del secolo si istituiscono in vari Paesi europei scuole di
agronomia e associazioni patrocinate dai governi per il progresso
dell’agricoltura, e si cominciano a registrare in appositi libri le genealogie
degli animali.
Da sottolineare notevoli progressi in campo veterinario grazie agli studi
di Pasteur9, sull’importanza della sterilizzazione, e del chimico tedesco
Justus von Liebig10, il quale contribuisce in modo determinante a dare
un’impostazione scientifica all’agricoltura dimostrando la possibilità di
migliorare il rendimento delle colture con l’impiego di fertilizzanti
contenenti determinate sostante minerali.
1.3 Procedimenti di conservazione e industrializzazione degli alimenti.
La vera rivoluzione alimentare dei tempi moderni consiste nella scoperta
di vari metodi per la conservazione dei cibi. Già nel 1772 il capitano Cook
aveva sperimentato, durante un suo viaggio, una “minestra portatile” di
carne bollita fino ad assumere una consistenza gelatinosa, ma solo
9 www.wikipedia.org, Louis Pasteur (1822 - 1895) è stato un chimico ed un biologo francese. Grazie alle sue scoperte e alle sue attività scientifiche, viene universalmente considerato come il fondatore della moderna microbiologia. 10 Ibidem, Freiherr Justus von Liebig (1803 - 1873); chimico tedesco che ha dato importanti contributi alla chimica per l'agricoltura e la biologia e alla organizzazione della chimica organica.
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nell’Ottocento si scoprì la possibilità di conservare gli alimenti eliminando i
microbi in essi contenuti11.
Pioniere di questi studi fu il biologo italiano Spallanzani12, che con gli
esperimenti sulla generazione spontanea condotti verso il 1768, aveva
dimostrato che era possibile ottenere la sterilizzazione mediante bollitura in
un recipiente chiuso. Il francese Nicolas Appert (1750-1841) nel 1804 aprì a
Massy un piccolo laboratorio per sperimentare la conservazione dei legumi
e in seguito di altri cibi, che faceva bollire in una rudimentale autoclave
chiusi ermeticamente in vasi di coccio o di vetro. Gli equipaggi delle navi
francesi in guerra furono i primi a verificare la bontà del metodo di Appert,
che nel 1810 pubblicò un’opera intitolata Le livre de Tous les Ménage ou
l’Art de conserver pendant plusieurs années toutes le substances animale et
végétables. Il suo metodo era stato frattanto introdotto in Inghilterra, dove si
cominciarono a usare recipienti di lamiera e di stagno. Verso il 1814 la ditta
Dokin & Hall forniva alla Marina Reale Inglese zuppe di verdura e carni
conservate, e l’esploratore Parry usò alimenti in scatola durante il suo
viaggio al polo nel 1825. Infine verso il 1850, si cominciarono a usare per la
bollitura autoclavi munite di misuratori di pressione e valvole di sicurezza,
che eliminavano il rischio di esplosioni. Il procedimento non dava però
ancora una garanzia assoluta, in quanto esisteva, specie per sostanze
deperibili come la carne, il rischio di avarie: solo quando Pasteur riconobbe
nei batteri gli agenti della putrefazione, si stabilirono i tempi e le
temperature necessarie per sterilizzare i vari alimenti.
L’industria della carne in scatola, sviluppatasi negli Stati Uniti, progredì
anche grazie al perfezionamento dei recipienti usati, che comunque
risultarono completamente sicuri solo dopo il 1900. La salagione e
l’affumicamento erano già praticati da tempo. Altro metodo che permise di
prolungare la durata dei cibi come la carne e il pesce, fu la refrigerazione 11 Cfr, da Storia della gastronomia, M. L. Migliari e A. Azzola, Edipem, Novara 1983 12 www.wikipedia.org, Lazzaro Spallanzani (1729 – 1799); biologo.
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che, attorno il 1850, permise di trasportare il latte con maggior sicurezza dai
luoghi di produzione a quelli di consumo, e di conservare in ambiente
freddo prosciutti o pesci meno salati e quindi di sapore più delicato. Il
ghiaccio veniva già impiegato agli inizi dell’Ottocento per conservare il
pesce fresco durante il trasporto sulle navi le quali, grazie al
perfezionamento delle reti a strascio, poterono spingersi in zone più lontane.
Dal 1851 si costruirono industrialmente macchine frigorifere e, dopo
qualche insuccesso, dal 1880 iniziarono trasporti regolari di carne congelata
dagli Stati Uniti oltre che dalla Nuova Zelanda e dall’Australia, verso il
Vecchio Continente.
Un altro alimento importante come il latte beneficiò in vario modo delle
scoperte del secolo: verso il 1850, grazie al veloce progresso dei trasporti, si
cominciarono a chiudere le stalle di città, seminterrati fetidi in cui gli
animali affondavano nel letame ed erano facile preda di malattie, per
sostituirle con allevamenti di campagna e all’aperto. Quando gli studi di
Pasteur fecero comprendere l’importanza della sterilizzazione, si arrivò
verso fine secolo all’introduzione della cosiddetta pastorizzazione,
consistente in un riscaldamento a 60-80° C per alcuni minuti, che
permetteva di eliminare i germi nocivi e di prolungare la durata del
prodotto. Attorno al 1880-90 iniziò la lavorazione industriale del burro, che
permise di ottenere un prodotto di qualità più costante e quindi più
facilmente esportabile. Una nuova sostanza destinata a larga diffusione fu
poi la margarina, dovuta agli esperimenti di Mège-Mouriès, francese che,
incaricato dalla Marina del suo Paese di trovare un succedaneo economico
del burro, aveva intuito la possibilità di estrarre grasso dal corpo degli
animali, facendolo fondere: se ne ricavava un liquido chiamato oleina, ed
una parte solida, chiamata appunto margarina, che con l’aggiunta di latte
risultò di sapore accettabile. Il procedimento, brevettato da Mège-Mouriès,
venne successivamente perfezionato negli Stati Uniti, e dopo il 1890 si
cominciò a usare olio di cocco e di palma insieme al grasso animale. Solo
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dopo il 1900, l’aggiunta di vitamine avrebbe ulteriormente migliorato il
prodotto, rendendolo accettabile anche a quei consumatori che inizialmente
l’avevano disprezzato per il basso costo e l’aspetto poco gradevole.
Una lavorazione basata ancora su metodi antichi, come quella dei
formaggi, fece qualche progresso in seguito agli studi di batteriologia, che
permisero di escludere dal processo di fermentazione i batteri dannosi. Un
altro derivato del latte che cominciò a godere di grande favore fu lo yogurt,
mentre l’industria casearia, sviluppatasi verso la fine del secolo, avrebbe
affiancato alla produzione tradizionale quella di “creme di formaggio”
ottenute dalla cottura di formaggi a pasta dura.
Fra gli altri elementi che, con metodi già usati in ambiente domestico,
cominciarono a essere preparati industrialmente nella seconda metà
dell’Ottocento, sono da ricordare la cioccolata, i biscotti, le confetture di
frutta e varie salse di ogni tipo.
1.4 Calorie e dietetica13.
Lo sviluppo delle conoscenze scientifiche permise di giungere anche a
una classificazione scientifica degli alimenti in base alla loro composizione
e al loro valore energetico.
Già nel 1831 Dalton, uno dei padri della chimica moderna, aveva tentato
di stabilire la quantità e la composizione del cibo necessario ad ogni uomo
registrando le variazioni del proprio peso dopo ogni pasto. Questo tipo di
ricerche venne proseguito da Magendie, fisiologo francese, e da Liebig che
nel 1842 distinse i cibi in sostanze “plastiche” o azotate, che concorrono alla
formazione dei muscoli, e “respiratorie”, cioè idrati di carbonio e grassi, che
generano calore.
13 Cfr, da Storia della gastronomia, M. L. Migliari e A. Azzola, Edipem, Novara 1983
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Si cominciò anche ad approfondire la conoscenza dei processi di
digestione e, in seguito a studi del francese Berthelot e dei tedeschi Voit e
Pettenkofer, si fissò una misura precisa del valore energetico dei cibi, che
venne chiamato caloria14. Su questa base fu poi possibile elaborare le prime
tabelle dietetiche per varie categorie di persone.
In questo periodo vennero prodotti anche i primi alimenti per neonati:
dapprima risultavano spesso mortali, per la composizione di acqua, latte e
con aggiunta di fecola, e perché somministrati in bottiglie non sterilizzate;
poi Liebig propose una mistura di farina di frumento, latte e malto, cotta e
successivamente disidratata, che poteva conservarsi più a lungo e dava
maggiori garanzie igieniche.
Alla fine del secolo gli alimenti erano ormai classificati in base alla
composizione in protidi, glicidi e lipidi; si conosceva anche l’esistenza di
sali minerali, e di sostanze accessorie che conferivano particolari aromi, ma
alcuni studiosi avevano il sospetto che esistessero altri elementi presenti in
quantitativi trascurabili e quindi difficili da individuare.
Tra il 1880 e il 1890 un medico olandese, Eijkmann, inviato nelle Indie
Olandesi per ricercare le cause della malattia, chiamata “beri-beri”, che
colpiva quelle popolazioni, scoprì che i polli di cui si serviva per gli
esperimenti, alimentati con riso brillato, manifestavano i sintomi della
malattia: l’attribuì pertanto alla mancanza di una sostanza essenziale che
venne individuata solo nel 1912, e ricevette il significativo nome di
vitamina15.
14 Cfr, da www.wikipedia.org: La caloria (o piccola caloria, simbolo cal) è un'unità di misura dell'energia. In biologia, o nelle scienze dell'alimentazione, la grande caloria (Cal o kcal), equivalente a 1000 cal, indica l'apporto energetico di un alimento. Le determinazione dell'apporto calorico deve essere fatta in riferimento allo zucchero (glucosio), che è l'alimento naturale di più semplice assimilazione. 15 Cfr, da www.wikipedia.org: La scoperta delle vitamine nacque dalla constatazione che una dieta a base di carboidrati, lipidi, proteine e sali minerali non era sufficiente a garantire lo sviluppo e la sopravvivenza degli individui ma che era necessario addizionare anche degli opportuni fattori di crescita. Il primo di questo composti venne isolato nel 1911: per la
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I progressi di dietetica permisero di dare un fondamento scientifico a
tradizioni che risalivano ai tempi più antichi; le diete continuarono a
rispondere a bisogni più frivoli, come quello di sentirsi in linea con le teorie
degli igienisti o di conservare il “vitino di vespa” richieso dalla moda di
allora. Si accrebbe il numero di vegetariani e si cominciarono a
raccomandare diete disintossicanti a base di sola frutta. Verso la fine del
secolo si consigliavano, in opere con pretese scientifiche o in articoli di
riviste femminili, diete dimagranti non troppo dissimili da quelle suggerite
ancor oggi dagli specialisti, basate sul consumo di carne, pesce e verdura e
sull’eliminazione di zucchero e farinacei, bagni caldi e dall’uso di busti o
cinture per contenere le forme.
1.5 Adulterazioni alimentari.
Se la combinazione delle nuove esigenze e delle nuove scoperte nel
campo della tecnologia alimentare aveva in genere migliorato la quantità e
la purezza dei cibi da una parte, dall’altra l’uso della chimica – rivelatosi a
tratti troppo disinvolto - fornì anche nuovi mezzi per alterarne le
caratteristiche originarie ai fini di lucro, generando scandali alimentari,
nuove malattie e impoverimento della nostra dieta per quanto riguarda
elementi nutritivi e gusto. Alcune pubblicazioni scientifiche svelarono i
danni dell'adulterazione dei cibi e stimolarono i governi a emanare le prime
leggi per il loro controllo.
Il problema del resto non era nuovo. Già nel 1820 un libro pubblicato a
Londra col titolo Treatise on the Adulterations of Food and Culinary
Poisons16 aveva suscitato scalpore. Ne era autore un farmacista di origine
sua positività alle reazioni delle ammine, venne denominato ammina della vita (da cui vitamina, il cui nome venne dato dal biochimico di origine polacca Casimir Funk nel 1912). 16 Cfr, da www.gutenberg.org
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tedesca, Friedrich C. Accum (1769-1838), che in precedenza si era
interessato dell’analisi chimica degli alimenti.
Fra le pratiche denunciate da Accum, alcune delle quali di origine antica
e assai comuni a Londra in quel periodo, l’aggiunta di albume al pane, di
solfato ferroso alla birra, e l’uso di coloranti artificiali nei liquori e nel vino,
che veniva a volte ottenuto con sidro guasto; accadeva inoltre che foglie di
prugnolo venissero spacciate per tè e che sostanze tossiche, come sali di
rame e piombo, venissero usate per conferire colori brillanti ai prodotti di
pasticceria. Ma questa denuncia, che non fece altro che suscitare una
campagna di commercianti infuriati tale da costringerlo a tornare in
Germania, non diede però risultati, se ancora nel 1850 altri scritti
riprendevano le sue accuse: l’autorevole rivista medica Lancet17 promosse
un’inchiesta da cui risultarono altre sofisticazioni, come l’aggiunta di farina,
gesso e acqua al latte, la sostituzione di polvere di mattoni al cioccolato e
l’impiego di sostanze velenose come coloranti e conservanti. Si
svilupparono frattanto i primi metodi analitici d’indagine attraverso il
microscopio, e in seguito alle analisi condotte da A.H Hassal il Parlamento
inglese emanò nel 1860 la prima legge sulle adulterazioni alimentari (Food
and Drugs Act18), che limitava o bandiva l’impiego delle sostanze
riconosciute dannose, che cominciò ad essere applicata una decina di anni
più tardi.
1.6 La scienza gastronomica
Il termine gastronomia deriva dal greco gastèr (genit. gastròs, ventre) e
nomìa (da nòmos, legge)19. Etimologicamente significa “legge del ventre”,
17 www.thelancet.com; www.wikipedia.org 18 Cfr, da www.bartleby.com/65/fo/foodadul.html; www.encyclopedia.org 19 da www.wikipedia.org
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ovvero l’insieme delle regole necessarie per scegliere e consumare vivande
con soddisfazione dello stomaco. Le definizioni successive sono soltanto
parzialmente esaustive, perché ne danno conto come “dell’arte di preparare
e cucinare i cibi”.
La gastronomia ha assunto sin dai suoi esordi una connotazione
fortemente elitaria: erano le classi dominanti che scrivevano per se stesse i
ricettari e le prime opere di critica gastronomica. La cultura dei poveri e dei
contadini non vanta fonti scritte e dai ricettari dei più nobili si può soltanto
intuire che i saperi del contado sono stati espropriati dalle classi dominanti
insieme al diritto al piacere. Eppure, le principali invenzioni della storia
della gastronomia sono nate negli strati più poveri della società per
rispondere a necessità urgenti: la mancanza di cibo, la deperibilità delle
derrate alimentari, l’esigenza di trasportarle o di conservarle e quindi di
minimizzare l’influenza di spazio e tempo sulla nostra alimentazione20. La
storia dell’alimentazione umana è una storia affascinante, ricca di scoperte e
di imprese anonime, ma non per questo meno importanti e meno
appassionanti: ogni episodio della storia della gastronomia è una tappa nella
storia dell’uomo tout-court, un passo avanti nel suo millenario cammino per
elevarsi al di sopra della condizione di bruto21.
Quando la parola ha fatto il suo primo ingresso ufficiale nel dizionario
dell’Académie Francaise nel 1835, si parlò poi di gastronomi come degli
“anfitrioni che sceglievano, ordinavano e offrivano una tavola riccamente
imbandita”22. La figura del gastronomo, figlia della prima borghesia
postrivoluzionarista, ha sempre rispecchiato una tradizione da cucina nobile,
molto ricca, che affonda le sue radici nei ricettari di corte e per questo, per
lungo tempo, ha goduto di una pessima stampa ed è stato identificato – nel
migliore dei casi – come un rubizzo e obeso signore perennemente intento a
20 Buono, pulito e giusto, Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005 21 Cfr, da Storia della gastronomia, M. L. Migliari e A. Azzola, Edipem, Novara 1983 22 Buono, pulito e giusto, Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005
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“scalare” montagne di vivande e ad “asciugare” eserciti di bottiglie:
frivolezze23 insomma.
All’inizio dell’Ottocento si cominciò a definire progressivamente la
scienza gastronomica e l’apporto principale fu dato dalla cultura francese.
Dopo la Rivoluzione si instaurò un positivo rapporto tra gastronomi e
cuochi; la società riprende la gioia di vivere e le grandi case riaprono i loro
saloni per ricevimenti e pranzi ufficiali in cui rifulge l’arte dei cuochi,
passati dal servizio delle famiglie nobili dell’ancien régime a quello dei
rappresentanti del nuovo potere borghese. In quegli anni, oltretutto, a Parigi
si stava sviluppando in modo esponenziale la ristorazione moderna, con
incrementi notevoli per quanto riguarda il numero di ristoranti (se ne
contavano già più di duemila nel 1834) presenti nella capitale.
I gastronomi fecero la fortuna e la reputazione degli chef con le loro
guide e con le prime pubblicazioni di critica. Nasceva la letteratura
gastronomica con Jean-Anthelme Brillat-Savarin e con Alexandre-
Balthazar-Laurent Grimod de La Reynière tra gli autori più importanti, veri
padri fondatori della gastronomia moderna. Gli chef stessi consolidarono la
loro popolarità grazie agli scritti di Antoine Beauvilliers, Charles Durand,
Marie-Antoine Careme e Auguste Escoffier.
Ricordiamo brevemente l’importanza due dei personaggi sopra citati.
Brillat-Savarin, con la sua Pysiologie do guot24, promuove l’arte della
tavola a dignità filosifica. La versatilità e il brio del suo carattere danno
un’impronta particolare a quest’opera, in cui, con la misura e la varietà di
una conversazione mondana, discorre di pranzi e di storia della cucina,
23 Physiologie du gout, Jean-Anthelme Brillat-Savarin, Paris 1825; nell’iniziale Dialogo tra l’autore e il suo amico:Autore”…con tutto ciò non pubblicherò il mio libro”; Amico “E perché?”; Autore “Perché dedicandomi, per la mia professione, a studi seri, temo coloro i quali conoscessero il mio libro solo per il titolo, crederebbero ch’io mi occupi soltanto di frivolezze”. 24 Il titolo completo dell’opera è: Physiologie du Goût, ou Méditations de Gastronomie Transcendante; ouvrage théorique, historique et à l'ordre du jour, dédié aux Gastronomes parisiens, par un Professeur, membre de plusieurs sociétés littéraires et savantes.
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rievoca aneddoti personali e classifica gli alimenti in base alla composizione
chimica e agli effetti sulla salute. La gastronomia viene così collegata alle
nuove scoperte scientifiche e alle teorie settecentesche sul gusto, di cui
analizza la meccanica e gli effetti spirituali, esaltandolo come il segno della
superiorità dell’uomo, onnivoro e capace di ricavare sottili piaceri anche
dalle sue attività materiali: “L’animale si nutre” dice “l’uomo mangia, ma
solo l’uomo di spirito sa mangiare”.
Come già detto caratteristica dell’epoca è la grande fortuna dei ristoranti,
che finiscono per sostituirsi alla Corte come centri del culto gastronomico e
iniziano quella contaminazione del gusto che proseguirà nel nostro secolo
con l’affermarsi della cosiddetta “cucina internazionale”. La cucina di
Escoffier, fusione di raffinatezza ed efficienza, abolì definitivamente le
decorazioni architettoniche in materiali non commestibili, semplificò nel
numero e nella preparazione le complesse portate della tradizione di cui era
erede, innovandole con piatti capaci di assecondare il gusto della sua
clientela internazionale25.
25 … di cui facevano parte personaggi come il principe di Galles, nobili russi in vacanza in Costa Azzurra e il Kaiser Guglielmo II, che lo proclamò “imperatore dei cuochi”; da Storia della gastronomia, M. L. Migliari e A. Azzola, Edipem, Novara 1983
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2. L’Artusi26
2.1 La cucina borghese italiana27.
Fino al Settecento inoltrato la nascita di veri e propri sistemi
gastronomici regionali (e non già la trasmissione di singoli piatti) è resa
impossibile dall’impostazione universalistica e artificiosa della cucina. Con
la rottura dei codici culinari dell’antico regime, ha inizio un processo di
sedimentazione e differenziazione, lungo un secolo abbondante, al termine
del quale l’esistenza delle cucine regionali italiane è cosa del tutto
evidente28.
La cucina italiana, per quanto a volte disprezzata dai buongustai francesi
perché meno elaborata, non è seconda a quella d’Oltralpe per ricchezza e
varietà di preparazioni: la sua caratteristica è anzi la molteplicità di
tradizioni regionali, ciascuna strettamente legata alle produzioni locali, che
garantiscono la genuinità dei piatti tipici. Accanto a questa differenziazione
risalente ai secoli passati, ne troviamo un’altra corrispondente ai vari strati
della società ottocentesca. Gli aristocratici coltivano maniere preziose e un
gusto raffinato, ispirato ai modelli della “grande cucina” francese; i più
poveri, abituati a pasti assai frugali e spesso acquistati sulle bancarelle dei
venditori ambulanti, saziano la loro fame con generose mangiate solo in
occasione delle principali feste religiose o del Carnevale; nell’Ottocento
però si afferma, con caratteri propri accanto a questi due ceti, una borghesia
che si distingue soprattutto per la ricchezza dei suoi pranzi, in cui
26 Dizionario moderno delle parole che non si trovano nei dizionari comuni, Alfredo Panzini, Hoepli, 1963; alla voce Artusi: “Per antonomasia libro di cucina. Che gloria! Il libro che diventa nome! A quanti letterati toccò tale sorte?”. 27 Cfr, da Cfr, da Storia della gastronomia, M. L. Migliari e A. Azzola, Edipem, Novara 1983 28 Piero Meldini, tratto da Pellegrino Artusi e la società del suo tempo; atti del convegno Festa Artusiana 1998
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compaiono anche varie specialità regionali, allestite con abbondanza di
mezzi.
Cultori di gastronomia e cuochi di famiglie signorili codificano nelle
loro opere questo patrimonio, con un lessico formale, ancora incerto e in
gran parte ricalcato su quello francese, ma con la consapevolezza di una
tradizione tutt’altro che misera. Le cucine italiane sono, nel loro complesso,
il risultato dello sposalizio fra le cucine popolari delle occasioni solenni e la
nuova gastronomia francese e francesizzante, i piatti che le compongono
sono di varia estrazione – contadina, marinara, urbano-borghese,
aristocratica – e di più o meno lontana origine. Né mancano relitti delle più
sparate “invasioni” e contaminazioni culinarie: araba, ebrea, spagnola,
mitteleuropea29.
Le varie cucine si distinguono per gli ingredienti impiegati: fra i
condimenti il burro è più usato a Nord, mentre al Sud si preferisce l’olio
d’oliva; il riso e la polenta entrano in molte preparazioni settentrionali,
mentre maccheroni, pizze e calzoni caratterizzano la cucina meridionale;
diffuse in ogni regione sono invece minestre e minestroni a base di verdure,
arricchite con riso o pasta, che costituiscono la base del pasto delle famiglie
contadine.
La cucina piemontese, per ragioni storiche e ovvie ragioni geografiche,
risente più delle altre l’influenza francese, soprattutto per quanto riguarda la
pasticceria che è tra le più raffinate d’Italia, ma ha anche i suoi prodotti
tipici: delicate carni bovine, riso, formaggi, selvaggina e, soprattutto, il
tartufo che arricchisce le preparazioni più pregiate. Ricordiamo il Cuoco
piemontese ridotto all’ultimo gusto, pubblicato nel 1829, mentre verso la
metà del secolo Giovanni Vialardi (capocuoco e pasticcere alla Corte di
Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II) descrisse le sue ricette nel Trattato
29 Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari
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di cucina pasticciera (1854), seguito da un manuale di Cucina borghese
semplice ed economica.
In Lombardia si amano pranzi abbondanti ma basati per lo più su
ingredienti semplici ed economici: il risotto allo zafferano, le polpette,
l’osso buco, la “cotoletta”, la verzata e la trippa; il panettone, diffuso anche
all’estero e spesso arricchito da decorazioni fantasiose, è già il tipico dolce
di Natale. Fra i trattati più noti sono il Nuovo cuoco milanese economico
(1829) di Gian Felice Rulaschi, e vari almanacchi o manuali come Il cuoco
di buon gusto (1850).
La cucina veneta, di antica tradizione, offre antipasti come i “bovoletti”
(lumachine), le sardelle e altri pesci; risotti con frutti di mare e seppie,
prodotti tipici come i prosciutti di San Daniele e le luganeghe, la polenta,
preparazioni a base di baccalà, trippa, pollame e selvaggina e pesci come il
“bisato (anguilla) in tecia”.
Più fresca e semplice è la cucina ligure, caratterizzata, oltre che dal
pesce fresco, dall’impiego di verdure e di erbe aromatiche: ricordiamo il
minestrone con il basilico, il pesto, il cappon magro a base di verdure e
pesce, la burrida, la tora Pasqualina, la panissa di ceci, le trenette e i ravioli.
Due manuali, pubblicati verso la metà del secolo, riportano queste ricette
igieniche ed economiche: la Cucineria genovese di G.B e G. Ratto e la Vera
cucineria genovese di E. Rossi.
Anche in Toscana si preferiscono piatti semplici come la costata alla
fiorentina, l’acqua cotta e la pappa di pomodoro, contorni di verdure non
troppo elaborati; fra le paste sono tipiche le pappardelle al sugo di lepre;
Livorno è nota per il caciucco e le triglie alla livornese, mentre in tutta la
regione sono diffusi dolci caratteristici venduti da ambulanti: il
castagnaccio, i bomboloni, oltre al panforte e ai ricciarelli di Siena. Da
ricordare il Cuciniere economico (1870) redatto da F. Grandi, cuoco di una
famiglia principesca di Firenze.
- 26 -
La cucina emiliana e romagnola era già caratterizzata nell’Ottocento
dalla ricchezza di salumi e formaggi che ancor oggi ne costituiscono il
vanto: il prosciutto, coppa, mortadelle di Bologna, il culatello di Parma, lo
zampone di Modena. Oltre che come piatto a sé, i salumi più pregiati erano
utilizzati per i ripieni di anolini, ravioli, tortellini e cappelletti, confezionati
con sfumature di gusto diverse per ciascuna località.
La costa romagnola e marchigiana era ricca di pesce, che veniva tra
l’altro impiegato per il “brodetto”, mentre la porchetta era tipica
dell’Umbria.
La cucina romana offriva alcuni dei ricchi piatti che la caratterizzano
ancor oggi: fettuccine, gnocchi, spaghetti “alla matriciana”, abbacchio alla
cacciatora o in costolette, saltimbocca; numerosi formaggi tra cui la pregiata
provatura di bufala, il pecorino e la ricotta. Al romano V. Agnoletti si deve
il manuale la Nuova cucina economica edito nel 1819.
Due opere, assai diverse tra loro, dedicate alla gastronomia e agli usi
napoletani, destano particolare interesse: La Cucina teorico-pratica
pubblicata nel 1837 da I. Cavalcanti duca di Buonvicino, e il Ventre di
Napoli (1884) di M. Serao. Fra i piatti più tipici erano: timballi di vermicelli
o maccheroni con sughi di pomodoro o di pesce, dolci come le zeppole o la
pastiera, “nu bellu piattu de trippa”, la pizza, la salsa di pomodoro, la
“mmenestra maritata” e le “cauzuncielle de pasta cresciuta”30.
Le altre cucine meridionali sono caratterizzate da piatti piccanti, spesso a
base di pesce, da formaggi come la ricotta, le provole e il caciocavallo. La
cucina siciliana offre piatti di pasta riccamente conditi: cannelloni, pasta con
le sarde, i “maccheroni con milinsane” ricordati anche dal Cavalcanti. I
pesci, alimento base in tutta l’isola, sono serviti a beccafico, il pesce spada
alla messinese, il nasello alla palermitana, o in minestre elaborate come il 30 Cfr, da Storia della gastronomia, M. L. Migliari e A. Azzola, Edipem, Novara 1983; alla seconda edizione del libro il Cavalcanti aggiunse una vivace appendice in dialetto sulla “vera cucina casareccia”, qui sono presentate, con commenti familiari ed espressioni colorite, alcune fra le più genuine ricette popolari, come le sopra citate.
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“cuscussù” trapanese, di origine araba. Fra i piatti di verdura è famosa la
“caponata” a base di melanzane, mentre ceci, fave e lupini sono spesso
offerti da venditori ambulanti; tutta l’isola è rinomata per la produzione di
dolci tra cui spiccano i cannoli con la ricotta, la cassata, i sorbetti e gelati
vari.
