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I
Valutare per decidere
The Assessment of Young Offenders within the Juvenile Justice Services
Italian Network for Young Offenders’ Assessment and
Treatment INYOAT
Progetto finanziato dall’Unione Europea su decisione del Consiglio del 12 febbraio 2007. “Prevenzione e lotta contro la criminalità”; parte del programma sulla sicurezza
e la tutela delle libertà, GU L 58 del 24.2.2007
Ministero della Giustizia Dipartimento Giustizia Minorile Centro per la Giustizia Minorile
per la Lombardia - Milano
Istituto Centrale di Formazione del Personale
1 dicembre 2010 Valutare per decidere - The assessment of young offenders in juvenile justice services
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Milano, Settembre 2010
III
Prefazione
Questo documento presenta il risultato di un lavoro realizzato dal
Minotauro, in collaborazione con l’Istituto Centrale della Formazione del
Dipartimento Italiano della Giustizia Minorile e con il Centro per la Giustizia
Minorile della Lombardia.
Obiettivo centrale del progetto era di costituire un momento di confronto tra
gli operatori, psicologi, assistenti sociali, educatori, che in Italia lavorano nei
Servizi della giustizia minorile. Questo confronto si propone come premessa
per uno scambio tra pratiche europee in merito alla valutazione dei minori in
ingresso nel circuito penale.
In particolare il progetto intendeva favorire il confronto tra gli psicologi della
Giustizia Minorile, cercando di individuare obiettivi e metodi specifici del loro
intervento.
Le domande che il progetto si poneva sono state:
- In che modo una valutazione psicosociale può essere utile per la presa di
decisione della magistratura?
IV
- Con quali obiettivi specifici può essere realizzata la valutazione
psicosociale: screening, diagnosi, valutazione dell’imputabilità, valutazione
della pericolosità sociale, valutazione del rischio di recidiva?
Per rispondere a queste domande il progetto ha realizzato:
- Un confronto nella letteratura sul tema della valutazione psicosociale in
diversi sistemi penali minorili europei.
- Una ricerca, realizzata attraverso interviste individuali, sugli psicologi che in
Italia lavorano nei Servizi della giustizia minorile.
- Incontri nazionali tra dirigenti dei Servizi della giustizia minorile o referenti
istituzionali.
- Un’analisi delle relazioni che i Servizi italiani inviano alla magistratura come
aiuto per la conoscenza del minore e come base per la decisione della
misura penale da adottare.
- Incontri tra gli psicologi italiani dei servizi della giustizia minorile, per
favorire un confronto sui modelli, i metodi, gli strumenti utilizzati.
- Un seminario internazionale rivolto a Dirigenti e referenti istituzionali dei
Servizi della giustizia minorile italiani sul tema dell’assessment.
- La costituzione di una rete degli psicologi italiani dei servizi della giustizia
minorile attraverso un gruppo mail, per scambio di informazioni e di
strumenti.
Gli esiti del progetto sono illustrati da questo documento. Un volume
sull’assessment dei minori antisociali è in corso di pubblicazione in italiano.
V
Questo documento, che presenta in modo sintetico l’esito delle diverse
azioni del progetto, può essere utile per gli operatori psicosociali che
lavorano con i minori nei Servizi della giustizia minorile e per i magistrati
che prendono decisioni sulla base delle valutazioni espresse dai servizi.
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Indice
Document Development Gruop VII
1. Introduzione 1 2. Il sistema penale minorile italiano 13 3. Tendenze recenti nelle politiche penali in Europa 21 4. Attività di valutazione nei servizi della giustizia minorile 27 5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia Minorile 35
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva 71 7. Conclusioni e prospettive 161 Bibliografia 167
VII
Document development group
Alfio Maggiolini
Alessandra Ciceri
Cristina Colli
Mauro Di Lorenzo
Giovanna Kluzer
Carlo Trionfi
Cristina Saottini
Veronica Scuffi
Virginia Suigo
Il Minotauro è una cooperativa sociale composta da psicologi, ricercatori e formatori. E’
stato fondato nel 1984. Presiede l’Istituto Gustavo Pietropolli Charmet. Il Minotauro
opera nell’area della prevenzione e del trattamento del disagio psicologico, sociale ed
evolutivo; gli interventi che promuove riguardano attività di consultazione e
psicoterapia, gestione di servizi psicosocioducativi, interventi di prevenzione, ricerca,
formazione e analisi istituzionale. L’approccio teorico e le esperienze pratiche
dell’Istituto sono state presentate in numerosi volumi editi a stampa (www.minotauro.it).
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Istituto Centrale di Formazione
Cira Stefanelli
Maria Grazia Castorina
Bruno Costa
Elvira Narducci,
Giuseppe Mandalari
Antonella Zanfei
Centro per la giustizia minorile della Lombardia
Flavia Croce
L’Istituto Centrale di Formazione (ICF) ha la finalità di programmare, progettare, realizzare e
valutare le attività formative rivolte a tutto il personale appartenente alla qualifiche dirigenziali,
alle qualifiche funzionali e al comparto sicurezza in servizio presso l’amministrazione della
Giustizia Minorile.
I Centri per la Giustizia Minorile (CGM) sono organi del decentramento amministrativo che
possono avere competenza sul territorio di più regioni e in questi casi fanno riferimento a
più Corti d'appello. Esercitano funzioni di programmazione tecnica ed economica, controllo
e verifica nei confronti dei Servizi minorili da essi dipendenti quali gli Uffici di Servizio
Sociale per i Minorenni, gli Istituti penali per i minorenni, i Centri di Prima Accoglienza, le
Comunità.
1. Introduzione
1
Mentre in passato prevaleva un diffuso pessimismo sulle possibilità di
intervento con i minori che commettono reati e sull’efficacia dell’intervento
penale, oggi i risultati di ricerche metanalitiche dimostrano che è possibile
un intervento che riduca il rischio di recidiva, che è possibile un trattamento
per il disturbo antisociale di personalità e, contrariamente a quanto si
pensava, è anche possibile ottenere un cambiamento di tratti psicopatici di
personalità, con interventi sufficientemente intensivi e prolungati (McGuire,
1995; Salekin, 2010; Andrews, Bonta, 1998).
L’intervento precoce con i minori che sono denunciati può avere un
importante valore preventivo sullo sviluppo della carriera delinquenziale.
Per questo scopo è importante una corretta valutazione del comportamento
deviante, del minore e del suo contesto di sviluppo, per poter effettuare un
intervento efficace nel ridurre il rischio di recidiva.
La valutazione psicosociale dei minori che entrano nel circuito penale può
essere:
- orientata prevalentemente a cercare di individuare i problemi psicologici dei
minori e l’eventuale presenza di psicopatologia, in una prospettiva di cura;
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- può essere allargata al contesto famigliare e sociale e non solo al minore,
per valutarne i fattori di rischio e protezione;
- può essere particolarmente attenta alla valutazione del rischio di recidiva;
- può essere orientata a rispondere a specifiche domande della magistratura,
come la maturità/immaturità o la pericolosità sociale.
L’attenzione privilegiata a uno o a più di questi aspetti può dipendere dal
tipo di reato, dalle caratteristiche del minore, da quelle del sistema penale,
dalla fase processuale, oltre che dal modello teorico e dagli orientamenti
metodologici degli operatori che effettuano la valutazione.
L’andamento dei reati minorili mostra che l’età e il genere (adolescenza
maschile) sono tra i fattori di rischio del comportamento trasgressivo. In una
prospettiva evolutiva i reati minorili possono essere espressione sia della
tendenza trasgressiva degli adolescenti, fisiologica, sia di disturbi del
comportamento e della personalità antisociale o di altre psicopatologie.
Possono anche essere, tuttavia, la manifestazione di una difficoltà del
contesto, la famiglia o la scuola innanzitutto, a riconoscere i bisogni
evolutivi dell’adolescente.
Un approccio di psicopatologia evolutiva (Cicchetti, Cohen, 1995;
Achenbach, 2001; Rutter, 1988) porta a dare una grande importanza al
1. Introduzione
3
contesto, superando l’idea che un adolescente “abbia” un disturbo, per cui il
comportamento antisociale è interpretato piuttosto come l’effetto di
un’interazione negativa tra bisogni evolutivi e risposte dell’ambiente, in una
prospettiva in cui sono centrali le rappresentazioni del soggetto dei propri
bisogni e delle risposte dell’altro. Un comportamento delinquenziale può
essere il risultato di diversi percorsi di sviluppo e nello stesso tempo è
suscettibile ad ogni momento di possibili evoluzioni differenti.
Poiché uno degli scopi importanti, anche se non il solo, dell’intervento
penale è di ridurre i rischi di recidiva, è indispensabile chiedersi quali
caratteristiche del minore e del suo contesto di vita consentano la
formulazione di una prognosi più favorevole e su quale sia il rapporto tra
obiettivi psicologici di responsabilizzazione e sviluppo da una parte, e
obiettivi più strettamente comportamentali. Solo una maggiore capacità di
valutazione consente di evitare un tipo d’intervento che si limiti a proporre
un’unica risposta, indifferenziata, per tutti gli utenti dei Servizi della giustizia
minorile.
Anche se ai diversi reati possono essere correlati differenti psicopatologie,
in genere nella maggior parte dei casi ci si trova di fronte ad un disturbo
della condotta o a un disturbo antisociale di personalità (DSM-IVR, 2000).
Nei Servizi della giustizia minorile, tuttavia, la diagnosi di disturbo della
condotta o di disturbo antisociale proposta nel DSM-IVR (descritto come
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caratterizzato soprattutto da una persistente inosservanza e violazione dei
diritti degli altri, che si manifesta nell’infanzia o nella prima adolescenza, e
continua nell’età adulta), si rivela insufficientemente discriminante.
Un’osservazione sistematica è particolarmente utile per raccogliere dati in
modo comunicabile e costituisce la premessa fondamentale per la
realizzazione di ricerche sull’efficacia dell’intervento del sistema dei Servizi
della giustizia minorile.
L’intervento dei Servizi, in effetti, non ha solo lo scopo di sanzionare il
comportamento e di limitarne le conseguenze negative per la società, ma si
propone anche obiettivi di cambiamento dell’adolescente e di conseguenza
costituisce una forma di trattamento.
Attraverso il lavoro psicosociale, che trova applicazione non solo nella
detenzione, ma soprattutto con misure alternative, si realizzano diversi tipi
d’interventi, che implicano un trattamento del minore e del suo contesto di
vita, attraverso una presa in carico e l’offerta di un supporto psicologico,
sociale o educativo.
La complessità dell’intervento rende difficile una valutazione dei risultati.
L’efficacia dell’intervento penale è spesso misurata in base al criterio della
riduzione delle recidive, un punto di vista necessario, ma non sufficiente,
1. Introduzione
5
perché evidentemente gli adolescenti possono ben smettere di commettere
reati, pur restando antisociali o sviluppando un comportamento asociale,
più che antisociale, con marginalità, uso di sostanze, ecc.
In parte, la scarsa attenzione alla verifica dell’intervento è anche dovuta al
diffuso pessimismo sui risultati che caratterizza sia l’intervento penale, sia la
psicoterapia dei disturbi antisociali. Anche se si riconosce che il
comportamento antisociale è persistente, oggi si tende sempre più a
ritenere che sia comunque modificabile. La sua trasformazione, d’altra
parte, avviene spesso spontaneamente, poiché anche nei casi più difficili la
metà dei ragazzi che commettono reati non persiste nel comportamento
antisociale, riuscendo ad acquisire un positivo ruolo sociale, attraverso la
capacità di lavorare e di vivere una relazione di coppia. Poiché nel
determinare questo cambiamento è spesso importante il contesto, sia
familiare sia sociale, in cui il comportamento è inserito, ci si può
legittimamente chiedere in che modo anche l’intervento istituzionale del
sistema penale possa costituire un fattore protettivo e non di rischio per
l’evoluzione successiva. In effetti è stato riconosciuto il rischio di un effetto
iatrogeno della detenzione e in generale del trattamento penale (McGuire,
1995).
Un possibile obiettivo nei Servizi della giustizia minorile è di adottare una
logica che, pensando all’intervento come ad un trattamento, arrivi a
verificare l’efficacia dell’intervento stesso, sia in termini di recidiva, sia per
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quanto riguarda l’evoluzione degli adolescenti presi in carico anche da un
punto di vista psicosociale. In questa prospettiva è fondamentale una
raccolta e analisi di dati che consenta di differenziare le caratteristiche dei
minori sottoposti a procedimenti penali, in modo da poter proporre un
intervento che sia effettivamente commisurato alle loro caratteristiche e per
questo efficace, riducendo la probabilità che l’intervento sia effettuato
prevalentemente sulla base delle esigenze istituzionali, più che su quelle
del minore.
La valutazione dei minori tra obiettivi penali e sa nitari
Nella valutazione dei minori in ingresso nel circuito penale è importante da
una parte l’individuazione del rischio di recidiva, come criterio per orientare
gli interventi istituzionali, dall’altra una valutazione delle problematiche
psicologiche e sociali che possono essere alla base del loro coinvolgimento
nel circuito penale.
Le probabilità che un adolescente che entra nel circuito penale possa
commettere un nuovo reato sono in genere elevate. E’ difficile avere dati
attendibili e comparabili sulle percentuali di recidiva, per la diversità dei
campioni, per età, per gravità, per i tempi presi in considerazione nel follow
1. Introduzione
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up e per i criteri utilizzati (nuova denuncia, nuovo arresto, nuova condanna).
In generale si stima, comunque, che le percentuali di recidiva negli
adolescenti che commettono reati in modo non occasionale siano
particolarmente elevate, almeno fino ai due terzi circa nei tre anni
successivi al primo reato. Nei delinquenti “cronici” (intorno al 5% di chi
commette reati) le percentuali di recidive nei cinque anni successivi sono
del 77% tra i 15-20 anni, del 50% tra 20-25 anni e del 35% tra i 25-30 anni,
con una media di 4,6 reati, per chi commette più di un reato (Rutter, Giller,
Hagell, 1998). I risultati di uno studio condotto in 15 Stati degli Stati Uniti
riportano che più dell’80% di giovani detenuti di età compresa tra i 14 e i 17
anni a tre anni dal rilascio è stato nuovamente arrestato (Langan, Levin,
2002). In uno studio condotto in Gran Bretagna l’88% dei ragazzi fra i 14 e i
16 anni ha commesso un nuovo reato entro due anni dalla data del rilascio
(Hagell, 2002). Un altro studio riporta che a distanza di un anno il 49,2% dei
giovani è stato nuovamente arrestato, il 70,8% a due anni di distanza e il
76,7% a tre anni (Mc Guire et al., 1995). Vermeiren, De Clippele, Deboutte
(2000) riportano una percentuale di recidiva del 46,2% ad un follow-up di
otto mesi.
E’ stata condotta una ricerca su un campione di 103 minori maschi (italiani,
nomadi e stranieri) sottoposti a procedimenti penali nei Servizi della
giustizia minorile di Milano, attraverso la predisposizione di una scheda di
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valutazione del rischio di recidiva nella fase di ingresso nei Servizi (Centro
di prima accoglienza, Ufficio di servizio sociale per i minorenni, Istituto
penale minorile) (Maggiolini, Ciceri, Macchi, Marchesi, Pisa, 2009). I risultati
di questa ricerca indicano che un minore su due (54,1%) ha un rischio alto
di recidiva; uno su quattro (25,1%) un rischio medio e uno su cinque
(20,8%) basso. A due anni di distanza dalla presa in carico il 32% dei minori
ha avuto un altro procedimento penale; nessun minore valutato a basso e
medio rischio aveva avuto una recidiva; nei minori valutati all’ingresso con
un alto indice di rischio la percentuale era del 44%, in prevalenza nomadi o
minori italiani con rilevanti problemi psicopatologici.
Questa ricerca mostra che la valutazione del rischio di recidiva, appare
sufficientemente predittiva. Le decisioni della magistratura nella fase di
ingresso dei minori nel circuito penale, inoltre, appaiono sostanzialmente
coerenti con il livello di rischio di recidiva. La verifica sui gruppi più a rischio,
a due anni di distanza, porta a considerare con particolare attenzione le
necessità di intervento nei confronti dei nomadi e dei minori italiani che si
trovano in contesti famigliari difficili e che sviluppano disturbi psicopatologici
gravi. Un dato significativo che emerge dalla ricerca è che il rischio di
1. Introduzione
9
recidiva appare molto correlato a fattori di rischio di contesto (culturale e
famigliare).
Un’altra area importante di valutazione è relativa ai bisogni e ai problemi
psicopatologici che possono essere alla base dei reati.
Il comportamento antisociale può essere espressione di un disturbo della
condotta (disturbo antisociale di personalità) o di altre patologie psichiche
più o meno gravi. Tutte queste esprimono comunque sempre anche
difficoltà di adattamento, nel rapporto fra bisogni adolescenziali, compiti
evolutivi specifici della fase di età, contesto familiare e sociale di crescita.
Nel quadro di un progressivo riconoscimento dell’importanza dei fattori
psicologici alla base della delinquenza, negli ultimi anni sono state condotte
diverse ricerche sul rapporto tra psicopatologia e delinquenza minorile, non
solo per individuarne i precursori infantili e i fattori di rischio, ma anche per
distinguere diverse tipologie di adolescenti antisociali e per individuare la
prevalenza dei disturbi psicologici tra i minori che entrano nel circuito
penale (Dazzi, Madeddu, 2009; Grisso, Schwartz, 2000; Loeber, Farrington,
Stouthamer- Loeber, Van Kammen, 1998; Vreugdenihl, Doreleijers,
Wermeiren, Wouters, Van Den Brink, 2004; Wasserman, McReynolds,
Lucas, Fisher, Santos, 2002; Wasserman, Ko, McReynolds, 2004).
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Diversi studi hanno confermato che i giovani che entrano nel circuito
penale, in particolare i detenuti, hanno una possibilità di tre o cinque volte
superiore alla popolazione generale di sviluppare un disturbo mentale
(Teplin, Abram, McClelland, Dulcan, Mericle, 2002; Wasserman,
McReynolds, Lucas, Fisher, Santos, 2002; Vermerein, 2003; Boesky, 2002).
Il disturbo della condotta, in particolare, è la diagnosi più comune negli
adolescenti delinquenti, accanto a quello oppositivo provocatorio (Moffit et
al., 2003; Boesky, 2002). Anche gli adolescenti che abusano di sostanze
corrono un rischio maggiore di incorrere in un comportamento criminale
(Moffit et al., 2000).
Una ricerca su un campione di 66 minori (maschi, età media 16.3 anni; 35%
italiani, 65% stranieri o nomadi), in ingresso nel circuito penale nel 2005
presso i Servizi della giustizia minorile di Milano (detenuti, residenti in
comunità alloggio o in carico presso l’Ufficio di servizio sociale per
minorenni) è stata condotta attraverso un questionario autosomministrato,
la Youth Self Report, e un questionario compilato dagli operatori, la Teacher
Report Form (Achenbach, 2001). La valutazione da parte degli operatori
rileva problemi internalizzanti nel 72% degli adolescenti e una stessa
percentuale di esternalizzanti. I risultati del questionario autosomministrato
1. Introduzione
11
indicano che il 38% degli adolescenti ha problemi esternalizzanti e il 29%
internalizzanti. Il confronto tra i disturbi psicopatologici valutati dagli
operatori e un indice di rischio di recidiva mostra che il 91,2% degli
adolescenti con un alto indice di rischio ha un livello clinicamente
significativo di problemi di rilevanza psicopatologica. Questa ricerca
conferma che i disturbi sono diffusi tra i minori che entrano nel circuito
penale. Il fatto che il disagio psicopatologico sia soprattutto presente tra i
minori che sono a rischio di recidiva, porta a ritenere che l’intervento
psicologico possa essere utile nel ridurre le recidive.
L’attenzione ai bisogni e alle problematiche che sono alla base dei reati è
un fattore centrale e discriminante dell’efficacia dell’intervento nei servizi
della giustizia minorile (Dowden, Andrews, 1999) e gli interventi in cui il
trattamento educativo e sociale è integrato con quello psicologico sono i più
efficaci nel ridurre le recidive (McGuire, 2004). Una corretta valutazione
psicologica all’ingresso nel sistema penale può essere utile per orientare
l’intervento dei Servizi (Vermerein et al., 2003).
Obiettivo della fase di valutazione non è tanto la formulazione di una
diagnosi psicopatologica, quanto la costruzione di un progetto educativo sul
minore, fortemente radicato nella conoscenza della sua personalità e delle
sue dinamiche di funzionamento psichico, che sostenga la funzione
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decisionale del Giudice. Il progetto ha come scopo principale quello di
sostenere la ripresa del percorso di crescita e di promuovere l’acquisizione
di una nuova identità soggettiva e sociale.
La valutazione psicosociale è anche un primo momento atto a favorire la
capacità del minore di rappresentarsi come persona dotata di emozioni, di
desideri e di intenzioni, nonché momento in cui egli può esprimere il proprio
punto di vista sul reato e manifestarne il significato soggettivo.
2. Il Sistema penale minorile italiano
13
Il Tribunale per i minorenni
In Italia l’intervento con i minori dai 14 ai 18 anni che commettono reati è
competenza del Tribunale per i Minorenni, che è stato istituito nel 1934, con
la Legge Minorile n° 1404.
Il funzionamento attuale dell’intervento penale minorile è basato sulle
“Disposizioni sul processo penale minorile” del D.P.R n°448 del 1988, che
costituiscono un modello innovativo ed un punto d’arrivo in un lungo
percorso legislativo, che tiene conto delle direttive internazionali, in
particolare le “Regole Minime di Pechino” adottate dall’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite, Risoluzione 40/33 del 29 novembre 1985.
Il Codice di procedura penale minorile italiano prevede provvedimenti che
consentono la rapida chiusura del processo, la riduzione di risposte
limitative della libertà personale e più in generale la riduzione del danno che
l’impatto con la giustizia può produrre sul piano educativo. Il Codice indica
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inoltre diversi percorsi di uscita dal circuito penale, che valorizzano
interventi di aiuto e sostegno, attuabili attraverso l’azione diretta con il
ragazzo, la sua famiglia, il suo contesto allargato di relazioni, il suo
ambiente, ed attraverso l’azione indiretta, attraverso il coinvolgimento delle
risorse presenti nel contesto di sviluppo.
Una misura importante è la messa alla prova, che consiste nella
sospensione del processo e nell’affidamento del minore ai Servizi della
giustizia minorile che, anche in collaborazione con i Servizi sociali del
territorio, svolgono attività di osservazione, sostegno e controllo. La misura
è applicabile per tutte le tipologie di reato e non soltanto in caso di primo
reato, ha durata massima di tre anni e deve essere necessariamente
condivisa dal minore e concordata con lui. La decisione del giudice si fonda
sugli elementi acquisiti attraverso un’indagine sulla personalità del minore e
sui problemi e le risorse del suo contesto ambientale.
Anche al di là della messa alla prova, la risposta penale alla delinquenza
minorile è tesa a promuovere la coscienza del minore rispetto al significato
del reato e l’assunzione di responsabilità rispetto ai propri comportamenti e
2. Il Sistema penale minorile italiano
15
tende ad assumere un’ottica progettuale, che privilegi l’aspetto del recupero
sociale alla finalità retributiva della pena.
Per raggiungere questi obiettivi è fondamentale l’intervento dei Servizi della
giustizia minorile.
I Servizi della giustizia minorile
I Servizi della giustizia minorile sono:
1. Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni
2. Istituto Penale per i Minorenni
3. Centro di Prima Accoglienza
4. Comunità educativa.
L’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni si attiva nel momento in cui, a
seguito di denuncia, un minore entra nel circuito penale e lo accompagna in
tutto il suo percorso penale. Avvia l’intervento per il minore in stato di
arresto e di fermo, segue il progetto di intervento in misura cautelare non
detentiva, gestisce la misura della sospensione del processo e della messa
alla prova e complessivamente segue tutte le misure alternative e
sostitutive. Svolge altresì compiti di assistenza in ogni stato e grado del
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procedimento, e predispone la raccolta di informazioni utili per
l’accertamento della personalità su richiesta del magistrato.
Il Centro di Prima Accoglienza è una struttura filtro che ospita i minori
arrestati e fermati, per un massimo di 96 ore in attesa dell’udienza di
convalida. Tale servizio si differenzia dal carcere, proprio per limitare
l’impatto che potrebbe avere sul minore, e si connota come un edificio di più
ridotte dimensioni, in cui gli operatori minorili accolgono il minore ed
effettuano un’osservazione preliminare.
L’Istituto Penale per i Minorenni è lo spazio preposto all’esecuzione della
misura cautelare detentiva e della pena e ha una organizzazione funzionale
ad un’azione educativa integrata con gli altri Servizi della giustizia minorile e
del territorio.
Gli Istituti Penali per i Minorenni ospitano minorenni o ultradiciottenni (fino
agli anni 21, nel caso in cui il reato a cui è riferita la misura sia stato
commesso prima del compimento della maggiore età) in custodia cautelare
o in esecuzione di pena detentiva. Il D.P.R. 448/88, introducendo il principio
della residualità della detenzione per i minorenni, opera, di fatto, rispetto al
passato, una decentralizzazione del carcere nel sistema penale minorile.
2. Il Sistema penale minorile italiano
17
Le Comunità educative sono servizi di supporto all’intervento in area penale
esterna, possono essere gestite dalla Giustizia minorile, anche se
attualmente prevale la formula del convenzionamento con il privato sociale.
In Italia il ricorso ai collocamenti in comunità socio-educative, sia in ambito
di misura cautelare, sia progettuale, rappresenta un ambito importante
dell’intervento penale.
L'accertamento della personalità
Uno dei perni attorno a cui ruota la giustizia minorile è l’attenzione costante
alla personalità dell’adolescente autore di reato; di conseguenza le
decisioni del giudice e gli interventi, di qualsiasi forma essi siano, devono
essere sensibili ai bisogni, alle condizioni ed alle risorse relative alla
personalità del ragazzo. In relazione a questi obiettivi, quindi, l’intero iter
processuale del minore è accompagnato da varie forme e modalità di
accertamenti di personalità.
Come cita l’art. 9 del D.P.R. n.448/1988:
“Il PM e il Giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse
personali, familiari, sociali ed ambientali del minorenne al fine di accertarne
l’imputabilità ed il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del
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fatto nonché disporre le adeguate misure penali ed adottare gli eventuali
provvedimenti civili”.
E’ bene sottolineare che la legge ha posto l’esigenza della valutazione della
personalità non tanto e non solo per decidere se il minore è in grado di
affrontare il processo, quanto perché il processo stesso si dimensioni, si
adegui e si renda accessibile al soggetto in età evolutiva e quindi rispetti il
percorso di crescita ed acquisizione di un’identità adulta.
La responsabilizzazione
Il Codice di procedura penale D.P.R n. 448 non considera tanto l’autore di
reato come oggetto di sanzioni o in quanto minore come soggetto debole
da tutelare, ma soprattutto come un interlocutore, che può dialogare con
l’adulto magistrato e prendere decisioni sul proprio futuro penale.
Oltre all’importanza di salvaguardare le esigenze educative del minore, il
codice favorisce in questo modo l’attivazione di un processo di
responsabilizzazione. L’accertamento della verità e la sanzione finiscono
per essere secondarie all’obiettivo del recupero del minore attraverso lo
sviluppo di capacità di impegno e riparazione.
