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Contemporanea / a. VIII, n. 2, aprile 2005
■ Alla ricerca di origini e tradi-zioniFino ai primi anni ’80 del secolo scorso sia
gli studi sul movimento per la pace che gli
studi di storia delle donne hanno trascurato
le attività delle associazioni pacifiste speci-
ficatamente femminili1. Ciò non solo ha
portato a scrivere una storia parziale. Ha
anche indotto a pensare che non si potesse-
ro tracciare le coordinate di un pacifismo di
genere, che non fosse necessaria una storia
delle donne pacifiste e una storia femmini-
sta del pacifismo. Tra la fine degli anni ’80 e
il decennio successivo, invece, questi temi
hanno attirato l’interesse di storiche e stori-
ci che hanno centrato il loro lavoro sui ca-
L A B O R A T O R I O
Tra movimento e potere.Donne e pacifismo nelmondo anglosassoneMaria Susanna Garroni
ratteri del contributo dato dalle donne al
movimento per la pace e sull’influenza di
tale contributo sulle relazioni internaziona-
li2.
L’esperienza delle rivoluzioni e delle guerre
napoleoniche in Europa e quelle della rivo-
luzione e delle guerre indiane negli Stati
Uniti alla fine del XVIII secolo disancorano,
o comunque rendono autonomo e indipen-
dente, il pensiero pacifista dalle apparte-
nenze religiose che ne avevano a lungo di-
segnato i contorni. La pace viene ad essere
considerata come un diritto civile da con-
quistare e difendere3. In questo contesto di
percezione di nuovi diritti, che si viene con-
solidando nel corso del XIX secolo, le don-
1 Vedi, per es., P. Brock, Twentieth-Century Pacifism, Princeton, Princeton University Press, 1970; M. Caedel,Pacifism in Britain, 1914-1945: The Defining of a Faith, Oxford, Clarendon Press, 1980. Interessante eccezio-ne e primo embrionale riconoscimento dell’originalità del pensiero pacifista delle donne del Women’s Pea-ce Party, nato nel 1915, si trova in R. Marchand, The American Peace Movement, and Social Reform, 1898-1918, Princeton, Princeton University Press, 1972, pp. 183-222.2 J. Liddington, The Long Road to Greenham. Feminism and Anti-militarism in Britain since 1820, London,Virago Press, 1989, pp. 4-5; H.H. Alonso, The Women’s Peace Union and the Outlawry of War, 1921-1942,Knoxville, The University of Tennessee Press, 1989; M. Hope Bacon, One Woman’s Passion for Peace andFreedom: The Life of Mildred Scott Olmstead, Syrcuse (N.Y.), Syracuse University Press, 1993, pp. XI-XII; E.P.Crapol, Women and Foreign Policy: Lobbyists, Critics, and Insiders, Wilmington, Del., Scholarly Resources,1992; R. Jeffreys-Jones, Changing Differences. Women and the Shaping of American Foreign Policy, 1917-1994, New Brunswick, New Jersey, Rutgers University Press, 1995.3 S. Cooper, Patriotic Pacifism: Waging War on War in Europe, 1815-1914, New York, Oxford UniversityPress, 1991, pp. 4-16.
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ne, o almeno alcune donne, quelle più dota-
te di strumenti religiosi, culturali, politici e/
o economici e emotivi, insorgono contro la
«barbarie» della guerra: si rendono conto
che il pacifismo come è stato inteso dalla
maggior parte delle organizzazioni a preva-
lenza maschile non fornisce risposte ade-
guate. La guerra che invade la sfera del pri-
vato – quel privato di cui gli uomini si ergo-
no a protettori, che infrange la barriera del-
le sfere separate, sfere volute e pretese dagli
uomini – è la prova che gli uomini non rie-
scono a far fronte agli impegni e ai ruoli che
si sono assegnati. Le donne cominciano a
vedere i nessi fra la cosiddetta «guerra ne-
cessaria» o «inevitabile», e le ingiustizie so-
ciali, la sete di potere, la protervia e la pre-
potenza dei forti e «civili» verso gli indifesi, i
deboli, i più «primitivi». Si rendono anche
conto, in forme diverse nei paesi europei e
negli Stati Uniti, che la loro condizione di
donne – quella di soggetti dalla cittadinanza
parziale e derivata da quella maschile – le
rende per molti versi vicine alle vittime di
guerra, o, per lo meno, più sensibili agli ef-
fetti devastanti delle guerre, di tutte le guer-
re, siano esse perse o vittoriose, giuste o in-
giuste.