Questo breve elenco, forzatamente incompleto, dà solo un’idea della
varietà del panorama gastronomico italiano. Il processo di diversificazione
occupò l’intero secolo XIX e, paradossalmente, fu accelerato e quasi
favorito dall’unificazione del Paese.
Verso la fine del secolo, e per la precisione nell’anno 1891, fu dato alle
stampe un Manuale pratico per le famiglie il quale autore “… aveva saputo
riallacciarsi ad una tradizione di cuochi letterati e maestri che, dal
Rinascimento in poi, costituì un aspetto per nulla secondario della vita
umanistica delle nostre corti, e rielaborare per una società nuova di
borghesia e di popolo una materia che era stata gelosamente custodita e
trasmessa per principi e re, congiungendola al filone della cucina popolare
e regionale, in una sintesi che, per l’epoca in cui fu fatta, acquista un suo
preciso e importante significato storico31”.
Il libro s’intitolava “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene.
Manuale pratico per le famiglie.” ed autore, all’epoca settantunenne, ne fu
Pellegrino Artusi.
2.2 Pellegrino Artusi.
È comodo abitare luoghi comuni: hanno un nucleo (almeno) di verità e
consentono ipotesi plausibili in situazioni sconosciute.
31 Prefazione di Luigi Volpicelli a “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene”
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C’è un luogo comune in cui convivere confortevolmente con Pellegrino
Artusi: quello del padre fondatore di una cucina nazionale italiana, che tiene
per il manico un melting pot unificato di cucine e di lessici nazionali.
Pellegrino Artusi nacque a Forlimpopoli il 4 agosto 1820, da Teresa
Giunchi e Agostino. Dopo gli studi al Seminario di Bertinoro, comincia ad
occuparsi degli affari paterni. Proprio agli affari e alla vita di bottega, una
drogheria che era in realtà “un guazzabuglio d’ogni cosa un poco”, il padre
di Pellegrino avrebbe voluto avviare il figlio32.
A segnare una svolta nella vita del giovane Pellegrino e della sua
famiglia fu la famosa incursione del Passatore a Forlimpopoli, il 25 gennaio
1851. Nella stessa notte in cui fece irruzione nel teatro cittadino, la banda
del celebre brigante con un sotterfugio, riuscì a entrare nella casa del futuro
gastronomo e fare man bassa di denaro e oggetti preziosi. Il colpo
banditesco, al di là del danno economico, segnò profondamente la famiglia
Artusi: Gertrude, una delle sorelle di Pellegrino, per lo spavento impazzì e
fu internata in manicomio. L'anno successivo la famiglia Artusi lasciò
Forlimpopoli e si trasferì a Firenze, dove il trentaduenne Pellegrino si
dedicò all'attività commerciale, divenendo capofila di un buon commercio
di seta con la Romagna al quale aggiunge, cosa peraltro abbastanza
consueta, l’esercizio di un’attività para-bancaria e infine una propensione
all’investimento finanziario di un certo successo. Artusi continuò a vivere in
Toscana dove morì nel 1911 a 91 anni, ma mantenne sempre vivi i rapporti
con la città natale.
La lunga vita di Pellegrino Artusi si snoda lungo i decenni cruciali di
quella che viene comunemente definita “l’età del progresso”: ebbe la
possibilità di percepire le imponenti trasformazioni di mentalità che
accompagnarono la fine dell’antico regime e il sorgere di una cultura, di un
gusto, di un sistema sociale compiutamente borghesi. Egli stesso,
32 P. Artusi, Autobiografia, a cura di A. Capatti e A. Pollarini, Milano, il Saggiatore
- 29 -
d’altronde, pur provenendo da un ambiente provinciale, avrebbe dimostrato
una certa abilità nell’intersecare le aspirazioni dell’opinione pubblica, nel
saperne interpretare i desiderata, nel cogliere l’importanza di un medium (il
manuale), che nelle sue caratteristiche fondamentali (concisione e
concretezza, rapidità di consultazione, chiarezza nell’esposizione) sembrava
riassumere i lineamenti stessi della comunicazione “borghese”33.
Pellegrino Artusi, in questo figlio non degenere del suo tempo, aderiva
dal punto di vista intellettuale al moto del progresso quanto a stili di vita
(quegli stili di vita che, a partire dal 1860, debordarono dai centri principali
della penisola anche in periferia: letture, moda, innovazioni tecnologiche,
infrastrutture modernizzanti), ma se ne allontanava bruscamente allorché si
trattava di discutere, anche solo nelle sue distorsioni più evidenti, quello che
possiamo definire il quadro sociale “possidente” in cui era collocata l’Italia
postunitaria34.
Nonostante l’adesione risoluta ai meccanismi del mercato editoriale in
qualche modo connessi all’accelerazione del “tempo dell’acculturazione”
immanente alla vague progressiva, Artusi non fu mai, però, un uomo
d’ideali avanzati. II suo profilo di prudente notabile periferico, anzi, rende
piuttosto incredibile, e forse anche per questo interessante, la disinvoltura
dimostrata nell’assumere i panni, in età non più verde, del nume tutelare di
una “scienza gastronomica” dispensata amabilmente alle signore dell’età
umbertina (e di quelle che sarebbero seguite) nel segno di una koinè se non
33 Cfr., fra i contributi più recenti, A. Pollarini (a cura di), La Cucina Bricconcella.
1891/1991. Pellegrino Artusi e l'arte di mangiar bene cento anni dopo, Bologna, Grafis, 1991. Su Artusi e l’ambiente forlimpopolese cfr., inoltre, i contributi contenuti in "Forum Popili", I (1961) e A. Roncuzzi, Pellegrino Artusi. (Vita, opere, tempi suoi), nuova ed., Forlimpopoli, Ed. dell'Accademia Artusiana, 1990. Ovvio, infine, il riferimento alla magistrale introduzione di P. Camporesi all'edizione einaudiana della Scienza in cucina e l'arte di mangiar bene (Torino, Einaudi, 1970, pp. IX-LXX).
34 Sulle origini di questa mentalità cfr. S. Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia, 1870-1925, Venezia, Marsilio, 1979.
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persuasivamente “nazionale”, per lo meno di ceto, di status35.
La prima edizione (1891, tiratura 1000 copie) de La Scienza in cucina
era composta di sole 475 ricette, dall’Appendice, dal Prefazio e da una
“dedica ai gatti” poi soppressa nelle edizioni successive. Dal 1891 al 1910
Artusi lavorò alacremente all’ampliamento di questo primo corpo di ricette
sino a giungere, nel 1909, alle 790 che costituiscono la versione attuale del
libro. È lo stesso Artusi a raccontare le peripezie della sua celebre opera
nella introduzione che intitolò significativamente “Storia di un libro che
rassomiglia alla storia di Cenerentola”; dal severo giudizio del professor
Trevisan che sentenzia “Questo è un libro che avrà poco esito” all’aneddoto
dei forlimpopolesi che, avendo vinto due copie del libro in una lotteria,
andarono a venderle dal tabaccaio non sapendo che farsene. Ma il successo
alla fine arrivò e fu travolgente: in vent’anni ne furono stampate 14 edizioni
tutte curate dall’autore stesso; nel 1931 le edizioni erano giunte a quota 32 e
“l’Artusi” (ormai veniva chiamato con il nome dell’autore) era uno dei libri
più letti dagli italiani, assieme a “I promessi sposi” di Manzoni e all’opera
di Collodi, “Pinocchio”.
Nell’operazione di Artusi era sottesa un’ambizione non esplicitamente
espressa ma tale da esserne lo snodo: di mettere assieme un qualcosa che
potesse apparire come un codice, o quanto meno una sintesi antologica,
della cucina italiana.
Ancora oggi si contano innumerevoli edizioni, rivisitazioni, traduzioni
(inglese, tedesco, francese, olandese ecc.) e una diffusione internazionale
degna del “valore letterario preminente del libro, della sua appartenenza
alla cultura umanistica più che a quella gastronomica36”.
Ad oltre un secolo di distanza dalla prima edizione del libro, i discorsi e
i dibattiti, sull’attualità o meno del volume, si sprecano. Nella seguente 35 Cfr., più in generale, su questi aspetti, J.-L. Flandrin, M. Montanari (a cura di), Storia
dell'alimentazione, Roma-Bari, Laterza, 1997. 36 Tratto da Artusi 2000, introduzione di Folco Portinari, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2000.
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analisi, ci proponiamo di porre in risalto i punti chiave dell’opera artusiana,
i valori in essa racchiusi e sapientemente custoditi.
Valori – quanto mai attuali – quali l’igiene, l’economia, la stagionalità
dei prodotti e il loro buon gusto, la salute; tutti temi ampiamente rivalutati e
discussi ai giorni nostri. Dall’Artusi ci separano cent’anni di sfrenato
progresso scientifico e tecnico; nell’arco di un secolo l’Italia è passata dalla
fame alle diete, dalla penuria all’opulenza, dal territorialismo al
cosmopolitismo, dalla gioia serena di mangiare, alla paura di nutrirsi troppo
e soprattutto male, cambiando così radicalmente il proprio assetto sociale,
culturale ed economico. Sono cambiati i ritmi, le culture, i linguaggi, le
differenze di classe, gli stili di vita, i mercati, l’immaginario individuale e
collettivo. Ed è cambiata anche la geografia dei consumi alimentari. La
crescita della cultura gastronomica, la raffinatezza del gusto, la possibilità di
poter scegliere i prodotti – e i ristoranti – migliori e più diversi tra loro e una
maggiore disponibilità economica, hanno favorito il diffondersi di un
consumismo diverso.
2.3 Marketing artusiano.
La scienza in cucina rappresenta un caso nella storia editoriale italiana.
Dopo essere stato rifiutato dai più importanti editori dell’epoca e bocciato
dai critici, un secolo dopo, è diventato uno dei libri italiani più venduti in
assoluto. Artusi, romagnolo di Forlimpopoli, letterato senza successo37,
gastronomo dilettante, di professionista banchiere a Firenze, si trasformò in
editore di sé stesso. Dopo aver fatto pubblicare a proprie spese dal tipografo
fiorentino Salvatore Landi le prime mille copie, Artusi non solo applicò una
37 Pubblicò due volumetti di argomento letterario: “Osservazioni in appendice a Trenta Lettere di Giuseppe Giusti”, 1881; “Vita di Ugo Foscolo. Note al Carme dei Sepolcri.”, 1878, presso la Tipografia di G. Barbera, Firenze.
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tecnica di marketing assai sofisticata (la vendita per corrispondenza) e
innovativa per la fine dell’Ottocento, ma addirittura acquistò degli spazi
pubblicitari in alcuni giornali per far conoscere il suo testo. Ma procediamo
con ordine.
Il dibattito sulla sua reale o presunta “attualità gastronomica” trascura il
fatto che l’autore, era a sua volta, più un “adattatore” che un “creatore” di
ricette. Viene quindi messo in secondo piano il suo talento di “divulgatore
di grandissima classe e genio assoluto del marketing gastronomico38”.
Innanzi tutto la sua straordinaria modernità produttiva. Artusi, che è
senz’altro un bon vivant a cui piace il “bello e il buono ovunque si
trovino39” ma che, altrettanto certamente, non è un professionista della
ristorazione è nemmeno un autentico gourmet, un “professionista della
degustazione” come Brillat-Savarin, mette in piedi una “macchina”
organizzativa degna del miglior Escoffier.
In virtù di questa struttura collauda e mette a punto le numerose ricette
che dal 1981 gli pervengono in abbondanza e con regolarità da lettori e
corrispondenti sparsi per tutt’Italia, e che verranno utilizzate per i
progressivi ampliamenti delle edizioni seguenti. Il risultato è un ricettario
che – almeno fino a quando ingredienti e tecnologie sono rimaste in qualche
modo equiparabili a quelle dall’Artusi – qualunque massaia ha potuto
utilizzare a “colpo sicuro”, senza problemi di adattamenti o di
interpretazioni40.
Altro elemento concerne la scoperta dello stile e quindi del target, del
pubblico di riferimento. Artusi intuisce che se vuol vendere un libro di
cucina (che, non va dimenticato, a quel tempo era considerato una sorta di
sottoprodotto culturale) alla nuova classe borghese e alla piccola borghesia
38 La cucina bricconcella, 1897/1991, Pellegrino Artusi e l’arte di mangiar bene cent’anni dopo, a cura di Andrea Pollarini, Grafis Edizioni, 1991 39 Cit. da La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Pellegrino Artusi, 1891 40 La cucina bricconcella, 1897/1991, Pellegrino Artusi e l’arte di mangiar bene cent’anni dopo, a cura di Andrea Pollarini, Grafis Edizioni, 1991
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emergente non può limitarsi ad inserirvi “ricette borghesi41” ma deve
utilizzare una forma espositiva che consenta a questo tipo di pubblico di
“esibire” il manuale senza remore né vergogne.
Artusi non è certo il primo ad applicare “lo stile” come metodo
nell’affermazione di un oggetto estetico, come sistema di rapporti tra un
autore ed il “suo pubblico”, ma è senz’altro il primo – e probabilmente, a
tutt’oggi, anche l’unico – ad applicare coerentemente questo “programma”
ad un manuale di gastronomia42.
La scienza in cucina è un libro che oggi definiremmo market oriented e
“lo stile” è lo strumento di cui Artusi si serve per differenziarsi da altri
ricettari (costruiti, come nota Piero Camporesi, su méditations de
gastronomie trascendante43 e quindi inevitabilmente product oriented), per
penetrare il proprio mercato di riferimento. Lo stile è un’ossessione
sapientemente coltivata e i numerosi quaderni di appunti (in cui sono
diligentemente riportate belle frasi, modi di dire, sentenze ed altro ancora
riprese da testi letterari, commedie, dizionari) rinvenute nell’archivio
artusiano di Forlimpopoli, ne sono la più evidente testimonianza.
In un epoca – come l’Ottocento – popolata di ricettari anonimi o
pseudonimi, di “cuoche risparmiatrici” e di “cuochi di buon gusto”, di
“cuciniere genovesi” e di “cuochi piemontesi perfezionati a Parigi”
(tradizione che permarrà per tutta la prima parte del XX secolo con le varie
Petronille e Zie Caroline), Artusi si afferma non solo come “autore” ma
41 Piero Camporesi, a questo proposito, nota: “… il fascino di un ‘manuale’ appetitoso e stimolante alla portata di tutti, il piacere della tavola reso concreto, coerente, accessibile: la cucina dei ‘signori’ sdivulgata e democratizzata. Perché cibarsi di quei piatti, valeva appropriarsene, possedere, attraverso la fruizione e la digestione di quei cibi, l’illusione di appartenere a un mondo privilegiato: è lo spirito borghese della belle époque che tenta l’arrampicata verso le classi superiori dalla porta della cucina”. Da “Introduzione” a P. Artusi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Einaudi, 1991. 42 La cucina bricconcella, 1897/1991, Pellegrino Artusi e l’arte di mangiar bene cent’anni dopo, a cura di Andrea Pollarini, Grafis Edizioni, 1991 43 Piero Camporesi, “Introduzione”, cit.
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addirittura come griffe, come marchio di qualità di se stesso44. Questa
prerogativa di autore da un lato serve a facilitare quel dialogo con i lettori e
dall’altro diviene il principale claim promozionale del prodotto-libro.
Fa si, inoltre, che ancora oggi, in quella sorta di “mitologia senza eroi”
che è la gastronomia italiana, l’Artusi sia in qualche modo l’unico “eroe”
riconosciuto, l’unico personaggio la cui nomea ha attraversato più di una
generazione, l’unico “marchio di qualità” spendibile45.
Per quanto riguarda il sistema di diffusione del libro, l’autore diviene
egli stesso industria culturale costituendo un meccanismo di “direct
marketing46”: affermatosi rapidamente come “marchio di qualità di se
stesso”, Pellegrino Artusi, piazza d’Azeglio 25, Firenze, è un’indicazione
univoca, un marchio di fabbrica. Forte del successo del volume, avvia un
dialogo coi lettori che non solo gli chiedono copie del libro (che lui stampa
e distribuisce in esclusiva) ma gli chiedono, o gli offrono, indicazioni e
suggerimenti. Artusi mantiene fino all’ultimo il controllo dell’intero
processo di produzione-vendita del libro: negozia con il tipografo Salvatore
Landi ogni più piccolo dettaglio relativo all’edizione del volume;
distribuisce con oculatezza e senza concedere sconti o dilazioni il volume
alle principali librerie; cura personalmente la distribuzione delle singole
copie del manuale ai lettori che ne fanno richiesta; rifiuta fino all’ultimo
qualsiasi ipotesi di cessione dei diritti o di condizione.
Sostiene l’affermazione del libro con piccole ma costanti azioni
promozionali: inserzioni, richieste di recensioni, omaggi a circoli femminili
ed enogastronomici. Sottopone il libro ad una costante azione di restyling.
Quattordici nuove, ed ampliate, edizioni in meno di vent’anni si giustificano
certo col desiderio di ospitare le scoperte ed i suggerimenti che continuano a
pervenirgli, ma sono anche un modo di rendere obsoleto il manuale – e 44 La cucina bricconcella, 1897/1991, Pellegrino Artusi e l’arte di mangiar bene cent’anni dopo, a cura di Andrea Pollarini, Grafis Edizioni, 1991 45 Ibidem 46 Ibidem
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quindi imporre il riacquisto agli affezionati lettori – in pratica ogni anno e
mezzo47.
2.4 Le ragioni del successo.
Quali sono, quindi, le ragioni del successo così travolgente nel tempo di
questo libro di cucina? Forse una prima motivazione venne individuata
dall’Artusi stesso, che scrisse nella prefazione alla quattordicesima edizione
al suo editore poco fiducioso sul futuro del libro:
Sappia però, e lo dico a malincuore, che con le tendenze del
secolo al materialismo e ai godimenti della vita, verrà giorno, e non
lontano, che saranno maggiormente ricercati e letti gli scritti di
questa specie: cioè quelli che recano diletto alla mente e danno
pascolo al corpo, a preferenza delle opere, molto più utili all’umanità,
dei grandi scienziati. Cieco chi non vede! Stanno per finire i tempi
delle seducenti e lusinghiere ideali illusioni.
L’altra ragione è che La scienza non è un semplice ricettario scritto in
maniera asettica con puro linguaggio tecnico-professionale, ma il tentativo
di mostrare l’unità d’Italia del gusto.
In quei tempi in cui i mass media erano ancora ben lontani dal far sentire
la loro irresistibile azione, l’Artusi ebbe il civilissimo compito di unire e
amalgamare, in cucina prima e poi, a livello d’inconscio collettivo, nelle
pieghe insondate della coscienza popolare, l’eterogenea accozzaglia delle
genti, che solo formalmente si dichiaravano italiane48. Le cucine regionali,
avendo in esso un accorto dosaggio, godettero di un rilancio su scala
47 Ibidem 48 Cit. da “Introduzione” di Piero Camporesi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Einaudi, 1991.
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nazionale: non fu estratto da esse il meglio, ma quanto poteva essere
confezionato per il gusto comune senza eccessive ripugnanze
campanilistiche; quanto poteva arrivare alla tavola dell’italiano medio. La
diffusione fu soprattutto fra la borghesia, anzi il manuale fu soprattutto
borghese e il successo, si potrebbe dire classista.
I contadini e le classi meno agiate continuarono a sfamarsi con i cibi di
sempre, senza accorgersi che sulle altre tavole italiane le cose stavano
cambiando. In seguito, a mano a mano che il potere d’acquisto della società
nazionale aumentava, la fetta della torta venne spartita fra un numero
sempre crescente di italiani. Piero Camporesi, nella sua “Introduzione” alla
Scienza in cucina, fa notare che sarebbe inutile, se non futile e antistorico,
accusare Pellegrino Artusi di riformismo borghese: non avrebbe potuto
dare a tutti un piatto di minestra; la sua non era una cucina per mandarini,
ma per la classe media: perciò, considerati i tempi, fu sufficientemente
innovatore e rivoluzionario.
Diede all’Italia un codice alimentare borghese, divenendo pioniere,
senza saperlo, del livellamento borghese della tavola. Ma Artusi non poteva
prevedere che l’industrializzazione del paese, le emigrazioni interne,
l’invasione turistica, i mutati rapporti fra le classi avrebbero portato alla
pianificazione delle abitudini alimentari e di gusto degli italiani.
Probabilmente il primo a non accettare la pianificazione sarebbe stato con
ogni probabilità lui stesso. Soprattutto oggi, nell’epoca in cui
l’alimentazione da arte sta scadendo ad ancella della tecnica, e la chimica
sta soppiantando la semplice igiene49, nell’epoca in cui il progresso
tecnologico avanza, non curante delle conseguenze, il consumatore ha perso
il senso delle “quattro stagioni”, delle millenarie leggi del sole e dei cicli
stagionali. Il “surgelato” offre in qualsiasi momento, qualsivoglia prodotto,
49 Cit. da “Introduzione” di Piero Camporesi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Einaudi, 1991.
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da qualsiasi parte del globo; oggi, il precetto che più caratterizza l’opera,
l’elemento che più si scontra con le moderne leggi di mercato, è proprio il
rispetto della stagionalità. Artusi, filosofo della tavola, credeva fermamente
nel rapporto inscindibile uomo-natura, uomo-stagioni; rinverdisce questa
tradizione, ormai spenta, in un ultimo, estremo tentativo di ancorare la
cucina dell’uomo al ciclo dei giorni e dei mesi. Ma probabilmente egli
resterà l’ultimo philosophe de table a credere ancora nella natura: dopo di
lui la cucina non conosce più il tempo e le sue scansioni.
Citando Camporesi diciamo che l’importanza di Artusi è notevolissima
perché i gustemi artusiani sono riusciti a creare un codice di identificazione
nazionale là dove fallirono gli stilemi e i fonemi manzoniani.
Ricco di consigli di economia, di igiene, di temperanza, nel manuale
emerge frequentemente il sottofondo educativo, tanto da farne un classico
del ménage familiare in tempi in cui l’economia e il risparmio erano miti
necessariamente validi e attivi. Si tenga presente che Artusi, di estrazione
borghese-mercantile, travasava nella Scienza in cucina tutta la sua morale di
classe, riuscendo a costruire - ed allo stesso tempo esprimendo – un rituale
gastronomico in cui la classe media del tempo riconosceva e identificava la
propria coscienza collettiva; è da questa identificazione che nasce il valore
socio-educativo del libro.
Il conservatorismo cucinario di Artusi è perfettamente coerente con una
tradizione vecchia di secoli che riserva fagiani e beccafichi ai ricchi e rape
e fagioli ai poveri50; accetta e conosce le disuguaglianze ma lui, comunque,
scrive per i benestanti e non lo preoccupa il problema dell’alimentazione
delle classi popolari: “S’intende bene che io in questo scritto – egli confessa
– parlo alle classi agiate, che i diseredati dalla fortuna sono costretti, loro
malgrado, fare di necessità virtù e consolarsi riflettendo che la vita attiva e
frugale contribuisce alla robustezza del corpo e alla conservazione della 50 Cit. da “Introduzione” di Piero Camporesi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Einaudi, 1991.
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salute”. In nessuna delle successive edizioni, cambierà il suo punto di vista,
restando coerente, sempre, con quella sua morale borghese, nutrita di buon
gusto e parsimonia, ma chiusa in se stessa, sorda e un poco gretta51. Ma
anche questo aspetto ha contribuito al successo del manuale che,
espressione della borghesia della belle époque, è incredibilmente diventato
un libro popolare in seguito alle trasformazioni sociali ed economiche
avvenute nel corso degli anni. Scritto, appunto, per borghesi, nel tempo
viene utilizzato anche dalle classi popolari: contadine e operaie. È diventato
negli anni un libro interclassista a differenza degli altri ricettari o manuali
che erano rivolti esclusivamente – o quasi - alle corporazioni professionali.
Artusi si fa promotore di un sistema cucinario che si raccomanda per il
temperato buon gusto, il fondamentale principio di non mangiare oltre il
bisogno e che non conosce sprechi, splendori insoliti e stravaganze. Una
filosofia gastronomica che in nome dell’igiene, della fisiologia e della
buona salute combatte gli eccessi e il principio del piacere su cui si fondava
la cucina dei secoli precedenti. Una professione di fede cucinaria piuttosto
dimessa e pedestre, se non fosse per l’arguto dettato e il tono scanzonato e
ambiguamente parodistico a darle un piacevole sapore. L’unica vibrazione
si avverte nella difesa moralistica della propria sobrietà, nella
preoccupazione che la sua impeccabile immagine borghese possa essere
fraintesa52.
La scienza in cucina, infatti, contiene un tentativo di saldatura tra la
cucina dei signori, eredi della tradizione gastronomica rinascimentale,
cortigiana e curiale, realizzata con opulenza, scenografia, ottenuta con un
utilizzo smodato di carni, selvaggina, salse, spezie rare, e la cucina dei
poveri fondata su un’alimentazione di pura sopravvivenza fatta di pane e
51 Ibidem 52 “Non vorrei però che per essermi occupato di culinaria mi gabellaste per un ghiottone o per un gran pappatore: protesto, se mai, contro questa taccia poco onorevole, perché non sono né l’una né l’altra cosa” . P. Artusi, La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Einaudi.
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polenta. Una filosofia della cucina, dunque, ridotta all’ordine fisiologico da
una parte, e all’ordine economico dall’altra, secondo un ideale che Artusi
traduce in un sistema di ricette rispecchiante un sistema politico-economico,
la struttura della società del suo tempo e il mito dell’ordine borghese.
Come già accennato in precedenza, nella cucina borghese italiana si
profila evidente la differenza tra la cucina del nord, ricca di burro, grasso e
strutto, e quella del sud nella quale primeggiano l’olio e l’aceto. Due mondi
gastronomici, toscano e padano, che trovano nel manuale l’arte di fondersi.
Pellegrino Artusi, romagnolo e quindi parzialmente padano (il “ruvido
estremo sud-est non più padano, dell’Italia settentrionale” di cui scrive
Gianfranco Contini53), da lungo tempo integrato nel mondo fiorentino,
opera una felice mediazione-contaminazione fra due stili cucinari diversi:
quello romagnolo-bolognese e quello toscano-fiorentino. Ecco quali sono i
due assi sui quali s’inseriscono le altre derivate regionali, le componenti
minori ma necessarie per portare La Scienza a livello nazionale.
Questa dualità del “grave” (padano) e del “leggero” (toscano) – dualità e
non dualismo perché le due categorie s’integrano e si miscelano nel
panorama omogeneo del codice artusiano – presuppone una tradizione
culinaria diversa, non parallela, su cui il fattore climatico gioca un ruolo non
secondario: “per digerirla – la minestra di tagliatelle – ci vuole un’aria
come quella di Romagna54”. La diversità è particolarmente percepibile nel
settore delle minestre (e anche qui si ripropone una dicotomia fra la “zuppa”
toscana e la “minestra” romagnolo-padana), dove le minestre padane
costituiscono la piattaforma del sistema-minestra: Bologna coi tortellini, gli
stracchetti, Parma con gli anolini, l’area lombardo-milanese con gli
agnellotti ecc. Certamente non mancano apporti da altre cucine regionali: il
Veneto con i suoi risi, la Sicilia (e Napoli) con i maccheroni con le sarde,
53 Cit, da “Introduzione” di Piero Camporesi a La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene di P. Artusi. 54 Cit. ricetta n. 71 Tagliatelle all’uso di Romagna.
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Roma con gli gnocchi alla romana, Genova con i ravioli alla genovese e poi
ancora Milano col risotto, Arezzo con le pappardelle all’aretina ecc. Ma è
indubbiamente la Romagna a fornire il più cospicuo contributo; non per
niente Artusi era nato in una terra in cui aveva valore rituale e quasi
religioso la credenza popolare che “la mnestra l’è la bieva dl’òman55”.
Prendendo spunto da quest’ultimo detto, non possiamo far meno di
notare che, altra chiave del successo de La Scienza, è sicuramente il modo
di esprimersi: lo stile. Il manuale artusiano, gremito di aneddoti, bozzetti,
considerazioni stravaganti, ritratti di persone, storielle, avvenimenti è,
citando Camporesi, un romanzo della cucina, un serbatoio di notizie e
osservazioni naturalistiche, scientifiche, dietetiche, igieniche, per cui
quando la massaia o il cuoco lo aprono, si trasformano in curiosi lettori. La
maniera vivace, divertente e gioiosa con cui parla di gastronomia conquista
facilmente il lettore anche perché, a differenza degli altri autori
(contemporanei e non), non usa un gergo pedante, noioso, imperativo e
didattico. A questo irto e ibrido frasario degli altri manuali, Artusi
sostituisce una terminologia rigidamente italiana attingendo al toscano:
terminologia forse troppo fiorentineggiante, ma che ebbe il grande merito di
uniformare il lessico cucinario, rendendolo ben chiaro, univoco e generale.
