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-S -Petrucciani Modelli Di Filosofia Politica

Date post: 03-Jan-2016
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PETRUCCIANI STEFANOMODELLI DI FILOSOFIA POLITICA
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S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica Parte prima. 1. Filosofia politica: uno sguardo preliminare La filosofia politica si occupa delle interazioni fra gli uomini in società, in quanto esse sono regolate da relazioni di potere. Diremo allora che l’oggetto centrale sono le problematiche del potere. Cos’è il potere? Vediamo una prima def.--> è la capacità che qualcuna ha di controllare il comportamento di altre persone, ovvero di vedere obbedite le proprie disposizione; ciò attraverso la propria influenza o la minaccia di sanzioni. Esistono sia forme di potere formali, la politica appunto, che forme di potere informali: nei rapporti di coppia, nel mondo del lavoro, nella famiglia, insomma, in quasi tutti i tipi di relazione sociale. Con queste premesse è lecito chiedersi di cosa si occupano i filosofi e gli studiosi: la tradizione più canonica della filosofia politica si è occupata delle forme di potere istituzionalizzate, mentre i pensatori eterodossi, come Marx e Faucault, hanno insistito sulle relazioni di potere dislocate fuori dai luoghi statali, ovvero, nei diritti di proprietà, o nella “microfisica del potere”. Diventa necessario delineare una prima def. di stato: esso è, come le associazioni politiche che storicamente lo precedono, un rapporto di dominio di uomini su uomini basato sul mezzo della forza legittima (cioè considerata legittima). è di Max Weber, conferenza del 1919 su La politica come professione. Per Weber le caratteristiche del potere dello stato sono: - possibilità di esercitarsi su indeterminato territorio; - monopolio della forza legittima. In che cosa consiste la forza legittima? Questa è una questione centrale nella filosofia politica. Potremmo dire che la filosofia politica possiede due volti: da una parte, e questo è il lato di cui è stato maestro Machiavelli, essa si occupa del potere e dei vari aspetti dell’agire politico, dall’altra, a partire dalla Repubblica di Platone, la filosofia politica si pone la questione di quale sia il modo giusto di organizzare la nostra convivenza e quali forme di potere siano legittime. 2. Filosofia e filosofia politica Prima di parlare di filosofia politica, non dobbiamo dimenticare di chiederci cosa sia la filosofia. Leo Strauss, nel saggio Che cosa è la filosofia politica, del 1955, afferma che la filosofia è una forma di sapere che deve sempre dimostrare la sua, eventuale, legittimità. Egli ne parla come una “pratica discorsiva” del tutto particolare che si caratterizza per l’unione di un determinato metodo con un determinato oggetto; filosofia è una forma sofisticata e istituzionalizzata di discorso che, quanto al metodo, si avvale fondamentalmente di un’unica risorsa, quella dell’argomentazione pubblica, critica e aperta, mentre, quanto all’oggetto, affronta la questione del nostro orientamento nel mondo. Dunque, la filosofia non è un sapere di fatti, ma è una sorta di ininterrotto dialogo argomentativo, un tentativo di costruire argomentazioni. La peculiarità della filosofia sta nel fatto che cerca di affrontare con gli strumenti del dialogo razionale quei problemi ai quali le scienze positive sono costitutivamente impossibilitate a dare risposte: perché esse ci insegnano come stanno le cose, ma non come dobbiamo scegliere, quali sono i modi migliori ecc. Diremo ancora: la peculiarità della filosofia è porsi problemi che non possono essere risolti restando sul terreno di un accertamento di fatti: questioni normative, ma anche strutturali, cioè, che riguardano la struttura della realtà e delle sue diverse regioni. Allora, la filosofia politica, poiché non è scienza, si confronta proprio con problemi di questo genere: affronta sia questioni normative che strutturali. Nb: dato che il terreno su cui essa si muove è già stato percorso da altre discipline, non parleremo di filosofia”prima”, ma di filosofia “ultima”. E, anche per questo, la filosofia politica non è autosufficiente, anzi, essa entra necessariamente in contatto con molte altre discipline: - filosofia morale;
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S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica Parte prima. 1. Filosofia politica: uno sguardo preliminare La filosofia politica si occupa delle interazioni fra gli uomini in società, in quanto esse sono regolate da relazioni di potere. Diremo allora che l’oggetto centrale sono le problematiche del potere. Cos’è il potere? Vediamo una prima def.--> è la capacità che qualcuna ha di controllare il comportamento di altre persone, ovvero di vedere obbedite le proprie disposizione; ciò attraverso la propria influenza o la minaccia di sanzioni. Esistono sia forme di potere formali, la politica appunto, che forme di potere informali: nei rapporti di coppia, nel mondo del lavoro, nella famiglia, insomma, in quasi tutti i tipi di relazione sociale. Con queste premesse è lecito chiedersi di cosa si occupano i filosofi e gli studiosi: la tradizione più canonica della filosofia politica si è occupata delle forme di potere istituzionalizzate, mentre i pensatori eterodossi, come Marx e Faucault, hanno insistito sulle relazioni di potere dislocate fuori dai luoghi statali, ovvero, nei diritti di proprietà, o nella “microfisica del potere”. Diventa necessario delineare una prima def. di stato: esso è, come le associazioni politiche che storicamente lo precedono, un rapporto di dominio di uomini su uomini basato sul mezzo della forza legittima (cioè considerata legittima). è di Max Weber, conferenza del 1919 su La politica come professione. Per Weber le caratteristiche del potere dello stato sono:

- possibilità di esercitarsi su indeterminato territorio; - monopolio della forza legittima.

In che cosa consiste la forza legittima? Questa è una questione centrale nella filosofia politica. Potremmo dire che la filosofia politica possiede due volti: da una parte, e questo è il lato di cui è stato maestro Machiavelli, essa si occupa del potere e dei vari aspetti dell’agire politico, dall’altra, a partire dalla Repubblica di Platone, la filosofia politica si pone la questione di quale sia il modo giusto di organizzare la nostra convivenza e quali forme di potere siano legittime. 2. Filosofia e filosofia politica Prima di parlare di filosofia politica, non dobbiamo dimenticare di chiederci cosa sia la filosofia. Leo Strauss, nel saggio Che cosa è la filosofia politica, del 1955, afferma che la filosofia è una forma di sapere che deve sempre dimostrare la sua, eventuale, legittimità. Egli ne parla come una “pratica discorsiva” del tutto particolare che si caratterizza per l’unione di un determinato metodo con un determinato oggetto; filosofia è una forma sofisticata e istituzionalizzata di discorso che, quanto al metodo, si avvale fondamentalmente di un’unica risorsa, quella dell’argomentazione pubblica, critica e aperta, mentre, quanto all’oggetto, affronta la questione del nostro orientamento nel mondo. Dunque, la filosofia non è un sapere di fatti, ma è una sorta di ininterrotto dialogo argomentativo, un tentativo di costruire argomentazioni. La peculiarità della filosofia sta nel fatto che cerca di affrontare con gli strumenti del dialogo razionale quei problemi ai quali le scienze positive sono costitutivamente impossibilitate a dare risposte: perché esse ci insegnano come stanno le cose, ma non come dobbiamo scegliere, quali sono i modi migliori ecc. Diremo ancora: la peculiarità della filosofia è porsi problemi che non possono essere risolti restando sul terreno di un accertamento di fatti: questioni normative, ma anche strutturali, cioè, che riguardano la struttura della realtà e delle sue diverse regioni. Allora, la filosofia politica, poiché non è scienza, si confronta proprio con problemi di questo genere: affronta sia questioni normative che strutturali. Nb: dato che il terreno su cui essa si muove è già stato percorso da altre discipline, non parleremo di filosofia”prima”, ma di filosofia “ultima”. E, anche per questo, la filosofia politica non è autosufficiente, anzi, essa entra necessariamente in contatto con molte altre discipline:

- filosofia morale;

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- antropologia filosofica; - teoria del diritto; - scienza politica; - teoria sociale.

3. Le domande della filosofia politica Bobbio delineò i diversi significati che si potevano dare all’espressione filosofia politica, che, in sostanza, identificavano quattro domande alla quali, nel corso del suo sviluppo, la filosofia politica aveva cercato di dare risposte:

1. quale è l’ottima costituzione politica? (sinonimo di “ordine politico”) 2. perché dobbiamo obbedire? A chi? 3. il problema concernente la natura dell’agire politico e la sua definizione 4. questione di tipo epistemologico: quale è il metodo e quali sono le condizioni di validità

della scienza politica? Rispondiamo alla prima domanda: Cosa è l’approccio normativo. Quale è il giusto rodine politico? Premessa: le prime due domande sollevate da Bobbio sono strettamente interconnesse; di esse si occupa quello che abbiamo chiamato approccio normativo della filosofia politica. In altre parole ci stiamo chiedendo quali caratteri debba aver l’ordine politico per meritare l’obbedienza da parte di coloro che a esso sono sottoposti, ovvero, per essere considerato un ordine politico legittimo. Ciò che si propone una filosofia politica normativamente orientata è delineare l’ordine politico come dovrebbe essere, per poter riconoscerlo come buono, giusto, legittimo. Dobbiamo però ricordare che il modo di intendere la natura della normatività non è, nel corso dei secoli, sempre stato lo stesso: Per gli antichi: la norma non veniva intesa come qualcosa separato dalla realtà, ma come ciò che le corrisponde; norma=propria natura e fine intrinseco. Inoltre, essi parlavano di un ordine politico giusto e legittimo riferendosi ai valori di giustizia e di bene comune; Per i moderni (da Hume): grazie a Hume, si è diviso l’essere dal dover essere, il momento descrittivo da quello normativo, con la conseguenza di pensarli eterogeneamente, dunque, in modo che dal primo non si posso ricavare il secondo. Per la tradizione più influente del pensiero politico moderno, il supremo valore cui l’ordine politico dovrà essere commisurato è la libertà Per concludere su questo punto, diciamo che le teorie normative possono differenziarsi tra loro secondo varie linee, in questa sede ne abbiamo individuate almeno tre:

a) la modalità ontologica del rapporto essere/dover essere ( che può essere pensato come separazione o continuità pio meno netta);

b) la determinazione del dover essere attraverso un certo valore supremo (il bene, la giustizia, la libertà o altro);

c) il grado di distanza del modello normativo dalla realtà del suo tempo presente. Esempio: la Repubblica di Platone per la Grecia antica, il comunismo di Marx, oppure il liberalismo egualitario di Rawls che pone i limiti alle disuguaglianze attraverso principi di giustizia.

Rispondiamo alla seconda domanda: perché dobbiamo obbedire? A chi? Si tratta dell’approccio realistico, in particolare, parleremo delle teorie che spaziano da Machiavelli a Weber. Il Principe di Machiavelli è il testo più classico ed emblematico del realismo politico, e si contrappone all’approccio normativo, ovvero allo stato come deve essere. Di conseguenza, piuttosto che interrogarsi sullo stato come dovrebbe essere, il realismo politico (soprattutto nella sua figura machiavelliana) si pone come una riflessione sull’agire politico così come esso è, nella sua aspra realtà effettuale. Il primo punto che deve essere fissato è quello per cui l’agire politico viene concettualizzato come lotta per il potere. In quest’ottica la sfera dell’agire politico è rappresentata come il campo in cui agiscono attori in conflitto di potere. Nb: ciò non vuol dire, come dice Weber, che lo scopo dell’agire politico sia il potere fine a sé stesso.

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Però, ciò che caratterizza il realismo politico è la messa a fuoco della dimensione politica come dimensione/ambito conflittuale, dove gli attori si confrontanto in ragione della forza (influenza o minaccia) di cui dispongono. In questo caso la politica viene ammessa nella sfera dell’agire strategico, viene letta come conflitto e rapporto di forze. Nb: secondo Weber, la forza è il “mezzo decisivo” di cui l’agire politico non può in nessun caso fare a meno. Si può comprendere facilmente come il realismo politico si sposi spesso con una visione cruda, se non addirittura pessimistica, della natura umana, tuttavia, non è per nulla scontato tutto ciò; in realtà, non ci sembra sussista questa connessione fra pessimismo antropologico e realismo politico, tanto che si può sostenere il secondo senza far ricorso alle problematiche assunzioni del primo. A tal proposito vediamo Sheldon Wolin e Politica e visione. Wolin sostiene che la politica è un’attività:

- incentrata sulla ricerca di un vantaggio competitivo fra gruppi, individui o società; - avviene in un ambiente mutevole, e ciò la condiziona; - la cui ricerca di un vantaggio determina conseguenze di vasta portata, che riguardano

l’intera società o una parte importante di essa. Infine diciamo il realismo ha tutte le ragioni finché ci ricorda che la dimensione del polemos è inseparabile da quella dell’agire politico, mentre rischia di sconfinare in una visione unilaterale se assume il polemos come l’unica dimensione che caratterizza l’agire politico. Rispondiamo alla terza domanda: il problema concernente la natura dell’agire politico e la sua definizione (Etica e politica). Fu Benedetto Croce, nelle sue annotazioni su Machiavelli, che notò come l’identificazione e la gestione della divaricazione fra morale e politica è da vedersi come la vera e propria fondazione di una filosofia della politica. Nel XVIII de Principe, l’aurore scrive che il politico che si sente obbligato al rispetto della parola data, non fa altro che lavorare sulla propria rovina, perché chi fa politica deve sapere che i suoi nemici, se si trovassero al suo posto, si guarderebbero bene dal mantenere la parola data. Afferma anche che il politico non deve osservare la fede quando tale osservanza gli torna contro. Machiavelli vuole farci comprendere che il politico deve avere la capacità e l’ardire di infrangere il comandamento morale perché il fine della politica, che è quello supremo, deve prevalere su ogni altro; le considerazioni fra giusto e ingiusto passano in secondo piano. Passiamo a M. Weber: egli esorta a capire che ogni azione eticamente orientata può trovarsi fra due massime irrimediabilmente opposte. Può essere orientata:

- secondo l’etica della convinzione: qui l’azione morale è l’agire conformemente a ciò che si ritiene essere il comandamento della morale, disinteressandosi delle conseguenze;

- secondo l’etica della responsabilità: qui l’azione morale è di colui che si sente in dovere di rispondere anche delle prevedibili conseguenze della propria azione. L’azione moralmente giusta non è quella che si limita a rispondere a un precetto, ma quella che attua concretamente un bene nel mondo, o concretamente impedisce un’ingiustizia.

Il vero politico non può non essere sensibile alle ragioni dell’etica della responsabilità, anzi, il grande politico è solo colui che riesce a riunire ciò che fino a qui era apparso antitetico, ovvero le due etiche citate sopra. Rispondiamo alla terza domanda: il grado di distanza del modello normativo dalla realtà del suo tempo presente. Trattiamo il paragrafo: la dimensione esistenziale della politica. Fin qui abbiamo mostrato che dalla politica non si possono espugnare né la dimensione morale della giustizia, né la dimensione strategica del conflitto e della forza. Ciò non vuol dire che queste due dimensioni esauriscano il significato dell’agire politico. Hannah Arendt ci parla della dimensione della ricerca del senso poiché comprendere il senso della politica necessita di un più largo raggio di veduta, quello sulla condizione umana. Infatti, l’obbiettivo della scrittrice è quello di mettere in luce cine ke diverse dimensioni dell’attività umana corrispondano a diversi aspetti di quella che ella individua come la condizione dell’uomo.

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Prendiamo in considerazione tre dimensioni: 1. l’attività lavorativa: l’uomo deve riprodurre le condizioni materiali della sua vita 2. l’operare: risponde al dato per cui l’esistenza umana, a differenza di quella animale, ha

come sua condizione la creazione di un mondo artificiale di cose, permanente e nettamente distinto dall’ambiente naturale

3. l’azione: in questa dimensione si radica la politica. L’azione non ha a che fare con i rapporti uomo-cosa, ma con i rapporti diretti tra gli uomini. Essa va compresa a partire dalla: - pluralità: vivere significa non solo essere tra gli uomini (con-essere alla Heidegger), ma essere tra uguali e diversi: la pluralità è il presupposto dell’azione umana; siamo uguali perché umani, ma viviamo l’unicità della personalità che ci caratterizza. (Vedi Derrida: perché l’altro dovrebbe essere un ego?) - natalità: proprio perché ogni individuo è unico, esso ha la capacità di iscrivere nella realtà qualcosa di inedito (l’evento diremmo con Derrida). Secondo Arendt, è nell’azione politica che la categoria della natalità trova la sua corrispondenza più diretta nell’azione che fonda un organismo politico nuovo, o che ne rinnova uno esistente, si esprime tanto la natalità che caratterizza l’umano, quanto il ricordo (l’irruzione del nuovo crea le condizioni per il ricordo e la storia). Nella letteratura arendtiana, si connettono natalità e immortalità: l’apparire davanti agli altri nell’azione politica che si compie nello spazio pubblico è quindi il modo in cui l’individuo può mettere in scena di fronte agli altri (e quindi anche di fronte a sé stesso) la sua identità unica. Al tempo stesso, questa è la condizione perché ciò che si è compiuto possa essere ricordato e tramandato, conservandone la memoria. Si nota allora come lo spazio nel mondo di cui gli uomini hanno bisogno per apparire sia opera dell’uomo più specificatamente di quanto siano le opere materiali.

Nb: l’idea rivoluzionaria dei Discorsi di Machiavelli sta nella positività del conflitto politico, che nn è più visto come semplice negatività e discordia.

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Parte seconda. 1. Polis e democrazia La politica come la intendiamo noi uomini moderni ha un origine bel precisa: la polis della Grecia classica, ovvero la città-stato che nasce tre il VII e il VI secolo a.C. dalla crisi delle forme tradizionali, regali e sacrali della sovranità. Il potere non è più in mano a stirpi aristocratiche, ma passa in quello che è il centro simbolico della città: l’agora, lo spazio pubblico comune a tutti i cittadini, infatti, proprio in questa sede compare per la prima volta una novità, quella della discussione politica nello spazio pubblico. Con essa nasce il discorso argomentativo, la filosofia, il dibattito, la sovranità nella polis viene laicizzata. Anche il comando non è più proprietà esclusiva di qualcuno, ma è il risultato di un confronto dialettico. Nasce la legge scritta “comune a tutti e superiore a tutti”, però, l’uguaglianza consiste nel fatto che i diritti sono distribuiti con un criterio di proporzionalità (tutti possono far parte dei tribunali come dell’assemblea). Il modello classico della polis democratica è quello delle istituzioni politiche di Atene del 508 a.C., e successivamente, quello della metà del V secolo con le riforme di Pericle. L’istituzione nella quale si incarna la sovranità politica è l’Assemblea dei cittadini di pieno diritto (ekklesia): essa è aperta a tutti i cittadini maschi e liberi che abbiano più di 18 anni. In essa tutti hanno diritto di parola e le decisioni vengono prese a maggioranza. L’assemblea rappresenta la più alta autorità decisionale sulle questioni legislative e su quelle di governo, mentre l’attività amministrativa era esercitata dal consiglio dei 500 (boule). Molte delle principali cariche politiche venivano attribuite per sorteggio ed era previsto un compenso per chi era designato a ricoprirle. La politica ateniese era dunque un sistema di democrazia diretta e partecipativa, era una democrazia che, a differenza di quelle moderne, era priva di un vero e proprio apparato statale. E’ nel contesto della città che si manifestano le prime forme di pensiero: i sofisti risaltano le leggi della città (nomos) rispetto ad una presunta giustizia naturale, oppure affermano che la giustizia sia solo l’utile del più forte, abbiamo Protagora (l’uomo è misura di tutte le cose) che afferma che il giusto e l’ingiusto dipendono da ciò che la città stabilisce, ecc. 2. La visione platonica del Bene politico. 399 a.C= morte Socrate/termine regime di Pericle. La Grecia si trova ad affrontare un periodo di crisi, Platone ne parla nella VII lettera. Questa lettera insieme all’VIII, è oggi considerata dalla stragrande maggioranza degli studiosi l’unica delle tredici lettere di Platone ragionevolmente attribuibile al filosofo ateniese. In essa Platone riflette sulla sua giovinezza e pensa che, proprio perché giovane, aveva creduto che il governo dei trenta tiranni avrebbe ripristinato la giustizia nella polis. Egli però, da giovane, osservò la polis durante il governo dei trenta e provò una sorta di smarrimento, soprattutto dopo aver assistito alla condanna di Socrate. Nella lettera Platone ricorda che Socrate fu mandato insieme ad altri uomini ad arrestare un cittadino, ma Socrate non volle essere complice e i “potenti” lo accusarono poi di asèbeia e lo uccisero. Platone scrive che, andando avanti con gli anni, gli pareva sempre più difficile occuparsi di politica, si pensi che egli assistì direttamente alla corruzione delle leggi e dei costumi. Infine scrive che il “mal governo” è un male comune a tutte le città e sostiene che solo la vera filosofia permette di distinguere ciò che è giusto dall’ ingiustizia sia nella vita pubblica che in quella privata; per questo ribadisce la convinzione che il filosofo o un governante che sia incline alla filosofia debba regnare. Nel Politico Platone definisce la politica come l’arte suprema che deve orientare tutte le altre e la vita della comunità nel suo complesso; essa deve attuare il bene di ognuno nel bene della comunità. Anzi, il vero bene consiste nel coltivare la purezza della propria anima e nel seguire la giustizia, quindi, al tempo stesso la politica di cui parla Platone è capace non solo di gestire la comunità ma di rendere migliori i suoi cittadini: “buone leggi e buon governo creano buoni