Questo nesso tra coscienza pacifista delle
donne e guerre venne sottolineato con
grande evidenza in un numero di Women
Studies Quarterly del 1984, numero che può
quasi considerarsi una «chiamata alle
armi» per la storiografia femminista sul pa-
cifismo delle donne. Blanche Wiesen Cook,
storica già da tempo sensibile alle temati-
che pacifiste, vi denunciava in modo vee-
mente la scarsa conoscenza da parte del
pubblico delle questioni inerenti la pace, la
guerra, le relazioni internazionali. Raccon-
tava come nelle università statunitensi fos-
sero spariti i corsi sulla politica estera statu-
nitense, nella presunzione che la gente co-
mune non avesse il diritto o le capacità di
occuparsi di tali questioni; o meglio, sugge-
riva Cook, con l’intento politico di sottrarre
al controllo democratico la politica estera
del paese. E notava come in quegli anni ’80
fossero state principalmente le donne a bat-
tersi con maggior visibilità contro questo si-
lenzio sulla politica estera nazionale. Sug-
geriva quindi che «come femministe non
possiamo trascurare lo studio del potere in-
ternazionale o l’esame di chi possiede e
controlla la fonte dell’autorità, della pace e
della guerra. Dobbiamo acquisire il lin-
guaggio e gli strumenti per ridefinire, ana-
lizzare e riformulare questi campi di inda-
gine – e dobbiamo farlo alla radice [...] È un
appello alle donne affinché esigano un ruo-
lo più ampio nella formazione e nella ricer-
ca sulla pace, con l’intesa che non si può
studiare la pace senza conoscere la storia e
la politica della guerra, la realtà del milita-
rismo e il ruolo svolto dall’economia inter-
nazionale»4.
A conferma di quanto fosse stata significati-
va per la mobilitazione in favore della pace
la presa di coscienza delle donne, la rivista
pubblicò un documento del 1873, una «Di-
4 B. Wiesen Cook, Feminism and Peace Research: Thoughts on Alternative Strategy, «Women Studies Quar-terly», 1984, 2, p. 18; in questo numero si trova anche una ampia bibliografia, compilata da H.H. Alonso e M.Gustafson, sulla storia delle donne statunitensi nei movimenti per la pace, pp. 46-59.
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chiarazione di Sentimenti»5 stesa apposita-
mente per il Festival delle Donne per la
Pace, che si tenne il 2 giugno di quell’anno
in numerose grandi città degli Stati Uniti.
Scritto da Julia Ward Howe, vi si affermava
che le donne costituivano la metà del gene-
re umano, e la metà non bellicosa. E del ge-
nere umano erano le madri. Il loro duplice
ruolo, di cittadine non consultate, vittime di
decisioni in cui non avevano parte, e di ma-
dri che non volevano crescere figli per farli
diventare carne da cannone, dava alle don-
ne il diritto di esprimere un’opinione, di es-
sere ascoltate. Richiedevano allora l’aboli-
zione del ricorso alla guerra, il disarmo ge-
neralizzato e la creazione di una Assemblea
delle Nazioni alle cui decisioni ogni nazio-
ne che ne facesse parte avrebbe dovuto sot-
tomettersi. Si dichiaravano coscienti che
uno dei prerequisiti per la pace fosse quello
di offrire a tutti condizioni di uguali e digni-
tose opportunità e quindi chiedevano alle
proprie autorità di operare per eliminare le
discriminazioni sociali, religiose o politiche
e quelle fondate su sesso, colore o razza6.
Questo documento, a lungo dimenticato,
declinava l’ideologia «maternalista» del pa-
cifismo e conteneva in nuce i punti di un
potenziale, complesso programma politico.
■ La legittimazione di una nuovavisibilitàIl 1989 sembra l’anno in cui i propositi e i
suggerimenti espressi nel 1984 da Wiesen
Cook sono venuti a maturazione. Apparve-
ro infatti tre libri che aprirono la discussio-
ne sulla specificità femminista di alcuni
gruppi di donne pacifiste. Negli Stati Uniti
Catherine Foster pubblicò Women for All
Seasons: the Story of the Women’s Internatio-
nal League for Peace and Freedom7, e Har-
riet Hyman Alonso, The Women’ Peace
Union and the Outlawry of War, 1921-19458;
in Inghilterra, invece, Jill Liddington scris-
se The Long Road to Greenham. Feminism
and Anti-militarism in Britain since 18209.
Questi tre libri, per quanto diversi fra loro,
avevano in comune l’intento di mostrare
una continuità nel movimento delle donne
per la pace e di individuarne le origini intel-
lettuali. Le statunitensi scelsero di appro-
fondire lo studio di due organizzazioni par-
ticolari che avevano raccolto le voci più ra-
dicali del pacifismo femminista, l’inglese si
propose di dare un resoconto dell’ampio
novero di gruppi di donne coinvolte nel
movimento e di indagarne le origini.