Nell’Artusi c’è un anima, quella del gastronomo, che cerca di trovare
un punto di equilibrio tra il piacere e la salute: non possiede la disinvolta
superiorità del gentiluomo francese ma la cordiale bonomia del borghese
italiano e l’incorreggibile vizio (o virtù) della didattica spicciola,
dell’insegnamento a tutti i livelli e in tutte le occasioni. È un manuale in un
tosco-fiorentino già ai suoi tempi passato di moda e perciò leggermente
55 Cit, da “Introduzione” di Piero Camporesi; “La minestra è la biada dell’uomo”, detto romagnolo.
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irreale, e, talvolta preso dalla verve didascalica, dimentica persino le ricette,
come nel caso del “Pavone56”.
Oppure, nel momento di dare la ricetta della “Lingua alla scarlatta”,
“dovendovi parlar di lingua – dice Artusi – mi son venuti alla memoria certi
versi del Leopardi57”; fra gli italiani è l’unico classico moderno della tavola
capace di citare Confucio e Beniamino Franklin, Macchiavelli e
Matusalemme, Linneo e Caterina de’ Medici58. Tutto ciò spiega la capacità
di unificare i pubblici più eterogenei.
La cucina per l’autore romagnolo è una passione poetica. I piatti, di
volta in volta, acquistano una personalità, hanno una storia, non sono
semplici combinazioni di materie prime. Per queste motivazioni l’Artusi è
ancora attuale a dispetto di tanto ostracismo e indifferenza da parte degli
chef e dei critici gastrofori che si limitano a giudicare la tecnica di un piatto.
La Scienza in cucina parla direttamente alle famiglie, alle casalinghe (le
uniche incontrastate regine della casa e della cucina), a coloro che non
hanno istruzione elevata sorvolando la mediazione o l’interpretazione di
chef ed esperti.
56 Ricetta n. 550: “Ora che nella serie degli arrosti vi ho nominati alcuni volatili di origine esotica, mi accorgo di non avervi parlato del pavone, Pavo cristatus, che mi lasciò ricordo di carne eccellente per individui di giovane età. Il più splendido, per lo sfarzo dei colori, fra gli uccelli dell'ordine dei gallinacei, il pavone abita le foreste delle Indie orientali e trovasi in stato selvatico a Guzerate nell'Indostan, a Cambogia sulle coste del Malabar, nel regno di Siam e nell'isola di Giava. Quando Alessandro il Macedone, invasa l'Asia minore, vide questi uccelli la prima volta dicesi rimanesse così colpito dalla loro bellezza da interdire con severe pene di ucciderli. Fu quel monarca che li introdusse in Grecia ove furono oggetto di tale curiosità che tutti correvano a vederli; ma poscia, trasportati a Roma sulla decadenza della repubblica, il primo a cibarsene fu Quinto Ortensio l'oratore, emulo di Cicerone e, piaciuti assai, montarono in grande stima dopo che Aufidio Lurcone insegnò la maniera d'ingrassarli, tenendone un pollaio dal quale traeva una rendita di millecinquecento scudi la qual cosa non è lontana dal vero se si vendevano a ragguaglio di cinque scudi l'uno”. 57 “Il cor di tutte cose alfin sente sazietà, del sonno, della danza, del canto e dell’amore, piacer più cari che il parlar di lingua, ma sazietà di lingua il core non sente”, Giacomo Leopardi. 58 Da “Introduzione” di Piero Camporesi.
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3. L’età contemporanea. Parte seconda.
“Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”. “L’uomo è ciò che mangia”.
Dietro l’apparente ovvietà di queste due celeberrime frasi di Brillat-Savarin
e di Ludwig Feuerbach59 da un lato si nasconde l’infinita complessità che si
deve prendere in considerazione per dimostrarne le ragioni, dall’altro
rivendica un ruolo (oggi perduto?) di assoluta centralità del cibo se si
vogliono leggere e influenzare le dinamiche sottese alla nostra società-
mondo.
3.1 Perdita e recupero del senso della tradizione.
All’inizio del XX secolo, la prospettiva di un’alimentazione in pillole60,
totalmente ed esclusivamente funzionale, non sembrava allora suscitare
alcun timore, bensì al contrario, si manifestava una fiducia profonda nelle
promesse della tecnologia, garante del progresso. Cinquant’anni dopo,
dall’altra parte dell’Atlantico, questa prospettiva era avvertita come
un’eventualità angosciosa61.
Nel corso del secolo due preoccupazioni sono succedute a quelle della
pillola, con più o meno forza a seconda del paese interessato: la salute e
l’identità.
59 Da www.wikpedia.org; Ludwig Andreas Feuerbach (1804 - 1872), filosofo tedesco tra i più influenti critici della religione ed esponente della sinistra hegeliana. 60 W. Parker Chase, The wonder city (1932), New York, cit. in Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari: “Nel 1932, un autore newyorkese immaginava come sarebbe stata la sua città cinquant’anni dopo, nel 1982: New York avrebbe avuto 50 milioni di abitanti, l’Hudson e l’East River sarebbero stati riempiti, la circolazione si sarebbe svolta silenziosamente su strade sospese ai fianchi di immensi grattacieli e ‘gli abitanti si sarebbero nutriti di pillole concentrate’.”. 61 cit. in Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari
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Una prima preoccupazione, la salute, riguarda soprattutto paesi quali
Gran Bretagna, i paesi scandinavi e del Nord Europa e gli Stati Uniti. Le
condizioni di vita in Occidente sono migliorate a vista d’occhio, a partire
dall’allungamento della vita media per arrivare alle condizioni igieniche che
tanto condizionavano la vita dei popoli. Malgrado questi segnali di
miglioramento della salute pubblica, una generale inquietudine, sia da parte
dei medici che dei profani, ha contagiato gran parte della popolazione, ed è
prima di tutto l’alimentazione ad essere sotto accusa. Varie malattie, dai
numerosi tipi di cancro alle patologie cardiovascolari, sono state etichettate
come “malattie da progresso”.
In Francia, in Italia, in Spagna, come pure in altre regioni di tradizione
cattoliche, si nutrono timori anche per l’identità culturale. Si teme che il
rapporto privilegiato intrattenuto col cibo quotidiano, come piacere, atto di
sciabilità e di comunicazione, venga lentamente eroso, penetrato e
disgregato da un inesorabile processo che viene chiamato
“americanizzazione” e il cui vettore non è più la fantomatica pillola, ma
l’onnipresente hamburger62.
Industrializzazione, razionalizzazione e funzionalizzazione: dalla fine
del XIX secolo, questa triplice dimensione appare in maniera lampante nelle
modificazioni che hanno sconvolto la nostra alimentazione.
Ad avere un ruolo fondamentale in questo contesto di sviluppo, oltre alle
varie scoperte tecnologiche già citate precedentemente, è soprattutto la
grande distribuzione moderna di massa, sviluppatasi attorno al 1930 negli
Stati Uniti.
Dopo la guerra la cucina europea era praticamente distrutta: poco cibo
disponibile, per di più razionato, non consentiva di fare grandi cose tra i
fornelli e la ripresa gastronomica dovette aspettare la metà degli anni
Cinquanta per riscoprire un forte dinamismo. 62 cfr. in Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari.
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Nell’Europa occidentale, è soprattutto a partire dagli anni Sessanta che
si diffondono i supermercati, contemporaneamente, in particolare,
all’automobile, alla televisione, agli svaghi e al miglioramento del livello di
vita e d’istruzione. Questa rivoluzione della distribuzione di massa ha
conseguenze almeno altrettanto importanti dell’industrializzazione della
produzione agroalimentare (la quale a partire dalla seconda metà del XX
secolo continua a concentrarsi ed a intensificarsi, passando dalla policoltura
alla monocoltura su vaste superfici) che del resto ne è fortemente
influenzata. L’alimentazione diventa un mercato di consumo di massa: si
tratta ormai di prodotti altamente trasformati, con procedimenti industriali
avanzati, concepiti e commercializzati con l’aiuto delle più recenti tecniche
del marketing, del pakaging e della pubblicità63.
In due o tre decenni, una crescente parte del lavoro culinario, in casa
come al ristorante, si è spostata dalla cucina alla fabbrica: gli alimenti
diventano, una volta trasformati dall’industria, “alimenti-servizio64”.
Mentre l’alimentazione diventa un mercato di consumo di massa, la
ristorazione subisce un’evoluzione in parte simile. Storicamente la casa è
sempre stata assimilata al focolare, cioè alla cucina, ma con l’avvicinarsi del
terzo millennio, l’alimentazione si identifica sempre meno necessariamente
con l’universo domestico. Gli stili di vita sono stati profondamente
modificati dall’urbanizzazione, dall’industrializzazione degli anni
Cinquanta e Sessanta, dalla professionalizzazione delle donne,
dall’innalzamento del livello di vita e d’istruzione, dal generalizzarsi
dell’automobile, dal più ampio accesso della popolazione agli svaghi, alle
vacanze e ai viaggi.
La ristorazione si sviluppa nell’impresa, a scuola, nella collettività: a
partire dagli anni Cinquanta in Europa (negli Stati Uniti il primo fast-food è
del 1937) appaiono diverse formule di self-service e, successivamente solo 63 Ibidem. 64 B. Sylvander, l’Alimentation-service. Resultats d’enquetes, Toulouse 1988.
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verso la fine degli anni Settanta, appare il fast-food d’ispirazione americana:
la perfetta applicazione alla ristorazione del taylorismo, della divisione e
della razionalizzazione del lavoro65. Negli anni a seguire, dopo essersi
affermato già solidamente negli Stati-Uniti, il fast-food, di cui McDonald’s
ne è solo il più lampante e celebre degli esempi, cominciò ad espandersi nel
mondo, inizialmente con alterne fortune, incontrando ostacoli ideologici in
quasi tutti i paesi del vecchio continente. Ciò perché McDonald’s incarna
più di ogni altro “l’imperialismo americano” che, agli occhi di molti
europei, in particolare del Sud (Spagna, Italia, Francia), minaccia le
tradizioni culinarie, a cui si è tanto più attaccati in quanto il cambiamento di
civiltà le fa evolvere a gran velocità66.
Nonostante l’estrema diffidenza delle loro culture, tutti i paesi del
mondo hanno adottato la Coca Cola ormai da lungo tempo e i fast-food
americani, con in testa l’onnipotente McDonald’s, ormai da trent’anni
stanno raggiungendo la stessa espansione.
La planetarizzazione del settore agroalimentare e la grande distribuzione
introducono una sorta di sincretismo culinario generalizzato. L’agro-
business non distrugge puramente e semplicemente le particolarità culinarie
locali: esso disintegra e integra insieme, produce una sorta di mosaico
sincretico universale o opera, per usare l’espressione che il sociologo Edgar
Morin applica alla cultura di massa, “un vero e proprio cracking analitico
che trasforma i prodotti naturali in prodotti culturali omogeneizzati per il
consumo di massa67”. Il mercato agroalimentare planetario attinge alle
65 … Come osserva Harvey Levenstein nelle sue due opere sulla storia dell’alimentazione nell’America del Nord (Paradox of Plenty), in quale altro paese qualcuno avrebbe potuto tentare, come fa Burger King, di servire “un pasto completo in quindici secondi”?; cit da Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari. 66 Ibidem. 67 Edgar Morin, L’Espirit du temps, Paris 1975.
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tradizioni culinarie locali che ha contribuito a disintegrare, per meglio
diffonderne in tutto il mondo delle versioni omogeneizzate o edulcorate68.
Ma sarebbe sbagliato credere che l’industrializzazione
dell’alimentazione, il progresso dei trasporti e l’avvento della distribuzione
di massa non possano far altro che disgregare e livellare le particolarità
locali e regionali.
Proprio in contrapposizione al diffondersi del fast food e dei cibi
confezionati, molto sentita in ampi strati della popolazione (italiana ma non
solo) è l'esigenza di ricercare sapori antichi, prodotti genuini, cibi semplici
che si rifanno - magari arricchiti - alla cucina povera e alla cucina contadina
d'altri tempi. Una cucina spesso di "recupero" che viene impreziosita da
nuovi apporti e dalla maggiore possibilità di consumi.
Tutto ciò mostra che la “normalizzazione” dei comportamenti alimentari
non ha ancora superato il punto di non ritorno: se i modelli di consumo
tendono a rassomigliarsi sempre di più, la loro omogeneità rimane assai
relativa e più apparente che reale, poiché gli elementi che hanno in comune
sono in effetti interpretati secondo la cultura propria a ciascun popolo e a
ciascun paese: la tendenza ad una maggiore omogeneità dei comportamenti
provoca, per reazione, un forte attaccamento alla propria identità69.
Sul piano dell’alimentazione e della gastronomia, la “riscoperta” della
cucina del territorio e delle tradizioni gastronomiche locali è andata di pari
passo con la negazione dei loro diritti da parte dell’industria alimentare.
L’industria alimentare d’oggi ha permesso di realizzare antichi desideri70
dal momento che ha offerto a tutti, in maniera democratica anche se non
68 cit da Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari. 69 Ibidem. 70 “Solo l’uomo comune si accontenta dei cibi che può offrire il paese” scriveva Cassiodoro per conto del suo sovrano Teodorico, nell’Italia gota del VI secolo; un millennio più tardi il cuoco di casa Gonzaga, Bartolomeo Stefani, nel suo trattato di cucina spiega che il signore non si deve preoccupare del carattere stagionale dei cibi né dei limiti imposti dal territorio, perché con “buona borsa” e “buon destriero” si può avere di tutto
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disinteressata, la possibilità di consumare ogni cosa e di annullare le
differenze regionali. Ma ciò ha scatenato per reazione una ricerca affannosa
e spesso disordinata delle tradizioni locali. La stessa industria alimentare
non ha tardato a impossessarsi di questa nuova esigenza recuperando sul
piano dell’immaginario i valori “poveri” del passato.
Oggi la cucina del territorio e il carattere stagionale degli alimenti sono
diventati valori alti, obiettivi prestigiosi e di primaria importanza: risultato
solo, in apparenza paradossale, di una trasformazione dei processi produttivi
che sembravano dover condurre a un esito esattamente opposto.
3.2 Il paradosso della globalizzazione.
Affrontando il rapporto fra cucina del territorio (tradizioni locali) e
cucina globale (modelli proposti dalle multinazionali del cibo e della
ristorazione), che è uno dei temi scottanti della cultura alimentare
contemporanea, non possiamo prescindere dal fatto che questi due modi di
intendere la gastronomia sono il frutto di una serie di modificazioni che
sono avvenute in Italia e nel mondo, in questi ultimi decenni; sono
modificazioni che investono la struttura produttiva, le abitudini, il costume.
La società italiana è stata per moltissimi secoli profondamente radicata
nei ritmi agricoli. Lo stesso Artusi, seppur vivendo in un secolo in cui il
progresso – allora – raccoglieva fiducia profonda nelle promesse della
tecnologia71, era cresciuto in una terra (quella di Romagna) in cui la vita dei
più, era legata inscindibilmente alle stagioni ed ai suoi ritmi. Anche nel
periodo fiorentino, l’influsso di quella terra antica e dei suoi insegnamenti
in ogni momento dell’anno; Cit. da Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari. 71 cit. in Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari
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non venne a mancare, anzi, si ripercuoterà poi anni dopo nel manuale,
tramandando a nuove generazioni quelle briciole di sapere d’una volta.
Oggi invece abbiamo una situazione mutata. Questo è dovuto
fondamentalmente alle modificazioni della struttura produttiva italiana,
all’ampliamento notevole del terziario e anche a una dominazione delle
grandi concentrazioni produttive. A questo si somma una modificazione
delle abitudini, basti pensare (per esempio) all’introduzione del tempo pieno
nelle scuole, all’utilizzo di ticket per i buoni pasto: questi cambiamenti
hanno portato ad un aumento della ristorazione veloce, ad un utilizzo del
piatto unico durante le pause per il pranzo e, più in generale, hanno
contribuito alla diffusione del cosiddetto cibo globale.
Indubbiamente questa globalizzazione è anche dovuta al fatto che c’è
una tendenza a voler consumare i cibi lontano dal luogo di produzione e
lontano dalla stagione in cui sono prodotti. È stato calcolato attraverso
alcuni studi e alcune ricerche, che la stragrande maggioranza dei cibi che
noi consumiamo sono stati trasformati, anche in minima parte,
dall’industria72.
Nella storia della cucina si parla molto e giustamente di tradizione, ma
non bisogna dimenticare il fortissimo elemento di innovazione che
continuamente lavora all’interno della tradizione stessa, perché ogni cucina,
come ogni lingua, si arricchisce di continuo di apporti esterni. I sistemi
alimentari si rimodellano, cambiano nel tempo, accolgono le novità sempre
con cautela ma con curiosità e capacità di rigenerazione, magari riadattando
le novità alla propria storia, al proprio passato.
La cucina del territorio oggi ha raggiunto uno statuto culturale forte,
passando attraverso una vicenda come quella della globalizzazione
alimentare, che sembrava condurre a esiti opposti. È questo il paradosso: in
un mondo effettivamente frazionato come quello antico e medioevale, 72 Franco Mambelli, Festa Artusiana 28 giugno 1998, Atti del convegno studi “cucina globale e cucina del territorio”.
- 49 -
l’aspirazione era quella di costruire un modello di consumo universale in cui
tutti (quelli che potevano permetterselo) si potessero riconoscere. Nel
villaggio globale della nostra epoca, al contrario, si affermano i valori dello
specifico locale.
L’elogio della diversità, che normalmente si accompagna alla
promozione della cultura gastronomica, non è nostalgia del passato, ma
guarda soprattutto al presente e al futuro.
Se la cucina di territorio è essenzialmente un’invenzione moderna, la
cucina internazionale ha invece (contrariamente a quanto si potrebbe
pensare) radici antiche. Quella romana “mediterranea”, quella medievale
“europea” erano cucine universali, aperte all’intero mondo conosciuto e
frequentato. La loro differenza rispetto ai modelli attuali stava non tanto nel
tasso di “internazionalità” (che, allora come oggi tendeva ad essere globale)
quanto all’ampiezza del corpo sociale coinvolto: un tempo esso era
limitatissimo, circoscritto a una quota minima della popolazione; oggi, pur
non coinvolgendo affatto l’intera società, interessa una percentuale assai più
alta di consumatori. Come dire: le cucine “internazionali” del passato
conoscevano infinite differenze locali73.
Nell’ultimo secolo la tendenza all’uniformità dei consumi – che però
non è una novità – si fa via via più forte, più visibile, sia per il moltiplicarsi
degli scambi interni, sia soprattutto – come già detto – per opera
dell’industria alimentare, cioè di quelle che poi diventano le multinazionali
che controllano i mercati mondiali. È come se l’industria alimentare avesse
creato un nuovo universalismo, questa volta non elitario come quello
medievale, ma di massa: un globalismo di massa74. La tendenza alla
globalizzazione dei consumi, che un tempo coinvolgeva uno strato
sottilissimo della popolazione (le aristocrazie delle corti, le borghesie
73 Cit. da “Il cibo come cultura”, di Massimo Montanari, Editori Laterza, 2004. 74 Cit da, Massimo Montanari, “La cucina del territorio è antica”, Forlimpopoli, Festa Artusiana 28 giugno 1998, Atti del convegno studi “cucina globale e cucina del territorio”.
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cittadine), a poco a poco si è allargata a fasce più ampie: la piccola
borghesia nel corso dell’Ottocento, l’intera popolazione nel corso del
Novecento. Questa espansione sociale della globalizzazione non deve farci
dimenticare la sua antichità come modello culturale.
Nonostante questa ondata di globalismo, le diversità regionali, locali
non sembrano destinate a scomparire, ma semmai ad essere accentuate dalla
tendenza al consumo universale che si è sviluppato; proprio la tendenza alla
maggiore omogeneità dei comportamenti provoca infatti, per reazione, un
forte attaccamento alla propria identità alimentare e un caso tipico è proprio
quello delle cucine regionali che sono il punto di forza della gastronomia
contemporanea.
Noi pensiamo spesso alla regionalità come ad un fatto antico, ma in
realtà, nella cultura alimentare veramente antica, cioè romana, greca,
medievale, rinascimentale, i valori forti, i valori apprezzati non sono quelli
della regionalità, non sono quelli del territorio, bensì quelli del superamento
della regionalità e del territorio, della costruzione di identità comuni legate
alla possibilità di avere dappertutto le stesse cose75.
Quello che accade oggi è il contrario, e cioè che un ristorante di
tendenza, un ristorante apprezzato e qualificato ripropone, magari in
maniera sua, in maniera creativa e innovata, quella che normalmente
chiamiamo la cucina del territorio, che solo oggi è diventata un valore forte,
invertendo il segno debole che la connotava un tempo. Le cucine regionali
oggi fanno parte di un patrimonio comune, del quale si ha molta più
conoscenza che in passato.
La cucina “globale” e quella “locale” possono coesistere, anzi l’una in
qualche modo ha prodotto l’altra, dando origine a un inedito modello di
consumo che alcuni sociologi (Roland Robertson in particolare) hanno
proposto di chiamare “glo-cale”; ovvero l’integrazione tra globale e locale.
75 Ibidem.
- 51 -
3.3 La cucina del territorio come identità culturale.
Nelle società tradizionali esisteva un forte legame tra territorio e cultura
alimentare, luoghi produttivi, spazi abitativi e cucina. Un prodotto o un
piatto presentato come tradizionale e antico spesso ha un'origine recente, è
un'invenzione dei giorni nostri. Locale talvolta indica dei prodotti arrivati o
che continuano ad arrivare da lontano. Tipico indica un prodotto presente in
diverse aree geografiche. E la freschezza, considerata una delle
caratteristiche delle cucine tradizionali, era impossibile in passato, ed è una
conquista delle moderne tecniche di conservazione. Le stesse combinazioni
di alimenti, sapori, odori e colori riportati a un'antica tradizione sono
possibili soltanto oggi grazie a una maggiore disponibilità. E non bisogna
mitizzare o enfatizzare la fantasia culinaria di un tempo, contrapponendola
all'omologazione odierna. In passato la fantasia nasceva dalla necessità di
rendere tutto “buono da mangiare”, di non sprecare nulla; soltanto oggi,
nonostante il rischio dell'omologazione, è possibile fare scelte culinarie.
La cucina del territorio e il rapporto che si stabilisce tra alimentazione e
cultura non si basano, allora, necessariamente sulla presenza di prodotti
autoctoni o antichi. Come non è la provenienza, ma la diffusione a rendere
popolare un testo di traduzione orale76 così per l’affermarsi della cucina del
territorio sono decisive l’accettazione e la lavorazione di nuovi prodotti, la
loro assimilazione alle precedenti tecniche di preparazione, consumo e
conservazione. Nell’affermarsi di una cucina del territorio entrano in gioco,
dunque, in tempi a volta lunghi a volte brevi, fattori geografici, climatici,
storici, culturali.
La cucina del territorio non si caratterizza soltanto per la presenza di
questo o quel prodotto: è frutto dell’incontro e della combinazione degli
alimenti; appare strettamente legata a credenze, rituali, cerimoniali; è legata 76 Cit da, Vito Teti, “Territorio e identità culturale”, Forlimpopoli, Festa Artusiana 28 giugno 1998, Atti del convegno studi “cucina globale e cucina del territorio”.
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a concezioni dietetiche e mediche; riflette e racconta un più generale stile di
vita delle popolazioni. Molti degli alimenti e piatti locali, noti anche fuori
dalle zone di produzione a partire dalla prima metà dell’Ottocento, sono il
risultato di una lunga, lenta, peculiare specializzazione, in cui entrano in
gioco fattori economici, alimentari, sociali e culturali.
Lo stesso Artusi nell’intento di creare un codice culinario italiano, non
poté inserire nel manuale qualsiasi ricetta a lui pervenuta, dovette prima
eseguire un’operazione di selezione, all’interno della quale, ovviamente,
ebbero un peso rilevante i fattori socio-culturali, economici, di gusto, che
influenzarono la lunga vita dell’autore.
I tratti che caratterizzano le cucine del territorio sono, infatti, la
socializzazione, l’unione, la comunione, la dimensione conviviale che si
stabilisce tra le persone. Il ritorno alla cucina locale non è soltanto un fatto
di piacere alimentare e di gusto, di conservatorismo culturale e culinario: è
una questione di riconoscimento e di appaesamento; ha a che fare con i
modi di percepirsi, di rappresentarsi, di sentirsi al mondo.
Oggi tutto è cambiato: disponibilità e consumi, spazi e tempi, ritualità e
sacralità nel mangiare. Sono cambiati i tradizionali equilibri fra il campo e
l’orto, il mercato e la cucina domestica. Sono profondamente mutati gli
equilibri, reali o comunque desiderati, tra terra, produzione, consumi e
culture alimentari. Il “modello equilibrato”, che in passato veniva eroso
quando i consumi scendevano al di sotto dei bisogni nutritivi, si è rotto nei
paesi industrializzati avanzati per una serie di ragioni economiche, sociali,
culturali. Si è sempre più affermato anche nel mondo mediterraneo il mito
di una dietetica generalizzata, del fast-food, della solitudine alimentare ed
esistenziale, della fretta, dell’esorcismo della morte che sottrae senso alla
vita. Tale mutazione, la scomparsa del tradizionale equilibrio, l’abbandono
di un antico stile di vita hanno contribuito a creare situazioni di difficoltà
metaboliche dell’organismo dell’uomo mediterraneo. I consumi disponibili
- 53 -
e reali dell’uomo tecnologico modificano non solo la cultura e lo stile di
vita, ma anche la biologia delle popolazioni77.
È fondamentale affermare pertanto la necessità di un “villaggio
alimentare” per non perdersi nel villaggio globale e per non smarrirsi in una
cultura omologante e massificata. Il “villaggio globale” - scrive Vito Teti -
la modernizzazione con cui dobbiamo fare i conti non può passare attraverso
il tentativo di eliminare e cancellare le “patrie”, i luoghi, le appartenenze. La
consapevolezza di una “patria alimentare” da cui partire consente sia di
riconoscere il valore delle bio-diversità, sia di scongiurare il rischio di
cadere in un modello unico ed esclusivo, omologante. L’ideologia del fast-
food non viene negata in quanto modello moderno o esterno, ma perché non
si colloca all’interno di un particolare stile alimentare con radici antiche e
con una storia fatta di continue, equilibrate e compatibili evoluzioni, perché
non è legato ad un luogo in particolare, ma a tutti i luoghi e, pertanto, a
nessun luogo, al nonluogo, inteso come “spazio che non può definirsi né
identitario né relazionale né storico78” e che non integra in se i luoghi
antichi.
Nel secolo dell’insicurezza alimentare, nell’era degli alimenti
transgenici, nell’epoca della globalizzazione, il cibo non omologato non può
rimanere muto e incapace di comunicare, né può essere messo in un angolo,
al contrario dovrà diventare protagonista economico e mediatico79.
Per effetto della globalizzazione sono oggi in atto due mutamenti
fondamentali: nei Paesi occidentali non solo le istituzioni pubbliche
ma anche la vita quotidiana si stanno liberando del peso della
tradizione, e altre società nel mondo rimaste più tradizionali stanno
77 Cit da, Vito Teti, “Territorio e identità culturale”, Forlimpopoli, Festa Artusiana 28 giugno 1998, Atti del convegno studi “cucina globale e cucina del territorio”. 78 Augé, M. 1993, Notiluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera. 79 Cit da Davide Paolini “I luoghi del gusto”, Baldini & Castoldi, Milano 2000.
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rapidamente perdendo questa loro caratteristica. È questo secondo
me il nocciolo della società cosmopolita globale che sta emergendo.
La nostra è una società che vive dopo la fine della natura: in altre
parole, sono ben pochi gli aspetti del mondo fisico rimasti del tutto
naturali, non condizionati dall’intervento umano. È una società che
vive dopo la fine della tradizione. Ancora una volta ciò non significa
che la tradizione stia scomparendo, come volevano i pensatori
illuministi; al contrario, in versioni diverse, essa continua a fiorire
ovunque. Ma sempre meno si tratta di una tradizione vissuta (se mi è
concessa la formula) in maniera tradizionale, cioè difendendo le
attività tradizionali attraverso riti e simboli specifici, e la tradizione
stessa attraverso il suo richiamo interno alla verità80.