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cittadini”. Tale è il motivo che spinge Platone ad affermare che una buona politica potranno farla solo i filosofi che, non essendo interessati al potere, si applicheranno per la giustizia. Nb: Platone afferma che il filosofo ha bisogno che la città sia giusta, altrimenti non potrà filosofare (basta pensare alla vicenda di Socrate). Platone fa un’analogia fra la comunità politica e l’anima individuale, distinguendo tre parti:

- concupiscibile: mira alla soddisfazione dei piaceri del corpo; - razionale: cerca la conoscenza e la verità; - animosa: è l’energia del volere, grazie alla quale l’anima si dirige verso l’uno o l’altro dei

suoi obbiettivi, con maggiore o minore determinazione e coraggio. Individuo giusto=quello in cui le 3 parti dell’anima non sono in conflitto tra loro, e dove domina la parte razionale sulle altre poiché solo così l’individuo attinge al vero bene, cioè alla sua felicità più autentica. Quali sono i piaceri che danno la felicità maggiore? Le tre parti dell’anima corrispondono a tre tipologie di individui: quelli che ricercano la saggezza (filosofi), quelli che ambiscono agli onori (guardiani della città) e quelli che bramano il guadagno (commercianti/produttori), e, per ognuno di loro, la felicità maggiore corrisponde al modo di vivere cui si dedica. Fra tutti però, dice Platone, dovremo credere al filosofo. Questo perché l'apprendere e il conoscere sono, in rapporto agli altri, gli unici beni che noi possiamo conseguire in modo illimitato senza per questo doverli sottrarre ad altri: denaro e onori sono risorse scarse per cui si compete, mentre il sapere che si acquista non lo si toglie a nessuno, e anzi lo si regala volentieri agli altri. La platonica città bene ordinata è quella che assicura ai diversi tipi di uomini la possibilità di vivere nel modo cui il loro temperamento li indirizza, ma tenendoli entro quei limiti che fanno sì che essi contribuiscano, ciascuno a suo modo, al bene della città. In forza di ciò che si è detto, ovvero del conflitto che nasce dal trarre più guadagno di altri, Platone afferma che la classe dei reggitori (politici che governano) deve rimanere lontana da tutto ciò che implichi un privato interesse acquisitivo. Perciò, essi non devono possedere proprietà privata, ma devono avere tutto in comune, anche abitare e mangiare insieme, e i loro figli saranno considerati figli della città e allevati in comune. Per quanto riguarda l’appartenenza alle tre classi, Platone ricorre a ciò che lui designa come una nobile menzogna: essa legittima gli assetti sociali, fatti dagli uomini, facendoli apparire come dei dati naturali indipendenti dalla loro volontà. Così, i giovani apparterranno di regola alla classe di chi li ha generati, ma non senza eccezioni. Nb: nel libro V della Repubblica, Platone ribadisce la sua convinzione che l’instaurazione di uno stato giusto sia possibile, attraverso un governo gestito da filosofi. Ovviamente egli, nel IX libro, scrive che l’ottimo stato esista solo a parole, ma la sua teoria rimarrà un modello cui ispirarsi, soprattutto, rimarrà un paradigma più etico che politico. 3. Aristotele e il pluralismo del Bene. Come per Platone, anche per Aristotele l’oggetto primario di riflessione della politica è il Bene, sia del singolo uomo che della città, ma la visione platonica si concentra su un unico Bene, sull’unità, mentre Aristotele è più articolato. Egli parte dalla tesi del carattere naturale: in principio non c’è l’individuo solo, ma subito la comunità che unisce maschio e femmina in vista della riproduzione. La natura dell’uomo è zoon politikon: dalla famiglia al villaggio, infine la città. Il concetto aristotelico di natura è teleologico: una cosa è il fine cui tende il suo sviluppo, e in questo senso la comunità civile è iscritta nella natura dell’uomo. Come sul piano metafisico l’atto è anteriore alla potenza, così lo stato è anteriore all’individui e ala famiglia, perché il tutto è necessariamente anteriore alla parte. Chiariamo alcuni punti:

- il villaggio: non è l’ insieme di più famiglie sconnesse, ma imparentate; una specie di tribù. Dall’unione dei villaggi, nasce la polis, infatti, si può affermare che l’ uomo è per natura un uomo politico in quanto fatto per vivere nella polis. La polis è infatti “comunità” per Aristotele in quanto si costituisce in vista di un fine comune, cioè di un bene.

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- la città: non è un insieme di individui privati, bensì un insieme di famiglie, o case, dotate ciascuna di un potere da esercitare al proprio interno su altre persone, e confluenti insieme nel perseguimento di un fine comune. - la società politica: è, per Aristotele, un tutto, composto sia dalle famiglie, sia dagli organi di potere. Essa, non lo Stato, è depositaria del potere supremo ma, ne affida l’ esercizio a determinati organi che devono esercitarlo non al fine di mantenerlo o accrescerlo per sé stessi, bensì in vista del bene comune della società politica. Dunque, è preferibile tradurre polis con “città” (non con Stato), non intesa nel senso moderno di agglomerato urbano, ma in quello derivante dal latino civitas (esatto corrispondente del latino polis).

Nb: in termini moderni, più che di comunità (fondata su una realtà comune che non dipende dall’ intelligenza; es: il sangue, la lingua, la religione) dovremmo parlare di società (fondata su un fine comune da perseguire con intelligenza e volontà). Anche il termine “politica” ha bisogno di essere chiarito, infatti, la principale differenza fra la comunità descritta da Aristotele e la moderna società, o meglio, la società civile, di cui si inizierà a parlare grazie ad Hegel, è l’accento positivo dato al termine “privato”. Nella polis greca “privato” era sinonimo di negativo (questo era il pensiero di Platone) poiché indicava coloro che erano dediti a fini particolari, coloro che, in chiave moderna, diremmo sono distinti dallo Stato o dal potere pubblico. Aristotele dunque ci parla di cittadini* forniti (tutti) di potere e impegnati nel perseguimento di un fine comune a tutti. Tali cittadini sono i capifamiglia (hanno il potere supremo sulla propria famiglia o casa, intesa nella sua totalità, ossia comprendente la moglie, i figli, i servi, gli animali e l’ intero patrimonio. *tutti coloro che hanno diritto a partecipare alle funzioni di giudici nei tribunali (quello che oggi chiamiamo potere giudiziario) e alle cariche pubbliche, specialmente come membri dell’ assemblea deliberativa (boulé), infatti, i cittadini sono tutti liberi ed uguali. Alla Repubblica platonica, Aristotele contesta soprattutto il ruolo marginale dato alla famiglia e alla proprietà. Aristotele esamina diversi ordinamenti della proprietà:

- proprietà privata della terra, ma con uso comune dei prodotti; - proprietà comune con uso privato; - proprietà con uso comune.

Egli scrive che la proprietà privata è preferibile a quella comune, ma che il sistema migliore è il primo di quelli elencati. Ciò anche perché, mentre l’uguaglianza delle proprietà ha carattere statico, la società umana è in movimento. Nb: Aristotele osserva: se Platone era così convinto della superiorità della proprietà comune, perché l’ha applicata solo ai guardiani e non anche alle altre classi? Il problema fondamentale della comunità politica, insomma, è per il filosofo quello del rapporto fra unità e differenze: certamente lo stato, come famiglia, deve realizzare l’unità, ma non in modo assoluto; deve essere un’unità la cui forza sta nel sapere ospitare dentro di sé i diritti legittimi della particolarità. Il fine dello stato non è né garantire la sicurezza, né quello di facilitare l’attività economica. Malgrado tutto ciò sia necessario, il fine dello stato è più alto: il vivere bene. Quale è la costituzione migliore? Aristotele indica sei forme di costituzione, divise in due gruppi:

a. le costituzioni giuste: monarchia, aristocrazia e politeia. In esse il potere di governo viene esercitato per il bene di tutti, in vista di un interesse comune.

b. le costituzioni degenerate: tirannia, oligarchia e democrazia. In esse i governanti assicurano il loro interesse e non quello dei governati.

Le caratteristiche della città felice sono:

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- popolazione: non troppo estesa, tutti si conoscono; - territorio: non troppo esteso, facilmente difendibile, agevole per il trasporto delle merci; - cittadini: contadini, artigiani, militari e sacerdoti; - posizione della città: elevata, in prossimità del mare, clima salubre (che giova alla salute) e acqua abbondante. Negli ultimi libri della Politica (VII e VIII), Aristotele descrive la “costituzione migliore”. Essa realizza il vivere bene, la felicità dei cittadini e, a questo proposito, il filosofo richiama la concezione della felicità esposta nell’Etica Nicomachea, secondo cui i bene esterni e quelli corporei, anche se necessari, sono inferiori a quelli dell’ anima, cioè alla virtù. Nb: fra le virtù, quelle etiche sono inferiori a quelle dianoetiche poiché la felicità è attività teoretica. Nella concezione della città felice, è fondamentale il concetto di politia (significa appunto “costituzione”. Essa è la forma retta della democrazia): tutti governano e tutti sono governati, ma a turno, infatti, quando un singolo governa rinuncia temporaneamente alla felicità nell’interesse degli altri, i quali invece si dedicheranno all’attività teoretica. Ne consegue che la felicità dell’individuo e quella della città sono effettivamente la stessa cosa. Da ricordare l’educazione per Aristotele si divide in:

a. essere comandati: è l’educazione a svolgere le attività riservate al tempo libero, cioè le attività teoretiche; b. comandare: è l educazione all’attività politica.

Da ciò deriva la concezione aristotelica della vita: a. impiego del tempo libero (ozium); b. disbrigo degli affari (negozium).

Nonostante la politeia ponga dei requisiti di ceto, essi consentono una larga partecipazione del ceto medio: le cariche sono aperte anche ai non ricchi attraverso un meccanismo elettivo, che garantisce l’elemento del merito. Il pregio di questa forma di governo sta nel fatto che in essa non governano né i ricchi né i nulla tenenti, ma il ceto medio. Lo stato migliore è quello in cui tutti i cittadini possiedono sostanze sufficienti. 4. Dalla polis alla cosmopolis. Con l’impero di Alessandro Magno, la forma politica della politeia era già entrata nella fase della sua decadenza. Si affermano nuove forme politiche, all’interno delle quali diventa impensabile quella partecipazione diretta del cittadino. L’orizzonte politico si universalizza. La distinzione fra Greci e barbari cade, e comincia ad affermarsi l’dea della eguaglianza fra tutti gli uomini. E’ lo stoicismo che si nutre della prospettiva della cosmopolis, di una grande repubblica in cui i popoli diversi possano vivere in pace, rispettandosi paritariamente, purché si sottopongano tutti all’unica e universale legge della ragione. Saggio stoico= uomo superiore alle passioni, fedele al dovere, alle virtù, capace di accettare seneramente il destino e la morte. Nomi da ricordare: Seneca, Marco Aurelio (imperatore e filosofo), Cicerone. Concetto di diritto: a fondamento dell’ordine giuridico vi è una legge di natura o della ragione, che è eterna e immutabile e vale per tutti gli uomini. La res publica, cioè la comunità politica, è un’unione fra uomini che si associano per la loro utilità comune vincolandosi sotto una certa legge cui danno loro il consenso, La comunità politica è vista come una società di uomini tenuta insieme dal vincolo del diritto. Il compito del magistrato (detentore del potere di governo) è quello di mettere in opera il diritto: egli è la legge che parla, ed è nella legge che vive la res publica. Si afferma in tal modo una nuova concezione che pensa lo stato e la politica a partire dalla centralità delle categorie poltiche. Parte terza. La città dell’uomo e la città di Dio. 1. La rivoluzione cristiana. Paolo e Agostino. Analizziamo l’intreccio tra cristianesimo e politica che, per la storia dell’Occidente, è stato determinante.

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Il carattere rivoluzionario del messaggio cristiano consiste nella trasvalutazione (=cambiamento di stima del sistema dei valori) dell’eguaglianza di tutti gli uomini (concetto stoico) come creature aventi valori infinito poiché create da Dio. Come conseguenza, decadono le distinzioni sociali (padroni e schiavi). Ne Lettera ai Galati, S. Paolo: «tutti siamo una sola persona in Gesù Cristo.» I valori della società vengono ribaltati dal cristianesimo: al posto della forza e della potenza si predica la carità e la fratellanza, al posto della ricchezza la povertà. Ci si volge con misericordia verso i poveri, gli umili, i peccatori. Malgrado ciò, la rivoluzione cristiana non è pensata come una rivoluzione politica, e non vuole esserlo. Infatti, non esorta i servi alla ribellione, ma all’obbedienza, e ai padroni consiglia di comandare nel modo giusto. Ciò ci fa capire che i cristiani non aspirano a fondare un nuovo regno, e questo perché Cristo insegna che il suo regno non è in questo mondo. Detto questo però, sappiamo che una predicazione così radicale non poteva non minare le basi degli ordinamenti politici del tempo. Esempio: il detto “dare a Cesare quello che è di Cesare” significava rispetto per l’imperatore, ma anche che non deve essergli dato più di quanto gli spetta. Inoltre, la fedeltà è anche a Dio, anzi, è prima a Dio e poi a Cesare. La rottura con il concetto di polis è ormai netta: col cristianesimo è posta la distinzione fra ciò che è dovuto allo stato e ciò che invece non gli appartiene, come la dimensione spirituale dell’individuo. Nb: il cristianesimo fu perseguitato finché Costantino non si convertì. Ora vediamo la legittimità del potere politico nel cristianesimo. Vediamo la posizione di Paolo, ne Lettera ai Romani i cristiani devono obbedienza all’autorità politica perché questa autorità proviene da Dio, e quindi opporsi ad essa equivale mettersi contro un ordine legittimato da Dio. L’obbedienza che i cristiani devono al potere pubblico non deve essere motivata sola dal timore della punizione, ma è anche un obbligo di coscienza. Dopo la conversione di Costantino, quando il cristianesimo acquista piena cittadinanza nell’Impero, i problemi politici e dottrinali diventano assai più complessi (es: potere spirituale e temporale devono coesistere). Quello che veramente importa nella storia dell’uomo non è la grandezza degli imperi, ma la lotta fra la civitas Dei e la civitas terrena. Le due città non si identificano rispettivamente con la Chiesa e con lo stato, ma designano due opposti modi di vivere: la città terrena è un’unione che nasce per soddisfare il desiderio di gloria, l’ambizione; è governata dall’amore di sé, spinto fino all’indifferenza nei confronti di Dio. Invece, la città celeste è governata dalla legge dell’amore, dell’umiltà, del sacrificio del sé. Il dualismo fra le città terminerà solo nella fine escatologica, quando si instaurerà la città di Dio e con essa la perfetta concordia. A partire da questo orizzonte, Agostino pensa i rapporti fra la Chiesa e lo stato cristiano, cioè quello stato che processa la vera fede. Ognuno dei due poteri ha la sua sfera autonoma di azione:

- lo stato si occupa dell’uomo nella sua dimensione materiale; - la Chiesa cura gli interessi spirituali.

Nb: la sfera spirituale è considerata superiore perché la sua giurisdizione non è limitata nello spazio e nel tempo, la Chiesa è al di sopra del tempo, infatti, si situa nella prospettiva escatologica della città celeste. 2. Il potere del pontefice e il potere politico. Tutta la storia del Medioevo è attraversata dal rapporto fra il sacro potere del pontefice e quello politico dei re e degli imperatori. Le loro funzioni sono diverse, e per questo devono rimanere poteri distinti, ma il vero problema è se si debbano considerare entrambi come derivanti direttamente da Dio, e quindi posti su un piano di cooperazione malgrado ognuno rimanga nella

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sua sfera di competenza, o se, partendo dal fatto che il potere della Chiesa si colloca spiritualmente su un piano più alto, si debba porre una supremazia del pontefice e far discendere da lui anche la legittimazione del potere politico. La dottrina del primato del potere papale su quello secolare verrà sostenuta dalla Chiesa con sempre maggiore energia nei secoli che seguono la morte di Agostino. Si parlerà di «agostinismo politico», anche se tale visione si allontana dalle originarie tesi agostiniane, e troverà in papa Gregorio Magno (fine VI secolo) uno dei suoi primi sostenitori. Nell’800, con l’incoronazione di Carlo Magno in Roma da parte di Leone III, si instaura una sorta di alleanza fra Chiesa e imperatori, mentre, con il successivo regno di Ottone I di Germania, il potere imperiale accrescerà, tanto che Ottone II pretenderà di esercitare il proprio controllo anche sul papato, scegliendo lui stesso i vescovi-conti. La Chiesa e il potere papale riacquisteranno autonomia da Papa Gregorio VII nel 1073: l’imperatore cercò di depositare papa Gregorio, ma egli rispose scomunicando l’imperatore, umiliandolo. L’imperatore infatti dovette implorare il perdono del pontefice. In modo ancora più netto, la superiorità del potere papale sarà riaffermata da Innocenzo VI contro Federico II, con la cui sconfitta crollerà il sogno degli imperatori tedeschi di restaurare la monarchia universale. 3. Tommaso d’ Aquino. Alla metà del XIII secolo, con la diffusione delle traduzioni delle opere di Aristotele, il pensiero cristiano dà luogo ad un grande rinnovamento, segnato dalla figura di Tommaso d’ Aquino. Mentre in Agostino la riflessione sulla politica partiva da un antropologia pessimistica (tutti gli uomini sono peccatori), Tommaso, anche in seguito alla ricezione del pensiero politico di Aristotele, introduce il concetto di legge naturale: essa prescrive tutto ciò che giova a conservare la vita dell’uomo, mentre proibisce ciò che va contro questo fine. Gli uomini però devono essere educati alla disciplina della virtù, di modo che le passioni e le cattive abitudini non li condizionino. La funzione delle leggi umane è assicurare che tra gli uomini regni la pace, che siano bandite le ingiustizie reciproche, grazie al timore del castigo che queste stesse leggi comminano ai trasgressori, Le leggi umane hanno il loro fondamento nella legge di natura, che non devono mai contraddire. Si attua un’importante distinzione:

- diritto naturale: quello che deriva dalla natura stessa della cosa; - diritto positivo: deriva o da un accordo privato, o da un patto pubblico, o da ciò che è

stabilito dal principe. Seguendo l’impianto della Politica di Aristotele, Tommaso considera il vivere in società come conforme alla natura dell’uomo (zoon politikon): l’uomo fa parte della famiglia, la famiglia della città, e il bene del singolo non è fine ultimo. Il Bene è quello comune. Il potere politico, quello che si esercita sugli uomini liberi (no su servi o schiavi) è una necessità per la convivenza umana, che non dipende dal fatto che la natura umana sia stata corrotta dal peccato originale. Tommaso sostiene che anche nello stato di innocenza servirebbe il potere politico. Nb: il bene comune non è in conflitto con quello del singolo. Vediamo la distinzione di Tommaso dei vari tipi di ingiustizia:

- se il comando del principe si scontra con quello di Dio, gli uomini non sono tenuti a obbedire. Il comando di Dio è superiore;

- caso delle leggi inique: esse attentano al bene comune, ma possono essere ingiuste in vari sensi: o perché mirano solo a soddisfare il bene del principe, o perché escono dai limiti di competenza di chi le emana, o perché impongono ai sudditi oneri in modo iniquo. Queste leggi, poiché ingiuste, possono anche non essere seguite, però, Tommaso scrive che, per evitare scandali, può essere consigliabile rispettarle comunque. Esempio: il governo tirannico è legge iniqua. Secondo Tommaso, che in generale condanna la ribellione come peccato, non considera la resistenza al despota come tale, a meno che, non sfoci in mali peggiori di quelli che i cittadini subivano sotto il potere tirannico. Infatti, secondo Tommaso non è lecito uccidere il tiranno,

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Per quanto riguarda la migliore forma di governo, anche qui Tommaso segue la Politica di Aristotele. Nella Summa Teologica, Tommaso sostiene che la forma migliore di regime politico è una forma “mista” che riassuma in sé i vantaggi delle tre forme pure di governo: il potere di comando deve essere detenuto da un’autorità unica, che però è affiancata da un ampio corpo di cittadini qualificati, scelti dal popolo stesso. Vediamo ora il pensiero di Tommaso rispetto al rapporto tra potere politico e potere religioso egli ribadisce che il potere spirituale del pontefice sia superiore a quello secolare; quest’ultimo però è soggetto alle intromissioni del primo solo in ciò che tocca il fine della beatitudine eterna (e non la felicità terrestre). 4. La rottura della res publica christiana e la Riforma protestante. Nel 1517 Lutero affigge sulla porta del castello di Wittenberg 95 tesi contro il commercio delle indulgenze e, tre anni dopo, brucia la bolla di scomunica che era stata emessa contro di lui da papa Leone X. La riforma distrugge la struttura gerarchica della Chiesa: per Lutero, infatti, non c’è più un ruolo specifico del sacerdozio come intermediario tra dio e i fedeli; egli spesitene la dottrina del sacerdozio universale dei credenti, e riduce il numero dei sacramenti riconoscendone solamente tre (eucaristia, battesimo e penitenza). Afferma il principio del libero esame, per cui ogni credente può rapportarsi direttamente al testo sacro e interpretarlo, senza la mediazione dell’autorità ecclesiastica. A questo fine traduce la Bibbia in tedesco e ne sollecita la diffusione fra i credenti. Alla negazione dell’autorità ecclesiastica gerarchicamente strutturata però, corrisponde in Lutero un’altrettanto forte insistenza sul dovere dell’obbedienza alle autorità politiche vigenti, che lo porterà ad appoggiare la repressione da parte dei principi tedeschi della rivolta dei contadini. Vediamo dunque che Lutero radicalizza la tesi agostiniana delle due città, e sostiene che il regno di Dio è regno di grazia e di misericordia che l’uomo non può guadagnarsi con le opere. Egli crede nella predestinazione: la grazia è un puro e gratuito dono divino. Invece, il regno terreno è irrimediabilmente segnato dal disordine della natura umana. Per Lutero non vi è mediazione fra i due regni, e quello terreno, spogliato di ogni intrinseco valore e positività, si oppone polarmente a quello della grazia e della misericordia. Si nota come tale scissione consegni il mondo dell’uomo a una pura malvagità e immanenza, priva di una regola finalistica, che pone alcuni dei presupposti culturali per la modernità politica come sarà pensata a partire da Hobbes, nel suo orizzonte di pessimismo antropologico e radicale individualismo. Parte IV. Il paradigma del contratto 1. Il modello contrattualista Modello classico: pensa l’ordine politico come finalizzato al vivere bene nella comunità. Modello contrattualista: nasce con Hobbes, e continua fino a Kant, salvo poi riproporsi, in una nuova declinazione, nel tardo XX sec. L’interesse si focalizza sulla problematica della legittimità dell’ordine statale, ovvero del carattere vincolante dell’obbligo politico che a esso ci lega. Perciò, il

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modello contrattualista è un metodo per dare una risposta razionale alla domanda: come deve essere organizzato uno stato legittimo in cui tutti i cittadini sono tenuti a dare il loro assenso? Se si risponde a partire dallo schema del contratto, diremo: l’ordine politico legittimo è quello che deciderebbero di darsi individui che non vivessero già in uno stato costituito, ma si trovassero invece a vivere in una condizione prepolitica e prestatale («stato di natura»), privi di rapporti di subordinazione reciproca quindi in una situazione di sostanziale libertà ed eguaglianza. Il valore rivoluzionario del pensiero contrattualista sta nel definire l’ordine politico legittimo come quello che meriterebbe in consenso razionale da parte di individui liberi ed eguali che si trovassero a scegliere come organizzare la loro convivenza a partire dallo stato di natura. Nb: l’idea contrattualistica non esprime una verità storica. Gli argomenti contrattualisti, nelle loro differenti versioni, mostreranno innanzitutto che:

- se gli individui si trovassero a vivere in una condizione prepolitica, essi sceglierebbero di dar vita allo stato;

- il pensiero contrattualista, partendo da un’ipotetica situazione iniziale di scelta, ci mostra quali istituzioni gli individui si sarebbero dati.