2. Il Sistema penale minorile italiano
19
Il processo penale minorile ha un valore educativo, non solo come rispetto
delle esigenze evolutive del minore, ma anche come capacità dello stesso
processo penale di svolgere una funzione di ripresa evolutiva.
Le numerose figure (psicologo, educatore, assistente sociale, giudice,
avvocato), che entrano in relazione con lui durante l’iter processuale
devono perseguire un obiettivo di ripresa dello sviluppo.
Non solo il processo non deve interrompere i processi evolutivi in atto, ma è
anche un’occasione per attivare relazioni educative o per riprendere
percorsi formativi interrotti: tale obiettivo è perseguito sia all’interno del
processo, in quanto coinvolge, ove possibile, i genitori, sia all’esterno come
progetto di recupero del minore attraverso l’inserimento nel territorio,
attraverso la scuola o il lavoro.
In questa prospettiva il processo penale per i minori deve adeguarsi alla
personalità del minore, ai suoi bisogni evolutivi e al suo livello di maturità.
L’accertamento sulla personalità, che è operato da assistenti sociali,
educatori e psicologi, non ha tanto l’obiettivo di formulare una diagnosi, né
di verificare se il minore è in grado di affrontare il processo, quanto di
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adattare il processo ai bisogni e alle capacità del minore, al suo livello di
sviluppo e maturità.
3. Tendenze recenti nelle politiche penali in Europ a
21
Negli ultimi anni le politiche penali nell’ambito della giustizia minorile sono
passate attraverso tendenze divergenti nei diversi Paesi della Comunità
Europea. Da un lato, è emersa la tendenza ad una maggiore repressione
dei comportamenti penalmente rilevanti, dall’altro vi è stata una notevole
apertura alla cosiddetta “giustizia riparativa” ed infine si è verificata una de-
giurisdizionalizzazione della criminalità minorile (Padovani, Ciappi, 2010).
Osserviamo che in molti paesi europei è in corso un inasprimento delle
politiche penali minorili, che si accompagnano al dibattito
sull’abbassamento dell’età imputabile; tale inasprimento è dovuto in primo
luogo alla crisi del modello riabilitativo, soprattutto nei paesi di lingua
anglofona, accompagnato al riemergere di istanze di difesa sociale e di
controllo. Il pessimismo nei confronti del modello welfaristico, di stampo
riabilitativo, ha fatto sì che si spostasse l’attenzione dall’autore di reato allo
studio delle caratteristiche del reato e della vittima, con obiettivi primari di
sicurezza sociale.
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In questa tendenza si inserisce l’affermarsi di un modello di penalità
alternativo a quello tradizionale, basato sulla risposta penale e sulla
punizione come risposta alla trasgressione: il modello della giustizia
riparativa. In tale modello assurge a ruolo primario l’aspetto riparativo della
giustizia penale, quello cioè volto alla risoluzione del conflitto venutosi a
creare a seguito della commissione del reato e alla riparazione del danno
conseguente, prescindendo dal controllo del comportamento e della
retribuzione, perseguito attraverso la punizione. Sempre all’interno del
modello riparativo si osserva con frequenza il ricorso alla pratica della
mediazione (ad esempio la Victim Offender Mediation), nella quale è
riportata sulla scena anche la vittima del reato, in una vicenda da cui,
nonostante sicuramente la riguardi direttamente, veniva tradizionalmente
esclusa.
Per quanto concerne la questione della de-giurisdizionalizzazione, in paesi
come la Gran Bretagna, l’Olanda, il Belgio e la Germania le nuove politiche
criminali sono caratterizzate da misure amministrative (di diversion,
restorative justice, youth panel conferencing) caratterizzate da un forte
intervento dell’autorità locale, con il corrispondente ridimensionamento del
ruolo della magistratura ad un controllo formale di decisioni sostanziali
3. Tendenze recenti nelle politiche penali in Europ a
23
adottate a livello degli organi amministrativi. In Gran Bretagna, ad esempio,
la risposta penale appare enormemente diversificata, con l’obiettivo di
evitare per quanto possibile il coinvolgimento in prima istanza del giovane
autore di reato nel sistema penale. A tale proposito la polizia ha a
disposizione una serie di opzioni alternative al rinvio a giudizio: ciò è reso
possibile dallo strumento della diversion.
In modo simile in Germania un’importante eccezione al principio di legalità
è costituita dal potere discrezionale del pubblico ministero di richiedere, in
alternativa al rinvio a giudizio, l’archiviazione del caso in concomitanza con
l’adozione di misure educative; lo scopo di tale pratica è, analogamente
all’esempio della Gran Bretagna, quello di evitare un inopportuno
coinvolgimento del minore nel sistema penale e, sopratutto, di privilegiare la
riabilitazione e l’integrazione dell’autore di reato nella società civile,
rispondendo ad un principio di opportunità sostenuto dalle ricerche
empiriche sulla riduzione della recidiva.
Un filone comune a tali politiche criminali individua l’adozione di parametri
di rischio (risk management) e di indicatori probabilistici (prevenzione
attuariale) posti alla base della presa di decisione sulle misure da adottare,
e si inserisce nel panorama più ampio della maggiore enfasi posta sulla
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misurazione dell’efficacia delle politiche di prevenzione della criminalità (la
cosiddetta “what works” policy). I programmi di intervento oggi, a livello
europeo, non possono prescindere da una valutazione dell’efficacia
nell’ottica della riduzione delle recidive. I cambiamenti intercorsi a livello di
politiche penali hanno dunque portato al declino della filosofia trattamentale,
risocializzativa, in favore di obiettivi più legati alla gestione del rischio ed al
contenimento del soggetto in un’ottica preventiva.
Questi orientamenti si riflettono anche a livello delle metodologie della
valutazione del minore. Se infatti in tutta Europa è diffusa la richiesta ai
servizi di accertamento della personalità, maturità e circostanze familiari e/o
personali del giovane delinquente, le procedure e le metodologie più
innovative tendono ad essere rigorose, standardizzate (vedi “Asset”, lo
strumento adottato presso i servizi della Giustizia minorile in Gran Bretagna
per la valutazione del rischio di recidiva; o BARO, analogo strumento per la
valutazione adottato in Olanda e Svizzera), basate su modelli predittivi di
tipo attuariale.
In Italia, nel confronto con altri Paesi europei, la funzione riabilitativa del
sistema penale mantiene tuttavia una grande centralità e questa filosofia di
3. Tendenze recenti nelle politiche penali in Europ a
25
intervento è tradizionalmente meno attenta alla questione della valutazione
dell’efficacia. Il sistema italiano appare meno snello e l’iter giuridico è poco
differenziato in funzione della gravità del reato, così come del livello di
rischio, allo stesso modo della risposta penale.
In realtà, pochissimi Paesi in Europa si sono dotati, come Stati Uniti e
Inghilterra, di specifiche linee-guida per la valutazione del minore sottoposto
a procedimento penale, e viene dunque a mancare una formalizzazione
delle prassi in questo ambito. Si viene a creare dunque una sorta di iato tra
la normativa, che stabilisce ad esempio in che momento processuale ed in
quali casi possa essere richiesta una valutazione, o quali siano i servizi e gli
operatori deputati ad effettuarla, e la metodologia impiegata nella prassi
quotidiana.
Per quanto riguarda le questioni di competenza, si rileva che, a livello
normativo, in alcuni Paesi, come la Croazia, i servizi territoriali assumono
un ruolo preminente, mentre in altri, come il Belgio, il Portogallo, la Spagna,
sono i servizi penali specificatamente deputati alla valutazione. In realtà,
nella maggior parte dei Paesi Europei, tende a verificarsi una netta
distinzione tra la competenza minorile civile e quella penale: l’Italia
rappresenta un’eccezione in tal senso, con il giudice minorile competente in
materia sia civile che penale.
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In alcuni Paesi, come la Grecia, la richiesta di valutazione sul minore autore
di reato tende ad essere orientata ad aspetti sanitari-psichiatrici, oppure
finalizzata all’individuazione di problematiche legate all’assunzione di
sostanze stupefacenti. L’accertamento di personalità può rappresentare una
prassi (ad esempio in Olanda, Slovenia, così come in Italia) oppure essere
richiesta solo nei casi più gravi.
In particolare, in Germania, la valutazione di personalità del minore prevede
da parte del giudice il coinvolgimento diretto degli insegnanti o dei tutor-
datori di lavoro, nel caso il minore stia svolgendo un tirocinio lavorativo, ad
eccezione dei casi in cui vi sia il fondato rischio che il giovane possa
perdere il lavoro a causa della valutazione.
In definitiva, la mancanza di linee guida condivise a livello europeo
sull’assessment dei minori sottoposti a procedura penale, genera una
pluralità di prassi difficilmente confrontabili.
4. Attività di valutazione nei servizi della giustizia minorile
27
L’Istituto Centrale di Formazione del Dipartimento Giustizia Minorile ha
indagato il modo in cui i Servizi Minorili in Italia producono le conoscenze
necessarie all’accertamento della personalità del minorenne.
L’accertamento della personalità è un nucleo centrale del lavoro dei Servizi,
un momento cruciale dell’interazione con la magistratura, e le relazioni
prodotte dai Servizi minorili testimoniano nella pratica quotidiana
presupposti e metodologie di lavoro, in cui si integrano conoscenze
psicologiche, sociali e educative. Le relazioni non sono solo l’espressione
delle conoscenze che i servizi raccolgono sulla situazione del minore e sul
suo contesto, ma anche di quanto i servizi ritengono utile comunicare alla
Magistratura. Tra comprensione e comunicazione vi può essere, infatti, uno
scarto significativo, giustificato dall’idea di ciò che da una parte è utile
comunicare alla magistratura, senza d’altra parte sconfinare nel terreno di
una valutazione dei fatti (il reato), di competenza esclusiva della
magistratura, e senza nemmeno rischiare di minare la relazione di fiducia
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con il minore e la sua famiglia, un presupposto indispensabile per garantire
l’efficacia dell’intervento.
Sono state analizzate relazioni prodotte dai Servizi della giustizia minorile
italiani, sia redatte nella fase iniziale della presa in carico, sia in fasi di
valutazione avanzate del percorso penale del minore.
Il campione è stato costruito in modo che fosse il più possibile
rappresentativo delle diverse realtà regionali, nord, centro e sud, e dei
diversi Servizi (CPA, USSM, IPM).
Sono state raccolte 168 relazioni così distribuite:
Servizi: 29 CPA di Roma e Sassari; 75 USSM di Bolzano, Napoli, Roma,
Lecce e Torino; 56 IPM di Milano, Catania e Catanzaro.
Sesso: 85% maschi.
Età: 14-16 anni 9,4%, 16-18 40%, 18-21 12,5%.
Nazionalità: italiani 68,8%; gli stranieri provengono in particolare da
Romania 8,8% e Marocco 5%.
Reati: 37,5% contro il patrimonio, 20,6% contro la persona, 16,9% spaccio
e 4,4% altri reati.
4. Attività di valutazione nei servizi della giustizia minorile
29
Le relazioni sono il frutto della collaborazione di più ruoli professionali
(assistente sociale, psicologo, educatore) nel 50% dei casi. Quando sono
scritte da un solo operatore nella maggior parte dei casi si stratta
dell’assistente sociale (33%) e dell’educatore (17%), non dallo psicologo.
Le relazioni sono state analizzate sia nella forma della stesura (inizio,
contenuto centrale e conclusioni) sia nelle principali aree di contenuto
(descrizione del minore, il reato, la famiglia, il contesto, l’intervento, il
progetto).
Le relazioni, che nella grande maggioranza dei casi sono di due-quattro
pagine di lunghezza, iniziano per lo più con il riferimento al reato come capo
di imputazione (88%). Lo svolgimento della relazione fa riferimento al
minore e ai suoi atteggiamenti e comportamenti e le conclusioni possono
contenere sia considerazioni di carattere generale, senza indicazioni
specifiche alla magistratura (46%), sia indicazioni (24,4%), sia un progetto
articolato (17%).
Le informazioni sono costruite attraverso il colloquio con il minore e
l’osservazione del suo comportamento nella relazione con i servizi, con la
famiglia (54%). Quasi assenti sono i riferimenti a test o griglie codificate
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(5%). Un fonte importante di informazione è costituita da altri servizi del
territorio (89%) o da comunità residenziali (24,4%) e scuole (18,2%).
Nella descrizione del minore sono frequenti le informazioni sulla famiglia, la
scuola o gli impegni lavorativi, e sul modo in cui si rapporta all’intervento
della giustizia.
In poco meno della metà (46%) delle relazioni vi sono espliciti riferimenti al
livello di maturità e a tratti stabili di comportamenti e atteggiamenti
(personalità). Nello stesso ordine di frequenza vi sono dati sulla storia
evolutiva, con una particolare attenzione agli eventi della vita del minore.
Meno frequenti sono invece le notizie sulle relazioni con i pari (38%), gli
interessi nel tempo libero (30%), le relazioni sentimentali e sessuali (15%).
Diagnosi esplicite di psicopatologia sono presenti solo nel 13% dei casi.
Lo stile delle relazioni per la maggior parte dei contenuti è di riportare dati e
informazioni, senza una valutazione o un’elaborazione esplicita da parte
degli operatori, come a voler sottolineare una dimensione di oggettività
dell’informazione. Solo quando si fa riferimento ad atteggiamenti del
minore nei confronti degli operatori stessi e dell’intevento dei servizi è più
frequente che vi sia una maggiore esplicitazione delle valutazioni da parte
dell’equipe, attraverso commenti espliciti.
4. Attività di valutazione nei servizi della giustizia minorile
31
I riferimenti al reato come capo di imputazione costituiscono normalmente
l’avvio della relazione. Nel corso della narrazione, tuttavia, non sono
frequenti i commenti sul senso soggettivo del reato o una valutazione di
fattori di rischio che possano dare indicazioni sul rischio di recidiva, presenti
nel 32% dei casi, con scarsi richiami a precedenti nella carriera
delinquenziale, così come sono scarsi i commenti sulla pericolosità sociale.
Nel 67% dei casi c’è un riferimento esplicito al rapporto tra il reato e il
riconoscimento dell’imputazione da parte del minore. Scarsi sono le
informazioni sulla comprensione delle conseguenze sociali del reato, come i
danni alla vittima, o sulla percezione di gravità o la capacità di capire il
senso del procedimento penale.
I riferimenti alle condizioni e alle relazioni famigliari sono frequenti nelle
relazioni (90%), che descrivono normalmente i componenti del nucleo
famigliare e le condizioni socioeconomiche della famiglia, anche se sono
scarsi i riferimenti al territorio di provenienza e alla dimensione
multiculturale nel caso di minori stranieri. Nella metà dei casi sono espliciti i
riferimenti agli stili educativi e all’atteggiamento nei confronti dell’intervento
della giustizia, ma queste informazioni sono per lo più presentate in modo
non commentato.
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Per quanto riguarda l’intervento, nell’83% dei casi vi sono riferimenti agli
interventi dei servizi, passati o attuali. Frequenti sono le notizie sulle
reazioni e le posizioni del minore nei confronti del procedimento penale,
anche se nelle situazioni in cui è presentato un progetto di intervento gli
obiettivi sono normalmente poco esplicitati.
In sintesi, è evidente una certa cautela nelle relazioni a fornire informazioni
e interpretazioni utili ai fini della delineazione delle caratteristiche personali
del minore, probabilmente anche in funzione di non intaccare il diritto di
difesa.
L’attenzione a fornire informazioni senza esprimere valutazioni o giudizi po’
anche essere l’espressione di un orientamento implicito volto a valorizzare
le richieste di trattamento, nella prospettiva di garantire innanzitutto
l’alleanza di lavoro con il minore, premessa fondamentale per il trattamento
che può seguire la fase di valutazione.
L’area del reato che costituisce, con ogni evidenza, la “ragione
sociale”dell’intervento dei servizi. All’interno delle relazioni c’è un’attenzione
a non fornire interpretazioni o sottolineature sul reato e sul suo significato
sociale e personale; risulta, quindi, una dimensione poco utilizzata dagli
4. Attività di valutazione nei servizi della giustizia minorile
33
operatori. Ciò origina probabilmente da una cultura di servizio volta alla
tutela da possibili stigmatizzazioni del minore e strumentalizzazioni degli
operatori. Tuttavia, su questo aspetto, la ricerca sembra indicare l’utilità di
una riflessione ampia, che riesca a proporre l’utilizzo metodologico di
questa dimensione, un “fatto, un evento da esplorare, valorizzando una
lettura psicosociopedagogica ed evitando, invece, il rischio di
sovrapposizioni con una valutazione giuridica.
L’analisi effettuata porta a porre una serie di quesiti sul modo in cui i Servizi
si rappresentano la domanda della magistratura, in cui costruiscono la
risposta, sul rapporto tra informazioni e valutazioni, sull’uso di strumenti e
sulla possibile integrazione tra sapere sociale, educativo e psicologico nella
conoscenza del minore nella sua relazione con il suo contesto di sviluppo.
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5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
35
All’interno del nuovo processo penale minorile, il ruolo dello psicologo non
ha una definizione e una collocazione precisa. Ne è però indirettamente
sottolineata l’importanza, accanto ad altre figure professionali, per
l’osservazione e valutazione della personalità richiesta dal giudice, intesa
sia in termini di risorse e limiti personali sia in termini di risorse ambientali,
familiari e sociali.
Per quanto concerne le attuali funzioni dello psicologo, si possono
individuare due grandi sfere d’azione (obiettivi giuridico/istituzionali):
- Attività di valutazione, in fase processuale, ai fini dell’imputabilità, della
pericolosità sociale e delle esigenze conoscitive;
- Attività di supporto sia in sede processuale, sia in fase di esecuzione della
pena.
Non si cerca, in sostanza, di rispondere semplicemente al quesito: quali
sono le condizioni, le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del
minore in termini generali, bensì quali sono tali condizioni e risorse in
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rapporto alle possibilità reali di risposta in ambito processuale. La legge
sembra chiedere, quindi, per quali condizioni di personalità possono essere
dannose, pregiudiziali, utilizzabili quali condizioni processuali; quali misure,
collocazioni, prescrizioni, sentenze, possono meglio adattarsi e funzionare
per quali minori;quali livelli di contenimento, detenzione e controllo adottare
per quali minori a rischio di fuga e di recidiva grave, etc. Il legislatore,
quindi, richiede allo psicologo che si operi attivamente sia nella direzione
delle condizioni e delle risorse del minore sia nella direzione delle
condizioni e delle risorse esistenti ed attivali nel processo. In questo senso
le dimensioni e le carenze del minore vanno intesi non come “dati” ma
direttamente come domande, sfide e rischi per il giudice e i servizi.
Gli obiettivi specifici dell’accertamento da un punto di vista psicologico
possono essere:
- Screening dei fattori di rischio, come i rischi di comportamenti autolesivi.
- Diagnosi clinica, sulla base di valutazioni categoriali (DSM-IV-TR) o
dimensionali (come avviene attraverso una valutazione dei diversi aspetti
della personalità).
- Valutazione dei bisogni del minore attraverso un bilancio evolutivo, nel
quadro di una psicologia o psicopatologia evolutiva.
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
37
- Accertamento della maturità e della pericolosità.
La pratica del lavoro psicologico nei Servizi della giustizia minorile
Dal gennaio 2009 gli psicologi dei Servizi della giustizia minorile sono
passati dalle dipendenze del Dipartimento della Giustizia a quello delle
Aziende Ospedaliere locali, un cambiamento che ha importanti ripercussioni
sulla definizione del ruolo e delle specifiche funzioni da svolgere.
Questo cambiamento istituzionale assegna, infatti, ad istituzioni sanitarie la
competenza dell’intervento psicologico, lasciando invece alle dipendenze
del Dipartimento della giustizia minorile assistenti sociali e educatori, oltre
agli agenti di polizia penitenziaria.
Ci si può chiedere se questo passaggio porti gli psicologi a privilegiare gli
obiettivi diagnostici all’interno del processo di valutazione, in quanto più
coerenti con un compito sanitario di intervento, lasciando ad altri operatori il
compito di orientarsi ad altri aspetti della valutazione, evolutivi e ambientali.
Il passaggio porta ad interrogarsi sugli obiettivi specifici dell’intervento
psicologico e in particolare dell’attività di valutazione.
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Gli psicologi in Italia operano su base locale regionale e non vi sono al
momento linee guida specifiche che traducano in indicazioni operative gli
orientamenti del Codice di procedura penale minorile.
Gli psicologi che operano nella Giustizia minorile in Italia hanno diverse
formazioni teorico-cliniche, differenti collocazioni istituzionali (CPA, USSM,
IPM) e diversi possibili rapporti di collaborazione (consulenti, dipendenti).
Una ricerca sugli psicologi dei Servizi della giust izia minorile
Obiettivi
Per avere indicazioni sul modo in cui nella pratica è interpretato il ruolo
dello psicologo è stata condotta una ricerca tra gli psicologi che operano nei
Servizi della giustizia minorile. Descrivere il modo in cui interpretano il loro
ruolo professionale nell’ambito dei Servizi della giustizia minorile, con quali
obiettivi, metodi, strumenti e livelli di soddisfazione e insoddisfazione, è una
premessa importante per un confronto con il modo in cui le stesse funzioni
sono esercitate all’interno del sistema penale di altri Paesi europei.
L’indagine è stata condotta attraverso interviste semistrutturate a un
campione di psicologi, dipendenti e consulenti, che lavorano nei diversi
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
39
Servizi (IPM, USSM, CPA) al Nord, Centro e Sud d’Italia nei Servizi della
Giustizia Minorile in Italia.
L’intervista ha indagato obiettivi, metodi e strumenti utilizzati nel lavoro
psicologico, le rappresentazioni del compito e del ruolo professionale, nella
specifica collocazione istituzionale e nella relazione sia con gli utenti sia con
gli altri operatori.
L’obiettivo era di verificare, al di là del dettato legislativo, in che modo
concretamente si svolge il lavoro psicologico all’interno dei diversi Servizi,
con quali specifici orientamento e con quali soddisfazioni o difficoltà.
Metodo
Sono stati intervistati 30 psicologi che lavorano all’interno dei diversi Servizi
della Giustizia Minorile in Italia, sia in Centri di Prima Accoglienza, in Istituti
Penali Minorili e in Uffici di Servizio Sociale Minorenni. Anche se il
campionamento non è stato casuale, è comunque distribuito per esperienza
di lavoro, aree geografiche, tipo di Servizio, tipo di rapporto di
collaborazione (dipendenti e consulenti).
Nell’anno 2008 nei Servizi della giustizia minorile erano impiegati 43
psicologi di ruolo (32 a contatto con l’utenza e 11 svolgevano mansioni
formative o avevano altri incarichi istituzionali) e 68 psicologi consulenti
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Tabella 1. Campione
Psicologi 30 (23 F, 7 M) Età 16 (<45 anni)
14 (>45 anni) Qualifica professionale 9 Psicologi (di cui 3 con specializzazione in
criminologia)
21 Psicoterapeuti Tipo di contratto 14 dipendenti
16 consulenti Servizio 15 (IPM)
14 (USSM) 1 (CPA, ma psicologi dell’USSM e IPM lavorano anche in CPA)
Area geografica 14 (Nord: Milano, Torino, Genova, Venezia, Treviso)
6 (Centro: Bologna, Firenze, Roma) 6 (Sud: Teramo, Napoli, Bari, Catanzaro) 4 (Isole: Cagliari, Sassari, Catania)
Anni di esperienza professionale nel Servizio
18 (<10) 12 (>10)
Ore settimanali di lavoro nel Servizio
16 (<20) 14 (>20)
La prima parte dell’intervista è stata orientata alla raccolta di informazioni
sul ruolo professionale (dati anagrafici, qualifica professionale, tipo di
contratto, ore mensili di lavoro, tipo di Servizio in cui si opera).
La seconda parte ha indagato sulla funzione e sul ruolo ricoperto dallo
psicologo all’interno del Servizio e in modo specifico l’attività di valutazione
della personalità, dei bisogni e delle risorse del minore (le aree prese in
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
41
considerazione, il modello teorico di riferimento, gli strumenti utilizzati, il tipo
di utenza e le problematiche riscontrate, la percezione dell’efficacia del
proprio intervento), con una particolare attenzione allo specifico Servizio
(rapporto con gli altri operatori, tipo di collaborazione e livello di
integrazione, eventuali conflitti).
Le attività
Gli psicologi suddividono il loro tempo lavorativo in tre aree principali di
intervento:
- Il lavoro di osservazione e valutazione della personalità del minore e di
sostegno psicologico durante l’iter penale.
- Il lavoro sul contesto, i colloqui con i genitori e gli incontri di rete con i
Servizi del territorio o con gli educatori delle Comunità,
- Gli incontri d’equipe e la stesura di relazioni.
Nell’intervista è stato chiesto di stimare in modo approssimativo la
percentuale di tempo dedicata alle diverse aree di attività. Questa stima,
seppure approssimativa, consente di prefigurare la distribuzione del lavoro.
Non emergono sostanziali differenze tra i servizi, se non per il maggior
tempo dedicato all’USSM al lavoro con i genitori.
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Tabella 3. Tempo dedicato alle diverse attività (stima approssimativa)
Attività Valutazione della personalità e sostegno psicologico del minore)
60%
Incontri d’equipe, stesura relazioni
30%
Colloqui con i genitori e lavoro di rete
10%
La quasi totalità degli psicologi considera la valutazione della personalità
del minore l’attività principale all’interno del lavoro. Accanto a questa attività
è riconosciuta come importante anche quella di sostegno psicologico al
minore durante l’iter penale, ma il supporto psicologico e la psicoterapia
non sono normalmente considerati l’attività principale.
Tutti gli psicologi considerano il lavoro d’equipe e la rielaborazione dell’esito
dei colloqui, con la stesura delle relazioni, come molto importante, tanto da
dedicarvi una buona percentuale del tempo lavorativo complessivo. Il lavoro
d’equipe è inteso come confronto con gli altri operatori di diverse
professionalità per favorire la condivisione delle conoscenze sul ragazzo ai
fini della costruzione di una valutazione condivisa e di un eventuale
progetto.
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
43
Poco frequente è la partecipazione alle udienze, con un rapporto
generalmente indiretto, quindi, dello psicologo con la Magistratura, mediato
dalle relazioni e da altri operatori.
Nell’area dell’intervento sul contesto di sviluppo dagli intervistati sono state
nominate come attività importanti il lavoro con i genitori e gli interventi di
rete con i Servizi del territorio, soprattutto i Sert, le Uonpia e gli incontri con
gli operatori delle Comunità. Gli incontri con i genitori hanno una prevalente
funzione conoscitiva, innanzitutto con lo scopo di raccogliere informazioni
sul minore e in secondo luogo di valutare la risorse del contesto, più che di
presa in carico dei genitori con funzioni di supporto psicologico.
Gli psicologi che lavorano in USSM svolgono in modo più frequente anche
interventi sul contesto (lavoro con i genitori e lavoro di rete), mentre quelli
che lavorano in IPM e CPA suddividono maggiormente il tempo lavorativo
tra l’attività clinica e i lavoro di equipe.