La risposta più efficace alla globalizzazione non è la guerriglia ai
prodotti che omologano il gusto, è molto più efficace, in questo caso, che
una “controriforma” dia voce e forma a quei prodotti che sono da sempre in
minoranza per la dimensione economica dei loro produttori-artigiani e per la
difficoltà di arrivare ai mercati e quindi essere conosciuti.
Nel nuovo scenario emergente il cibo trascende la gola e il palato; la
riscoperta delle radici, l’interesse per la zona di provenienza, la sensibilità
per gli aspetti antropologici, il desiderio di conoscere la storia, la
dimensione estetico-sensoriale si sommano e vanno a interferire con la
gratificazione orale nell’apprezzamento di molto prodotti o di diversi piatti.
È errato scorgere nella tipicità soltanto un “impoverimento” delle culture
locali, una modernizzazione degradante. Se è vero che la tipicità è in un
certo senso una caricatura, un’estremizzazione, comporta un certo grado di
simulazione e d’invenzione di nuove tradizioni, è innegabile che essa
consente incontri e aperture, in quanto eccezionale zona di traduzione da
80 Antony Giddens, Il mondo che cambia, Il Mulino – Intersezioni, 2000.
- 55 -
una cultura all’altra81. La ricerca della tipicità ha a che fare con la ricerca del
luogo e un nuovo bisogno di appaesamento. Le cucine del territorio vanno
presentate con riferimento a un più ampio contesto, alla propria storia e
dignità.
3.4 Un affresco poco rassicurante.
La lunga onda del processo di industrializzazione, che ha investito il
mondo negli ultimi duecento anni, ha portato con se evidenti effetti
collaterali.
Esso ha dapprima migliorato la qualità della vita di milioni di persone –
quasi tutte residenti in quello che si definisce Nord del mondo – generando
il cosiddetto “sviluppo”. Ad esempio in molte aree del pianeta la
malnutrizione o la difficoltà di reperire cibo sono diventati ricordi lontani;
tutto questo “sviluppo” non ha però tardato a palesare enormi limiti, creando
una serie di situazioni che in epoca di globalizzazione, ossia nel
postindustriale, appaiono difficilmente tollerabili ancora a lungo dal
sistema-mondo; un una parola, sono insostenibili. Sempre più insieme al
processo di industrializzazione, in poco più di un secolo si è
progressivamente instaurata una sorta di dittatura della tecnologia, in cui il
profitto prevale sulla politica, l’economia sulla cultura e la quantità è il
principale, se non l’unico, metro di giudizio per le attività umane.
Si tratta di ciò che Edgar Morin, filosofo e sociologo francese,
teorizzatore della complessità, definisce il “quadrimotore” che spinge il
“vascello spaziale Terra”: scienza, tecnica, industria ed economia
capitalista82. È un quadrimotore invasivo e pervasivo, perché il processo di
industrializzazione non si è fermato ai manufatti e ai beni di consumo, ma è 81 La Cecla, F. 1997, Il malinteso. Antropologia dell'incontro, Bari, Laterza. 82 E. Morin, Il metodo, vol V, L’identità umana, Milano 2002.
- 56 -
entrato come fattore culturale nella vita quotidiana degli uomini,
condizionandone ogni attività.
Il quadrimotore ha imposto una specie di regime totalitario dove la
tecnica e l’economia prendono il sopravvento; in cui diventano cioè l’unico
fine, piuttosto che il mezzo per servire agli obiettivi e ai valori della
collettività. È una predominanza assoluta che si alimenta e si diffonde con la
globalizzazione, diventando a sua volta il principale fattore omologante per
l’intero pianeta.
La dittatura tecnocratica genera così una nuova ideologia, che nega e
occulta la complessità del mondo, delle relazioni e delle interdipendenze che
lo caratterizzano, nonché il loro valore, facendoci cadere nella tentazione di
analizzarlo in maniera lineare quando in realtà non è possibile83.
Oltretutto, valori “lineari” come progresso, controllo sulla natura e
razionalità quantificatrice cancellano le differenze una volta definite “di
classe”, mentre al contempo amplificano il divario tra civiltà: tra un
Occidente che si è “sviluppato” su tali valori e il resto del mondo che invece
sembra soltanto subirne i principi dominanti, trovandosi di fronte dilemma
tra il rifiuto e l’accettazione per potersi in qualche modo “allineare”. Ma si
tratta di una scelta importante solo in senso relativo, perché fino a oggi ha
sempre condotto a forme più o meno palesi di quella che è stata definita una
nuova forma di colonizzazione.
Il rapporto tra uomo e natura condiziona tutte le attività umane: attività
produttive complesse, condizionate da secoli di cultura e savoir faire, che
sono rappresentazioni di diversità ed identità, figlie delle relazioni e delle
interdipendenze sociali, specchio della complessità del mondo. Questo
legame indissolubile è mutato in modo radicale con l’ascesa del capitalismo
industriale84.
83 Cfr, “Buono, pulito e giusto: principi di nuova gastronomia”, di Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005. 84 Ibidem.
- 57 -
La natura è diventata un oggetto di dominio e ne possiamo vedere gli
effetti se analizziamo nei particolari che cosa sia stato fatto nell’ambito
dell’agricoltura e della produzione del cibo, che a partire dal dopoguerra,
per rispondere all’urgenza di un mondo affamato, è stato trasformato
aderendo subito all’ideologia tecnocratica. L’agricoltura si è trasformata in
ciò che si definisce comunemente agro-industria. Oggi stiamo continuando a
pagare lo scotto di questa ed altre trasformazioni epocali, a costi
insostenibili per il pianeta. Le teorie economiche hanno cercato di introdurre
il concetto di esternalità negative85, per quantificare in qualche modo i danni
collaterali che il quadrimotore ha arrecato alla società: inquinamento, morte
dei suoli, sfregio dei paesaggi, riduzione delle fonti di energia, perdita della
diversità biologica e culturale. Ma è comunque difficile ridurre al calcolo
lineare problematiche così complesse, quantificarne tutti i possibili costi
ambientali, sociali e culturali (e il fatto che si chiamino esternalità la dice
lunga su come non siano mai stati presi in considerazione, se non come un
fenomeno per l’appunto esterno ai processi industriali)86.
Non è un segreto o una monotona rivendicazione degli ambientalisti più
radicali: consumiamo più di quello che il pianeta può offrire senza alterare il
proprio equilibrio.
Negli ultimi venticinque anni abbiamo visto scomparire una foresta di
mangrovie su tre e una barriera corallina su cinque; due ecosistemi su tre
mostrano segni di declino; il 25 per cento dei mammiferi, il 12 per cento
degli uccelli e il 32 per cento degli anfibi sono a rischio di estinzione87.
Nel dare la notizia della pubblicazione del Millennium Ecosystem
Assessment – il rapporto di valutazione dell’ecosistema voluto nel 2000 dal
segretario dell’Onu Kofi Annan e diffuso dopo quattro anni di lavoro di 85 Concetto di economia politica: le esternalità di produzione si hanno quando la produzione di un agente influisce direttamente sulla produzione di un altro agente. Possiamo avere esternalità positive e negative. 86 Cfr, “Buono, pulito e giusto: principi di nuova gastronomia”, di Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005. 87 Antonio Cianciullo, Ambiente a rischio bancarotta, in “La Repubblica” 31 marzo 2005.
- 58 -
1360 esperti della Fao e del Wwf nel marzo 2005 – è stata utilizzata una
metafora molto calzante, quella appunto della bancarotta ecologica.
Il quadro è davvero drammatico e il rapporto ha spinto il direttore
generale della Fao, Jacques Diouf, a parlare di “ipoteca sul futuro” e di
“soglie di estinzione di massa”:
Negli ultimi cinquant’anni gli uomini hanno cambiato gli
ecosistemi più velocemente ed estensivamente che in ogni periodo
comparabile della storia dell’umanità, soprattutto per andare
incontro alla rapida crescita della domanda di cibo, acqua, legname,
fibre e carburante. Ciò ha provocato una sostanziale e largamente
irreversibile perdita in diversità della vita sulla terra88.
Quella che comunemente si definisce biodiversità, ovvero, secondo la
definizione data nella conferenza sull’ambiente di Rio de Janeiro del 1992:
… la variabilità fra tutti gli organismi viventi, inclusi ovviamente
quelli del sottosuolo, dell’aria, gli ecosistemi acquatici e terrestri,
marini e i complessi ecologici dei quali loro sono parte; questa
include la diversità all’interno di specie, tra specie ed ecosistemi.
La situazione è dovuta principalmente alla massiccia conversione a uso
agricolo della terra: dal 1945 ad oggi ci sono state più occupazioni dei suoli
che nei due secoli precedenti e oggi i coltivi occupano un quarto della
superficie terrestre. Il prelievo dell’acqua rispetto al 1960 è raddoppiato e il
70 per cento del suo uso è destinato all’agricoltura. Sempre dal 1960
l’immissione di nitrati negli ecosistemi è raddoppiata, quella dei fosfato
triplicata. Dopo il 1985 è stata utilizzata più della metà dei fertilizzanti
chimici mai prodotti nella storia dell’uomo; vale a dire a partire dalla loro 88 Cfr. Millennium Ecosystem Assessment: Synthesis Report, marzo 2005, www.millenniumassessment.org.
- 59 -
invenzione a cavallo del XIX e XX secolo. Dal 1750 la concentrazione
nell’atmosfera di diossido di carbonio è aumentata del 32 per cento,
soprattutto a causa dell’utilizzo di combustibili fossili e dei cambiamenti di
destinazione d’uso della terra (per esempio la deforestazione).
Approssimativamente il 60 per cento di questo aumento ha avuto luogo a
partire dal 1959.
Un tale livello di ingerenza sugli equilibri naturali ha ridotto
notevolmente la diversità biologica sul pianeta: negli ultimi cento anni il
coefficiente di estinzione delle specie è aumentato di mille volte rispetto alla
media registrata nella storia del pianeta. La diversità ha subito un declino
globale, soprattutto per quanto riguarda le specie coltivate.
Sempre secondo il Millennium Ecosystem Assessment Report questi
cambiamenti dell’ecosistema
…hanno contribuito a netti e sostanziali guadagni in termini di
benessere e sviluppo economico, ma questi guadagni hanno prodotto
un incremento dei costi in termini di degradazione dei servizi naturali
che questi ecosistemi fornivano, aumentando il rischio di cambiamenti
non lineari e la crescita della povertà per alcuni gruppi di persone.
Questi problemi, senza indirizzo e controllo, diminuiranno i benefici
che le future generazioni potranno ottenere dagli ecosistemi.
Uno dei benefici che si ottengono dagli ecosistemi, il più importante e
insostituibile è la nutrizione. I cambiamenti più rilevanti sono avvenuti per
andare incontro ai crescenti bisogni di cibo e acqua: agricoltura, pesca e
raccolta sono state le fasi principali in tutte le strategie di “sviluppo”. Dal
1960 al 2000 la popolazione mondiale è raddoppiata mentre la produzione
alimentare è cresciuta di due volte e mezzo. Oggi nel mondo siamo sei
- 60 -
miliardi e, sempre secondo la Fao89, la produzione del cibo sarebbe
sufficiente per dodici miliardi di persone.
In realtà, questa quantità di cibo prodotta “per dodici miliardi di
persone“ non è sufficiente per i sei miliardi che siamo. Questo sforzo
produttivo, che non ha saputo raggiungere i suoi scopi, ha stressato la Terra
a tal punto che i suoli o subiscono una desertificazione o muoiono per
l’esagerato impiego di prodotti chimici; le risorse idriche scarseggiano, la
biodiversità diminuisce a vista d’occhio, soprattutto l’agro-biodiversità, con
una sistematica riduzione delle razze animali e varietà vegetali che per
secoli avevano contribuito al sostentamento di interi territori in un connubio
uomo/natura perfettamente sostenibile. Analizzandola in un’ottica di lungo
periodo, la sete di produzione ha prodotto più danni che benefici.
La contraddizione in termini di agro-industria ci ha dato l’illusione che i
problemi alimentari dell’umanità potessero essere risolti. Questa enorme
produzione di cibo si è configurata sia come carnefice sia come vittima nel
contesto degli ultimi cinquant’anni90.
Carnefice perché i metodi insostenibili dell’agroindustria hanno
decretato la scomparsa di moltissime colture produttive sostenibili, fattori
identitari per le comunità che le praticavano. Vittima perché gli stessi
metodi insostenibili, in origine indispensabili per sfamare un maggior
numero di persone hanno poi ridotto il comparto agroalimentare a settore
misconosciuto, completamente staccato dalla realtà di miliardi di persone,
come se procurarsi il cibo fosse diventata una cosa scontata e non
comportasse nessun tipo di fatica; la politica non se ne occupa e il
consumatore medio, o non si chiede che cosa stia mangiando, oppure fa una
fatica titanica a reperire le informazioni in grado di spiegarglielo91.
89 www.fao.org 90 Cfr, “Buono, pulito e giusto: principi di nuova gastronomia”, di Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005. 91 Ibidem.
- 61 -
Il cibo e la sua produzione devono riottenere la giusta centralità tra le
attività umane e i criteri che guidano le nostre azioni vanno ridiscussi: non è
più la quantità di cibo prodotto, bensì la qualità complessa, che va dal gusto
alla varietà, dal rispetto per l’ambiente, gli ecosistemi e i ritmi della natura
in generale, a quello per la dignità umana.
Citiamo, concludendo, Eduardo Galeano che in un intervista, in
occasione della consegna del Premio Artusi92 2005, disse:
Questa civiltà che confonde la quantità con la qualità, che
confonde l’obesità con la buona alimentazione, in cui trionfa la
spazzatura travestita da cibo, in cui l’industria sta colonizzando i
palati del mondo e sta distruggendo le tradizioni della cucina locale e
le abitudini della buona cucina che vengono da lontano e che, in
alcuni paesi, hanno alle spalle millenni di raffinamento e diversità,
sono un patrimonio collettivo e si trovano nelle case di tutti e non solo
sulla tavola dei ricchi. Queste tradizioni, questi segni di identità
culturale, queste feste della vita vengono schiacciate in modo
fulmineo dalle imposizioni del sapore chimico e unico. La
globalizzazione viola con successo il diritto alla autodeterminazione
della cucina, sacro diritto perché la bocca è una delle porte
dell’anima.
3.5 Il cibo come cultura.
Il cibo è il principale fattore di definizione dell’identità umana, poiché
ciò che mangiamo è sempre un prodotto culturale. Se accettiamo una
contrapposizione concettuale tra Natura e Cultura (come tra ciò che è
naturale e ciò che è artificiale), il cibo è la risultante di una serie di processi
92 Premio che la città di Forlimpopoli, in onore del concittadino Pellegrino Artusi ed in concomitanza con l’annuale Festa Artusiana, attribuisce ogni anno dal 1997.
- 62 -
(culturali, nel senso che introducono elementi artificiali nella naturalità
delle cose) che lo trasformano da base completamente naturale (la materia
prima) a prodotto di una cultura (ciò che si mangia)93.
Nell’esperienza umana i valori portanti del sistema alimentare non si
definiscono in termini di “naturalità” bensì come esito e rappresentazione di
processi culturali che prevedono l’addomesticamento, la trasformazione, la
reinterpretazione della Natura. Medici e filosofi definirono il cibo res non
naturalis, includendolo fra i fattori della vita che non appartengono
all’ordine “naturale” bensì a quello “artificiale” delle cose94. Ovvero alla
cultura che l’uomo costruisce e gestisce.
L’uomo compie una serie di azioni, raccoglie, coltiva, addomestica,
sfrutta, trasforma, reinterpreta la Natura ogni volta che si nutre. Quando
produce, mette mano ai processi naturali, li influenza per creare il proprio
cibo: il passaggio dalle economie di raccolta a quelle agricole è la storia
dell’uomo che si insedia, coltiva, alleva, manipola la natura spinto dai suoi
bisogni. Quando l’uomo prepara i suoi pasti poi, a differenza degli animali,
mette in atto tecnologie più o meno sofisticate che trasformano la materia; il
fuoco, la fermentazione, la conservazione, la cucina. Quando consuma,
infine, sceglie più o meno accuratamente come, cosa, dove e quanto
mangiare.
Il cibo è cultura quando si produce, perché l’uomo non utilizza solo ciò
che trova in natura (come fanno le altre specie animali) ma ambisce a
creare il proprio cibo, sovrapponendo l’attività di produzione a quella di
predazione. Il cibo è cultura quando si prepara, perché una volta acquisiti i
prodotti-base della sua alimentazione, l’uomo li trasforma mediante l’uso
del fuoco e un’elaborata tecnologia che si esprime nelle pratiche di cucina.
Il cibo è cultura quando si consuma, perché l’uomo, pur potendo mangiare
93 Cfr, Buono, pulito e giusto: principi di nuova gastronomia, di Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005. 94 Cfr, da Il cibo come cultura, di Massimo Montanari, Editori Laterza, 2004.
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di tutto, o forse proprio per questo, in realtà non mangia di tutto bensì
sceglie il proprio cibo, con criteri legati sia alle dimensione economica e
nutrizionale del gesto, sia a valori simbolici di cui il cibo stesso è
investito95. L’insieme di questi processi, letti in una prospettiva storica, ci
parla di una complessità titanica, di un’identità umana fortemente instabile e
in continua ridefinizione, influenzata da scambi, incontri, innovazioni,
contaminazioni, alleanze e conflitti.
Apriamo una parentesi che risulterà semplificare la comprensione del
discorso generale: i conflitti.
La storia dell’umanità è fatta di uomini, che vivono (o hanno vissuto) in
società più o meno complesse, all’interno delle quali gli scontri di potere e i
conflitti per il controllo delle risorse sono una realtà permanente. In questa
luce osserviamo, in linea generale, che i conflitti assumono caratteri diversi
a seconda che si svolgano all’interno di comunità socialmente e
culturalmente coese, o coinvolgono rapporti di varia natura fra comunità e
culture diverse.
Nelle società più semplici, la contrapposizione è quella fra classi
dominanti e classi subalterne entro singole comunità e territori (per esempio
la società feudale del Medioevo). Più complessi sono i conflitti “trasversali”
che si verificano non all’interno di una singola aggregazione sociale e
politica, ma tra una società e un’altra. Nell’epoca dello sviluppo degli stati
nazionali o, comunque, di sistemi politici più complessi, il rapporto
dominante/dominato si applica anche su scala maggiore. Ad iniziare dal
XVI secolo i meccanismi di controllo dello spazio alimentare si erano
allargati su scala mondiale, con l’affermarsi del dominio europeo (Stati e
compagnie private di sfruttamento) nel continente asiatico e, dopo la
“scoperta” colombiana, in quello americano. A tutte le latitudini gli equilibri
economici di tutte le strutture produttive del “nuovo continente” furono
95 Ibidem.
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stravolte a uso dei dominatori europei, che utilizzarono i territori conquistati
come spazi produttori di cibo, esportando oltremare tutti i prodotti
fondamentali della dieta europea, piante e animali: grano, vite, ulivo, buoi,
cavalli, maiali; caffé e canna da zucchero (prodotti di origine medio-
orientale che gli arabi e i turchi avevano fatto conoscere all’Occidente, e che
gli occidentali non tardarono a trapiantare nelle colonie americane). Lo
scontro fra paesi ricchi e paesi poveri, che, nonostante la buona volontà di
pochi e l’ambiguo paternalismo di molti, sempre più chiaramente rivela il
gigantesco conflitto di interessi contrapposti che caratterizza la società
attuale, è quasi la versione allargata – frutto dell’economia-mondo- degli
scontri per il controllo e l’uso delle risorse alimentari che da sempre hanno
accompagnato la storia degli uomini96.
In qualche modo, pur nel contesto estremamente mutato, tutto ciò
ripropone il tema della lotta di classe di quello che McLuhan definì il
“villaggio globale”.
Tornando al discorso sul cibo come simbolo culturale, trovo molto
calzante la metafora sulle radici della nostra identità utilizzata da M.
Montanari per far comprendere la portata di tale complessità sopra citata.
Un’idea, quella delle radici, spesso chiamata in causa in maniera
strumentale, per parlare di fissità, per sottolineare e giustificare differenze
tra popoli, o peggio, tra “razze”. Ogni cultura, ogni tradizione, ogni identità
è un prodotto della storia, dinamico e instabile, generato da complessi
fenomeni di scambio, di incrocio, di contaminazione. I modelli e le pratiche
alimentari sono il punto di incontro fra culture diverse, frutto della
circolazione di uomini, merci, tecniche, gusti da una parte all’altra del
mondo.
96 Cfr, da “Il cibo come cultura”, di Massimo Montanari, Editori Laterza, 2004.
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La ricerca delle radici non giunge mai a definire un punto da cui
siamo partiti bensì, al contrario, un intreccio di fili sempre più ampio e
complicato mano a mano che ci allontaniamo da noi. In questo
intricato sistema di apporti e di rapporti non le radici, ma noi siamo il
punto fisso: l’identità non esiste all’origine, bensì al termine del
percorso. Se proprio di radici vogliamo parlare, usiamo fino in fondo la
metafora e raffiguriamoci la storia della nostra cultura alimentare
come una pianta che si allarga e mano a mano affonda nel terreno… Il
prodotto è alla superficie, visibile, chiaro, definito: siamo noi. Le radici
sono sotto, ampie, numerose, diffuse: è la storia che ci ha costruiti97.
Carichiamo questa metafora di un ulteriore significato, che serve a
restituire la giusta importanza al cibo, e la giusta dimensione di ciò che
rappresenta.
Sotto la spinta frenetica del pensiero tecnocratico e riduzionista siamo
caduti nella tentazione di tralasciare l’insieme dei processi e delle
interrelazioni che ci consentono di mangiare tutti i giorni, considerandone
solo la risultante, ovvero il cibo che ingurgitiamo. Queste “radici” sono
determinanti e devono ridiventare argomento centrale di riflessione98.
Il cibo è il prodotto di un territorio e delle sue vicissitudini, dell’umanità
che lo popola, della sua storia e delle relazioni che ha instaurato. Si può
parlare di ogni luogo del mondo parlando del cibo che vi si produce e vi si
consuma. Raccontando storie di cibo si raccontano storie di agricoltura, di
ristoranti, di commerci, di economie locali e globali, di gusti e di fame.
Il cibo, e uno studio attento di come è prodotto, commercializzato e
consumato, è un elemento in grado di aprirci gli occhi su ciò che siamo
diventati e su dove stiamo andando. Ci permette di abbozzare
97 Ibidem. 98 Cfr, “Buono, pulito e giusto: principi di nuova gastronomia”, di Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005.
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l’interpretazione dei complessi sistemi che governano il mondo e le nostre
vite e ci lascia la possibilità di ricostruire le basi per un futuro sostenibile99.
Lo studio di questi input e output esige oggi una scienza che se ne
occupi in maniera organica e che tenga conto della multidisciplinarità che
chiama in causa.
3.6 La nuova gastronomia100.
Avendo, nei precedenti capitoli, già accennato riguardo a Brillat-Savarin
e alla sua Fisiologia del gusto – importante riferimento per la nascita della
gastronomia moderna – non rimane che chiarirne il motivo: nel libro erano
chiari e sapientemente definiti, già all’epoca, tutti gli elementi da cui,
ripartire per fondare oggi una nuova scienza gastronomica101. Scrive
Brillat-Savarin:
La gastronomia è la conoscenza ragionata di tutto ciò che si
riferisce all’uomo in quanto egli si nutre… Così è proprio essa che fa
muovere i coltivatori, i vignaioli, i pescatori e la numerosa famiglia
dei cuochi, quale che sia il titolo o la qualifica sotto cui essi
mascherano il loro occuparsi della preparazione degli alimenti. La
gastronomia appartiene: alla storia naturale, per la classificazione
che fa delle sostanze alimentari; alla fisica, per le diverse analisi e
scomposizioni che fa loro subire; alla cucina, per l’arte di preparare i
cibi e di renderli piacevoli al gusto; al commercio, per la ricerca del
mezzo di comprare al miglior prezzo possibile ciò che essa consuma e
di smerciare più convenientemente ciò che pone in vendita;
99 Cit, da “Buono, pulito e giusto: principi di nuova gastronomia” di Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005. 100 Vedi Appendice per approfondimenti. 101 Cit, ibidem.
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all’economia politica, per le risorse che essa offre al fisco e per i
mezzi di scambio che stabilisce tra le nazioni102.
Bene è ricordare l’anno di pubblicazione del libro, 1825, per apprezzarne
la lungimiranza; sono già presenti tutti gli elementi complessi che
descrivono la gastronomia come una scienza multidisciplinare, mettendo in
conto i processi agricoli, economici, scientifici, tecnici, sociali e culturali.
Una visione fatta di buon senso e di capacità di cogliere la complessità delle
cose di sconcertante modernità.
Nel libro “Buono, pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia.” Carlo
Pettini, fondatore del movimento Slow Food103, appoggiandosi alle
considerazioni di Brillat-Savarin, formula una definizione di nuova
gastronomia. Definizione necessaria per meglio comprendere l’utilità e
l’importanza odierna di una scienza così complessa.
La gastronomia appartiene:
102 Cit, da “Physiologie du gout”, Jean-Anthelme Brillat-Savarin. 103 Carlo Petrini è il fondatore e l’attuale presidente del movimento Slow Food. Iniziata nel 1986 sotto il nome di Arcigola, la storia del movimento vede l’ufficializzazione internazionale nel 9 dicembre 1989. Slow Food è un’associazione internazionale non profit nata in Italia nel 1986: oggi coinvolge 40.000 persone in Italia e più di 80.000 nel mondo, in 130 Paesi dei cinque continenti. Le condotte e i convivium (350 in Italia e oltre 400 all’estero) sono il punto di riferimento del Movimento sul territorio e organizzano iniziative per gli associati. Slow Food promuove il diritto al piacere, a tavola e non solo. Nata come risposta al dilagare del fast food e alla frenesia della fast life, Slow Food studia, difende e divulga le tradizioni agricole ed enogastronomiche di ogni angolo del mondo, per consegnare il piacere di oggi alle generazioni future.Slow Food rieduca i sensi assopiti, insegna a gustare e a degustare. Allenare il palato a riconoscere le differenze rende l’amore per il cibo un’esperienza universale. E permette a consumatori “educati” di indirizzare verso la qualità – gastronomica, ambientale e sociale – le scelte produttive. Slow Food, attraverso progetti (Presìdi), pubblicazioni (Slow Food Editore), eventi (Terra Madre) e manifestazioni (Salone del Gusto, Cheese, Slow Fish) difende la biodiversità, i diritti dei popoli alla sovranità alimentare e si batte contro l’omologazione dei sapori, l’agricoltura massiva, le manipolazioni genetiche. È una rete di persone che si incontrano, che si scambiano conoscenze ed esperienze. Un’associazione che ha fatto del godimento gastronomico un atto politico, perché dietro a un buon piatto ci sono scelte operate nei campi, sulle barche, nelle vigne, nelle scuole, nei governi. E ogni scelta ha un sapore diverso. Da www.slowfood.com
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• alla botanica, alla genetica e alle altre scienze naturali, per la
classificazione che fa delle sostanze alimentari, consentendone la
salvaguardia;
• alla fisica e alla chimica, per la selezione dei prodotti migliori e lo
studio di come si trasformano;
• all’agricoltura, alla zootecnica e all’agronomia, per la produzione di
buone e varie materie prime;
• all’ecologia, perché l’uomo per produrre, distribuire e consumare
cibo interferisce con la natura e la trasforma a suo vantaggio;
• all’antropologia, perché consente lo studio della storia dell’uomo e
delle sue identità culturali;
• alla sociologia, che offre gli strumenti per lo studi ei comportamenti
sociali dell’uomo;
• alla geopolitica, perché i popoli si alleano o combattono anche e
soprattutto per sfruttare le risorse della terra;
• all’economia politica, per le risorse che offre, per i mezzi di scambio
che stabilisce tra le nazioni;
• al commercio, per la ricerca del modo di comprare al minor prezzo
possibile ciò che consuma (utilizza) e di smerciare più
convenientemente ciò che pone in vendita (produce);
• alla tecnica, all’industria e al savoir faire degli uomini per la ricerca
di nuovi modi di trasformare e conservare il cibo in maniera
conveniente;
• alla cucina, per l’arte di preparare i cibi e di renderli piaceveoli al
gusto;
• alla fisiologia, per la capacità di sviluppare le sensorialità atte a
riconoscere il buono;
• alla medicina, per lo studio di quale modo di nutrirsi è più saltare;
• all’epistemologia, perché, attraverso una necessaria riconsiderazione
del metodo scientifico e dei criteri di conoscenza che ci permettono
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di analizzare il percorso che un cibo fa dal campo alla tavola e
viceversa, ci aiuta a interpretare meglio la realtà di questo mondo
globalizzato e complesso. Ovvero a scegliere.