2. La cesura di Thomas Hobbes (1588-1673) Contesto storico visse in uno dei periodi più drammatici dell’età moderna. Tra il 1618 e il 1648 la guerra dei trent’anni insanguinò l’Europa. Anche l’Inghilterra fu teatro di feroci lotte sociali politiche e religiose; in particolare, lo scontro tra aristocrazia e borghesia nascente condusse il paese ad una lunga guerra civile tra i sostenitori della monarchia assoluta e i difensori delle prerogative del parlamento. La guerra iniziata nel 1642 portò, sette anni più tardi, alla decapitazione di Carlo I Stuart e alla nascita della Repubblica. I liberal-costituzionali però videro Oliver Cromwell, loro principale sostenitore, abbandonare la nuova politica per instaurare un regime autocratico. Con la morte di Cromwell si ebbe la restaurazione della monarchia con Carlo II Stuart nel 1660 che, dopo qualche anno, regnò senza più convocare il parlamento. Vita nacque a Malmesbury il 5 Aprile 1588. Tra il 1610 e il 1637 compì tra viaggi in Francia e Italia per approfondire a propria cultura. Nel 1640 scrisse Elementi di legge naturale e politica. Tra il 1640 e il 1652, durante la guerra civile, visse a Parigi e nel 1642 pubblicò il De cive e, nel 1651, il Leviatano. Scrisse altre opere, la più importante e nota di quegli anni considerati “della vecchiaia” è il Behemot del 1668. Morì il 4 dicembre del 1679 a 91 anni. La rivoluzione di Hobbes è innanzitutto quella di smentire la premessa dalla quale Aristotele partì per giustificare la sua concezione di politica, ovvero il fatto che, per natura, alcuni uomini sono più saggi di altri, e quindi che alcuni uomini sono predestinati al comando e altri all’obbedienza. Le due tesi principali di Hobbes sono:

- tesi della naturale eguaglianza degli uomini; - tesi della naturale conflittualità degli uomini.

Ciò porta il filosofo a pensare gli uomini eguali nel senso che anche le diseguaglianze che pur sussistono (forza fisica, facoltà mentali) non alterano questa fondamentale parità, e quindi non potrebbero mai giustificare la naturale sottomissione degli uni agli altri. Hobbes si chiede: perché gli uomini entrano in conflitto? Ecco le due ragioni principali:

- per diffidenza: nessuno ha la certezza di non venir aggredito e ucciso da altri, perciò ciascuno dovrebbe a sua volta aggredire e uccidere per evitare quella stessa fine;

- per quella passione che il filosofo chiama “la gloria”: gli uomini provano soddisfazione a compararsi con gli altri e nel veder affermata la loro superiorità; ma se ognuno vuol essere superiore, il confronto non potrà che trasformarsi in conflitto.

A questo Hobbes aggiunge la teoria della necessità del conflitto nello stato di natura: se si ammette che ogni uomo ha per natura diritto ad autoconservarsi, e a usare tutti i mezzi atti a tale scopo, allora

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ne consegue che ognuno è il solo giudice di ciò che è necessario alla propria conservazione. Questo porta a considerare che, finché non vi è una legge comune, ognuno a diritto a tutto. Il fatto che “tutti hanno diritto a tutto” porta gli individui al conflitto, a vivere in uno stato di guerra. Bisogna però notare che la radice più profonda di tale clima conflittuale sta proprio nell’eguaglianza fra gli uomini: poiché gli uomini sono eguali, nessuno accetterà “naturalmente” di sottomettersi ad altro. Stato di natura=stato di guerra di tutti contro tutti. Diremo allora che lo stato prepolitico di natura è uno stato di pericolo, di insicurezza e di morte da cui gli individui non possono che desiderare di uscire. Ogni uomo, per prima cosa, desidera conservarsi in vita, ed è questa la ragione che muove l’uomo alla ricerca del conseguimento della pace. Vediamo ora le leggi di natura, ovvero quelle regole di condotta che, secondo Hobbes, se fossero seguite da tutti gli uomini, assicurerebbero loro una convivenza pacifica. La legge di natura è una regola scoperta dalla ragione, ha carattere generale, e vieta ad un uomo di fare ciò che lede alla sua vita. Tutti quei comportamenti che costituirebbero un torto nei confronti della vita degli altri sono da evitare. Inoltre, per Hobbes, i comportamenti “giusti” corrispondono a quelli che per gli uomini sono più convenienti. Le leggi di natura sono i precetti di una morale razionale della reciprocità che, se fosse seguita da tutti gli uomini, consentirebbe loro di vivere bene e in pace. Il problema è che, finché manca un potere comune, le leggi di natura non sono realmente vincolanti, perché, nello stato di natura, non c’è garanzia del fatto che gli altri non uccideranno. Per uscire da questa situazione, gli uomini devono stringere tra di loro un patto in forza del quale ognuno di loro rinuncia, a condizione che gli altri facciano altrettanto, a tutti i diritti che aveva nello stato di natura e li trasferisce a un sovrano, sotto il quale tutti i torti saranno puniti, e si potrà vivere sicuri. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata civitas. Attraverso il patto:

- gli uomini istituiscono un potere sovrano; - la legge naturale viene sostituita dalla legge civile o positiva, cioè da quella che il sovrano

riterrà giusto emanare; - il potere che gli uomini hanno ceduto ad uno solo è assoluto, in quanto non è soggetto a

limiti. Esso infatti non è limitato né dal patto grazie al quale è nato (il patto è stipulato fra individui, non fra individui e sovrano), né dalle leggi positive. Ciò significa che il sovrano è legibus solutus, sopra la legge. Infine, il potere sovrano non può essere limitato da un altro potere, perché, se così fosse, ci sarebbe un potere superiore al sovrano stesso.

Tali condizioni però non implicano che i sudditi non godano della giusta libertà. Per Hobbes “libertà” significa mancanza di impedimenti (egli è infatti un teorico della libertà «negativa»). Perciò, la libertà dei sudditi si esplica in tutte quelle azioni che il sovrano omette di regolare. Nb: è chiaro che il sovrano può commettere abusi, salvo il suo personale rapporto con le leggi naturali e divine, ma, sostiene il filosofo, anche la più dura sovranità assoluta è preferibile alla condizione misera e incerta dello stato di natura. Malgrado questo, Hobbes afferma che, se il sovrano non garantisse più pace e sicurezza, i sudditi non sarebbero più in alcun modo tenuti all’obbedienza. Vediamo ora i problemi rimasti aperti nella teoria hobbesiana, affrontati in un’ampia discussione che si è sviluppata soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento:

1. la prima grande questione è l’interpretazione hobbesiana dello stato di natura: Rousseau rimprovererà Hobbes di avere illegittimamente proiettato, nello stato di natura prepolitico, quelle istante conflittuali e quella brama di autoaffermazione e di superiorità che sono sostanzialmente estranee all’uomo naturale e che invece caratterizzano il clima di “uomo

2. la seconda questione è le modalità dall’uscita dallo stato di natura e le motivazioni, di tipo egoistico-utilitario, su cui essa si fonda: se gli uomini hobbesiani sono calcolatori razionali, perché è necessario lo strumento del patto per assicurarsi l’autoconservazione? Non esistono strumenti diversi?

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3. la terza questione è rappresentata dal fatto che Hobbes pensa il rispetto all’obbligo politico come se fosse basato su motivazioni utilitarie, e cioè sul timore del Leviatano (forza pubblica). E’ H. Worrender, uno dei più grandi interpreti novecenteschi di Hobbes, che si domanda: se i cittadini obbediscono per timore della forza pubblica, su cosa si baserà la loro fedeltà? Ciò ci porta a dire che, sia per quanto riguarda la nascita del corpo politico, sia per quanto concerne il suo mantenimento, la pura razionalità strategica non sembra essere sufficiente.

Il punto numero 3. ci porta a considerare nuove interpretazioni, che parlano di un fondamento di moralità nella genesi e nel mantenimento del corpo politico, e quindi si rapportano più intensamente con le leggi naturali. In questa prospettiva, l’uscita dallo stato di natura conflittuale può essere pensata non più come dettata da ragioni utilitarie, ma da una più complessa struttura morale: gli uomini, proprio attraverso l’esperienza dura e catastrofica del conflitto, arrivano a riconoscersi come eguali e, da tale consapevolezza, muovono per instaurare il contratto.

4. l’ultimo problema riguarda il carattere assoluto del potere sovrano che con il patto si verrebbe a istituire: Rousseau si chiederà: consegnarsi a un sovrano rinunciando ai propri diritti significa davvero garantirsi la sicurezza, o non vuol dire passare da un’insicurezza ad un’altra? A tale problema si connette quello della natura del potere sovrano, cioè, se debba trattarsi di un potere sovrano monarchico/ aristocratico/ democratico. Le preferenze di Hobbes sono tutte a favore del potere monarchico, però, tale scelta non sembra inserirsi in modo coerente nella prospettiva contrattualista: se gli individui devono spogliarsi del proprio potere su di sé, perché dovrebbero cederlo a un individuo particolare, e non (come sosterranno Spinoza e Rousseau) alla collettività democratica di tutti i cittadini? Questa difficoltà era avvertita dallo stesso Hobbes che, negli Elements, aveva sostenuto, a differenza di quanto poi dirà nel Leviatano, che «la democrazia precede tutte le altre istituzioni di governo». A motivare il cambio di scelta di Hobbes nei confronti della democrazia sono: da un lato la terribile attualità della guerra civile, e dall’altro al consapevolezza della forza dirompente delle passioni.

3. Il patto democratico di Spinoza (1632-1677) Lo stato di natura secondo Spinoza: in esso il diritto e la potenza coincidono, e il diritto di ognuno si estende proprio fin dove arriva la sua potenza. Non ci sono leggi vincolanti per tutti, ed è per questo che nella situazione prepolitica dello stato di natura ciascun individuo ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere. Le conseguenze sono che:

- nello stato di natura non esiste il peccato, non c’è né bene né male, neppure il giusto e l’ingiusto, Ciò significa che lo stato di natura spinoziano non dà luogo ad alcun giudizio morale. Bene e male esistono sono quando vengono stabiliti da leggi civili che esprimono una volontà comune;

- come sostiene Hobbes, anche Spinoza afferma che non è piacevole rimanere nello stato di natura, perciò, gli uomini devono rinunciare al diritto su tutto per cederlo alla collettività, stringendo con tutti gli altri un patto sociale. In tal modo nasce lo stato: da questo momento in poi l’autorità statale ha il diritto di imporre leggi e punire.

Come deve essere organizzato lo stato? Egli sostiene la democrazia, poiché è quella forma di governo che maggiormente rispetta la libertà che la natura ha concesso a ognuno: con essa infatti nessuno trasferisce ad altri il proprio naturale diritto in modo così definitivo da non poter essere più consultato ma lo deferisce alla maggior parte della società di cui è membro. Un’altra differenza sostanziale fra Hobbes e Spinoza sta nel patto: per Spinoza esso non è irrevocabile. Gli uomini che lo hanno sottoscritto, lo hanno fatto per il loro utile, ma se la società non attua quella utilità comune che è la vera ragione del patto, esso non ha più motivo di esistere, e dunque può essere annullato e distrutto. Inoltre, l’autorità sovrana intesa da Spinoza non ha potere assoluto sui sudditi; ciò significa che la rinuncia ai diritti naturali non è totale. Rinunciare a tutti i diritti naturali equivale, per Spinoza, a rinunciare di essere uomo. Esistono diritti inalienabili, come quello della libertà di pensiero, parola e insegnamento (salvo che non costituiscano un pericolo per l’esistenza dello stato). Ogni cittadino

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ha diritto al libero esercizio della sua ragione, anche se se ne serve per criticare i decreti dello stato; ciò che allo stato deve interessare è il comportamento del cittadino, non le sue idee. 4. Il contratto liberale di John Locke (1632-1704) Egli è considerato il fondatore del contrattualismo liberale, a causa del ruolo centrale che svolgono nel suo pensiero i temi:

- dei diritti naturali; - dei limiti che i diritti naturali impongono allo stato; - il concetto di proprietà: carattere sacro e inviolabile.

Il potere politico è definito: come il diritto di formulare leggi che contemplino la pena di morte e, di conseguenza, tutte le pene minori, in vista di una regolamentazione e conservazione della proprietà; di usare la forza della comunità per rendere esecutive tali leggi e per difendere lo stato da attacchi esterni. Per Locke, gli uomini ai assoggettano ad un governo per salvaguardare la loro proprietà (mentre per Hobbes la proprietà privata è una conseguenza del patto, prima non esiste. Per Grozio e Pufendorf essa esiste anche prima del patto, ma solo se vi è un tacito consenso di tutti gli individui). Anche per Locke, come per Hobbes, gli uomini sono per natura eguali,e il potere monarchico non deriva né da quello divino né da quello paterno. Vediamo lo stato di natura del pensiero lockiano: è come quello di Hobbes, infatti, la legge di natura è quella regola il cui rispetto assicura la pace. La differenza è che per Locke essa è per tutti vincolante. Però, il problema sul quale egli si concentra è come funziona concretamente la punizione di chi non rispetta la legge di natura, ovvero il problema dell’amministrazione della giustizia. Mentre Hobbes distingueva fra stato di natura e stato di guerra, spiegando che quello di natura è uno stato di pericolo che può degenerare in guerra, come può accadere anche allo stato civile, Locke sostiene che lo stato di natura è pacifico, infatti, avviene quando gli uomini vivono insieme secondo ragione senza un sovrano comune, ma col potere di giudicarsi fra loro. Per allontanare il rischio di ricadere continuamente nel clima di guerra, scrive Locke, gli uomini scelgono il patto, istituendo così un giudice comune e imparziale che gestisca le controversie. Un altro tema fondamentale, come si è già detto, è quello della proprietà privata e, soprattutto, del legame che Locke ha tessuto fra essa e la libertà individuale. Le proprietà dell’individuo sono per il filosofo: libertà, vita e averi. Ma come si appropria l’individuo della terra? L’appropriazione privata non è una condizione originaria, ma deriva dalla proprietà comune. La legittimità della proprietà privata si basa su un assunto: l’uomo è proprietario della sua persona. Da tale base si sviluppa tutta l’argomentazione lockiana: se l’uomo è proprietario di sé stesso, lo è anche del suo lavoro e di ciò che il suo lavoro produce (il lavoro legittima l’individuo). Ciò significa che, per Locke, l’uomo ha diritto di appropriarsi della terra che lavora, a condizione che resti materia lavorabile anche per gli altri, altrettanta e altrettanto buona. Questo assunto porta il filosofo a criticare la teoria del consenso: se chi si appropria della materia da lui lavorata non toglie nulla a nessuno, perché sarebbe necessario il consenso? L’uomo acquisisce la proprietà su i prodotti e sulla terra che li produce con il proprio lavoro, però, vi sono dei limiti: ognuno può prendere tanto quanto può consumare. Finché non c’era il denaro, scrive Locke, non si poteva accumulare più di tanto, perché i prodotti si deterioravano, mentre con l’introduzione del denaro diventa possibile un’accumulazione illimitata. La legittimità di questa disuguaglianza non riposa su un patto, ma sulla scelta condivisa dagli individui di utilizzare il denaro; ciò comporta per il filosofo l’accettazione dell’eventualità dell’accumulazione illimitata. Nb: il valore dei beni secondo Locke è dato molto più dal lavoro fatto per ottenerli che dalla materia prima, e quindi, chi ci mette il lavoro ha più diritto su un bene del proprietario della materia prima (il valore della quale, se non lavorata, tende a zero). Questa è la teoria valore-lavoro che sarà utilizzata anche dall’economia politica classica fino a Marx. La prova di questo primato del lavoro la forniscono i popoli d’America che, malgrado le enormi risorse naturali, sono poverissimi.

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Si nota come Locke giustifichi il capitalismo inteso come accumulazione illimitata e fine a sé stessa. Vediamo i punti deboli evidenziati dalla critica:

a) il concetto della proprietà di sé non sembra del tutto convincente, perché nessun uomo può legittimamente vendersi come invece può vendere le sue proprietà;

b) le abilità di qualcuno non gli appartengono in modo esclusivo perché egli le ha apprese da altri che gliele hanno insegnate e quindi anche nel suo lavoro il contributo propriamente individuale è una piccola parte;

c) il problema delle generazioni: perché chi arriva dopo, quando tutto è diventato proprietà privata di qualcuno, dovrebbe accettare il fatto che con il denaro si sia resa possibile la proprietà senza limiti? Locke risponderà che «anche il più povero bracciante inglese sarà più ricco di qualunque re dei selvaggi, e quindi in ogni caso non ha nulla di cui lamentarsi.» Tale risposta e il pensiero che la anima daranno luogo ad una ripresa del pensiero liberare che da Adam Smith si muoverà fino a J. Rawls. Tale risposta può essere infatti messa in crisi da una semplice domanda: preferireste essere un bracciante o un re?

Passiamo ad un altro nodo cruciale della teoria di Locke. Egli insiste sul fatto che, associandosi con lo stato, gli individui istituiscono un giudice che è legittimato a risolvere i contrasti in quando è al di sopra dei contraenti. Ma se questa è l’essenza del passaggio dallo stato di natura a quello civile, allora ne consegue che la sovranità non può essere, come invece aveva sostenuto Hobbes, assoluta (deve esserci qualcuno che sia al di sopra del sovrano). Questo pensiero diventerà una delle tesi fondamentali del liberalismo moderno: non si esce veramente dallo stato di natura se non c’è una salvaguardia nei confronti del potere sovrano. Vediamo ora le caratteristiche del patto politico:

- è sottoscritto dagli individui liberamente; - chi vuole può non aderirgli; - chi aderisce si impegna a formare un solo corpo politico che rispetta le decisioni prese dalla

maggioranza; - lo scopo è quello, non solo di sopravvivere, ma di vivere bene nella pace reciproca,

assicurandosi il godimento delle proprietà e una maggiore protezione nei confronti di colore che a quella società non appartengono.

Il potere legislativo (emanare leggi e risolvere le controversie) è per Locke obbligato a sottostare ad alcuni vincoli:

1. Diritti inalienabili: esso deve muoversi nell’ambito fissato dalla legge di natura, e nel rispetto dei diritti inalienabili che da essa discendono; 2. Principio di legalità: il potere deve governare attraverso leggi generali certe e non attraverso decreti estemporanei o ad personam; 3. Intangibilità della proprietà: il potere supremo non può togliere a un uomo una parte della sua proprietà senza il suo consenso (le tasse per mantenere lo stato devono avere il consenso dei sudditi); 4. Il legislativo non deve trasferire ad altri potere di legiferare, né affidarlo a mani diverse da quelle cui l’ha affidato il popolo.

