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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE
Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri”
Corso di laurea di Studi Internazionali
Individualismo, individualizzazione e mutamento sociale: un approccio storico-sociologico
Tesi in Sociologia
Relatore
Prof. Marco Bontempi
Candidato
Matteo Rezzonico
Anno Accademico 2006/2007
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INDICE
INTRODUZIONE p. 4
I. QUESTIONI TERMINOLOGICHE 11
1. ‘Individuo’, ‘individualizzazione’ e ‘individualismo’ 11
2. L’individualismo: aspetti storico-semantici 14
3. Una possibile tassonomia dell’individualismo 16
4. Il carattere problematico del rapporto tra individuo e società 18
II. INDIVIDUALIZZAZIONE E MUTAMENTO SOCIALE NELLE SOCIETÀ PREMODERNE 24
1. Omogeneità, differenziazione ed individualizzazione: il problema delle ‘società semplici’ 24
2. Elementi di individualizzazione e struttura sociale in epoca classica 29
3. Uguaglianza e interiorità nel concetto cristiano di individuo 34
4. L’individualizzazione come possibilità di ceto nello sviluppo della società stratificata medievale 36
5. Individualizzazione e sviluppo urbano come prodromi della modernità 40
6. Individualizzazione ‘profana’ e individualizzazione religiosa tra Rinascimento e Riforma 43
III. FORME DELL’INDIVIDUALISMO 51
1. L’individualismo ‘epistemologico’ 51
2. L’individualismo ‘politico’ 52
3. L’individualismo ‘economico’ 57
4. Il nesso tra libertà e uguaglianza e l’individualismo ‘quantitativo’ 59
3
IV. INDIVIDUALISMO E SOCIETÀ BORGHESE OTTOCENTESCA 67
1. Individualizzazione e stratificazione sociale nello sviluppo della borghesia 67
2. L’individualismo ‘qualitativo’ 75
3. Gli Stati Uniti e l’individualismo come valore fondante della nazione 77
V. IL XX SECOLO: ECLISSI DELL’INDIVIDUALISMO, TRIONFO DELL’INDIVIDUALIZZAZIONE? 81
1. Forme metropolitane dell’individualizzazione e società di massa 81
2. La categoria di individuo nelle avanguardie artistiche 86
3. L’asservimento dell’individualizzazione alla sfera politica nei regimi totalitari 89
VI. LA QUESTIONE DELL’IDENTITÀ NEL MONDO CONTEMPORANEO 95
1. L’identità come problema 95
2. Ricerca e costruzione dell’identità 97
3. Una distinzione importante: identità-Io e identità-Noi 100
CONCLUSIONE 105
1. L’individualizzazione: un processo irreversibile? 106
2. I possibili futuri campi di battaglia dell’individualismo 107
BIBLIOGRAFIA 111
INDICE DEI NOMI 116
4
INTRODUZIONE
L’individualismo, inteso come l’insieme delle dottrine filosofico-
culturali che antepongono l’individuo alla società, e l’individualizzazione,
intesa come il processo sociale che ha portato alla graduale
emancipazione dei singoli individui dai propri gruppi d’appartenenza,
sono due concetti di cui è stata a lungo sottovalutata la portata storica.
Mentre altre schematizzazioni e divisioni, come quella tra destra e
sinistra, tra religiosi e laici, tra progressisti e conservatori, hanno avuto
grande successo e diffusione sia tra gli studiosi che in seno all’opinione
pubblica, la distinzione tra individualisti e olisti, anche se non meno
rilevante delle precedenti in fatto di conseguenze sociali provocate, non
ha avuto la stessa fortuna. La scarsa popolarità riscossa da questa
rappresentazione sembra dovuta a due ragioni principali. La prima
consiste nell’eccessiva eterogeneità delle teorie e delle dottrine che si
definiscono – o vengono definite – individualiste. Tale varietà ha privato
il termine ‘individualismo’ della sua forza descrittiva, rendendolo vago,
ambiguo e inadatto ad un uso specifico in campo scientifico. La seconda
ragione sta invece nella trasversalità della divisione tra individualisti e
olisti sia rispetto agli schieramenti politici e ai partiti stessi, sia
relativamente ad altre distinzioni come quella tra religiosi e laici,
rendendo molto più difficile la precisa delimitazione dei due schieramenti
e la loro schematizzazione attraverso l’attribuzione di precisi punti di
riferimento ‘istituzionali’ alle parti avverse.
5
Nonostante questa difficoltà ad affermarsi esplicitamente nel dibattito
politico e culturale, è certo che l’individualismo e l’individualizzazione
abbiano visto uno sviluppo costante negli ultimi 2500 anni ed abbiano
avuto un forte impatto sulle strutture sociali e sulla vita quotidiana di un
enorme numero di persone.
Alla luce di queste considerazioni, per restituire al termine
‘individualismo’ un significato preciso e per meglio comprendere lo
sviluppo del processo di individualizzazione attraverso i secoli, diviene
necessario studiare l’evoluzione di tali fenomeni.
Per tali motivi, questo lavoro si propone di offrire una panoramica
della loro storia, sebbene inevitabilmente schematica ed incompleta data
l’ampiezza dell’arco temporale preso in considerazione. Al fine di non
generare confusione, si cercherà di mantenere ben distinti i due oggetti in
questione, conducendo la ricerca su due binari paralleli: quello
dell’individualismo, attinente prevalentemente alla storia delle idee, e
quello dell’individualizzazione, riguardante principalmente il mutamento
sociale. Nonostante questa netta distinzione però, si proverà a mettere in
evidenza l’intricata e complessa rete di relazioni, interdipendenze e
sovrapposizioni che intercorrono tra i due fenomeni.
La ricerca si snoda attraverso un percorso scandito da alcune tappe
apparse particolarmente importanti per la storia dell’individualismo e
dell’individualizzazione. Si tratta di una scelta consapevole di
semplificazione della realtà, che se da una parte rischia di compromettere
la percezione della lentezza e della gradualità dei mutamenti, dall’altra
consente una schematizzazione che può essere utile ai fini
dell’esposizione.
Prima di affrontare la storia dei fenomeni in questione, è però apparsa
opportuna una riflessione specifica sul significato da attribuire ai due
termini, con un’attenzione particolare per l’individualismo in quanto più
6
vago, cercando di ricostruire la sua etimologia, l’ambiente sociale e
culturale all’interno del quale il termine è nato e si è sviluppato, e le
differenti connotazioni che esso ha assunto nelle diverse realtà nazionali
in cui è stato introdotto, andando da quella fortemente negativa che ha
tuttora in Francia a quella idealizzante degli Stati Uniti.
In questa prospettiva appare significativo il tentativo di Steven Lukes
di scomporre le dottrine individualiste in unidici ‘idee-base’, in quanto
ciò consente di articolare in modo efficace l’impostazione dell’intero
lavoro e la scansione del percorso storico proposto.
Tale percorso – che si sviluppa nei capitoli che vanno dal secondo al
quinto – è strutturato attorno alla distinzione fodamentale, e
imprescindibile per qualunque ricostruzione storico-sociologica, tra le
società premoderne e quelle moderne. L’importanza di questo passaggio è
legata alla stretta relazione che intrattiene con la transizione da società in
cui prevaleva l’olismo – nel senso che Louis Dumont ha dato a questo
termine – ad altre in cui sono i principi individualisti ad imporsi.
All’interno delle due macro-aree temporali indicate sono state attuate
delle ulteriori suddivisioni, scegliendo come ‘paletti’ non
necessariamente eventi storici fondamentali quali guerre, rivoluzioni,
crolli d’imperi o scoperte geografiche, ma gli avvenimenti e lo sviluppo
delle correnti culturali che hanno determinato un’accelerazione del
processo di individualizzazione o l’introduzione di nuove forme di
individualismo.
Per quanto riguarda il mondo premoderno, il primo snodo
fondamentale è individuabile in quello che Karl Jaspers ha definito
‘periodo assiale’ e che in Occidente è coinciso con la comparsa della
figura di Socrate ad Atene. L’importanza della tesi formulata da questo
filosofo è legata, dal nostro punto di vista, alla concettualizzazione
dell’idea di coscienza individuale, che influenzerà profondamente il
7
pensiero dei secoli successivi. Con l’avvento del cristianesimo poi, a
questo concetto si aggiunse il riconoscimento di pari dignità tutti gli
esseri umani, dall’imperatore allo schiavo. Questi due presupposti
saranno fondamentali per il successivo sviluppo del processo di
individualizzazione, ma la loro incubazione sarà molto lunga e nel corso
del Medioevo l’applicazione concreta del concetto di pari dignità esteso
ad ogni individuo verrà frenata dalla presenza di stratificazioni sociali
rigide e ascrittive, in cui il ceto nobiliare veniva considerato moralmente
superiore agli altri, anche se la nascita delle prime città moderne riuscirà
ad indebolire questa struttura sociale, incidendo sul processo di
individualizzazione, e l’avvento dell’Umanesimo e del Rinascimento
porranno la basi per i successivi sviluppi dell’individualismo.
Il vero punto di svolta sembra però individuabile nella Riforma
protestante e nel suo individualismo religioso, che cercava di favorire
un’individualizzazione del rapporto con Dio, creando una profonda
frattura rispetto alle società premoderne. Appare importante sottolineare
come tutto questo abbia avuto rilevanti effetti anche sugli stati che
rimasero cattolici, e abbia favorito la reazione culturale sfociata nella
Controriforma, che seppur in modo meno dirompente promuoveva
cambiamenti in buona parte ispirati agli stessi principi dei riformatori.
Partendo da questa prospettiva, è apparso opportuno porre l’accento
sui forti legami che Weber riteneva sussistessero tra la nuova etica
protestante e la diffusione del sistema economico capitalistico,
evidenziandone le importanti conseguenze sul piano
dell’individualizzazione.
Mentre sul piano religioso l’autonomia individuale venne affermata
per mezzo della Riforma, sul piano filosofico vide la luce grazie a
Cartesio e al cosiddetto individualismo epistemologico, che induceva a
8
cercare in se stessi le fondamenta sulle quali costruire tutte le proprie
certezze.
Questi profondi cambiamenti posero le basi per l’emergere di nuove
forme d’individualismo, che sancirono il definitivo passaggio alla
modernità in questo ambito. Nacquero così l’individualismo politico,
fondato sul contrattualismo lockiano e sul giusnaturalismo, e
l’individualismo economico, che faceva riferimento alla teoria degli
economisti liberali classici di cui il più celebre interprete fu Adam Smith.
L’insieme di queste dottrine è stato definito ‘individualismo quantitativo’,
perché mirava ad un aumento quantitativo delle libertà individuali,
cercando allo stesso tempo di promuovere l’idea di uguaglianza. I due
ideali non venivano allora percepiti come contrastanti – a differenza di
quanto avverrà in seguito – perché la teorizzazione di un individuo
astratto e di un’essenza individuale uguale in tutti gli uomini riuscirono a
far passare in secondo piano le contraddizioni insite in questo binomio.
Con l’avvento della Rivoluzione francese però esse divennero manifeste,
soprattutto nel periodo del Terrore rivoluzionario, in cui un’eccessiva
enfasi posta sull’uguaglianza soffocò ogni forma di libertà individuale.
Nonostante ciò, le Rivoluzioni in Francia e in America ebbero un ruolo
importante nell’accelerazione del processo di individualizzazione. Infatti,
questi sconvolgimenti sociali distrussero – o comunque indebolirono
fortemente – i precedenti vincoli comunitari premoderni, sostituendoli
con forme d’appartenenza più impersonali e allargate e affrancando gli
individui dallo stretto controllo sociale a cui erano precedentemente
sottoposti.
Con l’avvento del XIX secolo e della società borghese,
l’individualismo si sviluppò in diverse direzioni, producendo persino
dottrine tra loro contrastanti. L’individualismo di stampo liberale,
direttamente discendente da quello settecentesco, è stato così affiancato
9
da almeno altre tre correnti rilevanti. La prima cercava di combinare
individualismo e socialismo, e si differenziava da quella liberale per il
fatto di aver collocato il punto l’equilibrio tra libertà e uguaglianza più
verso quest’ultima. La seconda era costituita dai cosiddetti individualisti
radicali, e promuoveva un individualismo di tipo asociale e sovversivo,
opponendosi con decisione all’individualismo economico in quanto
l’aumento della dipendenza reciproca legato a quello della divisione del
lavoro non liberava gli individui, ma anzi creava nuovi vincoli. La terza
ed ultima nasceva invece dal Romanticismo tedesco ed era incentrata
sull’importanza della diversità e dell’unicità di ogni individuo e
dell’autorealizzazione personale.
Sul piano dell’individualizzazione invece, fu principalmente la nascita
dei ‘laboratori sociali’ rappresentati dalle nuove realtà metropolitane ad
imprimere una forte accelerazione al processo, dovuta principalmente –
come ha osservato Simmel – alla spersonalizzazione dei rapporti causata
dal passaggio ad un sistema che produceva per il mercato e dall’uso del
denaro come mezzo di scambio e come termine di paragone universale
con cui misurare persino le relazioni umane. Nel corso del XX secolo,
questa tendenza all’incremento dell’individualizzazione subì svariati
tentativi di arresto, di controllo o di subordinazione alla sfera politica,
soprattutto da parte di particolari correnti culturali – come il modernismo
– e dei regimi totalitari sia di destra che di sinistra. Solo con l’avvento del
secondo dopoguerra l’individualizzazione venne accettata e anzi
incoraggiata in tutto l’Occidente.
Al termine di questa ricostruzione storica, è apparso importante
accennare ad alcuni problemi delle società contemporanee legati allo
sviluppo del processo di individualizzazione, e si è scelto di farlo
attraverso alcune considerazioni sulla questione dell’identità, intesa come
punto di vista differente da cui guardare all’individualizzazione. Nel
10
mondo premoderno l’identità era qualcosa di scontato, di determinato alla
nascita e di attribuito dall’esterno. Con il passaggio alla modernità invece,
essa è diventata il prodotto di un insieme di scelte individuali riguardanti
ogni ambito della propria vita: chi sposare, che mestiere intraprendere,
che partito votare, che sport praticare, che religione professare. Se da una
parte quest’incremento dell’autonomia individuale ha permesso una più
soddisfacente realizzazione delle aspirazioni individuali, dall’altra ha
trasformato l’identità in un compito a cui non è possibile sottrarsi ed ha
posto il problema tutto moderno della sua costruzione, con l’ansia e
l’insicurezza diffuse che questo comporta.
Infine, nelle pagine conclusive di questo lavoro, sono state raccolte
alcune brevi considerazioni generali e si è cercato di immaginare alcuni
dei possibili sviluppi futuri delle dottrine individualiste e del processo di
individualizzazione.
11
CAPITOLO I
QUESTIONI TERMINOLOGICHE
1. ‘Individuo’, ‘individualizzazione’ e ‘individualismo’
Prima di provare a ricostruire – sebbene in modo selettivo ed
inevitabilmente incompleto – alcuni tratti della storia dell’individualismo
e dell’individualizzazione, può essere utile focalizzare l’attenzione sul
significato esatto da attribuire ad alcuni termini e sul percorso storico che
ha portato a tale risultato, cercando di evidenziare anche la rilevanza
assunta in questo senso dal dibattito filosofico e politico scatenatosi
attorno ad essi.
I termini ‘individualismo’ e ‘individualizzazione’ discendono dalla
radice comune ‘individuo’. Da un punto di vista etimologico, il sostantivo
‘individuum’ è il risultato della somma di un ‘in-’ privativo e di ‘divido’,
e sta quindi semplicemente ad indicare ciò che non può essere diviso.
Tale termine compare solo nel Medioevo, e la sua origine è legata alla
traduzione letterale della parola greca ‘àtomos’, anch’essa formata da un
“a-“ privativo e dal verbo “tèmno”, che nel pensiero filosofico di
Democrito definiva la materia ultima e indivisibile di cui erano composti
tutti gli elementi del mondo fisico. In seguito, il termine assunse
gradualmente un significato più ampio. Come osserva Norbert Elias, “la
parola individuum, collegata a problemi di logica formale, venne usata
per esprimere il caso singolo di una specie, e non soltanto umana: di
12
qualsiasi specie” [corsivo mio]1. Nel corso del Rinascimento e dopo la
Riforma protestante, grazie alla crescente autonomia dei singoli rispetto
ai propri gruppi d’appartenenza, ‘individuum’ cominciò ad indicare in
modo specifico gli esseri umani nella loro singolarità ed unicità, in modo
da distinguere questa loro sfaccettatura rispetto all’essere parte di
un’entità comunitaria superindividuale. A tale stadio i due aspetti non
venivano ancora percepiti come contrastanti ed inconciliabili. Fu solo nel
XIX secolo, a causa degli sconvolgimenti sociali portati dalla
Rivoluzione francese, del proliferare di nuove dottrine politiche
inneggianti alla superiorità e all’autonomia dell’individuo nei confronti
della comunità d’appartenenza, e dell’incredibile accelerazione subita dal
processo di individualizzazione, che vennero coniati “neologismi come
‘individualismo’ da un lato e, dall’altro, come ‘socialismo’ e
‘collettivismo’, che hanno largamente contribuito in epoca più recente
all’impiego dei concetti di ‘individuo’ e di ‘società’, di ‘individuale’ e di
‘sociale’ come coppie di opposti”2.
A questo punto è necessario compiere una netta distinzione tra due
termini che, come già accennato, rappresenteranno il principale filo
conduttore nello sviluppo dei prossimi capitoli e che troppo spesso
vengono confusi o usati indistintamente.
Da una parte abbiamo l’individualizzazione, intesa come processo
sociale e culturale consistente essenzialmente nella tendenza
dell’individuo “a svincolarsi sempre più dal controllo rigido e coercitivo
esercitato su di esso da parte di istituzioni familiari e parentali, educative,
religiose, politico-istituzionali, comunicative”3. Questo fenomeno può
essere analizzato adottando una prospettiva di studio di carattere
1 Norbert Elias, La società degli individui, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 183. 2 Ivi, pp. 184-185. 3 Andrea Millefiorini, Individualismo e società di massa – Dal XIX secolo agli inizi del XXI, Roma, Carocci, 2005, p. 14.
13
prevalentemente sociologico, e riguarda la conquista concreta di una
maggiore libertà individuale da parte dei cittadini.
Dall’altra parte c’è invece l’individualismo, considerato generalmente
una dottrina filosofica, e nelle sue forme più articolate anche
un’ideologia, come testimoniato dal tipico suffisso ‘-ismo’. In questo
caso le possibili prospettive di studio sono molteplici: si può passare da
un approccio filosofico ad uno relativo alla storia delle idee e da uno che
prende le mosse dalla storia delle dottrine politiche ad uno – come nel
nostro caso – sociologico. In realtà però la complessità di tale fenomeno
non permette di analizzarlo da un punto di vista unico, fingendo che gli
altri non esistano, ma esige un costante sforzo di sintesi degli elementi
principali di ogni ambito. Se stessimo dipingendo un paesaggio e
volessimo metterne in evidenza gli elementi dinamici, come gli alberi
piegati dal vento o l’infrangersi delle onde su uno scoglio, non potremmo
per questo tralasciare del tutto di disegnare le statiche rocce o lo sfondo
immobile delle colline; se lo facessimo, il risultato finale apparirebbe
distorto. Sarebbe invece possibile dare maggiore risalto a determinati
aspetti piuttosto che ad altri, ed è ciò che si è tentato di fare con
l’individualismo, ponendo l’accento sulla prospettiva sociologica, ma
cercando di mostrarne anche i legami multidirezionali con gli altri ambiti
di studio.
Appare inoltre importante sottolineare come individualismo e
individualizzazione non siano impermeabili alle influenze reciproche, ma
anzi si compenetrino e si condizionino vicendevolmente. Le dottrine
individualiste sono state uno dei principali motori di fenomeni come la
Rivoluzione francese, che hanno impresso una netta accelerazione al
processo di individualizzazione. Quest’ultimo invece, essendo la
realizzazione concreta di quanto predicato dall’individualismo, ne ha
incoraggiato i sostenitori ad immaginare costantemente nuovi territori da
14
conquistare. Ad esempio, come ha magistralmente mostrato Weber, senza
l’avvento di una maggiore individualizzazione in campo religioso per
mezzo delle innovazioni introdotte con la Riforma protestante,
l’estensione dell’ideologia individualista all’economia e la sua diffusione
sarebbero state molto più lente e difficoltose, rallentandone anche la
trasformazione in fenomeno socialmente rilevante attraverso lo sviluppo
del capitalismo moderno. Inoltre, secondo alcuni autori, come Elias,
l’individualismo non è un’idea innata negli uomini, ma “è l’espressione
del modo in cui l’individuo è stato storicamente plasmato in modo
peculiare da un intreccio di rapporti, da una forma di convivenza con gli
altri che ha una struttura del tutto specifica”4. In sostanza, secondo lo
studioso tedesco, l’individualismo è stato generato
dall’individualizzazione. Questa forte interdipendenza – come osserva
Alain Laurent – costringe chiunque voglia occuparsi di uno dei due temi
ad accostarsi anche all’altro.
2. L’individualismo: aspetti storico-semantici
Secondo Laurent, la dottrina individualista poggia essenzialmente
sull’idea secondo cui “l’umanità non è composta di insiemi sociali
(nazioni, classi,…) ma di individui, di esseri viventi, indivisibili e
irriducibili gli uni agli altri, singoli nel sentire, agire e pensare. […]
L’uomo non è dunque la semplice cellula di un organismo sociale […] o
la parte di un tutto”5, ma un’entità dotata di una propria autonomia.
Portando alle sue naturali conseguenze quest’affermazione, si può
dire che l’ideologia individualista si contraddistingue per la sua volontà di
anteporre gli interessi e le esigenze individuali a quelli collettivi, ed è
4 Norbert Elias, op. cit., p. 39. 5 Alain Laurent, Storia dell’individualismo, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 16.
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diamentralmente opposta all’olismo, inteso come ideologia che mira a far
prevalere gli interessi e le esigenze sociali su quelli dei singoli.
Il termine ‘individualismo’ è stato coniato in Francia agli inizi
dell’Ottocento dagli oppositori dell’evoluzione sociale individualizzante
seguita allo scoppio della Rivoluzione francese. Il primo ad utilizzarlo fu
il controrivoluzionario Joseph de Maistre, intendendo con esso definire
quella che percepiva come la pericolosa e dilagante tendenza
all’atomizzazione e alla frammentazione sociale. Nei decenni successivi il
termine divenne di uso comune, soprattutto negli ambienti tradizionalisti
e conservatori, e dati i suoi diffusori non stupisce che fosse connotato
negativamente. Tutto ciò ha fatto sì che in Francia, escludendo qualche
isolata eccezione, il termine abbia mantenuto fino ad oggi il suo carattere
spregiativo e di critica sociale.
In altri paesi però, come osserva Lukes, il suo destino è stato
completamente diverso. In Germania l’introduzione del sostantivo
‘Individualismus’ è riconducibile al Romanticismo e rimanda all’idea di
individualità intesa come “nozione dell’unicità, originalità e
autorealizzazione dell’individuo” [traduzione mia]6. Esso non rievoca
quindi lo sgretolamento della società, ma si riferisce alla necessità e alla
bellezza della diversità e della particolarità di ogni singolo essere umano.
Come nel caso francese, anche in quello tedesco il contesto culturale che
ha prodotto quest’espressione ne ha influenzato fino ad oggi la
connotazione, che in quest’area linguistico-culturale è decisamente
positiva.
Infine, negli Stati Uniti di un XIX secolo fatto di colonizzazione
dell’Ovest e di una crescita economica senza precedenti nella storia
dell’umanità, l’individualismo divenne velocemente un vero e proprio
6 “notion of individual uniqueness, originality, self-realization”, Steven Lukes, Individualism, Colchester, ECPR, 2006, p. 138.
16
simbolo di identificazione nazionale, un manifesto del Sogno Americano,
dell’american way of life, assumendo così una connotazione
estremamente positiva.
3. Una possibile tassonomia dell’individualismo
Abbandonando la storia del termine e spostando l’attenzione su quella
delle idee che lo accompagnano, si rimane colpiti dall’ampiezza e
dall’eterogeneità delle dottrine che sono via via state accostate a tale
concetto. Come osserva Laurent, solo sul piano ideologico-politico ne
esistono versioni anarchiche, democratiche, liberali, aristocratiche e
conservatrici, per non parlare delle teorie riferite agli altri ambiti della
realtà.