Il lavoro clinico con il minore, in particolare di valutazione, per quanto
costituisca l’attività principale degli psicologi, rappresenta quindi
complessivamente poco più della metà del lavoro svolto all’interno del
Servizio.
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Tra gli psicologi intervistati solo un terzo ritiene che questa suddivisione del
tempo di lavoro sia adeguata e soddisfacente. La maggior parte ritiene che
sarebbe auspicabile incrementare il lavoro clinico diretto con il ragazzo ed
in particolare l’attività di supporto psicologico (“Servirebbe più tempo per
stare con il ragazzo, sostenerlo durante tutto il percorso”), senza che
tuttavia questo incremento vada a scapito del lavoro di equipe e
dell’intervento con i genitori, ritenuti comunque importanti.
Il problema principale, quindi, sembra essere costituito dalla mancanza di
tempo, per le ridotte risorse di personale e per il monte ore complessivo
insufficiente. In questo quadro di carenza anche certi adempimenti
burocratici vengono svolti con fastidio, anche perché sottraggono tempo al
lavoro clinico diretto (“Gli adempimenti burocratici sono una seccatura,
tolgono tempo al lavoro con il ragazzo”).
Il compito primario
Generalmente gli psicologi pensano che il lavoro clinico, inteso sia come
valutazione della personalità sia come supporto psicologico del minore,
debba rappresentare l’attività principale che sono tenuti a svolgere
all’interno dei Servizi, il loro compito primario. Questo compito è
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
45
generalmente inteso come integrato nel lavoro del Servizio, come è
confermato tra l’altro il tempo utilizzato per attività di incontro tra operatori e
di raccordo con il contesto.
Per una parte degli intervistati lo psicologo può avere addirittura una
funzione di raccordo all’interno dell’equipe, in quanto il suo contributo può
favorire l’integrazione tra i diversi punti di vista dei diversi ruoli professionali
(“Lo psicologo è un collante per l’equipe”), in quanto fornisce una chiave di
lettura diversa da quella sociale o educativa ai fini della valutazione del
minore e della costruzione di un progetto.
Vi sono differenze nella descrizione della funzione dello psicologo per tipo
di Servizio.
In CPA l’intervento psicologico è più orientato al processo valutativo; in IPM
appare più importante l’accompagnamento del minore durante la
detenzione in vista del supporto alla condizione di restrizione della libertà e
della costruzione di un progetto, mentre in USSM il lavoro di valutazione e
sostegno è interpretato in un’ottica di trattamento del minore, soprattutto in
direzione di una progressiva motivazione al progetto di messa alla prova.
La quasi totalità degli psicologi intervistati ritiene che vi possa essere
un’integrazione tra gli obiettivi del lavoro psicologico e quelli istituzionali,
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nonostante siano numerose le difficoltà riscontrate nel conciliare i due
obiettivi. La mancanza di motivazione a ricevere un aiuto da parte dei
minori è un ostacolo anche ad un lavoro integrato, poiché interferisce con la
costruzione di una relazione di fiducia come base per l’intervento. Alle
difficoltà ad impostare un’alleanza di lavoro con il minore, si uniscono
problemi di integrazione tra gli obiettivi dell’intervento psicologico e quelli
del sistema penale, che si manifesta anche nella diversità dei linguaggi
utilizzati.
L’obiettivo di fornire alla Magistratura elementi per un giudizio sul minore
può richiedere un lavoro di valutazione molto approfondito, che fornisca una
risposta esaustiva e definitiva sulla personalità del ragazzo, sui suoi bisogni
evolutivi e sulle sue risorse, sulla psicopatologia, sul livello di maturità e
sulla possibilità di reiterazione del reato, sulla sua disponibilità ad un
intervento e quindi sul tipo di misura/progetto da attivare per quel ragazzo.
L’obiettivo dell’intervento psicologico potrebbe limitarsi a fornire informazioni
e indicazioni sui bisogni e le risorse del minore, come elementi della
valutazione della sua personalità, con indicazioni generiche sul tipo di
progetto sostenibile, che possano aiutare il Giudice a decidere.
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
47
Lo psicologo potrebbe anche spingersi a definire in modo preciso la
diagnosi clinica, o il livello di rischio o il progetto di intervento.
Un problema specifico è costituito dalla difficoltà a conciliare i tempi
dell’intervento psicologico con quelli giuridici. L’idea prevalente è che i tempi
del cambiamento sia evolutivo sia psicoterapeutico siano più lunghi di quelli
dei procedimenti penali, pure non brevi. Solo in qualche caso si sottolinea
che la lentezza dei tempi della giustizia può interferire con le esigenze
evolutive del minore, rallentandone la realizzazione.
Un problema non secondario del lavoro psicologico è costituito dalla
generale carenza di risorse, di personale e di ore, che non consente di
svolgere valutazioni in modo sufficientemente ampio, prolungato e
approfondito. In alcuni casi vi sono esplicite richieste di approfondimento da
parte della Magistratura, sia in termini diagnostici sia più propriamente
peritali, sia come richiesta di una presa in carico psicoterapeutica, fino alla
formulazione di indicazioni anche abbastanza specifiche, che tuttavia si
scontrano con la carenza reale di risorse.
Una questione che emerge sullo sfondo, anche se non sempre in modo ben
delineato, è quanto da una parte lo psicologo o l’equipe degli operatori
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possa essere precisa nella definizione della valutazione, in termini
diagnostici o di indicazione di progetto, e quanto dall’altra parte la
Magistratura possa essere prescrittiva sulle modalità tecniche di intervento
(somministrazione o meno di test, frequenza delle sedute o altro), con un
rischio di reciproco sconfinamento.
Altre difficoltà nell’integrazione tra gli obiettivi del lavoro psicologico e quelli
penali sono prodotte dal prevalere delle esigenze istituzionali di sicurezza,
che possono portare a sottolineare funzioni di controllo e al prolungarsi di
misure cautelari per ragioni processuali che possono essere poco
sintoniche con gli obiettivi di autonomizzazione individuale.
D’altra parte, gli psicologi sono consapevoli che il fatto che il loro intervento
si svolga in un contesto di obbligatorietà, al di là di alcuni vincoli che
comporta, in realtà è di grande aiuto, costituendo un quadro, un setting, per
l’intervento, che è indispensabile per una riflessione sul significato del reato
e più in generale perché il minore sia più consapevole di sé e del senso del
suo coinvolgimento nel sistema penale.
Complessivamente su questi temi non emergono differenze significative di
opinioni tra gli psicologi che lavorano in IPM, CPA o in USSM. Gli intervistati
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
49
sembrano concordare, quindi in linea di massima, sulla compatibilità tra
intervento psicologico ed esigenze istituzionali, pur con la sottolineatura
della carenza di tempo e di una certa difficoltà di raccordo con il
“linguaggio” e le esigenze della Magistratura.
Modello teorico di riferimento
Gli psicologi che lavorano all’interno dei Servizi della giustizia minorile
hanno modelli teorici di riferimento diversi. Dalle interviste emerge una
pluralità di approcci che possono essere raggruppati in quattro aree, in cui
l’orientamento psicodinamico sembra prevalente, ma con una buona
rappresentanza di orientamenti sistemici e cognitivo-comportamentali:
Tabella 4. Modelli teorici di riferimento
Psicodinamico
13
Cognitivo-Comportamentale
7
Sistemico-Relazionale
6
Altro
4
E’ importante notare che al di là dell’approccio metodologico generale, solo
una parte degli psicologi fa riferimento ad una formazione specifica in
psicologia giuridica o criminologia, così come ad una formazione in
psicologia dello sviluppo.
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L’accertamento della personalità
Gli psicologi riconoscono l’importanza sia di una valutazione complessiva
della personalità del minore sia di aspetti specifici, più legati al contesto
penale.
E’ importante per esempio accanto ad un’osservazione delle risorse
personali del ragazzo (affettive, cognitive e relazionali), la valutazione
specifica dell’impulsività e dell’aggressività, accanto al modo in cui il minore
è disponibile all’elaborazione del reato, le sue capacità progettuali o il livello
di rischio psicopatologico.
Mentre le aree di valutazione che concernono in modo più specifico il
contesto penale sono più sensibili al contesto dell’intervento (IPM, USSM,
CPA), la valutazione complessiva della personalità è un compito più
comunemente condiviso.
Tabella 5. Aree della personalità valutate
Aspetti cognitivi (risorse intellettive, deficit intellettivi, capacità autoriflessive) Sviluppo affettivo Area dell’identità sociale
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
51
Rischio psicopatologico
Contesto famigliare e sociale Controllo dell’impulsività/aggressività Rischio di agiti auto ed etero aggressivi Elaborazione del reato Capacità di adattamento al regime detentivo e al procedimento penale Capacità di progettare il futuro, motivazione al progetto
Disponibilità alla relazione psicologica
9. Strumenti
Gli psicologi usano come strumento principale il colloquio clinico, al quale
circa due terzi degli intervistati affianca l’uso di test. I test più utilizzati sono
indicati nella tabella VI.
Tabella 6. Test utilizzati
Interviste semistrutturate (SCID II) Questionari (YSR e TRF di Achenbach, MMPI) Test cognitivi (WAIS, WISC, Matrici di Raven) Test grafici (Disegno della famiglia, figura umana) Test proiettivi (Rorschach, TAT, Blacky Pictures)
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Altri test utilizzati sono i test grafici, il Questionario sul disimpegno morale,
OSQR (un questionario sul Sé), l’MRO (Modello delle relazioni d’oggetto), il
TMA (test multidimensionale sull’autostima), l’MQR (che rileva indici di
ansia, fobia, depressione e isteria), il FACS, l’SCL 90.
Dalle interviste emerge che il materiale testistico è molto diversificato sia
rispetto alla tipologia dei Servizi sia rispetto alla loro localizzazione, come
se vi fosse una cultura locale di uso del materiale, a parte alcuni test più
utilizzati come il test di Rorschach tra i proiettivi.
Non sembra di poter riscontrare una diretta corrispondenza tra il modello
teorico di riferimento dichiarato e l’utilizzo di specifici test. Molti psicologi
utilizzano, indipendentemente dall’approccio teorico, diversi tipi di test (sia
proiettivi sia cognitivi) anche se i test proiettivi (in particolare il Rorschach)
sono utilizzati soprattutto da coloro che hanno un approccio psicodinamico.
Collaborazione con altri operatori
Le figure professionali con le quali gli psicologi lavorano prevalentemente
sono gli assistenti sociali e gli educatori. Emergono comunque delle
differenze rispetto alle tipologie di Servizio.
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
53
Se, infatti, in USSM gli psicologi individuano nell’assistente sociale la figura
professionale con la quale collaborano maggiormente, seppure possono
entrare in contatto con figure educative, in IPM e CPA è l’educatore
(insieme comunque all’assistente sociale che viene considerata una figura
importante) la principale figura professionale con la quale gli psicologi
lavorano.
In realtà, le figure con le quali gli psicologi entrano in contatto sono
molteplici, non solo gli agenti, ma anche i mediatori culturali, gli insegnanti e
altri operatori di diversa professionalità dei servizi territoriali.
La quasi totalità del campione intervistato è soddisfatta della collaborazione
tra operatori di diversa professionalità, per quanto non esente da difficoltà di
comunicazione, linguaggio, competenze e obiettivi diversi, competizione tra
i ruoli. Più in generale gli psicologi lamentano uno scarso riconoscimento di
ruolo, un eccesso di discrezionalità nella segnalazione, ma soprattutto una
ridotta disponibilità di tempo e risorse adeguate.
Le opinioni degli psicologi intervistati si suddividono equamente sia rispetto
al tipo di problematica riportata sia alla tipologia del Servizio di
appartenenza.
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Tabella 7. Problemi nella collaborazione con altri operatori
Mancanza di risorse (tempo e risorse adeguate)
13
Scarso riconoscimento di ruolo (non riconoscimento del ruolo, poco lavoro d’equipe, discrezionalità nell’assegnazione del caso)
11
Difficoltà di integrazione (linguaggio, competenze e obiettivi diversi, competizione tra i ruoli)
6
La mancanza di tempo è ritenuto un fattore importante per garantire un
buon lavoro di integrazione. Anche se la possibilità di integrare le
competenze dei diversi operatori è considerata positivamente perché
contribuisce a determinare una comprensione più completa del minore, la
difficoltà a tracciare i confini tra le diverse competenze e ruoli può creare
sovrapposizioni ed essere fonte di confusione, che nuoce al lavoro.
Infine, alcuni psicologi ritengono che la difficoltà di collaborazione sia legata
soprattutto ad una scarsa valorizzazione riconoscimento del ruolo e della
funzione di psicologo.
Gli psicologi che attribuiscono la difficoltà a lavorare in modo integrato ad
un non riconoscimento del proprio ruolo esprimono un vissuto di maggiore
frustrazione.
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
55
L’utenza
Rispetto alla tipologia di utenza che viene presa in carico dagli psicologi
all’interno dei diversi Servizi della giustizia minorile si osserva una
differenza sia rispetto alla tipologia del Servizio sia rispetto alla sua
localizzazione geografica.
Mentre in città come Milano gli psicologi prendono in carico minori italiani e
stranieri in ugual numero, in Servizi di città più piccole e in particolare al
Sud c’è una maggiore presa in carico di minori italiani rispetto a quelli
stranieri, in particolare in Sardegna dove gli psicologi operano quasi
esclusivamente con minori italiani.
Negli IPM i ragazzi presi in carico sono soprattutto stranieri mentre negli
USSM e nei CPA la maggior parte dei ragazzi presi in carico è costituita da
italiani, in una proporzione che corrisponde complessivamente a quella
della presenza dei minori nei Servizi. Negli USSM gli psicologi normalmente
non prendono in carico tutti i ragazzi, ma solo quelli che sono segnalati
dall’assistente sociale e per i quali si lavora in un ottica progettuale come
nella messa alla prova. Anche nel caso del CPA lo psicologo, che interviene
solo su richiesta dell’educatore, tende ad effettuare una valutazione
soprattutto dei ragazzi italiani per i quali si riscontra un livello di sofferenza
particolarmente alto o problematiche particolari da approfondire.
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Rispetto alle problematiche riscontrate nei ragazzi presi in carico, gli
psicologi segnalano negli italiani problemi evolutivi, disagio sociale e
disturbi psicopatologici. Nei ragazzi stranieri si sottolinea soprattutto il
disagio sociale, legato al processo di immigrazione ed integrazione con la
società ospitante.
Tra le problematiche evolutive che si riscontrano in modo maggiore nei
ragazzi italiani vi sono i disturbi di personalità, i disturbi del comportamento,
il discontrollo degli impulsi, la difficoltà a tollerare la frustrazione e l’abuso di
sostanze. Tra le problematiche sociali, che si evidenziano sia nei ragazzi
italiani che stranieri, vi sono la presenza di un contesto familiare e sociale
multiproblematico (criminalità organizzata, gravi problemi economici,
contesto familiare deviante).
La rappresentazione prevalente è che l’impatto con il circuito penale e
quindi il reato rappresenti per i ragazzi stranieri l’unica possibilità, non
potendo spesso usufruire, in mancanza di risorse, di scelte alternative.
Per i ragazzi italiani, invece, il reato sembra rappresentare una scelta più
consapevole e sembra essere il frutto dell’interazione di diversi fattori sia
psicologici sia ambientali. Il ragazzo italiano che entra nel circuito penale,
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
57
infatti, è descritto dagli psicologi come portatore di problematiche più gravi,
di una più riconoscibile psicopatologia, e quindi più difficile da trattare
(spesso sono ragazzi reduci da precedenti interventi che sono falliti).
Principali insoddisfazioni e prospettive di miglioramento
Tutti gli psicologi intervistati hanno dichiarato che è la relazione con i
ragazzi ciò che li gratifica maggiormente nel proprio lavoro.
La relazione clinica con i minori rappresenta il punto di forza, ma anche di
sicurezza rispetto ad un intervento più ampio all’interno del Servizio, vissuto
come dispersivo e poco definito.
Dalle interviste emerge che le principali problematiche riscontrate dagli
psicologi nel proprio lavoro si collocano nella relazione con il contesto
istituzionale. La maggior parte delle difficoltà incontrate sono attribuite alla
difficoltà a lavorare in modo integrato, alla frammentazione degli interventi,
alla difficoltà a tenere insieme diversi livelli di intervento, una scarsa
coesione nel gruppo degli psicologi e, infine, una mancanza di tempo e
spazi adeguati.
Negli IPM, in particolare, è problematico lo scollamento tra l’intervento
all’interno dell’istituzione e l’ambiente esterno, sul quale si hanno ridotte
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possibilità di intervento, sia nel contesto familiare/sociale sia attraverso
l’attivazione delle risorse territoriali.
Il senso di insoddisfazione o inefficacia è quindi collocato nella relazione
con il contesto più che negli obiettivi e metodi del proprio lavoro clinico.
Anche la relazione con i minori non è considerata come particolarmente
problematica.
Le ipotesi di miglioramento sono generalmente riferite all’area
organizzativa. La maggiore parte degli psicologi ritiene che dovrebbe
essere migliorata soprattutto l’organizzazione del Servizio in termini sia di
un più sistematico coordinamento tra le diverse figure professionali interne
al Servizio (coordinamento tra psicologi e tra psicologi ed educatori e
assistenti sociali) ed esterne (coordinamento con i Servizi del Territorio).
E’ anche forte la richiesta di un maggiore riconoscimento del ruolo dello
psicologo, vissuto spesso come accessorio (eccessiva discrezionalità
nell’assegnazione dei casi, dispersione delle informazioni, mancanza di
spazi idonei per i colloqui clinici e mancanza di supporti informatici).
C’è anche la richiesta di un aumento del numero di ore, al momento
insufficienti per poter tenere insieme i diversi livelli di intervento.
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
59
Dalle interviste si osserva tra gli psicologi un diffuso vissuto di non
appartenenza al Servizio, la percezione di svolgere una funzione
accessoria, non indispensabile, che contrasta con l’investimento e la
soddisfazione dichiarata nell’attività di osservazione e supporto svolta nella
relazione con i minori.
Altre proposte riguardano invece attività come l’intervento sul contesto ed in
particolare sulla famiglia, nel quadro di un intervento meno esclusivamente
indirizzato al minore, con l’ipotesi di un ampliamento di incontri di rete con i
Servizi del Territorio, del lavoro di gruppo con i ragazzi e dell’individuazione
di percorsi di supporto psicologico e educativo per i ragazzi più diversificati.
L’efficacia dell’intervento psicologico
Dalle interviste emerge che la maggior parte degli psicologi ritiene che il
proprio intervento sia complessivamente efficace. Diversi sono i significati
che nelle risposte sono attribuiti al termine “efficace”, ma possono essere
raggruppati in due dimensioni: una che riguarda soprattutto il lavoro clinico
con il ragazzo, l’altra il lavoro d’equipe e il progetto di reinserimento sociale.
Per la maggior parte degli psicologi è efficace un intervento che produce un
cambiamento nel ragazzo e si ritiene che l’intervento psicologico sia in
grado di produrre effetti trasformativi, anche se difficilmente definibili.
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L’efficacia dell’intervento clinico è soprattutto basata sulla costruzione di
una relazione di fiducia, intesa come spazio di accoglienza dei bisogni del
minore. La costruzione di una motivazione all’aiuto psicologico è indicata da
molti psicologi come un indicatore importante di efficacia, come se
l’acquisizione di consapevolezza del bisogno d’aiuto e il riconoscimento
delle proprie difficoltà psicologiche fossero già un primo risultato
dell’intervento, quasi al di là delle successive attese di trasformazione.
Il lavoro psicologico per molti dovrebbe essere in particolare orientato a
produrre nel minore una maggiore consapevolezza di sé, dei propri vissuti e
delle difficoltà e opportunità del proprio percorso evolutivo. Un indicatore di
efficacia è, quindi, l’attivazione nel minore di un processo di elaborazione e
risignificazione del reato e dell’intervento penale, nonché un’occasione per
riattivare risorse e competenze che il minore dovrebbe utilizzare nel
contesto di sviluppo, a partire dalla messa alla prova nel sistema penale.
Un’altra rappresentazione diffusa è che l’intervento penale fermi la
tendenza ad agire e rappresenti un’opportunità per il minore e in alcuni casi
anche la famiglia di attivare il pensiero e le risorse sia personali sia sociali
per rimettere in moto il percorso di crescita in una direzione evolutiva.
L’incontro con il minore è inteso, quindi, non solo in un’ottica di valutazione
della personalità in senso diagnostico, ma anche come occasione di
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
61
riflessione e di acquisizione di consapevolezza che può avere un valore
“trasformativo” non solo per il ragazzo, ma anche per la famiglia.
L’obiettivo di una maggiore consapevolezza è sottolineato più di quello di
fornire alla magistratura un quadro della personalità del ragazzo che possa
orientarlo nella decisione che dovrebbe essere in linea con le esigenze e
bisogni evolutivi del ragazzo.
Un senso complessivo di efficienza è soprattutto costituto dalla capacità di
effettuare un buon lavoro di equipe ed in particolare di arrivare ad
un’effettiva condivisione della conoscenza del minore al fine di costruire un
progetto di intervento il più possibile personalizzato.
E’ importante sottolineare, comunque, che la percezione di efficacia non è
direttamente collegata per tutti gli psicologi intervistati alla buona riuscita del
progetto su un piano concreto ed esterno. Molti psicologi ritengono efficace
il proprio intervento quando avviene una modificazione della personalità del
ragazzo indipendentemente dalla conclusione positiva di un progetto,
poiché ritengono che esistano variabili esterne non controllabili, dipendenti
dal contesto, che possono influire sull’andamento e sulla fine di un progetto
“Il minore può aver fatto un buon percorso terapeutico, anche se il progetto
è fallito”.
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In alcuni casi si ricorda la possibile disgiunzione tra efficacia dell’intervento
psicologico e rischio di recidiva. Altri psicologi tengono invece a sottolineare
che l’efficacia dell’intervento va misurata sull’esito positivo di un progetto
all’interno del percorso penale e quindi in relazione all’assenza o riduzione
di recidive. In generale, comunque, un intervento è ritenuto efficace quando
produce un cambiamento sia sul piano interno sia sul contesto di sviluppo.
La misura dell’efficacia sembra dipendere, nel caso dell’IPM e CPA, da un
feedback positivo sul buon andamento del progetto fuori dal carcere dove il
ragazzo, più consapevole delle proprie risorse, riesce a modificare il proprio
stile di vita ed investire in modo diverso sul proprio futuro. Per gli psicologi
che lavorano in USSM dove l’intervento psicologico è a medio o lungo
termine e comporta un accompagnamento del minore durante il percorso
progettuale, un intervento è ritenuto efficace quando permette al minore,
attraverso l’attivazione del pensiero e di risorse e competenze evolutive, di
riattivare il percorso di crescita.
Da questo quadro emerge che in generale gli psicologi che lavorano
all’interno dei Servizi della Giustizia Minorile ritengono che sia
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
63
fondamentale lavorare in modo integrato e coordinato sia sul “mondo
interno” del minore sia con le risorse del contesto.
Al contrario il vissuto di inefficacia è attribuito per lo più alla percezione
dell’assenza di una reale motivazione del minore alla presa in carico e alla
costruzione di un progetto, accettato in modo strumentale.
Un’altra fonte di insuccesso è costituita dalla scarsità di risorse nel Servizio
d’appartenenza o sul territorio, che consentano l’allestimento e la
realizzazione di un progetto individualizzato.
La mancanza di un lavoro d’equipe integrato è un’ulteriore fonte di
insoddisfazione.
Accanto a questi impedimenti istituzionali sono poi citate le difficoltà
derivanti dalla gravità dei casi, in riferimento alla psicopatologia individuale
o alla multiproblematicità del contesto famigliare e sociale di provenienza.
In pochi casi il fallimento di un intervento è attribuito ad un errore di
valutazione dello psicologo.
In sintesi, dalle interviste emerge che gli psicologi che lavorano all’interno
dei Servizi della Giustizia minorile ritengono che il proprio lavoro sia efficace
quando è integrato con il lavoro degli altri operatori sia interni (equipe con
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assistente sociale e con l’educatore) sia esterni (i Servizi del territorio), ma
è interessante notare che la recidiva è indicata solo raramente come un
indicatore di inefficacia dell’intervento.
In modo specifico gli psicologi ritengono importante, ai fini dell’efficacia
dell’intervento psicologico, la creazione di una relazione di fiducia e di una
motivazione sia al percorso psicologico sia al percorso di risocializzazione.
L’intervento psicologico, in tutti i Servizi, è da tutti inteso come finalizzato a
favorire una ripresa evolutiva e lo sviluppo di una positiva identità sociale.
In sintesi, gli psicologi ritengono che il proprio lavoro sia mediamente
efficace, un’efficacia attribuita in primo luogo al lavoro clinico con il ragazzo
in termini di cambiamento interno e di maggiore consapevolezza, in
secondo ad una buona sinergia e coordinamento con le altri figure
professionali per individuare e costruire un progetto individualizzato di
risocializzazione del minore e solo in ultima istanza l’efficacia è valutata in
termini di riduzione delle recidive.
Formazione professionale
La collaborazione con altri colleghi psicologi si esplica soprattutto nel
confronto su singoli casi, per il passaggio di consegne e la condivisione di
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
65
informazioni sul ragazzo, per esempio dopo un cambiamento di misura o un
trasferimento da un carcere ad un altro.
Rari sono invece gli scambi metodologici o teorici, anche se una metà degli
intervistati ha partecipato a momenti di formazione professionale, in
particolare gli psicologi dipendenti, soprattutto in occasione del recente
passaggio degli psicologi dal Ministero alle ASL.
Gli incontri di formazione professionali specifici per gli psicologi sembrano
riguardare quasi esclusivamente gli psicologi dipendenti, mentre per gli
psicologi che hanno un contratto di consulenza non sono previsti incontri di
formazione.
Tutti gli psicologi che hanno partecipato a momenti formativi, su temi come
il confronto e l’approfondimento di tematiche cliniche sull’adolescenza o
l’uso di test psicologici, li ritengono utili per il lavoro perché permettono di
approfondire alcune tematiche e di confrontarsi con i colleghi. Chi non ha
avuto occasioni formative ne sottolinea l’auspicabilità e l’utilità.
Molti sono gli argomenti che gli psicologi vorrebbero approfondire nei
momenti di formazione professionale.
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Da una parte vi sono argomenti che riguardano in modo specifico
l’adolescenza, dall’altra la metodologia e gli strumenti da utilizzare nel
lavoro di valutazione ed intervento sui minori sottoposti a procedimento
pena. Una terza area di approfondimento riguarda lo scambio e il confronto
professionale sulle pratiche di lavoro utilizzate nei Servizi. C’è anche una
domanda supervisione sui casi clinici.
Tabella 8. Temi per la formazione professionale
Gli adolescenti stranieri: il processo migratorio, l’approccio multiculturale La valutazione della personalità: obiettivi, metodi e strumenti, l’uso dei test Il trattamento dell’antisocialità, nei diversi contesti (es. Comunità) Ordinamento penitenziario Confronto di metodologie e strumenti utilizzati nei diversi Servizi L’abuso di sostanze L’alleanza con il minore nel sistema penale, la motivazione al colloquio La supervisione di casi clinici problematici
Dalle interviste emerge una forte richiesta di momenti di formazione
professionale, soprattutto come spazio di confronto e condivisione per
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
67
giungere ad una sistematizzazione condivisa in termini operativi delle
pratiche e degli strumenti di lavoro.