La multidisciplinarità della nuova gastronomia permette di analizzare
l’elemento cibo, partendo dall’insieme di tutti le varie materie che la
compongono, seppur ognuna di esse – presa da se - affronti l’argomento
sotto un particolare punto di vista. La gastronomia è una scienza che studia
la felicità. Tramite il cibo, linguaggio universale e immediato, elemento
identitario e oggetto di scambio, essa si configura come una delle più
potenti forme di diplomazia della pace.
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4. Artusopoli.
La storia decennale che accompagna la nascita e l’evoluzione della Festa
Artusiana, e della prossima inaugurazione di Casa Artusi, possiamo
sicuramente definirla “storia di una comunicazione”. Quello che segue altro
non è che il racconto104 di questa storia, delle motivazioni e delle scelte, che
hanno spinto l’amministrazione comunale di Forlimpopoli alla decisione di
comunicare e promuovere il proprio territorio – quello romagnolo, e tutti i
territori in generale – sotto il nome e l’effigie di Pellegrino Artusi.
4.1 Una storia di comunicazione.
Cose, fatti, episodi, non avvengono mai per caso. C’è una mutazione
degli avvenimenti, dei tempi, delle sensibilità umane, ed in particolare ci
sono eventi, iniziative oppure scelte di vario ordine – politico, sociale,
culturale – che acquistano un loro valore ed una loro capacità
indipendentemente dalle ragioni e dalle motivazioni – spesso contingenti, e
spesso anche poco nobili - che li hanno generati.
Pensiamo, ad esempio, ad uno scritto poetico, ad un brano musicale, ad
un dipinto: l’autore dell’opera agisce con l’intenzione – a volte – precisa di
darle un significato proprio. Ma chi, in seguito, fruisce l’opera non è detto
che scorga lo stesso significato originario dato dall’autore; ed ecco allora
che quel poema, quel brano, quel dipinto, acquistano una vita loro, diversa e
parallela. Anche gli avvenimenti possono subire questo tipo di lettura.
È questo il caso della Festa Artusiana, nata come strumento, come
mezzo per creare un’attesa ed aprire gli spazi per l’avventura di Casa Artusi.
104 Tratto da un’intervista (a cura dell’autore della medesima relazione, effettuta in data 17/11/2006) al Sindaco del periodo (1995) Maurizio Castagnoli.
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L’obiettivo originario era arrivare a Casa Artusi. Ma procediamo con
ordine.
La prima domanda che viene spontaneo porsi è: perché Casa Artusi?
Perché un’amministrazione pubblica sceglie di effettuare un investimento
ingente, come quello di ristrutturare un convento del XVII secolo e di dargli
una destinazione gastronomica?
I motivi furono essenzialmente due, e portano all’affermazione di ciò
che si è detto in precedenza, e cioè che i fatti non avvengono per caso – e
quando avvengono acquistano una loro vita autonoma rispetto a quella a cui
si era pensato – e sono figli del loro tempo.
Motivazione prima.
All’inizio degli anni Novanta – ma il movimento era già partito una
decina d’anni prima, all’inizio degli anni Ottanta – in Italia era in atto una
seria, forte, profonda discussione sul tema del cibo. Dell’avvento dei fast-
food, del cibo omologato, di scarsa qualità e di basso prezzo abbiamo già
trattato nei precedenti capitoli. Era esplosa, in quegli anni in particolare, la
cosiddetta nouvelle cousine105, e cioè la creatività in cucina sull’onda della
cucina francese (considerata la tipica cucina internazionale); una cucina
fantasiosa, creativa, in cui si alleggeriscono le portate per far fronte ai nuovi
stili di vita, ma soprattutto si aggiungono nuovi piatti come innovazione alla
cucina internazionale, usa nuovi prodotti e nuove tecnologie, sfruttando un 105 Nel 1972 i due giornalisti Henry Gault e Christian Millau fissarono le dieci caratteristiche fondamentali di quel movimento culinario chiamato novelle cuisine: 1. Rifiuto delle complicazioni inutili e riscoperta della bellezza della semplicità; 2. Applicazione della regola della cucina del mercato e cioè di non essere schiavi di un menù immutabile, ma cucinare ogni giorno soltanto ciò che di meglio è possibile acquistare; 3. Riduzione dei tempi di cottura; 4. Conseguente riduzione del numero dei piatti inseriti nella lista delle vivande; 5. Abbandono delle lunghe marinature e delle frollature ad oltranza; 6. Abbandono delle salse troppo grasse e pesanti, sostituite da salse più leggere e digeribili; 7. Ricerca di una cucina dietetica, povera di grassi, in armonia con i tempi moderni; 8. Fantasia nell’invenzione di nuove ricette, di nuovi accostamenti di sapore e studio e ricerca per riproporre, aggiornati, antichi piatti dimenticati; 9. Ritorno alla cucina regionale, con la riscoperta dei piatti borghesi e contadini; 10. Ricerca di nuovi metodi di cottura che meglio rispettino l’integrità dei cibi; regola non citata ma praticata è il servizio effettuato direttamente sul piatto (di grande formato) del cliente, in modo che le vivande possano arrivare al tavolo ancora calde e perfette da un punto di vista della preparazione.
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criterio tipico della società avanzata di massa: l’immagine. Questo pendolo
sociale, che ha posto l’accento sull’innovamento sino alla prima metà degli
anni Ottanta, non ha tardato, poi, a far nascere movimenti culturali che
teorizzavano il recupero e la salvaguardia di tradizioni e vecchie culture
gastronomiche. Il movimento più importante è certamente, il già citato,
Slow Food106.
Questo era il flusso culturale entro il quale il paese Italia si stava
trovando: recupero della tradizione del territorio, dei cibi tipici, che
sommato al nascente interesse verso un turismo di tipo culturale, che si
discosta dal cosiddetto turismo di massa, omologato, decretò in seguito il
successo di molte realtà, tra le quali la Festa Artusiana non è che un caso più
unico che raro.
Siamo a metà degli anni Novanta e sta nascendo tale fenomeno, ossia il
turismo culturale, in cui elementi come – per esempio – le ricchezze
archeologiche, i paesaggi e il cibo locale, concorrono a formare
l’omogeneità dell’offerta. Questo trend culturale e turistico godrà di forte
ascesa per tutto il periodo a seguire; ascesa che non sembra fermarsi, dato
106 … la battaglia deve essere combattuta sullo stesso terreno e con le stesse armi, quelle della mondializzazione e della globalizzazione, facendole proprie e invertendone il senso. Se il fasto food significa uniformità, Slow Food propone di salvaguardare e rilanciare i singoli patrimoni gastronomici; se la velocità minaccia la fruizione del tranquillo piacere sensoriale, la lentezza può diventare un antidoto all’impazienza, alla voracità ossessiva; se i nuovi modelli alimentari propongono stereotipi che calpestano le culture locali, Slow Food invita a recuperare la memoria dei codici gastronomici regionali; se gli hamburger appiattiscono i consumi e stimolano ripetitivamente gli organi sensoriali soprattutto delle nuove generazioni, si deve promuovere una campagna di educazione permanente delle papille; se i luoghi della ristorazione veloce propongono ambienti asettici e senza identità, si riscoprano il calore delle osterie tradizionali, il fascino dei caffè storici, la vivacità dei laboratori artigianali; se la catena di trasmissione dei saperi della cultura materiale rischia di essere interrotta da stili di vita e di alimentazione che hanno sposato logiche industriali, una nuova Internazionale divulghi sicure conoscenze e buoni indirizzi; se un’alimentazione dissennata e i ricorrenti casi di sofisticazione minacciano la nostra salute, si riscopra il benessere di un cibo sano; se l’invadenza dei prodotti chimici in agricoltura e una scriteriata gestione del territorio minacciano l’ambiente, Slow Food promuove coltivazioni capaci di rispettare la natura; se l’informazione omologata cancella le differenze, la costruzione di un movimento internazionale favorisce lo scambio di documenti, di analisi, di ricerche storiche e di tecniche produttive. Tratto da: Slow Food, le ragioni del gusto. Carlo Petrini, Editori Laterza, 2001.
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che concorre nel determinare – come sottolinea l’ex Sindaco M. Castagnoli
- la cosiddetta identità (occidentale).
Motivazione seconda.
Nel periodo in questione si discuteva, come oggi, della possibilità di
semplificare la vita politica. Una domanda, tra le tante, era ricorrente, e
rende più chiaro il tema di tale ricerca: hanno senso i piccoli comuni?
Qual’è il ruolo dei comuni in generale, e dei piccoli comuni in particolare?
Un primo tipo di risposta chiamava in causa un’esigenza razionalistica:
semplificare molto. Nello specifico caso di Forlimpopoli, si pensava di unire
il comune stesso – come altri piccoli comuni della zona, del resto – al
comune di Forlì. In tale maniera sarebbe stato possibile applicare una
politica territoriale razionale, omogenea, decisa con senso e, soprattutto,
sopperire la carenza – per non dire mancanza, in certi casi – di servizi, con
cui i cittadini dei piccoli comuni erano obbligati a convivere. Ecco perché
l’idea del grande comune di Forlì.
Molti non lo dicevano apertamente, ma tutti pensavano che Forlimpopoli
nell’arco di un ventennio, sarebbe divenuta uno degli ultimi quartieri di
Forlì.
L’esigenza politica che si poneva al Sindaco era: ha ancora senso essere
sindaci di Forlimpopoli? E se sì, occorre trovare una connotazione
identitaria dei forlimpopolesi, diversa e che ne giustifichi la propria
esistenza.
“L’aumento, e la garanzia, dei servizi alla comunità (servizi scolastici,
ristrutturazione urbanistica, progettazione di un parco pubblico con
annesso la piscina comunale ecc.) di per sè – dice Castagnoli – non
bastano: occorre che riusciamo a riscoprire il nostro sentirci comunità”, e
proprio questa era l’altra questione in causa: riscoprire il perché
Forlimpopoli possa e debba sentirsi una comunità.
Per dovere di cronaca cito due precisazioni fatte dall’ex Sindaco:
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La comunità non può essere una comunità chiusa, piccola,
ristretta, il borgo antico, il villaggio. Non è questo il senso di identità
che interessava allora. Voglio precisare che quando dico identità, lo
dico in maniera completamente a-razziale. È vero che tutti devono
avere gli stessi diritti, ed è altrettanto vero che siamo diversi.
Solamente essendo coscienti della propria diversità, delle proprie
radici e quindi della propria identità, siamo in grado di non essere
travolti dall’omologazione globalizzata dei nostri tempi, oppure da
chi ha un tipo di identità molto più forte della nostra. Per poter
confrontare cultura con cultura, da pari a pari, occorre avere ben
presente – da entrambe le parti – le proprie caratteristiche identitarie,
le proprie radici, la propria storia.
La nostra civiltà occidentale sta destrutturando in maniera molto
violenta quei sistemi107 su cui si reggeva la società e su cui si era retta
per centinaia, se non migliaia, di anni. … Questa serie di
cambiamenti in atto ha determinato una sensazione di isolamento e
solitudine, accentuata dal forte carattere individualistico dei nostri
valori. La scelta individuale pone l’accento sul grado di libertà che un
cittadino vuole esercitare. Tutto ciò, di conseguenza, lascia scoperto il
lato della sicurezza. La solitudine è il prezzo. Viviamo in una società
avanzata, votata al progresso, ricca e la solitudine ed il senso di
nostalgia che emerge (basti pensare alla perdita dei dialetti) sono le
spie di un bisogno, di un senso personale di comunità molto diverso,
di tipo moderno, che non rinuncia alle proprie scelte individuali, ma
che – allo stesso tempo – non può, non vuole e non deve sentirsi solo.
A metà anni Novanta sia le fazioni politiche di estrema destra, che quelle
di estrema sinistra, accusavano Forlimpopoli di essere una città dormitorio.
107 Pensiamo alla famiglia. L’impostazione patriarcale della famiglia, solo negli anni Cinquanta di questo secolo, ha conosciuto i primi sintomi di sgretolamento, sintomi che si sono poi accentuati e fatti più seri dopo il ’68 ed hanno avuto sfocio finale nel 1974 con la legge sul divorzio.
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Forlimpopoli non ha particolari bellezze: è sempre stata una cittadina di
mercanti, attraverso la quale scorre la Via Emilia, situata in una zona di
pianura tra le città di Cesena e Forlì. La Rocca, il Museo archeologico, le
varie Chiese, non attribuiscono particolare valore, o meglio, non la
differenziano troppo dalle altre cittadine presenti nel territorio. Ma di una
cosa, Forlimpopoli, sfoggia vanto a livello nazionale: è il paese natale di
Pellegrino Artusi. Ed è proprio questo il motivo che porta l’amministrazione
comunale alla decisione di puntare sulla figura di Artusi per caratterizzare il
proprio essere comunità: comunità che ha obiettivi, alcuni dei quali di tipo
pratico, altri, invece, sono motivazioni ideali, quali l’orgoglio e il recupero
della propria tradizione archeologica e storica, e la costruzione nel nome di
Pellegrino Artusi, di un modello di cittadina in cui si vive bene, e la cui
presenza è la testimonianza del buon mangiare e di buona gastronomia.
Ecco come nacque l’idea di un progetto chiamato inizialmente “città
artusiana”, e cioè un progetto di recupero, una caratterizzazione mettendo in
risalto il fine Ottocento, l’epoca di Artusi: le piazze, le strade, il colore delle
case, dal punto di vista urbanistico l’amministrazione comunale voleva che,
soprattutto la zona del centro storico, si caratterizzasse come città dei tempi
di Artusi, e cercò di agevolare questo sviluppo dando contributi ai privati
poiché le ristrutturazioni – delle case in particolare - fossero effettuate
seguendo certi criteri. All’interno di questa città artusiana, doveva esserci,
anche, un nucleo chiamato “centro artusiano”, che avrebbe dovuto essere il
centro della gastronomia, si pensava allora di valore nazionale.
L’amministrazione approvò il progetto e si cominciò nella realizzazione
del centro artusiano, nominando una commissione di esperti tra i quali
Alberto Capatti108, Massimo Montanari109, Folco Portinari110, Carlo
Petrini111 ecc.
108 Docente alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pavia, massimo esperto italiano di cultura artusiana e di gastronomia contemporanea, direttore della rivista “Slow”.
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Questo centro artusiano subì sin dal principio un forte cambiamento, non
nella sostanza, bensì nella forma: il nome cambiò da centro artusiano a
Casa Artusi. Questo cambiamento non è dovuto al caso o ad un semplice
capriccio stilistico. È nato in seguito ad un ragionamento che chiama in
causa l’Artusi stesso e la sua opera.
Quali sono i precetti forti che l’Artusi esalta e persegue ne La Scienza in
cucina? Tra tutti: cucina del territorio e cucina di stagione; cucina sana,
leggera e rispetto dei prodotti tipici. Quanto mai profetico l’Artusi,
oggigiorno, racchiude nella sua opera tutta quella serie di valori nuovi, di
cui il movimento Slow Food si fa portabandiera: recupero della tradizioni
della terra, della cultura gastronomica e rivalutazione del prodotto tipico
locale. Se questa è la forza trainante, il centro artusiano deve riscoprire
questi valori. E questi sono valori che si riscoprono, e soprattutto si trovano,
all’interno della casa.
“La cucina italiana – ricorda M. Castagnoli – è una cucina che ha due
caratteristiche fondamentali: è buona, semplice e poco costosa, a differenza
di quella francese che spesso è complicata (l’elaborazione finale dei piatti
deve essere completamente differente dal prodotto primo), costosa e molte
volte pretenziosa. La seconda caratteristica è quella di essere una cucina
molto varia. Sarà per la morfologia del paese, sarà per la miriade di
diverse tradizioni che anche l’Artusi stesso, riconosce alla cucina italiana
una varietà senza confronti, ed è proprio la medesima varietà a formarne
l’inestimabile ricchezza”.
La Scienza in cucina si contrappone ai modelli francesi su un altro punto
fondamentale: riconduce in seno alla famiglia e alla casa i valori del gusto,
subordinando ad essa la ristorazione. Inoltre denuncia l’influenza del
109 Docente alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, massimo esperto italiano di storia dell’alimentazione. 110 Giornalista e scrittore, esperto di cultura gastronomica. 111 Fondatore ed attuale presidente dell’associaizone Slow Food, giornalista e gourmet di professione.
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turismo sui livelli di qualità: ha ormai avvertito una “modificazione
(negativa) del vitto112”, in particolare nelle grandi città dove più intenso è il
passaggio, e ribadisce l’importanza di conservare formule e tradizioni.
Artusi, conservatore illuminato, con le sue parole tocca il punto debole
della modernità: l’omologazione dell’offerta di cibo e l’uniformità del
gusto, al quale fenomeno degenerativo il turista non è estraneo113.
Questa teoria si riconduce ad una forte critica che Carlo Petrini fa nei
confronti della Romagna: nel dopoguerra l’Emilia e la Romagna davano
lezioni di cucina. Petrini afferma che il fenomeno del turismo di massa, che
negli anni ’50-60-70 ha stravolto l’economia del dopoguerra, ha portato con
se la massificazione della gastronomia, ha portato alla sua fast-
fooddizzazione, alla sua trasformazione in banalità culinaria, senza più cura,
intelligenza e cultura del prodotto. Dice Petrini che in Romagna vi è la
peggior ristorazione media d’Italia, perché si è proceduto al passo
dell’ingente affluenza di turismo di massa, ignorante, incolto che pretende
di trovare ovunque vada le stesse tagliatelle alla bolognese, come si trattasse
di un prodotto standardizzato nell’immaginario culinario regionale. Quindi
la Romagna deve fare uno sforzo doppio per recuperare la sua dignità
artusiana, rispetto ad altre parti del Paese in cui l’influenza dell’economia
legata al turismo, essendo meno opprimente, permetteva un più coerente
sviluppo ed affermazione della cultura tradizionale.
Altro aspetto a cui dare la giusta importanza, è quello del divario tra le
generazioni: nell’arco di un paio di generazioni, molte usanze, molte
tradizioni, molti segreti114, molti saperi andranno persi. Oggi nemmeno la
112 Cit. da La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. 113 Alberto Capatti, Lingua, regioni e gastronomia dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Storia d’Italia, Annuali XIII, Einaudi, 1998. 114 Pellegrino Artusi sarà anche l’ultimo trattatista di cucina a menzionare i segreti, cioè quegli esperimenti e rimedi escogitati dagli alchimisti-scienziati medievali, rinascimentali e barocchi (…) per curare le più svariate infermità e indisposizioni degli uomini, degli animali e delle piante e per dare tutte le spicciole indicazioni della piccola alchimia domestica nella preparazione, per esempio, di carni, verdure, conserve, sciroppi, gelatine e
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donna ha quasi più tempo da dedicare alla cucina, e quando le generazioni
più anziane avranno lasciato spazio a quelle più giovani, se non sarà stato
fatto qualcosa, un patrimonio di cultura millenaria rischia di andare
definitivamente perso. Partendo da queste critiche di Petrini, che non erano
critiche verso i prodotti bensì verso la ristorazione, l’amministrazione
comunale si è data il compito, nel nome dell’Artusi, di recuperare questo
patrimonio di saperi legato alla nostra terra e a tutte le terre in generale.
Ecco il ragionamento e le motivazioni che hanno portato dal centro
artusiano a Casa Artusi: un centro di cultura gastronomica (con biblioteca,
ristorante, scuola e corsi di formazione alla cucina e uno spazio – la Chiesa
dei Servi – in cui concentrare mostre, presentazioni, eventi, concerti) in cui
si organizzano eventi tesi a promuovere la gastronomia romagnola, la
gastronomia tipica e territoriale italiana in generale; in cui vi sarà la
presentazione di nuovi prodotti del territorio; l’organizzazione di serate di
spettacolo e di convegni di vario tipo legati al cibo e alla cultura in generale,
ed infine, sarà un centro dedito alla formazione gastronomica a tutti i livelli.
L’inaugurazione di Casa Artusi avrà luogo in occasione dell’undicesima
edizione della Festa Artusiana, prevista per giugno 2007, dopo quasi un
decennio di interminabili lavori. In realtà l’amministrazione comunale non
aveva stimato un così lungo periodo di gestazione; si pensava, infatti, ad un
lasso di tempo non più lungo di cinque anni. Ma come detto all’inizio, le
cose non avvengono mai per caso e, probabilmente, questa attesa più lunga
del previsto avrà modo di far cogliere frutti più maturi di quelli sperati.
Comunque, qualunque fosse stata l’attesa, Forlimpopoli necessitava sin
da subito una forte caratterizzazione, una forte promozione e comunicazione
nel nome di Artusi; l’amministrazione comunale non avrebbe potuto
permettersi di partire da zero con l’apertura di Casa Artusi, dati gli ingenti
costi di sviluppo che richiedeva il progetto. Un primo segno furono le pozioni varie. Tratto da “Introduzione” di Piero Camporesi a La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Pellegrino Artusi, Einaudi, 1970.
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imminenti ristrutturazioni di Piazza Pompilio, Via Saffi e di Piazza
Garibaldi. Occorreva che i forlimpopolesi – ed i cittadini della Romagna –
cominciassero ad individuare Forlimpopoli come città artusiana, come il
luogo in cui buon cibo e buona gastronomia, pur non avendo né un
ristorante di fama né un prodotto tipico e caratteristico, fossero valori
condivisi. Fu in quel momento che l’Assessore alla Cultura (1995), Franco
Mambelli, partorì l’idea della Festa Artusiana. La Festa doveva essere il
momento in cui cominciare a creare l’immagine dell’Artusi collegata a
Forlimpopoli. Questa scelta avvenne, è bene ricordarlo, nel pieno sviluppo
di quel periodo di cambiamenti culturali volti alla ricerca delle tradizione,
con conseguente aumento di domanda turistica legata all’enogastronomia.
Nella scelta di comunicare la propria identità artusiana,
l’amministrazione comunale ha, come prima cosa, deciso di differenziare
l’evento Festa Artusiana dalle comuni feste di paese, dalle classiche sagre
che – se non fosse per la diversità dei prodotti - molte volte
rassomiglierebbero l’una alla copia dell’altra. Si è cercato sin dal principio
un target alto - ma non forzatamente elitario, un vasto pubblico
gastronauta, che sapesse apprezzare il cibo di qualità proveniente da diverse
zone, sia della regione che del territorio nazionale, ma anche cibo
internazionale, nella cornice forlimpopolese, ridipinta per l’occasione.
L’amministrazione ha puntato ad un registro alto riguardo tutto quello
che interessa l’evento Festa: nei Convegni di discussione, che nel corso
degli anni hanno toccato svariate tematiche legate al cibo e all’Artusi e,
soprattutto, nella scelta dell’assegnazione del Premio Artusi. Ed è stata
proprio la scelta dei personaggi da premiare il vero valore aggiunto alla
Festa: “Si è cercato di scegliere personaggi, non necessariamente famosi,
ma che potessero avere un certo appeal comunicativo; – ricorda M.
Castagnoli – da qui la scelta di premiare, sotto la doppia effige del Premio
Artusi, un grande chef ed un personaggio socialmente impegnato nella lotta
contro la fame. Come dire: i due aspetti della gastronomia, la fame e
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l’abbondanza115; la cultura e la tradizione gastronomia elevata al recupero
delle tradizione, e lotta contro la fame e la povertà, la lotta per la
sopravvivenza.”
Oltre alla celebrazione di un grande chef a livello internazionale,
Forlimpopoli sceglie di aiutare chi aiuta gli altri a non soffrire la fame.
L’esempio più fresco è sicuramente quello del Premio Nobel 2006 per la
Pace Muhammad Yunus, economista del Bangladesh, premiato nel 2001
con una targa onoraria e cinquemila euro da destinare alla sua “Grameen
Bank” (fondata dallo stesso Yunus nel 1976), la banca rurale che concede
prestiti e supporti agli esclusi dal sistema di credito tradizionale, in pratica
ai poveri, per favorire lo sviluppo e la lotta contro la povertà.
Le scelte del periodo dell’anno e della durata complessiva della festa,
sono state dettate più dall’esigenza che dalla volontarietà. Innanzi tutto il
periodo in cui svolgere la Festa, occorreva fosse un periodo che permettesse
di fruire la città nei suoi spazi (le piazze, i vicoli storici, la Rocca) all’aperto
durante le ore serali: per una serie di fattori ( per esempio, temperatura
gradevole anche la notte, la non-presenza di festività o di altri eventi
particolari che potessero concorrere con la Festa ecc) fu individuata la
decade tra la fine di giugno e l’inizio di luglio: precisamente il penultimo
weekend di giugno. La scelta della durata totale fu, anch’essa, dettata da
esigenze di carattere pratico: il comune, che all’epoca non poteva
permettersi di pagare la completa ristorazione della festa, decise quindi di
dare in gestione a privati i vari spazi in cui veniva servito e distribuito il
cibo. I privati da parte loro, necessitavano di un numero cospicuo di
giornate per poter esercitare il loro lavoro di ristorazione e non rischiare una
perdita. Si decise quindi di impegnare due fine settimana e le giornate nel
mezzo: nove giorni in totale. Questa durata spropositata, fu l’elemento
vincente della Festa, e permise ai privati che gestivano i vari stand di poter
115 Cit dell’omonimo libro di Massimo Montanari “La fame e l’abbondanza”.
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finanziare le loro operazioni. Alcuni di questi gestori erano le varie
Associazioni Culturali presenti nel territorio cittadino, talune più datate,
altre create ex-novo proprio in virtù della partecipazione alla Festa.
Il principio base da cui partiva l’amministrazione comunale era questo:
erano i forlimpopolesi che dovevano far diventare la Festa Artusiana una
festa forlimpopolese. Occorreva far si che lo spirito della comunità,
dell’identità comunale emergesse al di sopra dell’evento in se. Decisero
allora di puntare sul lavoro volontario, da parte delle associazioni, lavoro
che non avrebbe gravato sulle spese a carico del comune e che avrebbe
portato beneficio e finanziato le associazioni stesse, culturali e sociali volte
al bene della comunità. “La chiave del successo sono stati i cittadini – dice
M. Castagnoli – che se ne sono appropriati e che lavorano per la Festa,
obbedendo solo ad alcuni principi generali posti dall’amministrazione
comunale: cibo di qualità e del territorio, spettacoli (musica acustica e
popolare, danza, teatro ecc), tutto nell’intorno della cucina e del concetto di
gastronomia in generale. Tutta Forlimpopoli ha partecipato a questo
progetto ed ognuno ha contribuito attraverso il proprio modo di essere.”
Alcuni significati esempi sono state le varie iniziative volte alle cucine
etniche quali ebraica, musulmana, africana, argentina, indiana, grazie al
contributo delle varie comunità straniere presenti nel territorio. Citiamo
questo tipo di iniziative perché sono tutte volte all’integrazione, al dialogo,
al rispetto reciproco e alla fraterna convivenza tra i popoli.
Con il passare degli anni, la Festa ha guadagnato spazi all’interno della
città, arrivando ad occupare tutta l’area del centro storico, ed è stato un
successo di pubblico tale per cui ha assunto il ruolo di festa del paese,
soppiantando nell’immaginario cittadino la pluriennale Segavecchia.
Concludendo, chiamiamo in causa ancora una volta Artusi che, nel
codificare la cucina italiana, effettua una codifica in maniera indiretta: la
cucina di Artusi è una cucina culturale, storica, che raccoglie i frutti culinari
del percorso storico che il nostro Paese ha compiuto dal Medioevo in poi.
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L’elaborazione dei piatti da parte di Artusi segue un percorso di rispetto
della cultura, delle tradizioni, delle stagioni e della materia prima, ossia del
cibo: la cucina italiana è una cucina con mille anni di tradizione alle spalle,
ed è proprio il risultato dell’incrocio tra culture contadine e culture nobili
che genera i vari piatti caratteristici regionali, più o meno complessi che
siano. La cucina italiana dell’Artusi è una cucina di ricette regionali e
tipiche. Nella sua opera non codifica, per esempio, un unico piatto di
tagliatelle, ma afferma che vi è una diversità effettiva di piatti e ricette, e
che questa diversità è il vero reale valore della cucina italiana. Volendo
recuperare con Casa Artusi il valore della cucina domestica tipica,
moltiplichiamo questa diversità.