Secondo Liddington fu l’ultimo decennio
dell’Ottocento che vide l’emergere di un
pensiero autonomo delle donne sulla pace.
Da un lato il famoso testo di Bertha Von
Suttner, Giù le armi [1889], dall’altro il libro
di riflessioni che Emily Hobhouse pubblicò
dopo la guerra boera (1899-1901), The
Brunt of War and Where It Fell (1902) cata-
lizzarono la cultura religiosa di donne già
5 Per il significato di questo tipo di strumento politico per dare voce alle istanze delle donne negli Stati Unitivedi R. Baritono, Introduzione a, R. Baritono (a cura di), Il Sentimento della Libertà. La Dichiarazione diSeneca Falls e il dibattito sui diritti delle donne negli Stati Uniti di metà Ottocento, Torino, La Rosa editrice,2001, pp. LV-LIX.6 J. Ward Howe, Woman’s Peace Festival, June 2, 1873, con una presentazione di A. Swerdlow.7 Athens, University of Georgia Press, 1989.8 Knoxville, The University of Tenessee Press, 1989.9 London, Virago Press, 1989.
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pacifiste, attive nel volontariato, con la cul-
tura dei diritti elaborata dal suffragismo.
Giù le armi ebbe grande successo interna-
zionale e fu tradotto in varie lingue. In esso
l’autrice, Bertha Von Suttner, certamente
non una femminista, e conservatrice per
nascita e tradizione culturale, suggeriva il
nesso fra la fragilità e vulnerabilità del cor-
po femminile e la crudeltà disumana della
guerra, metteva in luce la sofferenza delle
donne nelle guerre, ma ne richiamava an-
che la responsabilità, denunciandone la
complicità con lo spirito militarista10.
The Brunt of War and Where It Fell, invece,
traeva origine dall’esperienza della Guerra
Boera, guerra che in qualche modo fu lo
spartiacque in Gran Bretagna fra un generi-
co pacifismo femminile ausiliario di quello
maschile e un pacifismo femminista. L’au-
trice, Emily Hobhouse, fu l’anima della pro-
testa contro questa guerra e colei che scoprì
attraverso la propria esperienza e teorizzò
la specificità del ruolo femminile nel batter-
si contro la guerra. Luddington dice che le
iniziative pratiche e il programma di
Hobhouse nella Londra di Chamberlain fu-
rono visti come «political dynamite»11.
Un’altra pratica innovativa introdotta da
Hobhouse fu quella di recarsi in prima per-
sona sul luogo del conflitto come osserva-
trice indipendente e dispensatrice autono-
ma di aiuti e soccorsi. Tornata in Inghilter-
ra, cominciò a pubblicare rapporti e denun-
ce sulla situazione creata dalle truppe in-
glesi, suscitando da un lato le ire degli im-
perialisti e dall’altro sensibilizzando un più
vasto pubblico anche internazionale sulle
conseguenze devastanti della guerra. Il suo
libro divulgò alcune idee e pratiche riprese
successivamente da altri gruppi di pacifiste.
La mobilitazione pacifista statunitense
ebbe caratteristiche simili a quella inglese e
con questa ebbe frequenti contatti. Ma le
origini di uno specifico pensiero pacifista
delle donne negli Stati Uniti sono ricondotte
da Foster e Alonso all’abolizionismo e alle
confessioni quacchera e evangelica, dalla
quale provenivano molte delle donne impe-
gnate nel sociale sin dai primi anni del XIX
secolo12.
Negli Stati Uniti è la riflessione sulla costan-
te condizione di «guerra» necessaria per
mantenere il sistema schiavistico a far ri-
flettere alcune donne sulla presenza della
violenza non solo nella società allargata ma
dentro la famiglia stessa. Il rapporto violen-
to che deve instaurarsi fra padrone e schia-
vo deve per forza riprodursi all’interno del-
la famiglia, dove lo schiavo è presente con
mille mansioni. Per mantenere l’ordine e
soprattutto la sicurezza della famiglia, lì
dove vi sono gli schiavi, dove è possibile in
ogni momento la ribellione, il tradimento, o
più semplicemente ma anche più frequen-
temente l’inganno, è necessario vivere in
continua allerta, è necessario instaurare un
10 J. Liddington, The Long Road, cit., pp. 36-42; su B. Von Suttner cfr. R. Chickering, Imperial Germany anda World Without War. The Peace Movement and German Society, 1892-1914, Princeton, NJ, Princeton Univer-sity Press, 1975, pp. 78-80.11 J. Liddington, The Long Road, cit., p. 48.12 C. Foster, Women for All Seasons: the Story of the Women’s International League for Peace and Freedom,Athens, University of Georgia Press, 1989; H.H. Alonso, The Women’ Peace Union, cit.