Tale richiesta sembra legata ad un vissuto di isolamento all’interno dei
Servizi. Per quanto il lavoro d’equipe e integrato con gli altri operatori
(assistente sociale, educatore e operatori dei servizi del territorio) sia
considerato come fondamentale, è percepito spesso come difficile e poco
gratificante e in ogni caso non in grado di sostituire il confronto con altri
colleghi. Il motivo di tale difficoltà è in prevalenza attribuito ad una
frammentazione e dispersione dell’intervento ed in particolare alla difficoltà
di condivisione delle conoscenze e competenze specifiche per la
strutturazione di un progetto o ad una mancanza di tempo (poche ore) e
quindi un coinvolgimento arbitrario e incostante del proprio ruolo.
Le problematiche incontrate nel lavoro riguardano non tanto il mandato
istituzionale che è ritenuto mediamente compatibile con il lavoro
psicologico, quanto soprattutto il piano organizzativo e la relazione con gli
altri operatori all’interno del Servizio.
Tale vissuto sembra caratterizzare la maggioranza degli psicologi
intervistati, indipendentemente dal tipo di Servizio di appartenenza (IPM,
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CPA, USSM) e alla tipologia di contratto (dipendente/consulente) o alla
regione di lavoro, anche se sembra più alta la soddisfazione degli psicologi
che lavorano in USSM, rispetto a quelli in IPM o CPA.
Il vissuto di isolamento istituzionale si affianca a quello professionale,
caratterizzato dalla percezione della mancanza di modelli di intervento
condivisi e di momenti di formazione professionali specifici.
Gli psicologi tra Servizi sanitari e Servizi della giustizia
Il passaggio ai Servizi sanitari è vissuto con ambivalenza. Emerge
comunque anche una valutazione più positiva, soprattutto perché
l’appartenenza all’ASL sembra consentire un maggiore riconoscimento
professionale e l’esercizio di funzioni con maggiori responsabilità
istituzionali, un riconoscimento del ruolo che non era sentito come
valorizzato dal Dipartimento della giustizia.
Molti psicologi intervistati mettono in evidenza la possibilità di essere
riconosciuti in un’identità professionale più chiara e definita. Alcuni
sottolineano, inoltre, l’importanza di una condivisione e confronto con altri
colleghi psicologi, che è possibile all’interno della nuova collocazione
istituzionale, mentre nei Servizi della giustizia il confronto era
5. L’intervento psicologico nei servizi della giustizia minorile
69
prevalentemente con altri operatori in una posizione di scarso
riconoscimento.
Emerge, quindi, prevalentemente un certo disorientamento, soprattutto a
causa di una non ancora chiara definizione del rapporto tra obiettivi di
diagnosi, in una prospettiva più sanitaria, e di accertamento della
personalità, in una prospettiva più istituzionale. L’adesione ad un modello
sanitario nell’interpretazione del ruolo sembra più motivato da un maggiore
riconoscimento di ruolo che dalla percezione di una reale incompatibilità tra
i diversi tipi di obiettivi.
Si conferma, comunque, che la maggior parte degli psicologi sperimenta un
vissuto di esclusione e non riconoscimento professionale all’interno dei
Servizi della giustizia, per cui la fonte di gratificazione del proprio intervento
finirebbe per essere legata soprattutto alla relazione con il minore.
Un’altra questione aperta può essere costituita dalla metodologia di
intervento all’interno del Servizio che, con il passaggio ad un’istituzione
sanitaria, potrebbe implicare un cambiamento del modello di lavoro.
L’interrogativo riguarda la possibilità e l’utilità o meno di integrare un
modello di intervento istituzionale con uno che configura l’attività
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psicologica in un’ottica sanitaria, di diagnosi e cura, e non più o non solo di
osservazione e valutazione della personalità come richiesto dall’art. 9.
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
71
Anche se vi sono diverse teorie che si confrontano nella spiegazione del
comportamento antisociale, i dati empirici a sostegno delle differenti ipotesi
teoriche tendono progressivamente a convergere, tanto che è ormai
possibile considerare alcuni punti come acquisiti. Una rassegna di questi
risultati sembra suggerire che teorie diverse, in realtà, spieghino aspetti
complementari del problema, non incompatibili: l’integrazione è possibile, in
particolare, se queste diverse teorie sono collocate in una prospettiva
evolutiva.
In primo luogo, nella spiegazione del sorgere del comportamento
delinquenziale (Lahey, Moffitt, Caspi, 2003) è importante considerare la
combinazione di una predisposizione individuale, basata su specifici tratti di
temperamento - come problemi di autostima o emotività negativa, difficoltà
di controllo e insensibilità - con negative interazioni educative, nell’infanzia
(Hare, 2003; Lahey, Waldman, 2003). Gli stili educativi e le cure genitoriali
inadeguate trasformano precocemente queste predisposizioni
temperamentali in problemi di comportamento infantili, attraverso un
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insieme di azioni e risposte che si configurano spesso come un circolo
vizioso di coercizione (Snyder, Reid, Patterson, 2003), in cui è centrale una
mancanza di riconoscimento empatico dei bisogni del bambino e un deficit
di elaborazione simbolica (Fonagy, Target, 2002).
Le interazioni educative primarie, a loro volta, costituiscono un importante
precursore dei comportamenti antisociali adolescenziali: il passaggio da
problemi infantili a disturbi adolescenziali avviene soprattutto attraverso la
costruzione di schemi relazionali o sistemi di aspettative disfunzionali nelle
relazioni interpersonali, spesso caratterizzati soprattutto da una tendenza a
sopravvalutare l’ostilità nelle relazioni interpersonali, sia con persone
familiari sia e soprattutto con estranei, e ad attribuire ad altri la
responsabilità degli eventi più che a se stessi (Dodge, Lochmann, Laird,
2002). Questi sistemi di rappresentazione di Sé e dell’altro, caratterizzati da
impulsività, tendenza ad uno stile di elaborazione persecutoria più che
depressiva, scarsa capacità empatica, sopravvalutazione di sé e
sottovalutazione dell’altro, acquistano una particolare importanza nel
momento della ridefinizione di sé in adolescenza, nel processo di
costruzione dell’identità sociale (Moffitt, 2003).
L’adolescente, allora, utilizza il comportamento antisociale come un modo
per definire la propria identità sociale (Novelletto, 2000), per affermarsi
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
73
socialmente e costruire una propria reputazione sociale, soprattutto
all’interno del gruppo dei pari (Emler, Reicher, 1995).
La messa in atto vera e propria del comportamento dipende, quindi, in
modo diretto dalle motivazioni e dai sistemi di valori individuali (l’ideale di
ruolo), che entrano in relazione con le opportunità del contesto di sviluppo
allargato, come l’ambito territoriale di crescita, in funzione di scopi, che
sono in connessione con i compiti evolutivi adolescenziali (Wikstrom,
Sampson, 2003).
Da questo punto di vista, è indispensabile considerare, come componente
centrale alla base del suo comportamento, i suoi desideri, valori e modi di
interpretare le relazioni sullo sfondo della realizzazione dei suoi bisogni
evolutivi.
I reati minorili possono essere espressione sia della tendenza trasgressiva
degli adolescenti, sia di disturbi del comportamento e della personalità
antisociale, sia di una più grave psicopatologia. La maggior parte dei
problemi con i quali si confronta un operatore della giustizia minorile
rimanda di norma a disturbi antisociali, più o meno gravi. In tutti questi casi,
sia i problemi sociali sia quelli psicopatologici possono essere visti come
modi diversi in cui si manifesta la difficoltà dell’adolescente a costruire
un’identità sociale, intesa come costruzione di un ideale dell’Io, un’idea di
sé e del proprio valore in quanto maschio o femmina. Il comportamento
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antisociale è l’espressione di una difficoltà nell’assunzione di responsabilità
del proprio comportamento: un insufficiente sviluppo di capacità di controllo
del comportamento e del senso di colpa, un problema nella costruzione
della propria identità o una distorta percezione dell’ostilità altrui (che
ostacola la costruzione di un’immagine sociale) possono minare questo
processo di sviluppo (Maggiolini, 2002).
L’integrazione dei diversi punti di vista teorici è facilitata dal fatto di essere
collocata all’interno di una prospettiva generale di psicopatologia evolutiva.
Questo orientamento è particolarmente adatto per la valutazione del
comportamento antisociale, del suo sorgere e della sua evoluzione in
adolescenza e nella vita adulta, in quanto mostra come un comportamento
delinquenziale possa essere il risultato di diversi percorsi di sviluppo e nello
stesso tempo sia suscettibile ad ogni momento di possibili evoluzioni
differenti e di diverse modalità di espressione. Un approccio di
psicopatologia evolutiva porta inoltre a dare una grande importanza al
contesto, superando l’idea che un adolescente “abbia” un disturbo, per cui il
comportamento antisociale è interpretato piuttosto come l’effetto di
un’interazione negativa tra bisogni evolutivi e risposte dell’ambiente, in una
prospettiva in cui sono centrali le rappresentazioni del soggetto dei propri
bisogni e delle risposte dell’altro. I principi generali della psicopatologia
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
75
evolutiva (equifinalità, multifinalità, contestualismo e costruttivismo)
appaiono quindi particolarmente adatti a descrivere e comprendere i
disturbi del comportamento in adolescenza (Cicchetti, Cohen, 1995;
Cummings, Davies, Campbell, 2000).
L’obiettivo definito dall’attuale Codice di procedura penale minorile 448/88 è
in ogni caso di sostenere il processo evolutivo del minore, quale che sia il
livello di difficoltà che ostacola il suo percorso di inserimento sociale, sia
che si tratti di conflitti evolutivi adolescenziali, di patologia della personalità
e del comportamento antisociale o di psicopatologie che implichino la
perdita del contatto con la realtà. Da questo punto di vista anche le diverse
forme di intervento, come il carcere, la comunità terapeutica o la messa alla
prova, sono diverse strategie che sono mirate alla stessa finalità generale e
non appartengono a domini diversi come la cura e la punizione.
I reati dei minori possono corrispondere a diversi livelli di gravità, da un
punto di vista psicosociale (anche in ciascuna di queste categorie si
possono avere naturalmente diversi livelli di gravità):
1) comportamenti a rischio più che veri e propri reati, che possono
essere tuttavia considerati reati in alcune legislazioni, come per esempio il
vagabondaggio;
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2) reati di status, in cui un certo comportamento è reato in funzione
dell’età di chi lo commette, come un rapporto sessuale avuto prima di una
certa età;
3) reati che non implicano una vittima, come il possesso o lo spaccio di
droghe;
4) reati che implicano una vittima, senza violenza diretta,come un furto;
5) reati che comportano una violenza nei confronti di un’altra persona,
come la violenza sessuale o l’omicidio.
Anche se ai diversi reati possono essere correlati differenti psicopatologie,
in genere nella maggior parte dei casi ci si trova di fronte ad un disturbo
antisociale di personalità, se si usa la definizione del DSM IV per gli adulti.
Nei servizi della giustizia minorile, tuttavia, la diagnosi di disturbo della
condotta o di disturbo antisociale proposta nel DSM IV (descritto come
caratterizzato soprattutto da una persistente inosservanza e violazione dei
diritti degli altri, che si manifesta nell’infanzia o nella prima adolescenza, e
continua nell’età adulta), si rivela insufficientemente discriminante. Questa
classificazione, d’altra parte, è stata contestata da più parti anche da un
punto di vista teorico, in quanto eccessivamente basata su osservazioni
comportamentali.
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
77
Secondo Hare (1970) per esempio, non vanno, confuse sociopatia o
disturbo antisociale di personalità e psicopatia. Mentre la sociopatia e il
disturbo antisociale descrivono una varietà di condizioni come deviazioni
sessuali, alcolismo e comportamenti asociali o antisociali, non
necessariamente delinquenziali, la psicopatia, invece, che è descritta sia
attraverso criteri comportamentali sia da tratti di personalità, caratterizza più
propriamente i delinquenti che hanno una maggiore probabilità di recidiva e
che commettono reati più gravi, ma che non necessariamente sono
caratterizzati da comportamenti impulsivi e antisociali (tanto che si possono
trovare individui con queste caratteristiche ben inseriti socialmente, anche
in posti di responsabilità). Nella psicopatia Hare ha individuato due fattori
stabili: il primo fattore è il narcisismo aggressivo, che è caratterizzato da
egocentrismo, insensibilità, mancanza di rimorso (che è correlato con una
personalità narcisistica e istrionica, con un basso livello d’ansia e una bassa
empatia); il secondo fattore è lo stile di vita antisociale: stile di vita
irresponsabile, non convenzionale, antisociale, impulsivo, in cui l’individuo è
spesso alla ricerca di situazioni eccitanti; questo fattore è fortemente
correlato con il comportamento criminale, insieme ad un basso QI, un
basso livello socio economico e un livello di istruzione particolarmente
basso.
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Gli stessi fattori sono stati ritrovati nell’analisi dei comportamenti dirompenti
infantili da Frick, Barry e Bodin (2000). Alla ricerca dei precursori della
psicopatia nei bambini, sono state individuate due dimensioni fondamentali
di personalità: insensibilità (o freddezza) e difficoltà nel controllo
dell’impulsività. Fra i tratti di insensibilità vi sono: mancanza di
preoccupazione per la scuola; il bambino non si sente cattivo o colpevole;
ha emozioni superficiali e non autentiche; non mostra sentimenti o
emozioni; agisce in modo seduttivo e insincero; non si preoccupa dei
sentimenti degli altri.
Lo scarso controllo degli impulsi è caratterizzato da comportamenti in cui il
bambino tende in modo particolare a vantarsi di quello che fa, ad
arrabbiarsi se corretto, a pensare di essere più importante degli altri, ad
agire senza pensare alle conseguenze, a rimproverare gli altri per i propri
errori, a prendere in giro o deridere gli altri, ad essere coinvolto in attività
rischiose, pericolose o illecite, a non mantenere gli stessi amici e ad
annoiarsi facilmente.
Benché sia i bambini insensibili, sia quelli con scarso controllo degli impulsi
abbiano problemi di comportamento, sono l’insensibilità e la mancanza
d’emotività ad essere particolarmente legate all’insorgere precoce di
problemi di comportamento (una differenza importante, rispetto agli adulti, è
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
79
che il narcisismo dei bambini è più legato all’impulsività mentre negli adulti
all’insensibilità).
Anche per gli adolescenti è stato rilevato che mentre la maggior parte di
quelli che sono in carcere segue i criteri per il disturbo della condotta o
antisociale (circa otto su dieci), solo tre su dieci incontrano i criteri per la
psicopatia (Forth, Mailloux, 2000). Mentre non vi sono differenze di razza e
d’età, vi è un forte collegamento tra la presenza di psicopatia e di tratti di
personalità narcisistica, antisociale e borderline (il cluster impulsivo dei
disturbi di personalità). Tra i fattori familiari che determinano la psicopatia
sono importanti: trascuratezza o abuso fisico, sessuale o affettivo
nell’infanzia, disaccordi familiari, o presenza di genitori a loro volta
antisociali o alcolisti. Dal punto di vista educativo l’ambiente familiare è
soprattutto caratterizzato da mancanza di controllo, una disciplina
incoerente, e da precoci separazioni dai genitori durante l’infanzia.
Jones e Westen (2010) hanno recentemente contribuito a raffinare
ulteriormente le capacità di individuazione di alcuni sottotipi prototipici di
adolescenti con problemi di antisocialità che sembrano andare nella stessa
direzione degli autori sopracitati.
Secondo gli autori è possibile individuare una prima tipologia di adolescente
antisociale caratterizzata da alcuni tratti psicopatici (Q Factor: Psychopaty-
Like): questi ragazzi mostrano uno scarso investimento nei valori morali e
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una pressoché totale mancanza di riguardo nei confronti dei diritti, della
proprietà e della sicurezza degli altri, hanno una scarsa empatia e non
sembrano in grado o non manifestano la volontà di capire e/o rispondere ai
sentimenti e ai bisogni degli altri; non sembrano manifestare sensi di colpa
per i danni arrecati agli altri, sono inclini ad una rabbia intensa
sproporzionata rispetto alla situazione, alla violenza e sono ostili, oppositivi
provocatori soprattutto nei confronti delle figure di autorità; mostrano inoltre
una propensione ad accusare gli altri o le circostanza per i propri
comportamenti, attribuendo le proprie difficoltà esclusivamente ai fattori
esterni, più che a responsabilità e/o scelte individuali. Possono mostrare
aspetti manipolatori e rancorosi, in linea con una generale esagerata
convinzione di importanza personale. Nei casi maggiormente problematici
questi adolescenti sembrano trarre piacere o soddisfazione dal comportarsi
in modo sadico o aggressivo, e nell’essere visti come i “cattivi” o i “duri”. A
livello di intervento, è necessario tenere presente infine che questi minori
sembrano non curarsi delle conseguenze delle proprie azioni e non
appaiono in grado di modificare il proprio comportamento anche a seguito
di conseguenze negative.
Il secondo prototipo di adolescente antisociale ricavato dalla ricerca
empirica comprende quei minori fortemente ritirati dal punto di vista sociale
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
81
(Q Factor: Withdraw-Isolated). Questi ragazzi si sentono privi di
appartenenza, degli outsider, e spesso sperimentano sentimenti di infelicità,
depressione e abbandono che si accompagnano ad una convinzione di
inadeguatezza ed inferiorità, di mancanza di significato nella propria vita e
di impotenza nei confronti di forze al di là del proprio controllo. Non hanno
relazioni sentimenti o amicizie profonde, tendono a sentirsi incompresi, non
creduti o vittimizzati. Tendono inoltre ad essere arrabbiati o ostili, ad agire
impulsivamente, e a non reggere gli impegni soprattutto se frustrati o sotto
pressione dimostrandosi spesso inaffidabili; nei confronti delle figure di
autorità possono mostrarsi ostili, oppositivi e provocatori. Mancano di un
senso di identità stabile e mostrano uno scarso insight psicologico, e
tendono a circondarsi di coetanei con precedenti penali o profondamente
alienati. Tendono inoltre a sentirsi annoiati, e provano poco piacere nelle
attività quotidiane; è possibile che abusino di alcol e droghe.
La terza categoria comprende gli adolescenti il cui tratto distintivo è
l’impulsività e la tendenza ad essere al centro dell’attenzione. Tendono ad
abusare di alcol e droghe e possono manifestare svariati comportamenti a
rischio a livello di promiscuità sessuale, sensation seeking, fughe da casa o
da situazioni residenziali, o coinvolgimenti in relazioni emotivamente o
fisicamente pericolose e/o vicine all’abuso. Possono essere sessualmente
provocanti o seduttivi, tendenti ad utilizzare in modo eccessivo il proprio
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aspetto fisico per farsi notare, scegliendo al contempo partner sessuali
inappropriati in termi di età, status etc. Questi adolescenti tendono a
mettere in atto comportamenti criminali e a circondarsi di pari altrettanto
coinvolti a livello penale. L’identità non è stabile e le relazioni tendono ad
essere instabili e caotiche e le loro azioni sono spesso caratterizzate da
impulsività. Inoltre, tendono ad attaccarsi agli altri in modo rapido e intenso,
sviluppando sentimenti ed aspettative talvolta irrealistiche in base alla storia
e/o al contesto relazionale. Sono ribelli e provocatori nei confronti delle
figure di autorità, tendono ad essere manipolatori e possono trarre
soddisfazione dall’essere, o dall’essere visti, come “cattivi” o “tosti”.
La quarta tipologia di adolescente antisociale mostra una primaria
disregolazione emotiva (Q Factor: emotionally disregulated): questi ragazzi
tendono a cadere in spirali emotive prive di contenimento che li portano ad
esprimere ansia, tristezza e rabbia molto intense e spropositate per la
situazione; le loro emozioni tendono a cambiare rapidamente ed in modo
imprevedibile. Possono manifestare difficoltà a mantenere l’attenzione e a
focalizzarsi sui compiti specie se distratti da stimoli esterni. Tendono ad
essere irrequieti e iperattivi, sembrano incapaci di rilassarsi e si esprimono
in modo esagerato e teatrale, possono essere manipolatori e vogliono
essere al centro dell’attenzione. Se sottoposti a stress possono faticare a
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
83
vedere contemporaneamente nella stessa persona sia le qualità positive sia
quelle negative, tendono a regredire a forme di coping più immature e
inefficaci e quando sono sottoposti a forti emozioni, possono manifestare
una significativa diminuzione del livello di funzionamento, sino a diventare
irrazionali. Le reazioni emotive sono estreme e impulsive, anche a seguito
di critiche minime ed in generale tendono ad evitare sentimenti di tristezza o
solitudine manifestando rabbia. Infine, questi adolescenti mostrano difficoltà
nella comprensione delle proprie e altrui motivazioni, emozioni e
comportamenti; possono mal interpretare o essere confusi dalle reazioni
degli altri.
L’ultimo sottogruppo di adolescenti antisociali riscontrato da Jones e
Westen (2010) comprende quei minori caratterizzati principalmente da una
disregolazione attentiva (Q Factor: attentionally disregulated). Mostrano
difficoltà a mantenere l’attenzione e a focalizzarsi sui compiti, si distraggono
facilmente e fanno fatica a stare seduti tranquilli e/o rilassarsi. Mostrano
una scarsa affidabilità e tendono ad incolpare gli altri o le circostanze dei
propri fallimento, ad esprimere la rabbia in modo indiretto e passivo ad
esempio facendo errori, procrastinando le cose o dimenticandosele, e a
convincere ripetutamente gli altri di essere cambiati per poi riprodurre i
comportamenti disadattavi precedenti. Tendono inoltre ad essere impulsivi e
a cercare il brivido, la novità, l’eccitazione, come se avessero sempre
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bisogno di un elevato livello di stimolazione. Questi minori mostrano
comunque anche numerose caratteristiche adattive: hanno un buon senso
dell’umorismo e tendono a suscitare simpatia nelle altre persone, sono
energici e attivi e appaiono a loro agio nelle situazioni sociali. Sono inoltre
capaci di essere assertivi in modo appropriato, quando necessario,
sebbene mostrino un’inibizione o un conflitto nei confronti del
raggiungimento di obiettivi prefissati e non appaiano in grado di apprendere
dai propri errori anche a seguito di conseguenze negative. Infine, questi
adolescenti cercano di mostrarsi come emotivamente forti, privi di problemi
e capaci di controllarsi nonostante evidenti insicurezza, ansia o stress.
Le difficoltà di controllo dell’impulsività che caratterizzano il comportamento
antisociale sembrano rimandare non solo a problemi cognitivi (capacità di
pensare alle conseguenze delle proprie azioni), ma anche e soprattutto a
problemi narcisistici (vantarsi, prendere in giro gli altri, ecc.). Anche in una
prospettiva psicoanalitica, Kernberg (1999) colloca l’antisocialità minorile
lungo lo spettro del disturbo narcisistico. Per Kernberg la crisi d’identità
normale, che è tipica dell’adolescenza, è caratterizzata da difficoltà di
integrare aspetti dell’immagine di sé e delle figure significative di
riferimento, ma all’interno di una buona capacità di fornire un quadro
realistico delle persone significative, d’avere interessi e d’investire in oggetti
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
85
ai quali si attribuisce valore o di avere un interesse sentimentale o
innamoramento. Il disturbo narcisistico, invece, è caratterizzato soprattutto
da una particolare tendenza al dominio e alla sottomissione, dalla
mancanza di relazione empatica, da grandiosità (sfrontatezza,
atteggiamenti di superiorità, ambizioni ingiustificate) e da problemi
comportamentali come le difficoltà scolastiche. Un livello ancora più grave
di disturbo narcisistico è costituito dalla sindrome narcisistica maligna, in cui
al disturbo narcisistico si unisce il comportamento antisociale. In questi
adolescenti abbiamo non solo difficoltà di rendimento e comportamento
scolastico, ma anche un’aggressività egosintonica e, spesso, un
orientamento paranoide. In alcuni casi questo atteggiamento narcisistico
carico di ostilità, diffidenza e aggressività, produce un disturbo antisociale
vero e proprio.
E’ inoltre necessario adottare una prospettiva di psicopatologia evolutiva a
fronte dell’evidenza che non sempre il comportamento trasgressivo
adolescenziale è legato a corrispondenti problemi di comportamento
infantili. Nella ricerca empirica è stata dimostrata l’importanza della
distinzione tra delinquenti il cui comportamento è limitato all’adolescenza
(diffuso, non patologico, in cui la componente sociale è predominante e il
comportamento poco aggressivo) e delinquenti il cui comportamento si
estende in tutto l’arco della vita (raro, patologico, spesso associato al
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comportamento aggressivo, in cui è anche importante la dimensione
neuropsicologica ed ereditaria). A questi gruppi si aggiunge un gruppo
moderatamente cronico, con un comportamento antisociale intermittente,
che caratterizza delinquenti spesso isolati e socialmente ritirati (Moffitt,
2003).
Nell’intervento con i minori sottoposti a procedimenti penali non ci si trova di
fronte solo alle diverse dimensioni dell’antisocialità adolescenziale. In alcuni
casi, infatti, ci si trova confrontati con reati che sono l’espressione di un
disturbo mentale, in cui è in gioco la perdita dell’esame di realtà, più che di
un disturbo di personalità e del comportamento, anche se la perdita del
senso di realtà può essere temporanea o essere prevalentemente a carico
della cultura di gruppo d’appartenenza.
La psicopatologia individuale, inoltre, si intreccia con le patologie del
contesto di vita e di sviluppo dell’adolescente. Vi sono, infatti, adolescenti
che commettono reati perché appartengono ad una cultura deviante, in cui
le motivazioni sociali sono preponderanti su quelle psicologiche e
psicopatologiche individuali: le loro trasgressioni non sono antisociali, ma
rappresentano la via all’inserimento sociale nel gruppo d’appartenenza. Altri
adolescenti ancora, come i minori stranieri immigrati senza la famiglia,
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
87
commettono reati come strategia di sopravvivenza all’interno del nuovo
Paese che li accoglie.
Il rapporto tra valutazione e intervento con i mino ri sottoposti a
procedimenti penali
Una parte importante del lavoro psicologico all’interno dei Servizi della
Giustizia minorile è costituito dall’attività di osservazione e valutazione. Le
possibili finalità della valutazione sono in realtà riassumibili nel tentativo di
comprendere il senso soggettivo che ha per l’adolescente il gesto deviante,
in relazione alle sue caratteristiche di personalità, al contesto da cui
proviene e alle sue esigenze evolutive, ma soprattutto della sua relazione
con l’intervento della giustizia e i provvedimenti ai quali è sottoposto.
Nella pratica di lavoro psicologico nei Servizi della giustizia minorile è utile
disporre di criteri, non solo per scopi diagnostici, ma per aiutare il processo
di valutazione penale, anche come premessa per la formulazione di un
progetto psicosociale di intervento. L’intervento psicologico in questo
contesto, infatti, non consiste nell’effettuare una diagnosi peritale volta
soprattutto a discriminare tra normalità, alla quale applicare pene, e
patologia, da indirizzare ad un sistema di cura. Chi si occupa di
antisocialità, e specialmente di adolescenti antisociali, direttamente o
indirettamente si trova nella situazione di condurre una valutazione
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psicoeducativa integrata; ogni possibile intervento con un antisociale infatti
richiede una precedente valutazione delle caratteristiche personali e
contestuali in grado di portare ad un esito positivo dell’intervento stesso
(Bonta, 2002).