Come già detto, non avendo Forlimpopoli – o il territorio circostante –
un prodotto tipico di forte appeal ed unico, Casa Artusi si porrà come
catalizzatore della territorialità nazionale. Il progetto ha sin da subito
riscontrato pareri positivi, sia da parte di esperti che da parte della comunità
forlimpopolese, perché essendo Forlimpopoli terra di commercianti con uno
spiccato senso creativo e d’immagine, permetterà a Casa Artusi di essere il
luogo adatto in cui tutti, nel nome dell’Artusi stesso, potranno pubblicizzare
e rendere noti i loro prodotti tipici. “Quando parliamo di prodotto tipico,
poniamo l’accento sul prodotto di stampo artigianale, contadino, senza
però voler demonizzare o discreditare il prodotto industriale di qualità (si
pensi alla Barilla, per esempio)”, sottolinea l’ex-Sindaco Castagnoli. Anzi,
se un prodotto ottiene poi il marchio, il timbro adottato da Casa Artusi,
questo sigillo non può essere altro che un valore aggiunto per il prodotto
stesso, un segno distintivo, un di più, una griffe.
“Questo è l’ultimo gradino che abbiamo pensato. Sarà il successo della
Festa Artusiana e di Casa Artusi, se sapranno diventare ancora più
importanti di quello che di per sé già sono, a determinare l’importanza
della griffe, del marchio Casa Artusi”.
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4.2 La Festa Artusiana.
La prima edizione della Festa Artusiana risale all’anno 1997.
“La cosa paradossale è che non siamo partiti, come sarebbe stato
normale, con un progetto di marketing. – ricorda Laila Tentoni,
responsabile dell’ufficio Cultura di Forlimpopoli – Siamo partiti in maniera
molto empirica, convinti, sicuri che la strada fosse già assegnata e che un
progetto di consulenza esterno non potesse darci tanto di più di quello che
già avevamo in mente116”.
Sostanzialmente il comune si trovava ad avere tra le mani un grande
nome (quello dell’Artusi), il cui libro, tradotto in svariate lingue, era stato
best seller ed aveva ricevuto riconoscimenti importanti in diversi paesi
europei (Olanda, Germania ecc), Stati Uniti ed altri paesi dell’America
Latina. Occorreva valutare come spendere questo nome.
Un primo passo, come già accennato in precedenza, è stato riunire quelli
che, secondo l’amministrazione, erano i massimi esperti in materia di
cultura del cibo (Montanari, Portinari, Capatti ecc) e studiosi dell’opera
artusiana. Da questa riunione di cervelli emersero alcune direttive che
sarebbero poi state le basi portanti su cui fondare tutto il progetto Festa
Artusiana e, successivamente Casa Artusi. Non essendo interessati a fare
della filologia artusiana (non si poteva pretendere di proporre l’Artusi in
quanto attualità delle sue ricette, datate 1891), l’amministrazione intendeva
recuperare i principi che fanno dell’Autore un vero e proprio profeta: cucina
di stagione, cucina del territorio e qualità dei prodotti.
116 Tratto da un’intervista (a cura dell’autore della medesima relazione, effettuata in data 20/11/2006) al responsabile dell’ufficio Cultura del Comune di Forlimpopoli, Laila Tentoni.
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“Tutte le situazioni legate alla Festa Artusiana non sono luoghi di
culto dell’Artusi, persino Casa Artusi non sarà un luogo di culto,
bensì un luogo di cultura117.”
In quanto luoghi di cultura l’amministrazione decise di adottare un
doppio punto di vista parlando di cibo – come detto in precedenza –, un
doppio binario costituito da gastronomia e da solidarietà; massima
espressione di questa filosofia è il Premio Artusi.
La città di Forlimpopoli, in onore del concittadino Pellegrino Artusi,
attribuisce ogni anno dal 1997 due Premi Artusi118, consistenti nella somma
di Euro cinquemila:
• un premio ad un personaggio che a qualsiasi titolo si sia distinto
per l’originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra
uomo e cibo, privilegiando coloro che hanno fatto della lotta alla
povertà ed alla denutrizione una ragione di impegno quotidiano;
• un premio ad un grande cuoco di fama internazionale che abbia
come finalità la valorizzazione della cucina di qualità e del
territorio.
La giuria è composta da esperti di chiara fama: Adriano Agnati, Alberto
Capatti, Franco Iseppi, Franco Mambelli, Massimo Montanari, Carlo
Petrini, Folco Portinari119.
L’amministrazione ha cercato di mantenere sempre un doppio livello: da
una parte esperti e grandi nomi che seguissero la parte prettamente culturale,
quale i Premi, l’assegnazione degli stessi e i Convegni, che di rito, aprono
l’evento ; dall’altra ha sempre cercato di mantenere un livello assolutamente
117 Ibidem. 118 Per approfondimenti vedi Appendice, tratto dal sito www.pellegrinoartusi.it 119 Cit, da Festa Artusiana, programma 2006.
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popolare (senza, citando M. Castagnoli, dover per forza organizzare la
sagra di paese), per coloro che intendevano fruire gli spazi della Festa, gli
spettacoli, la musica, le degustazioni, senza voler approfondire,
necessariamente, l’aspetto della cultura alimentare.
Questa dicotomia cervello-stomaco, ovvero cibo come cultura e come
nutrimento materiale, è una delle formule chiave del pensiero che
accompagna la Festa Artusiana.
Il Premio Artusi, il Convegno (oltre ad iniziative e laboratori del gusto)
sono sempre stati i punti fermi, irremovibile, che sin dal principio hanno
caratterizzato questa manifestazione. Una cosa che – in maniera se vogliamo
naturale – mancava nei primi anni di svolgimento, era l’adesione di tutte
quelle associazioni che ora costituiscono la vera e propria forza e risorsa.
Racconta L. Tentoni: “… Era fuori da ogni discussione che il primo
fattore di sviluppo su cui puntare fossero le associazioni presenti nel
territorio forlimpopolese. Questa operazione di coinvolgimento è stata
perseguita in maniera leggera ma costante, nel corso di dieci anni,
cercando di ascoltare anche – e soprattutto – le critiche che venivano
mosse: ad esempio, a livello amministrativo, nei primi anni, la Festa era
partita con il voto da parte della maggioranza e con tutte le minoranze a
sfavore. Nel tempo, cercando di ascoltare le critiche, abbiamo smussato gli
angoli di scontro, corretto un poco le cose, ed oggi la Festa Artusiana è una
di quelle iniziative votate all’unanimità dal consiglio comunale. In sostanza
ci siamo portati dietro il paese, ed abbiamo cercato di far sentire promotori
della Festa120, non solamente il comune di Forlimpopoli, ma anche tutti
quegli enti ed associazioni – cittadine e non – che da tempo fanno
operazioni di salvaguardia dei prodotti del territorio, operazioni di cultura
gastronomica ed interventi importanti sulla salvaguardia della
biodiversità.” 120 Da notare che nell’opuscolo esplicativo del programma della Festa Artusiana, sotto la voce Organizzazione della Festa Artusiana v’è accreditata la Città di Forlimpopoli.
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L’amministrazione ha quindi cercato di abbinare all’Artusi, come
garanzia di prodotto di qualità, tutte quelle associazioni121, enti, consorzi
che in quella precisa direttiva, di salvaguardia e recupero, si muovono.
L’ultimo successo in ordine temporale, rispetto al nome Artusi che
diventa un marchio, è stata la presentazione di Casa Artusi al Salone del
Gusto 2006 di Torino (26/30 Ottobre)122, e l’organizzazione da parte delle
Regione Emilia-Romagna di un’iniziativa unicamente incentrata, sera dopo
sera, su menù e prodotti di qualità (aceto balsamico, formaggio di fossa,
prosciutto di Parma …) con testimonial, per l’appunto, Pellegrino Artusi.
La presentazione da parte dell’assessore regionale all’Agricoltura
Tiberio Rabboni ha assicurato che Casa Artusi è uno dei progetti prioritari
regionali, in quanto il lavoro svolto per il progetto stesso ed il lavoro svolto
con l’organizzazione della Festa Artusiana, godono della piena adesione e
fiducia della Regione, in quanto è stata riconosciuta la bontà delle azioni
perseguite da Forlimpopoli, con una direttorio iniziale che è risultata quella
corretta, ed in piena sintonia con il pensiero ed il movimento Slow Food.
Ritornando al discorso delle associazioni che collaborano
all’organizzazione della festa, è bene ricordare che ognuna di esse, di anno
in anno, ha elaborato proposte in piena sintonia con il progetto generale;
molti ristoranti creati ex-novo per la Festa sono gestiti da associazioni di
volontariato, e quindi da persone facenti parte di tali associazioni, che
propongono cucina locale e del territorio, sera dopo sera, anno dopo anno,
migliorando sempre più la qualità culinaria dei loro prodotti.
“In questo senso abbiamo fatto una scommessa – dice L. Tentoni –
perché ricordando che l’Artusi non scriveva per i ristoranti, bensì per le
case (e le casalinghe), abbiamo cercato di rispettare il verbo artusiano
facendo capire che nelle nostre case si mangia bene e che si è così bravi da
poter allargare questa ospitalità anche all’interno della Festa stessa. È 121 Per elenco degli altri soggetti coinvolti nel progetto Festa Artusiana, vedi Appendice. 122 Per approfondimenti sulle altre Azioni Programmate vedi Appendice.
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vero, alcune situazioni sono gestite da professionisti, ma molte di quelle
presenti sono completamente in mano ad appassionati, a buongustai per
vocazione, ed il risultato è che la qualità della gastronomia è più che
buona, basti pensare al tutto esaurito che i ristoranti si trovano ad
affrontare sera dopo sera!”.
Chiamiamo nuovamente in causa la mission di Casa Artusi, primo centro
gastronomico dedicato alla cucina domestica, alla cucina di casa, per
collegarci a quella figura, Marietta Sabatini (fiorentina), che nella lunga vita
dell’autore ricoprì un ruolo a dir poco essenziale: insieme al cuoco
Francesco Ruffilli (forlimpopolese) era l’indiscussa regina della cucina.
Proprio a lei, Forlimpopoli dedica un altro premio: ogni anno nel corso della
Festa Artusiana viene assegnato il Premio Marietta123, un premio
internazionale intitolato alla collaboratrice di Pellegrino Artusi, assegnato
ad una donna o ad un uomo di casa, abile artefice – nello spirito di
Pellegrino e Marietta – di ghiottonerie domestiche. Il Premio è organizzato
in collaborazione con Bennet. I cinque finalisti selezionati dalla giuria
procedono alla esecuzione del piatto e a tutti vengono assegnati 15 kg di
pasta Bennet ed al vincitore la somma di Euro mille124.
“Il Premio Marietta – sottolinea Laila Tentoni, responsabile dell’ufficio
Cultura – è in un certo senso una scelta strategica da parte
dell’organizzazione. Artusi scriveva per le casalinghe (borghesi
dell’Ottocento) ed abbiamo deciso di puntare sulla figura di Marietta,
proprio come figura emblematica, che dedica tempo alla cucina per il bene
dei familiari, che esprime il proprio affetto, anche, attraverso il cibo. Da
qui la decisione di dedicarle un Premio, e dall’edizione 2005 abbiamo
istituito un Premio Marietta ad honorem, premiando chi in qualche modo
123 Per approfondimenti vedi Appendice, tratto dal sito www.pellegrinoartusi.it 124 Cit, da Festa Artusiana, programma 2006.
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ha valorizzato la cucina di casa, o con un lavoro di studio, oppure
mantenendo aperta una tradizione importante.”
Sicuramente Premio Artusi e Premio Marietta, sono elementi che
possono indurre curiosità ed interesse da parte dei turisti.
La voce turismo nel bilancio di Forlimpopoli non era mai apparsa prima
di un paio di anni fa; è un fatto molto recente legato soprattutto al grande
traino della Festa Artusiana. Forlimpopoli, come già detto in precedenza,
non possiede particolari attrattive, non è un paese a vocazione turistica.
Il riscontro del successo dell’ultima edizione della Festa è verificabile
attraverso i seguenti dati125:
• numero delle presenze nei nove giorni della Festa: da 60.000 a
80.000 circa;
• numerose visite ai beni artistici e architettonici, quali museo e
Chiesa dei Servi, complessivamente n. 800 ca, per i quali si è
provveduto all’aumento della apertura al pubblico di tre ore per
tutte le giornate della Festa, compresa l’apertura dell’ufficio
turistico;
• pernottamenti e n. pasti realizzati dai ristoratori ed albergatori
della città che hanno dichiarato soddisfazione e verificato
l’incremento delle presenze grazie all’indotto della Festa stessa:
n. 110 pernottamenti e n. pasti 1800 ca. in più della situazione
ordinaria;
• dall’interesse della stampa e delle tv sia locali che nazionali126.
Il successo ottenuto non nasconde un dato: l’affluenza di pubblico è
composta dai forlimpopolesi stessi (non è una dato scontato perché i 125 Tratto da: L.R. N. 7/98 – Programma Turistico di Promozione Locale 2007; Progetto di Valorizzazione Turistica Locale Integrata e di Promozione dei Territori e delle Destinazioni; Forlimpopoli. 126 Per approfondimenti vedi Appendice.
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cittadini di Forlimpopoli si sono sempre dimostrati abbastanza restii nel
partecipare ad iniziative promosse dal comune) che hanno preso l’abitudine
di frequentare il centro storico durante le nove sere di Festa; altri utenti
(pochi in realtà) sono costituiti dai turisti residenti nelle zone turistiche
marittime; un numero decisamente più cospicuo ed importante è costituito
dai cittadini dei comuni romagnoli – più o meno vicini – che decidono di
visitare l’evento. Comunque sia possiamo dire che la Festa Artusiana gode
di un bacino di utenza sicuramente più che regionale.
Per quanto riguarda il fattore età, sino ad un paio di anni addietro il
pubblico era composto per lo più da famiglie con bambini, adulti ed anziani;
il pubblico giovane è un target nuovo, che l’amministrazione è riuscita a
coinvolgere (dal 2005 e nel 2006 in particolare) grazie ad alcune correzioni
svolte con iniziative più particolari, giovanili, quali la “Birreria –
stuzzicheria – wine bar” (gestita dall’Associazione Protezione Civile),
“L’Osteria d’E Goz” (dove rivive la vecchia osteria romagnola tra insulti e
goliardate, a cura dell’Associazione E Goz) e la “Freschineria” (a cura del
Comitato Valorizzazione del Centro Storico127).
La mancanza di una politica turistica non ha compromesso né
l’andamento né il successo della Festa. Da notare comunque il tentativo del
comune, in collaborazione con altri comuni della zona, di creare pacchetti
turistici che intrecciassero le varie realtà presenti nel territorio,
dall’enogastronomia la benessere, dallo sport alla culture, al tempo libero,
con punto fermo di ogni itinerario la visita serale alla Festa Artusiana.
“Nonostante lo sforzo da parte di vari comuni, i risultati sono stati molto
modesti, costruiti con una piccola forza. Le motivazioni sono varie, per
esempio la Festa Artusiana cade in un periodo in cui l’anno scolastico è
appena terminato, in cui l’affluenza di turismo nella Romagna in generale è
ancora abbastanza limitato (fine giugno); altro fattore da non dimenticare è
127 Meglio conosciuti come quelli del Bar Sport!
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che seppur la durata di nove giornate (dalle h. 20 alle 24) sia una durata
ampia, che permette lo sviluppo di diversi eventi e scenari all’interno della
Festa, risulta essere ben poco tempo per poter organizzare pacchetti
turistici per i più svariati gusti”, sottolinea Mauro Grandini assessore alla
Cultura di Forlimpopoli, aggiungendo che il territorio riesce a dare risposte
per il 17-18% della domanda complessiva128.
Tutt’altro scenario si prospetterà con l’inaugurazione di Casa Artusi: la
Festa è nata proprio come apripista, come momento di attesa per far capire
le potenzialità della città di Forlimpopoli, in relazione al cibo e alla
gastronomia, che ha catalizzato attorno a se una serie di collaborazioni
importanti ed interessanti. Tutto questo lavoro di comunicazione e di
promozione dovrà confluire in maniera sistematica, e non solo per nove
giorni l’anno, a Casa Artusi e, grazie alla medesima, sarà poi rilanciato e
ridistribuito su tutto il territorio regionale.
“Per il progetto Casa Artusi abbiamo coinvolto la provincia - che
rappresenta tutti i comuni - e la regione - che rappresenta tutte le province -
ed effettivamente vi è la consapevolezza che tramite l’Artusi, ciascuno di
questi comuni potrà godere di quel valore aggiunto, nella costruzione e
nella programmazione di pacchetti turistici territoriali” dice L. Tentoni ed
aggiunge: “Casa Artusi non vuole essere un centro autoreferenziale, vuol
essere un centro in cui i turisti possono trovare tutte le informazioni
necessarie su un territorio ampio; ricordiamo che Casa Artusi fa parte di
quello che si chiama ‘Patto d’area’, un progetto di finanziamento da parte
della regione, che riguarda il sostegno ad aree cui non sono stati elargiti
alti finanziamenti. Questo ‘Patto’ ha ricevuto l’adesione di tutti i comuni
del territorio, i quali hanno condiviso che la nascita di Casa Artusi a
Forlimpopoli, possa costituire interesse concreto per la provincia di Forlì-
Cesena, e la stessa regione Emilia-Romanga”. 128 Tratto da un’intervista (a cura dell’autore della medesima relazione, effettuata in data 9/10/2006) all’assessore alla Cultura del Comune di Forlimpopoli, Mauro Grandini.
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Elenchiamo alcune proposte di possibili pacchetti turistici nel territorio
romagnolo durante la Festa Artusiana129:
• Pacchetto benessere: con l’apertura nella prossima primavera
delle terme della Fratta e la presenza delle terme di Castrocaro
sarà possibile abbinare pacchetti benessere e relax con
degustazioni a Casa Artusi e visite serali alla Festa Artusiana;
• Pacchetto Palmezzano: ripercorrendo gli itinerari studiati per la
mostra inaugurale del San Domenico si propongono visite
guidati ai luoghi del Palmezzano (Forlì, Forlimpopoli,
Castrocaro, Brisighella);
• Pacchetto Silvestro Lega: un fine settimana alla riscoperta della
terra che fu di Silvestro Lega e dei luoghi che lo ispirarono,
rivisitato dalla mostra a lui dedicata al San Domenico la
prossima primavera;
• A tutta festa: si vive di notte nella tradizione romagnola! Visite
alla Festa Artusiana a Forlimpopoli, alla festa di San Giovanni a
Cesena e alle feste medioevali di Brisighella. Durante il giorno
alla scoperta dei paesi che ospitano le feste e alla sera
passeggiate negli stessi luoghi animati dalle più belle feste della
Romagna;
• Pedalar gustando: si propongono itinerari in bicicletta con
partenza e arrivo a Forlimpopoli alla scoperta dei luoghi e dei
sapori del territorio. Ogni percorso, di differente difficoltà,
prevede delle gustose tappe nelle più rinomate aziende agricole e
vitivinicole del territorio dove sarà possibile assaggiare i cibi e i
vini della tradizione romagnola;
129 Tratto da: L.R. N. 7/98 – Programma Turistico di Promozione Locale 2007; Progetto di Valorizzazione Turistica Locale Integrata e di Promozione dei Territori e delle Destinazioni; Forlimpopoli.
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• Dal mare alla montagna: Forlimpopoli è a mezza via tra gli
Appennini e l’Adriatico, per chi non vuol farsi mancare nulla un
fine settimana alla scoperta delle attrazioni della costa romagnola
e della tranquillità del Parco Nazionale delle Foreste
Cesenatinesi, con tappa serale per rifocillarsi e rilassarsi in
allegria a Casa Artusi e alla Festa Artusiana.
Gli obiettivi a finalità turistiche che il comune persegue sono130:
• Promozione dell’enogastronomia dei prodotti tipici, delle
tradizioni alimentari che, grazie al valore aggiunto offerto dal
nome dell’Artusi, vengono proposti, in piena collaborazione con
i Consorzi di tutela, Associazioni di categoria, Comuni, dalla
Città di Forlimpopoli per valorizzare l’intero territorio
romagnolo ed attirare un numero crescente di turisti attratti dalla
cultura e dai percorsi di qualità;
• L’enogastronomia quindi può essere considerata come cultura
del territorio che deve diventare un prodotto turistico sempre più
specifico e di qualità. Per raggiungere tali finalità si lavorerà
anche in sinergia con Club di Prodotto, Strada dei vini e dei
sapori dei colli di Forlì-Cesena;
• Conoscenza del territorio dal punto di vista culturale-artistico
con organizzazione di visite guidate da personale specializzato.
Questo progetto si propone di integrare e di dare evidenza delle
eccellenze turistiche del territorio e dei prodotti enogastronomici locali in
linea con quanto riportato nel programma d’area “Parco nazionale delle
Foreste Cesenatinesi, Valle del Bidente e Forlimpopoli” in direzione della
130 Tratto da: L.R. N. 7/98 – Programma Turistico di Promozione Locale 2007; Progetto di Valorizzazione Turistica Locale Integrata e di Promozione dei Territori e delle Destinazioni; Forlimpopoli.
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realizzazione di Casa Artusi, che dal giorno dell’apertura sarà il punto di
riferimento stabile della cultura enogastronomica del territorio. In base a
questo programma d’area si lavora maggiormente sul comparto “Appennino
e verde” per la condivisione di finalità e risorse in quanto progetto
finalizzato ad attrarre l’interesse di un turismo rurale, enogastronomico e
delle tradizioni, tramite la valorizzazione dei prodotti tipici e
l’organizzazione di eventi di richiamo131.
Ridefinendo, durante il periodo della Festa, la toponomastica del centro
storico in base al nome ed al manuale dell’Artusi, la città trova una sorta di
reificazione de La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, assume
connotati diversi: il manuale diventa strada e si fa proposta132.
Piazza Garibaldi, ospitando “I Tesori del Territorio ” e “Le Città dei
Sapori” diventa, “Piazza Pellegrino Artusi”, sinonimo qualità:
• I Tesori del Territorio: quella artusiana vuole essere una festa
militante a difesa e tutela dei prodotti di qualità: trovano
ospitalità in Piazza Pellegrino Artusi i prodotti a marchio,
tradizionali, tipici, ovvero quelli che rappresentano la massima
garanzia di genuinità, legame col territorio, all’interno di una
produzione agro-alimentare rispettosa dell’ambiente naturale e
culturale d’origine. Ogni sera un prodotto, discusso e degustato
trova ospitalità in questa vetrina della produzione d’eccellenza
della nostra Regione.
• Le Città dei Sapori: sempre in Piazza Pellegrino Artusi le città
ospiti, amiche di Forlimpopoli e dell’Artusi, presentano sapori di
lunga tradizione. Delle città si raccontano i profumi, gli aromi, i
prodotti che appartengono a tradizioni lontane, ottenuti nel tempo 131 Cit. Tratto da: L.R. N. 7/98 – Programma Turistico di Promozione Locale 2007; Progetto di Valorizzazione Turistica Locale Integrata e di Promozione dei Territori e delle Destinazioni; Forlimpopoli. 132 Per approfondimenti riguardo la mappa 2006 della Festa vedi Appendice.
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dal lavoro quotidiano di uomini e donne. La saggezza della
cultura materiale ha costruito sapori importanti, taluni semplici e
raffinati, altri forti e pungenti, comunque autentici perché
disegnano l’arte e l’architettura della cultura gastronomica133.
Piazzale Paolucci (la piazza delle Poste) si trasforma in “Piazza del
Biologico”: uno spazio dedicato al modo del biologico, ovvero la nuova
frontiera nella difesa di un’alimentazione sana. Rispettosa del territorio e
delle sue tradizioni, con l’obiettivo di creare un forte richiamo a livello
nazionale, che coinvolga qualificate aziende locali e non, allo scopo di
aprire una finestra sul biologico italiano per evidenziarne, oltre alle note
caratteristiche ecologiche e salutistiche, anche la forte attenzione verso la
qualità, la tipicità e l’eticità del prodotto134.
Le strade e le piazze del centro storico assumeranno connotati del
manuale artusiano: Piazza Pompilio sarà “Piazza della Marietta”, dedicata
alla tipica cucina di casa; Via Veneto diventerà “Via degli Erbaggi”,
caratterizzata dagli stand assegnati ai produttori di ortofrutta; proseguendo
verso Via Sendi, che sarà titolata “Via di tutte le Salse”, arriveremo a Via A.
Costa nominata “Via dei Gelati, Liquori e Siroppi135”, dove sono collocate
le proposte gastronomiche di ambulantato in sintonia con il nome della
strada. Via Saffi e la parallela Via Oberdan ospiteranno il circuito di “Via
delle Cose Diverse”, che ripropone il classico mercato alimentare, con
bancarelle di prodotti tipici provenienti da altre regioni, e dove trova
collocazione Cucina dal mondo, uno spazio interamente dedicato alle varie
etnie presenti nella città di Forlimpopoli, dove ogni sera vengono proposti
133 Tratto da: L.R. N. 7/98 – Programma Turistico di Promozione Locale 2007; Progetto di Valorizzazione Turistica Locale Integrata e di Promozione dei Territori e delle Destinazioni; Forlimpopoli. 134 Tratto da: L.R. N. 7/98 – Programma Turistico di Promozione Locale 2007; Progetto di Valorizzazione Turistica Locale Integrata e di Promozione dei Territori e delle Destinazioni; Forlimpopoli. 135 Siroppi e non sciroppi, proprio come è scrive Artusi nel libro.
- 95 -
cibi tipici stranieri in sintonia con lo spirito di integrazione e solidarietà
presente in tutta l’idea della Festa Artusiana.
“La vera sfida che l’amministrazione si è posta è l’integrazione,
cercare di integrare sviluppo del territorio, iniziative culturali,
iniziative gastronomiche e patrimonio storico-archeologico, integrare
tutte queste realtà in un unico progetto di città che trova il suo fulcro
nella figura dell’Artusi. È un fattore di conoscenza rispetto alla
cultura dei popoli. Il cibo è un bisogno primario nell’uomo.
Forlimpopoli non fa altro che stimolare, ridare vita al processo di
conoscenza nei confronti del cibo e della cultura legata al cibo, che
nell’ultimo ventennio è andata – in parte – perduta a causa
dell’influsso delle multinazionali che governano il sistema alimentare;
d’altra parte tante persone e tanto gruppi organizzati stanno
scontrandosi contro questa folle realtà, promuovendo iniziative e
prodotti, sani e unici136”.
4.3 Casa Artusi.
Casa Artusi si inserisce in un progetto culturale-economico-urbanistico
più generale, denominato “Città Artusiana” in base al quale Forlimpopoli da
alcuni anni ha deciso di ridefinire la propria identità culturale mettendo a
frutto la principale risorsa potenziale di cui la città gode, ovvero essere il
luogo natale di Pellegrino Artusi, padre riconosciuto della cucina italiana.
Se le varie iniziative già intraprese, come la Festa Artusiana, il Premio
Artusi, il gemellaggio con la città francese di Villeneuve-Loubet, città natale
del grande chef creatore della gastronomia francese Auguste Escoffier,
hanno richiamato l’attenzione di numerosi appassionati e cultori, con Casa
136 Cit. Mauro Grandini, assessore alla Cultura.
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Artusi si intende costituire un centro di aggregazione permanente ed
attribuire a Forlimpopoli in maniera inequivocabile l’immagine di città
vocata alle tematiche della cultura gastronomica.
Casa Artusi verrà realizzata all’interno dell’isolato della chiesa dei Servi
nel centro storico di Forlimpopoli. L’intero isolato (anticamente un
convento con annessa la chiesa) ha una lunga storia che inizia nel
Medioevo. Le varie costruzioni che oggi lo compongono sono il risultato di
una serie di trasformazioni, spesso modeste, ma a volte consistenti, che
hanno cambiato ripetutamente l’aspetto dell’isolato stesso nel corso dei
secoli, prima con progressivi ampliamenti, poi con interventi radicali che
hanno modificato le strutture del convento sino alla seconda metà
dell’Ottocento. Tale complesso, che riveste particolare importanza storica e
simbolica per Forlimpopoli, si presta in modo del tutto appropriato ad
ospitare la sede. Dal punto di vista dello spazio e dell’architettura più in
generale, il complesso, pur essendo vincolato e quindi non suscettibile di
radicali trasformazioni, è idoneo, con i suoi oltre 2.000 mq di area, oltre la
corte e la bella chiesa dei Servi, alla funzione cui dovrà essere adibito137.