Nb: Locke afferma che le migliori forme di governo sono democrazia, monarchia e oligarchia. Ma come si può garantire che il potere legislativo rimanga in questi limiti? La risposta è da ricercarsi nella teoria dell’articolazione dei poteri. Bisogna distinguere chiaramente il potere legislativo da quello esecutivo: il primo deve riunirsi solo periodicamente, e non in permanenza, per legiferare, mentre il secondo deve assicurare coattivamente l’obbedienza dei cittadini alle leggi. Chi dispone della coazione non dispone della legge, e anzi, a essa è vincolato, mentre chi legifera non ha alcun potere diretto di coazione. Il potere legislativo è quello supremo, ma la coazione spetta a quello esecutivo. Se però il potere legislativo non si attenesse alle regole previste, Locke argomenta la sua (problematica) teoria del diritto di resistenza: mancando di un giudice superiore cui appellarsi, il

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popolo ha diritto di appellarsi ad una legge superiore a quella positiva, cioè quella naturale 8si ricade nello stato di natura). 5. I due patti di Jean- Jacques Rousseau (1712-1778) Con Rousseau tutta la problematica del contrattualismo hobbesiano e lockiano viene sottoposta a un rovesciamento critico radicale: il contrattualismo cessa di porsi come un orizzonte entro il quale si legittimano i poteri vigenti, per trasformarsi in leva di un pensiero tendenzialmente rivoluzionario. Rousseau prende le mosse dalla premessa del contrattualismo: esso ha posto alla radice del patto sociale uomini liberi ed eguali, eppure tale eguaglianza originaria è schiacciata da quelle strutture di dominio e di oppressione che, secondo il filosofo, segnano e inquinano ogni società civile moderna, «L’uomo è nato libero, ma dappertutto è in catene.» Rousseau si distingue poiché non solo fa della diseguaglianza sociale oggetto di denuncia, ma essa è compresa nella sua razionale necessità. Dunque, con la nascita della società civile l’eguaglianza non si conserva, bensì si rovescia, diventando disuguaglianza. Il primo compito della teoria diventa quello di svelare come le strutture in egualitarie del dominio abbiano potuto sorgere, e godere perfino del consenso degli oppressi. Innanzitutto partiamo dallo stato di natura. Rousseau contesta quello hobbesiano, dicendo che il limite di fondo della teoria di Hobbes è che lo stato di natura è popolato da uomini avidi, orgogliosi, desiderosi di opprimersi l’un l’altro. Secondo Rousseau quello che Hobbes sta descrivendo è l’uomo civilizzato, corrotto e rovinato da una civiltà malsana. Diversa è la critica per lo stato di natura lockiano: egli incorre in un peccato di apologia, a causa della sua visione continuistica fra stato di natura e stato civile. Per Rousseau invece, lo stato di natura (visione scientifica) non è uno stato di guerra per il semplice motivo che è uno stato di isolamento. L’uomo naturale è un uomo solo che abita una natura ostile, ma con essa non ha difficoltà nel soddisfare i suoi limitati bisogni. Lo stato di natura non è affatto una condizione miserabile, anzi, Rousseau lo definisce «il più adatto alla pace, il più conveniente al genere umano.» Non vi è quindi alcuna necessità che costringe l’uomo a uscire dallo stato di natura (semmai il problema è come se ne sia usciti, visto il sua carattere pacifico e stabile); inoltre, il passaggio allo stato civile è determinato solo da cause esterne fortuite che potevano anche non verificarsi. Come si costituisce l’ineguaglianza che caratterizza la società civile? Il tutto, secondo Rousseau, ruota attorno al concetto di proprietà: «il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare, questo è mio, e trovò persone abbastanza ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile.» Il discorso lockiano viene così criticato: la proprietà non è un’acquisizione legittima, ma una sagace impostura. L’ineguaglianza delle proprietà è il vero stigma della società corrotta, è la rottura maggiore nel fatale percorso storico verso la società borghese. Il processo degenerativo di cui Rousseau tratta, ponendosi così anche fra i fondatori della moderna scienza antropologica e sociale, si ricollega alla dimensione della socialità che soppianta quella dell’originaria solitudine. Quando l’uomo si unisce ad una comunità, sviluppa subito quel sentimento che è l’amor proprio, quella stima della propria superiorità che è la radice prima dello sviluppo dell’ineguaglianza. Nb:sulla scia di Hobbes, Rousseau afferma che la passione dell’orgoglio spinge l’uomo a competere con i suoi simili per superarli, ma tale sentimento non appartiene all’uomo dello stato di natura, bensì a quello civilizzato. La socialità è, in questo contesto, definita come un morbo che spinge l’uomo al confronto e a dipendere dall’opinione altrui. Dunque, l’uomo selvaggio che passa ad uno stato civile acquisisce tale sentimento in forma “leggera” e inizia così l’ineguaglianza, ma questo stadio è definito embrionale dal filosofo. E’ stato lo sviluppo delle tecniche, dell’agricoltura, del lavoro, e la differenza di talenti, di proprietà, a spianare la strada dell’ineguaglianza nel suo sviluppo senza limiti: perché la proprietà nasce dal lavoro, come in Locke, ma, poiché gli uomini hanno diversa forza, capacità e talento, il lavoro di

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alcuni procura loro maggior proprietà di quanto non accada ad altri. E’ così completamente spianata la via verso la corruzione, verso una società divisa in padroni e servi, dove l’apparire grandi, ricchi e superiori agli occhi degli altri diventa più importante di ciò che davvero si è. E’ qui allora, nella società non ancora politicamente organizzata, e non nello stato di natura, che si ha lo stato di guerra. E da esso gli uomini sono usciti con un patto politico che è stato proposto dai ricchi ai poveri. Esso è un patto iniquo e che i poveri accettano solo per ingenuità, perché, mentre distruggeva la libertà naturale, legittimava la legge della proprietà e della diseguaglianza. Nb: secondo Rousseau: per appropriarsi di ciò che eccedeva la necessità, un uomo avrebbe dovuto «avere il consenso espresso ed unanime di tutto il genere umano.» Anche il patto descritto da Locke è considerato iniquo dal ginevrino, perché non è razionale che i nullatenenti accettino di lasciare la loro libertà naturale sottomettendosi alla legge civile, senza pretendere che venga rimessa in discussione anche la distribuzione delle proprietà. In esso i ricchi ci guadagnano troppo, e poveri troppo poco rispetto a ciò che cedono. (Se anche il patto fosse fatto, sarebbe comunque nullo). Importante è sottolineare un punto di passaggio nel pensiero di Rousseau. Il Rousseau che fin qui abbiamo descritto è quello del Discorso sull’ineguaglianza, testo nel quale la socialità si configura come una dimensione di caduta e alienazione, ma è attraverso una visione più complessa e meno negativa del rapporto sociali che il filosofo giunge a porre le condizioni per delineare il quadro di quel patto equo e razionale designato nel Contratto sociale. In esso Rousseau considera gli uomini come di fatto slono, nella loro conflittuale particolarità, e le leggi come possono essere, in modo da poter associare la giustizia all’utilità, dunque, ciò che il diritto permette con ciò che l’interesse prescrive. I punti di partenza fondamentali della concezione rousseuiana non sono lontani da quelli di Hobbes e Locke:

- l’ordine sociale non è dato per natura, ma è un ordine artificiale che deve essere istituito da uomini originariamente liberi ed eguali; - non sono accettate le teorie che vedono il potere sovrano come derivazione di quello patriarcale, o come scaturente da una superiorità natura di uni rispetto ad altri; - il potere legittimo non può essere pensato, dice Rousseau polemizzando soprattutto con Grozio, come il risultato di un patto di sottomissione in cui il popolo aliena la sua libertà nei confronti di un sovrano diventandone suddito.

Poco sopra abbiamo spiegato che il patto di stampo lockiano non è razionale secondo Rousseau e che, anche se fosse fatto, viene considerato nullo. Vediamo le ragioni:

a) è irrazionale che i sudditi si spoglino della libertà per ottenere in cambio una sicurezza non garantita, oltretutto sotto il comando di un sovrano che può dichiarare guerre a suo piacimento;

b) un patto nel quale una parte cede qualcosa in cambio senza ottenere nulla è nullo; c) nessuna generazione di uomini può alienare la libertà delle generazioni successive, perché

essa non le appartiene; d) la libertà è qualcosa che non si può alienare (inteso come “cedere”) come accade per una

proprietà. Se ciò fosse considerato vero, significherebbe negare all’uomo la responsabilità delle sue azioni. Es: se un uomo ordinasse ad un atro di commettere un crimine, l’assassino non sarebbe dispensato dalla sua responsabilità, perché il crimine rimarrebbe suo;

e) come sosteneva Pufendorf, perché un popolo possa darsi a un re è necessario che esso si sia prima costituito come popolo: un pactum subjectonis non può darsi se non si presuppone un anteriore pactum unionis. Per poter decidere qualcosa, tutti devono prima aver deciso, all’unanimità, di unirsi e di sottomettersi a ciò che la maggioranza deciderà.

Poste queste premesse, affrontiamo il problema di trovare una forma di associazione legittima. Rousseau propone come soluzione il seguente patto: gli individui rinunciano ad autogovernarsi, dunque, alienano totalmente i loro diritti in favore di un corpo politico comune. In tal modo l’individuo accetta che gli altri abbiano diritto su di lui, ma al tempo stesso acquisisce un diritto

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sugli altri; e quindi non perde nulla della sua libertà. Ora la libertà è messa in comune, l’individuo riottene ciò che cede, e in più acquista la certezza di poter godere della libertà che ha (cosa che nello stato di natura non avveniva poiché la forza di altri poteva negarla). Sebbene Rousseau critichi il potere assoluto assunto da Hobbes, quando si tratta di descrivere la clausola del patto egli segue la sua scia, allontanandosi radicalmente da Locke: il sovrano ora è la comunità, dunque, i diritto contro il sovrano non sono presi in considerazione; esso è infatti formato da privati che non possono avere interessi contrari ai loro. In rapporto ai membri della comunità, lo stato è padrone di tutti i loro beni, ma ciò non significa che i beni debbano passare di mano, piuttosto che il diritto di ciascun privato sul suo terreno è sempre subordinato al diritto della comunità su tutto. Il compito del patto sociale è quello di rinforzare l’uguaglianza naturale nella forma di un’eguaglianza morale e legittima. (i governi “cattivi” offrono un’eguaglianza solamente apparente) Lo stato rousseriano è una costituzione dell’eguaglianza, dove “eguaglianza” non significa che si debba essere identici, piuttosto che nessun cittadino dev’essere in grado di imporre la sua volontà a un altro se non in forza delle leggi, e che nessuno dev’essere abbastanza ricco da poter comprare un altro e, ancora, nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi. L’eguaglianza è condizione di uno stato che abbia di mira il bene comune ma, più in profondità, è condizione della libertà stessa. Tuttavia, è la stessa «forza delle cose» che tende a distruggere l’eguaglianza: malgrado vi sia un interesse comune, la comunità politica di Rousseau diventa il terreno di una lacerazione drammatica, perché, là dove vi è società, vi sono individui con interessi particolari. L’arte politica ha il difficile compito di governare la società a partire da questo interesse, di cui la volontà generale è voce, senza lasciarsi travolgere dalla spinta centrifuga degli interessi antagonisti. Nb: la volontà generale può divergere dalla volontà di tutti che, invece, è una semplice somma di interessi particolari; e il popolo può essere ingannato. Nb: Rousseau è il fondatore della democrazia moderna. 6. Kant e il contratto come idea della ragione (1724-1804) Come in Hobbes, anche in Kant la riflessione sulla politica prende le mosse da un presupposto antropologico: la «insocievole socievolezza» dell’uomo. Kant sostiene, come Hobbes, che l’uomo è lupo per l’altro uomo, ma pone la questione in modo più articolato: l’uomo ha una naturale inclinazione ad associarsi, perché solo nella società con gli altri può sviluppare al meglio le sue disposizioni naturali/qualità, ma l’uomo ha altrettanto fortemente una tendenza a dissociarsi, poiché è caratterizzato dalla proprietà insocievole di voler condurre tutto secondo il uso proprio interesse. Inoltre, l’uomo si aspetta che anche gli altri facciano lo stesso, e quindi, in questo senso, è sempre in guerra con loro. L’uomo kantiano è quindi sociale, ma anche egoista e antisociale, e i due momenti non si possono separare, perché per prevalere sugli altri bisogna porsi in relazione a essi. Citazione: «da un legno così storto, come è quello di cui è fatto l’uomo, non si può fare nulla di completamente diritto.» Kant però compie una valutazione altamente positiva dell’insocievolezza dell’uomo, poiché essa genera competizione, desiderio di prevalere, e spinge i talenti dell’uomo a emergere; ciò non sarebbe possibile nella perfetta concordia. Se l’uomo non fosse abitato dall’insocievolezza, non comprenderebbe il valore superiore della sua esistenza e delle sue potenzialità, ma, come scrive Kant, sarebbe una pecora mansueta. Bisogna però sottolineare il fatto che la competizione non è un valore per il filosofo, ma un mezzo attraverso il quale si produce ciò che ha valore, e cioè lo sviluppo della razionalità, della cultura, della scienza, della ricchezza. A causa di questo presupposto, Kant non può introdurre il tema dell’eguaglianza liberale (cioè delle opportunità): per lui, è tollerabile una diseguaglianza anche considerevole nelle condizioni economiche a patto che a nessuno sia impedito di riuscire con il proprio merito/talento ai più alti gradi della gerarchia sociale.

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Vediamo ora la concezione kantiana dello stato di natura. Essa presenta due aspetti:

1. il primo aspetto lo avvicina a Hobbes lo stato di natura è uno stato di guerra, anche se non sempre comporta lo scoppio delle ostilità, ma piuttosto la minaccia di esse. Lo stato di pace deve dunque essere istituito (infatti l’astenersi dalle ostilità non è ancora sicurezza). Tuttavia, lo stato di natura, sebbene costituisca uno stato di guerra quantomeno potenziale, può essere definito uno stato non giuridico solo in un certo senso: esso è tale perché non si ancora costituita l’unione civile che dà luogo al passaggio giuridico, ma, in un altro senso, non è del tutto non giuridico, poiché in esso sono già vigenti dei rapporti di diritto privato tra gli individui, che Kant definisce provvisori: mentre nello stato civile sono indicate le condizioni che assicurano l’esecuzioni delle leggi dello stato di natura, in esso ciò non avviene, ma questa è l’unica differenza, perché anche nello stato di natura abbiamo le proprietà, un “mio” e un “tuo” attorno ai quali ruotano le discordie. Ciò comporta, per Kant, il doveroso passaggio alla creazione di uno stato giuridico. Egli non parla di necessità, ma di dovere, poiché i diritti esistenti nello stato di natura, senza una legittimazione, rimarrebbero ineffettuali. Ovviamente, l’uscita dallo stato di natura risponde anche agli interessi degli uomini, costretti ad entrare in quello stato di coazione che è la pena.

2. il secondo aspetto lo allontana da Locke mentre per Locke la decisione di spogliarsi della libertà naturale è autonoma e che non aderisce resta nello stato di natura, per Kant gli uomini hanno il dovere di costringere coloro che si rifiutano a fare parte dello stato civile. Il punto è di estrema rilevanza perché, mentre per Locke e il liberalismo più generale, la legittimità dell’ordine politico dipende dal consenso di fatto che gli individui hanno dato ad esso, per kant la legittimità dipende invece dal consenso che gli individui sono tenuti a dare, perché rifiutarsi ad esso vorrebbe dire scegliere di rimanere in uno stato di ingiustizia, mentre l’adesione non è altro che l’adesione doverosa a una legge della ragione, e non ha nulla a che vedere con una preferenza che gli individui possono o meno nutrire. Nb: tale pensiero si colloca oltre il problema di motivare l’adesione al patto, ma si spinge nell’ambito normativo.

Abbiamo visto che costituire l’unione statale è un dovere, ma chiediamoci: è un dovere normativo o morale? La risposta è articolata. Certamente costituire lo stato è qualcosa che somiglia molto ad un dovere morale, tuttavia diciamo che il dovere di uscire dallo stato di natura è giuridico in senso preciso, perché, da parte degli altri individui, vi è il diritto di costringere i riottosi a entrare nello stato civile. L’osservanza di questo dovere viene garantita dalla coazione che, appunto, è un dovere giuridico. Nb: la coazione è un dovere giuridico non nel senso del diritto positivo, che è appunto ciò che deve essere costituito, ma nel senso del diritto naturale/di ragione. Si può affermare che in Kant è proprio il diritto naturale (o di ragione), a costituire il tramite fra lo stati di natura e quello civile. Schema:

diritto naturale o di ragione (dovere giuridico)

Il fatto che gli altri individui possano obbligare i restanti a passare allo stato civile è ammesso poiché la legge naturale è anteriore a quella positiva. C’è un obbligo anche se non c’è il legislatore. Da ricordare la seguente distinzione in Kant:

Stato di

natura

Stato civile (stato di diritto)

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Leggi esterne appartengono al diritto e non alla morale, sono leggi naturali, e possono essere riconosciute a priori dalla ragione; Leggi positive sono leggi che, senza una vera legislazione, non obbligano per nulla. Il criterio del giusto, secondo Kant, può essere formulato come segue: «qualsiasi azione è conforme al diritto quando per mezzo di essa, o secondo la sua massima, la libertà dell’arbitrio di ognuno può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale.» Perciò, l’unico “diritto originario” che spetta all’uomo in forza della sua umanità è la libertà come indipendenza dall’arbitrio costrittivo di altri, e in quanto essa può coesistere con la libertà di ogni altre secondo una legge universale. Quali sono le leggi giuste? Secondo il filosofo esse non sono frutto di una volontà arbitraria, ma devono essere conformi alla ragione. La legittimità di una legge non deriva semplicemente dal contratto o dal consenso dei cittadini, ma dal contratto originario come idea della ragione, alla quale tanto il legislatore quanto i cittadini devono sentirsi vincolati. Una legge è ingiusta quando sarebbe impossibile che tutto un popolo desse ad essa il consenso. D’atra parte, la legge alla quale tutto il popolo “potrebbe” dare consenso è una legge razionale e universale, ispirata all’unico principio di garantire il rispetto della libertà di ciascuno. Con il suo repubblinanismo, Kant tanta di conciliare il momento liberale dei diritti individuali con quello della volontà generale rousseauiana: la legge giusta è quella cui la volontà generale del popolo potrebbe dare il suo assenso (e perciò fondamento della legittimità è la volontà generale), ma la legge cui ognuno potrebbe dare il suo assenso non può accogliere alcun principio particolare che differisca dall’unico principio universale e razionale, che è quello di garantire la eguale libertà di tutti. In tal modo, Kant costituisce un punto di riferimento essenziale per un pensiero politico che voglia unire in modo coerente il principio liberale dell’autonomia dell’individuo e quello democratico della sovranità del corpo collettivo dei cittadini. Caratteristiche, secondo Kant, dell’ordine giuridico il diritto riguarda il rapporto tra le libertà che i diversi individui hanno di agire nel mondo esterno, quindi, come già detto, è una legge esterna. La funzione del diritto è regolare le relazioni fra gli uomini senza prescrivere loro i fini cui debbano adeguarsi, ma soltanto ordinando il modo della loro coesistenza, affinché ognuno possa esplicare il proprio arbitrio senza compromettere quello altrui. In forza di questo, si nota che il diritto è inseparabile dalla coazione: se qualcosa è mio di diritto, ciò vuol dire al tempo stesso che io ho diritto a costringere gli altri a rispettarlo. Chiediamoci ora quale sia il giusto ordinamento giuridico secondo Kant. Innanzitutto, nel saggio Sul detto comune, egli stila un elenco di principi a priori dello stato giuridico:

a. la libertà: - i diritti che concernono l’uso pubblico della propria ragione: fra i diritti inalienabili, Kant inserisce la libertà di religione, di pensiero e quella di critica pubblica, perché l’uomo ha diritto di fare uso pubblico della propria ragione in tutti i campi; - il diritto di ognuno di ricercare la propria felicità come meglio crede, purché non pregiudichi l’altrui diritto di fare altrettanto. Ne consegue che il compito dello stato non quello di promuovere il bene dei sudditi, ma quello di garantire le condizioni perché ognuno possa ricercare il suo benessere e la sua felicità come meglio crede. Da un lato quindi lo stato deve lasciare gli individui liberi di perseguire i fini che preferiscono, dall’altro deve essere retto non in modo arbitrario, ma secondo leggi, ovvero, deve essere stato di diritto;

b. l’uguaglianza: di fronte alla legge e non come accesso ai beni. Tale principio richiede la negazione dei privilegi ecclesiastici, feudali e nobiliari;

c. l’indipendenza: i cittadini che devono obbedire alle leggi hanno il diritto di esserne gli autori, però, il potere legislativo è solo di coloro che, non solo vivono sotto la giurisdizione di uno stato ma sono anche indipendenti nella vita economica, cioè che possiedono un capitale (si escludono i lavoratori a giornata, il servo domestico e la donna). Questo perché,

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secondo il filosofo, non sono pienamente cittadini coloro che, se dovessero esprimersi politicamente, finirebbero per esprimere la volontà di coloro da cui dipendono.

d. Nb: per quanto riguarda le forme di governo, Kant esegue una distinzione seguendo il come si debba governare e non il “chi”. Si deve governare o secondo leggi (stato repubblicano) o secondo arbitrio (come accade nel dispotismo). Perché un governo non sia dispotico è necessario che la funzione legislativa sia distinta da quella giudiziaria. Parte V. Società civile e stato 1. Lo spartiacque della Rivoluzione Con la rivoluzione francese termina l’epoca dell’ascese sociale della borghesia; il quadro cambia completamente. La questione decisiva diventa quella di accogliere sì, con l’eguaglianza giuridica di tutti gli individui, anche il principio della sovranità popolare, ma al tempo stesso di porre ad esso dei limiti ferrei. Il significato e il valore storico del liberalismo postrivoluzionario sta in sostanza nel modo in cui esso si pone il problema, per dirla con una locuzione che ha goduto di molta fortuna, di términer la Revolution. Il liberalismo postrivoluzionario mantiene la connessione con l’89, ma al tempo stesso riflette sui rischi e i pericoli della sovranità popolare. Il rischio è che:

- la sovranità si trasformi, come era accaduto nella fase giacobina della rivoluzione, nella dittatura popolare, esercitata da coloro che pretendono di rappresentare il popolo;

- l’uguaglianza politica dei cittadini, che si è affermata come principio inderogabile attraverso il contrattualismo e le rivoluzioni, voglia trovare la sua coerente prosecuzione nell’ eguaglianza sociale. Tale è una delle questioni più importanti sollevate dalla rivoluzione: l’eguaglianza politica dà necessariamente luogo all’eguaglianza sociale?