La confusione generata da tale abbondanza ha reso il termine vago e
difficilmente utilizzabile in campo scientifico in modo univoco. Per
questo, nel corso dei suoi studi su tale tema, Lukes ha cercato di
scomporre le dottrine che ha incontrato e di isolare alcune “idee-base di
individualismo” [traduzione mia]7. Nella sua concezione, queste ultime
dovrebbero corrispondere a dei mattoncini per mezzo dei quali, seppur
con qualche adattamento, sia possibile costruire tutte le varianti
conosciute delle dottrine individualiste. Nonostante tali idee si possano
combinare ed unire in una teoria però, ognuna di esse è dotata di una
propria autonomia concettuale, e l’accettazione di una non significa nulla
riguardo alla propria posizione sulle altre. Anzi, può capitare che due
dottrine composte da alcune idee-base siano apertamente in contrasto tra
loro, pur essendo ambedue etichettate come individualiste. Ad esempio,
alcune tra le critiche più feroci rivolte alla società ottocentesca dai
cosiddetti ‘individualisti estremi’ prendevano di mira il sistema liberale 7 “basic ideas of individualism”, Steven Lukes, op. cit., p. 50.
17
fondato proprio sull’individualismo politico e su quello economico e
ritenuto più vincolante dei precedenti in quanto favoriva l’aumento della
complessità sociale e quindi una maggiore interdipendenza tra gli
individui.
Le idee-base selezionate da Lukes sono undici e, dopo essere state
presentate qui di seguito in modo estremamente sintetico, verranno
illustrate in modo più esaustivo nel corso dei prossimi capitoli, secondo il
loro ordine d’apparizione nella storia occidentale.
Il primo gruppo di idee riguarda alcuni valori ed ideali che
costituiscono il cuore dell’individualismo, e più precisamente il
riconoscimento della dignità di ogni essere umano, l’affermazione
dell’autonomia dei singoli rispetto alle proprie scelte sia in ambito
religioso che politico-sociale, la definizione di una sfera privata (o
privacy) all’interno della quale gli individui siano liberi di comportarsi
come preferiscono senza interferenze esterne, ed infine l’idea romantica e
prevalentemente tedesca di self-development8, intesa come necessità di
sviluppare quanto più possibile le proprie potenzialità ed assecondare le
proprie inclinazioni.
Oltre a questi valori, fondamentale per lo sviluppo di molte dottrine
individualiste, soprattutto nel XVIII secolo, è la concezione astratta
dell’individuo, che cerca di evidenziare il comune denominatore presente
in ogni essere umano, e che può per certi versi essere considerata
l’antagonista concettuale del self-development, in quanto mette l’accento
su ciò che accomuna, e non su ciò che distingue e differenzia.
Il terzo gruppo di idee riguarda l’applicazione dell’individualismo ad
ambiti sociali ben determinati, producendo l’individualismo politico e
quello economico, che come si vedrà sono strettamente legati, quello
8 Per un chiarimento sul significato esatto del termine ‘self-development’, cfr. nota a p. 76.
18
religioso nato con la Riforma protestante e quello etico di cui Nietzsche
sarà il più celebre interprete.
Infine, l’ultima coppia di idee riguarda l’individualismo applicato alla
conoscenza e alla ricerca sociale, ed è costituita dall’individualismo
epistemologico sviluppatosi a partire da Cartesio e da quello
metodologico che ha avuto alterne fortune nel campo delle scienze
sociali.
4. Il carattere problematico del rapporto tra individuo e società
Come già accennato, alle dottrine individualiste si è da sempre
contrapposto l’olismo, anche definibile come ‘comunitarismo’ o
‘collettivismo’. Ciò che contraddistingue quest’ideologia è la convinzione
che esista un’entità superindividuale, la comunità, della quale gli
individui non sono che cellule non autonome, organizzate in sottogruppi
con funzioni specifiche e prevalentemente ascrittive (ceti, caste,
corporazioni). Non a caso in tali teorie è molto frequente il ricorso a
metafore organicistiche, che assimilano ad esempio i contadini alle
braccia del corpo sociale e il re alla sua testa.
Appare da subito evidente l’importanza rivestita nelle ideologie oliste
dai rapporti sociali, ma – come osserva François de Singly – ciò non
significa che in quelle individualiste tali legami siano meno rilevanti,
perché in ogni caso “l’individuo non esiste se non attraverso i legami
sociali. La differenza tra le società individualiste e quelle non
individualiste non riguarda dunque la diminuzione dei legami sociali.
Essa risiede nell’importanza accordata ai legami più personali, più
elettivi, più contrattuali” [traduzione mia]9.
9 “l’individu n’existe que par les liens sociaux. La différence entre les sociétés individualistes et les sociétés non individualistes ne tient donc pas à la diminution des liens sociaux. Elle réside dans
19
Nel corso dell’evoluzione della società occidentale, ed in modo
particolare nel lasso di tempo che ci separa dalla Rivoluzione francese, la
disputa attorno a questi temi si è rivelata molto accesa, portando ferventi
sostenitori sia dell’individualismo che dell’olismo a scontrarsi
nell’affollata arena delle ideologie e in alcuni casi anche sui campi di
battaglia, con il discontinuo ma inarrestabile sviluppo del processo di
individualizzazione a dare fuoco alle polveri.
Nel corso del XIX secolo gli attacchi all’individualismo sono
provenuti principalmente – secondo Laurent – da due filoni di teorie:
quello tradizionalista-reazionario e quello progressista-egualitario.
Appare importante sottolineare come anche prima dell’Ottocento siano
esistite posizioni che collocavano al centro del proprio pensiero la
collettività; anzi, come si vedrà, esse erano dominanti, ma solo dopo la
Rivoluzione americana e quella francese, che hanno garantito
all’individualismo come ideologia uno spazio inedito e fondamentale a
livello sociale, sono potute nascere delle correnti di pensiero che facevano
della critica alla crescente individualizzazione la principale ragione della
propria esistenza.
La prima di queste due posizioni, quella tradizionalista-reazionaria, si
sviluppò soprattutto in Francia, dove i moti rivoluzionari erano stati più
violenti, e in misura solo minore in Inghilterra e in Germania. Le critiche
principali rivolte all’individualismo riguardavano il pericolo
dell’atomizzazione e della fine della coesione sociale causato dalla
distruzione dei precedenti vincoli comunitari. Il primo e più celebre
sostenitore di tali tesi fu il conservatore Joseph de Maistre, che già nei
suoi Studi sulla sovranità (1794) – come riporta Laurent – affermava a
questo riguardo: “l’uomo per vivere non ha bisogno di problemi ma di
l’importance accordée aux liens plus personels, plus électifs, plus contractuels”, François de Singly, L’individualisme est un humanisme, La Tour d’Aigues, Éditions de l’Aube, 2007, p. 21.
20
fedi […] Un uomo abbandonato alla propria individuale ragione è
pericoloso, nell’ordine morale e politico, precisamente in proporzione al
suo talento”10.
La seconda corrente anti-individualista teorizzata da Laurent è quella
progressista-egualitaria, incarnata principalmente dai saint-simoniani e
dai socialisti utopisti. Queste scuole di pensiero, operanti all’incirca tra il
1830 e il 1850, oltre alle accuse classiche di isolamento sociale e di
dissoluzione dei vincoli tra individui, introdussero una critica nuova, che
avrà molto successo e verrà spesso ripresa nel XX secolo:
l’individualismo, e soprattutto quello di matrice economica, accresce le
disuguaglianze sociali e impoverisce le masse.
In questo contesto, i termini ‘individuo’ e ‘società’ vennero sempre
più percepiti come due poli opposti che si scontrano in un gioco a somma
zero, in cui una vittoria dell’uno significa inevitabilmente una sconfitta
dell’altro.
Data questa tensione costante e in qualche modo artificiale, molti
studiosi hanno cercato concettualizzazioni alternative, che potessero
portare ad una visione più conciliante del binomio in questione. Uno dei
primi intellettuali ad adoperarsi in tal senso fu Georg Simmel, per il quale
‘individuo’ e ‘società’ non erano due realtà confliggenti, ma due semplici
concetti metodologici, due punti di vista distinti sul medesimo soggetto,
“come la visione di un dipinto considerato ora come fenomeno
fisiologico-ottico e ora come prodotto culturale”11.
Uno dei contributi recenti più significativi in questa direzione è stato
quello prodotto da Norbert Elias, che già nel titolo del suo libro La
società degli individui tenta di conciliare i due termini. Come ha
osservato Bauman a riguardo, il grande merito dello studioso tedesco è
10 Cit. in Alain Laurent, op. cit., p. 79. 11 Georg Simmel, Individuo e gruppo, Roma, Armando Editore, 2006, p. 141.
21
stato quello di aver “sostituito l’’e’ e il ‘contro’ con il ‘di’”12, e cioè di
aver superato l’idea di una contrapposizione insormontabile tra i due
concetti, intendendoli invece, sulla scia di Simmel, come punti di vista
differenti sullo stesso fenomeno. Secondo Elias, entrambi gli elementi
hanno una propria dignità ontologica, e siccome tale dignità viene
comunemente riconosciuta agli individui a causa della sua immediatezza
biologica e sensoriale, lo studioso tedesco concentra i suoi sforzi nel
tentativo di evidenziare quella della società. A tale scopo viene
sottolineato come quest’ultima non sia la semplice somma degli individui
che la compongono, come vorrebbero i nominalisti13, ma sia composta
anche dalle relazioni che intercorrono tra questi individui, e che sono
dotate di autonomia e di leggi proprie. “Questa concatenazione delle
funzioni che gli uomini svolgono gli uni per gli altri, proprio questa e non
altro è ciò che noi chiamiamo ‘società’”14. Inoltre, sempre secondo Elias,
l’autonomia ontologica della società trova dimostrazione nell’assenza di
una sua pianificazione a priori da parte di un gruppo di individui.
Nessuno, ad esempio, ha progettato la società capitalista; essa si è formata
sulla spinta di forze economiche e sociali incontrollabili e dotate di leggi
proprie.
Dopo aver cercato di dimostrare l’esistenza della società come entità
distinta dalla somma degli individui che la compongono, Elias pone
l’accento sulla simbiosi esistente tra individuo e società. Da una parte la
società, in quanto somma dei legami tra individui, necessita comunque di
questi ultimi affinché i legami si stabiliscano, mentre dall’altra la società
è indispensabile per gli individui. Infatti nessun individuo può
considerarsi completamente autonomo e distaccato dagli altri esseri
12 Zygmunt Bauman, “Individualmente, insieme”, in La Società degli individui, 2000, n. 9, p. 5. 13 I nominalisti vengono definiti tali perché ritengono che ogni entità superindividuale non sia altro che il nome che viene assegnato ad un insieme di individui. 14 Norbert Elias, op. cit., p. 26.
22
umani per almeno due ragioni. La prima sta nel fatto che ogni soggetto è
il prodotto dell’unione di altri due esseri umani, e senza di essi non
esisterebbe. La seconda consiste nella dipendenza dai genitori che
accompagna ogni individuo per i primi anni della sua vita.
Per cercare di chiarire questa strettissima interdipendenza, Elias
prende in prestito da Aristotele la metafora della casa. Le singole pietre
rappresentano le unità da cui è composta una casa, ma se venissero
analizzate individualmente e astraendole dal contesto, misurandone peso,
forma e dimensione, non si otterrebbero informazioni rilevanti rispetto
alla struttura della casa. Quest’ultima non è infatti prodotta dalla
semplice somma dei suoi elementi, che potrebbe dare come risultato un
banale mucchio di pietre, ma dal rapporto che intercorre tra le singole
componenti.
Da tutto ciò Elias trae la conclusione che l’unico motivo per cui
‘individuo’ e ‘società’ vengono percepiti come termini contrapposti sta
nella mancanza di strumenti concettuali adeguati a descrivere la loro
relazione e nella convinzione semplicistica ed errata secondo cui “la sola
via feconda per comprendere unità composite sia la loro
scomposizione”15.
Il contributo di Elias è molto rilevante, in quanto risolve la
contrapposizione tra individuo e società. Nonostante ciò, esso non riesce
a fare lo stesso con il binomio individualismo-olismo, come invece
sembrerebbe lasciare intendere lo stesso Elias. Infatti, come si è cercato di
sottolineare definendo tali ideologie, la contrapposizione tra le due non
appare legata tanto al riconoscimento della dignità ontologica di entrambi
gli elementi; essa sembra invece riguardare principalmente la lotta per
stabilire quali interessi debbano prevalere tra quelli individuali e quelli
15 Ivi, p. 27.
23
sociali e, di conseguenza, se e quanto la società abbia il diritto di limitare
la libertà degli individui.
24
CAPITOLO II
INDIVIDUALIZZAZIONE E MUTAMENTO SOCIALE
NELLE SOCIETÀ PREMODERNE
1. Omogeneità, differenziazione ed individualizzazione: il problema
delle ‘società semplici’
Per ricostruire – sebbene in modo selettivo – le dimensioni più
significative del processo di individualizzazione e dell’ideologia
individualista che lo ha accompagnato, la teoria sociologica ha, fin dalla
sua fase classica, scelto come punto di partenza le società in cui questi
fenomeni erano completamente assenti: le antiche società tribali.
La caratteristica più rilevante di questo tipo di aggregato sociale è, dal
nostro punto di vista, l’inesistenza di qualunque forma di autopercezione
dei singoli individui come entità separate e relativamente autonome dal
gruppo al quale appartengono. Laurent ha osservato che i componenti di
queste società “non si pensano né si rappresentano come individui singoli
ma agiscono come semplici frammenti dipendenti da un noi”16.
Durkheim ritiene che il fattore determinante per capire questa assenza
di individualizzazione consista nella mancanza di una rilevante divisione
del lavoro. Infatti, tra i membri della tribù non si riscontrano importanti
differenziazioni dei compiti e dei ruoli, se non per quanto riguarda la
distinzione tra attività maschili (caccia, guerra,…) e femminili (raccolta,
cura dei piccoli,…). La sostanziale omogeneità dei componenti del 16 Alain Laurent, op. cit., p. 27.
25
gruppo fa sì che questi si assomiglino sia fisicamente che mentalmente in
modo molto più marcato di quanto non avvenga nelle società moderne,
nelle quali è presente un elevato grado di divisione del lavoro. “Perciò tra
i selvaggi l’originalità non è soltanto rara;” – scrive Durkheim – “per essa
non vi è per così dire nessun margine. Tutti allora ammettono e praticano,
senza discutere, la medesima religione; le sette e le dissidenze sono
ignote: non sarebbero tollerate. […] Numerosissimi e severissimi
regolamenti, per quanto non scritti, tracciano esattamente tutti gli atti
della loro vita”17.
Non essendoci una sufficiente interdipendenza funzionale a tenere
uniti i membri delle società tribali, all’interno di questi aggregati sociali
l’integrazione e la coesione sono garantite da quella che Durkheim
definisce solidarietà meccanica. “Questa solidarietà non consiste soltanto
nell’attaccamento generale e indeterminato dell’individuo al gruppo, ma
rende anche armoniche le singole parti dei movimenti. Infatti, dato che i
corpi collettivi in movimento si trovano ad essere ovunque i medesimi,
essi producono anche dovunque gli stessi effetti. Ogni volta che entrano
in gioco, le volontà si muovono spontaneamente e in perfetto accordo nel
medesimo senso”18. Per essere efficace però, questo tipo di solidarietà
necessita di un potente apparato di diritto repressivo, che sanzioni ogni
tentativo di differenziazione da parte dei singoli al fine di riaffermare la
supremazia dell’identità di gruppo.
Altri autori, come Taylor, hanno cercato di spiegare l’assenza di
individualizzazione ponendo l’accento sull’importanza delle religioni
arcaiche praticate nelle comunità tribali. I rituali sacri, fondamentali a
livello sociale in quanto ritenuti in grado di fornire protezione dai pericoli
e guarigione dalle malattie, erano strutturati in modo da non essere 17 Émile Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Milano, Edizioni di Comunità, 1971, pp. 149 e 151. 18 Ivi, p. 124.
26
praticabili individualmente, ma solo collettivamente sotto forma di
cerimonie comunitarie. Questo produceva una conseguenza molto
rilevante: “siccome le loro azioni più importanti erano opera di interi
gruppi […] essi non potevano concepirsi come potenzialmente separati da
questa matrice sociale”19.
Esiste però un altro aspetto importante riguardo alle pratiche religiose
arcaiche. Non solo il singolo veniva sovrastato dalla collettività, ma il
rapporto con le divinità era sempre indiretto, guidato da agenti
specializzati (sacerdoti, sciamani, stregoni, indovini,…) che fungevano
da intermediari tra queste e il resto della tribù. Tale particolarità appare
rilevante soprattutto perché ci permette di introdurre una seconda
caratteristica fondamentale delle antiche comunità tribali, che avrà poi
ripercussioni di lungo periodo almeno fino all’avvento e al
consolidamento della modernità. Il ruolo cruciale svolto dai sacerdoti li
rendeva indispensabili per i propri gruppi di appartenenza, e la
trasmissione ereditaria di queste funzioni di padre in figlio portò
gradualmente ad una cristallizzazione della struttura sociale, in cui i
membri di alcune specifiche famiglie giunsero a detenere il monopolio
dell’intermediazione con le divinità. Questo fenomeno produsse una
parallela cristallizzazione anche nella gerarchia della ‘società civile’,
perché in queste tribù “la vita religiosa era inestricabilmente connessa alla
vita sociale”20. In tal modo nacquero delle strutture gerarchiche con
almeno tre caratteristiche particolari. La prima consiste nella capacità di
autoriprodursi senza sostanziali trasformazioni delle gerarchie stesse,
derivante in maniera diretta dalla cristallizzazione a cui sopra abbiamo
accennato. La seconda è rappresentata dall’inviolabilità, e cioè
dall’estrema difficoltà – per non dire dall’impossibilità – di mettere in
19 Charles Taylor, Gli immaginari sociali moderni, Roma, Meltemi, 2005, p. 65. 20 Ivi, p. 62.
27
discussione le gerarchie esistenti, provocata in primo luogo dall’origine
religiosa, e quindi in un certo senso sacra, della distinzione dei ruoli
sociali. La terza è una conseguenza immediata delle prime due, e cioè la
preponderanza del criterio ascrittivo nell’assegnazione delle funzioni
all’interno della comunità. Questo ha comportato una fortissima
limitazione della mobilità sociale, ponendo un ulteriore ostacolo alle
possibilità di scelta dei singoli.
Secondo la grande maggioranza degli studiosi, queste caratteristiche
fondamentali rendono le antiche società tribali realtà profondamente
oliste, nelle quali non solo si prepone la collettività agli individui, ma non
si concepisce nemmeno l’esistenza dei secondi in quanto tali. La società
viene qui considerata come un’entità superindividuale, in qualche modo
simile ad un organismo biologico.
Non tutti però sono d’accordo con questa lettura ‘monolitica’ della
struttura delle società tribali. Luhmann, ad esempio, evidenzia come
queste forme di aggregazione non siano prive di differenziazione sociale,
ma caratterizzate da quella che lui definisce differenziazione segmentaria.
Questa “si caratterizza per l’uguaglianza dei sistemi parziali della società,
i quali vengono distinti o sulla base della discendenza o sulla base delle
comunità di abitazione o mediante una combinazione di entrambi i
criteri” [corsivo originale]21. In sostanza, secondo Luhmann le società
tribali sono suddivise in segmenti (famiglie o villaggi) tra loro uguali, ma
ognuno autosufficiente per quanto riguarda i propri bisogni. Una struttura
di questo tipo appare più indicata in condizioni di vita difficili come
quelle delle tribù primitive, perché “in presenza di catastrofi che
minacciano la sopravvivenza, queste forme [i segmenti] possono
ricostituirsi senza difficoltà e ciò costituisce una sorta di garanzia della
21 Niklas Luhmann – Raffaele De Giorgi, Teoria della società, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 255.
28
riproduzione per società che dispongono di limitate capacità di resistenza
e di dominio della natura”22.
Luhmann sottolinea che la comunemente asserita ‘semplicità’ di
queste società è tale soprattutto se considerata dal punto di vista delle
dimensioni e del principio sul quale si fonda la struttura sociale:
l’appartenenza su base parentale e/o territoriale. Tuttavia, a ben vedere,
queste società sviluppano “differenziazioni aggiuntive”23, cioè non
fondamentali, che conferiscono una certa complessità e articolazione di
ruoli e anche di funzioni: “possono essere, per esempio, delle restrizioni
fissate per i matrimoni, oppure possono essere gruppi di età, case per soli
uomini, o altre organizzazioni quasi corporative, o si può trattare anche di
forme istituzionalizzate del trattamento dei conflitti, ma si può trattare
anche di differenziazioni di ruolo, eventualmente di ruoli determinati per
via ereditaria (sacerdote, capo) nell’ambito di determinate famiglie che
erano caratterizzate proprio da questi ruoli. Tali differenziazioni
aggiuntive non producono nessuna trasformazione della struttura
fondamentale della differenziazione segmentaria: esse devono essere
compatibili con quella struttura anche se, comparativamente, rendono il
modello complessivo delle società tribali estremamente complesso”24. È
in relazione a questa sorta di ‘complessità non strutturata’ che in queste
società si elaborano forme di differenziazione tra gruppi, identità e ruoli.
La sfera individuale viene sollecitata da questo reticolo di distinzioni.
L’individuo che ne emerge non si caratterizza per un’esigenza di
soggettività e autenticità, ma per la sua condizione di membro di gruppi
(famiglia, clan, gruppo di caccia, gruppo rituale,…) e
contemporaneamente di ‘non-membro’ di altri gruppi analoghi ai suoi e
facenti parte della stessa società, con i quali può entrare in relazione solo 22 Ivi, p. 261. 23 Ivi, p. 262. 24 Ibidem.
29
in quanto sostenuto dal proprio gruppo. In questo senso le differenze tra
individui della medesima comunità vengono percepite come differenze di
gruppo a cui ciascun individuo può fare riferimento nei rapporti con un
altro membro della sua società.
In seguito, a causa della cristallizzazione delle gerarchie religiose e
civili, che ha prodotto una concentrazione di risorse attorno al luogo dove
sorgeva il tempio, e con l’invenzione della scrittura, che ha facilitato
un’amministrazione centralizzata del territorio, sono nate le prime città.
Le antiche civiltà che le hanno generate hanno dato vita a società non più
segmentarie, ma differenziate secondo la dicotomia centro-periferia, che
ammetteva una disuguaglianza. Infatti il centro, la città, era il fulcro
politico e amministrativo del territorio, mentre la periferia, la campagna
circostante, era adibita alla produzione agricola necessaria al
sostentamento della popolazione.
2. Elementi di individualizzazione e struttura sociale in epoca classica
Il mondo greco, frammentato in una miriade di città-stato in perenne
conflitto tra loro, costituisce un interessante esempio delle caratteristiche
delineate per le società differenziate secondo il criterio centro-periferia. A
livello economico però, ed in un secondo tempo anche sul piano politico,
a partire da V secolo a.C. la struttura di alcune polis cominciò a mutare,
puntando su una maggiore divisione del lavoro e sulla specializzazione
delle funzioni al fine di incrementare la produzione, anche se altre – in
particolare Sparta – continuarono a lungo a mantenere il precedente
assetto.
I primi passi in questa direzione si ebbero, secondo molti studiosi,
nelle colonie della Magna Grecia. Luciano Pellicani, uno dei più decisi
sostenitori di questa tesi, nel suo lavoro intitolato Dalla società chiusa
30
alla società aperta fa notare come questo fenomeno si sia manifestato
inizialmente nelle colonie “poiché è lì che il cordone ombelicale che
teneva legati gli elleni alla loro comunità ancestrale si era rotto in modo
irrimediabile. Lontani dalla madrepatria, i colonizzatori si liberarono dal
controllo sociale e sfuggirono alla impersonale e onnipotente tirannia dei
mores”25.
Per quanto riguarda questo aspetto, va sottolineato innanzitutto che la
distanza favoriva la concessione di una maggiore autonomia decisionale
ai nuovi insediamenti, visti i rudimentali e lenti mezzi di comunicazione
disponibili. Inoltre, la struttura gerarchica delle colonie era più labile, a
causa della parziale subordinazione alle città d’origine e alla conseguente
assenza di una propria tradizione consolidata e di figure sacerdotali e
politiche di particolare rilevanza. Infine, per i coloni la mobilità sociale e
le possibilità di ascesa erano certamente maggiori di quelle offerte dalle
polis originarie. Tutto ciò permise ai singoli individui di ritagliarsi un
proprio spazio di autonomia, per quanto esiguo, dalle comunità
d’appartenenza.
Insieme a questo elemento di carattere geografico-spaziale, Pellicani
ne sottolinea un secondo, strettamente correlato, che consiste nello
sviluppo della navigazione e del commercio. Nell’economia delle colonie
lo scambio di prodotti con la madrepatria rivestiva un’importanza
fondamentale. Questo rendeva necessario un flusso di relazioni continuo,
e portò all’aumento della rilevanza numerica (e quindi sociale) di due
figure che sono per definizione più autonome e libere da vincoli rispetto
ai contadini: il mercante e il marinaio. Nel primo caso l’autonomia è
sviluppata nel perseguimento del proprio interesse, scegliendo i prodotti
da commerciare e coloro con i quali effettuare gli scambi secondo criteri
25 Luciano Pellicani, Dalla società chiusa alla società aperta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, p. 151.