Casa Artusi è il primo centro di cultura gastronomica dedicato alla
cucina domestica italiana, con funzione di documentazione antica (fondi
gastronomici dell’800 e ‘900) e contemporanea (sito internet), di
divulgazione (corsi, conferenze) e di sperimentazione (piatti e ricette delle
regioni e località italiane eseguiti nel laboratorio, serviti nella sala da
pranzo). Non si pone in concorrenza con altre sedi e iniziative dedicate alla
cucina italiana da un punto di vista professionale, data la sua natura
eminentemente storico-culturale e la sua specializzazione – in linea con la
tradizione artusiana – nell’area delle pratiche domestiche, un patrimonio
culturale di cui è evidente l’importanza ai fini non solo conservativi ma
educativi e didattici. 137 Casa Artusi, linee progettuali definite dal Comitato Scientifico e approvate dalla Giunta Municipale con atto n. 211 del 13/9/03.
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Sarà un centro polifunzionale strutturato come una grande abitazione in
cui sono presenti una cucina (laboratorio), una sala da pranzo, una biblioteca
(fondo artusiano e civica), un salotto e sale per incontri e mostre tematiche.
La chiesa adiacente è parte integrante del progetto e potrà ospitare mostre,
concerti e altre manifestazioni.
Casa Artusi avrà anche un’impronta moderna e tecnologica: discoteca,
cineteca, biblioteca (cartacea e informatica), iconoteca riprodurranno tutto il
materiale disponibile, opportunamente selezionato in virtù della missione
del Centro. Un sito internet informerà i lettori sull’opera di Pellegrino Artusi
mettendo in consultazione tutte le edizioni (la prima del 1891 e le
successive tredici) della Scienza in cucina. Il sito avvierà, in tempi
ravvicinati, una posta con lettrici e lettori in cui risponderà a quesiti
gastronomici, richieste di ricette, informazioni sulla cucina di casa,
riproducendo, con le moderne tecnologie elettroniche, la stessa metodologia
di scambio epistolare di cui si servì Artusi per la compilazione e
l’arricchimento del suo ricettario. Si costituirà in tal modo una banca dati
delle ricette domestiche italiane, che le lettrici e i lettori contribuiranno ad
alimentare dietro precisa sollecitazione (“inviateci le ricette di casa
vostra!”).
Non si tratterà quindi di un museo statico, bensì dinamico, con una
identità culturale forte, in piena integrazione con il territorio e i suoi
prodotti. Non si vuole “imbalsamare” l’Artusi, ma renderlo vivo e vegeto
nel contesto attuale. Saranno presenti alcuni “cimeli” e tracce della memoria
biografica del personaggio, ma inserite in un percorso di diffusione a tutti i
livelli (didattici, di larga divulgazione, di pratica, di esercizio, di
ristorazione, di formazione, di produzione di oggetti e di eventi) della
cultura e della pratica gastronomica italiana, in cui tutti i sensi potranno
- 98 -
essere esercitati, compreso un “sesto senso”, l’intuizione, che nella
preparazione e nel consumo del cibo non è forse meno necessario138.
L’eredità di Pellegrino Artusi – appassionato di buone letture, filantropo,
grande sperimentatore delle buone pratiche di cucina domestica, famoso in
tutto il mondo per aver scritto un libro (o meglio 14 versioni dello stesso
libro, che quasi si identifica con lo stesso nome dell’autore: “l’Artusi”,
presente, unto e bisunto, forse in quasi tutte le case degli italiani) – viene in
tal modo investita dalla sua città natale in un progetto polifunzionale vivo ed
attivo.
Non senza tener conto della forte crisi della cucina domestica, esso
ripropone come modello la cucina di casa, fatta non di regole e codici
immutabili, bensì di sperimentazione, di insegnamenti e di pratica concreta,
che si reinventano e si riscrivono quotidianamente. Con questo si ricorda
anche la fedele cuoca Marietta, figura centrale nell’opera e fortuna
dell’Artusi, a cui Forlimpopoli dedica da anni un Premio nazionale riservato
ai non professionisti.
Al tempo stesso ripropone l’idea del libro – un libro in cucina – come
tramite essenziale per la trasmissione anche della tradizione orale facendosi
promotrice di un progetto culturale assolutamente originale. Al suo interno,
la Cucina e la Biblioteca sono i due luoghi simbolici che, rincorrendosi e
interagendo l’uno con l’altro, danno senso e unità al tutto.
Pertanto Casa Artusi è aperta a tutti coloro che , appassionati e curiosi,
casalinghe e “cuciniere”, professionisti e cultori, studiosi e ricercatori
vogliano approfondire la cultura e la pratica della cucina domestica139.
Gli spazi di Casa Artusi, usufruibili anche disgiuntamente,
rappresentano un continuum ideale e materiale, attraverso un percorso
coerente legato al cibo.
138 Casa Artusi, linee progettuali definite dal Comitato Scientifico e approvate dalla Giunta Municipale con atto n. 211 del 13/9/03. 139 Ibidem.
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La Biblioteca Artusiana140:
La biblioteca civica esistente a Forlimpopoli porta il nome dello stesso
Artusi perché nata in virtù di una clausola del suo testamento, ove si
stabiliva che tutti i volumi lasciati in eredità al Comune avrebbero dovuto
servire quale “fondamento e principio alla formazione di una pubblica
biblioteca da istituirsi a Forlimpopoli”. Essa sta già potenziando la sezione
eno-gastronomica e troverà adeguata sistemazione nei locali dell’isolato
della chiesa dei Servi. Nella biblioteca di Casa Artusi, oltre a quella civica
troveranno ospitalità:
Collezione Artusiana:
• “l’archivio Pellegrino Artusi” che consiste di: carteggio (oltre
450 documenti di corrispondenza con amici, colleghi, lettori,
editori); carte patrimoniali; autografi delle opere “Appunti
preparatori per la ‘Vita di Ugo Foscolo’”, “vita di Ugo Foscolo.
Nota al carme dei sepolcri”, e documenti diversi; la produzione
video sulla vita dell’Artusi e altri materiali realizzati nel 1991, in
occasione del centenario del libro, con la mostra “La cucina
bricconcella”.
• la libreria di Artusi (“Fondo Pellegrino Artusi”), ovvero i 400
volumi lasciati al Comune quale fondamento della Biblioteca;
• tutte le edizioni, in originale o in riproduzione, della Scienza in
cucina, e tutte le traduzioni in lingua straniera;
• tutti gli studi e la letteratura sull’Artusi e dintorni
Raccolta di gastronomia italiana:
• una collezione “storica”, retrospettiva e corrente, di libri coerenti
e/o contestuali con l’idea diffusa dall’Artusi (la cucina di casa, 140 Casa Artusi, linee progettuali definite dal Comitato Scientifico e approvate dalla Giunta Municipale con atto n. 211 del 13/9/03.
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“borghese”, familiare, economica): trattati, ricettari, libri di casa
ma anche saggi storici, antropologici, sociali sull’argomento
specifico e su quelli correlati.
• Una collezione di riviste: le poche “storiche” e retrospettive e le
principali e più importanti fra le correnti, garantendo tutti i livelli
di trattazione e lettura, da quello della buona divulgazione a
quelle legate alle organizzazioni “classiche” (Gambero Rosso,
SlowFood, Accademia Italiana della Cucina) a quelle
professionali e di categoria, specie se legate alle attività culturali
e formative di Casa Artusi;
• Una collezione di documenti multimediali rispondente alle
medesime caratteristiche: videocassette e dvd (film di soggetto
gastronomico e a carattere documentario); cd-rom (banche date e
bibliografiche, cataloghi di biblioteche specializzate,
enciclopedie, dizionari e altri cd-rom di divulgazione);
• Un allestimento di postazioni internet organizzato e predisposto
per facilitare il collegamento e l’accesso ai siti, divulgativi e di
ricerca, alle banche dati specializzate, a istituzioni, associazioni
professionali, facoltà e istituti universitari, a disposizione sia di
studiosi e ricercatori, sia di semplici cultori, appassionati, curiosi.
Sarà operativo, in collaborazione con l’Istituto per i Beni
artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, il
Portale “Le chiavi di casa Artusi”, porta d’ingresso di risorse
web sulla cucina di casa, che offre funzioni di ricerca, di
informazione ed altro.
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Ristorante Artusiano141:
La linea gastronomica, fedele ai concetti espressi dall’Artusi e
coerentemente alla missione del centro, non può che privilegiare la cucina
tradizionale domestica, cercando quotidianamente un rapporto coerente e
corretto con il nostro territorio, dove una buona scelta dei prodotti
rappresenta il presupposto fondamentale. Non solo prodotti di qualità,
quindi, ma anche prodotti freschi, stagionali e territoriali. Si propone la
cucina di casa che, in riferimento alla costante mancanza di tempo e
all’assenza di figure anziane di riferimento, sembra condannata all’oblio.
Le ricette quindi derivano dal recupero della cucina di casa e dalle
tradizioni gastronomiche popolari, che , nel nostro territorio, costituiscono
un patrimonio straordinario ricordando anche la ritualità affascinante del
mondo contadino, come la raccolta dell’uva e la produzione di saba e savor,
l’uccisione del maiale, etc.
A sostegno della linea gastronomica, si va alla costituzione della
Cooperativa della Mariette, che, in omaggio alla fedele cuoca di Artusi, avrà
il compito di promuovere la cultura alimentare della tradizione ed avviare
un lavoro di ricerca e recupero dell’azdora di casa. Naturalmente la pasta
fresca, cioè la sfoglia tirata con il matterello, sarà protagonista della
ristorazione di Casa Artusi, così come le ricette tradizionali romagnole,
privilegiando la semplicità e la genuinità delle proposte.
Scuola di cucina142:
La scuola, coerentemente alla ragione sociale di Casa Artusi, è
finalizzata: alla conoscenza del patrimonio eno-gastronomico nazionale; alla 141 Casa Artusi, linee progettuali definite dal Comitato Scientifico e approvate dalla Giunta Municipale con atto n. 211 del 13/9/03. 142 Casa Artusi, linee progettuali definite dal Comitato Scientifico e approvate dalla Giunta Municipale con atto n. 211 del 13/9/03.
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conoscenza delle diverse tradizioni e cucine locali, che nell’insieme
costituiscono il patrimonio nazionale; alla valorizzazione dei prodotti del
territorio e della piccola produzione agroambientale; alla conoscenza dei
comportamenti, dei riti, delle tecniche di preparazione di ciascun territorio.
Seguendo questa direttiva si possono realizzare in via permanente
progetti di educazione che prevedono l’uso della cucina: corsi di formazione
e specializzazione con dimostrazioni per un pubblico di appassionati e
cultori; master di cucina con un insegnamento eminentemente pratico; corsi
di formazione per operatori del settore; iniziative di educazione al gusto,
rivolte agli studenti di ogni ordine e grado; formazione professionale per
docenti. Ed inoltre corsi in cui, in modo univoco ed esclusivo in rapporto
all’Artusi, si impara a mangiare il “vero Artusi”, rigorosamente ricostruito
sulla base del suo ricettario.
Sale, salotti, cantine:
“Una discussione sul cucinare l’anguilla, vale una dissertazione
sul sorriso di Beatrice” (Olindo Guerrini).
Se in un locale saranno conservati – in maniera funzionale all’uso più
generale – i pochi cimeli artusiani, costituiti dal salotto dell’Artusi e qualche
quadro, nel resto degli spazi saranno organizzati, in maniera dinamica e
all’interno di un approccio storico, scientifico e didattico, incontri, seminari
e mostre legati al centro tematico di Casa Artusi ovvero la cultura del cibo,
ma più specificatamente la cucina italiana familiare e locale del XX secolo.
Le mostre potranno quindi documentare, nella loro evoluzione, gli
ambienti (cucina, sala da pranzo, dispensa, cantina); gli oggetti (utensili,
servizi da tavola, oggetti d’arredo); la struttura del pranzo, i modi
d’apparecchiare e la presentazione dei piatti; le tecniche di cucina.
- 103 -
I temi, anche se tutti legati al cibo, potranno essere i più vari: dagli
oggetti d’arte e d’antiquariato agli oggetti di design, dalle opere di artisti
contemporanei ai libri, dalla fotografia alla pubblicità, dai prodotti
alimentari ai vini. Si organizzeranno conferenze, seminari, presentazioni di
libri, ed il cibo sarà protagonista anche tramite le varie discipline artistiche
(teatro, cinema, pittura, musica).
Pertanto Casa Artusi è aperta a tutti coloro che, appassionati e curiosi,
donne e uomini di casa, professionisti e cultori, studiosi e ricercatori
vogliano approfondire la cultura e la pratica della cucina domestica.
Il buon cibo è qualità della vita.
“La memoria conta veramente – per gli individui, le
collettività, le civiltà – solo se si tiene insieme l’impronta del
passato e il progetto del futuro, se permette di fare senza
dimenticare quel che si voleva fare, di diventare senza smettere
di essere, di essere senza smettere di diventare.”
(Italo Calvino)
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Appendice.
Nel terzo capitolo abbiamo trattato sulla nuova gastronomia definendola
una scienza multidisciplinare, la quale racchiude al suo interno una vasta
serie di altre materie, diverse e complementari tra loro, le quali concorrono a
meglio definire e comprendere tutto ciò che riguarda l’elemento cibo.
Riporteremo in seguito alcuni esempi di questa multidisciplinarità con
scopo di ampliare, analizzandolo, il discorso inerente alla nuova
gastronomia.
Come già detto nel IV capitolo, durante la Festa Artusiana viene
assegnato un duplice Premio Artusi: un premio ad uno cuoco di fama
internazionale che abbia come finalità la valorizzazione della cucina di
qualità e del territorio, ed un premio ad un personaggio che a qualsiasi titolo
si sia distinto per l’originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra
uomo e cibo, privilegiando coloro che hanno fatto della lotta alla povertà ed
alla denutrizione una ragione di impegno quotidiano.
Riguardo questo secondo aspetto, ed in relazione alle tematiche
concernenti la nuova gastronomia, analizzeremo meglio tre aspetti: la
biodiversità e i semi; sostenibilità/insostenibilità; la globalizzazione.
I. Della botanica, le scienze naturali e la genetica ovvero Della
biodiversità e dei semi.143
Il problema della catalogazione delle varietà di frutta e verdura è di
strettissima attualità e di una certa urgenza.
La forte spinta al produttivismo agricolo su base sostanzialmente
industriale ha dato origine a una veloce selezione – non solo naturale, ma 143 Cfr, Buono, Pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia, Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005.
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anche tramite l’ibridazione, fino alla vera e propria ‘creazione’ attuata
attraverso gli Organismi geneticamente modificati – di varietà vegetali e
razze animali studiate per venire incontro ai nuovi processi di produzione. I
peperoni quadrati d’Asti e molte varità di mais latinoamericane per
esempio, hanno dovuto far posto a ibridi o comunque a varietà più
produttive. Lo stesso Millennium Ecosystem Assessment Report, e il più
recente Living Planet Report 2006144, dà conto della massiccia riduzione di
biodiversità sul pianeta, che si è già verificata e che continua a un ritmo
esponenziale. Tra le cause principali indicate nel rapporto ci sono proprio i
moderni sistemi agricoli.
Nel libro miscellaneo Fatal Harvest145 si riportano alcuni dati nei soli
Stati Uniti: l’80,6 per cento delle varietà di pomodori si è estinto dal 1903 al
1983; e così il 92,8 per cento delle varietà di insalata, l’86,2 per cento delle
varietà di mele e, sempre nello stesso periodo, il 90,8 per cento di mais e il
96,1 per cento di mais dolce. Delle oltre 5000 varietà esistenti di patate,
soltanto quattro costituiscono la stragrande maggioranza di quelle coltivate
a fini commerciali negli Stati Uniti; due tipi di piselli occupano il 96 per
cento delle coltivazioni americane e sei tipi di mais il 71 per cento del totale.
144 Il Living Planet Report del 2006 è il frutto di un lavoro di durato due anni durante i quali sono stati compilati due indicatori dello Stato di salute del pianeta. Il primo indicatore, l’Indice del Pianeta Vivente (Living Planet Index) si basa sui trend di oltre 3.600 distinte popolazioni di 1.300 specie di vertebrati in tutto il mondo. In tutto sono stati analizzate 695 specie terrestri, 344 di acqua dolce e 274 specie marine. Negli oltre trent’anni presi in considerazione le specie terrestri si sono ridotte del 31%, quelle di acqua dolce del 28% e quelle marine del 27%. Il secondo indice, l’impronta ecologica, misura la domanda in termini di consumo di risorse naturali da parte dell’umanità. Il ‘peso’ dell’impatto-umano sulla Terra è più che triplicato nel periodo tra il 1961 e il 2003. Questo rapporto mostra che la nostra impronta ha già superato nel 2003 del 25% la capacità bioproduttiva dei sistemi naturali da noi utilizzati per il nostro sostentamento. Nel rapporto precedente (quello pubblicato nel 2004 e basato sui dati del 2001) era del 21%. In particolare, l’Impronta relativa alla CO2, derivante dall’uso di combustibili fossili, è stata quella con il maggiore ritmo di crescita dell’intera Impronta globale: il nostro ‘contributo’ di CO2 in atmosfera è cresciuto di nove volte dal 1961 al 2003. Da www.wwf.it 145 Andrew Kikbrell, Fatal Harvest. The Tragedy of Industrial Agricolture, Island Press, Washington, 2002.
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Le multinazionali delle sementi cercano di imporre i loro semi sul
mercato in tutti i modi: la selezione naturale operata dai contadini, che si
praticava tradizionalmente dopo ogni raccolto, mettendo da parte i semi
delle piante che avevano le caratteristiche migliori, non si pratica quasi più
se non in zone dove si continuano a utilizzare metodi agricoli ritenuti
“arretrati”. I semi oggi si comprano di anno in anno da chi ha sviluppato le
varietà che danno un raccolto più abbondante: quantità a tutti i costi,
resistenza agli erbicidi che spesso sono prodotti dalle stesse industrie
cementiere. Fino ad arrivare agli Ogm, la summa massima di questa
evoluzione dai caratteri “innaturali”: dodicimila anni di lenta selezione
effettuata dai contadini sono stati cancellati in soli cinquant’anni per
inseguire fini commerciali.
Questo mercato dei semi dà origine a storie veramente assurde. Nello
Saskatchewan in Canada, il contadino Percy Schmeiser ha sostenuto negli
ultimi dieci anni una lunga ed estenuante battaglia legale contro la
multinazionale Monsanto perché accusato di essersi appropriato
indebitamente di alcuni semi geneticamente modificati. Fu accusato di
violazione del brevetto che la multinazionale americana detiene su un tipo di
colza transgenica, ma lui ha sempre sostenuto che il suo campo è stato
contaminato dalla coltivazione del vicino146.
Altro esempio è la vicenda della regione del Karnataka, in India, dove
più di seicento contadini all’anno si suicidano (in tutta l’India sono migliaia
i casi) perché non possono più far fronte ai debiti cui devono ricorrere per
comprare ogni anno i semi e i prodotti chimici che li completano. O il
Messico, dove girando per le zone rurali più remote – la culla della
biodiversità in fatto di mais – la campagna rigogliosa, quasi selvaggia, è
interrotta e punteggiata ovunque di cartelloni pubblicitari. Si tratta o della
Coca-Cola, oppure delle multinazionali dei semi, che pubblicizzano varietà
146 Percy Schmeiser, Davide vs Golia, in Il cibo e l’impegno 2, I quaderni di Micromega.
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‘miracolose’ di mais (il fatto che si pubblicizza il mais è già di per se una
cosa piuttosto straniante, in certe zone del Messico).
Quello dei semi è evidentemente il business su cui maggiormente
puntano le multinazionali dell’agricoltura per controllare il mercato. In
questo senso, a prescindere da ogni valutazione etica, salutistica o ecologica
in merito agli Ogm, va detto che sono l’arma più subdola e potente di una
strategia commerciale che vuole appropriarsi di tutta la filiera produttiva, a
cominciale dal primissimo fattore della vita stessa: i semi per l’appunto.
Gli agricoltori che acquistano sementi geneticamente modificate dalle
aziende dedite alla “scienza della vita” al momento dell’acquisto devono
firmare un contratto in cui si impegnano a non conservare i semi dei loro
raccolti. Se violano l’accordo e li ripiantano l’azienda ha il diritto di
distruggere la loro produzione147. In pratica le piante geneticamente
modificate trasferiscono alle grandi corporations il controllo sulla
produzione alimentare; allo stesso tempo, scompare la tradizione di
conservare e spartire i semi e l’agricoltore perde il controllo sui propri
mezzi di sussistenza. Le piante geneticamente modificate non possono
essere destinate alle piccole fattorie familiari integrate. Il grano e la soia
della Monsanto sono modificati in modo da resistere all’impiego dell
erbicida dell’azienda, e dunque gli agricoltori possono trattare tutti i loro
campi uccidendo le erbacce e risparmiando le messi. Ma questa tecnica di
controllo delle erbacce per i piccoli agricoltori è molto meno utile che per
gli “agrobusiness” con i loro immensi campi coltivati e la grande dotazione
di macchinari.
Altro mito da demolire è che gli Ogm sono necessari a causa
dell’insufficienza della produzione alimentare mondiale: non c’è alcuna
scarsità di cibo, quanto un sistema distributivo che crea eccedenze nei paesi
147 Nancy Freeman, Ricordare Seattle, Slow, n°17, 2000.
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ricchi e scarsità in quelli poveri148. Gli effetti dei brevetti sulle forme di vita,
nei paesi del Terzo Mondo, risultano ancora peggiori perché in quei luoghi
conservare e spartire i semi è ancora più importante per la sopravvivenza
che nel mondo sviluppato.
Un fatto ancora più tragico per gli agricoltori di quei paesi è la corsa
delle grandi società a scoprire e brevettare nuove varietà genetiche
commerciabili. Da un giorno all’altro, messi coltivate per secoli in
Tailandia, India e Perù sono diventate proprietà intellettuale di società
transnazionali che hanno sede negli Stati Uniti e in Europa.
L’ingegneria genetica presenta il rischio di una nuova forma di
inquinamento o “contaminazione”, che in certi casi può incidere sulla salute
e sull’ambiente e creare rischi biologici. L’introduzione di nuove specie
negli ecosistemi ha determinato il fenomeno della bioinvasione, ossia una
forma di rischio biologico; l’introduzione di geni estranei nelle piante può
produrre un impatto biologico imprevedibile. Alcuni organismi possono
essere portati all’estinzione da colture che liberano tossine, altri possono
diventare specie invasive che dominano certi ecosistemi e si sostituiscono
alla biodiversità autoctona. I rischi che comporta l’ingegneria genetica sono
rischi biologici e, a differenza di quelli tossici, non sono revocabili.
Gli Ogm accresceranno in vari modi la vulnerabilità ecologica
dell’agricoltura. In primo luogo, le colture manipolatte geneticamente
aumenteranno anziché ridurre l’uso di prodotti chimici149.
Gli Ogm aumenteranno la fame nel mondo perchè introdurranno
un’agricoltura monoculturale ad alta intensità di capitale e di prodotti
chimici, scalzando le piccole fattorie e i piccoli agricoltori che usano la
biodiversità per nutrire sé stessi e le loro famiglie. Le piccole fattorie
policolturali sono più produttive delle monocolture industriali. In genere le
rese si riferiscono alla produzione per unità di superficie di un’unica coltura, 148 Nancy Freeman, Ricordare Seattle, Slow, n°17, 2000. 149 Vandana Shiva, Un miracolo?, Slow, n°17, 2000.
- 109 -
e ovviamente piantare una sola varietà in tutto il campo aumenterà la resa,
mentre piantare più varietà insieme determinerà sì una resa minore delle
singole varietà, ma frutterà un’elevata produzione totale di cibo. Nell’ottica
della biodiversità, una produttività fondata sulla molteplicità di colture è
maggiore di quella monoculturale150. Le ricerche svolte dalla Fao hanno
rilevato che le piccole fattorie che si basano sulla biodiversità possono
produrre migliaia di volte più cibo delle grandi monocolture industriali.
L’ipotesi di un rapporto inversamente proporzionale tra biodiversità e
produttività, che ha guidato tutto il cambiamento tecnologico in campo
agricolo e ha distrutto la biodiversità, non regge, quando si tiene conto della
diversità delle colture e della loro diversa resa151.
Al totalitarimo alimentare delle multinazionali ci si può opporre, perché
la biodiversità ha già tutte le risposte che l’agricoltura industriale promette
di dare. È già in grado di soddisfare i nostri bisogni alimentari e di evitare
nel contempo i rischi dell’inquinamento genetico. Al totalitarismo delle
multinazionali si può contrapporre una democrazia alimentare basata sulla
cooperazione e sull’aiuto reciproco, in cui tutte le specie abbiano la loro
quota di cibo, incluse le generazioni future152.
Le scienze naturali e la genetica assumono un’estrema rilevanza anche
dal punto di vista gastronomico; il contributo che possono dare, tramite la
creazione di banche del germoplasma, lo studio e la catalogazione delle
varietà esistenti, indirizzando la ricerca in una direzione diversa da quella
tesa al produttivismo esasperato. Se difficilmente sarà il settore privato a
muoversi in questo senso, tocca senz’altro a chi stanzia fondi pubblici per la
ricerca fare il primo passo, magari mettendo in atto forme di ricerca
partecipata insieme ai contadini stessi, esperimentando un nuovo modo di
150 Vandana Shiva, Biodiversity Based Productivity, RFSTE, New Delhi, 1996. 151 Vandana Shiva, Un miracolo?, Slow, n°17, 2000. 152 Cit, Giovanna Ricoveri, da “Introduzione”, Stolen Harevst. The Hijacking of the Global Food Supply, di Vandana Shiva, RFSTE, New Delhi,1999.
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agire che faccia dialogare la scienza cosiddetta “ufficiale” e il mondo dei
saperi tradizionali153.
II. Dell’agricoltura e dell’ecologia ovvero Delle tecniche per produrre
cibo sostenibile154.
Sostenibile: adatto a garantire la nostra salute, quella dell’ambiente che ci
circonda e nel contempo lo sviluppo sociale ed economico nostro e delle
generazioni che ci seguiranno155.
L’agricoltura negli ultimi cinquant’anni si è progressivamente
industrializzata, l’introduzione di elementi esterni al sistema naturale in cui
essa viene praticata, come i pesticidi e i fertilizzanti chimici, ha rapidamente
compromesso la salubrità dei cibi e dell’ambiente. I danni provocati
dall’uomo alla terra sono in gran parte imputabili ai moderni sistemi di
produzione del cibo.
Brillat-Savarin inseriva l’agricoltura tra le materie che compongono la
gastronomia; ma poi, con il dilagare dei metodi industriali le due discipline
sono state separate, allontanando tra loro i momenti della raccolta, della
trasformazione e del consumo del cibo. Si è in pratica reciso quel legame
che fino al secondo dopoguerra legava gli uomini alla terra in fatto di cibo.
Chi stava in campagna, ma anche chi si era trasferito in città, aveva sempre
potuto vedere da dove proveniva il proprio nutrimento. Le conoscenze
gastronomiche si trasmettevano in maniera pressoché automatica di
generazione in generazione. Mai come adesso produzione e consumo sono
vissuti come due momenti lontani, che pagano rispettivamente un profondo
gap di conoscenze.
153 Cfr, Buono, Pulito e giusto. Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005. 154 Cfr, Buono, Pulito e giusto. Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005. 155 Carla Barzanò, Un convegno in Germania, Slow, n° gen-feb 2004.
- 111 -
L’interesse per il mondo agricolo, per le sue evoluzioni e i suoi
cambiamenti, conoscere ciò che si mangia (provenienza, processi subiti,
umanità coinvolta), dovrebbe essere tra le priorità di chiunque si nutre:
“Mangiare è un atto agricolo”, ha magistralmente sintetizzato Wendell
Berry, contadino, poeta e saggista del Kentucky156.
Accumuniamo agricoltura ed ecologia in un’unica disciplina, perché le
ritengo inscindibili: chi coltiva e alleva lavora con la natura e non può
sfruttarla e ucciderla. Il mondo ambientalista non può non capire che la
gastronomia è l’arte di produrre cibo in armonia con l’ambiente circostante;
che le monocolture biologiche, ad esempio, non sono sostenibili: anche se
non si usano prodotti chimici, si può distruggere l’ambiente eliminando la
biodiversità (i boschetti, le piante…) a scapito di una sola varietà prodotta in
grandi quantità. Lo stesso avviene se si introducono varietà estranee
all’ecosistema esistente e, inoltre, non si deve dimenticare il gusto: se un
prodotto non è buono ed è estraneo alla cultura locale, potrà rispondere ad
un’emergenza, ma non risolverà per sempre il problema della fame o di certi
inquinamenti.