Il pensiero liberale ricerca un equilibrio che consenta di mantenere il principio moderno e rivoluzionario dell’eguaglianza politica (che solo i reazionari e i nostalgici si ostinano a negare),

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ma al tempo stesso vuole confinarlo entro precisi imiti, di modo che non si trasformi in una rivoluzione di tutta la società. Se non si ponessero questi limiti alla sovranità popolare, il risultato sarebbe un potere dittatoriale che rinnegherebbe i principi di libertà della rivoluzione. Il problema dell’epoca postrivoluzionario è quello di pensare se e come il principio moderno dell’uguaglianza possa conciliarsi con i diritti dell’individuo delle sue libertà private e della libertà di comprare e vendere sul mercato le merci non meno che il lavoro. Detto con le parole di Jacques Bidet, pensatore politico contemporaneo, il problema è capire come e se possano stare insieme la contrattualità centrale dei cittadini, fondamento del potere politico e dello stato, e la contrattualità interindividuale degli uomini che interagiscono nello spazio del mercato, in quello che soprattutto Hegel e Marx continueranno come l’ambito della società civile, distinta dallo stato. 2. Benjamin Constant e la libertà dei moderni. (1767-1830) Partecipò alla rivoluzione, schierandosi in difesa dei principi di libertà ed eguaglianza della rivoluzione, ma non senza polemizzare: da un lato contro di giacobini che hanno stravolto i principi della rivoluzione, instaurando una dittatura arbitraria e violenta, dall’altro contro i nostalgici della monarchia, che proprio dagli eccessi del giacobinismo traggono argomenti per tornare al vecchio ordine. I Principi di politica del 1806 prendono le mosse proprio dall’analisi critica del pensiero di Rousseau: egli, secondo Constant, ha perfettamente ragione quando individua, attraverso l’insostenibile volonté générale, l’autorità politica legittima. Se si rifiuta il fondamento divino del potere politico, dice Constant, non resta che fondare la sua legittimità sul consenso di coloro che a esso devono sottoporsi. Una volta individuata la fonte delle autorità, bisogna stabilire i suoi compiti e i limiti del suo esercizio. L’errore di Rousseau sta in questo punto: egli afferma che la costituzione del corpo politico presuppone l’alienazione totale da parte degli individui, di tutti i loro diritti, e dà luogo ad un potere che, anche se esercitato dalla collettività, risulta, come quello hobbesiano, assoluto. Dunque, Constant finisce per attaccare il concetto di volontà générale, perché nel momento in cui Rousseau sostiene che in realtà si tratta di un’alienazione in cui l’individuo non perde nulla e anzi lo guadagna (unendosi con gli altri in un corpo comune acquisisce su tutti loro gli stessi diritti che cede agli altri su di lui, con in più la forza comune per garantire questi diritti) ha torto. Il patto rousseauiano non dà alcuna garanzia all’individuo: quando si passa all’organizzazione pratica dell’autorità sociale, il sovrano è costretto a delegarla, e l’azione compiuta a nome di tutti è, di fatto, gestita da pochi, al cui potere l’individuo si trova infine consegnato. Dunque, non è vero che cedendo i suoi diritti al corpo comune in realtà li conserva, perché chi esercita di fatto l’autorità non è mai il corpo comune nel suo insieme, ma una parte di esso, che può anche farne un uso arbitrario. Il potere assoluto/illimitato è quindi sempre dispotico. Ma allora quale potere è considerato legittimo? Constant riflette sui limiti del potere seguendo due direzioni:

1. si può ragionare sulla limitazione del potere tramite divisione e articolazione, con il presupposto che un potere non può essere limitato da un altro potere. E’ questa la via del costituzionalismo, che tenta di elaborare un assetto dei poteri dove essi si controllino a vicenda. Però, secondo Constant, ciò non basta a impedire il dispotismo;

2. è essenziale, per impedire il dispotismo, stabilire con chiarezza gli ambiti nei quali il potere politico può esercitare la propria competenza, e quelli invece nei quali le libere scelte degli individui vi regnino incontrastate.

Il problema rimane: in base a quale principio fissiamo tali limiti? Il fine, sul piano interno, è la sicurezza dei cittadini e dei loro averi, mentre, sul piano esterno, è l’organizzazione di una forza armata per garantire la sicurezza dello stato. Queste due funzioni richiedono una certa tassazione sulle proprietà, senza la quale esse non potrebbero venir finanziate. Ogni estensione dello stato oltre questi limiti è illegittima, quindi, dove l’autorità state finisce, comincia lo spazio dei diritti individuali che essa non può limitare, ma solo proteggere dalle venutali interferenze di altri. Diritti individuali= libertà d’azione che non nuoce ad altri, libertà di fede/religione, libertà di pensiero, libertà di non essere arrestati, detenuti o giudicati se non secondo le leggi.

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Nb: Constant dedica interesse anche alla difesa dell’opinione pubblica e al suo principale strumento, la libertà di stampa, perché essa ha la forza di enunciare pubblicamente quelle violazioni dei diritti che, senza essa, potrebbero non essere notate dalla maggioranza. Tirando le somme, secondo Constant: il potere dello stato deve essere strettamente funzionale a garantire l’esistenza della società civile. Il fine è l’ordinato sviluppo di questa, nella quale l’individuo esplica la sua libertà. Lo stato ne è soltanto il mezzo, e diviene illegittimo se vuole essere qualcosa di più. In questo quadro però, quale ruolo rimane alla sovranità popolare? E’ chiaro che il potere legislativo detenuto dai rappresentanti del popolo dovrà essere esercitato entro limiti ristretti, affinché non sconfini nella sfera della vita individuale. Proprio per evitare questo però, i diritti politici, innanzitutto il diritto di votare e scegliere i propri rappresentanti, non potranno essere estesi a tutti i cittadini, ma solo quelli aventi proprietà, «poiché solo essa li rende cittadini» (nel senso che posseggono tempo libero per acculturarsi, diventano responsabili della coltura e amministrazione della proprietà). Ma, precisa Contant, un proprietario non è semplicemente chi possiede qualcosa, ma chi detiene un reddito fondario sufficiente a mantenersi durante l’anno senza essere obbligato a lavorare per gli altri. Quindi, coloro che non sono obbligati a lavorare per vivere. Nb: la proprietà di cui parla Constant non è, come quella lockiana, preesistente alla società, ma è una convenzione sociale, dunque, non è sottratta alla giurisdizione della società. Tuttavia, è ugualmente «sacra» e «inviolabile». In quanto strettamente connessa alla libertà dell’individuo, la società gode di una certa protezione e diritti; inoltre è per Constant la prova del progresso e benessere sociale, mentre la sua oppressione, costringendo tutti a lavorare, distruggerebbe ogni possibilità di avanzamento spirituale e intellettuale. La proprietà privata è dunque elemento essenziale di una società civile libera e capace di migliorare sé stessa. Anche per questo i diritti politici dei non proprietari devono essere negati, altrimenti cercherebbero di ridistribuire le proprietà. Nb: Constant però non parla né di classi né di ordini sociali, come invece accade nell’ ancien régime. Analizziamo ora il più famoso scritto di Constant Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni del 1809. La tesi che nasce e che arriva fino ai giorni nostri è la seguente, la libertà può intendersi in due sensi fondamentalmente diversi:

- nel senso degli antichi: è la libertà così come viene praticata nella polis. Consiste nella partecipazione diretta al potere politico: è la libertà come autogoverno. Tale è una libertà collettiva, compatibile, osserva Constant, all’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme, nel quale si esercita la privazioni di quei diritti che noi moderni definiamo fondamentali, come la libertà di credo. Il fine degli antichi era la divisione del potere sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria, questo era ciò che chiamavano libertà; - nel senso dei moderni: è la libertà dell’individuo privato che deve rispondere solamente alle leggi. In questo ambito rientrano i cosiddetti diritti fondamentali: parola, credo, libertà di stampa, di critica, diritto di riunirsi per interessi comuni, per professare un culto, il diritto di non esercitare direttamente il potere politico, ma di influire in vari modi, per esempio con l’elezione dei rappresentanti o con la pressione dell’opinione pubblica. Il fine dei moderni è la sicurezza dei godimenti privati, ed essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle istituzioni a questi godimenti. Pertanto, la vera libertà dei moderni è quella privata, quella che Hegel e Marx chiameranno la libertà del membro della società civile. Nb: la libertà politica è anch’essa fondamentale, ma principalmente in quanto strumento per garantire la libertà individuale. Da ricordare che senza libertà politica non c’è perfezionamento morale.

Il problema che nasce porta Constant ad una visione aporetica, per la quale ci si chiede come si possa mantener attiva la partecipazione politica se l’individuo moderno è prevalentemente concentrato sulla dimensione privata. Partendo da questi temi, Constant esercita una riflessione di natura costituzionale, infatti, egli affianca al potere esecutivo e a quello legislativo un terzo potere,

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definito neutro o preservatore, che, eletto dal popolo e totalmente indipendente dagli altri due, si ponga come arbitro. Ai tre poteri elencati, ne aggiunge due di carattere elettivo: 1. amministrativo locale; 2. potere dei giudici, che gode della massima indipendenza. 3. Alexis de Tocqueville e la democrazia in America (1805-1859) Alexis de Tocqueville proveniva da una famiglia aristocratica fedele alla dinastia borbonica; quando il trono francese viene preso da Luigi Filippo d’Orleans, al quale il pensatore aveva giurato fedeltà, l’anno successivo, 1831, egli ha l’occasione di compiere un viaggio in America. Tale opportunità lo condusse a studiare da vicino la nuova democrazia americana. I suoi scritti più influenti sono: la Democrazia Americana, pubblicato in due tempi, prima nel 1835, poi nel 1840, e L’antico Regime e la Rivoluzione del 1856. Egli è un discepolo di Constant, anche se finisce per rovesciarne gli esiti, recuperando il valore di quella libertà politica che Constant aveva subordinato a quella privata. La posizione di Tocqueville assume il presupposto che la democrazia è inarrestabile, è vano opporsi, dunque, è solo possibile analizzarne gli effetti. Con Constant egli condivide un’importante dato di fatto: con la democrazia il potere politico, più precisamente quello legislativo, è consegnato ai poveri, a quelli che i due pensatori chiamano non proprietari. Tocqueville parla del «suffragio universale» causato dalla maggioranza che consegna il governo alla società dei poveri. Un tema fondamentale sul quale egli si sofferma è l’eguaglianza delle condizioni: tale principio è il cardine della società democratica, che sopprime qualsiasi privilegio giuridico, di status e di ceto. E’ una vera uguaglianza delle condizioni che, a parere del pensatore, è compatibile con le più grandi disuguaglianze economiche: la democrazia americana è caratterizzata da un profondo divario fra ricchezza e povertà, senza che ciò implichi una divisione antropologica, ma le proprietà e le ricchezze sono talmente mobili che, in breve tempo, la posizione di un individuo può mutare. Tutto ciò lo conduce a parlare della tirannide della maggioranza, in quanto il potere legislativo non ha limiti ed è fortemente condizionato dall’opinione pubblica. Inoltre, negli Stati Uniti, la maggioranza controlla anche gli altri poteri: quello esecutivo e giudiziario, quello di stampa e dell’opinione pubblica. Un simile governo non è in alcun modo giustificato dal pensatore, ricordiamolo, che proviene da una famiglia francese aristocratica, anche perché, qualora i diritti dell’individuo siano violati con il consenso della maggioranza, quest’ultimo non avrebbe alcun diritto di appellarsi. Dunque, le garanzie, per l’individuo, non sono totalmente sicure. La critica della democrazia come potere illimitato delle classi non abbienti si trasforma in una riflessione sui nuovi rischi della società egualitaria e di massa. Tocqueville prende in considerazione le tendenze che si potrebbero opporre: - una rivitalizzazione della libertà politica e della partecipazione civica potrebbe contrastare la dimensione individualistica degli uomini “chiusi” che l’uguaglianza democratica produce; - la libertà politica può sanare i mali dell’uguaglianza: qui il pensatore cerca di recuperare la libertà degli antichi di Constant, enfatizzando il ruolo che potrebbero occupare i cittadini se si ponessero come soggetti attivi di partecipazione politica. Es: l’individuo che gestisce direttamente gli affari del bene pubblico rivitalizzerebbe i legami sociali (che l’individualismo distrugge). Nb: la sfida della democrazia, scrive Tocqueville, sta nella capacità di non lasciarsi assorbire dall’orizzonte della spoliticizzazione e di un benessere tutto individualistico, nello sforzo di tener viva la diretta partecipazione politica dei cittadini. 4. Il liberalismo radicale di John Stuart Mill (1806-1873) La lettura di Democrazia in America di Tocqueville esercitò una notevole influenza sul pensiero di Mill, portandolo all’elaborazione di un originale liberalismo radicale, caratterizzato per un verso dall’apertura nei confronti del socialismo (al contrario di Tocqueville) e per l’altro da una difesa della libertà e dell’anticonformismo individuale. L’utilitarismo di Bentham pone come fine della morale e della legislazione la realizzazione della massima felicità per il maggior numero, e Mill, riflettendo su tale principio, si rende conto che il

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limite sta nel considerare i piaceri umani sullo stesso piano. Se invece si fanno distinzioni la ricerca del benessere strettamente individuale può ricoprire un più ampio spettro. Tale riflessione lo porta a guardare con molta simpatia al movimento socialista, e ad esprimere le sue teorie ne i Principi di economia politica del 1848. Una delle tesi più caratteristiche del Mill economista è: mentre le leggi che governano la produzione della ricchezza sono del tutto indipendenti dalla volontà umana, invece, la distribuzione della ricchezza dipende dalle leggi e dalle consuetudini della società, ed è quindi modificabile attraverso l’intervento cosciente degli uomini. Quello che Mill critica è il modo in cui la ricchezza viene distribuita nella società del suo tempo, infatti, “chi lavora di più ha meno compenso”. E’ questa proporzione erroneamente inversa che deve essere modificata. Nei Principi, egli critica del capitalismo il fatto che esso si basi su una distribuzione ineguale delle proprietà, mentre difende il principio della libera concorrenza, con la sola eccezione della concorrenza fra i lavoratori. Secondo Mill, la divisione del genere umano in due classi ereditarie, cioè lavoratori e datori di lavoro, non può essere eternamente conservata, piuttosto, bisogna aspettarsi che nascano nuove forme associative e cooperative, tra lavoratori e datori di lavoro o tra gli stessi lavoratori. Nb: Mill parla di diffusione dell’istruzione e limitazione della crescita della popolazione: sono riforme sociali che combatterebbero i mali derivanti dalla proprietà privata. Per quanto riguarda il contributo di Mill alla filosofia politica, lo troviamo soprattutto nella sua opera più letta, On liberty, del 1859. Mill, come Tocqueville, è preoccupato che l’invadenza dello stato e la tirannia della maggioranza possano soffocare la libertà individuale delle persone. Il testo si propone di determinare i limiti che il potere pubblico e la legislazione non possono varcare, ovvero quelle sfere di libera azione individuale che, comunque, alla norma statale debbono restare sottratte. Il principio di questa limitazione è: lo stato non può vietare alcuna azione dell’individuo che non rechi danno ad altri. Vediamo che le basi di Mill non si ricercano in una teoria dei diritti naturali, ma al criterio di utilità (che per lui resta il supremo) inteso nel senso più ampio del termine, e facendo riferimento agli interessi permanenti dell’uomo come “essere perfettibile”. Nb: il principio di minima limitazione della libertà non è basato sul diritto dell’individuo alla non-interferenza, ma sulle conseguenze positive, in termini di utilità largamente e rettamente intesa che ne discendono. Libertà di opinione: il potere politico che pretende di vietare la pubblica espressione di opinioni che l’autorità o la maggioranza ritengono deleterie o sbagliate, commette un duplice torto

- se l’opinione che non si vuole divulgare è giusta, la comunità viene privata dell’opportunità di abbandonare l’errore per la verità;

- se l’opinione che non si vuole divulgare è sbagliata, la comunità perde il beneficio di una percezione più chiara e distinta della verità, prodotta dal contrasto con l’errore.

La conclusione di Mill è che l’opinione non sia né vera né falsa, ma che contenga una parte della verità. Per questo è importante il dialogo e il confronto; senza libertà di discussione non vi è progresso sociale/politico/morale. Questo ragionamento sulle opinioni si applica anche agli stili di vita e ai comportamenti: il libero sviluppo dell’individualità permette all’uomo di seguire gli impulsi più spontanei e personali, sottraendosi alla tirannia conformistica della maggioranza. (concetto già espresso in Tocqueville). Da ciò deriva la critica al paternalismo, che ha la pretesa di proibire agli individui comportamenti (come il bere e l’assunzione di sostanza nocive) che, senza recar danno ad altri, sembrano però contrari al loro stesso bene. Mi viene da chiedermi: è l’uomo deve salvarsi da solo, o la società che deve intervenire? Qui arriviamo alla punta più radicale e controversa del liberalismo milliano, perché, in primo luogo è difficile distinguere un comportamento che reca danni ad altri e uno che non lo fa, e ciò dipende anche dai criteri di liceità della società cui ci si riferisce, criteri che cambiano da stato a stato, ma anche nel tempo. In secondo luogo, se ammettiamo che sia lecito impedire a qualcuno di suicidarsi, anche con la forza, allora dobbiamo anche ammettere che sia lecito proibire l’uso di

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sostanze nocive per l’individuo al suddetto soggetto? Si pensi alla droga, ma anche al vizio del fumo, l’alcool, il mangiare in modo malsano, ecc. Mill esprime la sua opinione attraverso una serie di argomenti, non conclusivi, ma comunque rilevanti:

1) il singolo è la persona più interessata al proprio benessere, più di quanto lo sia la società. Nb:il benessere per un malato mentale o terminale può essere il suicidio. Ci chiediamo: cosa sia benessere, e come debba comportarsi la società;

2) attraverso l’educazione la società a avuto modo di prevenire nel singolo comportamenti sgraditi;

3) se non si ponessero limiti all’ingerenza del pubblico sui comportamenti privati, questo finirebbe per punire, come è già accaduto nella storia, non ciò che risulta dannoso per i singoli stessi, ma tutto ciò che va contro le sue preferenze. Es: persecuzioni religiose.

Vi sono però delle eccezioni: - è lecito proibire agli individui di vendersi come schiavi, a causa del principio di libertà (la

facoltà di alienare la propria libertà non è libertà) - l’istruzione non è violazione della libertà - Mill precisa: il principio della libertà individuale non ha niente a che fare con la dottrina del

libero scambio. Il commercio non è un’attività privata ma sociale, soggetta alle leggi che la società prescrive. Es: limitare la concorrenza è quasi sempre sbagliato, ma non è un attentato alla libertà.

La sua visione dell’uomo come essere autonomo e originale ha influenzato anche la visione della democrazia. Nel saggio Sul governo rappresentativo (1861), Mill sostiene che il suffragio universale applicato secondo la regola un uomo/un voto porrebbe il potere legislativo nella mani della maggioranza più povera e meno colta, comportando il rischio di una legislazione classista, e ingiusta poiché interessata solo agli interessi immediati della maggioranza. A questi inconvenienti, Mill pensò che si potesse porre rimedio senza eliminare il suffragio universale, ma introducendo il voto plurimo, in modo tale che tutti avessero a disposizione un voto (escludendo gli analfabeti e coloro che non pagavano le tasse), ma che le persone più istruite, esperte e qualificate ne avessero più di uno. Es: un uomo di cultura poteva averne cinque, un imprenditore tre, un capo operaio due. In questo modo si sarebbe potuta ottenere una legislazione non classista e sensibile agli interessi generali. Inoltre, nella prospettiva di una democrazia dell’intelligenza, Mill riteneva che le leggi non dovevano essere elaborate dal Parlamento, ma semplicemente approvate o respinte. Proprio perché il suo pensiero costituisce il tentativo di tener insieme molte e diverse esigenze intellettuali, Mill è all’origine non solo del liberalismo radicale, ma anche del liberalsocialismo e di un modello di democrazia centrato sullo sviluppo culturale degli individui, che è stato opportunamente definito, da Macpherson, democrazia dello sviluppo. 5. Il superamento hegeliano del liberalismo (1770-1831) Anche la filosofia politica di Hegel ha come tema centrale la libertà, caratterizzata dalla libera volontà universale, che è fondamento dello stato. La filosofia del diritto hegeliana si articola in tre parti:

- diritto astratto e moralità: l’oggetto di entrambe queste parti è quello di mostrare come tanto la dimensione della libertà giuridica, quanto quella della libertà morale (delineata secondo il modello kantiano) non siano sufficienti a pensare il concetto hegeliano di libertà. Essa non è solamente la facoltà di operare in quanto persona giuridica, e non è nemmeno la possibilità di disporrei di sé e delle sue proprietà, e neppure la capacità di autodeterminarsi come persona morale capace di scegliere in base alla ragione. Secondo Hegel la libertà deve essere compresa come il fruire di quelle condizioni e di quei rapporti oggettivi che consentano all’individuo la sua autorealizzazione, che gli assicurino le condizioni per esplicare la sua libera personalità.