L’esigenza di implementare le procedure di valutazione dei minori antisociali
deriva sia dalla maggiore probabilità di incorrere in un comportamento
criminale mostrata dagli adolescenti che mostrano problematiche
psicologiche mentali e che abusano di sostanze (Moffit et al., 2000), sia
dall’unanimità presente in letteratura rispetto all’altissima prevalenza di tali
problematiche mentali tra i giovani che entrano nel circuito penale (Atkins et
al., 1999; Duclos et al., 1998; Randal et al., 1999; Boesky, 2002; Teplin et
al., 2002; Wasserman, McReynolds, Lucas, Fisher, Santos., 2002;
Vermerein, 2003; Kadzin, 2000; Vermeiren, Jesper, Moffit, 2006; Maggiolini
et al., 2008).
Una recente e comprensiva review (Grisso, 2004) sottolinea come le
problematiche più comuni riguardino i disturbi dell’umore e d’ansia, i disturbi
legati all’utilizzo di sostanze psicoattive, i disturbi del comportamento e i
disturbi del pensiero. La prevalenza di questi problemi negli adolescenti
sottoposti a procedimenti penali è stimata tra il 60% e il 70%, circa 2 o 3
volte superiore alla popolazione generale (Kadzin, 2000, Roberts, Attkinson,
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
89
Rosenblatt, 1998). I sistemi di giustizia minorile devono di conseguenza
essere in grado di individuare i minori con specifici bisogni collegabili a
problemi psicologici nel momento del loro ingresso (o ritorno) all’interno del
sistema stesso (Grisso, Vincent, Seagrave, 2005).
Tale valutazione del minore andrebbe quindi effettuata all’interno di un
paradigma di psicopatologia evolutiva (Cicchetti, Cohen, 2006) dal
momento che adottare tale prospettiva modifica in primis la
concettualizzazione, ma soprattutto le strategie di valutazione dei problemi
psichici negli adolescenti (Grisso et al., 2005).
La valutazione evolutiva così concettualizzata considera le modalità di
funzionamento di un individuo, la sua capacità di adattarsi al proprio
contesto, il livello di sofferenza o di benessere e nell’ambito dell’antisocialità
assume significato in quanto strettamente legata all’intervento che ne
segue, dal momento che “ogni intervento con un adolescente antisociale
richiede una precedente valutazione delle sue caratteristiche personali e dei
fattori contestuali in grado di portare ad un esito positivo dell’intervento
stesso” (Bonta, 2002; p. 355). Questo legame imprescindibile fornisce
significato al percorso di valutazione, che, come ogni azione psicologica
rivolta ad adolescenti sottoposti a procedimenti penali, si svolge sin
dall’inizio in un contesto di prescrizione e non di richiesta (Maggiolini, 2002),
spogliato quindi del presupposto costituito dal fatto di porsi di fronte
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all’interlocutore come ad un soggetto con una difficoltà evolutiva che lo
porta a chiedere aiuto.
Risulta importante, di conseguenza, chiarire con l’adolescente in prima
istanza quale sia il contesto di intervento all’interno del quale ci si trova
(Servizi della Giustizia minorile, mandati peritali, mandati privati), chi ha
formulato la domanda di intervento e quali siano gli obiettivi della
valutazione. Solo a partire da questi dati è possibile definire un contesto
valutativo chiaro e definito, primo passo di un alleanza di lavoro altrimenti
difficoltosa con gli adolescenti antisociali.
In un’ottica evolutiva, la valutazione del minore assume come obiettivo
primario più che una formulazione diagnostica specifica, la comprensione
del senso soggettivo che ha per l’adolescente il gesto deviante in relazione
alle sue caratteristiche di personalità e alle sue esigenze evolutive. La
valutazione non va quindi intesa in senso nosografico e classificatorio, ma
come strumento in più per ricavare informazioni sulle modalità di
funzionamento dell’adolescenze, in particolare sugli aspetti che in quel
singolo aspetto appaiono più correlati al comportamento deviante.
All’individuazione delle rappresentazioni soggettive degli avvenimenti per i
quali è sottoposto a procedimento penale si accompagna un bilancio
evolutivo dell’adolescente, per tentare di evidenziare delle connessioni tra il
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
91
comportamento antisociale e il percorso evolutivo di crescita del singolo
minore all’interno del quale è commesso il reato. E’ altresì importante
individuare nel gesto antisociale un senso soggettivo, che spesso è opaco
all’adolescente stesso che proprio ai processi di soggettivazione e di
mentalizzazione ha sostituito un acting out delinquenziale.
Sintetizzando, ciò che si propone di ottenere la valutazione psicologica di
un adolescente antisociale è una valutazione del funzionamento individuale
il cui nucleo consiste nella comprensione dei bisogni evolutivi del ragazzo.
Per farlo, è necessario mettere in connessione le difficoltà evolutive con le
caratteristiche di personalità dell’adolescente, o con eventuali carenze del
suo ambiente di vita. In questa prospettiva, ciò che in altri modelli teorici è
letto come sintomo (es. l’impulsività, la persecutori età o la grandiosità) è al
contrario interpretato come una particolare declinazione distorta delle
problematiche evolutive, o meglio, come blocchi ed ostacoli al
soddisfacimento di quello che è il reale bisogno evolutivo che l’adolescente
maschera attraverso il comportamento antisociale.
Una valutazione e un successivo intervento basati sulla comprensione dei
bisogni evolutivi in relazione alle caratteristiche di personalità
dell’adolescente antisociale a nostro avviso risolve la durevole diatriba tra i
due principali modelli di intervento sviluppatisi in quest’ambito (Ward,
Stewaer, 2003), il modello attuariale e il modello clinico, non più visti come
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opposti e inconciliabili bensì integrabili in un approccio innovativo
perfettamente equilibrato tra aspetti di tipo nomotetico e di tipo idiografico
(Baird, 1984; Schwalbe, 2007, 2008; Shlonsky, Wagner, 2005). I modelli
attuariali si basano su una predizione oggettiva del rischio tramite
l’osservazione prospettiva del comportamento dei soggetti. Il principale
obiettivo di questi approcci è la rilevazione dei “criminogenic needs” (Bonta,
2002; Hoge, 2002, Ward, Stewart, 2003), concettualizzati come i fattori di
rischio dinamici collegati all’antisocialità in età evolutiva. In quanto fattori
dinamici, a differenza dei più conosciuti fattori di rischio statici non soggetti
a modifiche (es. l’età della commissione del primo reato è uno dei fattori di
rischio statici più significativi nella predizione del rischio di recidiva), i
criminogenic needs sono passibili di cambiamento e anzi secondo Andrews
e Bonta (1998) sono proprio quegli aspetti personali o contestuali – come
impulsività, abuso di sostanze, credenze antisociali - che, una volta
modificati, si associano ad una riduzione del tasso di recidiva. Per
definizione quindi i criminogenic needs forniscono agli operatori utili
informazioni su quali siano gli elementi passibili di intervento tanto che
secondo la “need principle of case classification” (Andrews et al., 1990) i
Servizi della Giustizia Minorile dovrebbero basare le proprie decisioni
unicamente sulla valutazione attuariale dei criminogenic needs del singolo
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
93
minore. Secondo i sostenitori di questo approccio, la valutazione basata su
predittori crominogenici teoricamente fondati e empiricamente validi
misurati attraverso strumenti standardizzati, oggettivi e in grado di cogliere
la dinamica evolutiva è ben più accurata di qualsiasi valutazione clinica
dell’antisocialità (Groive, Zald, Lebow, Snitz, Nelson, 2000).
In sintesi, l’approccio attuariale si concentra sul rischio di recidiva e calibra
l’intervento con l’adolescente antisociale sulla base dell’evitamento della
commissione di nuovi reati più che sulla ripresa evolutiva del minore. Da
questa prospettiva, sebbene l’aumento delle potenzialità del minore sia
auspicabile, non è l’obiettivo primario dell’intervento stesso. Al contrario, il
modello clinico si preoccupa in prima istanza di incrementare le capacità del
minore con l’obiettivo di aumentarne gli aspetti di resilienza reintroducendo
una dinamica nel percorso evolutivo interrotto dalla commissione del reato
e in linea teorica prevenendo la commissione di nuovi reati (Ward, Stewart,
2003).
Se il modello clinico è in linea con i principi dei più recenti sviluppi teorico-
pratici della psicopatologia evolutiva, il modello del controllo del rischio di
recidiva ha dominato l’ambito degli interventi con gli adolescenti antisociali
(Andrews, Bonta, 1998; Ashfort, Sales, Reid, 2001; Garland, 2001).
Sebbene Bonta (2000) insista sulla superiorità del modello attuariale e sia
scettico sulla possibilità di affiancarlo a quello clinico (Bonta, 2002)
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recentemente si sta sviluppando nel panorama internazionale un approccio
integrato attuariale-clinico che non sacrifichi né la profondità della
comprensione clinica né la rilevanza empirica delle “actuarial measures”
(Schwalbe, 2008; Shlonsky, Wagner, 2005).
Il modello attuariale, infatti, non riesce a fornire informazioni sulle decisioni
cliniche da intraprendere, e non consente di valutare in che modo innestare
un cambiamento e una ripresa del percorso evolutivo interrotto dalla
commissione del reato, a fronte della rilevazione dei singoli criminogenic
needs; semplicemente, informa il clinico della probabilità di una futura
recidiva (Shlonsky, Wagner, 2005). Manca tuttavia l’aggancio tra rilevanza
statistica e predittività empirica da un lato, e sviluppo di un progetto
terapeutico individuale calibrato sulle peculiari caratteristiche evolutive del
minore.
Questo aggancio può essere trovato nel concettualizzare i criminogenic
needs come distorsioni delle normali manifestazioni dei bisogni evolutivi
(Ward; Stewart, 2003), quindi come ostacoli interni (legati alle
caratteristiche personali del minore) o esterni (legati al contesto e
l’ambiente di vita) che impediscono un percorso evolutivo ottimale (p. 142),
portando piuttosto ad un blocco. La valutazione psicologica dovrebbe quindi
essere tesa comprensione dei reali bisogni evolutivi del minore in relazione
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
95
sia alle sue caratteristiche personali e alle sue risorse sia alle modalità con
cui gli impedimenti alla realizzazione di questi bisogni, a seconda proprio
delle caratteristiche del minore, si manifestano attraverso i cosiddetti
criminogenic needs. Il problema derivante dal separare un approccio
attuariale da un approccio clinico risiede nel rischio di non cogliere a che
differenti bisogni evolutivi si rifanno costellazioni di criminogenic needs
apparentemente simili, mettendo così in atto interventi volti sì al modificare
queste costellazioni, ma incapaci di introdurre una ripresa del percorso
evolutivo.
Obiettivi e strumenti nella valutazione dei minori sottoposti a
procedimenti penali.
L’esame di personalità è utile rispetto ai seguenti aspetti e alle conseguenti
valutazioni e decisioni: la capacità di intendere e di volere, la rilevanza del
fatto, la scelta, se del caso, della più adeguata misura cautelare,
l’opportunità o meno della messa alla prova, la possibilità di applicare
sanzioni sostitutive, gli eventuali benefici e l’entità e la modulazione
dell’eventuale condanna (Losanna, 2008).
Adottare una prospettiva evolutiva consente un cambio di paradigma per
l’osservazione della personalità in ambito penale minorile (Centomani,
Martino, 2008) e nel rispondere a tali quesiti ci porta a prendere
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maggiormente in considerazione l’analisi dell’azione deviante con
particolare attenzione al significato soggettivo proprio dell’autore del gesto,
la valutazione della responsabilità presente al momento del fatto e sugli
sviluppi della stessa durante l’iter penale come capacità di rielaborazione
delle conseguenze del reato, la valutazione delle narrazioni di sé e
dell’identità dei minore, delle sue risorse personali, familiari, contestuali.
Viene inoltre tenuto conto di parametri quale la valutazione dei contesti con
particolare attenzione agli stili educativi, l’analisi del percorso della carriera
deviante. Tutto questo in un’ottica rivolta ad una prognosi che in ambito
penale richiama il concetto di pericolosità sociale, ossia la probabilità che il
minore “commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati”, e ad uno
specifico trattamento basato su quanto emerso dalla valutazione stessa.
La valutazione psicologica dei minori sottoposti a procedimenti penali si
pone quindi come obiettivi una rilevazione delle caratteristiche di
personalità del minore e/o dell’eventuale presenza di un disagio
psicologico, entrambe intese nell’ottica di un bilancio evolutivo volto a
stabilire la dinamica soggettiva e individuale tra i bisogni evolutivi del
singolo minore e la loro interazione da un lato con i fattori di rischio
crimonogenici statici e dinamici (i cosiddetti Criminogenic Needs), dall’altro
con i fattori di protezione presenti a livello individuale e contestuale. Un
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
97
secondo obiettivo della valutazione psicologica è la rilevazione del rischio di
violenza e di recidiva, sovrapponibile al concetto giuridico-penale di
“pericolosità sociale”. Il terzo obiettivo è la valutazione della
maturità/immaturità del minore con particolare attenzione alle conseguenze
sul grado di responsabilità dell’adolescente. Infine, la valutazione
psicologica, come momento della più ampia valutazione del minore
sottoposto a procedimento penale vista come premessa necessaria per un
adeguato intervento psico-educativo, giuridico e sociale volto ad una ripresa
evolutiva, si deve soffermare sulla disponibilità dimostrata dal minore nei
confronti dell’intervento stesso.
Gli strumenti
La valutazione del minore autore di reato è frutto di una fase iniziale di
consultazione che può prevedere anche l’uso di strumenti testistici. E’
possibile individuare alcune linee guida sia per la conduzione dei colloqui
sia per la somministrazione di test.
Il colloquio con i minori devianti può essere particolarmente difficile perché
rivolto a ragazzi caratterizzati dalla propensione all’agito e con scarse
capacità di simbolizzazione.
I colloqui con i ragazzi sottoposti a procedimenti penali richiedono un
adattamento dell’abituale posizione d’ascolto dello psicologo, con
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l’assunzione di un atteggiamento più attivo di quello che si è spesso abituati
ad adottare di fronte ad un utente che riconosce il proprio bisogno e che ha
sufficienti capacità di mentalizzazione.
Nella nostra prospettiva l’attenzione è rivolta in primo luogo ad individuare il
senso soggettivo del gesto deviante, il cui significato è posto in relazione
alle problematiche evolutive dell’adolescente, sullo sfondo delle sue
caratteristiche di personalità e di una valutazione del contesto (Maggiolini,
2002). La necessità di una comprensione psicodinamica dell’adolescente si
unisce ad esigenze istituzionali di valutazione, che non sono primariamente
finalizzate ad un intervento psicoterapeutico, ma alla presa in carico penale
e psicosocioeducativa.
Nei primi colloqui è utile capire quanto, per l’adolescente, un certo
comportamento abbia un valore trasgressivo e quanto gliene sia chiara
l’illegalità. E’ utile, inoltre, cercare di evidenziare il contesto evolutivo in cui il
reato è commesso: spesso il gesto trasgressivo compare, infatti, nei
momenti di passaggio (ad esempio, dalla scuola al lavoro) o di crisi e
fallimento di progetti di crescita. Al termine dei primi colloqui, al ragazzo e ai
suoi genitori è fornita un’interpretazione degli avvenimenti, che ne
rappresenti una nuova “messa in forma” in modo che la vicenda assuma
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
99
per i protagonisti un significato il più possibile condiviso.
All’individuazione delle rappresentazioni soggettive degli avvenimenti per i
quali è sottoposto a procedimento penale si accompagna un bilancio
evolutivo dell’adolescente, che è volto a fare il punto sul suo sviluppo nelle
diverse aree del Sé (i processi di separazione e individuazione,
l’inserimento sociale, l’integrazione della sessualità nell’immagine di sé, la
formulazione di un progetto futuro). In una prospettiva di psicopatologia
evolutiva, infatti, più che attribuire l’adolescente ad una categoria
diagnostica, è utile tentare delle connessioni tra il comportamento
antisociale e il suo percorso evolutivo.
Un ulteriore obiettivo è di mettere in connessione le difficoltà evolutive con
le caratteristiche di personalità dell’adolescente o con eventuali carenze del
suo ambiente di vita. In questa prospettiva impulsività, mancanza di senso
di colpa, grandiosità, anafettività, persecutorietà o depressione non sono
viste come il problema da curare, ma come una particolare declinazione,
distorta, delle problematiche evolutive, che impediscono il passaggio
evolutivo della costruzione dell’identità adulta, con la capacità di assumere
la responsabilità del proprio comportamento. In molte situazioni gli ostacoli
evolutivi non sono individuati soltanto nella personalità dell’adolescente, ma
piuttosto nel suo ambiente di sviluppo. In questo caso l’atto deviante non è
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espressione di una patologia evolutiva dell’adolescente, ma di quella del
suo contesto di crescita, che non è in grado di svolgere una funzione
adeguata di supporto.
I colloqui di valutazione dovrebbero iniziare con un’esplicitazione degli
obiettivi degli incontri, seguiti da un bilancio evolutivo nelle diverse aree del
sé e degli stili attraverso i quali l’adolescente affonda i propri compiti
evolutivi: le relazioni familiari, in modo particolare nelle aree
dell’attaccamento e del controllo, il rapporto con la scuola e
l’apprendimento, le relazioni con i pari e con l’altro sesso, e con il propri
corpo, l’umore prevalente e eventuali comportamenti a rischio, il rapporto
con l’ideale. Con gli adolescenti immigrati è importante cercare di cogliere i
vissuti che hanno accompagnato l’immigrazione, la partenza dal paese
d’origine e l’ingresso in Italia, le loro motivazioni e aspettative.
All’interno dei colloqui preliminari è indispensabile raccogliere il punto di
vista soggettivo dell’adolescente sull’imputazione che gli è stata mossa, il
livello di empatia per i danni o le sofferenze causate, la capacità di
prevedere le conseguenze delle proprie azioni e il livello di premeditazione
o di impulsività del reato, con un’aggressività più predatoria, d’attacco, o
reattiva, di difesa. Poiché i reati sono in genere commessi in concorso è
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
101
indispensabile cercare di capire il ruolo dei diversi soggetti. Anche nelle
situazioni in cui non vi sia alcuna ammissione di responsabilità del reato per
il quale è imputato, è utile indagare le reazioni all’intervento della giustizia
anche da parte della famiglia. Immediatamente a seguito della fase di
osservazione e valutazione è importante capire le capacità di assunzione di
responsabilità del minore (ammissione del reato, riconoscimento del suo
senso e della sua gravità, capacità di formulare un progetto, disponibilità ad
impegnarvisi), soprattutto in funzione della formulazione di un progetto
condiviso, che possa essere presentato e discusso di fronte ai giudici.
Nel colloquio con i genitori si può seguire una traccia sostanzialmente
parallela a quella del colloquio con il minore (accertarsi che abbiano chiari
gli obiettivi del colloquio, esplorare l’immagine che hanno del figlio i
problemi educativi, ecc.). Il colloquio con i genitori, che indirettamente può
dare un’idea dei loro problemi e di una loro eventuale psicopatologia, ha
soprattutto lo scopo di valutare gli stili educativi, il tipo d’attaccamento, le
modalità di controllo del comportamento e di rispecchiamento empatico
(mentre le vicende e le condizioni familiari si ricavano dal colloquio
dell’assistente sociale o dell’educatore). E’ importante vedere se da parte
dei genitori c’è una sufficiente capacità di cogliere le difficoltà del figlio e di
capirne le motivazioni, assumendosi in qualche modo la responsabilità per il
suo comportamento.
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Le difficoltà relazionali presenti nella consultazione psicodiagnostica con gli
adolescenti nell’utilizzo di test proiettivi si moltiplicano con i minori che
commettono reati. La situazione psicodiagnostica di per sé tende ad
attivare fantasmi d’intrusione e/o di valutazione, ma è possibile cercare di
trasformare un’indagine dalle valenze giudicanti ed intrusive,
potenzialmente persecutorie, in “un’esperienza emotiva conoscitiva” che
favorisca l’alleanza di lavoro e consenta al soggetto di entrare in rapporto
con il proprio immaginario nell’ambito di un’esperienza relazionale orientata
a una maggior comprensione di sé (Aliprandi, Bassetti, Riva, 2000). Mentre
la ricerca criminologica sugli adulti spesso ha dubitato dell’attendibilità delle
valutazioni psicologiche in ambito peritale, l’esperienza con i minori induce
a ritenere che quando l’adolescente è informato in modo diretto e
trasparente dell’uso del materiale psicodiagnostico in sede processuale e
viene aiutato ad esplicitare sospetti e diffidenze, e a dichiarare eventuali
preoccupazioni al riguardo, finisce per mettere rapidamente da parte
considerazioni di opportunità e convenienza processuale: la sua ansia di
valutazione, spesso molto intensa, non si rivolge al giudice, ma all’adulto
che ha di fronte, e ancora di più a quello internalizzato, una sorta di genitore
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
103
interno che da sempre lo giudica e mortifica paralizzandone la produttività
(Riva, 2002).
I test psicologici consentono di comprendere alcuni aspetti del minore
andando oltre la sua consapevolezza individuale, possono fornire
indicazioni rapide ed economiche rispetto al colloquio che comunque
rimane lo strumento principale della consultazione, e infine riescono a
fornire una maggiore oggettività dei giudizi. Secondo Hoge (2002) la qualità
di una valutazione psicologica dipende in modo diretto dalla sua validità,
essa può essere aumentata mediante l’utilizzo di strumenti di assessment
standardizzati (p. 380).
Nella valutazione dei minori autori di reato, occorre intanto considerare che
l’ambito penale presuppone l’utilizzo delle informazioni emerse nel corso
dei colloqui e dalla somministrazione dei test in sede di giudizio, e di ciò
l’adolescente è ovviamente consapevole (Riva, 2002). Sembrerebbe ovvio
riscontrare in queste circostanze ansie di valutazione e tentativi più o meno
consapevoli di manipolazione più pregnanti rispetto ai vissuti solitamente
elicitati (Schafer, 1954). Tuttavia, quando l’adolescente è informato in modo
diretto e trasparente sull’uso del materiale testistico e del ruolo della
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valutazione psicologica cui è sottoposto, spesso finisce per mettere da
parte considerazioni di opportunità e convenienza processuale.
L’esplicitazione degli obiettivi, delle procedure e dell’utilizzo del materiale
emerso dalla somministrazione dei test può essere considerata come primo
punto di una serie di linee guida per la scelta e l’utilizzo dei test nella
valutazione degli adolescenti antisociali (Bonta, 2002) di cui riassumiamo gli
elementi salienti: prevedere l’utilizzo non esclusivo ma fondamentale di
strumenti attuariali dimostratisi empiricamente in grado di predire la recidiva
violenta o generale e almeno per quanto riguarda la valutazione del rischio
non affidarsi unicamente a strumenti clinici nati con altre finalità o con scopi
del tutto estranei a questi; utilizzare strumenti in grado di rilevare i
criminogenic needs; implementare l’utilizzo di test basati su teorie rilevanti e
validate a livello empirico; infine, puntare ad una valutazione multi-method
in cui le debolezze di uno strumento possano essere compensate dai punti
di forza di uno strumento diverso.
Da un punto di vista metodologico, l’attività di valutazione dei minori
sottoposti a procedimenti penali può essere suddivisa, a seconda del
mandato e/o del momento dell’iter penale in cui avviene, in “screening” o
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
105
“assessment”. La distinzione tra queste modalità di valutazione spesso non
è chiara anche per la tendenza a definire “assessment” qualsiasi genere di
misurazione delle caratteristiche psicologiche di un individuo, per la
mancanza di consenso tra i diversi autori su cosa sia effettivamente uno
screening e cosa un assessment e infine per una confusione all’interno
delle denominazioni degli stressi strumenti psicologici, che molto spesso
non mantengono questa distinzione (Grisso et al., 2005; Wasserman et al.,
2003).
Sebbene siano entrambi approcci alla valutazione del minore autore di
reato, screening e assessment sono concettualizzabili come due livelli
gerarchici di identificazione dei bisogni e delle problematiche evolutive dei
minori all’interno dei servizi di giustizia minorile. Lo screening ha come
obiettivo una valutazione economica ed estesa a tutti i minori in entrata,
laddove l’assessment, successivo allo screening, fornisce una valutazione
più approfondita, comprensiva individualizzata dei bisogni e/o dei problemi
emersi (anche se non necessariamente) nella precedente fase di screening
(Grisso et al., 2005; p.12). E’ doveroso sottolineare che non
necessariamente screening e assessment si differenziano per le aree di
indagine. Entrambe le fasi della valutazione si concentrano sulle
caratteristiche di personalità e sull’eventuale presenza di psicopatologia, sul
rischio di problemi di comportamento o di recidiva, o su problemi
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psicosociali e/o di adattamento; tuttavia una rilevazione di screening ha
valore in particolare nel periodo immediatamente successivo alla
valutazione stessa e fornisce uno sguardo meno individualizzato della
natura dei bisogni del minore; viceversa l’assessment assume valore in un
ottica di comprensione più a lungo termine, soggettivante e
individualizzante, dei bisogni e delle possibili evoluzioni del minore.
Lo screening – Deve essere effettuato su ogni minore in entrata nei servizi
di giustizia minorile, e tende a focalizzarsi su quelle condizioni che
necessitano di una risposta e/o un intervento immediato, ad esempio il
rischio suicidario o l’abuso di sostanze. E’ quindi un momento necessario
per raccogliere in modo rapido, economico ed efficiente una serie di
informazioni psicologiche e comportamentali che consentono di identificare
in modo immediato ed efficiente le necessità e i bisogni cui rispondere a
breve termine.
La maggior parte dei Servizi non ha una strutturazione tale della fase di
screening da stabilire a priori quali siano le aree da indagare. Tuttavia,
secondo le più autorevoli fonti a riguardo (American Academy of Child and
Adolescent Psychiatry, 2005; Boesky, 2003; Grisso, 2004; Wasserman,
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
107
Jensen, Ko, 2003) lo screening all’interno dei Servizi di Giustizia Minorile
dovrebbe prevedere per lo meno un’indicazione sui sintomi affettivi e
ansiosi, sulla probabilità di commissione di gesti aggressivi a breve termine,
sul rischio suicidario o di comportamenti autolesivi in generale e infine sul
rapporto più o meno problematico con le sostanze psicoattive. E’ inoltre
fondamentale che gli strumenti utilizzati siano standardizzati, validi e
attendibili (Wasserman, 2003; American Academy of Child and Adolescent
Psychiatry, 2005), pena la riduzione dell’attività di screening ad uno spreco
di tempo e risorse. Nonostante l’accordo comune sull’importanza di
un’attività di screening sistematica, programmatica e standardizzata per il
momento questi aspetti spesso mancano all’interno dei Servizi (Bailey,
Trabuck, 2006).