31
di convenienza, all’interno di una prima rudimentale forma di mercato.
Nel secondo caso invece, ma in misura minore anche nel primo, la libertà
sta nella mobilità infinitamente maggiore rispetto a chi lavora nei campi,
che permette di sottrarsi parzialmente al controllo dei vertici della
struttura gerarchica.
Comunque sia, ben presto anche Atene giunse ad avere una struttura
economica fortemente basata sugli scambi26, con tutte le conseguenze in
termini di perdita di controllo su una parte della società che questo nuovo
modello economico comportava. L’antica oligarchia si indebolì a tal
punto da essere sostituita nell’attività di indirizzo politico della città da un
sistema democratico27.
È noto che questo contesto di generale apertura della società greca, ed
in particolare di quella ateniese, abbia rappresentato l’humus sociale
necessario allo sviluppo di un passaggio fondamentale nella storia del
processo di individualizzazione: la nascita della coscienza individuale.
In realtà non si è trattato di un caso isolato, ma di una scoperta
avvenuta quasi contemporaneamente in almeno tre aree del mondo,
delineando un arco temporale che Karl Jaspers ha definito ‘periodo
assiale’, il quale si estende dall’800 al 200 a.C. e ha avuto il suo apice
intorno al 500 a.C.. È in questo periodo che, tanto in Occidente quanto in
India e in Cina, “l’uomo prende coscienza dell’essere nella sua interezza,
di se stesso e dei suoi limiti. […] Pone domande radicali. […]
Comprendendo coscientemente i suoi limiti si propone gli obiettivi più
alti. Incontra l’assolutezza nella profondità dell’essere-se-stesso e nella
26 La nuova struttura economica ateniese venne favorita anche dalla graduale espansione del territorio controllato e dalla presenza nel sottosuolo cittadino di risorse minerarie come l’argento. 27 Ovviamente, il termine ‘democratico’ viene qui usato, con tutte le riserve del caso, non nella sua accezione moderna, ma per definire una gestione della res publica allargata ad alcune migliaia di persone, in contrapposizione al regime oligarchico, nel quale il potere è in mano a poche decine di individui.
32
chiarezza della trascendenza”28. Pur non dando nessuna spiegazione che
chiarisca le ragioni di questa contemporaneità, Jaspers osserva come nel
giro di pochi decenni siano comparsi personaggi come Confucio in Cina,
Gotama (Buddha) in India, i profeti in Israele e – ciò che in questo
momento più ci interessa – Socrate in Grecia.
Il grande filosofo ateniese è stato colui che per primo in Occidente ha
teorizzato l’esistenza di una coscienza individuale. In primo luogo il suo
‘conosci te stesso’ ha evidenziato l’esistenza di un’interiorità personale,
che verrà poi ripresa dagli stoici e dagli autori cristiani. Inoltre, con la
distinzione critica tra il logos (la coscienza) e la doxa (l’opinione
comune), ha proposto un modello alternativo alla cosiddetta ‘società della
vergogna’, in cui l’obiettivo primario era il raggiungimento della fama,
contrapponendole uno stile di vita che ambiva all’integrità e al
perfezionamento morali.
Dopo Socrate molti altri filosofi greci e poi romani evidenzieranno
l’importanza della coscienza e dell’interiorità individuali, giungendo
addirittura in alcuni casi, come faranno ad esempio Diogene ed Epicuro, a
predicare l’autosufficienza morale interiore. Tutto ciò induce a ritenere
che in queste ultime posizioni sia riscontrabile una prima tenue ed elitaria
forma di individualismo etico.
Tuttavia, questa nuova concezione dell’individuo è sociologicamente
significativa soprattutto perché accanto al concetto di coscienza si
sviluppano nuove realtà, come l’idea di poter intrattenere un rapporto
diretto, e non più mediato, con le divinità, che fa sì che agli antichi rituali
collettivi se ne affianchino altri praticabili individualmente, anche se la
loro diffusione rimane limitata ad una ristretta minoranza di iniziati.
28 Karl Jaspers, Origine e senso della storia, Milano, Edizioni di Comunità, 1972, p. 20.
33
Questa élite mostra i tratti di quelli che Louis Dumont ha definito
‘individui-fuori-dal-mondo’29, e cioè individui che intraprendono una
strada spirituale diversa e spesso in contrasto con quella del gruppo
d’origine, e per i quali “l’allontanamento dal mondo sociale è il requisito
indispensabile per lo sviluppo spirituale individuale”30. Non a caso molte
scuole, come ad esempio quella stoica, predicano un distacco totale da
tutto ciò che è terreno, al fine di essere il più possibile autosufficienti,
persino sul piano affettivo.
In breve, in questo periodo vengono compiuti alcuni fondamentali
passi in avanti nel processo di individualizzazione a livello teorico, ma la
loro applicazione rimane limitata ad una ristretta minoranza di individui,
mentre le società continuano ad essere fortemente oliste, anche se non più
in modo coerente e quasi totale come lo erano le antiche società tribali
che le avevano precedute. Insomma, il seme dell’individualismo era stato
gettato, anche se i frutti più rilevanti a livello sociale si sarebbero resi
visibili solo dopo più di un millennio.
Conseguenze sociali decisamente più concrete e immediate ha avuto
lo sviluppo nella società romana di un imponente apparato di diritto
privato e contrattuale. Si tratta di un tipo di diritto che caratterizza società
più complesse, articolate e in cui la divisione del lavoro è maggiore
rispetto a quelle primitive. L’obiettivo di queste norme, a differenza di
quelle di carattere repressivo, non è più l’espiazione, ma la semplice
riparazione del torto subito e il recupero del reo, al fine di ristabilire
l’armonia tra le funzioni sociali. Durkheim ha definito questo tipo di
solidarietà organica, ritenendola tipica delle società la cui struttura è
simile a quella degli animali superiori: “Ogni loro organo ha infatti la sua
29 Cfr. Louis Dumont, Saggi sull’individualismo – Una prospettiva antropologica sull’ideologia moderna, Milano, Adelphi, 1993, p. 42. 30 Louis Dumont, op. cit., p. 43.
34
fisionomia specifica e la sua autonomia; tuttavia l’unità dell’organismo è
tanto maggiore quanto più accentuata è l’individuazione delle parti”31.
L’introduzione di questo tipo di diritto permette ai singoli di meglio
tutelare i propri interessi che, pur essendo necessari per il buon
funzionamento dell’organismo sociale, rimangono individuali,
rafforzando l’idea di difesa dell’interesse personale e della proprietà
privata.
3. Uguaglianza e interiorità nel concetto cristiano di individuo
Con l’avvento del cristianesimo sono state introdotte innovazioni di
grande rilievo sul piano della concezione ontologica dell’essere umano,
che a loro volta hanno agito sul processo di individualizzazione.
Nel suo importante lavoro dedicato all’individuo, Lukes ha
sottolineato come la più importante di queste innovazioni stesse nel
“supremo e intrinseco valore, o dignità, dell’essere umano individuale”
[traduzione mia]32. Tra i principi fondanti trasmessi da Gesù c’era infatti,
per la prima volta nella storia dell’umanità, l’idea che i singoli individui
avessero una dignità propria, in quanto figli dello stesso Padre divino.
Questo radicale cambiamento avrebbe però difficilmente visto la luce
senza l’apporto del monoteismo ebraico, che nei secoli precedenti si era
arricchito delle premesse filosofiche di cui abbiamo parlato, ed in
particolare dello sviluppo dell’idea di coscienza33.
Accanto a questo, un altro presupposto per il conferimento della
dignità al singolo essere umano era – secondo Lukes – la possibilità per
l’individuo di intrattenere un rapporto diretto con Dio attraverso la 31 Émile Durkheim, op. cit., p. 146. 32 “supreme and intrinsic value, or dignity, of the individual human being”, Steven Lukes, op. cit., p. 51. 33 In questo senso si parla di ellenizzazione dell’ebraismo, soprattutto dopo la conquista della Palestina da parte di Alessandro Magno nel IV secolo a.C..
35
preghiera individuale, divenuta colloquio filiale. Anche se, come
accennato, questa pratica era in parte già stata introdotta negli ultimi
secoli dell’era precristiana, la nuova religione le conferì un peso senza
precedenti.
Un altro aspetto fondamentale per il processo di individualizzazione,
strettamente correlato al nuovo valore attribuito a tutti gli esseri umani,
era rappresentato dalla teorizzazione di una loro uguaglianza di fronte a
Dio, che metteva sullo stesso piano l’imperatore e l’ultimo degli schiavi,
sempre in forza della comune paternità divina. L’effetto di tutto ciò era la
messa in discussione della legittimazione soprannaturale della struttura
gerarchica della società, a partire dalla divinizzazione degli imperatori. Il
terremoto sociale che ne sarebbe potuto scaturire, e che in parte ne
scaturì, spiega in misura preponderante il motivo per cui una società in
genere molto tollerante sul piano religioso come quella romana abbia
perseguitato in modo tanto feroce i primi cristiani.
Dopo aver sottolineato le caratteristiche dal nostro punto di vista più
interessanti della religione cristiana, può essere rilevante accennare al
ruolo assunto dalla Chiesa come istituzione. Prima però è necessario
porre l’accento sull’importanza della distinzione tra religione cristiana e
Chiesa come istituzione, soprattutto perché su alcuni temi la seconda si è
discostata dalla prima in modo abbastanza marcato.
Fino alla fine del IV secolo d.C. l’istituzione ecclesiastica, ancora
poco consolidata e gerarchicamente strutturata, si era occupata
esclusivamente di questioni extra-mondane. Dopo che il cristianesimo
divenne religione di stato però, anche la Chiesa fu suo malgrado
trascinata entro problematiche secolari, venendo chiamata a chiarire come
dovesse essere uno stato cristiano.
Gradualmente, nel corso dei secoli, la Chiesa estese la propria
influenza alle questioni mondane, e soprattutto a quelle politiche. Questo
36
fatto, insieme alla crescente gerarchizzazione dell’istituzione
ecclesiastica, portò ad un allontanamento nella realtà da ciò che predicava
il messaggio di Cristo, anche se, come ricorda Otto Brunner nel suo
celebre lavoro sulla Storia sociale dell’Europa nel Medioevo, “si viveva
nella chiesa e nel mondo in due sfere distinte, per quanto strettamente
legate fra di loro. Infatti anche il laico apparteneva alla chiesa ed il
chierico non era in grado di mantenersi senza un possesso mondano. Ma i
vertici rimanevano separati, con conseguenze che si ripercuotevano anche
verso il basso”34. Nella nostra prospettiva è importante notare che tutto
ciò produsse nel Medioevo società chiuse e strutturate secondo una rigida
architettura piramidale che lasciava ben poca libertà ai singoli individui e
veniva giustificata per mezzo della volontà divina. Insomma, i nuovi
valori introdotti grazie al cristianesimo non poterono svilupparsi in tutte
le loro potenzialità all’interno delle società medievali.
4. L’individualizzazione come possibilità di ceto nello sviluppo della
società stratificata medievale
Nel corso del Medioevo le società erano strutturate secondo quella
che Luhmann ha definito differenziazione stratificatoria, caratterizzata da
una “disuguaglianza di rango dei sistemi parziali”35. In sostanza, queste
comunità si contraddistinguevano per una netta divisione, poi resa più
articolata per mezzo di numerose suddivisioni secondarie, in due strati
sociali fondamentali: il ceto nobiliare, dotato di dignitas, e il resto del
popolo, senza dignitas. Un assetto di questo tipo negava nella sua essenza
l’idea di uguaglianza di tutti gli uomini in dignità teorizzata da Gesù.
34 Otto Brunner, Storia sociale dell’Europa nel Medioevo, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 47-48. 35 Niklas Luhmann, op. cit., p. 256.
37
Riguardo all’origine di questo nuovo genere di differenziazione,
Luhmann afferma che “la stratificazione non nasce per la scomposizione
di un tutto in parti come di solito viene rappresentato questo processo, ma
per la differenziazione e la chiusura dello strato superiore […] [che] […]
avviene essenzialmente attraverso l’endogamia […] [e] […] fissa
inclusioni ed esclusioni”36.
Rispetto a tale questione, Brunner indica una spiegazione che
possiamo considerare complementare a quella di Luhmann, ma che
prende le mosse da una prospettiva diversa. Per lo storico tedesco, ciò che
ha prodotto una struttura sociale chiusa e stratificata è il fatto che il diritto
fosse in buona misura arbitrario, e che in genere prevalessero le ragioni
del più forte. Così “l’intera struttura sociale venne determinata dal
rapporto fra protezione ed aiuto, dalla protezione che i ‘forti’ fornivano ai
‘deboli’, alla ‘povera gente’, la quale non era in grado di proteggersi da
sola, e dall’aiuto che costoro erano tenuti a prestare ai loro protettori”37.
Si tratta di quella complementarietà gerarchica che vedeva, accanto agli
oratores, i bellatores e i laboratores. Ci si potrebbe però chiedere: perché
non è emerso subito un sovrano militarmente abbastanza forte da
garantire da solo la protezione di tutti i suoi sudditi? In realtà – osserva
Brunner – il mantenimento di un solido esercito permanente alle
dipendenze della casa reale sarebbe stato troppo oneroso da un punto di
vista finanziario, soprattutto perché “in una società prevalentemente
rurale con deboli rapporti di mercato e con una ridotta circolazione
monetaria non sarebbe stato possibile raccogliere imposte in quantità
sufficiente per finanziare un esercito”38. Se a ciò si aggiunge la graduale
ma inarrestabile crescita dell’importanza strategico-militare della fugura
del cavaliere corazzato, il cui equipaggiamento era particolarmente 36 Ivi, p. 282. 37 Otto Brunner, op. cit., p. 54. 38 Ivi, p. 77.
38
costoso, si può concludere che “il mantenimento di gruppi consistenti di
guerrieri di questo tipo era possibile solo a condizione di dotarli di terre
in modo da renderli economicamente indipendenti e da consentire loro di
equipaggiarsi da soli”39. Nel corso del tempo, il conferimento di queste
terre ai cavalieri-nobili venne regolamentato e istituzionalizzato, facendo
sì che il servizio e la fedeltà di questi vassalli nei confronti del sovrano
rappresentassero le basi giuridiche per la concessione della terra e dando
così vita al sistema feudale. In seguito, i vassalli si dotarono di sub-
vassalli, utilizzando lo stesso meccanismo sopra esposto. La coesione e la
solidarietà tra nobili venneno rafforzate anche attraverso la creazione di
un ethos signorile comune, incentrato sull’immagine del miles christianus
e sul concetto di ‘dignità cavalleresca’, che si ispirava a valori come
giustizia, prudenza, fortezza e temperanza. È certamente significativo il
fatto che tra questi ideali non comparisse l’uguaglianza tanto cara alla
dottrina cristiana; e non avrebbe potuto essere altrimenti, perché anche in
questo ethos si rispecchiava una struttura sociale che mirava soprattutto a
stabilire un confine invalicabile tra chi possedeva la dignitas e chi ne era
privo.
Si venne così a creare una stratificazione sociale molto articolata e
complessa, in cui continuò però a prevalere quello che Taylor chiama
“ordine morale premoderno”40. Secondo lo studioso canadese,
quest’ordine aveva due varianti principali. La prima verteva sull’idea di
sacralità delle tradizioni ed in particolare di una Legge che governava un
popolo da tempo immemorabile. Il carattere giurisdizionale della
legittimazione dell’autorità la vincolava indissolubilmente alla tradizione,
e molto spesso nemmeno i re “erano in grado di decidere da soli, in caso
di dubbio, dove fosse il diritto, in quanto questo diritto era un
39 Ivi, p. 74. 40 Charles Taylor, op. cit., p. 26.
39
ordinamento su base sacrale, al quale rimaneva subordinato lo stesso
sovrano”41. La seconda variante era invece contraddistinta da una
“nozione di gerarchia sociale che esprime e corrisponde a una gerarchia
cosmica”42. La struttura gerarchica vigente appariva così come l’ordine
naturale delle cose, e in questo senso va sottolineata la contraddizione
esistente tra l’idea di una gerarchia cosmica e l’uguaglianza formale
riconosciuta dal cristianesimo a tutti gli esseri umani.
Questa concezione del mondo, tipicamente olista, dava vita alla
cosiddetta ‘complementarietà gerarchica’, e cioè ad una condizione per
cui ogni membro della società era legato indissolubilmente agli altri da un
vincolo di dipendenza che andava dai più poveri fino al re stesso, secondo
un legame efficacemente rappresentato dall’immagine della “Grande
Catena dell’Essere”43. A tale proposito abbondavano le metafore che
equiparavano il re al leone o all’aquila tra gli animali, come testimoniato
anche dall’araldica. Uno dei migliori esempi in questo senso è un passo
del Macbeth di Shakespeare, in cui per illustrare quanto l’assassinio di un
re fosse un atto contro natura nel periodo in cui si ambienta la tragedia, un
personaggio parla della notte dell’omicidio di Duncan come di una notte
particolarmente burrascosa, con “strane grida di morte”, e un altro,
riferendosi a inquietanti fenomeni naturali avvenuti il mattino seguente,
come un ritardo nel sorgere del sole, dice: “È contro le leggi di natura,
come l’azione che è stata commessa. Martedì scorso un falco, mentre
montava in altura, fu germito, e ucciso, da un gufo cacciatore di topi”
[corsivo mio]. Un terzo afferma: “I cavalli di Duncan (cosa molto strana,
e certa) così belli e veloci, i gioielli della loro razza, divennero
improvvisamente d'indole selvaggia, spezzarono le loro sbarre nella
stalla, e si slanciarono fuori, rifiutandosi all'obbedienza, come se 41 Otto Brunner, op. cit., p. 57. 42 Ibidem. 43 Charles Taylor, Il disagio della modernità, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 99.
40
volessero far guerra al genere umano”. Infine un quarto aggiunge di aver
sentito che i cavalli si stessero divorando tra loro44. Tutto ciò sembra
testimoniare una ribellione della natura stessa di fronte ad un atto a lei
tanto contrario.
Dopo aver accennato, sebbene per sommi capi, a quelle che dal nostro
punto di vista sono alcune tra le caratteristiche più rilevanti delle società
medievali, va sottolineato che, nonostante la loro struttura sia ancora
fortemente premoderna e olista, anche in esse c’erano dei luoghi, i
monasteri, in cui il processo di individualizzazione si trovava ad uno
stadio decisamente più avanzato. A differenza del popolo, che per
relazionarsi a Dio prendeva parte a cerimonie collettive non lontane da
quelle tribali, in cui il contatto con il divino era mediato dai sacerdoti, i
monaci praticavano forme di preghiera individuali, che consentivano loro
di rapportarsi a Dio in modo diretto e personale. Il presupposto
imprescindibile rimaneva però la rinuncia ad ogni legame con la vita
terrena e il ritiro nei conventi, dove si sviluppavano delle comunità di
individui-fuori-dal-mondo.
5. Individualizzazione e sviluppo urbano come prodromi della
modernità
Nel corso del Basso Medioevo vari elementi di novità hanno influito
sul processo di individualizzazione, ma tra questi uno dei più rilevanti è
certamente la nascita delle prime città in senso moderno, soprattutto in
Italia e in Germania.
Quando si parla di città, si fa in questo caso generalmente riferimento
al tipo ideale delle città italiane, politicamente autonome e strutturate
44 Tutte le citazioni riportate sono tratte da William Shakespeare, Macbeth, in Tutte le opere, Firenze, Sansoni, 1973; II, iii, p. 955 e II, iv, p. 956.
41
secondo principi corporativi. L’indipendenza politica era stata spesso
raggiunta per mezzo di “un’usurpazione rivoluzionaria, se considerata da
un punto di vista giuridico-formale”45, messa in atto dalla comunità
cittadina nei confronti dei poteri che fino ad allora si erano contesi il
controllo del territorio, e cioè signori feudali e nobili in genere, nonché
alti prelati. La chiave per comprendere questa vittoria degli abitanti della
città sta nella loro superiorità in armamenti, legata al principio di
autoequipaggiamento dell’esercito, che li rendeva militarmente
indipendenti.
Secondo Weber, accanto alla città aristocratica, in cui le cariche
politiche erano assegnate secondo criteri ereditari o comunque legati alla
discendenza familiare, da queste lotte nacque la cosiddetta ‘città plebea’.
“In senso economico, il popolo si componeva di elementi assai diversi
[…] e soprattutto di imprenditori da un lato e di artigiani dall’altro. I
primi ebbero all’inizio la direzione nella lotta contro le schiatte
cavalleresche. Furono essi a creare e a finanziare l’affratellamento giurato
contro le schiatte, mentre le corporazioni industriali fornivano le masse
necessarie per la lotta”46. Appare evidente come questo passaggio,
accompagnato da un sensibile aumento della mobilità sociale, abbia
favorito il processo di individualizzazione.
Oltre a queste spiegazioni di carattere politico, ne vanno evidenziate
anche alcune legate alla sfera economica, ed in particolare al mercato.
Quest’istituzione, tipicamente cittadina, grazie alle retribuzioni in denaro
e non più in beni alimentari e di consumo, dava alla servitù una maggiore
libertà di scelta. Inoltre il diritto del suolo urbano, a differenza di quanto
avveniva in campagna, permetteva che i terreni fossero acquistati e
venduti, divenendo uno strumento di credito e acquisendo un valore
45 Max Weber, Economia e società, Milano, Edizioni di Comunità, 1961, vol. II, p. 577. 46 Ivi, vol. II, p. 618-619.
42
monetario. Tali norme favorirono la comparsa di nuove figure sociali,
come imprenditori e banchieri, che accentuarono il carattere mercantile
della città.
Sarebbe tuttavia ingenuo pensare ad una dinamica di sviluppo lineare
per fenomeni di questo tipo. A tale proposito un aspetto importante,
anche se decisamente contrario al processo di individualizzazione, era
dato dal potere di cui godevano le corporazioni degli artigiani e le
associazioni dei commercianti. Infatti, se da una parte esse non erano
caratterizzate unicamente da criteri di selezione ereditari, dall’altra
costituivano gruppi chiusi, che limitavano la libertà d’azione degli
individui. Ciò rendeva più complesso il ‘gioco’ delle relazioni tra
individuo e società. In questo senso si viene a creare un singolare quanto
importante equilibrio perché, come ha osservato Bettin, “il monopolio del
mestiere ha come contropartita l’eliminazione dell’iniziativa non
controllata dalla comunità: si attua così una felice e mai ripetuta sintesi
tra individuo e società; la stabilità della produzione è la condizione
dell’equilibrio comunitario”47.
In generale, si può affermare che la somma di tutte queste
caratteristiche, alle quali va aggiunta la crescente complessità della vita
sociale delle città, abbia prodotto una sorta di rottura dei vincoli sociali
precedenti, portando ad un’accelerazione del processo di emancipazione
individuale. Dal nostro punto di vista è fondamentale l’affermazione di
Weber secondo cui “i gruppi parentali persero ben presto ogni importanza
come elementi costitutivi della città. Questa divenne una confederazione
di singoli cittadini” [corsivo mio]48.
47 Gianfranco Bettin, I sociologi della città, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 49. 48 Max Weber, op. cit., vol. II, p. 570.
43
6. Individualizzazione ‘profana’ e individualizzazione religiosa tra
Rinascimento e Riforma
Proprio all’interno delle città medievali, e anzi prevalentemente
grazie a queste, si è sviluppato quel complesso insieme di fenomeni
culturali e sociali che chiamiamo Rinascimento e che, sebbene abbia
avuto un’estensione geografica e temporale abbastanza limitata, ha svolto
un ruolo centrale nella presa di coscienza da parte degli individui del
proprio valore intrinseco, influenzando molte dottrine e percezioni
ontologiche dell’uomo europeo nei secoli successivi.
Come è noto, la definizione dei confini e delle forme specifiche del
Rinascimento è da tempo al centro di vivaci discussioni. Molti storici
ottocenteschi, soprattutto di cultura tedesca e fortemente influenzati dal
pensiero romantico, ne hanno creato un’immagine che gli studiosi
tendono oggi a considerare distorta. Lo storico svizzero Jacob Burckhardt
è probabilmente colui che più di tutti ha contribuito alla produzione di
quest’immagine. In essa è forte il contrasto metaforicamente cromatico
tra uno sfondo costituito da un passato medievale buio, cupo, privo di
elementi innovativi, e un soggetto in primo piano, il Rinascimento
italiano, luminoso, raggiante, pieno di energia creativa e ricco di
personalità straordinarie. Ciò che avrebbe permesso questo mutamento
sarebbe stato – sempre secondo Burckhardt – il crescente individualismo,
liberatore delle potenzialità umane dai vincoli comunitari precedenti.