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Si nota che la libertà del diritto astratto è insufficiente perché conferisce all’individuo soltanto delle facoltà, mentre l’insufficienza della libertà morale deriva dal fatto che prescrive di agire, proprio in quanto segue la morale kantiana, di agire secondo massime universalizzabili.

- eticità: è la libertà concreta, vera, attuata in concrete istituzioni, che a sua volta si articola nelle tre dimensioni della famiglia, della società civile e dello stato.

Contro il contrattualismo, Hegel mostra che non si può pensare lo stato come il risultato di un patto fra individui, ciò significherebbe dare prima i soggetti di contratto nell’ambito della società civile e poi l’organismo politico che li stabilizza e li garantisce. Per Hegel invece, come per Aristotele, l’organismo politico, cioè lo stato, è il momento che precede gli altri: non ci sono individui capaci di autodeterminarsi liberamente senza l’unità politica che ne è la condizione. Lo stato precede tutti i momenti ma è anche scopo finale, perché il fine è la sua completa realizzazione. Possiamo dire che lo stato ha fine in sé stesso, mentre il supremo dovere dei singoli è quello di essere componenti dello stato. Vediamo ora la dialettica dell’eticità: Primo momento la famiglia. E’ il primo istituto all’interno del quale gli individui trovano le condizioni della loro autorealizzazione, ed è anche il momento dell’immediata unità, infatti, per Hegel la famiglia rimane il luogo in cui si conservano le tracce della “compattezza etica” che egli attribuiva alle società antiche. La famiglia non si identifica con la stirpe, ma presenta affinità con la famiglia nucleare borghese, che si limita al rapporto genitori-figli. La famiglia si fonda sul matrimonio inteso come atto di libera volontà di due individui; da ciò si comprende che l’amore coniugale è alla base di questo primo momento. Secondo momento la società civile, suddivisa a sua volta in tre momenti:

- sistema dei bisogni: in questa fase abbiamo la separazione degli individui, intesi come persone private dedite al soddisfacimento dei loro bisogni e interessi egoistici. Vi è un notevole sviluppo, dovuto al distaccamento dalla famiglia e alla conquista dell’autonomia, anche attraverso il lavoro, che conduce al progresso e alla civiltà. Nel sistema di bisogni Hegel mostra che nell’interdipendenza economica la divisione del lavoro conduce a soddisfare bisogni sempre più sofisticati, anche se, così facendo, ognuno di pende dal lavoro degli altri, e l’”egoismo” del privato si trasforma nella soddisfazione dei bisogni degli altri (insegnato da Adam Smith, vedi concetto di “mano invisibile” che armonizza, e Mandeville).

- il diritto astratto diventa concreto: si passa all’amministrazione della giustizia. La giustizia è diritto astratto, ma, grazie al sistema di leggi positive e alla presenza dei giudici, si fa concreta. Nella giustizia si rafforza il rapporto tra il singolo e la totalità: il diritto del singolo viene collegato al diritto universale, espresso nella forma della legge. Nb: Hegel considera i giudici funzionari dell’esecutivo, e non come espressione di un potere giudiziario (prospettiva del costituzionalismo liberale).

- polizia: intesa in senso ampio, come amministrazione statale e come corporazioni. Ora il legame etico fra singolo e totalità si manifesta con maggior forza: l’amministrazione pubblica ora tutela i diritti del singolo, e si fa carico del benessere dei membri della società, per mezzo di programmi educativi e politiche economiche. Es: armonizzare gli interessi di produttori e consumatori, fissare i prezzi dei beni di prima necessità, esercitare sorveglianza sull’educazione ecc.

Terzo momento corporazione. Essa rappresenta il passaggio attraverso cui, dalla dispersione che caratterizza nel suo insieme la società civile, lo spirito etico ritorna all’unità: non però all’unità immeditata e semplice della famiglia, ma a quella arricchita dalla società civile e dalle differenze insite in essa, che ora possiamo chiamare stato. Qui l’interesse universale si attua consapevolmente, senza che gli individui vedano i loro interessi soppressi. Secondo Hegel la forza dello stato moderno sta nel fatto che, per un verso, si afferma il principio cristiano e borghese dell’infinito valore della soggettività, spinto fino all’estremo perseguimento autonomo dell’interesse più particolare, mentre, per altro verso, gli individui riconoscono il loro

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necessario legame con l’intero e quindi assumono consapevolmente l’interesse generale come scopo finale. Possiamo affermare : il bene del tutto è la condizione primaria della soggettiva autorealizzazione. In tal modo l’interesse dello stato non è oggettivo, ma si media attraverso l’operare consapevole degli individui. Come è possibile tale mediazione? Perché nella società civile, pur essendoci l’estrema ricchezza in contrapposizione con l’estrema povertà, esiste anche la possibilità di superare le lacerazioni, attraverso gli istituti di polizia e della corporazione, ma anche perché la società civile è organicamente strutturata dalle tre classi o ceti (Stende) che la compongono: ceto industriale, che comprende le varie articolazioni, quali, artigianale, manifatturiera, commerciale, e la sua organizzazione in corporazioni, e il ceto generale, cioè quello dei funzionari dello stato, che ha come compito la cura degli interessi generali. Da sottolineare: la rappresentanza per ceti costituisce l’elemento che media tra popolo e governo, e la concreta possibilità di saldatura tra gli interessi, organicamente articolati in cerchie. Inoltre, per Hegel, la separazione fra società civile e stato politico si concilia nell’elevarsi della società civile a società politica attraverso la rappresentanza per ceti. Analizziamo i poteri: Potere sovrano: costituisce il culmine e il principio della totalità, detiene la decisione ultima, compete al monarca costituzionale; Potere governativo: deve eseguire e applicare le decisioni; Potere legislativo: sovrano+governativo+ceti E’ strutturato attraverso la rappresentanza dei ceti e delle corporazioni. Questo è un passaggio fondamentale in Hegel, tanto che si incentrerà anche la critica di Marx. Infatti, nell’elemento dei ceti, le differenze della società civile, organicamente strutturate, giungono ad avere significato in quanto attività politica. Nb: società civile definita da Hegel “atomica”. Nb: è antiindividualistico, predilige il momento dell’unità sostanziale. 6. Marx: eguaglianza politica e ineguaglianza sociale (1818-1883) Marx elabora il suo pensiero a partire dalla critica alla Filosofia del diritto di stampo hegeliano, soprattutto ne critica il rapporto fra società civile e stato. Secondo Marx, Hegel è riuscito a cogliere la moderna separazione fra società civile, intesa come il terreno sul quale agiscono gli individui con i loro interessi particolari, e lo stato, cioè il luogo dell’interesse universale. Nonostante ciò, Marx critica quello che considera il limite del sistema hegeliano: esso ha esercitato una soluzione illusoria di questa contraddizione, reintroducendo elementi di mediazione che provengono dall’ordine antico, come per esempio la rappresentanza per ceti. Per Marx l’analisi critica della società moderna deve partire proprio dalla separazione che la caratterizza. Il fatto che la società civile sia il regno degli individui, significa che essa è caratterizzata da ampie disuguaglianze di denaro, di proprietà e di cultura, ma tutto ciò non si riflette nel loro significato politico. Mentre nella società feudale il signore occupava un alto grado anche in politica, nella moderna società, nata dalla rivoluzione francese, tutti i cittadini sono politicamente uguali. Marx ci mostra che la rivoluzione francese non sopprime totalmente l’ineguaglianza politica, ma solo il suo significato politico. L’ineguaglianza si sviluppa nel mercato, nelle ricchezze che si possiedono, in quello che egli chiamerà capitalismo, ma, non per questo, si riflettono nella politica. Come possiamo pensare questo rapporto? Innanzitutto Marx, nel saggio Sulla questione ebraica, analizza le dichiarazioni dei diritti elaborate nel corso della rivoluzione francese, e trova la distinzione fra: - diritti dell’uomo: sicurezza, libertà, proprietà. Essi tutelano i diritti dell’individuo privato, membro della società civile, e garantiscono l’uomo in quanto membro della società civile, cioè un individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità;

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- diritti del cittadino: partecipazione al potere pubblico, libertà politica. Essi istituiscono una comunità politica, ma solo come una sfera particolare della società, separata dalle altre. Lo stato politico quindi, domina senza dominare realmente, usando le parole del filosofo. Il rapporto fra società civile e stato può essere pensato:

1) alla maniera liberale (Constant): i diritti politici costituiscono una garanzia dei diritti dell’uomo, ma, nella prospettiva di Marx, significa che l’eguaglianza politica diventa illusoria. Infatti, in essa i proprietari dei mezzi di produzione, dei capitali e della terra, esercitano un vero e proprio dominio su coloro che, essendone privi, si trovano nell’impossibilità di riprodurre la propria vita e quindi sono costretti a vendere la loro forza-lavoro come merce. Essa viene acquistata dai capitalisti in quanto diventa un plusvalore (se i proletari lavorano di più di quanto è necessario). Dunque, la soluzione liberale accetta e riconosce la società ineguale.

2) nella prospettiva democratica radicale (Robespierre): ai diritti politici si attribuisce un significato più ampio: l’eguaglianza politica diventa (e questo è ciò che Constant temeva) una leva per mettere in questione l’ineguaglianza sociale, per esempio attraverso il livellamento delle proprietà, o il riconoscimento del diritto al lavoro. Ne consegue l’idea illusoria che, in tal modo, le cose si risolvano, ma in realtà, lo stato politico non può sopprime le ineguaglianze della società civile e i connessi rapporti di dominio, perché ciò significherebbe togliere sé medesimo come stato politico separato.

La soluzione di Marx è quella di eliminare entrambi i termini attraverso una democrazia integrale, che instauri la comunità umana a partire dal livello del lavoro e della effettiva riproduzione della vita, e non solo in un ambito politico, astratto e posto accanto alle ineguaglianze sociali, contro le quali non ha nessun potere. La rivoluzione, come la pensa Marx nel Manifesto del partito comunista (1848), sopprime l’antitesi fra società civile e stato politico, per rifondare la comunità umana a partire dalla libera associazione dei produttori; e ciò implica l’estinzione del potere pubblico come dimensione separata da quella in cui si attua l’effettiva riproduzione della vita degli individui. Attraverso la conquista della democrazia , il proletariato si impadronisce del potere politico e lo usa come leva per sopprimere la proprietà capitalistica dei mezzi di produzione e quindi le differenze di classe. Una volta che queste, dopo una fase di conflitti, saranno superate la produzione sarà tornata nelle mani degli individui associati e il potere pubblico perderà il suo carattere politico. Infatti, le stesse parole “potere politico” indicano il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un'altra; superata la contrapposizione fra le classi, di un potere politico separato dalla società non ci sarà più bisogno. Europa 1848: caratterizzata dalla simultaneità dei moti rivoluzionari, scoppiati per vari motivi:

- l’indipendenza chiesta da popoli governati de dinastie straniere, come accadeva per gli italiani (impero asburgico);

- la rivendicazione dei diritti costituzionali: interessava i popoli retti da governi assolutistici; - l’aspirazione all’unificazione in un solo organismo nazionale; - l’ampliamento della partecipazione politica e le riforme sociali. Questa è la problematica

che investì la Francia. La crisi agricola durò due anni, 1846-47, e investì l’intera Europa. In Francia in particolare la monarchia orleanista (nata nel 1830 dopo la rivoluzione di luglio) era molto più sensibile agli interessi della grande della borghesia finanziaria che a quelli della maggioranza della popolazione. Per sedare gli scontri usati fu usata la forza più di una volta, finché non si creò un vero e proprio fronte di opposizione alla monarchia, formato da movimenti si ispirazione socialista. Nel febbraio del 1848 il popolo parigino insorse e il re fu cacciato. Si instaurò un governo provvisorio, fu proclamata la repubblica e introdotto il suffragio universale maschile. La giornata lavorativa fu ridotta a dieci ore e per assorbire la massa di disoccupati furono istituite fabbriche gestite dallo stato. E’ in quel febbraio del 1848 che venne pubblicato il Manifesto del partito comunista, elaborato da Marx e Engels, che era destinato alla Lega dei comunisti, ma poi fu tradotto in tutte le lingue.

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Nb: Marx arriva in Francia nel 1843 perché deciso a osservare direttamente i processi interni alla società di Parigi. Si reca nella capitale dove studia economia politica e la storia della rivoluzione francese. Detto ciò, è chiaro quanto la Comune dia a Marx l’occasione di riflettere nuovamente sulla questione dello stato politico: in essa egli vede il modello abbozzato di una organizzazione politica di tipo nuovo, che si distingue dalla democrazia rappresentativa borghese perché in essa il potere viene esercitato o direttamente dal popolo oppure attraverso delegati, che possono in qualsiasi momento essere revocati dagli elettori. Dunque, diciamo che la Comune è fondamentale perché dà corpo all’idea marxiana di uno stato che deve essere strettamente subordinato alla società, che deve organizzarsi quanto più possibile nella forma dell’autogoverno. Marx in seguito precisa:

- nella prima fase della società collettivista, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, la distribuzione dei beni avverrà secondo il principio “ a ciascuno secondo il suo lavoro”;

- nella fase più matura della società comunista invece, dopo che le forze produttive e la ricchezza si saranno sviluppate oltre ogni possibilità, la società potrà finalmente lasciar spazio a un principio più libero e più elevato: tutti gli uomini riceveranno in base ai loro bisogni, e daranno in base alle loro capacità. In tal modo l’alienazione scomparirà. (Qui Marx è al suo apice utopico).

Le difficoltà maggiori risiedono nella sua visione di una società come libera associazione dei produttori, infatti, essa implica una de-deferenziazione rispetto alle complesse sfere della società moderna, e quindi appare incapace di includere la dinamica di crescente evoluzione e differenziazione che caratterizza le società umane. Appunti superiori: - Materialismo storico: il lavoro caratterizza l’uomo; esso è il fondamento del socialismo scientifico che analizza le contraddizioni del moderno sistema capitalistico al fine di abbatterlo e instaurare il comunismo. Infatti, per Marx la filosofia deve trasformare la realtà. - Hegel e Marx differiscono anche nella concezione del ruolo della filosofia: per il primo essa giustifica le realtà, mentre per Marx deve essere dottrina di cambiamento. - la condizione umana nello stato borghese è rappresentata dall’alienazione, infatti l’uomo vive una scissione tra la sfera privata e quella pubblica. Nella prima egli ricerca il proprio utile, mentre nell’altra è tenuto a rispettare le leggi dello Stato. Di conseguenza, lo stato borghese rappresenta solo in apparenza gli interessi di tutti. E’ per questo che Marx afferma che la società moderna destina gli uomini all’infelicità, fondata su ragioni economiche. - Marx considera lo stato una sovrastruttura (è conoscenza teorica e comprende: dottrine e modi di pensare+istituzioni e rapporti giuridici+teorie e forze politiche; ed è espressione della morale e della scienza, intesa come cultura, della società) rispetto alla società civile che è solo struttura (è conoscenza pratica: comprende risorse naturali+forze produttive, cioè macchinari e operai+rapporti di produzione, cioè il capitale e l’organizzazione del lavoro. Dunque, tutto ciò, è l’insieme dei rapporti economici e sociali). - la rivoluzione socialista consiste nel distruggere lo Stato borghese, secondo l’esempio della Comune di Parigi, e riappropriarsi delle decisioni pubbliche da parte del popolo. Ciò è possibile secondo Marx solo se il proletariato prende coscienza di classe per sottomettere i capitalisti. - la rivoluzione socialista sarà attuata in due tempi: 1) dittatura del proletariato, è una fase di transizione in cui si userà la forza per capovolgere i rapporti di classe; 2) la società comunista nella quale verrà esercitata la democrazia comunista ossia la partecipazione collettiva al governo. - lo stato capitalistico è condannato all’estinzione e al riassorbimento nella società civile. - 1867, scrisse Il Capitale. In esso indica che l’operaio, detto proletario, è una merce poiché la sua forza-lavoro è acquistata dal capitalista, ma anche perché percepisce un salario che corrisponde a ciò che gli è strettamente necessario alla sopravvivenza. Il profitto del capitalista è dato dal

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plusvalore ottenuto dal lavoro per cui l’operaio non viene pagato, diviso il capitale costante, cioè macchine e materie prime, e il capitale variabile, cioè i salari sui quali, a differenza delle macchine, può risparmiare. - Sempre ne Il Capitale, Marx rappresenta la formula del sistema capitalistico come D (capitale iniziale), M (forza-lavoro e mezzi di produzione), D’ (capitale di guadagno). Parte VI. Concetti della teoria politica. Premessa Osservando il mondo contemporaneo e il pensiero politico che lo anima, notiamo che emergono tre concetti politici: liberalismo, democrazia, socialismo. Essi sono concetti con un forte contenuto normativo che ancora oggi, con minore o maggiore successo, sono presenti nella discussione pubblica delle società democratiche. E’ attorno a questi tre poli che si sviluppa la vicenda politica otto-novecentesca, senza dimenticare la lotta al fascismo e al nazismo. I tre concetti politici sono fondanti della modernità, per due ragioni: 1. si sviluppano a partire dall’epoca delle rivoluzioni borghesi; 2. possono venir compresi come letture diverse, e certamente anche antagonistiche, di un’unica radice comune, e cioè il principio moderno dell’eguale libertà. La modernità politica si fonda sull’assunto che non vi sono rapporti di subordinazione naturale tra gli uomini. In questa prospettiva, eguaglianza e libertà si interpretano reciprocamente. 1. Il concetto moderno di libertà Vediamo ora una più chiara mappa delle interpretazioni che, del concetto di libertà, sono state offerte negli ultimi due secoli. Innanzitutto distinguiamo:

- libertà politica: riguarda il modo in cui l’uomo è libero nell’ordine politico e sociale; - libertà metafisica: intesa come possibilità di determinarsi autonomamente e compiere

un’azione libera. Nella discussione sul concetto di libertà, una fortuna particolare ha goduto la tesi di N. Bobbio e Isaiah Berlin, secondo i quali, nel concetto di libertà esisterebbero due momenti, distinti ma entrambi essenziali:

- libertà negativa: è stata formulata dal pensiero politico di Hobbes, infatti, egli la descrive come assenza di impedimenti esterni che ostacolino un uomo a fare ciò che vuole; è non-impedimento.

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Quale senso ha questa concezione nell’ambito della società politica? Hobbes risponde: poiché le leggi regolano una parte delle azioni dei sudditi e non la totalità, la libertà sta nell’agire a proprio piacimento in ciò che la legge ha omesso di regolare. Es: libertà di vendere e comprare, di scegliere la propria dimora, il modo di educare i figli. Dunque, tanto è più ampio il ventaglio di cose che la legge ha omesso di regolare, tanto maggiore è la libertà politica-sociale degli individui. Nel senso “negativo” del termine, libertà significa poter disporre di sé stessi col minimo di interferenze da parte dei poteri pubblici o degli altri individui. Berlin, uno dei più accaniti sostenitori, pone come domanda iniziale «in quali ambiti io sono padrone, e posso agire senza interferenze da parte di altri?»

- libertà positiva: la domanda fondamentale per i teorici che sostengono questo tipo di libertà, e che invece i sostenitori della libertà negativa non prendono troppo in considerazione, è: chi deve comandare? La più netta formulazione di libertà positiva la troviamo in Rousseau: essere liberi significa non godere degli spazi d’azione che le norme ci lasciano, ma essere autori di quelle stesse norme, dunque, non obbedire ad altri leggi se non a quelle che noi stessi ci siamo dati. Da questo trampolino di lancio, si svilupperà le teoria democratica. Se la riflessione si sposta sul piano delle risorse e delle effettive opportunità per gli individui, la prospettiva si fa più specifica, e ci si domanda: ha senso affermare che io sono libero di decidere i miei pasti o di vendere o comprare ciò che voglio se non dispongo del denaro per farlo? Possiamo dunque formulare un secondo concetto di libertà positiva, distinto dal precedente: in questo secondo senso essere positivamente liberi significa disporre dei mezzi e delle risorse che ci consentano di godere effettivamente della libertà che la legge ci attribuisce, di non lasciarle sulla carta. Tale è il concetto che ritroveremo nelle teorie socialiste. Ancora, possiamo assumere un terzo concetto di libertà positiva: essere liberi non significa solamente obbedire a leggi che noi stessi ci siamo dati, ma a leggi che siano espressione della nostra volontà razionale e non di una mera volontà arbitraria. Essere liberi, in questo senso, significa obbedire alle norme della ragione. In questa sede, non è contraddittoria affermare, con Rousseau, che qualcuno potrebbe essere «costretto» a essere libero.