L’assessment – In opposizione allo screening, l’assessment si pone come
obiettivo la descrizione più comprensiva e individualizzata del
funzionamento del minore. Se lo screening consente all’operatore di
rispondere a domande a breve termine come ad esempio – è probabile un
aggressione fisica durante la permanenza del minore in CPA? È necessario
prendere precauzioni per quanto riguarda possibili agiti autolesivi? –
l’assessment è maggiormente rivolto alla raccolta delle informazioni
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necessarie alla stesura di un progetto terapeutico individuale a lungo
termine (Grisso et al., 2005).
Una seconda differenza rispetto allo screening è la natura selettiva del
processo di assessment che non è previsto per tutti gli adolescenti
antisociali in entrata nei Servizi, bensì per coloro i quali è ritenuto
necessario, in base a tre possibili obiettivi (Grisso et al., 2005): un
approfondimento dei risultati dello screening, una risposta a quesiti specifici
posti dal percorso penale o infine la creazione di un progetto
individualizzato a lungo termine da proporre al minore. In sintesi, è il
processo di assessment che consente la comprensione delle modalità di
funzionamento psichico di un individuo, delle sua capacità di adattarsi al
proprio contesto, del livello di sofferenza o di benessere e, nell’ambito
dell’antisocialità in età evolutiva, la comprensione del nesso tra
caratteristiche personali, elementi contestuali, criminogenic needs e bisogni
evolutivi.
Per ottemperare a questi obiettivi, sono tre le aree di indagine che un
assessment comprensivo orientato dal punto di vista evolutivo dovrebbe
prendere in considerazione in modo integrato ed equilibrato: una
valutazione delle caratteristiche di personalità del minore attraverso l’uso di
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
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strumenti di assessment clinici, una valutazione del rischio di reato e di
recidiva attraverso la somministrazione di strumenti di tipo attuariale, e
infine una valutazione peritale che si concentra maggiormente su quesiti
riguardanti il contesto penale e non esclusivamente sul benessere psichico
del minore e pertanto necessita di appositi strumenti di assessment definiti
appunto “forensi” (Grisso, 1998; Grisso et al., 2003).
Infine, deve essere sottolineato come in ambito penale l’osservazione della
personalità del minore non venga realizzata da un singolo operatore, bensì
dall’istituzione, intesa come dispositivo che unisce obiettivi e competenze
differenti. La valutazione del minore pertanto prodotto di un gioco
dell’equipe (Centomani, Martino, 2008), che rappresenta un passaggio
fondamentale per integrare differenti punti di vista e differenti competenze in
un’unica narrazione che verrà riportata sulla relazione da sottoporre
all’autorità giudiziaria. Tale integrazione consente quindi di riunire una
pluralità di saperi delle professionalità riunite nell’equipe interdisciplinare
composta dalle figure di educatore, assistente sociale, psicologo, mediatore
culturale a cui possono aggiungersi il medico, l’agente di polizia
penitenziaria, l’operatore professionale, e permette di confrontarle.
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Una proposta per la fase di screening: il Massachussetts Assess Youth
Symptoms Instrument-2 (MAYSI-2; Grisso, Barnum, 2003). Il MAYSI-2
(Grisso, Barnum, 2003) nasce come strumento self report breve, semplice,
somministrabile da operatori di diversa professionalità e senza necessità di
training clinici precedenti e rivolto in modo specifico agli adolescenti in
entrata nei Servizi di Giustizia Minorile. E’ stato creato quindi con l’intento di
rilevare nei minori in ingresso nel sistema penale esperienze cognitive,
affettive o comportamentali indicative di potenziali psicopatologie o di fasi di
acuto stress psicologico tali da richiedere un attenzione immediata (Grisso,
Quinlan, 2005). Come strumento di screening, indaga quei bisogni che
necessita di attenzioni immediate all’interno dei Servizi, come i gravi stati
depressivi, il rischio di gesti autolesivi o di aggressività rivolta verso gli altri,
o le conseguenze potenzialmente dannose di sintomi astinenziali allo scopo
di rilevare i minori che necessitano di una presa in carico psicologica
immediata (Borum, Wolpaw, 2008). Il MAYSI-2 è rivolto a minori di età
compresa tra i 12 e i 17 anni, può essere somministrato in tempi
relativamente brevi (10 – 15 minuti) e secondo le indicazioni degli autori
(Grisso, Barnum, 2003; Grisso, Quinlan, 2005) è stato ideato per un utilizzo
nelle 24 ore successive all’inserimento del minore. E’ composto da 52 item
dicotomici (vero – falso) suddivisi in sette scale cliniche: 1) uso di alcol e
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
111
droghe; 2) rabbia – irritabilità; 3) depressione – ansia; 4) lamentele
somatiche; 5) ideazione suicidaria; 6) disturbi del pensiero (valida solo per i
maschi); 7) esperienze traumatiche. Le ricerche condotte con il MAYSI-2
(Grisso et al., 2001) hanno riguardato unicamente campioni di adolescenti
delinquenti e sottoposti a procedimenti penali e hanno confermato la
validità, l’attendibilità e la struttura fattoriale dello strumento (Archer,
Stredny, Mason, 2004; Cruise, Dandreaux, Marsee, 2004). Ulteriori studi
(Wasserman, 2004) hanno dimostrato correlazioni significative tra i
punteggi delle scale MAYSI-2 e i criteri clinici rilevati attraverso la
Diagnostic Interview Schedule for Children – Version 4 (DISC-IV) e una
buona capacità predittiva rispetto a comportamenti rilevanti all’interno
dell’iter penale quali l’isolamento durante la detenzione, la necessità di
presa in carico psichiatrica, la durata complessiva della pena e la necessità
di interventi di contenimento da parte degli operatori per far fronte a
comportamenti auto lesivi o violenti anche sessualmente. In sintesi, per il
contesto in cui è stato ideato e per le proprietà dimostrate, il MAYSI-2 può
rappresentare un valido strumento standardizzato di screening all’interno
dei servizi della giustizia minorile; non va tuttavia dimenticato che come
strumento di valutazione iniziale necessità di ulteriori approfondimenti
diagnostici qualora emergano risultati significativi (Borum, Wolpaw, 2008).
In particolare, date le associazioni significative delle scale MAYSI-2 con altri
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inventari di personalità quali lo YSR (Grisso et al., 2001) e il MMPI
(Espelage et al., 2003), si può ipotizzare un utilizzo di uno di questi ultimi
come successivo strumento di assessment.
La valutazione delle caratteristiche di personalità del minore autore di
reato
La valutazione psicologica considera le modalità di funzionamento di un
individuo, la sua capacità di adattarsi al proprio contesto, il suo livello di
benessere e di sofferenza. Esistono diversi modelli di valutazione: alcuni si
focalizzano sui sintomi, sulla loro presenza e co-presenza, sulla durata e
l’intensità; altri riguardano invece la personalità nel suo insieme, la storia
individuale e la qualità dell’inserimento nell’ambiente familiare e
psicosociale. In adolescenza è difficile che la “normalità” coincida con
l’assenza di sintomi, piuttosto è in funzione dei compiti che questa fase
propone, dalla cui risoluzione dipende il successivo sviluppo. Valutare un
adolescente significa considerare il modo in cui affronta i compiti evolutivi
che lo impegnano nella sua costruzione dell’identità, nell’integrazione
psichica del corpo sessuato, nell’integrazione psichica del corpo sessuato,
nell’articolarsi del processo di separazione-individuazione, nella
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
113
riorganizzazione delle relazioni con gli oggetti interni, sia sull’asse
dell’immagine di sé e del proprio valore, sia su quello delle relazioni con gli
altri significativi.
La centralità della dimensione evolutiva in adolescenza rappresenta un
limite nell’utilizzo sia dei sistemi categoriali che di quelli dimensionali nella
valutazione delle caratteristiche di personalità dei minori autori di reato. Il
carattere fluido e mutevole della situazione psichica adolescenziale infatti
evidenzia tutti i limiti di una valutazione categoriale. Anche una valutazione
dimensionale di determinati tratti di personalità deve essere effettuata con
attenzione nella fase adolescenziale, dal momento che le costellazioni di
tratti sono soggette a continue modifiche a causa della riorganizzazione
dell’intera personalità. Una valutazione psicodinamica in adolescenza non
corrisponde quindi ad una diagnosi categoriale o dimensionale, bensì valuta
due distinti processi: si analizzano le diverse aree evolutive e si valuta la
competenza dell’adolescente nella costruzione di un’identità di Sé più o
meno adeguata. I principi generali della psicopatologia evolutiva
(equifinalità, multifinalità, contestualismo, costruttivismo) appaiono quindi
particolarmente adatti a descrivere e comprendere i disturbi del
comportamento in adolescenza (Cicchetti, Cohen, 1995; Cummings,
Davies, Campbell, 2000).
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E’ quindi importante sia formulare ipotesi sul modo in cui l’adolescente sta
costruendo la propria personalità sia comprendere le dinamiche di
funzionamento del contesto relazionale in cui è inserito. Il concetto stesso di
“compito evolutivo” coniuga aspetti intrapsichici legati alla personalità
dell’adolescente e ad aspetti relazionali correlati al suo “contesto psichico
allargato”.
La valutazione all’’interno dell’istituzione penale necessita di una tale
prospettiva bifocale non circoscritta al setting clinico e non riguardante
unicamente il rapporto tra psicologo e paziente, bensì ogni figura
dell’equipe istituzionale che è chiamata a svolgere una funzione valutativa
per l’ambito che le compete. La presenza di tale equipe multidisciplinare
consente di osservare l’adolescente all’interno delle sue diverse
appartenenze, nello svolgimento dei suoi ruoli sociali, significanti di ruoli
affettivi spesso non integrati in un’unica rappresentazione di sé. In questa
prospettiva la valutazione non è primariamente orientata alla diagnosi di un
disturbo, ma alla comprensione del senso soggettivo delle scelte e dei
comportamenti del minore e della loro valenza espressiva e comunicativa
nei confronti dell’ambiente (Maggiolini, Riva, 1998). E’ infatti indispensabile
considerare, come componente centrale alla base del comportamento del
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
115
minore autore di reato, i suoi desideri, valori e modi di interpretare le
relazioni sullo sfondo della realizzazione dei suoi bisogni evolutivi. In una
prospettiva evolutiva i reati minorili possono essere espressione sia della
tendenza trasgressiva degli adolescenti, sia di disturbi del comportamento e
della personalità antisociale, sia di una più grave psicopatologia; è
importante considerare la combinazione di una predisposizione individuale,
basata su specifici tratti di temperamento - come problemi di autostima o
emotività negativa, difficoltà di controllo e insensibilità, e la costruzione di
schemi relazionali o sistemi di aspettative disfunzionali nelle relazioni
interpersonali, spesso caratterizzati soprattutto da una tendenza a
sopravvalutare l’ostilità nelle relazioni interpersonali, sia con persone
familiari sia e soprattutto con estranei, e ad attribuire ad altri la
responsabilità degli eventi più che a se stessi (Dodge, Laird, Lochman, Zelli
2001). Grisso e colleghi (2005) sottolineano come adottare una prospettiva
evolutiva abbia una notevole importanza, perché modifica la
concettualizzazione ma soprattutto le strategie di valutazione dei problemi
negli adolescenti, e ricordano alcuni punti chiave (p. 37): l’identificazione
delle caratteristiche di personalità in adolescenza è resa incredibilmente più
complessa a causa dei normali cambiamenti evolutivi in corso in questo
periodo del ciclo di vita; l’identificazione di queste caratteristiche richiede di
conseguenza metodologie e strumenti che sono state sviluppate
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appositamente per gli adolescenti e/o i bambini, e non per gli adulti; le
informazioni riguardante lo stato psicologico degli adolescenti sono più
variabili nell’immediato rispetto a quanto avviene negli adulti, per cui è
possibile che se si sottopone un minore ad un percorso di assessment, gli
esiti non trovino riscontri a distanza di tempi anche relativamente brevi
come 12 mesi; la maggior parte dei gesti antisociali in adolescenza non è
causata da disturbi psichici, tuttavia questi ultimi possono aumentare il
rischio di comportamenti trasgressivi, aggressivi o propriamente antisociali.;
è necessario riflettere sulla valutazione della gravità delle singole situazioni.
Un adolescente antisociale può essere grave perché i suoi comportamenti
problematici sono allo stato attuale gravi e richiedono un’attenzione
immediata; un altro può essere grave perché i suoi problemi sono pervasivi,
e coinvolgono funzionamenti disadattivi che risultano presenti già in età
infantile e che possono persistere sino all’età adulta.
La valutazione della personalità del minore autore di reato, e quindi un suo
bilancio evolutivo, passa attraverso una valutazione del rapporto con le
figure significative in modo particolare nelle aree dell’attaccamento (capire
se si sente legato a loro e se sente che loro si occupano di lui), del controllo
(capire se gli danno delle regole e se vi sono contrasti nella loro
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
117
applicazione), e della valorizzazione (capire ad esempio se i genitori sono
orgogliosi di lui, se si sente apprezzato da loro). E’ importante valutare il
funzionamento a scuola o sul posto di lavoro e gli interessi o gli hobby
sviluppati a livello personale, nel tentativo di capire se c’è nell’adolescente
un sufficiente senso di efficacia personale, la capacità di avere interessi e di
impegnarsi per raggiungere gli obiettivi che si prefigge. E’ importante
cercare di capire se vi siano problemi infantili di iperattività o opposività, e
un’idea di sé non troppo grandiosa che consenta di avere un rapporto
accettabile con le figure d’aturotià. E’ utile cercare di ricostruire l’immagine
che l’adolescente ha di sé, e l’ingresso in adolescenza con particolare
attenzione alle difficoltà durante la scuola media, che sono molto frequenti
in ragazzi con problemi di questo tipo, di profitto e di relazione, con i
compagni o con gli insegnanti. Spesso si tratta di ragazzi con deficit di
attenzione e carenze cognitive non riconosciute, perché mascherate dai
problemi di comportamento ed è utile vedere se nel passaggio al mondo del
lavoro queste difficoltà relazionali hanno subito un evoluzione positiva o
negativa. Indagare inoltre le modalità di divertirsi e di occupare il tempo
libero, eventuali hobby o interessi abbandonati e non sostituiti, è importante
valutare la presenza di un investimento sul proprio futuro, della percezione
di una propria identità sociale. E’ molto importante inoltre indagare lo stile
delle relazioni con gli amici e soprattutto capire se vi è un’autentica capacità
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di legame anche in situazioni in cui le relazioni familiari sono compromesse,
se c’è isolamento o sovrainvestimento in un gruppo deviante, con relazioni
di dominanza o sottomissione. La capacità di legame può essere indagata
anche attraverso una valutazione delle relazioni con l’altro sesso, al fine di
verificare la possibilità nel minore di instaurare relazioni non manipolatorie e
di integrare sessualità e tenerezza. E’ anche importante avere informazioni
sulle modalità di regolazione degli impulsi e l’eventuale presenza di ansie in
relazione al corpo e all’immagine di sé, sulle abitudini alimentari e sul
sonno. E’ utile porre attenzione sull’umore prevalente, più o meno stabile
per valutare tendenze depressive o euforiche e la capacità di gestione delle
situazioni emotive. Molti adolescenti sottoposti a procedimenti penali hanno
comportamenti a rischio, ed è importante valutare la presenza di una forte
sensation seeking o di comportamenti impulsivi anche se non legati ad
aspetti delinquenziali, o di un’aggressività egosintonica, più o meno reattiva.
Infine, è utile indagare il rapporto tra grandiosità e la capacità di formulare
progetti per il futuro a medio o a lungo periodo.
Una valutazione delle caratteristiche di personalità del minore orientata in
tale prospettiva evolutiva, deve accompagnarsi necessariamente
all’individuazione delle rappresentazioni soggettive degli avvenimenti per i
quali è sottoposto a procedimento penale, per tentare di evidenziare delle
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
119
connessioni tra il comportamento antisociale e il percorso evolutivo di
crescita del singolo minore all’interno del quale è commesso il reato. E’
altresì importante individuare nel gesto antisociale un senso soggettivo, che
spesso è opaco all’adolescente stesso che proprio ai processi di
soggettivazione e di mentalizzazione ha sostituito un acting out
delinquenziale. La valutazione non va quindi intesa in senso nosografico e
classificatorio, ma come strumento in più per ricavare informazioni sulle
modalità di funzionamento psichico dell’adolescenze, in particolare sugli
aspetti che in quel singolo aspetto appaiono più correlati al comportamento
deviante (Riva et al., 2002).
La letteratura empirica mostra a livello unanime una significativa prevalenza
di problematiche psicopatologiche tra i minori coivolti nel circuito penale
(Atkins et al., 1999; Duclos et al., 1998; Randal et al., 1999; Boesky, 2002;
Teplin et al., 2002; Wasserman, McReynolds, Lucas, Fisher, Santos., 2002;
Vermerein, 2003; Kadzin, 2000; Vermeiren, Jesper, Moffit, 2006; Maggiolini
et al., 2008), pertanto è necessario, per i Servizi della Giustizia Minorile,
implementare le proprie procedure di valutazione per non correre il rischio
di sottostimare la relazione esistete tra problematiche psicologiche, utilizzo
di sostanze e comportamento criminale (Moffit et al., 2000). Una recente e
comprensiva review (Grisso, 2004) sottolinea come le problematiche più
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comuni riguardino i disturbi dell’umore e d’ansia, i disturbi legati all’utilizzo
di sostanze psicoattive, i disturbi del comportamento e i disturbi del
pensiero. La prevalenza di questi problemi negli adolescenti sottoposti a
procedimenti penali è stimata tra il 60% e il 70%, circa 2 o 3 volte superiore
alla popolazione generale (Kadzin, 2000, Roberts, Attkinson, Rosenblatt,
1998). I sistemi di giustizia minorile devono di conseguenza essere in grado
di individuare i minori con specifici bisogni collegabili a problemi psicologici
nel momento del loro ingresso (o ritorno) all’interno del sistema stesso
(Grisso, Vincent, Seagrave, 2005). Senza dimenticare che: troppo spesso
nelle analisi presenti in letteratura non vengono incluse metodologie di
rilievo del ritardo mentale e del disturbo da deficit di attenzione e iperattività
(ADHD) sebbene siano significativamente più frequenti tra gli adolescenti
antisociali; i minori che soddisfano i criteri per una o più diagnosi
psichiatriche non necessariamente corrispondono alla proporzione di
giovani nei servizi di giustizia minorile che necessiterebbero di una presa in
carico psicologica e/o psichiatrica (Grisso, 2004); infine che una diagnosi
psichiatrica è solo uno dei modi di descrivere i bisogni psicologici degli
adolescenti sottoposti a procedimenti penali, differente rispetto ad esempio
ad un approccio focalizzato sui sintomi, o ad un approccio dimensionale o
ancora ad un approccio orientato al problema, ma soprattutto è una
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
121
modalità che non riesce a soddisfare le esigenze di una valutazione del
minore effettuata all’interno di un paradigma di psicopatologia evolutiva
(Cicchetti, Cohen, 1995).
Gli strumenti utilizzati per rilevare quantitativamente e qualitativamente tali
aspetti della personalità del minore autore di reato, siano essi condizioni
temporanee o stabili di funzionamento, normali o patologici non nascono
per effettuare una valutazione del rischio o una valutazione penale, e
l’operatore dovrebbe esserne consapevole. Ciononostante, indagare la
presenza di un disturbo psichiatrico o una conclamata psicopatologia, o
ancora di alcuni tratti disfunzionali e pervasivi di personalità può consentire
all’operatore di informazioni utili riguardo al possibile intervento da attuare
(Grisso et al., 2005).
Una proposta per la valutazione delle caratteristiche di personalità: il
sistema ASEBA (Achenbach, 2001). Una serie di strumenti non
specificamente orientati alla valutazione dei minori delinquenti, ma che è
apparso particolarmente versatile per la valutazione dei diversi problemi
degli adolescenti, anche in riferimento ai problemi di comportamento è
l’Achenbach System of Empirically Based Assessment (ASEBA;
Achenbach, 2001). Tra questa classe di strumenti, il questionario
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autosomministrato principalmente utilizzato con gli adolescenti è lo Youth
Self Report (YSR; Achenbach, 2001). Si tratta di un questionario creato per
valutare un ampio spetto di caratteristiche del funzionamento di soggetti tra
gli 11 e i 18 anni. Numerose sottoscale organizzano i risultati del
questionario: dall’analisi di problematiche legate all’internalizzazione (ritiro,
problemi somatici, ansia-depressione) a problematiche miste (problemi
sociali, problemi del pensiero, problemi d’attenzione); a problematiche
legate all’esternalizzazione (comportamento delinquenziale e aggressivo).
Lo YSR è parte di un sistema di valutazione più complesso, l’ASEBA
(Achenbach System of Empirically Based Assessment) che permette una
valutazione sistemica attraverso versioni parallele del questionario
autocompilato dal minore, somministrate ai genitori (Child Behavior
Checklist; CBCL), agli educatori o compilate dal clinico (Teacher Form
Report; TFR). I confronti “cross-informant” vengono effettuati con facilità, e
sia l’accordo che il disaccordo sulle caratteristiche dell’adolescente
forniscono dati interessanti. Di notevole importanza nell’ambito della
valutazione dell’antisocialità in adolescenza è l’introduzione nel sistema
ASEBA di un Modulo di Scoring Multiculturale (2007). Achenbach e
Rescorla (2007) sostengono che per valutare in modo oggettivo adolescenti
di diverse culture d’origine, sia necessario per i clinici dotarsi di strumenti
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
123
validi e attendibili da un punto di vista psicometrico che tengano conto dei
fattori culturali e linguistici del paziente e le tre diverse forme dello
strumento (YSR; CBCL; TFR) hanno mostrano un equivalenza e una
stabilità interna transculturale. In letteratura sono presenti diverse ricerche
nell’ambito della delinquenza minorile in cui sono stati utilizzati gli inventari
del sistema ASEBA: alcune di queste sottolineano le associazioni
significative tra i punteggi allo YSR o alla CBCL e disturbi legati all’utilizzo di
sostanze, disturbi della condotta secondo il DSM e gesti auto lesivi
(Crowley, Mikulich, Ehlers,, Whitmore, MacDonald, 2001; Ruchkin, Schwab-
Stone, Koposov, Vermeiren, King, 2003); altri studi mostrano la capacità
predittiva a lungo termine degli inventari ASEBA rispetto a comportamento
delinquenziale e all’abuso di sostanze (Achenbach et al., 1995, 1998;
Ferdinand, Blum, Berhulst, 2001).
Inoltre, questi studi mostrano una capacità predittiva rispetto a numerosi
problemi che possono risultare di interesse nell’ambito della giustizia
minorile come i comportamenti suicidari, le gravidanze indesiderate, il drop-
out scolastico e l’incapacità di mantenere un’attività lavorativa (Achenbach,
2005). In sintesi, il sistema ASEBA mostra notevoli punti di forza che
favoriscono un suo utilizzo nella valutazione dell’antisocialità in
adolescenza: i questionario sono brevi, comprensibili e disponibili in diverse
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lingue; le modalità di scoring e di interpretazione non sono eccessivamente
complesse; l’utilizzo parallelo delle tre forme di cui si compone l’ASEBA
(YSR; CBCL; TFR) consente un approccio sistemico che garantisce una
descrizione dell’adolescente a “360 gradi” effettuata dal ragazzo in
autonomia e dagli adulti significativi; infine le interpretazioni dei protocolli
risultano valide e sensibili a livello culturale, grazie all’introduzione di norme
di riferimento specifiche per diversi paesi.
La valutazione del rischio di violenza e di recidiv a
Poiché uno degli scopi importanti, anche se non il solo, dell’intervento
penale è di ridurre i rischi di recidiva, è indispensabile chiedersi quali
caratteristiche del minore e del suo contesto di vita consentano la
formulazione di una prognosi più favorevole e su quale sia il rapporto tra
obiettivi psicologici di responsabilizzazione e sviluppo da una parte, e
obiettivi più strettamente comportamentali. Un importante obiettivo
istituzionale è quindi la valutazione del rischio di recidiva, che è la stima
della probabilità che un individuo mantenga in futuro un comportamento
delinquenziale, uno degli elementi centrali ai fini della decisione sul tipo di
intervento penale da adottare. Solo una maggiore capacità di valutazione
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
125
consente di evitare un tipo d’intervento che si limiti a proporre un’unica
risposta, indifferenziata, per tutti gli utenti dei Servizi della giustizia minorile.
In una prospettiva di psicopatologia evolutiva, abbiamo visto, il processo di
valutazione deve necessariamente essere allargato al contesto. Nella
valutazione del rischio di recidiva e dei fattori di rischio del comportamento
delinquenziale, oltre alle caratteristiche del soggetto, quindi, è
indispensabile valutare quelle del contesto di sviluppo, che spesso sono
determinanti nella spiegazione dell’atto delinquenziale.
Gli strumenti di valutazione dei fattori di rischio di recidiva sono
principalmente basati sull’osservazione del comportamento
dell’adolescente, del suo contesto e della storia dei problemi di
comportamento, più che su una valutazione strettamente clinica.
E’ noto che gli adolescenti che tendono a persistere nel commettere reati
sono più probabilmente maschi, con problemi di comportamenti infantile,
con difficoltà scolastiche gravi, meno integrati socialmente e appartengono
a famiglie problematiche e disgregate; è anche noto che di norma hanno
anche altri problemi di comportamento e hanno incominciato prima degli
altri a manifestare tendenze trasgressive; meno significativo è il tipo di reato
commesso per la previsione dell’evoluzione successiva (Rutter, 1988). Le
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ricerche mostrano inoltre che precedenti episodi di violenza e frequenti
episodi di violenza possono essere considerati indicatori relativamente
buoni di una futura violenza (Moffitt, 2003). Anche la Psicopatia può essere
un predittore della violenza (Forth & Burke, 1998; Salekin, Ziegler, Larrea,
Anthony & Bennett, 2003). Review e meta-analisi mostrano con evidenza
che la psicopatia è un importante elemento da prendere in considerazione
per la recidiva sia generale sia violenza negli adulti. La maggior parte dei
modelli di rischio incorporano la psicopatia nelle loro misure ed essa
sembra avere un forte potere predittivo. Sintetizzando, i predittori di rischio
che sono solitamente presi in considerazione nei vari strumenti di
valutazione della recidiva e della pericolosità sociale sono i seguenti:
� Età del primo reato.
� La presenza o il numero di recidive.
� Il tipo e la gravità del reato attuale e delle recidive.
� I precedenti collocamenti istituzionali (carcere, comunità, eccetera).
� L’abuso di alcool o di sostanze stupefacenti.
� La presenza di precedenti o attuali problemi scolastici.
� La frequentazione di pari con precedenti penali.
� I problemi familiari e di controllo educativo.
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
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� La presenza in anamnesi di situazioni traumatiche di carattere
aggressivo o sessuale.
� La presenza e l’esito di precedenti interventi rieducativi.
� Il genere.
Valutare il rischio a breve e a lungo termine del ripetersi di comportamenti
antisociali è un obiettivo importante all’interno dell’assessment degli
adolescenti delinquenti (Hoge, 2002; Grisso et al., 2005).
Normalmente la valutazione del livello di rischio è svolta in modo non
formalizzato, sulla base dell’esperienza degli operatori, anche se sono stati
sviluppati diversi strumenti di valutazione in ambito internazionale, sia negli
Stati Uniti, dove più di tre quarti dei servizi della giustizia minorile utilizzano
procedure di valutazione del rischio standardizzate (Barton, Gorsuch,
1989), sia in Europa.