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rigido sistema autoritario, dispensare puni-
zioni, esercitare controlli. Il rapporto padro-
ne – schiavo era simile, per dipendenza e
assenza di diritti del secondo verso il primo,
al rapporto uomo-donna. L’abolizionista
Sara Smith affermò negli anni ’30 dell’800
che le guerre organizzate per soffocare le
insurrezioni di schiavi coinvolgevano tutta
la struttura domestica in una guerra «em-
pia», atroce. Le donne ne rimanevano ne-
cessariamente colpite, pur essendo prive
del diritto di decidere se mantenere o meno
questo stato di guerra. Spettò all’abolizioni-
sta Lydia Maria Child compiere il passo
successivo. Le donne, come gli schiavi, di-
chiarò nel 1838, erano sottomesse attraver-
so la forza fisica degli uomini, e, come gli
schiavi, erano considerate più come pro-
prietà che come individui. Non solo la
schiavitù militarizzava la casa e i rapporti
fra uomo e donna, ma violava quelli che già
nel 1838 Angelina Grimkè, scrivendo a Ca-
therine Beecher Stowe, descriveva come di-
ritti umani: ovvero il diritto di tutti gli esseri
umani, di avere voce in tutte quelle leggi e
regole sia della Chiesa che della società dal-
le quali si è governati13. È nell’abolizioni-
smo che Alonso individua l’origine di prati-
che di militanza che caratterizzeranno sia il
suffragismo che il pacifismo femminista: la
pratica della non-violenza, della testimo-
nianza attraverso la partecipazione perso-
nale.
Queste pratiche ritroviamo appunto nella
Women’s Peace Union (Wpu: Unione delle
Donne per la Pace) di cui Alonso racconta
la storia. La Wpu nacque alla fine della Pri-
ma guerra mondiale da una separazione al-
l’interno del Women’s Peace Party (Wpp:
Partito della Donne per la Pace). Questo
partito era sorto per contrastare l’ingresso
in guerra degli Stati Uniti. Era un partito
pacifista nel senso che militava contro le
guerre, ma non applicava il principio della
resistenza passiva, caro alle/agli eredi di
William Loyd Garrison, l’intransigente fon-
datore del movimento abolizionista. La
Wpu, allora, raccolse quelle donne che con-
sideravano la non-resistenza un principio
inderogabile e che si ponevano un unico,
prioritario obiettivo: ottenere un emenda-
mento alla Costituzione che rendesse la
guerra illegale. Il libro della Alonso, dopo
aver descritto i vari momenti di questo par-
tito, le iniziative delle donne che si mobili-
tarono lungo tutti gli anni ’20 e ’40 del Nove-
cento per far approvare – invano – questo
emendamento, e gli uomini che in parte le
sostennero, traccia la continuità fra questo
partito e la cultura del suffragismo e vede
l’eredità della non-violenza trasmessa e
ampliata nei movimenti pacifisti femmini-
sti degli anni ’8014.
Catherine Foster, in Women for All Seasons,
offriva per la prima volta una descrizione
complessiva delle origini e delle attività in-
ternazionali della Women International Le-
ague for Peace and Freedom, dagli anni del-
la sua nascita, nell’aprile del 1915 come Co-
mitato Internazionale delle Donne Per Una
pace Permanente, fino al 1985. L’autrice
metteva in risalto l’aspetto «politico» della
13 H.H. Alonso, cit., pp. 3-6; H.H. Alonso, Peace as a Women’s Issue. A History of the U.S. Movement for WorldPeace and Women’s Rights, Syracuse, N.Y., Syracuse University Press, 1993, pp. 31-33.14 H.H. Alonso, The Women’s Peace Union, cit., pp. 163-179.
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Wilpf: per quanto vi siano solo brevi cenni,
si comprende quanto questa associazione
di donne abbia influito sulla Lega delle Na-
zioni e come fosse stata la prima organizza-
zione pacifista a creare un ufficio a Washin-
gton per esercitare pressioni sui rappresen-
tanti politici al Congresso15. Dalle diciotto
interviste ad altrettante attiviste emergeva-
no alcuni tratti che caratterizzarono la
Lega. Le donne si avvicinavano alla mili-
tanza pacifista per l’esperienza diretta o in-
diretta della guerra; fondamentale era per
molte l’esempio di altre donne, madri o
amiche, che già vi militavano. La tradizione
religiosa, soprattutto quacchera ed ebraica,
era stata un forte veicolo del loro pacifismo.
Inoltre la maggior parte di queste donne
condivideva una estrazione socio-culturale
medio-alta16.