Nb: la varietà dei punti di vista appena elencati può essere assunta a partire da un concetto di libertà come realtà multidimensionale. Tornando alla distinzione iniziale, che concettualmente è la più solida, cioè fra libertà negativa come non-impedimento e libertà positiva come obbedienza alle leggi che noi stessi ci siamo dati, si può affermare che: - la libertà negativa richiede che sia ampio lo spazio in cui le leggi lasciano che siano gli individui a decidere da soli, dunque, vuole massimizzare l’ambito delle decisioni private; - la libertà positiva richiede che delle leggi gli individui siano autori, cioè che una serie di questioni fondamentali siano decise dalla collettività dei cittadini. Diciamo ancora: la libertà positiva rivendica decisioni collettive. Il dibattito fra le due fazioni si svilupperà soprattutto dai seguenti punti:

1. non si può negare che l’autolegislazione democratica accresca la libertà degli individui, e, in aggiunta, ne attribuisce loro un’altra libertà, quella di concorrere alla determinazione delle leggi;

2. i sostenitori della libertà negativa sostengono che nessuno vorrebbe appartenere a una collettività democratica di legislatori, poiché essi si occuperebbero anche degli aspetti più privati della vita dell’individuo. Sarebbe difficile parlare di libertà ove le decisioni collettive potessero esercitarsi in ogni ambito e senza limiti.

Notiamo allora che il confronto e lo scontro fra le ideologie politiche negli ultimi due secolo può essere letto proprio come un confronto fra interpretazioni in conflitto della libertà. 2. Liberalismo

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Malgrado se ne faccia continuamente uso, il concetto di liberalismo è uno dei più difficili da determinare con una pretesa di univocità, infatti, al suo sviluppo hanno contribuito correnti dottrinali diverse. Le difficoltà iniziano già dal punto di vista lessicale, dalla distinzione, ora osserveremo la tesi di B. Croce, tra:

- liberismo: si situa sul terreno economico, per affermare la virtù del libero scambio e criticare i limiti che a esso si vogliono imporre;

- liberalismo: si colloca su un terreno etico e politico, e perciò, secondo Croce, è teoricamente compatibile anche con una visione non liberista, ma persino socialista, dell’economia.

Nb: è una distinzione che appartiene alla sola lingua italiana. Vediamo ora alcune linee guida che ci aiutano a comprendere il concetto di liberalismo:

1) esso può essere chiarito per differenza: ciò che accomuna le molte posizioni liberali è il conferire maggiore importanza ai diritti di cui gli individui devono godere, dando invece minor rilievo alla loro partecipazione ai processi di decisione collettiva e di autogoverno. Allora, distingueremo le posizioni liberali da quelle democratiche: per queste ultime hanno primaria importanza i diritti all’autogoverno, mentre le posizioni liberali prediligono i diritti che la comunità politica deve garantire agli individui;

2) partendo dal primato della centralità dei diritti però le posizioni liberali si diversificano, soprattutto se si considera l’ambito della giustizia economico-sociale e la valutazione della democrazia: - alcuni teorici sostengono (Hayek) che una società libera può formarsi anche in assenza di democrazia; essa è vista più come una minaccia che una tutela dei delle libertà; - altri invece, come Rawls, accolgono pienamente la democrazia lasciando da parte le riserve “liberali” contro di essa.

3) Per quanto riguarda il giudizio sugli assetti economico-sociali abbiamo due estremi: - liberalismo proprietario: coloro che, come Hayek e Nozick, ritengono che la distribuzione più giusta della ricchezza sia quella che risulta dalla competizione regolata dei soggetti sul mercato; - liberalismo socialista: coloro che pensano che, tra i diritti che debbano essere assicurati a tutti, vi sia anche quello di godere, in una misura più o meno egualitaria, dell’accesso ai più importanti beni sociali.

Diremo allora che, un approccio liberale è il porre a fondamento della convivenza sociale individui dotati di diritti, che devono essere considerati innati, inalienabili, inviolabili, nel senso che gli individui non possono rinunciarvi neanche se sono loro stessi a volerlo. Inoltre, il fine delle leggi pubbliche è quello di tutelare i ritti indisponibili degli individui, cioè di assicurare loro una sfera protetta dalle intrusioni sia da parte di altri individui, sia da parte dei poteri pubblici. Nel liberalismo la società nasce, lockianamente, per confermare e assicurare i diritti imprescrittibili dell’individuo: libertà della persona, libertà di religione e di pensiero, libertà di disporre del proprio lavoro e dei proprio averi. Queste condizioni però esigono dei limiti nei confronti dell’esercizio del potere politico sovrano, esso non è più al di sopra delle leggi, al contrario, deve essere sottoposto alla legge. Nb: notiamo come la teoria dei diritti inalienabili si sposi con quella dello stato a poteri limitati. La garanzia che il potere politico sovrano non diventi dispotico deriva dalla divisione dei poteri, la cui teorizzazione si trova già in Locke. Un altro esempio lo troviamo nella costituzione federale americana del 1787 nella quale tutti i diversi poteri sono intrinsecamente limitati, ovvero disposti in modo che possano e debbano reciprocamente frenarsi. Accanto alle due tesi fin’ora discusse, cioè il primato dei diritti individuali e quella che sancisce la limitazione e divisione del potere pubblico, ve ne sono altre, discusse e argomentate da quegli autori che si iscrivono nella linea liberale: - il rifiuto di misurare la bontà di un ordine politico a partire da una concezione sostantiva del bene comune: coloro, come Kant e Mill, argomentano contro ogni forma di paternalismo politico, difendendo l’idea che ogni individuo ha il diritto di cercare il suo bene o la sua felicità dove meglio crede, e che in ciò non deve essere impedito da un’autorità politica che pretenda di insegnargli

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quale è il suo vero bene. Nel liberalismo contemporaneo, come per esempio quello di Rawls, questo viene riformulato nei termini di una «proprietà del giusto sul bene.» - la concezione dello stato come male necessario: se l’uomo deve obbedire a un potere estraneo, allora la sua autorità e le sue competenze vanno limitate il più possibile - sul terreno del mercato, è nata l’idea che la competizione fra individui sia un modo efficace per sviluppare al meglio i loro talenti e capacità, generando benefici per loro, ma anche per l’intera società. A questa idea si accompagna spesso quella dell’eguaglianza delle opportunità. 4. Socialismo Non va dimenticato che la storia del socialismo è nata prima del marxismo, e dopo di esso è continuata. Dunque è un errore pensare al socialismo collegandosi subito a Marx. In questa sede cercheremo di individuarne il nucleo essenziale. Il punto di partenza è l’assunto per il quale tutti gli uomini sono eguali nei diritti, e va inteso nel senso più ampio, sia diritti politici che di libertà, ma anche il diritto di accedere ai beni e alle risorse. Nb: se si considerano le ideologie socialiste allo stato nascente non vi è una fondamentale differenza tra socialismo e comunismo. Dal punto di vista socialista, talenti e capacità dei singoli non costituiscono un titolo per appropriarsi di una quota maggiore o minore di beni o risorse. Diremo allora che il socialismo è caratterizzato da una visione della cooperativa sociale e da una visione solidaristica della giustizia, intesa come rapporto sociale. Tutti hanno eguali diritti e doveri nei confronti della società. Ma come è possibile tradurre questo pensiero in una struttura sociale nuova? Nei socialisti dell’epoca premarxiana troviamo a questo proposito alcune indicazioni comuni: abolizione della proprietà privata, generalizzazione del diritto al lavoro, pianificazione coordinata della vita sociale ed economica, superamento dell’anarchia del mercato. Marx ed Engel, con la pretesa di distaccarsi da questa visione, nel Manifesto del partito comunista, la denunciano come “utopica”. Tuttavia, anche Marx non può fare a meno di parlare della collettivizzazione dell’economia. Però, il distacco di Marx dall’utopismo, sta nel mostrare come si possa giungere ad una società giusta oltre il capitalismo; è per questo che si concentra sullo stadio scientifico del capitalismo. Parlando del socialismo democratico, affermiamo che ha dovuto rinunciare, a causa delle lotte politiche che hanno caratterizzato il Novecento, a tutti i suoi obbiettivi più ambiziosi di trasformazione sociale, per porsi “realisticamente” come l’ala sinistra della democrazia, impegnata a porre un argine al dominio del mercato e alle seguenti ineguaglianze. La vicenda storica del socialismo ha qualcosa di paradossale: per un verso non si è realizzata la prospettata trasformazione sociale: l’uomo non è riuscito a prendere in mano le sorti della sua storia, non è riuscito a governare l’economia, il sogno dell’ “uomo nuovo” si è infranto poiché ha vinto il carattere possessivo della sua antropologia, ma, dall’altro verso, i movimenti socialisti e comunisti hanno inciso profondamente sulle strutture sociali e nelle ideologie. Es: sviluppo del Welfare State. 5. Democrazia Sebbene la democrazia abbia il suo lontano progenitore in Rousseau, essa si è sviluppata tra la fine del XIX sec e la metà di quello seguente, un esempio è riportato dal suffragio universale. Il principio di democrazia è: l’eguaglianza politica entro una comunità, cioè l’eguale partecipazione di tutti i cittadini adulti alle decisioni politiche vincolanti per tutti. Dunque, la democrazia rovescia l’idea (già presente in Platone) che solo alcuni uomini, i più qualificati o i più saggi, abbiano diritto di prendere le decisioni politiche. Si nota che la teoria democratica sia fondata sull’idea di libertà positiva: se gli uomini devono vivere sottoposti alle leggi coercitive di uno stato, l’unica soluzione perché essi non perdano la loro libertà è che, di queste leggi, siano essi stessi gli autori. Di conseguenza, alla teoria democratica

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associamo il principio di maggioranza, poiché esso minimizza il numero di coloro che devono obbedire a leggi cui non hanno dato loro il consenso. Kelsen: «se dobbiamo essere comandati, lo vogliamo essere da noi stessi.» Esistono diversi modi in cui la scelta della democrazia viene giustificata e, a seconda della scelta, le teorie si differenziano. Esistono tre opzioni teoriche:

1) democrazia come metodo (Bobbio e Kelsen). Per Bobbio si ha democrazia quando vengono soddisfatte le seguenti condizioni: - alle decisioni collettive partecipano, in modo diretto o indiretto, un numero molto alto di cittadini; - sono vigenti regole per decidere, a cominciare dalla regola di maggioranza; - i cittadini hanno la possibilità di scegliere tra alternative reali e dispongono di quelle libertà (di espressioni, di riunione, di associazione) che sono necessarie affinché queste alternative possano essere scelte con una certa dose di consapevolezza, e cioè dopo che sono state proposte, illustrate e confrontate nel dibattito pubblico. Nel pensiero del Novecento, il maggior teorico della democrazia come metodo per decidere è stato Hans Kelsen (1881-1973). Kelsen parte dal presupposto che la democrazia implica la fine della credenza in una verità assoluta o in un bene assoluto (come quello cui orientava Platone). Dunque, per Kelsen, la democrazia presuppone il relativismo. Infine, per Kelsen, il vero nucleo della democrazia è l’idea di libertà trasformatasi in sovranità popolare, cioè l’autogoverno, e non l’idea di eguaglianza, a meno che non la si intenda come la semplice eguaglianza de diritti politici. Nb: Kelsen distingue attentamente fra ideologie e realtà, sa che la democrazia attuabile negli stati moderni è solo una realizzazione molto limitata rispetto all’idea di autogoverno, Infine, ricordiamo il modello di democrazia di Kelsen, e le sue caratteristiche: primato del parlamento rispetto all’esecutivo, sistema proporzionale e non maggioritario, necessità di intendere le decisioni come un compromesso tra maggioranza e minoranza, e non come semplice volontà della maggioranza.

2) la teoria realistica della democrazia (Schumpeter, Dahl e Downs) Le teorie propriamente realistiche, a partire da quella di Schumpeter, pensano la democrazia sul modello del mercato. Egli rompe con la visione tradizionale della democrazia: non è la volontà dei cittadini a dar luogo alla decisione politica, come accadeva in Kelsen, al contrario, sono le élites politiche, mentre il consenso dei cittadini è la posta in gioco della lotta concorrenziale che le élites ingaggiano. Perciò, la democrazia è qui definita: strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare. E’ una concorrenza sul piano del mercato politico, e vi è democrazia finché vi è un minimo di concorrenza e finché i cittadini possono votare per far cadere il governo che tradisce le loro aspettative. In tal caso, è preferibile un sistema elettorale maggioritario piuttosto che proporzionale. Nb: analogia fra democrazia e mercato= Anthony Downs in Teoria economica della democrazia.

3) la democrazia di sviluppo (Macpherson, J. Dewey) Due sembrano essere gli aspetti che più caratterizzano le visioni della democrazia come un processo dinamico: - vi è l’idea che la democrazia politica è parte di un più vasto processo di democratizzazione della società, e che solo in questo contesto assume veramente il suo significato. Per esempio, John Dewey, sostiene che bisogna sempre tener presente due aspetti: la democrazia come idea sociale, che dunque rientra anche nella famiglia, nella scuola, nell’industria, e la democrazia politica come sistema di governo. Ne consegue che la democrazia non è solamente un metodo politico ma un ideale di società. Nb: pensiero condiviso da Macpherson. - il ruolo del pubblico, e più precisamente del dibattito e della discussione politica, è fondamentale poiché i cittadini non sono intesi semplicemente come elettori, ma essi concorrono allo sviluppo di un’opinione pubblica. Dewey sostiene che uno dei più gravi

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pericoli è l’eclisse del pubblico, ovvero il fatto che i cittadini si riducano a consumatori passivi; per questo, il conteggio dei voti deve essere preceduta da discussioni e colloqui.

Parte VII. Teorie politiche a confronto 1. La teoria della giustizia di J. Rawls BiografiaSecondo di cinque figli, Rawls frequentò la scuola primaria a Baltimora solo per un breve periodo di tempo, prima del suo trasferimento presso la sede vescovile di una rinomata scuola preparatoria nel Connecticut. Dopo il diploma, Rawls continuò i suoi studi alla Princeton University, dove si interessò di filosofia politica. Dopo essersi laureato, si è unito all'esercito. Durante questo periodo (la seconda guerra mondiale), Rawls ha servito l'esercito come fante principalmente nel Pacifico dove ha visitato la Nuova Guinea, le Filippine ed il Giappone; in particolare ha assistito al bombardamento di Hiroshima. Dopo questa tragica esperienza, Rawls rifiutò l'offerta di diventare un funzionario di stato e decise di lasciare l'esercito per riprendere gli studi accademici. Tornò dunque a Princeton per conseguire un dottorato in filosofia morale. Dopo aver ottenuto il suo dottorato di ricerca nel 1950, Rawls insegnò fino al 1952 quando ricevette una borsa di studio per l'Università di Oxford, dove fu influenzato dalla dottrina liberale di Isaiah Berlin. Successivamente, tornò negli Stati Uniti, lavorando prima come assistente e poi professore associato presso la Cornell University. Infine nel 1962, divenne professore ordinario di filosofia presso la stessa Cornell University. Si trasferì all'Università Harvard due anni dopo, dove rimase per quasi quarant'anni. Rawls morì a Lexington il 24 novembre 2002. A Rawls si deve infatti la rinascita della teoria del contrattualismo, cioè, la tecnica utilizzata da autori come Thomas Hobbes, John Locke e Jean-Jacques Rousseauu, inoltre, per contrasto, Rawls ha stimolato la costruzione di teorie alternative, come per esempio il liberismo di R. Nozick o le teorie comunitarie. PARTE PRIMA: TEORIA Capitolo I. Giustizia come equità 1. Il ruolo della giustizia Rawls, dall’inizio, sottolinea che la giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali, e che non importa quanto le leggi e le istituzioni siano efficienti e ben congegnate, quanto che, se ingiuste, devono essere riformate o abolite. Egli scrive che ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia e, su di essa, neppure il benessere della società può prevalere. Secondo Rawls in una società giusta:

- sono date per scontate eguali libertà e cittadinanze;

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- i diritti garantiti dalla giustizia non sono oggetto né di contrattazione politica né di interessi sociali;

- l’unico motivo che ci permette di mantenere una teoria “erronea” è tollerabile solo quando permette di evitarne una peggiore;

- la verità e la giustizia sono le virtù principali delle attività umane. L’obbiettivo dell’autore è comprendere il grado di validità di tali affermazioni, ed è per questo necessaria la costruzione di una teoria della giustizia. Analisi del ruolo dei principi di giustizia una società è bene-ordinata quando promuove il benessere dei propri membri e quando è regolata da una concezione pubblica della giustizia. Stiamo allora parlando di una società in cui:

- ognuno accetta e sa che gli altri accettano i medesimi principi di giustizia; - le istituzioni fondamentali della società soddisfano generalmente, e in modo generalmente

conosciuto, tali principi. Nb: Rawls paragona la società a un’associazione/sistema di cooperazione più o meno autosufficiente di persone che riconoscono norme vincolanti di comportamento e che, per la maggior parte, agiscono in accordo con esse. Nella società di cui parla l’autore esiste un’identità di interessi, data dalla collaborazione/ cooperazione sociale, che garantisce una vita migliore rispetto a quella che si vivrebbe se ognuno vivesse unicamente in base ai propri sforzi. Di conseguenza, esiste anche un conflitto di interessi, poiché il singolo punta ad avere un benessere maggiore piuttosto che minore. A questo Rawls risponde: sebbene nella società possano essere avanzare pretese, è il comune punto di vista che le giudica, quindi l’interesse del singolo non risalta. Se poi gli uomini tendono a fare i loro interessi, come conseguenza avremo una vigilanza reciproca, e dunque un senso pubblico di giustizia. Una condivisa concezione di giustizia stabilisce legami di convivenza civile e limita la ricerca di altri obbiettivi. Pubblica concezione di giustizia = statuto fondamentale di un’associazione umana bene-ordinata. Naturalmente, scrive l’autore, le società esistenti sono raramente bene-ordinate in questo senso, perché il giusto e l’ingiusto è generalmente in discussione. Infatti, uno dei problemi principali nel concetto di giustizia è che gli esseri umani sono in disaccordo rispetto a quali principi devono definire i termini fondamentali della loro associazione, ovvero, sono in disaccordo sui principi che costituirebbero il principio di giustizia. Con queste teorie, Rawls sta presentando lo schema della cooperazione sociale. Esistono altri problemi sociali fondamentali che influenzano e si connettono a quello di giustizia:

coordinazione efficienza giustizia stabilità

Tale schema deve mantenersi stabile; le sue norme fondamentali devono essere seguite volontariamente e, nel caso avvengano infrazioni, devono esistere forze stabilizzatrici che prevengano ulteriori violazioni Malgrado la giustizia abbia la priorità (infatti l’abbiamo definita la più importante delle istituzioni civili), a parità di condizioni, una concezione di giustizia è preferibile ad un’altra quando le sue conseguenze più ampie sono maggiormente desiderabili. 2. L’oggetto della giustizia L’oggetto principale della giustizia è la struttura di base della società e il modo in cui le maggiori istituzioni sociali distribuiscono diritti e doveri, determinando la suddivisione dei benefici della cooperazione sociale e influenzando le aspettative di vita degli esseri umani. Istituzioni maggiori=si occupano della costituzione politica e dei principali assetti economici e sociali. Esempi: tutela giuridica della libertà di pensiero e coscienza, il mercato concorrenziale, la proprietà privata dei mezzi di produzione e la famiglia monogamica.