Sicuramente un approccio intuitivo nei confronti del rischio di recidiva e
della prognosi di un minore sottoposto a procedimenti penali può essere
d’aiuto, ma non sempre è accurato e attendibile. In realtà molte limitazioni
sono presenti anche in approcci esclusivamente basati su predizioni
statistiche. Se ad esempio in un particolare gruppo di soggetti, ad esempio
minori in ingresso in CPA, si riesca a stimare una percentuale di recidiva
pari al 30%, può voler dire che ogni adolescente ha un tale livello di rischio,
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oppure che 3 minori su 10 hanno una probabilità di recidiva pari al 100%,
cioè certa, e gli altri 7 hanno una probabilità pari a 0%, cioè nulla. Questo
esempio è sicuramente estremo, ma rende bene l’idea di come sia
necessario individuare un livello di rischio soggettivo. L’obiettivo della
valutazione del rischio di recidiva è quindi quello di stimare il livello di
rischio di un particolare minore sulla base della sua unicità e del suo
percorso evolutivo.
Per ovviare alla non sistematicità delle metodologie di indagine utilizzate a
riguardo sottolineata in letteratura (Baird, 1984; Towerman, 1992; Wiebush
et al., 1995), negli ultimi anni sono stati creati strumenti standardizzati per la
valutazione del rischio di recidiva e di violenza (Champion, 1994; Hoge,
1999, 2001; Hoge, Andrews, 1996; Wiebush et al., 1995); anche per
rispondere alle evidenze di ricerca secondo cui “per trovare l’adulto
antisociale di domani, è necessario cercare il bambino antisociale di oggi”
(Lynam, 1996; p.210) e che hanno mostrato come una piccola parte dei
minori che presentano precoci comportamenti delinquenziali diventino
antisociali cronici in adolescenza e nell’età adulta, commettendo il 50%
circa dei crimini (Farrington, 1995; Loebert, Farrington, Stouthamer-Loeber,
1998; Moffit, 1993).
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
129
Obiettivo di questi strumenti è individuare gli adolescenti a rischio allo
scopo di prevenire la cronicizzazione dei comportamenti violenti e
antisociali e quindi di ridurne il rischio di recidiva (Grisso et al., 2005).
L’approccio attuariale è stato per lungo tempo il gold standard
nell’assessment del rischio (Bonta, 1996; Hoge, 2002; Andrews, Bonta,
1998; Welsh et al., 2008; Wong et al., 2007; Andrews, Bonta, Wormith,
2006), producendo nel corso degli anni strumenti sempre più evoluti, vere e
proprie “generazioni” di strumenti (Bonta, 1996). Gli strumenti di prima
generazione si basavano per lo più su giudizi clinici scarsamente strutturati,
e nonostante numerosi riscontri positivi (Boothby, Clements, 2000), la loro
validità predittiva era al più marginale (Andrews, Bonta, Wormith, 2006). Gli
strumenti di seconda generazione hanno adottato un approccio più
empirico, analizzando tuttavia solamente fattori di rischio statici (Kraemer et
al., 1997) e dimostrando notevoli limitazioni tra cui la mancanza di un
paradigma teorico sottostante la creazione degli strumenti stessi,
l’impossibilità di valutare il cambiamento e la mancanza di indicazioni su
che intervento attuare. Gli strumenti di terza generazione hanno cercato di
porre rimedio a queste limitazioni introducendo variabili dinamiche e
soggette al cambiamento, e proponendo strumenti costruiti sulla base di
modelli teorici validati e per lo più provenienti dal paradigma della social
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learning theory. Hanno quindi consentito di risolvere il limite imposto dalla
non rilevazione dei fattori di rischio dinamici ma sono stati criticati per una
scarsa sensibilità di genere e una predominanza di attenzione sulla
valutazione del rischio che ha inevitabilmente portato a tralasciare i punti di
forza e i fattori protettivi degli adolescenti. Più di recente, le critiche poste
agli strumenti di terza generazione e il tentativo di superare la diatriba tra
approccio attuariale e approccio clinico alla valutazione del rischio di
recidiva e violenza, ha portato alla creazione di strumenti di quarta
generazione (Wong et al., 2006; Andrews, Bonta, Wormith, 2006; Brennan
et al., 2009) per superare i limiti intrinseci ad entrambi gli approcci,
originandone un terzo definito “structured professional judgment” (Grisso et
al., 2005; p. 267). Questo approccio innovativo tenta di migliorare il giudizio
clinico fornendo una maggiore struttura e standardizzazione al processo
decisionale, migliorando contemporaneamente le decisioni attuariali
attraverso la rilevanza delle interpretazioni cliniche (Borum, 1996; Douglas,
2003).
Una proposta per la valutazione della recidiva e della pericolosità sociale: la
Psychopaty Check List – Youth Version (PCL:YV; Forth, Kosson, Hare,
2003). La psicopatia è un grave disturbo della personalità caratterizzato da
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
131
una costellazione di caratteristiche affettive (Blair, Coles, 2000), relazionali
e comportamentali Blonigen, Hicks, Grueger, Patrick, Gacono, 2006) alla
cui base sembra esserci una totale mancanza di capacità di provare senso
di colpa e una insensibile indifferenza nei confronti dei sentimenti, dei diritti
e del benessere degli altri (Cleckley, 1976; Hare, 1991). Nonostante la
maggior parte delle ricerche sulla psicopatia si siano concentrate sugli
adulti, l’interesse per la componente evolutiva di questo disturbo ha portato
ad evidenziare sia negli adolescenti (Forth, Mailloux,2000) sia ancor prima
nei bambini (Frick, Berry, Bodin, 2000; Cruise, 2000; Forth, Burke, 1998)
caratteristiche simili, e molti clinici e ricercatori concordano sulla precoce
manifestazione dei tratti psicopatici. Secondo Hare (1991) sebbene non tutti
gli adolescenti antisociali siano caratterizzati da questo tipo di personalità, è
importante differenziare gli adolescenti psicopatici dagli adolescenti
aggressivi perché un elevato livello di psicopatia è correlato con una
maggiore quantità di reati gravi ma è anche in relazione con maggiori
difficoltà di trattamento. La PCL:YV nasce come adattamento per
adolescenti della Psychopathy Checklist Revised (PCL-R; Hare, 2003)
considerata lo strumento di rilevazione della psicopatia in età adulta più
attendibile e valido (Fulero, 1995). Si tratta di una rating scale
somministrabile ad adolescenti di età compresa tra i 12 i 18 anni e consiste
in 20 item siglati dal clinico su una scala a 3 punti (2 = “item assolutamente
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rappresentativo”; 1 = “item parzialmente rappresentativo”; 0 = “item non si
applica in nessun modo”) sulla base sia di quanto riportato dall’adolescente
sia da quanto appreso da numerose altre fonti di informazione necessarie al
completamento della scala.
Gli studi che hanno indagato la struttura fattoriale della PCL:YV (Forth,
1995) hanno replicato la stessa struttura a due fattori riscontrata nei
campioni adulti (Hare, 1991): un primo fattore legato al nacrisismo
aggressivo, caratterizzato da egocentrismo, insensibilità e mancanza di
rimorso e un secondo fattore legato allo stile di vita antisociale,
irresponsabile, non convenzionale e impulsivo, spesso correlato con il
comportamento criminale. I 20 item della PCL:YV forniscono un punteggio
totale che varia da 0 a 40 e in letteratura sono presenti numerose prove a
sostegno dell’utilizzo di una suddivisione in tre livelli di gravità: “alto” (>30),
“medio” (18-29), “basso” (<18). Gretton e colleghi (2001) hanno rilevato che
in un gruppo di adolescenti sex offender, quelli con punteggi nella PCL:YV
superiori a 30 riportavano maggiori percentuali di fughe, fallimenti di misure
alternative alla detenzione e probabilità di recidiva; Catchpole e Gretton
(2003) sottolineano che gli adolescenti con punteggi superiori al cut off ad
un anno di distanza commettevano recidive più frequentemente ed in
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
133
generale numerosi studi rilevano maggiori tassi di recidiva in adolescenti
con alti livelli di psicopatia (Gretton, Hare, Catchpole, 2004; Vincent,
Vitacco, Grisso, Corrado, 2003; Corrado, Vincent, Hart, Cohen, 2004;
Rowe, 2002), sebbene la PCL:YV sia risultata meno utile con campioni di
sesso femminile o molto eterogenei dal punti di vista culturale (Welsh et al.,
2008). E’ inoltre disponibile una scala autosomministrata, la Self-report
Psychopaty Scale (SPR-II; Hare, 1991) composta da 60 item siglati su una
scala a 7 punti da 1 = forte disaccordo a 7 = forte accordo e di cui
recentemente Benning e colleghi (2003) hanno ridotto il numero di item
(passato a 23) e indagato la struttura fattoriale ottenendo risultati concordi
al tradizionale modello a due fattori della psicopatia. Salekin (2008)
sottolinea come l’utilizzo congiunto della PCL:YV e della SRP-modified
possa rappresentare una batteria utile nel discriminare gli adolescenti
psicopatici a rischio di recidive violente. In sintesi i tentativi di applicare il
concetto di psicopatia all’età evolutiva e di rilevarla in fase di assessment
sono stati controversi (Hart, Watt, Vincent, 2002; Seagrave, Grisso, 2002;
Skeem, Petrila, 2004): i clinici infatti spesso sono reclutanti ad applicare la
PCL:YV perché le riflessioni sulla psicopatia potrebbero essere interpretate
come in opposizione ai modelli di psicopatologia evolutiva maggiormente
validati nel panorama scientifico internazionale; tuttavia le ricerche hanno
mostrato che la psicopatia infantile ha una prevalenza (Cruise, 2000; Forth,
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Burke, 1998), un funzionamento (Schrum, Salekin, 2006; Vincent, 2002) e
una struttura fattoriale simile a quella adulta, sono presenti infine studi che
suggeriscono una componente genetica per la psicopatia nei evidenziabile
già nei bambini di 7 anni (Viding, Blair, Moffitt, Plomin, 2004) e infine come
Decoene e Bjttebier (2008) fanno notare, rilevare aspetti patologici di
grandiosità, mancanza di empatia o egocentrismo non significa negare la
possibilità di diversi pathway evolutivi di cui solamente uno tra molti ha
effettivamente esito nello strutturarsi di un disturbo psicopatico.
La valutazione dell’immaturità
L’intendere è la capacità di comprendere il significato delle proprie azioni in
relazione ai possibili effetti sugli altri; il volere è la capacità di
autodeterminarsi nelle proprie azioni, in relazione a scopi consapevoli.
Normalmente si considera che per i minori sia proprio l’accertamento della
maturità a predominare su quello della conclamata psicopatologia (Fornari,
2004) proprio a causa della difficoltà di rilevare disturbi di personalità e/o
costellazioni sintomatiche in una fase di vita in cui la personalità è ancora in
evoluzione.
Le concezioni della capacità di intendere e di valore e dell’imputabilità nei
minori risentono non solo dei cambiamenti storici dei rapporti tra psichiatria
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
135
e legge, ma anche di differenze geografiche (Ceretti, Merzagora-Betson,
1994). In passato l’infermità mentale era limitata alle condizioni patologiche
classificate tra i disturbi di Asse I del DSM-IV-TR (APA, 2000), tuttavia una
sentenza della cassazione del 2005 ha riconosciuto che anche i disturbi di
personalità possono essere rilevanti ai fini della non imputabilità.
Ciononostante la capacità di stare in giudizio (CST: Competence to Stand
Trial) rimane un ambito di massima variabilità per quanto riguarda le
metodologie e gli strumenti d’indagine (Borum, Grisso, 1995).
Recentemente l’interesse si è concentrato maggiormente sulle capacità di
stare in giudizio dei minori imputati di reato (JCST: Juvenile Competence to
Stand Trial), poiché è nei Servizi della Giustizia minorile che la questione
riguardante la JCST diventa di assoluta rilevanza, e alcuni autori hanno
iniziato a sistematizzare le metodologie utilizzate in alcune linee guida
riguardanti le procedure di valutazione, le aree di interesse e le modalità di
conduzione di una valutazione della JCST (Barnum, 2000; Grisso, 1998).
Nel valutare la JCST è indispensabile valutare primariamente il livello
evolutivo del minore e sebbene sia indispensabile considerare eventuali
psicopatologie, ritardi cognitivi o di sviluppo psicosociale (Grisso, 1998) non
ci si può limitare ad indagare questi aspetti; piuttosto è necessario prendere
in considerazione aspetti quali il livello di maturità, lo sviluppo morale, lo
sviluppo emotivo, le capacità motorie e linguistiche e i disturbi psichici e
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comportamentali ad esordio infantile (Barnum, 2000; Bonnie, Grisso, 2000;
Grisso, 1998; Oberlander, Goldstein, & Ho, 2001; Ryba, Cooper, Zapf,
2003).
Negli adolescenti è oltremodo difficile stabilire se un’incapacità sia
l’espressione di una normale immaturità compatibile con i ritardi tipici dello
sviluppo, o se sia l’esito di un disturbo psicopatologico, di un disturbo di
personalità, di un ritardo mentale di natura organica o di una grave
immaturità evolutiva. L’adolescente è “normalmente immaturo” (Faraglia,
Maggiolini, 2008) per diversi aspetti che influenzano la sua capacità di vere
un comportamento responsabile, per la ridotta capacità di prendere
decisioni tenendo conto delle conseguenze delle sue azioni, per la
maggiore dipendenza relazionale, che lo rende suscettibile di
condizionamenti esterni, e per una ancora incompleta formazione della
personalità (Steinberg, Scott, 2003).
Le più recenti ricerche di psicologia e neuropsicologia dello sviluppo sui
comportamenti antisociali (Paus, 2005; Raine, Lee, Yang, Coletti, 2010)
sottolineano la normale immaturità dell’adolescente e stanno influenzando
gli orientamenti della giustizia minorile (Bruber, Yurgelun-Todd. 2006). Ad
esempio negli Stati Uniti l’American Psychiatric Association, l’American
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
137
Academy of Child and Adolescent Psychiatry e l’American Society of
Adolescent Psychiatry hanno chiesto l’abolizione della pena di morte per gli
autori di reato minori di 18 anni, richiesta motivata proprio dal
riconoscimento empirico della normale immaturità dell’adolescente
(Miraglia, 2005).
Se quindi un adolescente in quanto tale ha diritto ad una valutazione dei
suoi comportamenti che tenga conto della sua immaturità evolutiva e a
risposte sanzionatorie mitigate, restano le difficoltà di indagare
sull’immaturità patologica, che può determinare un’incapacità di intendere e
di volere. Gli studi neuropsicologici sottolineano infatti l’immaturità del
cervello dell’adolescente tale per cui “è una specie di ingiustizia aspettarsi
che l’adolescente abbia lo stesso livello di organizzazione e decisione di un
adulto quando il suo cervello non ha ancora terminato di crescere” (Giedd,
2004). La capacità di intendere e di volere inoltre è influenzata dal livello di
dipendenza dell’adolescente dalla propria famiglia prima e dal gruppo dei
pari poi, che possono favorire sia l’assunzione che la diffusione della
responsabilità. Infine, le capacità cognitive del minore “a freddo” vanno
distinte da quelle “a caldo” dal momento che l’adolescente è
particolarmente sensibile al contesto in cui prende decisioni per quanto
riguarda i comportamenti a rischio e l’anticipazione delle conseguenze
delle proprie azioni.
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Nel sistema penale minorile italiano, il giudice è invitato a determinare la
capacità di intendere e di volere in relazione a “lo sviluppo intellettivo e la
forza di carattere, la capacità di intendere certi valori etici, l’attitudine a
distinguere il bene dal male, il lecito dall’illecito, nonché a determinarsi nella
scelta dell’uno o dell’altro” tenendo conto “di una molteplicità di fattori
correlati agli aspetti psicologici e fisici dell’evoluzione del minore, alle sue
condizioni socio ambientali e familiari, al grado di istruzione e di
educazione, alla natura dei reati commessi, al comportamento
processuale”(Larizza, 2005).
Nella pratica dei tribunali per i minorenni le sentenze che giudicano i minori
incapaci di intendere e volere sono particolarmente ridotti, un dato che può
essere interpretato sia come indice di una difficoltà dell’accertamento sia
come riconoscimento dell’immaturità come tratto evolutivo. Anche per i
minori infatti la valutazione dell’incapacità di intendere e volere è giustificata
più spesso in relazione alla psicopatologia che all’immaturità. Nei dati dei
Ministero della Giustizia (2006) le decisioni di non imputabilità per
immaturità soono inferiri rispetto ad altre formule di proscioglimento, come il
perdono giudiziale. La percentuale di assoluzione per immaturità diminuisce
lungo il corso del procedimento passando dal 3.6% presso il GIP all’1.2%
in udienza preliminare fino allo 0.2% in dibattimento.
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
139
E’ quindi importante che la valutazione dei minori sottoposti a procedimenti
penali si ponga il quesito di quanto sia possibile una definizione, e quindi
una valutazione, empirica dell’immaturità. E’ difficile infatti indicare in modo
empirico i criteri che distuguano l’immaturità fisiologica da quella patologica.
La maturità è infatti un sistema complesso composto da una maturità
biologica, che può subire scostamenti dalla norma nello sviluppo fisico;
intellettiva, come livello cognitivo; affettiva, come capacità di controllo degli
impulsi e di gestione delle emozioni; sociale, come capacità di adattamento
e di convivenza sociale (Ceretti, 2002). Sarebbe quindi utile poter disporre
di una definizione operativa delle competenze che un adolescente deve
avere per essere giudicato maturo e responsabile, in quanto in grado di
considerare le alternative possibili alle proprie azioni e le loro ipotetiche
conseguenze sulla base dei propri ideali e tenendo conto dei valori etici
socialmente condivisi dalla legge.
Ewing (1990) afferma che la maturità è una delle informazioni più importanti
da riportare all’interno di una valutazione in ambito penale, soprattutto in
caso di minori. Per quanto riguarda il livello cognitivo, Ewing consiglia la
somministrazione di un test di livello (WISC-III, Wechsler, 1991). Tuttavia
anche la maturità emotiva è un’informazione da non tralasciare può essere
valutata in modo ottimale attraverso alcune misure self-report come lo
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Youth Self Report (YSR), il Thematic Apperception Test (TAT) o il
Rorschach. Se questi strumenti possono essere utilizzati, oltre che per la
pianificazione di un progetto terapeutico individualizzato all’interno dei
Servizi, anche in sede di giudizio penale in modo da consentire al giudice di
prendere decisioni che tengano conto per quanto possibile della situazione
soggettiva del minore (Maggiolini, Grassi, 2002), recentemente è emersa la
necessità di elaborare strumenti standardizzati che andassero oltre la
valutazione di caratteristiche di personalità e/o di psicopatologia riuscendo
ad esaminare la maturità da un punto di vista giuridico – legale.
Per una valutazione completa della maturità dovrebbero quindi essere
prese in considerazione l’autonomia (quindi il locus of control interno o
esterno, lo sviluppo del concetto di sé, la considerazione di sé e le capacità
riflessive), le capacità cognitive (non limitate all’indicazione del QI bensì
relative alla consapevolezza del reato, alla comprensione delle norme
comportamentali, alla capacità di identificare azioni alternative e di prendere
decisioni sulla base dell’anticipazione di eventuali conseguenze) e infine la
maturità emotiva, intesa come capacità di rinviare la gratificazione, di auto-
regolazione delle emozioni, di instaurare legami interpersonali positivi e di
mostrare un adeguato sviluppo morale.
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
141
Una proposta per la valutazione dell’immaturità: il Risk Sophistication
Treatment – Inventory (RST-I; Salekin, 2004). Il RST-I nasce come
strumento in grado di colmare il gap tra le caratteristiche di personalità e di
psicopatologia rilevabili attraverso un assessment clinic e le informazioni
rilevanti in ambito forense e giudiziario. E’ stato costruito con lo specifico
intento di aiutare i clinici e gli operatori dei Servizi della Giustizia minorile
nella valutazione degli adolescenti antisociali (Salekin, 2004), fornendo
informazioni sul livello di pericolosità dell’adolescente, il suo livello di
maturità e il grado in cui il minore è aperto al cambiamento e trattabile dal
punto di vista psicosociale. Dal punto di vista strutturale, il RST-I è
composto daun’intervista semistrutturata somministrabile in circa 60-90
minuti a soggetti di età comprese tra i 9 e i 18 anni e da una Rating Scale
compilata dal clinico sulla base di quanto emerso dall’intervista oppure sulla
base di precedenti colloqui clinici. Lo strumento consente di valutare gli
adolescenti che entrano nel sistema penale minorile per quanto riguarda tre
cluster indispensabili in questo ambito ma spesso tralasciati dagli strumenti
di valutazione clinica nati in altri ambiti e adattati a quello forense: 1) Cluster
R – pericolosità sociale (Risk for Dangerousness), 2) Cluster S - maturità
(Sophistication – Maturity) e 3) Cluster T – disponibilità al trattamento
(Treatment Amenability). Ognuno di questi tre cluster è a sua volta
suddiviso in tre sottoscale che contano 15 item ciascuna. Gli item sono
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siglati su una scala a 3 punti (0 = assenza della caratteristica / abilità; 1 =
livello moderato / subclinico; 2 = presenza della caratteristica / abilità).
Il Cluster R raccoglie la necessità dei Servizi di sapere se, e quanto, un
dato ragazzo può risultare pericoloso per la comunità (Edwing, Grisso,
1998) esaminando la storia del comportamento violento dell’adolescente sia
in frequenza, sia per quanto riguarda la gravità e il significato criminale dei
gesti commessi. E’ suddiviso in 3 sottoscale: R1 – Tendenze aggressive e
violente (R-VAT); R2 – Criminalità pianificata ed intensa (R-PEX); R3 –
Caratteristiche psicopatiche (R-PPF). Il Cluster S valuta il concetto di
maturità, una delle informazioni più importanti per il clinico forense (Edwing,
1990) in relazione ad alcuni concetti chiave quali l’autonomia, la
comprensione delle norme comportamentali e l’abilità di identificare azioni
alternative a quelle compiute. E’ suddiviso in 3 sottoscale: S1 – Autonomia
(S-AUT); S2 – Capacità cognitive (S-COG); S3 – Maturità emozionale (S-
EMO). Infine, il Cluster T, valuta la predisposizione a breve termine
dell’adolescente a lasciarsi aiutare e ad impegnarsi in un progetto condiviso
con i Servizi sulla base delle proprie caratteristiche di personalità. E’
suddiviso in 3 sottoscale: T1 – Psicopatologia, tipo e gravità (T-PAT); T2 –
Responsabilità e motivazione al cambiamento (T-RES); T3 –
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
143
Considerazione e tolleranza nei confronti degli altri (T-CAT). Una peculiarità
distintiva del RST-I è la possibilità di distinguere, all’interno del Cluster S,
tra tre diversi utilizzi delle capacità e delle risorse intellettive (Stenberg,
2000): pro-sociale, a-sociale e anti-sociale. Il RST-I fornisce una
classificazione del rischio per ogni cluster e per ogni sottoscala suddiviso in
tre livelli, “High – Middle – Low”, sulla base di un confronto con un
campione normativo costituito esclusivamente adolescenti delinquenti,
valutati in seguito al loro ingresso nel circuito penale. Le ricerche condotte
(Leistico, Salekin, 2003; Salekin, 2000; Zalot, 2002a, 2002b) mostrano
correlazioni significative tra il Cluster R e il disturbo della condotta e tratti
psicopatici, tra il Cluster S e i risultati ottenuti in test di misurazione delle
capacità cognitive e confermano la validità di criterio del Cluster T e in
generale la capacità predittiva dello strumento rispetto alla recidiva fino a 3
anni di distanza dal momento della valutazione (Salekin, 2004).
La valutazione della disponibilità all’intervento
Il processo e le risposte dei Servizi della Giustizia minorile italiana, emanate
con il D.P.R. 448/88 si pongono come interventi connotati da una forte
componente educativa. Ciò significa che la vicenda penale non deve
“chiudere”, ma al contrario “aprire” delle porte, favorire la presa di coscienza
e la consapevolezza, offrire delle opportunità, indicare percorsi di crescita e
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maturazione, allontanare il pericolo di un ulteriore coinvolgimento del
minore nel circuito dell’antisocialità (Losana, 2008).
L’intervento sugli adolescenti con comportamenti antisociali e che
commettono reati si realizza in genere attraverso un controllo del loro
comportamento all’interno del sistema della Giustizia, civile o penale. Il
sistema penale interviene attraverso la limitazione del comportamento con
la detenzione o il collocamento in comunità oppure mettendo in atto misure
come la permanenza a casa o prescrizioni comportamentali alternative. In
quest’ottica l’intervento ha scopo evolutivo, rieducativo e ripartivo nei
confronti sia del singolo minore, che nei confronti della società, ed
inevitabilmente costituisce una forma di trattamento. Attraverso il lavoro
psicosociale, che trova applicazione non solo nella detenzione, ma
soprattutto con misure alternative, si realizzano diversi tipi d’interventi, che
implicano un trattamento del minore e del suo contesto di vita, attraverso
una presa in carico e l’offerta di un supporto psicologico, sociale o
educativo.
La complessità dell’intervento rende difficile una valutazione dei risultati.
L’efficacia dell’intervento penale è spesso misurata in base al criterio della
riduzione delle recidive, un punto di vista necessario, ma insufficiente,
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
145
perché evidentemente gli adolescenti possono ben smettere di commettere
reati, pur restando antisociali o sviluppando un comportamento asociale,
più che antisociale, con marginalità, uso di sostanze, ecc.
In parte, la scarsa attenzione alla verifica dell’intervento è anche dovuta al
diffuso pessimismo sui risultati che caratterizza sia l’intervento penale, sia la
psicoterapia dei disturbi antisociali.
Fino agli anni ‘70/80, infatti, vi era un diffuso pessimismo sull’efficacia del
trattamento della delinquenza minorile, a partire da una verifica dei risultati
dei diversi tipi di trattamento. A seguito di un’approfondita analisi della
letteratura sugli interventi con i delinquenti Martinson negli anni ’70 arrivava
a questa sintetica conclusione: “I migliori interventi educativi o la migliore
psicoterapia non possono aver ragione e nemmeno ridurre in modo
apprezzabile la potente tendenza dei delinquenti di continuare nel loro
comportamento delinquenziale” (1974, p. 49).
Questo pessimismo si è ora ridotto, sia a seguito dei risultati più
incoraggianti delle nuove analisi dei dati sugli esiti dei diversi tipi di
trattamento, che sono sempre più complete e sofisticate, sia come
conseguenza di un miglioramento progressivo delle forme d’intervento (Mc
Guire, 1995).
Anche se si riconosce che il comportamento antisociale è persistente, oggi
si tende sempre più a ritenere che sia comunque modificabile. La sua
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trasformazione, d’altra parte, avviene spesso spontaneamente, poiché
anche nei casi più difficili la metà dei ragazzi che commettono reati non
persiste nel comportamento antisociale. Poiché nel determinare questo
cambiamento è spesso importante il contesto, sia familiare sia sociale, in
cui il comportamento è inserito, ci si può legittimamente chiedere in che
modo anche l’intervento istituzionale del sistema penale possa costituire un
fattore protettivo e non di rischio per l’evoluzione successiva (come spesso
è stato rilevato, attraverso il riconoscimento degli effetti iatrogeni della
detenzione e in generale del trattamento penale).