Queste ricerche avevano avuto il pregio di
suggerire l’importanza anche di piccoli
gruppi nello sviluppo di una cultura e di
una legislazione per la pace, nazionale e in-
ternazionale; avevano anche fatto emergere
una modalità di pensiero e di azione tutta
femminile, spesso critica, se non in conflit-
to, con l’operato maschile17.
■ La dimensione transnazionaleNel solco di questo nuovo fronte di ricerca
fra il 1993 e il 1999 sono apparsi una serie
di studi che hanno collocato gruppi pacifisti
femministi sorti dalle tensioni della Prima
Guerra Mondiale come il Woman’s Peace
Party (Wpp), la Women’s Peace Union
(Wpu), la Women’s Peace Society (Wps), la
Women’s Peace Union of the Western Emi-
sphere, la Women’s International League
for Peace and Freedom (Wilpf), il Comitato
Nazionale sulle Cause e i Rimedi della
Guerra (National Committee on the Cause
and Cure of War – Ncccw) all’interno di una
complessa rete di rapporti fra associazioni
femminili, nazionali e internazionali18.
Questa prospettiva allargata consente di
considerare in ben altri termini l’originalità
delle elaborazioni teoriche e politiche delle
donne e l’influenza della loro mobilitazio-
ne. Le idee e le pratiche che questi gruppi
perseguirono e attuarono appaiono collega-
ti a una più ampia cultura delle donne che
si venne elaborando attraverso la pratica
nel sociale dagli inizi dell’Ottocento e i vari
associazionismi che da essa ebbero origine.
Peace as a Women’s Issue. A History of the
U.S. Movement for World Peace and Wo-
men’s Rights, pubblicato nel 1993 ancora da
Harriet Hyman Alonso19, ebbe il merito di
descrivere i diversi approcci al pacifismo
presenti nel suffragismo e illustrare come
questo movimento venisse quasi costretto
dal dibattito intorno alla guerra ispano-
americana del 1898 e alla Prima guerra
mondiale a prendere posizioni più nette nei
confronti del rapporto donne-guerre. L’as-
senza dei diritti di cittadinanza indeboliva
15 C. Foster, op. cit., p. 18.16 C. Foster, op. cit., pp. 119-203.17 H.H. Alonso, op. cit., p. 167.18 Questa dimensione fortemente «politica» venne messa in risalto da J. Vellacott, A Place for Pacifism andTransnationalism in Feminist Theory: The early work of the Women’s International League for Peace andFreedom, «Women’s History Review», 1993, 1, pp. 23-56.19 Syracuse, N.Y., Syracuse University Press, 1993.
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la voce delle donne anche nelle organizza-
zioni riformatrici miste quali quelle pacifi-
ste. Il separatismo, dunque, diventava per le
pacifiste metodo necessario per sviluppare
proprie iniziative volte a influenzare deci-
sioni politiche. Alonso ricostruisce in detta-
glio il dialogo fra vari gruppi che fu all’origi-
ne del pacifismo femminista nel 1915 e del-
le altre organizzazioni di donne che in parte
ne derivarono fino agli anni 80 del Nove-
cento. Le mobilitazioni messe in pratica
dalle donne pacifiste nello spazio pubblico
disegnarono una nuova modalità di parte-
cipazione di genere nella società civile.
In realtà Alonso individua gli anni fra il
1919 e il 1935 come i più intensi per il movi-
mento pacifista femminista. Le organizza-
zioni che operarono in questo periodo furo-
no la Wilpf, la Women’s Peace Society, la
Wpu e la Ncccw. Le iniziative assunte e i
metodi di propaganda elaborati durante
l’esperienza suffragista innescarono una
mobilitazione che aveva aspetti di massa.
Attraverso le sue strutture la Wilpf arrivò
nel 1927 ad affiliarsi un’organizzazione fi-
lantropica della comunità femminile ebrai-
ca, che contava oltre 12.000 associate. La
Ncccw, nata nel 1924 come consorzio di
undici associazioni femminili di cui aggre-
gava le sezioni per la pace a scopo di coordi-
namento e collaborazione arrivò a coinvol-
gere 5 milioni di donne nel 193520. Questi
gruppi sostennero, con modi e per motivi
diversi, iniziative come la Conferenza Na-
vale di Washington (1921), la Lega delle
Nazioni, il Patto Brian-Kellogg e trattati per
il disarmo, fecero attività di educazione alla
pace e esaltarono il ruolo specifico delle
donne nel mantenimento della pace. Pur
nella diversità delle priorità e delle modali-
tà di azione, concordavano su un principio
suggerito dalla loro esperienza dei proble-
mi sociali: non poteva esistere pace durevo-
le senza l’applicazione a livello internazio-
nale di profonde riforme che cancellassero
le ingiustizie economiche, razziali e di ge-
nere21.