Secondo Peter Burke “quest’idea del Rinascimento è un mito”
[corsivo mio]49, e riguardo alle contrapposizioni così nette evidenziate tra
Medioevo e Rinascimento lo storico inglese afferma: “tali contrasti sono
ritenuti un’esagerazione, che ignora […] le numerose innovazioni che
49 Peter Burke, Il Rinascimento, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 8.
44
furono compiute nel corso del Medioevo”50. Insomma, secondo questa
tesi la transizione è stata molto più complessa e articolata. Per rimanere
all’interno della nostra metafora, si potrebbe dire che il confine tra i colori
dello sfondo e quelli in primo piano diventa in questo modo molto più
sfumato.
A ben guardare, Burke non ritiene che il concetto di Rinascimento
debba essere eliminato, ma rivisto alla luce di una certa continuità rispetto
al periodo precedente. La sua posizione consiste nel porre l’accento non
su un crescente individualismo della cui esistenza mancano – a suo
avviso – le prove storiche, ma sull’importanza della riscoperta della
classicità greco-romana avvenuta a partire dal XV secolo. Evidenziando
questi aspetti appare più comprensibile il motivo per cui il Rinascimento
è stato suprattutto, anche se non unicamente, un fenomeno concentrato
nelle città italiane. La spiegazione starebbe nella forte somiglianza
politica e strutturale esistente tra la polis greca e la città medievale
italiana. Entrambe erano infatti contraddistinte dall’essere autonome e
inserite in un contesto fortemente frammentato. “Il nesso fra
indipendenza e identificazione con l’antichità è […] chiaro”51.
La prospettiva di Burke ci consente di sottolineare il carattere
individualizzante dei fenomeni socio-culturali etichettati come
‘Rinascimento’. Tale influenza è stata indiretta, perché passata non
attraverso dei cambiamenti sostanziali nella vita dei singoli, ma attraverso
il rafforzamento di una delle dottrine individualiste, cioè di quella che
afferma l’uguaglianza in dignità di tutti gli esseri umani. Tutto ciò è stato
possibile grazie alla rivalutazione in chiave cristiana dei principi filosofici
classici di cui si è precedentemente parlato. L’esempio più celebre di
questa corrente di pensiero è forse dato da Pico della Mirandola che, non
50 Ibidem. 51 Ivi, p. 41.
45
a caso, viene considerato molto vicino alle idee di Platone, e la cui lotta a
favore del riconoscimento della dignità insita nell’uomo può essere
testimoniata dal titolo della sua opera Oratio de hominis dignitate.
Accanto agli aspetti sociali, economici e culturali appena delineati,
all’inizio del XVI secolo si sviluppò un altro fenomeno, che impresse una
netta accelerazione al processo di individualizzazione. Si tratta della
Riforma protestante, il cui inizio si fa per convenzione risalire
all’affissione da parte di Martin Lutero delle sue 95 tesi sulla porta della
cattedrale di Wittenberg nell’ottobre del 1517. La sua incubazione ebbe
luogo principalmente nelle città, a causa della maggiore libertà
individuale dei loro abitanti.
L’insieme delle novità per noi rilevanti introdotte per mezzo della
Riforma viene definito individualismo religioso, e poggia sull’idea
dell’autonomia spirituale di ogni singolo essere umano. Da tale assioma
discende l’estensione a tutto il popolo della possibilità di relazionarsi
direttamente a Dio. Questo passaggio trasformò i sacerdoti da veri e
propri intermediari in semplici guide, collocate sullo stesso piano
spirituale del resto dei fedeli e prive delle complesse gerarchie
istituzionali cattoliche.
I metodi di preghiera individuali, la cui pratica era rimasta rinchiusa
fino ad allora quasi esclusivamente all’interno dei monasteri, si diffusero
tra la popolazione. La lettura individuale della Bibbia e soprattutto la sua
interpretazione personale vennero fortemente incoraggiate – o addirittura
imposte come obbligo morale – dai riformatori, il cui intento venne
favorito anche dalla recente invenzione della stampa. Inoltre, il principio
dell’autonomia spirituale degli individui produsse come conseguenza la
richiesta da parte di molte chiese protestanti di un’adesione personale e
consapevole da parte dei singoli fedeli.
46
Un altro aspetto importante del nuovo rapporto con Dio stava nella
trasformazione dei fedeli in soggetti direttamente responsabili della
propria salvezza eterna, almeno per quanto riguarda la concezione
luterana della questione52.
Il nuovo individualismo religioso operò quello che Dumont ha
sintetizzato come passaggio dall’individuo-fuori-dal-mondo
all’individuo-nel-mondo53. Ciò che prima era relegato nei monasteri e
richiedeva una rinuncia totale ai legami terreni ora si poteva estendere a
tutta la società, conquistando per la prima volta anche la sfera mondana
dell’esistenza. In realtà, già nel corso del Medioevo alcune voci dissidenti
avevano auspicato una Chiesa più presente nel mondo. La più celebre di
esse fu certamente quella di Francesco di Assisi, che allo stile di vita
monastico, incentrato – come abbiamo visto – sull’isolamento
contemplativo all’interno dei conventi, ne contrappose uno più attivo sul
piano sociale e strutturato attorno all’idea di agire nella società per aiutare
i poveri e i bisognosi. In chiave sociologica, il movimento avviato da
Francesco segna una rilevante discontinuità nel rapporto tra agire
religioso e individuo. È in questa chiave che Weber ha sottolineato come
“il terzo ordine di san Francesco fu un possente tentativo nel senso di una
compenetrazione ascetica nella vita quotidiana”54. Ciò che
contraddistingueva questi ordini era però il fatto che la loro azione
riformatrice avveniva all’interno di una ‘cornice’ di regole definita dalla
Chiesa cattolica, e non al di fuori di essa.
Secondo Dumont, il compimento di questa transizione dell’individuo
‘nel mondo’ non fu attuata tanto da Lutero, quanto da Calvino e dai suoi
52 I calvinisti invece credevano nella predestinazione, e ritenevano, come si vedrà più dettagliatamente in seguito, che la salvezza o la dannazione eterna non dipendessero dal comportamento individuale, ma fossero decise da Dio secondo logiche che gli uomini non potevano comprendere. 53 Cfr. Louis Dumont, op. cit., p. 77. 54 Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Milano, Rizzoli, 2006, p. 181.
47
seguaci55. Infatti, come magistralmente illustrato da Weber nel suo lavoro
sul rapporto tra l’etica protestante e lo spirito del capitalismo, la definitiva
giustificazione morale dell’agire mondano, soprattutto in campo
economico, derivò principalmente dalla formulazione ad opera di Calvino
della dottrina della predestinazione. Secondo questa concezione, la
salvezza non poteva essere acquisita né per mezzo di ‘opere buone’, come
per i cattolici, né in forza del pentimento per i peccati commessi e con la
contrizione, come per i luterani. Il suo conseguimento dipendeva solo
dalla volontà di Dio, che, attraverso la selezione, incomprensibile
all’intelletto umano e facente parte dei suoi disegni divini, celebrava la
propria “autoglorificazione”56. E “poiché i decreti di Dio sono
immutabili, la sua grazia non può essere perduta da coloro a cui la
elargisce, né conseguita da quelli a cui la nega”57. Questa concezione
sottintendeva l’idea secondo cui il mondo era votato esclusivamente
all’autoglorificazione di Dio: “il cristiano eletto esiste allo scopo e solo
allo scopo di accrescere la gloria di Dio nel mondo, per parte sua,
eseguendo i suoi comandamenti”58. A differenza di Lutero, Calvino
fornisce così una giustificazione anche all’accumulazione di ricchezze,
perché se quella è la volontà di Dio, colui che si arricchisce non fa che il
suo dovere dandole attuazione. Ciò che è deplorevole è invece l’ozio a cui
l’abbondanza di beni può portare. Infatti, proprio perché la ricchezza
terrena ha l’unico scopo di glorificare il Signore, l’individuo ha il dovere
di continuare ad accumularne senza sosta e soprattutto senza goderne
personalmente. Gradualmente, i calvinisti giunsero a ritenere che
un’attività lavorativa incessante e l’accumulazione di capitali fossero gli
unici indicatori certi della propria beatitudine.
55 Louis Dumont, op. cit., pp. 76-85. 56 Max Weber, op. cit., p. 164. 57 Ivi, p. 165. 58 Ivi, p. 169.
48
Da questa concezione del mondo scaturì una condotta di vita ascetica,
in cui Weber vedeva il vero spirito del capitalismo. Questa condotta di
vita impone agli individui di agire nel mondo in modo coerente e
sistematico al fine di accumulare la maggior quantità possibile di capitali,
ma allo stesso tempo di condurre un’esistenza austera e priva di ogni
sorta di lusso e soprattutto di ostentazione. L’obiettivo non era il profitto
per mezzo del quale giungere ad un secondo fine, ma il profitto fine a se
stesso e da reinvestire all’infinito nell’impresa. In questo senso, il proprio
lavoro non andava visto come un semplice mezzo, ma come un Beruf,
cioè come attività di per sé dotata di senso e come vocazione, che dava
vita ad un ethos professionale consistente nella “convinzione che
l’adempimento del proprio dovere nell’ambito delle professioni mondane
fosse il contenuto supremo che potesse mai assumere la realizzazione
della propria persona morale”59. In questo senso si può parlare, dal nostro
punto di vista, di un’individualizzazione morale relativa alla propria
condotta di vita.
Come in parte già anticipato, un’impostazione di questo tipo, se da un
lato “agì violentemente contro il godimento spensierato del possesso, [e]
restrinse il consumo, specialmente il consumo di lusso”, dall’altro ebbe
“l’effetto psicologico di liberare l’attività lucrativa dalle inibizioni
dell’etica tradizionalistica, [e] spezzò le catene che avvincevano la ricerca
del guadagno, in quanto non solo la legalizzò, ma ritenne fosse voluta
direttamente da Dio”60. Secondo Weber, lo spirito del capitalismo
consisteva proprio in questa visione del mondo, e non nella semplice
avidità di guadagni, che si può riscontrare in ogni tempo e luogo.
L’influenza sull’economia capitalistica fu dovuta al fatto che un tale
spirito – un tale ethos professionale – permise al nuovo sistema
59 Ivi, p. 102. 60 Ivi, pp. 229-230.
49
economico di radicarsi più velocemente e saldamente nelle società
protestanti, ed in particolare in quelle calviniste. Questo è stato il grande
contributo dell’etica protestante allo sviluppo del capitalismo nelle sue
fasi iniziali. Oggi invece, come ammetteva lo stesso Weber già all’inizio
del Novecento, dell’influenza diretta di questo spirito non rimangono che
flebili tracce, ma una volta che l’ordine economico capitalistico è
diventato dominante, esso ha imposto agli imprenditori, anche se non più
animati dal fervore calvinista, di continuare a reinvestire i propri profitti,
perché la concorrenza – vero cuore del sistema – opera una sorta di
selezione che elimina le imprese obsolete e meno competitive. In questo
senso, “il puritano volle essere un professionista, noi lo dobbiamo essere”
[corsivo originale]61.
L’ethos professionale di cui si è parlato prende forma in connessione
con lo sviluppo di una stratificazione sociale tipica di un sistema
capitalistico. Da una parte infatti ha contribuito a creare lo spirito
borghese della classe imprenditoriale: “con la coscienza di godere
pienamente della grazia di Dio e di essere visibilmente benedetto da lui, il
borghese poteva perseguire i suoi interessi lucrativi – e anzi doveva farlo
– a condizione di mantenersi entro i limiti della correttezza formale, di
vivere in una maniera eticamente ineccepibile, e di non fare un uso
scandaloso delle proprie ricchezze” [corsivo originale]62. Dall’altra parte
va però evidenziato come abbia agito anche sulla classe operaia. Infatti,
un’economia capitalistica può reggersi solo sulla presenza, sul mercato
del lavoro libero, di operai qualificati in grado di far funzionare macchine
sempre più complesse, e in questo senso l’etica calvinista “metteva a […]
61 Ivi, p. 239. 62 Ivi, p. 235.
50
disposizione operai sobri, coscienziosi, insolitamente efficienti e attaccati
al lavoro, che consideravano lo scopo della vita voluto da Dio”63.
Tornando ai caratteri generali dell’individualismo religioso della
Riforma, si può dire che il suo fondamentale contributo sia qualitativo
che quantitativo abbia fatto sì che questo fenomeno possa essere forse
considerato il punto di svolta nella storia del processo di
individualizzazione. Certo, tutto ciò che verrà in seguito e tutte le forme
di individualismo che ne scaturiranno apriranno infinite nuove strade
all’individualizzazione e ne evidenzieranno tutte le potenzialità, ma è qui
che la società è stata per la prima volta diffusamente percepita come
un’associazione di individui, logica conseguenza di un’analoga
percezione in campo religioso64.
Un ultimo aspetto va sottolineato riguardo all’influenza avuta dalla
Riforma protestante. Nonostante i nuovi principi vennero interiorizzati
soprattutto da chi si convertì, essi posero il problema dell’autonomia
religiosa individuale anche nei confronti di coloro che rimasero fedeli al
cattolicesimo. È inoltre importante accennare al fatto che senza lo scisma
non avrebbe probabilmente preso corpo la Controriforma, che anche se in
modo più blando fece propri molti dei principi di cui si è parlato.
63 Ibidem. 64 Cfr. Charles Taylor, Gli immaginari sociali moderni, cit., p. 62.
51
CAPITOLO III
FORME DELL’INDIVIDUALISMO
Tra il XVII e il XVIII secolo, l’ideologia individualista ricevette
alcuni tra i suoi più importanti contributi, accompagnando e favorendo il
generale passaggio delle società europee alla modernità. Si svilupparono
così nuovi tipi di individualismo in molti campi, tra i quali
l’epistemologia, la politica e l’economia. Se da una parte appare
importante far risaltare i punti di contatto tra queste nuove teorie
individualiste, dall’altra sarà necessario mantenerle ben distinte, al fine di
giungere ad una più chiara esposizione. Inoltre la separazione è utile
perché anche per gli stessi teorizzatori di queste dottrine l’accettazione di
una di esse non presupponeva necessariamente quella delle altre.
1. L’individualismo ‘epistemologico’
Rispetto a questo quadro di riferimento, il primo contributo in ordine
di tempo all’ideologia individualista è provenuto da Cartesio, che con le
sue riflessioni diede vita al cosiddetto individualismo epistemologico. In
sostanza, il filosofo francese giunse alla conclusione che l’unica cosa di
cui poteva essere davvero certo consisteva nel fatto che se poteva
pensare, allora esisteva. Si tratta del celeberrimo ‘cogito ergo sum’. La
prova della propria esistenza non andava quindi cercata nel mondo al di
fuori dell’individuo, ma nell’interiorità di ciascun essere umano. Allo
52
stesso tempo veniva affermata l’idea di poter mettere in dubbio tutto
quanto provenisse dall’esterno.
Questa nuova concezione del mondo era rivoluzionaria, tanto da far
affermare ad André Gluckman che Cartesio “firma l’atto di nascita
filosofica degli individui sovrani” [corsivo mio] 65.
In seguito alla pietra miliare appena posta, la strada
dell’individualismo epistemologico venne lastricata con i contributi di
molti altri filosofi e studiosi. Leibniz ad esempio sviluppò la teoria
cartesiana, stabilendo un collegamento tra questa e l’indipendenza del
singolo dal mondo esterno. Inoltre, circa un secolo dopo, Immanuel Kant
assunse una prospettiva affine a quella di Cartesio, sostenendo che le
categorie fossero innate negli individui, e quindi venissero dal proprio
spazio interiore, e non fossero inculcate dall’esterno.
Persino coloro che si opponevano al razionalismo cartesiano – gli
empiristi – giunsero comunque ad affermare che la conoscenza non
provenisse direttamente dal mondo esterno, ma in modo mediato
attraverso l’esperienza sensoriale. Alcuni, come Locke, sostenevano che i
sensi fossero infallibili, mentre altri, come Hume, si dimostrarono scettici
a riguardo. In ogni caso, ciò che conta dal nostro punto di vista è il fatto
che anche gli empiristi riconoscessero l’importanza della mediazione
individuale, andando a rafforzare le tesi degli individualisti
epistemologici66.
2. L’individualismo ‘politico’
Per quanto riguarda l’ambito politico, che costituisce il secondo
terreno d’espansione dell’individualismo nel corso del passaggio alla
65 Cit. in Alain Laurent, cit., p. 40. 66 Cfr. Steven Lukes, op. cit., pp. 92-93.
53
modernità, l’ordine morale e politico moderno, che si sviluppò a partire
dal XVII secolo e nel XVIII trovò la sua consacrazione, poggiava –
secondo Taylor – su due pilastri fondamentali.
Il primo era costituito dal nascente giusnaturalismo. Questa dottrina,
teorizzata tra gli altri dal giurista olandese Ugo Grozio, si fondava
sull’idea che a tutti gli individui dovessero essere riconosciuti alcuni
diritti naturali – ad esempio il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà
– inalienabili e discendenti semplicemente dal fatto di appartenere alla
specie umana, e non concessi solo in funzione del ceto, del luogo
d’origine o del ruolo ricoperto nella famiglia o nel villaggio. In questo
senso tali diritti possono essere considerati un’estensione del principio di
uguale dignità degli esseri umani introdotto con il cristianesimo.
Il secondo pilastro era strettamente dipendente dal primo, in quanto
ne era una sorta di applicazione all’ambito sociale che diede vita al
cosiddetto individualismo politico, ed era costituito dalle teorie
contrattualistiche.
Il primo autore ad assumere una prospettiva di questo tipo fu Hobbes.
Nel suo Leviatano il filosofo inglese partiva da una concezione
pessimistica della natura umana, sintetizzata per mezzo del celebre ‘homo
homini lupus’, e da una condizione originaria di anarchia, chiamata ‘stato
di natura’, in cui ogni essere umano era completamente libero, ma doveva
provvedere da solo alla propria difesa e alla tutela dei suoi diritti. Come
affermò lo stesso Hobbes riguardo a tale stato, “poiché la condizione
dell’uomo […] è una condizione di guerra di ciuascuno contro ogni altro,
e in questo caso ciascuno è governato dalla propria ragione e non esiste
niente di cui egli sia in grado di servirsi, che non possa essergli di aiuto
nel preservare la propria vita contro i nemici, ne segue che in una
54
condizione di questo genere ciascuno ha diritto a tutto”67. Prendendo le
mosse da questi presupposti, Hobbes concluse che l’unico modo per
evitare una situazione di scontro perenne di tutti contro tutti fosse la
rinuncia ai propri diritti naturali e la subordinazione volontaria ad uno
stato assoluto che in cambio garantisse più sicurezza e benessere. Il
contratto sociale consisteva in tale patto tra individui e stato68. È vero,
quest’impostazione era quanto di più lontano potesse esistere dal
riconoscimento di diritti e libertà a tutti gli esseri umani, ed era anche in
contrasto con qualunque ideologia individualista; ma, per arrivare a
questa conclusione, Hobbes era partito dall’idea che nello stato di natura
originario i cittadini godessero di alcuni diritti naturali e conducessero
esistenze separate. In sostanza, anche se la soluzione che veniva proposta
era fortemente anti-individualista, i presupposti attraverso i quali si era
giunti ad essa riconoscevano che l’unità originaria della società era
costituita dal singolo essere umano, titolare di alcuni diritti naturali, ai
quali poteva rinunciare solo volontariamente.
In seguito a questa prima formulazione, la teoria contrattualistica
venne sviluppata in tutte le sue potenzialità da Locke. Il filosofo inglese,
pur facendo proprie molte delle premesse di Hobbes, partiva da una
concezione più ottimistica riguardo alla natura umana e sosteneva che una
certa forma di autoregolazione pacifica fosse possibile, senza bisogno di
cedere tutte le libertà individuali allo stato.
Da questo diverso approccio discendeva che anche per Locke alla
base della costituzione di una società c’era un’adesione volontaria da
67 Thomas Hobbes, Leviatano, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 105-106. 68 Hobbes immagina un tacito patto di ogni individuo con tutti gli altri secondo una formula di questo tipo: “Dò autorizzazione e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo, o a quest’assemblea di uomini, a questa condizione, che tu, nella stessa maniera, gli ceda il tuo diritto e ne autorizzi tutte le azioni”, Thomas Hobbes, op. cit., p. 143.
55
parte dei singoli individui69, ma il suo scopo era la migliore tutela
possibile dei diritti naturali individuali, e non la loro sottrazione in
funzione di una maggiore sicurezza. Il contratto sociale prevedeva in
questo caso da una parte la sottomissione dei singoli alle leggi dello stato,
ma dall’altra la garanzia da parte delle istituzioni che tali leggi fossero
prodotte al solo fine di meglio proteggere i diritti individuali.
Una conseguenza logica, ma di grande rilevanza dal punto di vista
dell’individuo, dell’idea di contratto sociale stava nel fatto che la
legittimazione dei regimi al potere dovesse fondarsi solo sul precedente
consenso accordato loro dai sudditi, e che l’unico obiettivo dell’autorità
dovesse essere la tutela dei diritti dei singoli. Le monarchie assolute e le
tirannie, privando i sudditi dei propri diritti, erano perciò da considerarsi
illegittime e da rovesciare. Come si vedrà in seguito, quest’impostazione
avrà forti ripercussioni nel corso del Settecento, influenzando soprattutto i
rivoluzionari americani e francesi.
Secondo Taylor però, la conseguenza di maggiore rilevanza delle
teorie contrattualistiche stava nei mutamenti sociali che vennero proposti,
e che trovarono attuazione concreta a partire dalle due rivoluzioni a cui si
è fatto riferimento. L’idea di società come associazione volontaria di
individui destabilizzava le strutture gerarchiche immutabili e legittimate
per mezzo di un’ipotetica volontà divina, che vennero gradualmente
sostituite da una differenziazione funzionale utile al perseguimento del
benessere comune, ma che, pur presupponendo una qualche forma di
gerarchia, ritenevano che quest’ultima “non ha alcun valore essenziale; è
accidentale e potenzialmente modificabile”70. Tale aspetto è molto
importante dal nostro punto di vista, perché quando le teorie
69 Locke afferma: “Tutti gli uomini si trovano naturalmente in questo stato [di natura] e vi rimangono finché per loro consenso non si rendano membri di una società politica”, John Locke, Secondo trattato sul governo, Milano, Rizzoli, 2004, p. 81. 70 Charles Taylor, op. cit., p. 29.
56
contrattualistiche verranno applicate a società reali, permettendo a
chiunque di scalare le gerarchie sociali, il processo di individualizzazione
subirà una nuova accelerazione.
Se bisognerà aspettare fino alla seconda metà del Settecento perché
questi principi trovino realizzazione concreta, a livello ideologico essi
produssero da subito i loro effetti, dando vita al cosiddetto individualismo
politico. Questa forma particolare di individualismo, nata proprio con le
teorie contrattualistiche, poggia – secondo Lukes – su alcuni postulati
fondamentali. Il primo – si è già visto – consiste nella visione del governo
come basato sul consenso dei cittadini, anche se non per forza
democratico. Il secondo è dato dall’idea della rappresentanza politica
come rappresentanza degli interessi dei singoli individui, e non di ordini,
caste o corporazioni come avveniva in precedenza. Il terzo è infine
rappresentato la concezione del governo come semplice strumento per
favorire la realizzazione delle preferenze e la tutela dei diritti dei singoli,
assumendo il ruolo di ‘arbitro’ nella “harmonious competition”71 tra gli
interessi individuali.
Va precisato che non tutti i sociologi sono concordi nel ritenere il
nesso tra contrattualismo e individualizzazione necessario per lo sviluppo
di quest’ultima. Durkheim, ad esempio, cercò di dimostrare che l’idea di
uno stato di natura in cui gli esseri umani conducevano esistenze
autonome e separate fosse una finzione, affermando: “Se supponiamo una
pluralità di individui che anteriormente non erano uniti da nessun vincolo,
quale ragione ha potuto spingerli a sacrificarsi reciprocamente? Il bisogno
di pace? Ma la pace per se stessa non è più desiderabile della guerra, che
ha i suoi oneri e i suoi vantaggi. Non vi sono forse stati popoli, e non vi
sono in ogni tempo individui per i quali la guerra è la passione
predominante? Gli istinti ai quali essa risponde non sono meno forti di 71 Steven Lukes, op. cit., p. 77
57
quelli soddisfatti dalla pace”72. Così, se accettassimo la tesi – che in realtà
lascia molti dubbi – secondo cui pace e guerra sono ugualmente
auspicabili, vedremmo l’intero edificio del contrattualismo sociale
crollare inesorabilmente, perché allo stato verrebbe a mancare il collante
costituito dal comune interesse degli individui al mantenimento della
pace per tutelare i propri diritti.