In realtà stiamo parlando di una scienza che già esiste, che è stata definita
e che, molti, ritengono la vera via del futuro sostenibile: l’agroecologia.
L’agroecologia è una scienza giovane che parte dal presupposto che gli
ecosistemi, così come sono, hanno tutti i mezzi interni per autoregolarsi.
Coltivare e allevare richiede di manipolare con gentilezza l’ambiente, nel
rispetto della biodiversità locale, della cultura tradizionale e dei ritmi della
natura.
Miguel Altieri, professore di agroecologia all’Università di Berkley dice:
L’agroecologia cerca una matrice di dialogo tra regni diversi, tra
questi saperi tradizionali e la scienza di stampo occidentale,
156 Wendell Berry, The pleasure of eating, North Point Press.
- 112 -
mettendoli sullo stesso livello. L’agroecologia non formula ricette
valide per tutti, ma incoraggia a scegliere le tecnologie utili in base
alle esigenze dettate dal contesto, senza che vengano imposte da
nessuno. Non è tanto importante la tecnica, ripeto, è il principio:
l’idea in questo caso è che la diversità che si utilizza genera processi
ecologici nel sistema, i quali permettono al sistema stesso di
autoregolarsi e di realizzare automaticamente operazioni come il
riciclaggio dei nutrienti e la lotta agli insetti dannosi e alle
malattie157.
Operare in modo sostenibile presuppone un adeguato bagaglio di
conoscenza. Se si vuole giudicare la sostenibilità dei prodotti alimentari,
bisogna conoscere le conseguenze ecologiche della produzione dal campo
fino alla tavola. Bisogna chiedersi se un alimento è sano e sicuro, se la sua
produzione e trasformazione assicurano posti di lavoro e mezzi di
sostentamento. E si deve tenere conto anche del destino dei paesi poveri –
quasi la metà della popolazione mondiale vive con meno di due dollari al
giorno158. La sostenibilità quindi richiede da parte dei paesi ricchi un
confronto con i propri stili di vita. È un processo di ricerca, di
apprendimento e di ponderazione.
Secondo il rapporto Brundtland159 è sostenibile uno “sviluppo” che
soddisfi le esigenze del presente senza rischiare che le generazioni
successive non possano soddisfare le loro.
Il concetto di sostenibilità nel 1992 ispira il vertice mondiale di Rio
(Agenda 21). I delegati di 178 paesi si riuniscono alla conferenza Onu
sull’ambiente e lo sviluppo e decidono di risolvere gli impellenti problemi
mondiali, combattere la povertà e assicurare la salute delle persone, fornire
157 Carlo Pettini, Dialogo sulla terra, in “La Stampa”, 3 giugno 2004. 158 Gerlinde Geffers, Breve storia di un concetto, Slow, n°gen-feb 2004. 159 “Il nostro futuro comune”, 1987, rapporto della commissione Onu guidata da Gro Harem Brundtland.
- 113 -
acqua dolce a sufficienza, proteggere il clima, conservare le foreste, la flora
e la fauna a rischio di estinzione e bloccare la desertificazione160.
Allora Rio era stata osannata come pietra miliare, come svolta. Oggi i
risultati sono deludenti. Il mondo non è diventato più giusto né l’ambiente
più sano. L’umanità continua a eccedere del 30-50 per cento nell’uso della
biosfera. Il clima continua a riscaldarsi, perché viene emessa nell’aria troppa
anidride carbonica dannosa. E permane la situazione secondo cui il 20 per
cento della popolazione mondiale consuma l’80 per cento delle risorse
mondiali.
La motivazione che alla visione di Rio siano seguite così poche azioni
concrete è la seguente: l’Agenda21 è un orientamento per lo sviluppo della
terra. Nient’altro. Ciò ha il vantaggio che praticamente nessuno può essere
contrario alla sostenibilità, ma lo svantaggio che finora ciascuno ha potuto
definire sostenibile lo sviluppo che preferiva. Soprattutto si discute
volentieri su come si possano conciliare la tutela dell’ambiente con la
giustizia sociale e la fattibilità economica. I tre pilastri della sostenibilità in
realtà dovrebbero avere tutti lo stesso peso. Se però i posti di lavoro sono a
rischio, l’economia ristagna e le casse dello Stato sono vuote, l’ambiente e
l’equilibrio sociale ne escono rapidamente perdenti.
Ma il messaggio di Rio non è svanito del tutto.
In Germania nel 1996 un’indagine dal titolo “Zukunftsfahiges
Deutschland161”, presenta cifre e obiettivi relativi al consumo ambientale e
formula modelli che si discostano dal nostro modo di vivere, imperniato sul
concetto del sempre più in fretta e sempre di più. “Think global, act local” è
il motto. Il governo federale tedesco ha presentato una strategia nazionale
della sostenibilità con quattro modelli di riferimento. In quel documento
formula il proposito di non lasciare alle generazioni future una montagna di
debiti, ma una sanità e una previdenza per la vecchiaia sostenibile. Il 160 Gerlinde Geffers, Breve storia di un concetto, Slow, n°gen-feb 2004. 161 Trad: “Una Germania adatta al futuro”.
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governo vuole impegnarsi per la qualità della vita, che va dall’ambiente
incontaminato a un lavoro soddisfacente e comprende buone scuole. Il
ministero per la tutela del consumatore ha dato, per esempio, il suo
contributo aggiungendo come punto focale “produrre e nutrire in modo
sano”. Con uno stanziamento di 35 milioni di euro, attualmente il ministero
finanzia 18 regioni che fanno esperimenti su come orientarsi verso
un’agricoltura sostenibile e redditizia. Le regioni analizzano come
commercializzare meglio i loro prodotti, continuano a sviluppare le loro
specialità regionali, riformulano le regole per la protezione della natura,
migliorano i loro progetti per un turismo rurale “soft” e organizzano corsi di
insegnamento “verde” nelle fattorie162.
Sono tutti passi in direzione di uno sviluppo sostenibile.
III. Della geopolitica, dell’economia politica e del commercio ovvero
Della globalizzazione163.
Geopolitica ed economia politica devono essere parte integrante del
sapere gastronomico. In un epoca definita della globalizzazione, gli scambi
si moltiplicano in ogni direzione, la complessità aumenta e i modi di nutrirsi
ne sono fortemente influenzati. Il commercio sembra essere diventato la
nuova divinità in cui credere: alla convenienza di consumare un cibo
piuttosto che un altro, storicamente legata a fattori geoclimatici ed
economici, si sono sostituite via via le regole di mercato. I modelli di cucina
tradizionale si dovevano scontrare/armonizzare con i limiti fisici dei territori
e con i rapporti che si costruivano tra le varie società, oggi quasi spariscono
per l’emergere di un modello in cui, in seguito alla massiccia
162 Cit. da Gerlinde Geffers, Breve storia di un concetto, Slow, n°gen-feb 2004. 163 Cfr, Buono, Pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia, Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005.
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industrializzazione e alla mondializzazione dei commerci, prevale il
consumismo e un distacco dal mondo agricolo.
Non è un caso che il movimento No-Global si sia fortemente sviluppato
intorno a tematiche riguardanti l’agricoltura e l’alimentazione, salendo per
la prima volta agli onori delle cronache in occasione della protesta di Seattle
nel 1999 durante una riunione del Wto.
Nel mondo la metà delle persone è dedita all’agricoltura e le leggi del
commercio globale stanno mettendo a dura prova molte economie dei paesi
più poveri. L’ingerenza su quelle culture delle multinazionali delle sementi
è sempre più forte e devastante, supportata da strategie commerciali molto
aggressive e da un sistema di dazi e sussidi alla produzione che creano un
grave squilibrio planetario.
L’Occidente produce troppo e a prezzi troppo alti: per difendersi dalla
concorrenza dei più poveri pone barriere commerciali invalicabili che
impongono prezzi artificiosi. La politica occidentale dei sussidi alle quantità
prodotto ha da un lato messo in ginocchio le economie più povere e
dall’altro ha di fatto finanziato la distruzione del pianeta. I sussidi (ancora
molto influenti negli Stati Uniti, mentre in Europa una recente revisione
della politica agricola comunitaria sta rendendo meno forti le distorsioni di
questo sistema) servono ai contadini dell’Occidente ricco, che praticano
un’agricoltura di stampo industriale, a reggere la concorrenza dei prezzi dei
paesi più poveri in grado di produrre a minor costo.
Per anni il risultato è stato quello di finanziare una produzione di bassa
qualità che doveva costare il meno possibile senza riguardo per la bontà del
prodotto. Il modello agricolo industriale è stato strenuamente difeso
nonostante si fosse rivelato da tempo insostenibile, si sono indotti i paesi più
poveri ad inseguire irrealisticamente lo stesso modello di sviluppo con danni
ingenti alla biodiversità e alle culture tradizionali. Tali paesi restano così
vittime del dumping, ovvero dell’invasione delle eccedenze di produzione
dei paesi ricchi sussidiate in patria e svendute a prezzi irrisori, quando non
- 116 -
addirittura regalate in forma di aiuti umanitari. Il fatto che gli Stati Uniti
inviino Ogm rimasti invenduti a causa della moratoria imposta dall’Europa
su tali prodotti o che, sempre gli Stati Uniti, inviino grano, mais e altri semi
con i chicchi spezzati e non utilizzabili per la semina, la dice lunga sulle
reali intenzioni filantropiche dei donatori. E il fatto che alcuni paesi africani
incomincino a rifiutare questi aiuti conferma la loro relativa inutilità e la
loro negatività sullo sviluppo agricolo locale. Le priorità commerciali hanno
preso il sopravvento.
Geopolitica ed economia consentono dunque di leggere le dinamiche
complesse che stanno sotto l’attuale sistema-mondo e di farne emergere
tutte le ingiustizie, le contraddizioni, i paradossi. Il commercio, che secondo
Brillat-Savarin è “la ricerca del mezzo di comprare al miglior prezzo
possibile ciò che essa (la gastronomia) consuma e di smerciare più
convenientemente ciò che pone in vendita”, è oggi diventato più uno
strumento di dominazione, un’arma di scontro nel contesto di un mondo
globalizzato. Lo studio di queste dinamiche è gastronomia; la loro
comprensione pone le basi per riuscire a definire la sostenibilità sociale dei
modelli produttivi e commerciali, nonché le condizioni per la sua
realizzazione.
- 117 -
Albo d’oro Premio Artusi: 1997 – Ermanno Olmi; Juan Marì Arzak (gastronomia) 1998 – Cardinale Ersilio Tonini; Gualtiero Marchesi (g) 1999 – Padri Comboniani della Missione di Agangrial; Jacques Chibois (g) 2000 – Miloud Oukily; Alice Waters (g) 2001 – Muhammad Yunus; Renato Gualandi (g) 2002 – Alberto Cairo; Eckart Witzigmann (g) 2003 – Vandana Shiva; Fabio Picchi (g) 2004 – Riccardo Putrella; Unione Ristoranti del Buon Ricordo (g) 2005 – Eduardo Galeano; Pietro Leemann (g) 2006 – Julitte Diane Cisse; Moshe Basson (g)
Albo d’oro Premio Marietta: 1997 – Caterina Valbonesi (con il Coniglio Saporito) 2000 – Denio Derni (con Fusilli “Carpe Diem”) 2001 – Anna Tellarini (con Pasta ai Ranocchi) 2002 – Antonella Liberatori (con Sellerini pajata e mammole) 2003 – Giovanni Fancello (con Ditalini con pesce spada, seppie cozze in zuppa di fagioli “Brenti Niedda”) 2004 – Maria Rita Vivi (con Maccheroni al piccione) 2005 – Gail O’Hern Rizzo (con Caponata maritata rivisitata); Premio Marietta ad honorem 2005 a Graziano Pozzetto e Renato Dominaci 2006 – Premio Marietta ad honorem a Leda Vigliardi Paravia e Vittorio Tonelli
Convegni Artusiani:
1997 - Pellegrino Artusi e la società del suo tempo. 1998 - Cucina globale e cucina del territorio. 1999 - Cucina di Italia - Cucina di Francia Scambi, influenze e differenze. 2000 - Mangiare in viaggio. 2001 - Casa Artusi: verso un museo della cultura gastronomica italiana. 2002 - La cucina di casa Italia, dal medioevo ad oggi. 2003 - Alla ricerca del prodotto tipico. 2004 - Cibo d'autore. 2005 - Artusi, pellegrino nel mondo. 2006 - La cucina italiana all'estero.
- 118 -
Elenco degli Altri soggetti coinvolti nel progetto Festa Artusiana164: Comune di Cervia; Comune di Sogliano sul Rubicone; Città di
Montelabbate; Città di Sant.Angelo in Zizzola; Ist. Alberghiero di Forlimpopoli; Consorzi di tutela quali: Consorzio dell’Aceto Balsamico tradizionale di Spilamerto, Consorzio del prosciutto di Parma, Consorzio di tutela del formaggio di fossa e le teglie di Montetiffi; Comunità Montana Forlivese; Comunità Montana dell’Acquacheta; Comunità Montana dell’Appennino Cesenate; Comunità Montana Fiorentina; Parco Nazionale Foreste Cesenatinesi; U.B. (Unione Interprofessionale Operatori del Biologico); Strada dei vivi e dei sapori di Forlì-Cesena; Coop.Agri 2000; Gal Altra Romagna; Osservatorio Agro-Ambientale; Slow Food; Confesercenti; C.N.A; C.I.A; Col diretti; Confartigianato; Unione Europea Gourmets; A.I.S. Sezione Romagna; Gruppo Culturale Civiltà Salinara; Il Cenacolo degli Sparecchiatori di Firenze; Associazione Fameja de Bgonz; Pro Loco Forlimpopoli; Comune di Villeneuve-Loubet gemellato con Forlimpopoli; tutte le associazioni del territorio forlimpopolese.
Associazioni del territorio forlimpopolese: Ass. Barcobaleno Musica&Cultura; Condotta Artusiana; Ass. Volare;
Funghi&Flora; Auser; Ass. Amici dell’Arte; Ass. ArtEmozioni; Ass. Nazionale Alpini – Gruppo di Forlimpopoli; Ass. Internazionale di Menù Storici; Cooperativa Amphora; Gestione Cinema-Teatro Verdi; Ass. Parco dei ragazzi (Forlì); Ass. La Lòza; Comunità Monastica Agostiniana; Ass. Scuola di Musica Popolare; Ass. Romagna Centro; La Consulta degli Stranieri di Forlimpopoli, in collaborazione con l’Assessorato ai Servizi Sociali; Ass. Protezione Civile; Ass. Il Vento; Comitato valorizzazione Centro Storico; Ass. Centro Giovanile; Ass. E Goz; Ass. Acqua.
Azioni Programmate (con relative tempistiche):
Finalità: Realizzazione della Festa Artusiana - 16/24 Giugno 2007 - tesa alla valorizzazione turistica locale e di promozione del territorio, in nome dell’eno-gastronomia e della cultura del cibo. Azioni: - Stesura del programma (entro dicembre 2006)
164 Tratto da: L.R. N. 7/98 – Programma Turistico di Promozione Locale 2007; Progetto di Valorizzazione Turistica Locale Integrata e di Promozione dei Territori e delle Destinazioni; Forlimpopoli.
- 119 -
- Piano di sensibilizzazione a decorrere da febbraio 2007 tramite comunicati stampa a riviste specializzate estere e nazionali, contatto con i media per evidenziare decennale della manifestazione ed eventi in essa previsti; - Presenza al Salone del Gusto di Torino (25/30 ottobre) - Presenza su “I Diari dei venerdì” di Repubblica (aprile 2007) - Presenza su “Guida a sagre e feste della Romagna 2007” (febbraio 2007) - Elaborazione di pacchetti turistici per la primavera 2007 (febbraio 2007) - Miglioramento e potenziamento delle comunicazioni web (marzo 2007) - Realizzazione materiale pubblicitario (entro 10 maggio 2007) - Diffusione del materiale pubblicitario (entro maggio 2007)
I ristoranti allestiti in occasione della Festa: Ristorante Casa Artusi; Locanda Anna; Birreria Stuzzicherai Wine-bar
della Piazza; Hostaria del Pellegrino; Risorantino “E Cantunzin”; Ustarì di Purét; La Freschineria; “Il Bello e il Buono”; Ristorante “La Madia – I Mangè d’una volta”; Le Osterie di Slow Food; Ristorantino “MagnaSsò”; Osteria “E Gòz”; Osteria “dl’ost cativ”; Trattoria “Dalla Ode”.
Rassegna Stampa a cura di Agenzia PrimaPagina (Cesena). Hanno
parlato della Festa Artusiana 2006 le seguenti testate: Nazionali Agenzie di stampa: Ansa; Asa Press. Quotidiani nazionali e regionali: Die Zeit (quotidiano tedesco);
Avvenire; Il Giornale; Il Giorno; Il Manifesto; Il Messaggero (Pesaro); Il Resto del Carlino; Il Secolo XIX; L’Unità; La Gazzetta del Mezzogiorno; La Nuova Ferrara; La Nazione; La Repubblica; La Stampa.
Settimanali nazionali: Donna Moderna; Film Tv; Gente; Intimità; La Stampa – Specchio; Left – Avvenimenti; News; Viaggi di Repubblica (Diario di Primavera).
Mensili nazionali: Agricoltura; Bar Giornale; Bell’Italia; Campagna Amica; Cucina e Vini; Degusta; Famiglia Romagnola a Roma; Nuovo Dossier; Panorama Travel; Partiamo; Pasticceria Internazionale; Qui Touring; Saler & Pepe; Star Bene; Terre del Vino; Turismo all’Aria Aperta; Vie del Gusto; Ville & Casali; Vogue Italia; Voyager; Week End Viaggi.
Regionali – Locali
Quotidiani locali: Corriere Romagna; Il Resto del Carlino; La Voce di
Romagna.
- 120 -
Settimanali regionali – locali: Corriere Cesenate; Forlì&Forlì; Il Momento (Forlì); Il Piccolo (Faenza); Qui Magazine (Ravenna); Quindi (Ravenna); Risveglio 2000 (Ravenna).
Mensili regionali – locali: Ars Amandi; C’è – Appennino e Verde; Calendario Eventi (provincia FC); Emilia Romagna Eventi; Fly Forlì; Il Notiziari dell’Imprenditore; Informatore Artigiano; Mare & Monti; Periodico.
Tv
Rai 2 – Eat Parade; Rai Sat – Il Gambero Rosso; Alice; Video Regione;
Teleromagna.
Radio
Radio Bruno; Radio Emilia Romagna; Radio Gamma, Radio Icaro, Radio Studio Delta.
- 121 -
Mappa Festa Artusiana 2006
- 122 -
Festa Artusiana 2006, rassegna fotografica a cura di Enrico Filippi (Camerachiara)
Piazza Pellegrino Artusi
- 123 -
Piazza della Marietta
Via delle cose diverse
- 124 -
Il museo archeologico T. Aldini
- 125 -
Osteria E Goz
- 126 -
La chiesa dei Servi
- 127 -
Pellegrino Artusi
- 128 -
Conclusioni & ringraziamenti.
L’AUTORE A CHI LEGGE165
Eccovi – finalmente - alla fine della tesi!
Mi auguro di aver suscitato interesse in voi… almeno un poco
incuriositi… magari coinvolti!
Questo lavoro mi è costato impegno e dedizione.
Dopo diverse concause mi sono trovato ad affrontare un argomento
vasto, molto vasto, in piena e continua evoluzione, tante sono le materie che
compongono il suo insieme. Ho cercato di trattare di gastronomia, con
l’inesperienza e l’impreparazione specifica di un bambino davanti alla sua
prima bicicletta. Potevo solo trarne insegnamento!
Ho individuato il nocciolo della questione, ovvero come la città di
Forlimpopoli ha cercato di promuovere e comunicare la propria immagine
attraverso quella di Artusi.
Ho cercato di capire chi fosse - e per quale motivo – Pellegrino Artusi,
dopo un secolo quasi dalla sua morte, meritasse e ricevesse tale
riconoscimento.
Per chi avesse tentato di barare, magari saltando qualche parte dello
scritto, faccio notare che i due punti sopra citati sono riconducibili
rispettivamente al capitolo quarto ed al capitolo secondo!
I rimanenti due capitoli, ovvero il capitolo primo ed il capitolo terzo,
cercano di fare un - per forza di cose - rapido, fugace, quadro generale
dell’epoca in cui – rispettivamente – visse l’Artusi e di quella in cui
Forlimpopoli decide di sposarsi con l’Artusi.
165 Per coloro i quali non avessero colto il senso di questa nota, si tratta di una citazione da La Scienza in cucina e L’Arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie compilato da Pellegrino Artusi.
- 129 -
Altro non ho fatto che assemblare il tutto traendo ispirazione da
numerosi testi di autorevoli esperti, da documenti e progetti, da interviste
(alcune svolte personalmente, altre prese in prestito da riviste specializzate)
a chi di dovere.
Ma non voglio annoiarvi oltre, ho già detto abbastanza.
Siate così gentili da concedermi le ultime righe di questo ultimo, insolito
capitolo.
Ho lavorato sodo e mi par giusto, dato che ciò che state leggendo non
durerà più d’una manciata di pagine ancora, scivolare in considerazioni del
tutto mie.
E concedetemi, inoltre, di parafrasare l’Artusi che scriveva per gli
stomachi deboli. Ebbene chiedo a chi si reputasse di essere tale stomaco
debole, di non proseguire oltre, perché rischierebbe di considerarmi un
blasfemo che tenta di fare letteratura.
Con questo lo saluto e lo ringrazio,qui.
… E vissero tutti laureati e (s)contenti.
Per chi decidesse di continuare, sottolineo e promuovo la facoltà del
libero arbitrio, e declino da ogni responsabilità me stesso per il trauma che
potrete subire.
Siete sempre in tempo, ricordate!
- 130 -
Che conclusioni volete che tragga? Non saprei, ad ognuno la sua.
Volete che vi racconti per quale motivo ho scelto di affrontare tale
argomento? …Ne siete proprio sicuri?
Badate bene che la verità - a volte - può essere fastidiosa tanto quanto un
calcio nelle palle! Oh per Dio! Non scandalizziamoci, non esageriamo in
moralistiche scenate! Io vi avevo avvertiti. E poi, scusate, ma la parte
dedicata alle cosiddette conclusioni non è quella parte in cui l’Autore può –
finalmente – mettere in risalto le proprie opinioni?
Questo è ciò che penso, queste sono le mie conclusioni.
Chi avrà la pazienza (e la voglia) di leggere oltre, capirà che non sono né
un presuntuoso, né uno scostumato, che esprime le proprie considerazioni,
che trae le proprie conclusioni, in momento ed in luogo del tutto
inappropriati!
Ricordando ciò che mi disse l’ex-Sindaco Maurizio Castagnoli – e cioè
che le cose non avvengono mai per caso – vi confesso, che la scelta
dell’argomento trattato in questa relazione, è stata una scelta del tutto
inaspettata. Dopo mesi di rifiuti, indecisioni ed incomprensioni, dopo mesi
in cui la mia unica domanda era: “Se nessun professore mi accetta, io come
faccio a laurearmi?”, Fortuna volle che proponendo tale argomento al – più
che gentile - Prof. Alessandro Sistri, egli acconsentisse, incuriosito,
nell’accompagnarmi in questo lavoro di tesi.
La prima cosa che ho imparato – sembra assurdo, ma è così – nello
svolgere questa tesi, è proprio come fare una tesi. Devo essermela persa,
quella lezione in cui qualcuno spiegava il come farlo! Che sbadato!
La seconda (la terza, la quarta, la quinta…) cosa, riguarda ciò che ho
trattato, tutti gli argomenti svolti in questa relazione. Ho imparato tanto nei
mesi passati sopra i libri e davanti allo schermo, a leggere e a battere, a
sottolineare, a riscrivere, a correggere, a imprecare perché quel diavolaccio
del computer sembrava volermi abbandonare proprio sul più bello!
- 131 -
Sapete qual è stata la mia fortuna? È stata quella di aver svolto un lavoro
che mi ha appassionato e coinvolto dal primo all’ultimo giorno. Ho cercato
di fare del mio meglio, non mi importa se non verrà apprezzato (e magari
nemmeno letto!), io ne vado soddisfatto.
Non è questo ciò che conta alla fine?
Ho capito un’enormità di cose, cose dannatamente attuali ed importanti.
Ho capito che la fiducia nel cieco progresso dei giorni nostri - o meglio
in quel cieco progresso che ha portato la situazione a divenire quella
presente – altro non può fare che condurci tutti quanti ad un tempo (non
troppo futuro), in cui rimpiangeremo i bei vecchi tempi.
Quando l’acqua e l’aria saranno troppo inquinate, quando gli ecosistemi
saranno solo un ricordo digitale, quando ciò che mangeremo sarà solamente
una pillola fabbricata in laboratorio, cosa rimarrà?
Tanti morti.
Tanti poveri.
Pochi ricchi sempre più ricchi.
E Dio?
Dio, ce lo siamo giocati nel momento in cui l’abbiamo sfidato.
Diciamoci la verità, qui non si tratta né di comunicare, né di
promuovere.
Si tratta di cercare di costruire un futuro migliore per tutti, in armonia
con quello che l’Uomo (in quanto essere umano) è stato per secoli, in
armonia con, l’ancora unica, Terra in cui viviamo (che vadano loro a
colonizzare l’universo, io di qui non mi muovo!), in armonia con quelle
scoperte che hanno fatto dell’Uomo la massima espressione del Creato. In
armonia con tutto ciò che ci circonda, Lui compreso.
Due sono le funzioni principali della vita: la nutrizione e la
propagazione della specie; a coloro quindi che, rivolgendo la mente a
- 132 -
questi due bisogni dell’esistenza, li studiano e suggeriscono norme
onde vengano soddisfatti nel miglior modo possibile, per rendere
meno triste la vita stessa, e per giovare all’umanità, sia lecito sperare
che questa, pur se non apprezza le loro fatiche, sia almeno prodiga di
un benigno compatimento166.
Diceva bene Pellegrino Artusi, lume di questa mia ricerca.
Azzardo un paragone ed auguro a Casa Artusi ed alla Festa Artusiana,
di nutrirsi e di riprodursi in mille e mille altre simili realtà, votate al
recupero ed al mantenimento di quelle tradizioni e culture, che hanno
accompagnato l’Uomo, in questo lungo, faticoso, a volte insensato cammino
verso, la tanto anelata, modernità.
Consapevole, che queste mie conclusioni desteranno un tale stupore da
rischiare lo scandalo mediatico, lasciatemi ringraziare tutti (quanti?) coloro
che sono arrivati a leggere quest’ultima riga, e concludere:
ma che m’importa, ormai son laureato!
166 Tratto da. La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. L’Autore a chi legge; di Pellegrino Artusi.
- 133 -
Grazie:
A tutti coloro che mi sono dimenticato di citare;
Al Prof. Alessandro Sistri, per avere permesso la mia laurea;
A tutti quei Professori che, rifiutandomi, hanno permesso che mi
laureassi con il Prof. Sistri;
A Mauro Grandini, Laila Tentoni, Maurizio Castagnoli, Federica
Bianchi & Caterina Molari (Agenzia PrimaPagina), che subendo le mie
interminabili ore di interrogatori, hanno permesso la realizzazione di
questa tesi!
A Luisa e Alberto della biblioteca di Forlimpopoli, per aver riso e
scherzato assieme delle mie sventure!
A Marco, Claudia ed Enrico, inseparabili compagni di questi anni!
- 134 -
Bibliografia
- Ambiente a rischio bancarotta, Antonio Cianciullo, in “La Repubblica” 31 marzo
2005.
- Artusi 2000, introduzione di Folco Portinari, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze,
2000.
- Autobiografia, P. Artusi, a cura di A. Capatti e A. Pollarini, Milano, il Saggiatore.
- Biodiversity Based Productivity, Vandana Shiva, RFSTE, New Delhi, 1996.
- Breve storia di un concetto, Gerlinde Geffers, rivista “Slow”, n°gen-feb 2004.
- Buono, pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia. Carlo Pettini, Einaudi,
Torino, 2005.
- Davide vs Golia, in Il cibo e l’impegno 2, Percy Schmeiser, I quaderni di
Micromega.
- Dialogo sulla terra, Carlo Petrini, in “La Stampa”, 3 giugno 2004.
- Dizionario moderno delle parole che non si trovano nei dizionari comuni,
Alfredo Panzini, Hoepli, 1963.
- Fatal Harvest. The Tragedy of Industrial Agricolture, Andrew Kikbrell, Island
Press, Washington, 2002.
- Il cibo come cultura, di Massimo Montanari, Editori Laterza, 2004.
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