Sono anni in cui le donne accedono in mi-
sura maggiore alle professioni, vengono as-
sunte in uffici governativi e si appropriano
anche degli strumenti istituzionali atti a
perseguire i propri proponimenti. Frances
H. Early mostra come queste professionali-
tà furono messe al servizio della pace. Fem-
ministe pacifiste attive in precedenza nel ri-
formismo sociale come Tracy Mygatt e
Frances Witherspoon organizzarono insie-
me a donne avvocato come Crystal Ea-
stman e Marion B. Cothren il National Civil
Liberties Bureau, che si occupò, durante la
guerra, fra le altre cose, di offrire protezione
legale agli obiettori di coscienza22. Così fa-
cendo non solo ampliarono le fondamenta
giuridiche del movimento per i diritti civili,
ma divulgarono un modello di mascolinità
pacifista in antitesi con quello tipicamente
americano del cittadino-soldato, ma altret-
tanto eroico e quindi legittimo23.
L’influenza sulle istituzioni delle pacifiste
femministe è comprovata anche dalle atti-
20 H.H. Alonso, Peace as a Women’s Issue, cit., p. 106.21 H.H. Alonso, Peace as a Women’s Issue, cit., p. 116.22 FH. Early, A World Without War. How U.S. Feminists and Pacifists Resisted World War I, Syracuse, Syracu-se University Press, 1997.23 F.H. Earley, A World Without War, cit., pp. 90-121.
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vità di Dorothy Detzer. Segretaria della Wil-
pf, fu capace attraverso le sue doti di «lob-
bying», di indirizzare il Congresso alla isti-
tuzione di una commissione di inchiesta
che indagasse il legame fra guerra e indu-
stria militare. Nel rapporto finale del 1934
la commissione Nye (dal nome del senatore
che ne diresse i lavori) sostenne che l’indu-
stria bellica aveva fatto pressioni sui rap-
presentanti del Congresso per ottenere il
voto favorevole all’entrata in guerra degli
Stati Uniti nel 1917. Per la prima volta – e
grazie all’attivismo del movimento pacifista
femminista – fu reso pubblico quello che in
anni successivi verrà definito «complesso
militare – industriale»24. In definitiva, se-
condo questi studi il pacifismo ha offerto al
suffragismo uno sbocco politico una volta
conseguito il voto25.
A fornire la più consistente elaborazione
teorica del pacifismo femminista furono
agli inizi del secolo alcune donne che pro-
venivano dal riformismo sociale e che at-
traverso questo, si avvicinarono alle proble-
matiche del socialismo, appresero a con-
frontarsi con le istituzioni, vissero dall’in-
terno conflitti sociali e ingiustizie, quali
Jane Addams, Emily Green Balch, Hannah
Clothier Hall, Dorothy Dezter e altre26. Ne
ricostruisce il pensiero Linda Schott, in una
innovativa storia intellettuale delle donne
che vuole comprendere tanto le idee origi-
nali da esse prodotte che le pratiche ad esse
ispirate. Schott individua negli scritti di Ad-
dams e di Balch le origini di quello che Ad-
dams stessa definì «il sostituto morale della
guerra», ovvero il «nourishing of human
life» («coltivare la vita umana»). Secondo
Carrie Foster l’enfasi sulla centralità di que-
sto concetto, troppo, a suo dire, «psicologi-
co, sociale, culturale», svilisce la dimensio-
ne politica del pacifismo femminista, che
era invece fortemente radicato nei principi
e nelle pratiche della democrazia27. In real-
tà Schott mostra come l’adesione al nurtu-
ring (cura) fosse emersa dalla coscienza
che problemi sociali, economici, politici,
considerati separati gli uni dagli altri, erano
in realtà interconnessi e che tutti, per essere
risolti, dovevano essere affrontati alla luce
di un ampio movimento per la pace28. Sen-
za la pace non poteva esistere il nourishing.
Jane Addams estese così il concetto di
«cura» dalla sfera privata a quella pubblica
e lo caricò di valenze sociali e politiche. La
«cura», valore prettamente femminile, do-
veva essere assunto a valore universale per
consentire una vera riforma dei rapporti
24 H.H. Alonso, Peace as a Women’s, cit., p. 124; sulla particolare sensibilità di Dorothy Detzer per la politicaestera e le sue implicazioni internazionali vedi R. Jeffrey-Jones, Changing Differences. Women and the Sha-ping of American Foreign Policy, 1917-1994, New Brunswick, N.J. Rutgers University Press, 1995, pp. 63-83.25 H.H. Alonso, Peace as a Women’s, cit., pp. 64; 260-274.26 A. Dawley, Changing the World. American Progressives in War and Revolution, Princeton, Princeton Uni-versity Press, 2003, pp. 241 ss., mette in luce il pacifismo quale componente a tutti gli effetti del progressi-smo e lo identifica come uno dei filoni, sviluppati dalle donne, che fecero sopravvivere il progressismonegli anni ’20 del ’900.27 C. Foster, The Women’s Interwar Peace Movement, «Canadian Review of American Studies», 28, 1998, 2,pp. 189-192.28 L.K Schott, Reconstructing Women’s Thoughts. The Women’s International League for Peace and FreedomBefore World WarI, Standford, Standford University Press, 1997, p. 19.