3. L’individualismo ‘economico’
Parallelamente allo sviluppo dell’individualismo politico, nel corso
del Settecento prese forma anche la teoria economica liberale classica,
che produsse l’individualismo economico. Questa nuova dottrina,
sostenuta da autori come Adam Smith e David Ricardo, poggiava
sostanzialmente su una “visione dell’economia come un armonioso
ordine naturale […] più o meno capace di autoregolarsi […] che […]
conduce alla massima soddisfazione degli individui e al progresso
(individuale e sociale)”73, e quindi sulla convinzione che le azioni
individuali fossero sufficienti per il corretto funzionamento
dell’economia di una società. Questo meccanismo di autoregolazione del
mercato, spesso chiamato ‘mano invisibile’, era visto come insito nella
natura stessa dell’uomo, perché nonostante ognuno badi maggiormente al
proprio guadagno che a quello altrui, la reciprocità del calcolo di interesse
dovrebbe portare ad una sempre crescente divisione del lavoro, ad un
aumento della produzione e quindi ad un maggiore benessere generale.
Da quest’impostazione di fondo discendevano alcune prescrizioni
pratiche. La prima consisteva nella concessione agli individui della
72 Émile Durkheim, op. cit., p. 137. 73 “view of the economy as a natural harmonious order […] more or less self-adjusting […] that […] conduces to the maximum satisfaction of individuals and to (individual and social) progress”, Steven Lukes, op. cit., p. 81.
58
massima libertà d’impresa individuale, grazie anche all’abolizione delle
formazioni corporative, e avrebbe dovuto portare ad una vera concorrenza
e quindi al libero mercato. La seconda era la minimizzazione delle
interferenze dello stato in economia perché distorsive del funzionamento
del mercato, anche se “Adam Simth […] non si opponeva all’intervento
statale in economia per principio […] (ad esempio in ambiti come igiene
pubblica, sanità e condizioni d’impiego nelle fabbriche)” [traduzione
mia]74.
Un problema rilevante dell’individualismo economico consisteva però
nel portare quasi inevitabilmente ad una visione fortemente utilitaristica
dei rapporti tra individui. Su questa linea, Bentham arrivò a prospettare
un individuo freddo calcolatore guidato solo dal proprio interesse.
L’utilitarismo mette in evidenza una questione a cui si è già
accennato, e cioè il fatto che non solo l’accettazione di una delle idee-
base e dottrine individualiste non presuppone automaticamente quella
delle altre, ma che queste possono essere anche in netto contrasto tra loro.
Secondo Lukes infatti l’utilitarismo, se spinto all’eccesso, porta ad una
valutazione dei rapporti interindividuali solamente in funzione
dell’interesse personale. Gli individui vengono così considerati
unicamente in relazione all’utile che possono portare, e questo costituisce
una negazione della dignità intrinseca dell’essere umano75.
Un altro aspetto molto interessante dal nostro punto di vista, oltre alle
questioni dottrinali di cui si è parlato, sta nel fatto che – come nota Taylor
– “il mondo privato della produzione acquista ora nuova dignità e
importanza. L’accentuazione della sfera privata legittima in effetti un
certo tipo di individualismo. L’agente produttivo agisce
74 “Adam Smith […] was not opposed to state intervention in the economy on principle […] (e.g. in matters such as sanitation, health and conditions of factory employment”, Steven Lukes, op. cit., p. 82. 75 Cfr. Steven Lukes, op. cit., p. 53.
59
autonomamente”76. Il tipo di individualismo di cui parla lo studioso
canadese è probabilmente quello che Lukes definisce individualismo
della privacy, e cioè l’idea di una sfera privata della vita umana in cui gli
individui agiscono in una condizione di emancipazione dalla volontà e
dalla subordinazione agli altri. È certamente su questa linea anche la
riflessione weberiana e durkheimiana sul significato sociale del lavoro
come leva del mutamento sociale e dell’indipendenza politica degli
individui. La teorizzazione di questo spazio autonomo giungerà a
compimento nell’Ottocento, quando J. S. Mill sosterrà che gli esseri
umani debbano godere di libertà assoluta per tutto ciò che riguarda
solamente la loro persona, scegliendo il proprio stile di vita e gli obiettivi
da perseguire.
4. Il nesso tra libertà ed uguaglianza e l’individualismo ‘quantitativo’
Da un punto di vista generale, il nesso tra individualismo economico e
politico appare molto stretto. In questo senso, Lukes ha evidenziato che
“così come il libero mercato era ritenuto portare al massimo beneficio per
tutti, allo stesso modo anche il sistema politico riformato (con elettori e
rappresentanti che perseguono i propri interessi individuali) avrebbe
massimizzato la soddisfazione complessiva degli interessi individuali
separati. La ‘mano invisibile’ funzionava in politica, così come in
economia” [traduzione mia]77.
Questa simmetria è il risultato di una matrice culturale comune. Sia
Locke che gli economisti liberali classici possono infatti essere
considerati pensatori illuministi. Tale corrente filosofica, tanto ampia 76 Charles Taylor, op. cit., p. 109. 77 “just as the free market was assumed to lead to maximum benefit for all, so also would the reformed political system (with electors and representatives all pursuing their individual interests) maximize the aggregate satisfaction of men’s separate individual interests. The ‘invisible hand’ worked in politics, just as in economcs”, Steven Lukes, op. cit., p. 76.
60
quanto variegata, si proponeva di portare i lumi della ragione nel buio
delle società dell’epoca, rimettendo in discussione anche gli assetti sociali
esistenti.
L’Illuminismo, soprattutto quello inglese, produsse quello che
Simmel ha definito individualismo quantitativo, che puntava cioè ad un
aumento quantitativo delle libertà e dei diritti indistintamente per tutti gli
individui. Tale pretesa poggiava sull’idea di una sostanziale uguaglianza
di tutti gli esseri umani.
Simmel ha sottolineato che l’accostamento di libertà e uguaglianza fu
un prodotto della situazione storica settecentesca: “Per una inevitabile
reazione alla costituzione sociale dominante, nel XVIII secolo emerse un
concetto di individualità, che non poteva esprimersi in modo più giusto e
logico che nell’ideale, in sé così illogico, di libertà e uguaglianza. Infatti
quella era un’epoca in cui le forze individuali erano sentite nel più
insostenibile contrasto con i loro legami e le loro formazioni storico-
sociali. I privilegi dei ceti superiori come il dispotico controllo del
commercio e del traffico, i resti ancora potenti degli statuti corporativi
come la coercizione intollerante della chiesa; i doveri servili della
popolazione contadina come la tutela politica nella vita dello stato e la
limitatezza delle costituzioni municipali apparivano superati e corrotti,
alla stregua di vincoli servili, sotto i quali non si poteva più respirare.
Nell’oppressione esercitata da tali istituzioni, che avevano perduto ogni
diritto intrinseco, che da ragionevoli e benefiche erano divenute insensate
e dannose, nacque l’ideale della pura libertà dell’individuo”78.
Ma perché Simmel ritiene libertà e uguaglianza in qualche modo
incompatibili? Probabilmente la risposta sta nel fatto che se intendiamo il
concetto di uguaglianza in senso stretto, esso produce
un’omogeneizzazione che finisce per limitare le libertà e le inclinazioni 78 Georg Simmel, Forme dell’individualismo, Roma, Armando Editore, 2001, pp. 36-37.
61
individuali. Adottando questa prospettiva si pone però una seconda
domanda: come mai la sensibilità illuminista e razionalista del XVIII
secolo non percepiva tale binomio come contraddittorio? Il punto centrale
per conciliare i due valori, seguendo la linea interpretativa simmeliana, è
costituito da una concezione astratta dell’individuo. L’idea di fondo è che
in ogni uomo c’è un nucleo che costituisce la sua vera essenza e che è
comune a tutti; “e ora si comprende il motivo per cui libertà e
uguaglianza vennero sentite come un ideale unitario: solo se l’uomo si
fosse liberato, sarebbe emersa di nuovo, in quanto suo autentico io, la sua
essenza puramente umana, che i vincoli e le deformazioni della storia
avevano nascosto e alterato, e questo suo autentico io sarebbe stato in tutti
lo stesso, poiché rappresenterebbe appunto l’uomo universale in noi”79.
Anche autori più recenti hanno posto l’accento sull’importanza per
l’individualismo settecentesco della concezione astratta dell’individuo.
Lukes ne ha fatto una delle sue idee-base dell’individualismo, mentre
François de Singly, per riferirsi in generale al pensiero individualista
prodotto dal secolo dei Lumi, parla di ‘individualismo astratto’, cioè di
“un individualismo che prende in considerazione in tutti gli esseri umani
ciò che li unisce, ciò che è loro comune, vale a dire la ragione e la
comune umanità” [traduzione mia]80.
Anche se è sbagliato – o comunque molto difficile – stabilire rapporti
di causalità diretti tra il pensiero illuminista e le due grandi rivoluzioni di
fine Settecento in America e in Francia, è certo che il primo abbia in
qualche modo influenzato le seconde.
Dal nostro punto di vista questi due capovolgimenti politico-sociali
sono fondamentali, perché hanno dato attuazione concreta a buona parte
79 Georg Simmel, op. cit., p. 38. 80 “un individualisme qui considère chez tous les êtres humains ce qui les réunit, ce qui leur est commun, à savoir la raison et la commune humanité”, François de Singly, op. cit., p. 26.
62
delle idee suggerite dall’individualismo politico ed economico e
dall’Illuminismo, evidenziandone anche limiti e contraddizioni.
Mentre in Inghilterra il passaggio da una società olista ad una
prevalentemente individualista è avvenuto gradualmente e abbastanza
pacificamente, cominciando con i diritti concessi tramite la Magna Charta
del 1215 e continuando progressivamente nel corso dei secoli, nelle
colonie nord-americane e in Francia tale transizione ha avuto luogo per
mezzo di sanguinose rivoluzioni, causate dalle resistenze al cambiamento
mostrate dall’Ancien Régime e dalla corona inglese stessa, che in patria si
era dimostrata più aperta.
I valori che ispiravano i rivoluzionari sulle due sponde dell’Atlantico
erano sostanzialmente i medesimi, e gli stessi di cui si è già parlato:
libertà e uguaglianza. Un’importante differenza stava tuttavia nel fatto
che i francesi chiedevano il riconoscimento di questi ideali in merito alle
differenze tra ‘i tre stati’, mentre per gli americani, le cui strutture sociali
erano meno rigide e più aperte, le disparità che andavano eliminate erano
quelle nei rapporti tra le colonie e la madrepatria. Come già fatto notare
da Simmel però, questi due valori rischiano sul piano pratico di risultare
contraddittori e, come sottolinea lui stesso, è probabilmente anche per
questo che i francesi accanto alla liberté e all’égalité hanno sentito il
bisogno di aggiungere la fraternité come ideale unificante. Ma il ruolo
svolto dal terzo elemento della triade non finisce qui. Secondo Singly
esso rimanda anche al rovesciamento del vecchio regime, perché “la
verticalità valorizzata e simboleggiata attraverso la relazione con il padre
[per estensione anche il re in veste di padre della patria] lascia il posto
all’orizzontalità della relazione tra eguali, tra fratelli” [traduzione e
corsivo miei]81. In altre parole, la categoria di fraternità sembra agire
81 “La verticalité valorisée et symbolisée par la relation au père laisse la place à l’horizontalité de la relation entre égaux, entre frères”, François de Singly, op. cit., p. 41.
63
come un dispositivo di trasformazione della legittimazione dell’ordine
sociale da verticale in orizzontale, all’interno però della metafora
‘familiare’ come rappresentazione della società considerata nel suo
insieme82.
Inoltre, per risolvere la contraddizione, sia gli americani che – soprattutto
– i francesi fecero ricorso alla concezione astratta dell’individuo, di cui si
è già parlato. In questo senso sono innumerevoli gli esempi di riferimenti
a termini impersonali come ‘cittadino’, ‘popolo’ e ‘volontà generale’.
Ad ogni modo, la vera svolta sul piano politico si ebbe quando i
coloni americani, dopo vari tentativi di riconciliazione con la madrepatria,
redassero la Dichiarazione d’indipendenza del 1776. Questo documento
attingeva a piene mani dal contrattualismo lockiano e dal
giusnaturalismo, come testimonia il brano qui riportato: “Noi riteniamo
che siano per se stesse evidenti queste verità, che tutti gli uomini sono
creati eguali, che essi sono dotati dal Creatore di certi inalienabili Diritti,
che tra questi ci sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità;
che per garantire questi diritti, sono istituiti tra gli Uomini Governi che
derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni volta che
una qualsiasi Forma di Governo diventa lesiva di questi fini, il Popolo ha
il Diritto di mutarla o abolirla, e di istituire un nuovo Governo, fondato su
tali principi e di organizzarne i suoi poteri nella forma che sembri al
Popolo meglio adatta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità”
[traduzione mia]83. Per la prima volta vennero riconosciuti dei diritti
universali, e non più soltanto di alcuni. Con la vittoria militare 82 Cfr. Michel Foucault, Sécurité, territoire, population, Corso al Collège de France (1977-1978), Paris, Gallimard-Seuil, 2004. 83 “We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness; That to secure these rights, Governments are instituted among Men, deriving their just powers from the consent of the governed; That whenever any Form of Government becomes destructive of these ends, it is the Right of the People to alter or to abolish it, and to institute new Government, laying its foundation on such principles and organizing its powers in such form, as to them shall seem most likely to effect their Safety and Happiness”, Dichiarazione d’indipendenza americana, 1776.
64
sull’Inghilterra, l’indipendenza reale e la stesura della Costituzione del
1787, a questi diritti vennero date dignità legale e applicazione concreta.
Poco dopo, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del
cittadino del 1789 fece lo stesso in Francia.
Rispetto ai rivoluzionari americani però, quelli francesi vennero
maggiormente influenzati da pensatori come Rousseau che, seppur
illuministi, anteponevano la società all’individuo. Può apparire strano
collocare il filosofo francese tra gli ‘olisti’, visto che – come riporta
Laurent – ne Il contratto sociale (1762) aveva definito l’individuo
originariamente “perfetto e solitario”84. Il fatto è che Rousseau, come
Hobbes, partiva da premesse fortemente individualiste per giungere a
conclusioni che, nella sostanza, erano oliste e anti-individualiste. La sua
concezione estremamente astratta dell’individuo lo portava a vedere
un’uguaglianza di fondo nell’essenza di tutti gli uomini sotto le differenze
superficiali, per cui la ‘volontà generale’ del popolo omogoneo doveva
essere una sola. In questo modo, come nota Taylor, “non resta un posto
legittimo per l’interesse privato, nemmeno quando è subordinato
all’amore del bene generale”85: il cittadino è privato dei suoi diritti
naturali a beneficio della volontà generale.
Gradualmente, durante della Rivoluzione francese, questa visione
assunse sempre più importanza, attribuendo un peso crescente
all’uguaglianza a scapito della libertà. Tale spostamento dell’equilibrio
tra i due ideali produsse quello che è stato definito ‘Terrore
rivoluzionario’.
Se in Francia il limite principale della Rivoluzione fu lo slittamento
su posizioni esageratamente egualitarie, che frenarono le rivendicazioni
individualiste sul piano delle libertà, la contraddizione più stridente della
84 Cit. in Alain Laurent, op. cit., p. 88. 85 Charles Taoylor, op. cit., p. 123.
65
Rivoluzione americana era costituita dall’inconciliabilità tra il
riconoscimento di diritti universali a tutti gli esseri umani e la pratica
dello schiavismo, dilagante nelle ex-colonie del sud.
L’ambiguità nei confronti della questione degli schiavi era comunque
un tratto caratteristico di tutto l’Illuminismo, i cui rappresentanti più
autorevoli non sostenevano posizioni apertamente abolizioniste. Da un
punto di vista morale, scegliendo criteri teologici e appellandosi alla
Bibbia, non si poteva negare che nell’Antico Testamento i patriarchi
possedessero degli schiavi. Se invece si sceglieva di affidare la soluzione
della questione alla scienza, si poneva il problema di determinare la
natura umana o animale degli schiavi di colore e – anche se oggi può
apparire assurdo – le opinioni a riguardo erano contrastanti. Così, pur
cercando di usare la ragione illuminista, era difficile giungere ad una
condanna morale definitiva della schiavitù, anche se la percezione della
fragilità delle argomentazioni schiaviste era diffusa. Lo stesso Thomas
Jefferson, pur essendo un abolizionista moderato, non era convinto
dell’uguaglianza tra bianchi e neri, e accettò di non inserire norme per la
liberazione degli schiavi nella Dichiarazione d’indipendenza. È noto però
che, accanto alle questioni morali a cui si è accennato, un ruolo
determinante è stato giocato a riguardo dalla fondamentale importanza
degli schiavi per l’economia di tutti gli stati del sud, basata su
un’agricoltura di tipo estensivo organizzata in grandi piantagioni e
bisognosa di una gigantesca mole di forza-lavoro.
In conclusione, dopo esserci soffermati sulle questioni riguardanti il
processo di individualizzazione e lo sviluppo delle dottrine individualiste,
si può aggiungere che ciò che è cambiato davvero con il graduale
passaggio alla modernità sono gli immaginari sociali, cioè “i modi in cui
gli individui immaginano la loro esistenza sociale, il modo in cui le loro
esistenze si intrecciano a quelle degli altri, come si strutturano i loro
66
rapporti, le aspettative che sono normalmente soddisfatte, e le più
profonde nozioni e immagini normative su cui si basano tali
aspettative”86. Ma come sono cambiati tali immaginari nei secoli di cui si
è parlato? Secondo Taylor, “la nostra prima autocomprensione [era]
profondamente radicata nella società. La nostra identità essenziale era
quella di padre, figlio, ecc., e di membro di [una] tribù”; solo in seguito,
con la lenta transizione verso la modernità, “abbiamo cominciato a
concepirci anzitutto come individui liberi” [corsivo mio]87. Questo è ciò
che lo studioso canadese ha definito ‘grande sradicamento’, e che ha
sancito il passaggio da società tradizionali e oliste a società nuove
gravitanti intorno ad un individuo più libero e indipendente.
86 Ivi, p. 37. 87 Ivi, p. 74.
67
CAPITOLO IV
INDIVIDUALISMO E SOCIETÀ BORGHESE OTTOCENTESCA
1. Individualizzazione e stratificazione sociale nello sviluppo della
borghesia
Nel corso del XIX secolo l’esperienza dell’individualizzazione si
cominciò ad allargare a cerchie sempre più ampie di popolazione, ancora
minoritarie ma molto più consistenti da un punto di vista numerico
rispetto al passato. Come afferma Laurent, “se sul piano sociologico ci si
può chiedere se si tratti già di un fenomeno veramente di massa su scala
europea, su un altro piano non si può ignorare che, nella prima metà del
XIX secolo, l’accesso ad un’indipendenza individuale diffusa cessa di
essere appannaggio di un piccolo gruppo di privilegiati per estendersi ad
una robusta minoranza che, nel processo di individualizzazione, fa da
modello ad una maggioranza all’interno della quale i giovani, che
appartengono alla nuova borghesia urbana e che cominciano ad
emanciparsi dal paternalismo tradizionale e a vivere al di fuori della tutela
familiare, ne rappresentano la forza motrice”88.
Tra le tante cause di questo parziale distacco dei giovani borghesi
dalla famiglia, che ha permesso loro di sottrarsi al controllo paterno, c’è
probabilmente anche il precipitato storico e politico delle dottrine
individualiste settecentesche di cui si è parlato. L’accento posto sulla
libertà e sull’uguaglianza di tutti i cittadini ha infatti scardinato l’ordine 88 Alain Laurent, op. cit., p. 56.
68
morale premoderno imperniato sull’idea di una gerarchia sociale
ascrittiva e tendenzialmente restia ai mutamenti. Uno degli aspetti più
importanti della cultura borghese ottocentesca, originata in buona parte
dall’individualismo quantitativo, è – secondo Andrea Millefiorini –
proprio il fatto che si “affermò definitivamente il valore dell’azione
‘elettiva’ rispetto a quella ‘ascrittiva’ nella società europea, e ancor di più
in quella americana”89.
Certamente questi processi trovarono nello sviluppo della rivoluzione
industriale una base di particolare importanza. L’esodo di molti contadini
verso le città, la loro trasformazione in operai e la retribuzione in denaro
immediatamente spendibile li sradicarono dalla terra e dalle comunità
d’origine, rendendoli più individualizzati, anche se non necessariamente
più liberi. Anche i borghesi furono investiti da quest’ondata di
mutamenti, che fecero aumentare esponenzialmente la divisione del
lavoro, producendo una sempre maggiore differenziazione tra le attività
svolte dai singoli individui. In questo senso, un nesso importante tra lo
sviluppo dell’individualizzazione e la rivoluzione industriale è rilevabile
nel declino delle appartenenze tradizionali, ma anche – contestualmente –
nello sviluppo di forme più astratte e complesse di legami sociali, come
fu all’epoca messo in evidenza sia da Durkheim che da Simmel.
Sarebbe dunque un errore ridurre l’individualizzazione ad una
semplice perdita d’appartenenza. Ciò è particolarmente evidente quando
si considera il processo di individualizzazione da un punto di vista
culturale, con lo sviluppo di quella che Durkheim ha chiamato
‘individualizzazione morale’. Taylor ha efficacemente sintetizzato questo
nesso osservando che “l’individualismo moderno, in quanto idea morale,
non significa la completa scomparsa delle appartenenze – questo è
l’individualismo dell’anomia e del tracollo sociale – significa solo 89 Andrea Millefiorini, op. cit., p. 67.
69
immaginarsi come membri di entità sempre più ampie e impersonali: lo
Stato, il movimento, la comunità umana nel suo complesso”90. In questo
senso, sono stati proprio l’individualismo quantitativo e le rivoluzioni,
che ne hanno in qualche modo veicolato le idee, a consentire tale
passaggio, anche attraverso la concezione astratta dell’individuo91. Come
nota ancora Taylor, “siamo passati da un ordine gerarchico di legami
personalizzati a un ordine impersonale ugualitario”92.
Proprio questo nuovo senso d’appartenenza allo stato moderno ci
porta a parlare di un’altra caratteristica della cultura borghese
ottocentesca: il patriottismo. Questo ideale, spesso declinato nella sua
forma più aggressiva, il nazionalismo, era praticamente sconosciuto alle
masse fino al XIX secolo. Nonostante ciò, con la rottura dei precedenti
vincoli sociali premoderni e la perdita del senso d’appartenenza che li
accompagnava, il concetto di patria divenne uno strumento formidabile
per rafforzare la coesione sociale. In particolare, esso era “in grado di
motivare [i cittadini] verso un sentimento d’unione, di riconoscimento
comune, ed offriva così uno stabile appoggio a quel bisogno identitario
che […] in una cultura individualistica e moderna è sempre a rischio di
non essere pienamente soddisfatto, e di far così ricadere l’individuo in
una condizione di anomia”93. In sostanza, si sentiva la necessità di
colmare il vuoto lasciato dalla dissoluzione, o comunque dal forte
indebolimento, del senso d’appartenenza comunitaria.
Il concetto di patria e quello di nazione traevano la propria forza
principalmente dall’idea, non sempre storicamente fondata, di un passato
e di una storia comuni. Non a caso entrambi i termini contengono, nella
propria etimologia, un riferimento rispettivamente alla terra dei padri e a 90 Charles Taylor, op. cit., p. 155. 91 L’immaginarsi come membro di uno stato significa non sentirsi più solo o principalmente padre, figlio, ecc., ma cittadino astratto dotato degli stessi diritti degli altri. 92 Ivi, p. 154. 93 Andrea Millefiorini, op. cit., p. 86.
70
quella della nascita, dell’origine. Questi elementi erano particolarmente
importanti per quei paesi – soprattutto la Germania – che intendevano il
concetto di patria in senso naturalistico, e quindi legato all’idea di
comunità di sangue, di un comune ceppo etnico originario. Nel resto
dell’Europa occidentale e negli Stati Uniti invece prevaleva
un’impostazione volontaristica, per cui chiunque poteva far parte di una
nazione se ne accettava i costumi e i valori fondanti. Chiaramente, in
relazione al concetto di patria, per questi paesi assumevano grande
importanza elementi come la costituzione, le istituzioni politiche e
giudiziarie e l’idea della costruzione di un futuro comune.
È opportuno osservare che nella nostra prospettiva le categorie di
patria e di nazione consentivano l’elaborazione di identità collettive
all’interno delle quali la differenziazione funzionale potesse svilupparsi
senza ledere la coesione sociale. In questo senso, ciò costituiva un fattore
di incremento dell’individualizzazione.
L’estensione a nuovi strati di popolazione e la crescita qualitativa del
processo di individualizzazione portarono gli studiosi del tempo ad
occuparsi in modo più attento e diretto delle dottrine individualiste. Se da
una parte questo diede vita a diverse correnti a sostegno
dell’individualismo, la diffusione delle nuove idee, soprattutto in Francia
dopo la Rivoluzione, produsse anche i primi nemici dell’individualismo
in quanto tale.