Un’analisi degli studi pubblicati, in lingua inglese, su riviste internazionali,
raccogliendo e mettendo a confronto i più diversi tipi di trattamento della
delinquenza minorile, purché realizzati su basi scientificamente attendibili, è
arrivata a stimare che l’effetto del trattamento è in media collocabile intorno
al 10% (Mc Guire, 1995). Questo risultato indica che un intervento sulla
delinquenza minorile, confrontato con un non intervento, riduce del 10% le
probabilità di recidiva. Un cambiamento del 10%, pur positivo, può apparire
particolarmente scoraggiante, in quanto troppo ridotto, anche se è
confrontabile con molti interventi in altri campi che non vanno oltre questi
risultati, come le terapie per alcune gravi malattie, che pure beneficiano di
molte risorse di intervento.
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
147
Per quanto riguarda le diverse forme di intervento, le conclusioni alle quali
portano le meta-analisi tendono ad indicare che i risultati degli interventi
classici di psicoterapia non sono incoraggianti, così come quelli degli
interventi farmacologici, se sono effettuati in assenza di un’associazione
con paralleli interventi psicosociali. Il counseling psicologico
complessivamente ha effetti trascurabili, anche se in trattamenti
psicologicamente appropriati si ha una riduzione fino al 50% delle recidive,
confrontate con i gruppi di controllo. D’altra parte, è accertato che gli
interventi a carattere punitivo dimostrano d’avere un effetto sostanzialmente
negativo, perché peggiorano le percentuali di recidivismo. In realtà,
scorporando l’analisi dei risultati si può vedere che la scarsa efficacia degli
interventi sulla delinquenza minorile è, in gran parte, dovuta proprio agli
effetti negativi della detenzione. Bisogna comunque ricordare che,
ovviamente, negli studi sui trattamenti carcerari e comunitari i delinquenti
hanno in genere disturbi antisociali più gravi e che queste metaanalisi
spesso non distinguono bene le caratteristiche dei minori all’inizio
dell’intervento (Mc Guire, 1995).
Le ricerche meta-analitiche tendono complessivamente a dimostrare che i
programmi d’intervento più efficaci sono multimodali (progetti che agiscono
su diversi contesti e con diverse strategie), soprattutto orientati a sostenere
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l’acquisizione d’abilità cognitive e comportamentali. Bisogna tener presente
che almeno in parte, comunque, questi risultati, come quelli d’altri interventi
psicoterapeutici, risentono inevitabilmente del fatto che alcuni orientamenti,
come quello psicoanalitico, risentono di un minor investimento in progetti di
ricerca sull’efficacia e si ritrovano, quindi, oggettivamente penalizzati dal
confronto con modelli cognitivi e comportamentali (Roth, Fonagy, 1996).
Anche da un punto di vista teorico si sostiene che per i disturbi di
comportamento è particolarmente indicato un intervento psicologico e
educativo che sia orientato non solo al miglioramento sintomatico, ma a
supportare le competenze e la capacità di instaurare relazioni stabili e
significative (Paris, 1996). Anche altri autori sostengono che per i disturbi
antisociali, l’offerta di colloqui psicologici è utile se abbinata ad interventi
socioeducativi, mentre l’intervento penale isolato tende ad avere effetto
iatrogeno; più efficace è un intervento che combini insight e trattamento del
comportamento, e in cui il lavoro psicologico svolga la funzione di
comprensione del significato dei reati, in stretta integrazione con l’intervento
socioeducativo (Masters, 1994). Anche da un punto di vista psicoanalitico si
ritiene che la terapia indicata per pazienti caratterizzati da bassa forza
dell’Io, come gli adolescenti antisociali, non sia né quella puramente
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
149
supportiva né la psicoanalisi classica, ma piuttosto la combinazione di un
approccio espressivo e di un intervento istituzionale (Kernberg, Clarkin,
1994).
Spesso nelle ricerche effettuate non si tiene sufficientemente conto delle
caratteristiche differenziali dei delinquenti, al di là del genere, dell’età, del
tipo di reato, dell’alto o basso rischio, caratteristiche che spiegano solo una
minima parte dell’entità dell’effetto, che è più a carico del metodo, del tipo di
trattamento e soprattutto delle caratteristiche di personalità del minore. E’
per questo motivo che per raggiungere risultati più attendibili bisognerebbe
considerare meglio le caratteristiche evolutive del comportamento, lo stile di
vita, la situazione del reato, i sentimenti e i pensieri correlati, le
caratteristiche dell’ambiente, ecc.
In genere, un intervento istituzionale standard nei servizi della giustizia
minorile non evita che due terzi dei minori presi in carico possano
commettere altri reati. E’ considerato ottimo un intervento che arrivi invece a
ridurre le recidiva limitandole ad un terzo dei minori presi in carico.
L’obiettivo nei Servizi della giustizia minorile è di adottare una logica che,
pensando all’intervento come ad un trattamento, arrivi a verificare l’efficacia
dell’intervento stesso, sia in termini di recidiva, sia per quanto riguarda
l’evoluzione degli adolescenti presi in carico anche da un punto di vista
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psicosociale. In questa prospettiva è fondamentale una raccolta e analisi di
dati che consenta di differenziare le caratteristiche dei minori sottoposti a
procedimenti penali, in modo da poter proporre un intervento che sia
effettivamente commisurato alle loro caratteristiche e per questo efficace,
riducendo la probabilità che l’intervento sia effettuato sulla base delle
esigenze istituzioanli, più che su quelle del minore. L’attuale codice di
procedura penale minorile, in realtà consente questa flessibilità, poiché
considera l’autore di reato un soggetto in età evolutiva ed è quindi orientato
a sostenerlo nello sviluppo, rimuovendo le cause che possono impedirgli
l’assunzione di un’identità sociale.
La maggior parte degli interventi rivolti ai minori che commettono reati
avviene al di fuori del carcere, in regime di libertà, con misure alternative
alla detenzione, che sono gestite dall’USSM o dai Servizi territoriali. Tra
questi, la messa alla prova è il più importante strumento previsto dal Codice
di procedura penale minorile italiano (Scardaccione, Merlini, 1996). La
messa alla prova è centrata sull’idea di “responsabilizzazione”
dell’adolescente che commette reati, in una prospettiva in base alla quale la
responsabilità non è più la condizione necessaria alla pena, ma un punto
d’arrivo del percorso penale (De Leo, 1998). Questa finalità generale si
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
151
traduce in obiettivi più specifici: l’impegno ad astenersi dal commettere
ulteriori reati; l’accettazione della dimensione dell’impegno nella scuola o
nel lavoro; la disponibilità ad attività di tempo libero organizzate; l’apertura
alla dimensione di solidarietà sociale, in attività socialmente utili e alla
riconciliazione con la vittima; l’accettazione come interlocutore di un’autorità
extrafamiliare con funzione di aiuto e di controllo per la realizzazione del
programma concordato e così via.
Nel corso della fase di osservazione e valutazione del minore autore di
reato è quindi importante capire le capacità di assunzione di responsabilità,
intese come ammissione del reato, riconoscimento del suo senso e della
sua gravità, capacità di formulare un progetto, disponibilità ad impegnar
visi, soprattutto in funzione della formulazione di un progetto condiviso, che
possa essere presentato e discusso di fronte ai giudici. Per una
formulazione il più possibile soggettiva ed una possibile evoluzione positiva
del progetto di messa alla prova è quindi importante la valutazione del
minore, nella fase iniziale dell’intervento dei servizi. Data la centralità del
processo di assunzione di responsabilità dell’adolescente sottoposto alla
messa alla prova è di fondamentale importanza chiedersi in che modo sia
possibile valutarne la presenza come presupposto necessario per
l’intervento.
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Presupposto soggettivo della messa alla prova non è esclusivamente
l’ammissione del reato, dal momento che è importante distinguere il fatto
dalla sua simbolizzazione o valutazione soggettiva. Più importante è quindi
l’assunzione di responsabilità in rapporto ai fatti per i quali il minore
potrebbe essere giudicato unita alla sua dichiarazione di impegno nel
progetto concordato. La valutazione della motivazione non si limita, quindi,
ad un accertamento della sincerità, ma piuttosto alla valutazione della
capacità di riconoscere il senso della relazione con un interlocutore
(l’operatore dei servizi e il magistrato) e di assumere un impegno.
La formulazione di un intervento proposto all’autorità giudiziaria avviene
sulla base della conoscenza del minore e del suo contesto e della
costruzione di una relazione con gli operatori che possa costituire il terreno
di un successivo lavoro comune. Pertanto, la valutazione della disponibilità
del minore ad impegnarsi in tale progetto può essere vista come la sintesi
del percorso di conoscenza e di osservazione effettuato all’interno dei
Servizi; in essa rientrano per forza di cose quanto emerso dall’osservazione
delle caratteristiche di personalità del minore, dal momento che un
intervento efficace si basa sulla rilevazione dei bisogni evolutivi soggettivi e
sulla possibilità di risimbolizzare il gesto deviante; rientrano le valutazioni
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
153
effettuate sul rischio di recidiva e di violenza, dal momento che uno dei
presupposti ad esempio della messa alla prova è l’astensione da ulteriori
reati; rientrano le osservazioni sul livello di maturità del minore, dato che è
richiesta un assunzione soggettiva di responsabilità e di impegno nei
confronti del progetto stesso.
Come per la valutazione della maturità, è quindi importante che la
valutazione dei minori sottoposti a procedimenti penali si ponga il quesito di
quanto e come sia possibile valutare in modo condiviso e oggettivo, la
disponibilità al trattamento degli adolescenti antisociali. E’ difficile infatti
indicare in modo empirico criteri che confermino un adeguato sviluppo ed
una adeguata assunzione di responsabilità. Ai fini della valutazione del
minore sottoposto a procedimento penale, attualmente non si riscontra un
accordo di massima sulla definizione operativa delle competenze cognitive,
emotive, di decision-making e relazionali che un adolescente deve
dimostrare per essere giudicato maturo e responsabile, cioè in grado di
prendere in considerazione possibile alternative ad una propria scelta
comportamentale collegando ciascuna di esse ad ipotetiche conseguenze e
valutandole in base a ideali soggettivi e a valori etici condivisi socialmente.
Il secondo cluster del RST-I (Salekin, 2004) fornisce importanti indicazioni
sui fattori principali da prendere in considerazione nella valutazione della
disponibilità all’intervento di un minore.
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Nella fase di osservazione quindi si cerca di capire quanto, per un ragazzo,
un certo comportamento abbia un valore trasgressivo e quanto gliene sia
chiara l’illegalità. Accertata la disponibilità alla messa alla prova, si valutano
le condizioni concrete della sua realizzazione. E’ inoltre utile tenere in
considerazione alcuni aspetti riguardanti le problematiche psicologiche
presenti dal minore in relazione a tipologia e gravità, presenza di
consapevolezza rispetto alle proprie difficoltà e/o capacità riflessive rispetto
ad esse. In quanto sintesi della più complessiva conoscenza del minore, la
valutazione della disponibilità al trattamento tiene conto della “carriera
criminale” del minore, intesa come precedenti contatti con i Servizi penali
e/o come età di commissione del primo reato, dal momento che risultano
essere fattori significativamente e positivamente associati alla recidiva.
Come accennato, è importante valutare la responsabilità soggettiva del
minore, intesa come motivazione ad impegnarsi in un progetto
individualizzato, capacità di assumersi la responsabilità delle proprie
azioni,ma anche come aspettativa positiva di cambiamento ed apertura nei
confronti di possibili percorsi individuali. Infine, importanti ai fini di valutare
la possibilità di un minore di usufruire di un progetto di intervento risultano
essere le sue capacità relazionali, intese come capacità di provare
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
155
sentimenti di colpa o di rimorso per gli errori commessi, le capacità di
empatia e di prendersi cura degli altri, la capacità di sviluppare attaccamenti
positivi nei confronti di figure di riferimento (operatori dei servizi, coetanei,
insegnanti etc) e in generale la presenza di fattori protettivi tra cui in primo
luogo risulta fondamentale il coinvolgimento positivo dei genitori all’interno
del percorso del minore.
La valutazione multiculturale
Le difficoltà insite nella valutazione dei minori autori di reato si moltiplicano
ulteriormente nel caso di adolescenti immigrati. In questi casi, quando ha
inizio la valutazione, l’interesse è centrato sulla comprensione delle sue
identificazioni culturali: si cerca di capire in quali aspetti l’adolescente senta
di appartenere alla propria cultura, come la consideri, come consideri
invece quella italiana, che genere di contatti abbia avuto con essa e quale
sia il suo grado di fiducia nei confronti di quelli che per lui rimangono
“stranieri” (Trionfi, 2002).
E’ poi indispensabile cercare di cogliere i vissuti che hanno accompagnato il
percorso migratorio, iniziando dalla partenza dal paese d’origine fino
all’ingresso in Italia, oltre alle motivazioni e alle aspettative rispetto alla
attuale vita nel nuovo paese. E’ molto importante valutare se il ragazzo
parla spontaneamente del proprio percorso e che rapporti vuole mantenere
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con la cultura d’origine, dal momento che alcuni di questi adolescenti hanno
vissuto esperienze di guerra e di separazioni prolungate, o veri e propri
abbandoni (Maggiolini, 2002). Può essere infine utile capire insieme
all’adolescente quale sia il “mandato”, familiare o personale, che
accompagna il percorso di immigrazione, quali siano i vissuti rispetto a ciò
che si ha “lasciato indietro” e rispetto alla vita all’interno di un paese che
conosce poco.
Per raggiungere questi obiettivi e aiutare l’adolescente immigrato da un
punto di vista psicologico, è perciò importante aumentare la nostra capacità
di valutazione, che non coincide con l’abilità di formulare una diagnosi, ma
che implica una comprensione triangolare tra l’adolescente, il contesto di
sviluppo nel suo paese d’origine e il contesto di sviluppo in Italia. Non si
tratta quindi di discriminare tra normalità e patologia, bensì di comprendere
come valutare e sostenere il processo evolutivo del minore, quali siano gli
ostacoli ai suoi compiti evolutivi, siano essi conflitti adolescenziali, patologie
del carattere o della personalità o vere e proprie psicopatologie. Per farlo è
d’obbligo, per il clinico, dotarsi di strumenti di valutazione della personalità
che siano somministrabili in culture diverse da quelle per cui sono stati
progettati.
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
157
Il rischio di una valutazione dell’adolescente immigrato effettuata attraverso
strumenti tradizionali, spesso non sensibili da un punto di vista
multiculturale, è che i fantasmi di intrusione e di giudizio siano percepiti
come effettivamente reali.
Una valutazione clinica effettuata attraverso strumenti e reattivi incapaci di
cogliere le sfumature multiculturali della personalità può essere considerata
una concretizzazione dei timori di critica e giudizio vissuti dall’adolescente
straniero. Inoltre, una valutazione effettuata attraverso strumenti, costrutti e
categorie concettuali del tutto estranee all’adolescente straniero, anche se
restituita e filtrata al termine di un lavoro condiviso, può risultare di difficile
utilizzo per il ragazzo, aumentando i vissuti di estraneità e di persecuzione.
Il Multicultural Assessment Intervention Process (MAIP; Dana, 2000) nasce
per fornire un contesto su cui basare una valutazione della personalità e
dell’eventuale psicopatologia che sia sensibile alle diversità culturali.
Il MAIP si articola sulle risposte a una serie di quesiti sequenziali. Un’iniziale
premessa riguarda la disponibilità di strumenti non affetti da bias culturali:
date le controversie sull’assenza di convincenti dimostrazioni di equivalenza
cross-culturale infatti, alcuni strumenti devono essere utilizzati con molta
cautela (Dana, 2000, 2005). Il clinico deve inoltre riflettere sulla situazione
culturale del soggetto: il MAIP considera quattro possibili orientamenti
culturali:
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1) tradizionalismo: caratterizzato dal rifiuto completo della cultura acquisita;
2) assimilazione: rigetto della cultura di origine in favore di quella acquisita;
3) Orientamento “marginale”: si rifiutano aspetti sia della cultura di
appartenenza sia di quella acquisita;
4) orientamento “transizionale”: vengono messi in discussione valori e norme
tradizionali in favore della cultura acquisita.
Gran parte degli adolescenti immigrati che si incontrano presso i servizi
infatti provengono da paesi in cui si verifica un abbandono progressivo delle
tradizioni in funzione di un processo di omogeneizzazione che sostituisce
alla credenze dalla comunità di origine, i moderni modelli globali e mediali.
Questa doppia appartenenza può portare l’adolescente verso nuovi spazi di
identificazione, oppure portare ad un’impossibile elaborazione della propria
collocazione, innescando un conflitto tra diversi aspetti della propria
identità. In ogni caso, la relazione con le proprie origini porta inevitabilmente
ad un lavoro psichico in cui l’adolescente cerca di ricomporre le forme del
proprio mondo (Maggiolini, 2002). Analizzare l’orientamento culturale
dell’adolescente consente di evitare le possibili confusioni tra psicopatologia
e aspetti culturali o tra psicopatologia e identità culturale. E’ necessario
considerare caso per caso la storia di vita dell’adolescente per non rischiare
6. La valutazione del comportamento antisociale in una prospettiva evolutiva
159
di interpretare come problematiche ppsicoligoche gli stress derivanti da un
processo di integrazione culturale che può essere ancora in corso.
Il MAIP non solo consente di effettuare una valutazione sensibile da un
punto di vista culturale, ma ha molti punti in contatto con un approccio
evolutivo alle problematiche adolescenziali. Utilizzando questo modello di
valutazione è infatti possibile organizzare le osservazioni in riferimento alle
strategie con cui l’adolescente si adatta ai compiti evolutivi attuali,
esimendosi da una valutazione categoriale ed utilizzando invece un
approccio mirato alla comprensione da un lato del funzionamento
individuale in relazione al contesto e al percorso di crescita e dall’altro del
senso soggettivo, delle scelte e dei comportamenti (in primis la scelta
migratoria) in relazione alla loro valenza espressiva e comunicativa nei
confronti dell’ambiente (Maggiolini, Riva, 1998).
Si sottolinea infine che l’utilizzo dei test psicodiagnostici all’interno di questo
modello è subordinato a quattro capisaldi:
1) gli strumenti utilizzabili dovrebbero essere “empirically based” in modo da
consentire interrpetazioni basate su dati normativi e ricerche empiriche;
2) questi strumenti, prima di essere utilizzati, devono aver mostrato di
possedere un’equivalenza culturale e devono prevedere norme di
riferimento per gruppi minoritari;
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3) gli strumenti proiettivi solitamente caratterizzati da diversi approcci di
somministrazione ed interpretazione dovrebbero essere utilizzati solo in
caso siano disponibili sistemi oggettivi di scoring e raccolte di dati normativi
che facilitino interpretazioni valide e attendibili;
4) è necessario investire sulla creazione di linee guida, sul training e sulla
pratica psicodiagnostica in modo che la validità delle interpretazioni
derivanti dal loro utilizzo possa migliorare anche nella valutazione
multiculturale.
Attualmente, le ricerche presenti in letteratura consentono di selezionare
alcuni strumenti in grado di soddisfare questi criteri e garantire la
necessaria sensibilità culturale alla valutazione clinica, andando a creare
una “batteria multiculturale di valutazione della personalità”.
7. Conclusioni e prospettive
161
Il progetto ha favorito un importante confronto sul tema della valutazione e
dell’intervento con gli adolescenti sottoposti procedimenti penali tra
psicologi e operatori sociali e educativi dei Servizi della giustizia minorile
italiani.
La valutazione è un tema centrale nell’intervento professionale degli
operatori, assistenti sociali, educatori e psicologi, che lavorano nei Servizi
della giustizia minorile e sul quale non è frequente un confronto
interprofessionale. I rappresentanti dei Servizi italiani hanno avuto la
possibilità di sviluppare riflessioni su obiettivi e metodi della valutazione
nell’incontro con gli adolescenti che commettono reati. In particolare è stato
possibile approfondire il punto di vista degli psicologi nel processo di
valutazione e intervento, nella pratica di lavoro, negli strumenti e nei modelli
teorici adottati.
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I seminari che si sono realizzati anche con il contributo di esperti europei
hanno inoltre consentito un primo confronto allargato su questo tema, con
uno sguardo all’Europa.
Il progetto ha avuto una particolare rilevanza perché si è inserito in un
momento di trasformazione istituzionale importante nell’organizzazione dei
Servizi della giustizia minorile in Italia. Dal 1 gennaio 2010, infatti, gli
psicologi che operano nei servizi della giustizia minorile sono passati dalle
dipendenze del Ministero della giustizia. In questa fase di trasformazione
istituzionale, il progetto ha portato un contributo di riflessione
particolarmente utile per affrontare questioni centrali di questo passaggio.
La questione, d’altra parte, non è limitata alla situazione italiana. A Roma si
è svolto nel novembre 2010 il convegno internazionale organizzato
dall’Osservatorio internazionale della giustizia minorile che ha trattato il
tema dei mental health e delle droghe nei young offenders, all’interno del
quale è stato anche portato il contributo del gruppo di lavoro.
Gli interventi al convegno hanno complessivamente sostenuto l’importanza
di un approccio mental health nella giustizia minorile, rilevando l’alta
percentuale di minori che entrano nel circuito penale che presentano
problemi di rilievo clinico.
7. Conclusioni e prospettive
163
Questi dati confermano in primo luogo la centralità del tema della
valutazione nei Servizi della giustizia minorile, ma dall’altra pongono il
problema dei suoi obiettivi specifici, degli strumenti con i quali è effettuata,
della relazione tra diversi ruoli professionali (psicologi, psichiatri, assistenti
sociali e educatori) e infine del rapporto tra valutazione psicosociale e
decisioni della magistratura.
Il confronto che si è svolto tra operatori ed esperti all’interno del progetto ha
complessivamente rilevato una cultura della valutazione orientata
all’integrazione interprofessionale, ma poco definita negli obiettivi e
soprattutto scarsa di strumenti e di modelli di riferimento specifici e
condivisi.
E’ scarsa l’attenzione all’aspetto attuariale della valutazione, che tenga in
considerazione i fattori di rischio di recidiva, in particolare quelli dinamici,
suscettibili di trasformazione.
Non appare nemmeno particolarmente diffusa nella pratica una valutazione
clinica effettuata con obiettivi di screening o diagnostici e l’uso di strumenti
testistici standardizzati.
Prevale invece una valutazione socioeducativa, che si basa in buona parte,
oltre che sul recupero di informazioni su dati oggettivi, anagrafici o sociali,
sulla percezione degli operatori della relazione interpersonale che si
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instaura con il minore, con qualche diffidenza, in realtà, nei confronti sia di
strumenti standardizzati sia di giudizi troppo definiti. Questa diffidenza, che
si giustifica con l’esigenza di evitare un effetto stigmatizzante nei confronti
del minore, rischia tuttavia di non arrivare a comporre un quadro
sufficientemente definito e articolato.
Nel corso dei seminari c’è stato un confronto tra una logica attenta ai
mental health in senso diagnostico, che vede il comportamento antisociale
come effetto di un disagio psicopatologico, e una logica socio educativa, più
incline ad interpretare il comportamento del minore come effetto di un
contesto, famigliare e sociale, spesso fortemente carente e deprivato.
Il dibattito ha mostrato come una prospettiva di psicologia dello sviluppo e
di psicopatologia evolutiva può essere utile perché consente da una parte di
evitare effetti troppo stigmatizzanti o il rischio di una psicopatologizzazione
della devianza minorile, ma d’altra parte consente di mantenere la
necessaria attenzione alla dimensione soggettiva e intenzionale del
comportamento antisociale.
E’ apparso chiaro in questa prospettiva che la valutazione non coincide con
la diagnosi, effettuata per discriminare i soggetti da punire da quelli da
7. Conclusioni e prospettive
165
curare, con una ridotta capacità di intendere e volere. Il riconoscimento
della diffusione dei problemi mentali tra i minori sottoposti a procedimenti
penali non significa, infatti, che il sistema penale deve assumere obiettivi
sanitari di cura, ma che può porsi in una prospettiva di supporto allo
sviluppo, all’acquisizione di responsabilità e di un’identità sociale, obiettivi
che sono compatibili con quelli del sistema penale minorile, così come sono
esposti nel Codice di procedura penale minorile italiano.
Una prospettiva evolutiva integra l’attenzione al minore e al contesto
famigliare e sociale di sviluppo, e consente di considerare la relazione tra
reato e bisogni di recupero maturativo.
La valutazione in questa prospettiva ha necessità di prendere in
considerazione sia il minore sia il suo contesto famigliare e di mettere in
relazione le caratteristiche di personalità del minore con il reato per il quale
è imputato.In Italia questa attenzione ai significati soggettivi ha da sempre
caratterizzato l’intervento degli psicologi che hanno collaborato con i Servizi
della giustizia minorile negli ultimi cinquant’anni. Autorevoli psicoanalisti
dell’adolescenza, come Arnaldo Novelletto, Tommaso Senise, Gustavo
Pietropolli Charmet, hanno collaborato in Italia con i Servizi della giustizia
minorile, mantenendo una particolare attenzione ai significati anche non
consapevoli del gesto deviante. La cultura degli psicologi che attualmente
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collaborano con i Servizi è più differenziata, psicoanalitica, cognitivo-
comportamentale, sistemico-famigliare, con una maggiore ricchezza di
prospettive, al prezzo tuttavia di una maggiore dispersione.
Una prospettiva evolutiva può avere una forte capacità di integrazione, in
quanto consente immediatamente di tenere conto di alcuni aspetti forensi
della valutazione come la capacità di intendere e volere, che può essere
indagata sullo sfondo dell’immaturità nello sviluppo e non solo in funzione di
una psicopatologia invalidante.
Una valutazione orientata da una prospettiva evolutiva, infine, orienta
l’intervento non nella direzione della punizione, della cura, della
rieducazione o della riparazione sociale, ma della rimozione dei fattori di
rischio dinamici, nel minore e nel contesto, che costituiscono un blocco per
lo sviluppo e che sono correlati con l’azione deviante.
Il progetto ha consentito, in particolare, di realizzare una rete degli psicologi
italiani che operano nei servizi della giustizia minorile, attraverso un gruppo
mail che continua ad essere utilizzato per scambiare informazioni e
strumenti. Questo gruppo potrà costituire la base per un confronto allargato
ad altri Paesi europei.
7. Conclusioni e prospettive
167
Al momento due direzioni di approfondimento sono emerse.
In primo luogo la possibilità di collaborare a livello nazionale per una
raccolta di dati sistematica e una sperimentazione sul tema della relazione
tra valutazione dei minori in ingresso nel circuito penale e recidiva.
In secondo luogo appare interessante la prospettiva di allargare il punto di
vista evolutivo oltre i 18 anni di età, per comprendere la valutazione e
l’intervento con i giovani adulti, non in una prospettiva di estensione dei
diritti dei minori oltre i 18 anni, ma in un’ottica di psicologia del ciclo di vita,
in cui la valutazione e l’intervento sono messi in relazione alle specifiche
caratteristiche di ogni fase dello sviluppo.
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