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sociali ed economici sia nazionali che inter-
nazionali. Lavoratori, donne, immigrati,
che la Addams aveva individuato attraverso
il suo lavoro nel movimento dei «settlemen-
ts» (case di assistenza sociale) come i grup-
pi più sensibilizzati all’importanza della
«cura», avrebbero dovuto essere alla testa
del movimento per la pace29.
A Emily Green Balch, bostoniana, studen-
tessa universitaria a Berlino, riformatrice
sociale, sostenitrice del partito socialista
statunitense e dalla Prima guerra mondiale
in poi attiva pacifista e premio Nobel per la
pace nel 194630, invece, si deve l’adesione
del movimento femminista pacifista al plu-
ralismo e alla non-violenza31. Alla base del-
le posizioni filosofiche di queste donne vi
era una certezza morale: la sacralità della
vita umana e quindi la necessaria rinuncia
a tutti i tipi di violenza. La forza della ragio-
ne, l’amore e l’esempio dovevano costituire
l’alternativa alla violenza. In definitiva, i
principi filosofici che incardinarono il mo-
vimento pacifista femminista furono: «l’im-
pegno nella cura dei propri simili; la con-
vinzione femminista che le donne condivi-
dessero alcune caratteristiche comuni e do-
vessero lavorare con altre donne per la pro-
mozione di cause di interesse delle donne;
il concetto dell’unità nella diversità, sia in
termini di appartenenza che di politiche; e
la fede nell’ideale della resistenza passi-
va»32.
Quale forza interiore, quale intima convin-
zione e o quale solidarietà esterna sostene-
va queste donne pacifiste nel loro impegno
a onorare le responsabilità assunte e svi-
luppare le iniziative concordate con l’asso-
ciazione di cui facevano parte? E, soprattut-
to, quale principio legittimava la consape-
volezza di essere portatrici di valori demo-
cratici e di emancipazione, validi per loro
stesse e per le altre donne, e ne consolidava
il ruolo di portavoce di istanze femministe e
pacifiste non solo nei confronti dei loro
stessi gruppi, ma nei confronti delle istitu-
zioni di cui cercavano e sceglievano di di-
ventare interlocutrici? In fondo, Addams,
Balch, Detzer per gli Stati Uniti o Swanwick,
Macmillan, per la Gran Bretagna, Jacobs e
Manus per i Paesi Bassi, Duchêne per la
Francia, Stöcker per la Germania e le altre
iscritte alla Wilpf non potevano non perce-
pire di essere un gruppo minoritario all’in-
terno dello stesso minoritario movimento
riformatore delle donne. Le donne che si
impegnavano fuori dalla sfera strettamente
domestica o religiosa rimanevano una élite,
per quanto visibile o incisiva. E allora, con-
vinte come erano del valore della rappre-
sentanza democratica, che cosa faceva loro
pensare di rappresentare legittimamente
gli interessi delle donne in prima istanza e
dell’umanità più in generale come fine più
complessivo?
Stavano queste donne forse elaborando un
diverso concetto di democrazia. Eleggeva-
no al loro interno donne con esperienze
29 L.K. Schott, Reconstructing, cit., p. 51.30 Vedi la biografia di M.M. Randall, Improper Bostonian: Emily Green Balch, Nobel Laureate 1946, NewYork, Twayne, 1964.31 L.K. Schott, Reconstructing, cit., pp. 32-37 e pp. 63-68.32 L.K. Schott, Reconstructing, cit., pp. 66, 75, 94.