Il nesso tra stratificazione sociale e individualizzazione si manifestò
in termini ideologici attraverso l’elaborazione di concezioni diverse
dell’individualismo, connesse a differenti posizioni sociali. In un’analisi
di queste articolazioni, Laurent ha individuato tre principali correnti di
ideologie individualiste.
La prima è quella dell’individualismo liberale, erede diretto della
tradizione settecentesca. I pensatori che vi aderiscono sono “nemici del
71
disordine come del dispotismo […] [e] […] giudicano auspicabile e
possibile istituzionalizzare l’autoregolazione del rispetto dei diritti
naturali dell’uomo, formalizzandone giuridicamente tutte le
implicazioni”; in tale corrente “l’individuo e il suo desiderio di libertà
non si oppongono alla società in quanto tale ma alle sue forme
coercitive”94.
Questa corrente era maggioritaria tra gli individualisti ottocenteschi,
ed in particolar modo in Inghilterra, con interpreti come J. S. Mill, e in
Francia, dove spiccavano tra gli altri Constant e Bastiat. Nonostante ciò,
nel corso dell’Ottocento comincia a delinearsi un secondo ramo
individualista: l’individualismo progressista. Si tratta di una linea di
pensiero che “veicola aspirazioni egualitarie (suffragio universale) e
libertarie (divorzio, laicismo) nelle quali i fautori del progresso possono
riconoscersi”95. Laurent si riferisce in questo caso soprattutto agli
intellettuali di sinistra e socialisti, che giungeranno ad affermare con varie
sfumature che individualismo e socialismo sono interdipendenti e
indissolubilmente legati. Jaurès, per esempio, in Socialisme et liberté
(1898) afferma che “il socialismo è l’individualismo logico e
completo”96.
Questa tesi è formulata anche da Durkheim, che però assume una
posizione differente, pur concordando sul nesso tra socialismo e
individualismo. In una lettera del marzo 1898, afferma che
l’individualismo è “il nostro solo fine collettivo; che lungi dal disperderci
è il solo centro di collegamento possibile; […] il socialismo è un ramo
della stessa corrente”97. In realtà, la posizione del sociologo francese è più
complessa, perché l’individualismo durkheimiano sembra esaltare l’idea
94 Alain Laurent, op. cit., p. 58. 95 Ivi, p. 65. 96 Cit. in Alain Laurent, op. cit., p. 67. 97 Cit. in Alain Laurent, op. cit., p. 67.
72
di uguaglianza e di pari dignità degli individui, ma si oppone fermamente
ad altre dottrine individualiste, in modo particolare in campo
epistemologico. Certamente Durkheim ha saputo cogliere più e meglio di
altri la natura sociale del concetto di individuo e da questa prospettiva ha
potuto efficacemente sviluppare un approccio originale rispetto al legame
tra individuo e modernità. Ciò diviene evidente quando si considera
questa posizione proprio a partire dalle sue implicazioni epistemologiche.
Per il sociologo francese, la realtà della società – ha scritto Bontempi –
“non è una derivazione delle proprietà degli individui, ma una vera e
propria realtà empirica logicamente distinta da quella individuale delle
percezioni sensibili, sebbene strettamente collegata ad essa”; i
partecipanti ai rituali ad esempio, come già visto nella parte sulle società
tribali, “vivono un’esperienza di superamento dell’individualità in una
realtà non-individuale che esiste per ciascuna persona nella misura in cui
implica reciprocamente la partecipazione degli altri e per questo è
un’esperienza condivisa tra tutti i partecipanti”98.
La terza categoria definita da Laurent è quella dei cosiddetti
individualisti radicali. Si tratta di una piccola minoranza di intellettuali
estremisti, diversissimi tra loro, ma che “hanno in comune un gusto
viscerale per la singolarità, un amore selvaggio per la solitudine e
professano un individualismo risolutamente asociale e sovversivo”99. È
probabilmente proprio la somma di queste caratteristiche a renderli
‘geneticamente’ impossibilitati, e certamente poco interessati, a
conquistare le masse con la loro dottrina. Ciò che li contraddistingue è un
forte pessimismo nei confronti del futuro, generato da un giudizio
negativo sui cambiamenti avvenuti con il passaggio alla modernità. Le
principali critiche formulate riguardano il liberalismo economico, che a 98 Marco Bontempi, “Un altro illuminismo è possibile? Ragione e razionalità nella sociologia di Durkheim”, in Quaderni di Teoria Sociale, 2006, n. 6, p. 16. 99 Alain Laurent, op. cit., p. 68.
73
loro avviso non favorisce l’individualismo, ma anzi sottomette gli
individui alle leggi del mercato, mentre la crescente divisione del lavoro
li rende sempre più dipendenti gli uni dagli altri, e quindi meno autonomi.
Inoltre, si ritiene che l’estensione dell’individualizzazione alle masse
aggravi la situazione, perché il conformismo del popolo e la sua cieca
obbedienza inquinano l’ideale individualista. Appare in questo modo
evidente il carattere fortemente elitista degli individualisti assoluti.
Il tipo di individualismo al quale questi pensatori hanno dato vita è
quello che Lukes ha definito individualismo etico. Questa corrente di
pensiero era già stata più volte anticipata nel corso della storia, come nel
caso di alcuni filosofi greci, ma nessuno aveva mai portato il
ragionamento alle sue estreme conseguenze. Il primo pensatore che
formulò in modo sistematico una dottrina di questo tipo fu – secondo
Lukes – Hobbes con il suo ‘egoismo etico’. In sostanza, il cuore della
teoria stava nel ritenere il beneficio individuale ottenuto da un’azione
come l’unico criterio rilevante per giudicarne la moralità.
L’individualismo etico vero e proprio si sviluppò però solo
nell’Ottocento con alcuni dei più celebri intellettuali dell’epoca, tra i quali
spiccano Baudelaire, Kierkegaard, Stirner e per molti versi anche
Nietzsche. Secondo questa dottrina, o almeno secondo la sintesi che ne fa
Lukes, “la fonte della moralità, dei valori e dei principi morali, il creatore
dei soli criteri di valutazione morale, è l’individuo: egli diventa l’arbitro
supremo dei valori […] morali, l’autorità morale ultima nel senso più
fondamentale” [traduzione mia]100. Tutto ciò non è che la logica
conseguenza dell’accettazione dell’autonomia individuale sviluppatasi in
campo religioso con la Riforma protestante e in campo filosofico con il
100 “the source of morality, of moral values and principles, the creator of the very criteria of moral evaluation, is the individual: he becomes the supreme arbiter of moral […] values, the final moral authority in the most fundamental sense”, Steven Lukes, op. cit., p. 88.
74
razionalismo cartesiano e con l’Illuminismo, che sostenevano
l’autonomia della ragione umana.
Come già anticipato, è a questo tipo di dottrina che si ispira
Nietzsche, anche se si tratta di un caso sui generis. Secondo Laurent,
l’Übermensch che egli esalta “rappresenta il compimento ultimo e
iperbolico della storia dell’individualismo […] Esso rompe
irrimediabilmente con l’idea di associazione di simili o di ricostruzione di
una libera società. Aspirando alla sovranità sulla propria vita più che alla
vita stessa, l’individuo nietzschiano crea se stesso in solitudine e crea i
propri valori”101. In questo senso, se il controllo della propria esistenza
diventa l’obiettivo primario, le motivazioni che hanno spinto gli uomini
ad unirsi in società politiche, come ad esempio una maggiore sicurezza,
non sono più abbastanza rilevanti da giustificare la perdita di libertà e di
indipendenza che un ingresso in società comporta.
Pare difficile però affermare, come ha fatto Laurent, che Nietzsche
sia colui che ha portato a compimento l’individualismo in generale. Il
filosofo tedesco ha probabilmente condotto alle sue estreme conseguenze
l’individualismo etico, ma nel fare ciò si è messo in contrasto con altre
forme di individualismo, ed in particolare con l’individualismo politico,
intriso di quel contrattualismo sociale che Nietzsche voleva distruggere
perché limitante per l’autonomia individuale. Come osserva Crespi,
Nietzsche ritiene che il tipo di individuo prodotto dal Settecento, che noi
abbiamo definito astratto, non sia che “una maschera illusoria, avente la
funzione di fissare la molteplicità delle espressioni della vita tramite una
rassicurante stabilità e continuità”102.
101 Alain Laurent, op. cit., pp. 71-72. 102 Franco Crespi, Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 26.
75
2. L’individualismo ‘qualitativo’
Secondo Simmel, l’Ottocento ha visto soprattutto il passaggio da un
individualismo quantitativo, del quale abbiamo già parlato, ad uno
qualitativo.
Per il sociologo tedesco, l’unione settecentesca “di libertà e
uguaglianza, o, altrimenti detto, di individualità e uguaglianza, nel XIX
secolo si spezzò in due correnti del tutto divergenti. Servendoci di
concetti generali, che necessitano di molte riserve, noi le designamo come
tendenza all’uguaglianza senza individualità e all’individualità senza
uguaglianza. La prima […] si incarna essenzialmente nel socialismo, […]
l’altra ha creato quella forma di individualismo che […] si sviluppa da
Goethe attraverso Schleichermacher e il Romanticismo fino al
nietzschianesimo”103, e che lo stesso Simmel ha definito individualismo
qualitativo. Questa posizione si distacca da quella di Laurent in almeno
due punti: il primo sta nel fatto di non considerare nessun tipo di
socialismo come una forma di individualismo; il secondo consiste nella
maggiore rilevanza data ad una corrente fondamentale, sviluppatasi
soprattutto in Germania, che pone al centro della propria attenzione la
libertà, ma lo fa in modo diverso dal pensiero liberale anglo-francese.
Infatti, mentre quest’ultimo rappresenta l’individualismo
dell’uguaglianza, e cioè quello che tende ad evidenziare i tratti comuni a
tutti gli esseri umani, il nuovo filone tedesco costituirà l’individualismo
della diversità, che porrà l’accento sui caratteri che differenziano i singoli
esseri umani e rendono ogni individuo unico e irripetibile. Il
Romanticismo partiva infatti da presupposti storici differenti rispetto a
quelli del giusnaturalismo e del contrattualismo. Una volta che questi
ultimi avevano conquistato l’uguaglianza per tutti gli uomini attraverso la 103 Georg Simmel, op. cit., p. 39.
76
concettualizzazione di un individuo astratto e la messa in pratica di
dottrine conseguenti in campo politico, si può pensare di far emergere le
differenze e le inclinazioni individuali senza paura di cedere spazio alle
ingiustizie e ai privilegi. L’esigenza dell’autenticità incide dunque in
modo profondo sullo sviluppo dell’individualizzazione: “gli individui resi
autonomi vogliono anche distinguersi l’uno dall’altro;” – ha scritto
Simmel – “non importa più essere in generale un singolo libero, bensì
essere questo essere determinato e non scambiabile. […] La formazione
ideale caratteristica del XIX secolo prevedeva individui del tutto
differenziati a causa della divisione del lavoro, tenuti insieme da
organizzazioni, che si basavano proprio sulla divisone del lavoro e
sull’intrecciarsi di questi elementi differenziati” [corsivo originale]104. In
questo senso, siamo in sintonia con il concetto di solidarietà organica di
Durkheim, al quale si è già accennato.
Anche Lukes segue Simmel nel ritenere il Romanticismo e
l’individualismo tedesco dimensioni centrali per il processo di
individualizzazione, tanto da farne una delle sue idee-base, che chiama
self-development105. L’aspetto più interessante – secondo Lukes – è il
fatto che questa forma di individualismo rappresenti “un ideale il cui
contenuto varia con differenti idee del self su un continuum che va dal
puro egoismo ad un forte comunitarismo”106. Al primo estremo si
potrebbe probabilmente collocare Nietzsche con il suo elitismo
‘aristocratico’ e asociale, mentre sul fronte opposto Lukes indica la
104 Georg Simmel, op. cit., p. 40. 105 Riguardo a questo termine si pone un problema di traduzione. Molti traduttori, come ad esempio Lorella Cedroni (nella versione italiana di una parte di Individualism di Lukes apparsa sulla rivista La società degli individui, 2000, n. 7, p. 138), hanno scelto il termine italiano ‘auto-realizzazione’, che sembra però connotato da un’idea di predeterminazione, che fa pensare di dover divenire ciò che è già insito nella propria natura. In alternativa, si potrebbe scegliere anche il termine ‘auto-sviluppo’, che appare più fedele da un punto di vista etimologico e lessicale, e che contiene un’idea di crescita spontanea e non predefinita. Data questa ambivalenza concettuale, ho preferito non tradurre il termine self-development. 106 “an ideal whose content varies with different ideas of the self on a continuum from pure egoism to strong communitarism”, Steven Lukes, op. cit., p. 68.
77
posizione di Marx, secondo il quale in ogni uomo sono insite delle
potenzialità, e il loro sviluppo è un bisogno umano che se non soddisfatto
porta all’alienazione, ma tali potenzialità si possono esprimere solo
all’interno di una comunità.
Il tema del self-development e le sue implicazioni problematiche sono
ricostruite in modo efficace da Taylor nel suo celebre lavoro intitolato Il
disagio della modernità. Lo studioso canadese pone a questo riguardo
l’accento sull’importanza culturale e sociale del Romanticismo, citando
ad esempio la posizione di Herder, secondo cui ognuno ha una sua
essenza unica e irripetibile e il suo modo di essere uomo, e affermando
che “quest’idea ha messo radici profondissime nella coscienza
moderna”107. In particolare, l’esperienza romantica influenzerà i giovani
borghesi, che per la prima volta pretenderanno di poter decidere cosa fare
della propria vita, sia in amore, attraverso la personale scelta del partner,
sia in campo lavorativo, scegliendo quale attività svolgere.
3. Gli Stati Uniti e l’individualismo come valore fondante della
nazione
Mentre in Europa, e in Francia in modo particolare, imperversavano
le critiche alle dottrine individualiste, in America, dopo il conseguimento
dell’indipendenza, l’individualismo inteso in senso lato divenne – come
ha detto Lukes – “un termine simbolico con un significato ideologico
straordinario, esprimente tutto ciò che nelle varie epoche era stato incluso
nella filosofia dei diritti naturali, nel credo nella libera impresa, e nel
Sogno Americano”, tanto da divenire una sorta di “simbolo di
107 Charles Taylor, Il disagio della modernità, cit., p. 35.
78
identificazione nazionale” [traduzione mia]108, un valore fondante della
giovane nazione americana.
Di fronte ad un’accoglienza tanto trionfale risulta spontaneo
chiedersi: quali sono state le ragioni di questa idealizzazione
dell’individualismo, che ha contrastato sul nascere con grande successo
qualunque forma di dottrina e sé contraria? Tra le tante possibili
spiegazioni prospettate dai vari autori, ne ho selezionate alcune che
sembrano avere una rilevanza particolare.
Secondo Taylor, il motivo principale che ha determinato il successo
del processo di individualizzazione, e di conseguenza delle dottrine
individualiste, è dato dall’apertura della frontiera ad ovest dopo il
distacco dall’Inghilterra. Così, “l’indipendenza divenne una realtà per un
gran numero di giovani, e spesso anche di donne, che potevano e in effetti
fecero fortuna da soli, lasciando le proprie famiglie e in molti casi
rompendo con le loro comunità e con i tradizionali legami di
dipendenza”109.
Su questa linea si colloca anche Laurent, che però, oltre ad affermare
l’importanza della frontiera, aggiunge degli elementi nuovi. Il primo di
questi consiste nel porre l’attenzione sul fatto che gli Stati Uniti,
soprattutto nel nord, vennero colonizzati da emigranti inglesi e
protestanti, fortemente inclini all’autogoverno e alla libera iniziativa
individuale. Inoltre, la mancanza di una gerarchia consolidata aveva
escluso in partenza molti potenziali oppositori, ed in particolare nobili e
alto clero spaventati dall’idea di perdere i propri privilegi. In questo
senso, si potrebbe forse stabilire un parallelismo con le antiche colonie
della Magna Grecia che, proprio grazie ad una distanza geografica
108 “a symbolic catchword of immense ideological significance, expressing all that at various times been implied in the philosophy of natural rights, the belief in free enterprise, and the American Dream […] a symbol of national identification”, Steven Lukes, op. cit., pp. 37-38. 109 Charles Taylor, Gli immaginari sociali moderni, cit., p. 146.
79
favorevole all’autogoverno e alla mancanza di sistemi gerarchici
particolarmente solidi e strutturati, concessero per prime maggiore
autonomia ai singoli individui, proprio come faranno in seguito gli Stati
Uniti rispetto all’Inghilterra. Infine – sempre secondo Laurent – la
successiva immigrazione, molto differenziata da un punto di vista etnico,
“farà del libero individuo dall’appartenenza relativa, il cardine e il
protagonista di una vita sociale, economia e politica aperta”110. In
quest’ottica, come fa acutemente notare Tocqueville, assunse grande
importanza l’associazionismo, che svolse una funzione d’integrazione
comunitaria in genere affidata in modo quasi esclusivo allo stato
nazionale.
Un’ultima ragione di tale mancanza di solide correnti di opposizione
all’individualismo, evidenziata soprattutto da Millefiorini, è contenuta
nella differenza tra individualismo europeo e americano. L’elemento
principale di questa diversità è dato dal maggiore egualitarismo
dell’individualismo americano, prodotto soprattutto dalle ragioni di cui si
è precedentemente parlato, ed in particolare dalla mancanza di gerarchie
consolidate dal tempo. Tutto ciò ha favorito una maggiore mobilità
sociale rispetto all’Europa, facendo sì che chiunque avesse la possibilità
potenziale di arricchirsi. Probabilmente è proprio questa l’essenza del
cosiddetto ‘Sogno Americano’. A dimostrazione del maggiore
egualitarismo si può di nuovo chiamare in causa Tocqueville, che nel suo
celebre libro intitolato La democrazia in America afferma: “negli Stati
Uniti le professioni sono più o meno faticose, più o meno lucrative, ma
non sono mai alte o basse; ogni professione onesta è onorevole”111.
Questo aspetto è importante, perché l’impostazione più egualitaria
dell’individualismo americano ha probabilmente contribuito a soffocare
110 Alain Laurent, op. cit., p. 95. 111 Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, Milano, Rizzoli, 1982, p. 568.
81
CAPITOLO V
IL XX SECOLO: ECLISSI DELL’INDIVIDUALISMO,
TRIONFO DELL’INDIVIDUALIZZAZIONE?
1. Forme metropolitane dell’individualizzazione e società di massa
Nel periodo che va dagli ultimi decenni del XIX ai primi del XX
secolo, l’Occidente è passato da una società ancora fortemente
caratterizzata da marcate forme di stratificazione sociale, tanto nel reddito
quanto negli stili di vita, ad una società – cosiddetta ‘di massa’ – in cui
alcuni dei fattori della stratificazione, soprattutto di carattere culturale,
assumono una diffusione che segna un cambiamento profondo nelle
dinamiche di riproduzione sociale. Questo fenomeno viene in genere
indicato come contraddistinto, tra le altre cose, dal trasferimento di buona
parte della popolazione dalle attività agricole delle campagne a quelle
industriali delle città, portando allo sviluppo di centri urbani di grandi
dimensioni. Georg Simmel è stato il primo sociologo ad occuparsi in
modo approfondito di questi nuovi agglomerati abitativi, vivendo e
osservando gli anni dell’impressionante crescita demografica di Berlino,
che passò da un milione di abitanti nel 1877 a due e mezzo nel 1900.
Le metropoli hanno così precorso i tempi, mettendo in evidenza già a
cavallo tra Ottocento e Novecento le potenzialità, i problemi e le
contraddizioni che si sarebbero poi manifestati nei decenni successivi con
il pieno dispiegamento della moderna società di massa.
82
Per le sue ricerche, Simmel sceglie, contro l’uso del tempo, di
prendere come punto di riferimento l’individuo nelle sue dinamiche
psicologiche e sociali, e partendo da questi presupposti metodologici
individua almeno due caratteristiche delle metropoli molto rilevanti per
capire il “tipo delle individualità metropolitane”112.
Il primo tratto particolare delle grandi città moderne consiste
nell’essere la sede naturale dell’economia monetaria, perché in esse gli
scambi si intensificano tanto da rendere il denaro indispensabile come
mezzo di scambio; nelle campagne invece, la minore quantità di merce
circolante attenua la rilevanza di tale medium. In questa situazione, da un
punto di vista economico-psicologico – afferma Simmel – “l’essenziale
[…] è che in condizioni più primitive si produce per un cliente che ordina
la merce, così che produttore e cliente si conoscono reciprocamente. La
metropoli moderna, al contrario, vive quasi esclusivamente della
produzione per il mercato, cioè per clienti totalmente sconosciuti, che
non entrano mai nel raggio visuale del vero produttore. Questo fa sì che
l’interesse di entrambe le parti diventi di una spietata oggettività; il loro
egoismo economico, basato sul calcolo intellettuale, non deve temere
nessuna distrazione che provenga dall’imponderabilità delle relazioni
umane” [corsivo mio]113. Le relazioni economiche vengono
spersonalizzate e guidate dalla semplice razionalità ‘contabile’. Questo
produce un effetto molto rilevante dal nostro punto di vista, cioè il fatto
che il denaro, da semplice medium per lo scambio di beni, diventa il
parametro di riferimento per le relazioni umane, attraverso quella che
Simmel definisce “mera neutralità oggettiva”114. L’egoismo economico
che si instaura induce a considerare gli individui solo in relazione al
guadagno che possono portare. Come già detto in riferimento 112 Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, Roma, Armando Editore, 1995, p. 36. 113 Ivi, p. 39. 114 Ivi, p. 38.
83
all’utilitarismo settecentesco, un atteggiamento di questo tipo produce
delle contraddizioni in relazione all’individualismo, perché se da una
parte favorisce lo sviluppo di un individualismo economico estremo,
dall’altra nega la dignità intrinseca dell’essere umano, ridotto ad un
valore monetario. Tutto ciò garantisce un certo grado di libertà
individuale dovuto all’eliminazione dei vincoli tradizionali, ma allo
stesso tempo tale libertà viene limitata dal fatto che – come nota Bettin –
gli individui “da attori economici si trasformano in oggetto di azione
economica”115.
Oltre a questa prima fondamentale caratteristica delle metropoli, che
le differenzia dagli altri tipi di insediamento, Simmel ne individua anche
una seconda: l’intensificazione della vita nervosa, prodotta da un aumento
esponenziale di stimoli sensoriali, sollecitazioni, relazioni e impressioni
sia esteriori che interiori.
La somma delle due peculiarità sopra esposte produce – sempre
secondo Simmel – il comportamento tipico degli abitanti delle metropoli:
l’essere blasé. Questo atteggiamento psicologico consiste sostanzialmente
“nell’attutimento della sensibilità rispetto alle differenze tra le cose, non
nel senso che queste non siano percepite – come sarebbe il caso per un
idiota – ma nel senso che il significato e il valore delle differenze, e con
ciò il significato e il valore delle cose stesse, sono avvertiti come
irrilevanti. Al blasé tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco,
incapace di suscitare preferenze”116. Quest’indifferenza generalizzata è
prodotta da una parte dal fatto che se il denaro costituisce il termine
universale di paragone, tutte le differenze qualitative degli oggetti (uso,
materiale, peso, colore,…) diventano quantitative (costo). Dall’altra parte,
l’atteggiamento blasé ha anche una funzione ‘difensiva’ rispetto al
115 Gianfranco Bettin, op. cit., p. 112. 116 Georg Simmel, op. cit., p. 43.
84
numero eccessivo di stimoli nervosi. Se all’incredibile quantità di contatti
esteriori corrispondesse un numero altrettanto grande di relazioni
interiori, l’individuo diverrebbe “interiormente del tutto disintegrato”,
finendo per trovarsi “in una condizione psicologica insostenibile”117.
Dal nostro punto di vista appare molto interessante un’ulteriore
osservazione di Simmel sul rapporto tra l’aumento degli stimoli nervosi e
la percezione del proprio io. Secondo il sociologo tedesco, l’io “si eleva
al di sopra di questi stimoli solo nella misura in cui, proprio attraverso la
grande quantità delle loro diversità, diviene evidente alla nostra coscienza
che l’io stesso ne è il fattore comune”118. Da queste premesse si può
facilmente concludere che le moderne società metropolitane,
moltiplicando la quantità di stimoli esterni, favoriscono lo sviluppo di un
io personale e unico, con conseguenze molto rilevanti sul processo di
individualizzazione.
Accanto a quest’evoluzione della personalità in senso
individualizzante e alla libertà che la metropoli offre, va evidenziato
anche come la distruzione dei legami tradizionali possa produrre un senso
di profonda solitudine e di alienazione, facendo sì che “a volte non ci si
senta da nessuna parte così soli e abbandonati come nel brulichìo della
metropoli: qui come altrove, non è detto affatto che la libertà dell’uomo si
debba manifestare come un sentimento di benessere nella sua vita
affettiva”119.
Proprio per cercare di attenuare questa sensazione, gli abitanti delle
metropoli ricorrono a nuove forme di relazione sociale in sostituzione di
quelle tradizionali. La socievolezza, sulla quale Simmel ha scritto un
breve ma celebre saggio, fa parte di questi nuovi tipi di relazione. In una
realtà guidata dal razionalismo economico la socievolezza, definita come 117 Ivi, pp. 44-45. 118 Georg Simmel, Individuo e gruppo, cit., p. 130. 119 Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, cit., p. 49.
85
il “far società come valore in sé”120, costituisce una valvola di sfogo, un
momento in cui si mettono da parte i propri interessi materiali e le
motivazioni pratiche che spingono alle relazioni per lasciare il campo ad
un “rapporto puramente formale”121. In questi rapporti ciò che dà piacere
non è né il guadagno materiale che se ne può ottenere, né l’importanza
del tema di cui si discute, che deve anzi essere il più possibile neutrale per
evitare tensioni tra interessi contrapposti, ma la semplice forma della
conversazione. In questo senso, la socievolezza può essere intesa come
“arte dell’intrattenimento”122.
Riguardo alla struttura sociale che la metropoli produce, si può
sottolineare il fatto che viene favorito lo sviluppo di una divisione del
lavoro sempre maggiore. Infatti, da una parte le grandi dimensioni di un
insediamento urbano permettono di raggiungere la ‘massa critica’ di
popolazione necessaria all’offerta di una gamma sempre più ampia di
prestazioni particolari, mentre dall’altra la feroce concorrenza dovuta alla
gigantesca estensione quantitativa dell’offerta rende indispensabile una
sempre maggiore differenziazione qualitativa, portando alla crescita della
specializzazione individuale e quindi dell’individualizzazione.
Inoltre, Simmel estrapola dall’osservazione della realtà metropolitana
una regola generale, che ritiene applicabile a tutte le società umane:
“l’estensione quantitativa [della popolazione] provoca una crescente
differenziazione; le differenze interindividuali, originariamente minime,
riguardanti le attitudini esteriori e interiori ed il loro impiego, si
acutizzano a motivo della necessità di assicurarsi con mezzi sempre più
personali risorse vitali sempre più contese. La concorrenza sviluppa la
specificità dell’individuo in proporzione al numero di coloro che vi
120 Georg Simmel, La socievolezza, Roma, Armando Editore, 2005, p. 42. 121 Ivi, p. 43. 122 Ivi, p. 53.
86
partecipano” [corsivo mio]123. In sostanza, Simmel individua un rapporto
diretto tra la dimensione di un gruppo e la differenziazione e
l’individualizzazione in esso riscontrabili.
Tutto ciò produce una struttura sociale estremamente articolata e
complessa, in cui la coesione è garantita dalla forte interdipendenza tra
individui e in cui il processo di individualizzazione si trova ad uno stadio
mai raggiunto prima.
In conclusione, sembra opportuno sottolineare come gli effetti delle
innovazioni sociali prodotte dalle società metropolitane non si limitino
alle aree in questione, ma influenzino in modo significativo anche le vaste
regioni circostanti che per vari motivi intrattengono relazioni con le
metropoli.
2. La categoria di individuo nelle avanguardie artistiche
Proprio nelle grandi città di tutta l’Europa cominciarono a nascere
correnti culturali la cui tematizzazione dell’individualizzazione attraverso
le differenti forme di ‘celebrazione’ dell’individuo costituisce un
interessante indicatore sociologico della profondità di questo fenomeno.
In particolare in Italia si svilupparono vari filoni modernisti tra loro affini,
come quello futurista e quello che ruotava attorno alla rivista La Voce,
che vennero etichettati come ‘avanguardie’.
L’obiettivo di questi movimenti culturali era quello di sfruttare tutte le
potenzialità insite nel processo di modernizzazione e nelle nuove
tecnologie che si rendevano mano a mano disponibili, ma se i liberali
ritenevano che si dovesse lasciare libero sfogo a questo fiume impetuoso
e imprevedibile di cambiamenti, i modernisti miravano ad incanalarlo in
123 Georg Simmel, Individuo e gruppo, cit., p. 71.
87
una direzione decisa dall’uomo: volevano cavalcare l’onda, guidare la
modernità.
Per fare ciò, bisognava conferire significato alle trasformazioni in atto
– come osserva Bontempi – attraverso “un sistema di valori che esaltava
il mutamento, sottolineandone la dimensione etica e simbolica”124. Il
mutamento e il dinamismo come valori in sé divennero dunque elementi
centrali del pensiero modernista. Tutto ciò trovava espressione in una
specifica concezione dell’uomo, quella di un ‘uomo nuovo futurista’ che
fosse in grado di dominare le grandi forze del mutamento e della
modernizzazione, al fine di dirigerle nelle direzione voluta. Dal nostro
punto di vista può essere interessante notare come l’uomo futurista fosse
per definizione elitista e individualista, perché i modernisti ritenevano la
creatività individuale un requisito indispensabile per governare i
mutamenti.
Da questo approccio individualista discende una concezione della
società non come organismo biologico unitario e inscindibile di tipo
olista, ma come associazione di individui, come “comunità di fede”125,
importante solamente in quanto cornice all’interno della quale realizzare
la propria individualità nel senso di una riappropriazione del controllo
sulla realtà che permettesse un vero self-development.
La volontà di guidare la modernità attraverso la forza dell’uomo
nuovo portò gli avanguardisti a mitizzare la guerra126 come evento che
“offre l’opportunità dell’affermazione di un individualismo che domina
eticamente la potenza della tecnica, in una sorta di eroismo moderno”127.
Lo scoppio della prima guerra mondiale venne così salutato dai
modernisti come un’occasione imperdibile per dimostrare la loro potenza 124 Marco Bontempi, Mito politico e modernità, Padova, CEDAM, 1997, p. 97. 125 Ivi, p. 106. 126 Non a caso il termine ‘avanguardia’ in riferimento a movimenti artistici costituisce una metafora tratta dal linguaggio militare. 127 Ivi, p. 116.
88
dinamica. Dopo aver visto trionfare le proprie posizioni interventiste con
l’ingresso dell’Italia nel conflitto, molti intellettuali delle avanguardie si
arruolarono volontariamente nell’esercito ed entrarono nel corpo degli
arditi.
Mentre la guerra fu un’esperienza terribile per i comuni soldati di
fanteria che, fermi nelle trincee ed esposti a continui bombardamenti, si
sentivano impotenti davanti allo strapotere della tecnica e degli
armamenti moderni, facendo sì che “di fronte all’autonomia dell’evento,
l’identità dell’attore [il soldato] entrava in crisi”128, per gli arditi la
situazione fu completamente diversa. Questo reparto non era infatti stato
istituito per la guerra di logoramento nelle trincee, ma concepito come
corpo di volontari e d’élite votato al compimento di azioni
particolarmente rischiose e coraggiose. Così, l’azione militare diviene
“azione individuale, connotata, nei limiti delle possibilità militari, dei
tratti di autonomia e creatività, e attraverso questa azione l’individuo
mostra agli altri e a se stesso la capacità di dominare gli eventi bellici”
[corsivo mio]129. In tal senso, pare interessante notare che l’incontro tra la
concezione elitistica dell’individuo e l’esperienza della violenza bellica di
questa peculiare frazione dei militari impegnati al fronte trovò già prima
della fine della guerra un’elaborazione politica. Nel 1917 il futurista
Emilio Settimelli scriveva infatti: “Questa educazione politica è un bene
enorme. Non dovrà essere perduta quando – dopo la guerra – un grande
partito nazionale darà il ritmo della nuova vita italiana. L’educazione
dovrà continuarsi. Ormai la guerra – maestra severa – ha insegnato l’abc.
Bisogna continuare”130.
128 Ivi, p. 137. 129 Ivi, p. 142. 130 Emilio Settimelli, “Qual è la nostra più grande Vittoria”, in L’Italia Futurista, 1917, n. 1.
89
3. L’asservimento dell’individualizzazione alla sfera politica nei
regimi totalitari131
È proprio ad alcuni dei valori sopra citati che si rifaceva l’ideologia
fascista nelle sue fasi iniziali, quando la componente modernista e legata
agli arditi era maggioritaria all’interno del movimento. Con l’avvento al
potere però, gli ideali modernisti di cui Mussolini si era servito
evidenziarono i propri limiti intrinseci. Infatti, l’idea di dinamicità e di
cambiamento continuo come valori in sé e la conseguente incapacità di
passare da una struttura movimentista ad una istituzionale e fortemente
gerarchizzata rendevano difficile e contradditorio il rapporto tra i principi
modernisti e l’instaurazione di un regime, in particolare in relazione
all’attività di governo. Questa tensione interna tra modernisti e fascisti
istituzionali, ben riassunta dal contrasto tra D’Annunzio e Mussolini,
portò il partito sull’orlo di una scissione. In seguito, con la conquista del
potere e la sconfitta della componente modernista, vennero messe da
parte le istanze individualiste che l’avevano contraddista.
A ben vedere, questa tensione è facilmente comprensibile proprio per
la peculiare avversione che le ideologie totalitarie manifestano verso ogni
forma di individualismo. Tali ideologie partono infatti da una concezione
fortemente olista della società, in cui l’individuo inteso singolarmente
viene percepito come una pericolosa astrazione generata dal mondo
borghese e liberale, e in cui viene affermato l’assoluto primato della
comunità nel suo insieme. Mussolini stesso ne Il fascismo (1929)
afferma: “se il XIX secolo è stato il secolo dell’individuo (liberalismo
131 La definizione di ‘regime totalitario’ estesa al fascismo italiano è discutibile, perché nonostante numerosi studiosi la ritengano corretta, sottolineando la volontà del regime fascista di controllare la totalità della vita dei cittadini, altri autori la mettono in discussione e preferiscono l’espressione ‘regime autoritario di mobilitazione’, evidenziando come nei fatti il PNF non detenesse un potere totale e illimitato in Italia, ma che avesse nella monarchia e soprattutto nella Chiesa cattolica dei contraltari efettivi.
90
significa individualismo), si può pensare che il secolo attuale sia il secolo
del collettivo”132. Persino l’idea del valore insito in ogni singolo essere
umano, che sta alla base del principio della dignità individuale, viene
sacrificato – come nota Lukes – in funzione di una supposta superiorità
della collettività nel suo insieme133. L’idea di fondo è quella di creare
un’entità superindividuale in grado di sottomettere e gestire la modernità.
Si può così affermare che da tale punto di vista la differenza principale tra
i diversi regimi stava nel fatto che il fascismo identificava quest’entità
con lo stato, il nazismo con il Volk, il popolo caratterizzato in senso
etnico, mentre il comunismo con la classe operaia. Si tratta tuttavia di
varianti che convergono nella negazione tanto della dignità quanto
dell’autonomia del singolo individuo.
Non tutti gli studiosi sono però d’accordo nel classificare le ideologie
di questi regimi come completamente oliste. Dumont, ad esempio, mette
in evidenza come il nazismo, accanto ai caratteri fortemente comunitari di
cui si è parlato, presentasse anche istanze di tipo individualista. Infatti, il
darwinismo sociale insito nelle idee razziste espresse da Hitler nel Mein
Kampf presupponeva che i soggetti primi fossero gli individui biologici in
lotta tra loro, e l’avversione dei nazisti per ogni forma di carica ascrittiva
favoriva un ugualitarismo delle opportunità di tipo individualista, anche
se limitato agli ‘ariani’134.
In ogni caso, una prova dell’orientamento tendenzialmente olista di
questi regimi consiste nella comune adesione ad un sistema parlamentare-
istituzionale di tipo corporativo. Tale assetto rovesciava uno dei principi
dell’individualismo politico su cui si basavano i regimi liberali e liberal-
democratici, e cioè la visione dell’arena politica come luogo del conflitto
tra interessi individuali contrastanti. Il sistema corporativo prevedeva 132 Cfr. Alain Laurent, op. cit., p. 87. 133 Cfr. Steven Lukes, op. cit., p. 52. 134 Cfr. Louis Dumont, op. cit., pp. 182-183.
91
infatti di sostituire la lotta tra gli interessi individuali con quella tra gli
interessi di interi settori produttivi, eliminando ogni spazio di autonomia
politica per i singoli individui.
Anche in campo economico l’approccio dei totalitarismi fu simile. Il
mercato, inteso come luogo di interazione tra gli interessi individuali,
venne fortemente alterato o eliminato e sostituito da un dirigismo
economico che si proponeva di perseguire l’interesse generale.
L’economia venne così in tutti e tre i casi subordinata alla politica, anche
se con intensità diverse. Mentre i totalitarismi di destra mantennero una
sorta di mercato, per quanto distorto dal pesante intervento statale, il
regime sovietico eliminò la proprietà privata, e con essa anche quei pochi
brandelli di autonomia economica e quindi individuale che erano rimasti
sotto nazismo e fascismo.
Da un punto di vista sociale dunque, i totalitarismi puntarono
principalmente a frenare e a far regredire il processo di
individualizzazione in atto. Per fare ciò, cercarono di ridurre al minimo i
contatti precedentemente esistenti tra individui, al fine di creare un
isolamento sociale diffuso e di trasformare il partito-stato nell’unico
intermediario possibile per la socializzazione. In Germania, ad esempio, il
regime promosse il fenomeno della Gleichschaltung, cioè
dell’allineamento di tutte le associazioni tedesche al nazismo al fine di
renderle meglio controllabili. Inoltre vennero introdotti rituali e pratiche
superindividuali, di cui l’esempio più celebre è riscontrabile nelle adunate
di Norimberga del 1935, che per mezzo della ‘fusione mistica’ dei singoli
esseri umani grazie al regime miravano a favorire la percezione della
collettività come organo superindividuale. In conclusione, nella
prospettiva del nostro lavoro sembra opportuno sottolineare che, pur in un
intreccio non lineare tra processi di modernizzazione e dinamiche dei
regimi, i totalitarismi mostrano una tendenza a subordinare
92
l’individualizzazione alla sfera politica, ed in particolare ad una
concezione olistica dell’azione politica e di governo.
Dagli elementi sopra esposti appare chiaro come tutti i regimi in
questione avessero come contraltare ideologico non il totalitarismo di
segno opposto, ma il liberalismo, promotore e difensore dell’ordine
morale moderno e delle dottrine individualiste che lo accompagnano.
Secondo Taylor, l’affermazione definitiva e pressoché universale,
almeno da un punto di vista politico, dell’ordine morale moderno è
avvenuta solamente nel 1945, con la vittoria militare delle democrazie
liberali anglo-americane sui totalitarismi olisti di destra. È vero, anche tra
gli Alleati c’era un regime totalitario e olista, l’Unione Sovietiva, ma si
trovava in netta minoranza all’interno della propria coalizione. Non è
però certo un caso il fatto che subito dopo la fine della guerra l’alleanza si
ruppe e si creò un nuovo fronte di divisione tra gli stati individualisti e
quelli olisti di tipo comunista.
Comunque sia, da un punto di vista giuridico – come fa notare
Antonio Cassese – è proprio con la fine della seconda guerra mondiale, e
più precisamente con il processo di Norimberga, che viene formulato il
concetto di ‘crimine contro l’umanità’, e cioè di un crimine tanto grave da
essere perseguibile anche se la legislazione del paese nel quale è stato
perpetrato non lo vieta esplicitamente. Il riconoscimento di una serie di
diritti, che in buona parte riprendono i diritti naturali di Grozio e Locke,
continua con la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 e con
molte altre dichiarazioni e norme successive. Dal nostro punto di vista
tutto ciò è interessante in quanto si ottiene un riconoscimento esteso a
tutto il mondo, anche se limitato al piano giuridico, della pari dignità che
contraddistingue ogni singolo essere umano, portando ad un’espansione
territoriale senza precedenti di tale concetto.
93
Un ruolo centrale in questo sviluppo è stato ricoperto dalle Nazioni
Unite. Come osserva Cassese, l’ONU “promuovendo tenacemente ed
instancabilmente il rispetto dei diritti umani, ha introdotto un nuovo ethos
nella comunità internazionale. Essa ha gradualmente messo in atto una
sorta di rivoluzione copernicana: mentre prima l’intero sistema
internazionale aveva come cardine la sovranità dello Stato, oggi sono gli
individui a costituire il perno di questa comunità” [corsivo mio]135. Infatti
oggi, a differenza di quanto avveniva in passato, gli stati sono visti
“principalmente in funzione della tutela degli interessi e dei bisogni degli
individui”136.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, il numero delle strade
imboccate da individualismo e individualizzazione si è moltiplicato ad un
ritmo impressionante, producendo una realtà estremamente eterogenea e
complessa. Le ragioni di questo incredibile sviluppo sono molteplici. La
prima è certamente la naturale accelerazione a cui è stato sottoposto il
processo di individualizzazione in seguito ai cambiamenti culturali
avvenuti nell’ultimo mezzo secolo, e di cui Cassese ha mostrato uno dei
molteplici aspetti. Inoltre la crescente diffusione di mezzi di
comunicazione sempre più efficaci ha permesso la proliferazione di
nuove teorie e sotto-teorie individualiste, creando così un intricato e
confuso groviglio concettuale difficilmente districabile. Infine – e questa
è forse la ragione più importante – la prossimità storica del periodo preso
in esame non ha ancora permesso al tempo di operare una ‘selezione’ tra i
diversi approcci e le differenti forme sociali.
135 Antonio Cassese, Diritto internazionale, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 168. 136 Ibidem.
94
Per queste ragioni è sembrato opportuno non trattare in forma
specifica e dettagliata gli sviluppi recenti dei due fenomeni legati
all’individuo, ma considerarne gli effetti sociali complessivi secondo un
punto di vista differente, e tuttavia tanto vicino al processo di
emancipazione individuale da rappresentarne in qualche modo il rovescio
della medaglia. Si tratta della questione, in epoca moderna divenuta
problematica, dell’identità. Questo tema viene spesso considerato centrale
per la comprensione delle società contemporanee, e l’influenza che il
processo di individualizzazione ha avuto su di esso è innegabile. Infatti,
se da una parte ha significato una maggiore libertà nella definizione dei
ruoli sociali, dall’altra ha imposto un’inevitabile assunzione di
responsabilità da parte degli individui nei confronti delle scelte
concernenti la propria identità.
Nel prossimo capitolo si cercherà quindi di chiarire alcuni elementi
riguardanti l’identità, come la sua recente problematizzazione, il difficile
compito della sua costruzione nelle società contemporanee e il rapporto
che intercorre tra questa e il processo di individualizzazione.
95
CAPITOLO VI
LA QUESTIONE DELL’IDENTITÀ NEL MONDO
CONTEMPORANEO
1. L’identità come problema
Come si è cercato di illustrare per sommi capi nei capitoli precedenti,
nel corso dei secoli il grado di individualizzazione delle società
occidentali è cresciuto in modo molto significativo, soprattutto con il
passaggio alla modernità.
Mentre in passato i ruoli sociali e le identità ad essi connesse erano in
in buona parte attribuiti alla nascita, nelle società moderne si è
gradualmente fatto strada il criterio elettivo, cioè la possibilità per un
individuo di definire personalmente gran parte dei propri ruoli
indipendentemente dalla condizione sociale legata alle proprie origini. Si
tratta, come è noto, di un cambiamento epocale che, seppur frenato da
molti fattori, ha comunque ampliato in modo smisurato le possibilità dei
singoli. In questo senso si è attivato un processo in forza del quale nella
società moderna l’identità tende a “diventare il risultato di una scelta
individuale piuttosto che di un’attribuzione sociale”137.
La possibilità di definire individualmente la propria identità attraverso
l’autoattribuzione di buona parte dei propri ruoli sociali è uno dei caratteri
essenziali che contraddistinguono il mondo moderno. Tuttavia, come ogni
scelta, anche la definizione della propria identità attiva dinamiche 137 Franco Crespi, op. cit., p. 7.
96
complesse. Il fatto stesso di poter scegliere tra più alternative impone
quanto meno una riflessione sul criterio da utilizzare per prendere le
proprie decisioni e da questa riflessione nasce il problema, tutto moderno,
dell’identità. Non che nel mondo premoderno il bisogno di identità fosse
sconosciuto; anzi, esso era importante quanto lo è oggi, ma le identità si
strutturavano in forza di appartenenze a gruppi e venivano assegnate da
agenti esterni con ridotti margini da parte dell’individuo per intervenire
concretamente su tale processo. Con l’avvento della modernità invece, gli
individui si sono trovati nella condizione di poter intervenire direttamente
sui propri ruoli sociali. Come mette bene in evidenza Bauman, “ci sono
voluti la lenta disintegrazione e l’affievolirsi della tenuta delle comunità
locali, sommati alla rivoluzione dei trasporti, per spianare il terreno alla
nascita dell’identità: come problema e, principalmente, come compito”138.
In questo contesto appare corretta l’affermazione secondo cui
“l’individualizzazione consiste nella trasformazione dell’’identità’ umana
da qualcosa di ‘dato’ a un ‘compito’, e nell’attribuzione agli attori della
responsabilità rispetto alla realizzazione di questo compito e delle
conseguenze (anche degli effetti collaterali) delle loro azioni”139.
Questa trasformazione ha dunque importanti implicazioni di senso. Il
fatto che oggi non solo possiamo, ma dobbiamo scegliere, in quanto
anche il non-scegliere è comunque una scelta, è forse l’elemento che più
ci differenzia da coloro che sono vissuti nelle epoche premoderne. In altre
parole, l’individualizzazione e le scelte individuali che questa comporta
diventano “un destino, non una scelta”140.
138 Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 17. 139 Zygmunt Bauman, “Individualmente, insieme”, cit., p. 6. 140 Ivi, p. 8.
97
2. Ricerca e costruzione dell’identità
Dopo aver cercato di evidenziare la problematicità per gli individui
delle società contemporanee della definizione della propria identità, si
può cercare di mettere in evidenza alcuni aspetti legati alla sua ricerca e
alla sua costruzione.
Il primo elemento da sottolineare è dato dal fatto che il passaggio alla
modernità ha comportato anche quello da un insieme di identità e di
gruppi d’appartenenza ascrittivi e disposti in modo concentrico rispetto
all’individuo (famiglia, villaggio, regno,…) ad una situazione
estremamente più complessa e articolata, in cui le identità e le
appartenenze si intersecano, si sovrappongono e contrastano tra loro,
portando ad un numero pressoché infinito di potenziali combinazioni.
Nelle società contemporanee un individuo può essere allo stesso tempo
membro di una famiglia, di un partito, di un circolo sportivo, di
un’associazione umanitaria, di un’organizzazione di categoria, di una
tifoseria calcistica e di innumerevoli altri gruppi.
Un secondo elemento fondamentale nel processo di costruzione
dell’identità moderna è la ricerca continua della reversibilità nella scelta
dei gruppi d’appartenenza e più in generale in ogni decisione riguardante
la propria vita. È proprio questa possibilità di reversibilità ciò che sta più
a cuore all’uomo contemporaneo e lo fa sentire libero. Le scelte
irreversibili vengono percepite come vincoli insopportabili e limitanti da
cui mantenersi il più possibile lontani. La ‘vera libertà’ diviene così la
libertà di cambiare ogni volta che se ne sente l’esigenza, proprio come
Peer Gynt, il protagonista dell’omonima pièce teatrale di Henrik Ibsen,
che ne fa il faro della propria vita: “Ciò che costituisce tutta l’arte di
osare, l’arte di avere il coraggio di agire, è: restar libero di scelta in
mezzo ai tranelli insidiosi che la vita ci tende… sapere di certo che col
98
giorno di lotta non hanno termine i giorni… sapere che ci resta aperto un
ponte che permette la ritirata. Questa teoria mi ha sempre sorretto, e ha
colorato tutta la mia esistenza” [corsivo mio]141.
La combinazione delle due caratteristiche sopra delineate, e cioè la
complessa molteplicità delle appartenenze e la ricerca della reversibilità
in ogni scelta, ci porta ad un’importante conclusione: nelle società
contemporanee l’identità non potrà mai essere determinata in modo
definitivo; sarà invece sempre suscettibile di ulteriori cambiamenti. In
questo senso si può dire che l’identità moderna non è un punto d’arrivo,
ma un processo senza fine di costante adattamento ad esigenze sempre
nuove.
Costruire una simile identità è un’esperienza faticosa e angosciante.
Se da una parte la reversibilità rende qualunque errore meno rilevante,
dall’altra la mancanza non solo di un percorso prestabilito, ma anche di
una meta certa verso la quale rivolgere lo sguardo produce una forte
insicurezza. Le nuove opportunità offerte dalla sostituzione del metodo
ascrittivo con quello elettivo si trasformano facilmente in rischi. Questo è
il prezzo della modernità; anzi, questo è il prezzo
dell’individualizzazione.