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molteplici nei settori dell’assistenza sociale
o delle istituzioni, donne che avevano speri-
mentato direttamente i disagi di cui cerca-
vano le soluzioni, donne dalle molteplici
appartenenze associative. Donne quindi
che avevano avuto modo di conoscere vari
aspetti del femminile e dell’umano, del so-
ciale e del politico, del mondo economico e
di quello culturale. E perciò giustamente
rappresentative, democraticamente rap-
presentative, di una democrazia che non le-
gittimava attraverso i numeri soltanto
(maggioranza o minoranza), ma attraverso
la valutazione dell’esperienza e della parte-
cipazione, del coinvolgimento. Una demo-
crazia che non doveva ricalcare le forme
fino ad allora conosciute. Una democrazia
della partecipazione soggettiva33. Si muove
in questa direzione il libro di Leila Rupp,
Worlds of Women. The Making of an Interna-
tional Women’s Movement, che consolida e
amplia l’approccio metodologico di Linda
Schott. Qui sono prese in considerazione le
modalità operative, le figure di rilievo, le
iniziative e i dibattiti che attraversarono il
Consiglio Internazionale delle Donne, nato
nel 1888, l’Alleanza Internazionale delle
Donne, del 1904, e la Lega delle Donne per
la Pace e la Libertà (Wilpf).
Rupp mostra come queste donne, costrette,
per gli intenti che si proponevano, a creare
collegamenti e alleanze internazionali,
dalla valenza intenzionalmente transna-
zionale, dovettero affrontare questioni sul-
lo stato, sulla rappresentanza democratica,
sulle procedure decisionali, sulla legitti-
mazione del ruolo di leadership. Per poter-
si collocare nella sfera pubblica mentre a
un tempo proteggevano e tutelavano quel-
la privata, per la necessità di agire sul ter-
reno internazionale con unità di intenti, le
donne svilupparono nuove forme della po-
litica, nuovi linguaggi e nuove pratiche: la
capacità della mediazione e del dialogo, il
pluralismo, la necessità di contenere gli
estremi senza espellerli. Tutto ciò intes-
sendo fra loro, anche se non senza ombre,
difficoltà e malintesi, reti di relazioni affet-
tive e solidaristiche. Dal crogioulo di que-
ste esperienze nasce quella che la Rupp
considera la caratteristica «cruciale» delle
organizzazioni del movimento delle don-
ne: la tendenza a schierarsi con gli altri
gruppi di donne34.
Tutto ciò ha portato a conseguenze impor-
tanti. Cecilia Lynch, in Beyond Appease-
ment. Interpreting Interwar Peace Movemen-
ts in World Politics35, sostiene che tutto il
movimento pacifista, di cui le donne furono
asse portante, ha avuto una grossa influen-
za, al contrario di quanto sostengono gli sto-
rici «realisti» delle relazioni internazionali,
nel plasmare i valori della Lega delle Nazio-
ni prima e degli organismi internazionali
che l’hanno succeduta poi e nell’«umaniz-
zare» le relazioni internazionali sottraendo-
33 C. Pateman sostiene che le riforme per il suffragio nel corso del XIX secolo estesero la democraziamaschile, ma sottolinearono e consolidarono l’esclusione delle donne. Vedi C. Pateman, Three Questionsabout Womanhood Suffrage, in C. Daley e M. Nolan (a cura di), Suffrage and Beyond. Internationalist Femi-nist Perspective, New York, New York University Press, 1994, p. 333.34 L. Rupp, Worlds of Women. The Making of an International Women’s Movement, Princeton, PrincetonUniversity Press, 1997, p. 5.35 Ithaca, Cornell University Press, 1999.
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le all’incondizionata egemonia dei rapporti
di potenza.
Secondo Lynch gli studi femministi sul pa-
cifismo e sulla politica internazionale han-
no avuto il grande pregio di mettere in di-
scussione le ricostruzioni e le interpretazio-
ni storiche sia «costruttiviste» che «postmo-
derniste» delle relazioni internazionali. Nel
vedere le relazioni internazionali come
profondamente influenzate dal «genere», le
interpretazioni femministe delle relazioni
internazionali hanno fatto emergere con
forza la necessità di portare alla luce, rein-
terpretare e anche criticare, le analisi, le
iniziative, il ruolo in politica internazionale
di forze sociali nascoste o ignorate.
Tutta questa produzione scientifica credo
che consenta di affermare che si può e si
deve parlare di un vero e proprio, per quanto
variegato e non univoco, movimento pacifi-
sta femminista. E di rispondere al quesito
che, riprendendo Vellacott, si pone Maria
Cristina Giuntella: le conquiste di questi mo-
vimenti non furono vittorie di Pirro e le don-
ne riuscirono a farsi ascoltare, anche se con
modalità non immediatamente palesi36.
L’ampiezza di questi studi permette di porsi
una nuova, ambiziosa domanda: il movi-
mento pacifista delle donne ha per caso of-
ferto elaborazioni teoriche e pratiche di mi-
litanza che possono contribuire ad elabora-
re nuove forme della politica valide non per
le donne soltanto ma utili a nuovi movi-
menti?
36 M.C. Giuntella, Cooperazione intellettuale ed educazione alla pace nell’Europa della Società delle Nazio-ni, Padova, Cedam, 2001, p. 119.