In un libro sotto forma di Intervista sull’identità, Bauman prova a
spiegare la situazione di chi oggi cerca di costruire la propria identità
attraverso la metafora del puzzle. Un individuo che cerchi di costruire la
propria identità deve trovare i pezzi che compongono l’immagine finale e
collocarli al posto giusto. Ma, secondo il sociologo polacco, tale metafora
è solo parzialmente corretta, perché nella realtà il compito è molto più
difficile. Infatti, mentre per un puzzle abbiamo la certezza di avere tutti i
pezzi, un’immagine di riferimento (un obiettivo a cui arrivare) e una sola
soluzione corretta, “nessuna di queste agevolazioni è disponibile nel 141 Henrik Ibsen, Peer Gynt, Torino, Einaudi, 1975, pp. 62-63.
99
momento in cui componi la tua identità… È vero, sul tavolo sono a
disposizione tanti piccoli pezzi che speri di poter incastrare l’uno con
l’altro fino a ottenere un insieme dotato di senso, ma l’immagine che
dovrebbe emergere al termine del lavoro non è fornita in anticipo, e
pertanto non puoi sapere per certo se possiedi tutti i pezzi necessari per
comporla, se i pezzi scelti fra quelli sparsi sul tavolo siano quelli giusti,
se li hai messi al posto giusto e se servono a comporre il disegno
finale”142. Inoltre, si potrebbe aggiungere che probabilmente non esiste
un’immagine finale, ma solo immagini temporanee adatte ai bisogni di un
dato momento.
Di fronte alla difficoltà e all’incertezza di una sfida di questo genere,
molti individui si spaventano e rimpiangono l’ordine e la semplicità del
mondo premoderno, in cui ogni cosa aveva una sua collocazione e un suo
senso in relazione al ‘Tutto’. Questo è uno degli elementi che creano il
‘disagio della modernità’ di cui parla Taylor, perché la perdita di un
proprio ruolo certo e definito rischia di portare ad una perdita di senso
della vita stessa. Da un simile punto di vista, la difficoltà principale della
modernità sta nel fatto che – come osserva Bauman – “ogni identità
sfrutta fino in fondo uno, e uno soltanto, dei due valori, entrambi amati e
ugualmente indispensabili per un’esistenza umana decente e compiuta: la
libertà di scelta e la sicurezza offerta dall’appartenenza”143. È in questa
chiave che si combatte oggi la nuova battaglia tra possibilità di scelta e
ascrizione. Il paradosso sta però nel fatto che nella società contemporanea
anche la difesa dell’ascrizione è una scelta.
In quest’ottica Bauman evidenzia come le forme di associazione
moderne siano ‘comunità a tempo’, fragili e di breve durata. Infatti, ciò
che oggi spinge gli individui ad unirsi non è un senso di comune
142 Zymgunt Bauman, Intervista sull’identità, cit., p. 56. 143 Ivi, p. 76.
100
appartenenza, ma preoccupazioni e paure condivise rispetto a singole
tematiche e scelte, che una volta scomparse portano l’associazione
all’estinzione. Partendo da questa fragilità di fondo delle comunità
contemporanee, viene proposta anche una spiegazione per il fiorire dei
fondamentalismi, molto interessanti dal nostro punto di vista perché
tendenti a negare la libertà e la dignità del singolo in funzione di una
maggiore unità e coesione del gruppo. Le persone che preferiscono la
sicurezza dell’appartenenza alla libertà di scelta possono essere attratte
dai fondamentalismi perché questi, bollando come eretiche tutte le
alternative a se stessi, propongono una visione del mondo dalla quale tutti
i dubbi vengono spazzati via ed in cui si trova una risposta, per quanto
fittizia, a tutti i problemi dell’umanità, riuscendo a sconfiggere
l’insicurezza generata dal mondo moderno. Dal nostro punto di vista è
tuttavia importante sottolineare come la rinuncia alla ricerca di una
propria identità personale e alla libertà individuale significhi in qualche
modo una regressione del processo di individualizzazione fino al suo
stadio iniziale e tribale. Tale questione pone il problema del rapporto,
sempre più conflittuale, tra un’identità personale ed una sociale.
3. Una distinzione importante: identità-Io e identità-Noi
Se partiamo dal presupposto che l’identità è – secondo Crespi – “ciò
che permette di definire noi stessi sia nella nostra individualità
irripetibile, sia in quanto appartenenti a un gruppo, a un’unità sociale, a
un mondo” [corsivo mio]144, appare subito evidente l’importanza della
distinzione tra identità personale e identità sociale a cui fa riferimento,
144 Franco Crespi, op. cit., p. IX.
101
anche se con termini diversi145, la quasi totalità degli studiosi che si
occupano di questa tema. Riprendendo la definizione di Crespi, si può
dire che la prima identità tende a evidenziare ciò che differenzia gli
individui, mentre la seconda pone l’accento su ciò che li accomuna.
Elias ritiene che questa duplicità identitaria scaturisca dalla necessità
dell’uomo moderno di trovare un equilibrio tra due esigenze contrastanti:
da una parte si avverte il bisogno di essere uguali agli altri, mentre
dall’altra si desidera fortemente distinguersi e non essere solo ‘uno dei
tanti’. Pare in tal senso agevole stabilire un parallelismo tra questi due
istinti e le due forme di individualismo teorizzate da Simmel e delle quali
si è a lungo parlato: l’individualismo quantitativo settecentesco, che pone
l’accento sull’importanza dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, e
quello qualitativo romantico e ottocentesco, che si concentra invece su ciò
che differenzia e caratterizza ogni singolo individuo. Una volta proposta
tale simmetria può essere ragionevole pensare che questa tensione
istintuale sia generata dall’interiorizzazione ad opera dell’ordine morale
moderno di entrambi i tipi di individualismo, come ad esempio fa Taylor
stabilendo una relazione di causalità diretta tra l’influenza del
Romanticismo tedesco e l’ideale contemporaneo dell’autenticità (o self-
development).
Gli individui necessitano – secondo Crespi – di entrambe le identità:
“senza identità personale, senza una certa differenza rispetto agli altri,
l’individuo cade in una sorta di anonimato, tende a non avere più
un’immagine interiorizzata di sé, […] ma anche l’identità sociale è per lui
altrettanto importante, in quanto, senza una certa similarità con gli altri,
l’individuo corre il rischio di non riuscire più a comunicare con il suo
145 Per esprimere questi due concetti sono state impiegate formule linguistiche differenti ma pressoché identiche nel loro significato: Crespi parla di ‘identità personale’ e ‘identità sociale’, Elias di ‘identità-Io’ e ‘identità-Noi’, Ricoeur di ‘identità ipse’ e ‘identità idem’.
102
prossimo e, quindi, di venire rifiutato o emarginato. Ne è un esempio il
caso del folle” [corsivo originale]146.
Riguardo al punto d’equilibrio tra le due identità, non tutti gli studiosi
partono dalla medesima prospettiva. Elias ritiene empiricamente
dimostrabile che nelle società più primitive l’identità-Noi prevalesse
sull’identità-Io, mentre reputa altrettanto certo che nelle società
contemporanee la situazione sia rovesciata. Simmel sostiene invece che
esista “un quantum della tendenza all’individualizzazione e di quella
all’indifferenziazione che è determinato dalle circostanze personali,
storiche e sociali, e che resta uguale sia che emerga nella configurazione
puramente personale sia in quella della comunità sociale di cui la persona
fa parte”147. In sostanza, Simmel non considererebbe l’affermazione di
Elias di per sé sbagliata, ma metterebbe l’accento sul fatto che non tutte le
società hanno lo stesso grado di ‘personalizzazione’. Come ha osservato
Luhmann, le comunità più chiuse verso l’esterno e più settarie, come ad
esempio le tribù, possono permettersi tanta indifferenziazione interna solo
perché sono esse stesse ‘personalizzanti’, riuscendo a creare una netta
differenza tra i propri membri e quelli delle altre tribù e soddisfacendo
così l’esigenza di distinzione innata in ogni essere umano. Allargandosi,
invece, le società tendono a formulare regole astratte e spersonalizzate,
spingendo così gli individui a cercare il proprio quantum di
individualizzazione nell’identità personale.
Riguardo alla proposta simmetria tra identità personale e
individualizzazione da una parte, e identità sociale e olismo dall’altra, va
sottolineato come anche Simmel riconosca la sua tendenziale validità. In
genere, le società individualizzate vedono prevalere l’identità personale, e
viceversa. Ciò che Simmel vuole mettere in evidenza è tuttavia il fatto
146 Ivi, p. XI. 147 Georg Simmel, op. cit., p. 81.
103
che tra questi elementi non esiste un rapporto di causalità diretta
dimostrato, infallibile e sempre valido, ma solo la constatazione empirica
di una tendenza di fondo.
Il problema che si pone parlando delle due identità è però la loro
delimitazione effettiva. Mentre per quanto riguarda l’identità personale
appare ovvio che il punto di riferimento sia il singolo individuo, non
altrettanto scontata è la definizione del ‘Noi’ che sta alla base dell’identità
sociale. Come fa notare Elias, esistono vari livelli di identità collettiva: ad
esempio Noi come famiglia, come città, come regione, come nazione e
anche come intera umanità. Ciò che conta davvero, osserva il sociologo
tedesco, è l’ordine d’importanza che i singoli attribuiscono alle identità
sociali elencate, ossia “l’intensità dell’identificazione con questi differenti
piani d’integrazione”148. Elias individua poi una tendenza di fondo che
consiste nel fatto che più il cerchio si allarga e il Noi aumenta
quantitativamente, più il sentimento d’appartenenza e la forza emotiva
che il gruppo suscita si affievoliscono. Un’importante eccezione è in
questo senso costituita dallo stato nazionale. La spiegazione della
rilevanza dell’identità sociale legata al concetto di nazione è composta da
due elementi principali. Il primo è l’attribuzione allo stato, mediante il
contratto sociale, del compito di garantire i più importanti diritti
individuali, e in modo particolare la sicurezza. Il secondo, strettamente
legato al primo, ruota attorno al principio di sovranità, che rende lo stato
un interlocutore fondamentale in molti ambiti in quanto principale
decisore politico. La rilevanza per i cittadini di questi due aspetti e la
percezione dell’insostituibilità delle istituzioni nazionali hanno
gradualmente rafforzato l’identità sociale in relazione allo stato.
Queste considerazioni aprono la strada ad alcune ulteriori riflessioni.
In particolare, lo stesso Elias riconosce che l’importanza attuale 148 Norbert Elias, op. cit., p. 231.
104
dell’identità nazionale non è legata a dimensioni particolari o
‘fisiologiche’ delle società, ma alle funzioni svolte dallo stato. Perciò –
sempre secondo Elias – le principali esigenze degli individui, come la
protezione dei propri diritti, potrebbero in futuro essere appannaggio di
istituzioni sempre più allargate149, fino ad includere l’intera umanità,
anche se “siamo ancora molto distanti dalla possibilità che l’umanità
rappresenti un perno per i sentimenti e un filo conduttore per l’agire degli
individui”150. Il principale ostacolo al rafforzamento di tale identità è il
fatto che storicamente le appartenenze comunitarie si sono formate a
partire da una minaccia esterna. Il Noi è sempre nato in contrapposizione
ad un Loro, secondo una ferrea logica di inclusione ed esclusione.
L’umanità, intesa come idea di inclusione generale, non soddisferebbe
tale ‘requisito empirico’.
Dal nostro punto di vista è comunque rilevante sottolineare come la
possibilità di un rafforzamento di identità sociali facenti riferimento a
collettività più ampie non potrebbe che favorire lo sviluppo del processo
di individualizzazione, se è vero – come sostiene Simmel – che ad un
allargamento quantitativo del gruppo corrisponde sempre un aumento
dell’autonomia dei suoi membri.
149 Un buon esempio di questa tendenza può essere trovato nella creazione dell’Unione Europea, intesa come comunità non solo economica, ma anche politica. 150 Ivi, p. 261.
105
CONCLUSIONE
Giunti al termine di questa sommaria ricostruzione dello sviluppo del
processo di individualizzazione, appare evidente come tale fenomeno
abbia profondamente inciso sulle strutture sociali attraverso i secoli,
proponendosi ora come motore del mutamento, ora come sua diretta
conseguenza. I cambiamenti promossi hanno portato ad un graduale, ma
finora inarrestabile, spostamento del punto d’equilibrio nel rapporto tra
società e individuo a favore di quest’ultimo. Gli effetti di tale
trasformazione sono stati tanto rilevanti quanto contraddittori sul piano
del loro impatto sociale.
Da una parte appare difficilmente confutabile la tesi secondo la quale
il processo di individualizzazione ha garantito ai singoli individui una
crescente libertà di scelta e una maggiore uguaglianza potenziale. Inoltre
va sottolineato come le catastrofiche previsioni dei primi detrattori
dell’individualismo, secondo cui l’aumento dell’autonomia individuale
avrebbe portato all’atomizzazione sociale e addirittura alla dissoluzione
della società con il conseguente ritorno ad uno stato di natura di tipo
hobbesiano, a distanza di più di duecento anni non si siano realizzate.
L’edificio sociale non è crollato, ma è stato ristrutturato secondo logiche
e dinamiche nuove, in cui i vecchi sistemi di appartenenze sono stati
sostituiti da una forte interdipendenza di carattere funzionale, e il criterio
elettivo ha soppiantato quello ascrittivo nell’attribuzione della maggior
parte dei ruoli sociali.
106
Nonostante questi aspetti positivi però, non sempre le società
moderne hanno saputo colmare completamente il vuoto lasciato dalla
dissoluzione – o comunque dal fortissimo indebolimento – dei vincoli
comunitari premoderni, mettendo a repentaglio la coesione sociale e
generando alcuni problemi considerati a ragione tipicamente moderni,
come l’alienazione e l’emarginazione di un numero sempre crescente di
individui, l’egoismo, il narcisismo, l’insicurezza diffusa e l’obbligo di
scegliere a cui si è accennato nel capitolo precedente. Insomma, come
tutti i fenomeni sociali, anche lo sviluppo del processo di
individualizzazione ha risolto alcuni problemi e ne ha posti altri.
1. L’individualizzazione: un processo irreversibile?
A questo punto, continuando a ragionare sul processo di
individualizzazione, risulta spontaneo porsi una domanda: si tratta di
mutamenti irreversibili, definitivamente accettati, oppure di situazioni
temporanee e potenzialmente soggette a ripensamenti? Ad oggi, non
sembrano esserci ragioni convincenti per sostenere che le innovazioni
sociali introdotte con il processo di individualizzazione siano acquisite
una volta per tutte. Va certamente considerato il fatto che negli ultimi
2500 anni, sebbene con un alternarsi di rapide accelerazioni e brusche
frenate, la tendenza di fondo che ha pervaso l’intera società occidentale è
stata quella di una costante crescita dell’individualizzazione, come si è
cercato di dimostrare nei capitoli precedenti. Nonostante ciò, ci sono stati
molteplici tentativi di sconfiggere quest’orientamento individualizzante,
partendo dai controrivoluzionari francesi come Joseph de Maistre per
giungere fino ai totalitarismi di destra e di sinistra che hanno
profondamente segnato la storia del XX secolo. La sconfitta di tali
ideologie di ispirazione olista non è stata scontata come potrebbe
107
sembrare a posteriori, ed è possibile che in futuro nuovi avversari
dell’individualizzazione riescano a riportare importanti vittorie,
sfruttando soprattutto gli inevitabili eccessi e limiti a cui un ulteriore e
prolungato incremento dell’individualizzazione porterebbe, secondo una
sorta di legge del pendolo.
Nonostante la teorica reversibilità del processo di individulizzazione,
può essere utile sottolineare come nessun cambiamento di un certo rilievo
potrebbe essere attuato senza aver prima rinunciato ai principi economici
e politici individualisti e individualizzanti che costituiscono l’essenza
stessa del sistema produttivo capitalista e della democrazia liberale.
Probabilmente per questo motivo una delle principali preoccupazioni dei
regimi totalitari novecenteschi è stata quella di sostituire le due strutture
sociali menzionate con un forte dirigismo economico e con un sistema
elettorale di tipo corporativo.
2. I possibili futuri campi di battaglia dell’individualismo
In conclusione di questo lavoro, appare importante porre l’accento sul
fatto che, oltre a dover costantemente difendere le posizioni già
conquistate, l’individualismo e l’individualizzazione abbiano dal nostro
punto di vista alcune possibilità di sviluppo ‘naturali’ per il futuro, e cioè
logiche conseguenze del loro attuale stadio di maturazione. Appare così
immaginabile che i progressi del processo di individualizzazione e le
future rivendicazioni degli individualisti, il cui successo è tutt’altro che
scontato, vadano in almeno tre direzioni differenti.
La prima si potrebbe definire ‘intensiva’, e cioè legata
all’intensificazione e allo sviluppo di nuove rivendicazioni nell’Occidente
individualizzato. In particolare, studiosi come Laurent ritengono che sarà
l’idea di autonomia individuale a subire le maggiori trasformazioni alla
108
luce delle nuove possibilità offerte dalla scienza. Infatti, il principio della
libertà di scelta sulle questioni riguardanti se stessi condurrà
probabilmente ad alcune conclusioni che appaiono logiche se si accettano
i postulati che ne stanno alla base. La libertà di scelta potrebbe essere
estesa, come già in parte avvenuto, alla propria vita e anche alla
possibilità di decidere se porvi fine. Così, uno dei probabili futuri campi
di battaglia dell’individualismo potrebbe riguardare il riconoscimento
giuridico del diritto all’eutanasia. Allo stesso modo, la teorizzazione del
diritto a fare del proprio corpo ciò che si vuole potrebbe portare alla
difesa di nuove forme di procreazione, come ad esempio l’affitto del
proprio utero da parte di una donna. Infine, portando alle sue estreme
conseguenze questa logica, sarebbe immaginabile che alcuni
individualisti radicali si schierino a favore del diritto alla vendita dei
propri organi, visti come un bene di cui gli individui possono e devono
disporre. È ovvio che l’esito di tutte queste battaglie sarebbe tutt’altro che
scontato, ed è anche immaginabile che molti di coloro che oggi vengono
considerati individualisti si collocherebbero nel campo avverso riguardo
ad alcune di queste tematiche. Come si è già detto, l’accettazione di
alcune delle idee che stanno alla base dell’individualismo non presuppone
automaticamente l’adesione alle altre.
La seconda direzione percorribile dall’individualismo si potrebbe
definire ‘estensiva’, in opposizione alla precedente. Questa via non
prevede infatti lo sviluppo di nuove forme di individualismo in
Occidente, ma la sua estensione alle parti del mondo in cui non è ancora
arrivato ed in cui il comunitarismo è tuttora molto forte. Riguardo
all’esito di questa nuova ‘campagna di conquista’ si potrebbero avanzare
molte riserve. Ci si potrebbe infatti chidere se all’infuori dell’Occidente le
dottrine individualiste riuscirebbero ad attecchire o se l’humus sociale e
culturale sarebbe loro sfavorevole. Probabilmente, come è già avvenuto
109
nelle nostre società, un vero processo di individualizzazione potrà avere
luogo solo per mezzo dell’instaurazione di un sistema democratico e di
una vera economia di mercato, con l’inevitabile aumento della
complessità sociale e la distruzione dei precedenti vincoli comunitari che
tutto ciò comporterebbe.
La terza direzione non riguarda le dottrine individualiste, ma il
rapporto tra innovazione tecnologica, sistema di produzione industriale e
individualizzazione. Il punto cruciale di tale relazione verte sul fatto che
probabilmente i futuri sviluppi in campo tecnico-scientifico
permetteranno la creazione e la diffusione di beni e strumenti a vantaggio
dell’autonomia individuale nella vita quotidiana e di una più ampia
possibilità di scelta come consumatori. Riguardo al raggiungimento di
una maggiore autonomia individuale, si può evidenziare il modo in cui lo
sviluppo di tecnologie come Internet abbia reso più semplice e immediato
l’accesso ad ogni genere d’informazione da parte del singolo ed abbia
enormemente facilitato la comunicazione a distanza tra individui. È
immaginabile che in futuro lo sviluppo di strumenti sempre più evoluti in
questi settori incrementi ulteriormente l’autonomia individuale. Per
quanto riguarda invece la possibilità di scelta dei consumatori, appare
importante sottolineare come si vada sempre più verso un sistema di
produzione industriale che molti sociologi hanno definito ‘post-fordista’.
La caratteristica per noi più rilevante di tale sistema consiste nel fatto che
i macchinari per la produzione industriale si sono evoluti fino a
permettere la realizzazione della cosiddetta ‘specializzazione flessibile’,
cioè della possibilità di modificare facilmente e velocemente le
caratteristiche dei beni fabbricati, consentendo la produzione di piccole
partite di articoli altamente personalizzati senza incidere eccessivamente
sul loro costo. Questo cambiamento epocale, che ha portato studiosi come
110
Kumar a parlare di “un secondo spartiacque industriale”151, ha ampliato a
dismisura – e continuerà ad ampliare – le possibilità di personalizzazione
dei prodotti. Se un tempo acquistando un’automobile si potevano
scegliere al massimo il colore della carrozzeria e la cilindrata del motore,
oggi ogni modello propone una vasta gamma di optional, che
combinandosi tra loro permettono la creazione di decine di migliaia di
soluzioni differenti e personalizzate. Tutto ciò ha influito e influirà
significativamente sulle possibilità di scelta dei consumatori, portando ad
un’ulteriore incremento dell’individualizzazione.
151 Krishan Kumar, Le nuove teorie del mondo contemporaneo – Dalla società post-industriale alla società post-moderna, Torino, Einaudi, 2000, p. 60.
111
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116
INDICE DEI NOMI
Alessandro Magno, 34n
Aristotele, 22
Bastiat, Frédéric, 71
Baudelaire, Charles, 73
Bauman, Zygmunt, 20-21n, 96,
98-99
Bentham, Jeremy, 58
Bettin, Gianfranco, 42, 83
Bontempi, Marco, 72, 87-88n
Brunner, Otto, 36-39n
Burckhardt, Jacob, 43
Burke, Peter, 43-44
Calvino, Giovanni, 46-47
Cartesio, 18, 51-52
Cassese, Antonio, 92-93
Cedroni, Lorella, 76n
Confucio, 32
Constant, Benjamin, 71
Crespi, Franco, 74, 95n, 100-102n
D’Annunzio, Gabriele, 89
De Giorgi, Raffaele, 27n-28n
Della Mirandola, Pico, 44
Diogene, 32
Dumont, Louis, 6, 33, 46-47n, 90
Durkheim, Émile, 24-25, 33-34n,
56-57n, 68, 71-72, 76
Elias, Norbert, 11-12n, 14, 20-22,
101-104
Epicuro, 32
Foucault, Michel, 63n
Francesco (d’Assisi), 46
Gesù, 34, 36
Gluckman, André, 52
Goethe, Johann, 75
Gotama (Buddha), 32
Grozio, Ugo, 53, 92
Herder, Johann, 77
Hitler, Adolf, 90
Hobbes, Thomas, 53-54, 64, 73
Hume, David, 52
Ibsen, Henrik, 97
Jaspers, Karl, 6, 31-32
Jaurès, Jean, 71
Jefferson, Thomas, 65
Kant, Immanuel, 52
Kierkegaard, Søren, 73
Kumar, Krishan, 110
117
Laurent, Alain, 14, 16-17, 19-20,
24, 52n, 64, 67, 70-72, 74-75,
78-79, 90n
Leibniz, Gottfried, 52
Locke, John, 52, 54-55n, 59, 92
Luhmann, Niklas, 27-28, 36-37
Lukes, Steven, 6, 15-16, 34, 52n,
56-59, 73, 76-78n, 90
Lutero, Martin, 45-47
Maistre de, Joseph, 15, 19, 106
Marx, Karl, 77
Mill, John Stuart, 59, 71
Millefiorini, Andrea, 12n, 68-69n,
79
Mussolini, Benito, 89
Nietzsche, Friedrich, 18, 73-74, 76
Pellicani, Luciano, 29-30
Platone, 45
Ricardo, David, 57
Ricoeur, Paul, 101n
Rousseau, Jean-Jacques, 64
Schleichermacher, Friedrich, 75
Settimelli, Emilio, 88
Shakespeare, William, 39-40n
Simmel, Georg, 9, 20-21, 60-62,
68, 75-76, 81-86, 101-102, 104
Singly de, François, 18, 61-62
Smith, Adam, 8, 57-58
Socrate, 6, 32
Stirner, Max, 73
Taylor, Charles, 25-26n, 38-39n,
50n, 55, 58-59n, 64, 66, 68-69,
77-78, 92, 99, 101
Tocqueville de, Alexis, 79
Weber, Max, 7, 14, 41-42, 46-50n