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Secondo Ralws la struttura di base della società include differenti posizioni sociali, quindi, a seconda della nascita, le persone hanno differenti aspettative di vita (determinate sia dal sistema politico che dalle circostanze economiche e sociali). Ne consegue che le istituzioni della società privilegiano certe situazioni piuttosto che altre. Ralws intende applicare i principi della giustizia sociale proprio a queste ineguaglianze, anche se lui stesso scrive che probabilmente esse appartengono inevitabilmente alla struttura di base di ogni società. La giustizia di cui Rawls parla dipende essenzialmente dal modo in cui sono stati ripartiti i diritti e i doveri fondamentali, dalle opportunità economiche e dalle condizioni sociali nei vari settori della società. Nb: Rawls concorda con Aristotele quando egli parla della giustizia come astensione dalla pleonexia, cioè dall’ottenere per sé alcuni vantaggi, appropriandosi di ciò che appartiene ad un altro, o dal negare a una persona ciò che le è dovuto. E’ evidente che in tale visione le persone sono considerate giuste nella misura in cui possiedono, come elemento permanente del loro carattere, un vigoroso ed effettivo desiderio di agire con giustizia. 3. L’idea principale della teoria della giustizia Già nelle prime pubblicazioni, a metà degli anni cinquanta, Rawls inizia ad elaborare la nozione che più lo ha reso noto, vale a dire il concetto di posizione originaria; tuttavia tale nozione arriva alla propria formulazione più matura soltanto in Una teoria della giustizia del 1971. La procedura più adeguata per individuare dei principi fondamentali di giustizia che siano equi, afferma Rawls, consiste nel compiere un esperimento mentale di questo tipo: immaginiamo che un gruppo di individui, privati di qualsiasi conoscenza circa il proprio ruolo nella società, i propri talenti, le proprie caratteristiche psicologiche e i propri valori, dovesse scegliere secondo quali principi di fondo deve essere gestita la società in cui vivono. Tali individui sarebbero in una posizione originaria. Si nota come Rawls abbia ripreso l’idea di fondo della teoria del contratto sociale (Locke, Rousseau, Kant), infatti, nelle condizioni della posizione originaria, gli uomini, anche se fossero totalmente disinteressati alla sorte degli altri, sarebbero costretti dalla situazione a scegliere principi equi. Vediamo il perché: con il contratto sociale si ipotizza una situazione pre-sociale dove ogni individuo, chiamato a stabilire i principi di giustizia che dovranno governare la sua società, si trovi in una posizione originaria, nell'incapacità cioè di conoscere e prevedere quale sarà il suo posto nella società (se sarà ricco o povero, se sarà intelligente o handicappato, eccetera). Rawls ritiene che trovandoci in questa situazione, e cioè non conoscendo in anticipo quali siano le nostre caratteristiche in termini di capacità, ricchezza, razza, genere, salute, ecc., sceglieremmo una società dove le ineguaglianze dovrebbero essere usate per migliorare la condizione dei più svantaggiati. Nb: la "posizione originaria" non corrisponde allo "stato di natura" del contrattualismo moderno, immaginato come un ipotetico periodo storico precedente il patto sociale. Rawls si differenzia da questo espediente in quanto non storicizza la situazione degli individui al di fuori della società, ma opera un processo di astrazione nei confronti della società attuale, spogliando ogni individuo della propria identità economico-sociale. Diciamo ancora: la posizione originaria è l’interpretazione di questa situazione di scelta iniziale, in cui gli uomini, al fine di chiarire quali siano i principi cardini da adottare, connettono la teoria della giustizia alla scelta razionale. Nb: «la posizione originaria è il corretto status quo iniziale, e perciò gli accordi stipulati in essa sono equi.» (ecco perché egli parla di “giustizia come equità”). Elenchiamo ora le condizioni per cui un contratto viene definito giusto:

- le parti dei contraenti sono tese a promuovere il loro bene, ma in una situazione di «scarsità moderata», cioè né altruiste né invidiose;

- il velo di ignoranza. Da ciò derivano i seguenti principi di giustizia:

a) che ogni persona ha un uguale diritto alla più estesa libertà fondamentale, compatibilmente con una simile libertà per gli altri;

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b) che le ineguaglianze economiche e sociali sono ammissibili soltanto se sono per il beneficio dei meno avvantaggiati. L'ultimo principio afferma dunque che grandi ineguaglianze in termini relativi tra i membri della società sono giustificate se comportano un beneficio, in termini assoluti, anche per i meno avvantaggiati. Nb: l’ineguaglianza rawlsiana, un’ineguaglianza che produce vantaggi per tutti, unita a eguali opportunità (dove ognuno può accedere con il suo impegno alle posizioni più retribuite) appare preferibile, nella situazione originaria di scelta, all’eguaglianza perfetta. Di conseguenza, più che ineguaglianza, nel caso di Rawls dovremmo parlare del principio di differenza (che è un principio di distribuzione, in questo caso meritocratico). Secondo Rawls, in una società che si fonda sull' uguaglianza delle opportunità le disuguaglianze di reddito sono giuste perché legate alla bravura di ogni singolo individuo. Egli non critica queste disuguaglianze ma le disuguaglianze immeritate. Nascere ricchi o poveri non è un merito, nascere intelligenti o handicappati non è un merito, si tratta solo di essere più fortunati o meno. Rawls critica la teoria delle pari opportunità perché non tiene conto delle disuguaglianze legate ai talenti naturali di ogni uomo, disuguaglianze immeritate perché arbitrarie. Fatti contingenti e particolari devono essere neutralizzati per pervenire al mutuo accordo su quanto è collettivamente giusto, e il mutuo accordo deve dipendere dalla mera razionalità delle parti coinvolte nella procedura di convergenza. Perciò, la giustizia sociale richiede la virtù dell’impersonalità (secondo Rawls gli utilitaristi scambiano l’impersonalità con l’imparzialità). Diciamo ancora: Rawls ritiene che una giustizia distributiva equa deve tener conto delle disuguaglianze immeritate e creare un sistema dove i meno avvantaggiati possano ottenere il massimo possibile. Per creare una giustizia distributiva equa, Rawls utilizza, reinterpretandolo, lo strumento del contratto sociale, già utilizzato dal giusnaturalismo seicentesco.

La teoria del contratto di Rawls non è una teoria della contrattazione, infatti le parti non dispongono di informazioni in termini di probabilità soggettiva, sanno di poter essere chiunque nella società, ma non sanno quale probabilità hanno di essere in una qualsiasi delle posizioni rilevanti nella società. Rawls introduce un’analogia con la regola di scelta del maximin: le parti scelgono il massimo dei minimi, dunque, quanto tutti hanno mediamente di più. Così una società giusta è una società che mira a migliorare prioritariamente le posizioni relative dei gruppi svantaggiati nella distribuzione di beni sociali primari. Ne consegue che il contrattualismo come teoria della giustizia si presenta come una proposta di teoria politica normativa centrata sull’egualitarismo democratico. Citazione dal testo: «abbiamo bisogno di una concezione che ci metta in grado di scorgere il nostro obbiettivo da lontano: la nozione intuitiva della posizione originaria serve a questo scopo.» 4. Posizione originaria e giustificazione e 5. L’utilitarismo classico Se è il bene ciò che conta, tutto ciò che massimizza il bene non può che essere giusto e ciò comporta spesso conseguenze moralmente pericolose e controintuitive. L'insistenza sulla priorità della giustizia è al centro della nota critica di Rawls all'utilitarismo, che volendo a tutti i costi massimizzare la felicità comune, semplice somma delle felicità individuali, può giungere a considerare legittima, in certi casi, la violazione di alcune libertà fondamentali. dottrina filosofica dell'utilitarismo= idea secondo la quale una società giusta debba perseguire il maggior benessere possibile per il maggior numero di persone. Lo scopo dell’autore è costruire una teoria della giustizia che costituisca un’alternativa al pensiero utilitarista in generale (anche perché, afferma Rawls, le diverse versioni dell’utilitarismo conducono alle medesime conclusioni). Egli paragona la giustizia come equità a note alternative come l’intuizionismo, il perfezionismo e l’utilitarismo, in modo da mettere in luce le sostanziali differenze. Il genere di utilitarismo che descrivere è quello della teoria classica pura (Sidgwich). L’idea principale è che una società è correttamente ordinata, e quindi giusta, quando le sue istituzioni maggiori sono in grado di raggiungere il saldo più alto di utilità possibile (ottenuto sommando quella di tutti gli individui appartenenti a essa).

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Una visione che potremmo definire specificatamente individuale, viene massimizzata dall’utilitarismo di modo che possa diventare collettiva. Come l’individuo fa il bilancio delle proprie perdite e dei propri guadagni presenti e futuri, così si comporta anche la società, facendo il bilancio di soddisfazioni e mancanza di soddisfazioni tra i diversi individui. Rawls si domanda: perché una società dovrebbe agire sulla base di un principio individuale, ma applicato al gruppo, e considerare quindi ciò che è razionale per un uomo come giusto per un’associazione di uomini? Queste riflessioni conducono al principio di utilità: una società è organizzata in modo appropriato quando le sue intuizioni massimizzano il saldo netto di utilità. Dunque, il principio di scelta per un’associazione di uomini è interpretato come un’estensione del principio di scelta di un singolo uomo. Rawls definisce queste idee “attraenti” poiché la loro logica pare inattaccabile, giusta, e questo anche perché i due principali concetti dell’etica sono quelli di giusto e di bene. Le possibili relazioni fra giusto e bene determinano la struttura di una teoria etica. Si parla di teorie teleologiche poiché il bene è definito indipendentemente dal giusto, e il giusto è successivamente definito come ciò che massimizza il bene. Più precisamente, sono giusti quegli atti e istituzioni che in un insieme di alternative disponibili ottengono il maggior bene. Rawls scrive che è normale pensare che la razionalità sia la massimizzazione di qualcosa, e che, in morale, essa debba essere la massimizzazione del bene. Si viene indotti a supporre con ovvietà che tutto porti il maggior bene possibile. Tali riflessioni fanno sì che il problema delle distribuzioni (di diritti e doveri) cada direttamente sotto il concetto di giusto. Esistono quindi teorie teleologiche che considerano separatamente bene e giusto, e altre che, attraverso un processo di massimizzazione, li fondono. Esse quindi si differenziano per il modo in cui specificano la condizione del bene:

- se esso viene considerato come la realizzazione dell’eccellenza umana nelle varie forme della cultura, abbiamo il perfezionismo;

- se il bene è definito come piacere, otteniamo l’edonismo; - se il bene è definito come felicità, abbiamo l’eudaimonismo.

Rawls sottolinea che, in questa sede, intende il principio di utilità nella sua formulazione classica, cioè come formulazione del bene in quanto soddisfazione di un desiderio razionale. Inoltre, l’autore parla di una caratteristica sorprendente delle tesi utilitaristiche della giustizia: il modo in cui la somma di soddisfazioni è distribuita tra gli individui non conta più, o meglio, la distribuzione corretta è quella che consente il massimo appagamento. Questo concetto del “massimo appagamento” deriva, anche nella massima di giustizia, dal saldo più alto possibile di soddisfazione. Adottando tale teoria, Ralws sottolinea: «perciò non c’è alcuna ragione di principio per la quale i maggiori vantaggi di alcuni non dovrebbero compensare le minori perdite di altri; o, intermini più rilevanti, perché la violazione della libertà di pochi non dovrebbe essere giustificata da un maggior bene condiviso da molti.» La società agisce come un imprenditore che decide di massimizzare il suo profitto producendo questa o quella merce. Questa visone di cooperazione sociale è la conseguenza dell’estensione alla società del principio di scelta per un solo uomo, e della messa in opera di tale estensione, che comprime tutti gli individui in uno solo mediante gli atti immaginativi di quello che l’autore chiama “osservatore imparziale simpatetico”. Rawls conclude affermando che l’utilitarismo non prende sul serio la distinzione fra persone. 6. Contrasti fra utilitarismo e contrattualismo. Vediamo i punti principali toccati dall’autore:

1. mentre la dottrina contrattualista accetta le nostre convinzioni sulla priorità della giustizia come globalmente valide, l’utilitarismo cerca di rappresentarle come un’illusione socialmente utile;

2. mentre l’utilitarista estende il principio di scelta per un solo uomo all’intera società, la giustizia come equità, come tesi contrattualista, assume che i principi di scelta sociale, allo stesso modi dei principi di giustizia, siano essi stessi oggetto di un accordo originario.

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Rawls apre una parentesi, facendo notare che l’utilitarismo non è affatto una dottrina individualistica, perché riunisce in uno solo tutti i sistemi di desiderio, cioè applica all’intera società il principio di scelta per un solo uomo;

3. l’utilitarismo è una teoria teleologica, mentre la giustizia come equità è deontologica in quanto non interpreta il giusto come massimizzazione del bene. Il problema di raggiungere il massimo saldo netto possibile di utilità non si pone mai per la giustizia come equità. Nell’utilitarismo il benessere sociale dipende direttamente ed esclusivamente dal livello di soddisfazione o mancanza di soddisfazione degli individui, invece, secondo la giustizia come equità, le persone convengono implicitamente di uniformare le proprie concezioni di bene, o almeno non avanzano pretese che direttamente le violino; questo perché si accetta in anticipo un principio di libertà eguale, e senza conoscere i loro scopi particolari. Nella giustizia come equità, i desideri e le aspirazioni delle persone vengono ristretti fin dall’inizio dai principi di giustizia che specificano i confini che il sistema dei fini umani deve rispettare. Ciò può essere tradotto dicendo che, nella giustizia come equità, il concetto di giusto è prioritario rispetto a quello di bene

4. nei contrasti fra le due posizioni è implicita la differenza della concezione di società: per i contrattualisti essa è uno schema di cooperazione per il reciproco vantaggio, regolato da principi che gli individui sceglierebbero in una situazione iniziale equa, mentre per l’utilitarismo classico la società è un’efficiente amministrazione delle risorse della società, con lo scopo di massimizzare la soddisfazione del sistema di desiderio costruito dall’osservatore imparziale a partire da più sistemi individuali di desideri assunti come dati.

7. L’intuizionismo. Rawls considera l’intuizionismo in modo generale, cioè: come la dottrina che afferma l’esistenza di una famiglia irriducibile di principi primi che vanno valutati l’uno rispetto all’altro chiedendosi, secondo giudizio ponderato, quale equilibrio si a più giusto. Le teorie intuizioniste hanno due caratteristiche:

- sono costituite da un insieme di principi primi che possono entrare in conflitto, fornendo indicazioni contrastanti;

- non includono né un metodo esplicito né regole di priorità per valutare questi principi l’uno rispetto all’altro: si può semplicemente tracciare un equilibrio intuitivo, per mezzo di ciò che approssimativamente sembra più giusto. Ralws aggiunge: anche nel caso che le regole di priorità esistano, sono inutilizzabili per produrre un giudizio.

L’autore fa notare che, in questo senso così ampio, potremmo parlare di intuizionismo chiamandolo semplicemente pluralismo; dobbiamo però ricordare che una concezione della giustizia può essere pluralista senza richiedere che i suoi principi vengano valutati per mezzo dell’intuizione, Esistono vari tipi di intuizionismo e, per distinguere le teorie, basta considerare i livello di generalità dei principi che assumono. Le teorie intuizioniste possono essere sia teleologiche che deontologiche, ma questa non è la loro caratteristica distintiva, bensì il ruolo particolarmente importante che esse affidano alle nostre capacità intuitive non guidate da alcun criterio etico costruttivo e identificabile, L’intuizionismo nega l’esistenza di qualunque soluzione utile ed esplicita il problema della priorità. Nb: l’intuizionismo classico tenta di evitare del tutto un appello all’intuizione. 8. Il problema della priorità. Quali principi hanno la priorità sugli altri? Il problema della priorità può essere trattato in due modi:

1. per mezzo di un singolo principio globale: utilitarismo (?). 2. con l’impegno di una pluralità di principi ordinati lessicamente: il nostro scopo, nel trattare il problema della priorità, non è quello di eliminare totalmente il richiamo ai giudizi intuitivi, ma di ridurlo. Il nostro scopo pratico è quello di raggiungere un accordo sui

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giudizi di cui ci si possa ragionevolmente fidare, in modo da ottenere una comune concezione di giustizia. In pratica non conta che i giudizi intuitivi di priorità degli uomini siano simili, se non si è in grado di formulare i principi che rappresentano queste convinzioni, o se addirittura tali principi non esistono. Il nostro obbiettivo deve perciò essere la formulazione di una concezione della giustizia che, per quanto dipendente dall’intuizione etica, tende a far convergere i nostri giudizi ponderati di giustizia. Ordine seriale o lessicale= è un ranking (ordinamento) che evita qualunque valutazione reciproca dei principi poiché quelli che precedono possiedono la priorità rispetto ai seguenti. Quindi, per passare a soddisfare il secondo principio è necessario occuparsi del primo. Nb: Rawls scrive che: anche se in generale un ordinamento lessicale non può essere rigorosamente corretto, esso rappresenta un’approssimazione utile, infatti, indica la struttura in generale delle concezioni di giustizia, e suggerisce le direttrici lungo cui ricercare un approccio più adeguato.

9. Alcune osservazioni sulla teoria morale Equilibrio riflessivo: Rawls ne parla quando affronta la ricerca della descrizione più adatta della posizione originale. La si descrive in modo che essa rappresenti condizioni largamente condivise, si controlla che tali condizioni siano sufficientemente forti per generale un insieme significativo di principi, ma se ciò non accade, o ci sono delle discrepanze, si può operare in due modi: - si modifica la descrizione della situazione iniziale - si rivedono i giudizi presenti, perché anche quelli che consideriamo “punti fermi” sono spesso oggetto di revisione. Andando avanti e indietro fra questi due punti, infine si può trovare una descrizione della situazione iniziale in grado sia di esprimere condizioni ragionevoli che di generare principi in accordo con i nostri giudizi ponderati. Questo stato di cose è l’equilibrio riflessivo: è un equilibrio perché, alla fine, i nostri principi coincidono con i giudizi, ed è riflessivo poiché conosciamo le premesse che ci hanno condotto a quei principi e giudizi. Ovviamente, tale equilibrio non è affatto stabile, può essere rovesciato da un successivo esame delle condizioni, tuttavia è utile per inquadrare la situazione. Ultime righe del capitolo «dovremmo considerare una teoria della giustizia come una struttura orientativa il cui scopo è di mettere in risalto la nostra sensibilità morale, così come quello di proporre alle nostre capacità intuitive una materia di giudizio circoscritta e comprensibile.» 2. Il liberalismo di Robert Nozick Col suo testo del 1974 Anarchia, stato, utopia, Nozick ha proposto una visione della giustizia radicalmente alternativa a quella di Rawls, che rientra nel filone del liberalismo liberista e antiegualitario, e che affonda le radici ne pensiero dell’economista Hayek. Il punto di partenza di Nozick sono gli individui con i loro diritti, concepiti lockianamente come diritti cha appartengono a essi prima e a prescindere dall’istituzione dello stato. Se ci immaginiamo, dice l’autore, che questi individui si trovino a vivere nello stato di natura, vediamo che il contratto non è l’unica via per uscirne. La nascita di uno stato legittimo si può spiegare seconda una logica non di contratto, bensì di mercato: per garantirsi la sicurezza gli individui cominceranno a costruire associazioni di mutua protezione, e poi, con la divisione del lavoro, ad acquistare protezione da compagnie costituite da altri individui-imprenditori per vendere questo servizio. Con il tempo però, rimarrà una sola compagnia di protezione dominante. Bisogna ricordare che l’adesione alla compagnia di protezione è volontaria, e alcuni potrebbero decidere di restarne fuori, continuando a farsi giustizia da soli. Per garantire ai proprio clienti la sicurezza, la compagnia di protezione dominante dovrà convincere quelli che si fanno giustizia da soli a smettere, in cambio essa estenderà la sua protezione, inglobandoli. Attraverso un meccanismo che ricorda quello smithiano della mano invisibile, si raggiunge la genesi dello stato minimo legittimo, e Nozick dimostra di esserci riuscito senza l’uso di un contratto.

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Il passo ulteriore è quello che concerne la teoria della proprietà: se io sono libero e padrone di me stesso, lo sono anche dei miei talenti e di ciò che grazie ad essi produco o guadagno (Locke), quindi, se uno stato mi impone di pagare tasse per pagare servizi sanitari o educativi, o sussidi per disoccupati, esso dà luogo a una violazione dei miei diritti di autoappartenenza. La critica di Nozick alle politiche egualitarie o redistributive, funziona soltanto a condizione che:

- si possa pensare una genesi legittima dello stato senza passare per il contratto; - le proprietà e le ricchezze attualmente possedute siano il risultato d acquisizioni iniziali

legittime, altrimenti, secondo lo stesso Nozick, si dovrebbe dar corso alla redistribuzione di proprietà.

Nb: entrambe queste assunzioni sono difficili da sostenere. 3. La critica comunitaria del liberalismo Vediamo ora il com’unitarismo, una linea di riflessione che si è sviluppata in diretta polemica nei confronti di Rawls e del liberalismo in generale. L’obbiettivo polemico di questi pensatori (Sandel, Taylor) è la tesi liberale della priorità del giusto sul bene, che si regge sulle seguenti assunzioni:

1) vi sono molte concezioni del bene o visioni della vita buona in disaccordo tra loro; 2) non ci sono ragioni per scegliere una concezione piuttosto che un’altra; 3) compito ella società è solo garantire che ciascuna ricerca individuale della vita buona possa

svilupparsi al meglio e senza danno per gli altri. La resi rawlsiana viene rovesciata: la scelta di norma giuste non può pretendere di restare neutrale fra visioni controverse del bene, anzi non può evitare di schierarsi. Ma c’è di più: nella prospettiva di Sandel gli individui non sono neppure in condizione di scegliere in senso proprio, quasi fossero soggetti astratti e disincarnati da legami e impegni normativi, tra visioni alternative di quella che è la vita buona per loro. Alla seguente visione astratta e neutrale del giusto, il comunitarismo contrappone quella del bene sostanziale come consapevolezza (riferimenti a Hegel) del carattere costitutivo del nesso sociale, indispensabile per le personalità individuali Per gli autori che si muovono lungo questa linea di pensiero l’ideale liberale di neutralità non è attingibile, e neppure desiderabile, perché gli individui possono non essere in gradi di giudicare razionalmente quale sia il loro bene, quindi, non vi è nulla di male se la società e la politica esercitano una funzione di guida. Nb: le difficoltà interne alle seguenti posizioni non sono poche. 4. Amartya Sen e la teoria delle capacità Amartya Sen: economista indiano, premio nobel per l’economia nel ’98. Premessa: la teoria dei beni principali in Rawls. I beni primari costituiscono strumenti necessari per il perseguimento di tutti gli scopi umani, e sono: la libertà di base, di movimento, del tipo di occupazione, del reddito, della ricchezza, e infine quelle che Ralws chiama le basi sociali del rispetto del sé. I beni primari non sono le cose che qualcuno potrebbe desiderare di più in base alla sua visione del bene, ma nascono da una determinata concezione politica della giustizia, e quindi, dato il fatto del pluralismo, i beni primari sono criteri accettati da tutti per giustificare le richieste in conflitto fra loro dei cittadini. Restano però delle difficoltà: - sembra difficile non pensare che la formulazione della lista dei beni primari non derivi da una qualche visione di cosa sia il bene per gli uomini; - vi sono due modi in cui qualcuno può essere svantaggiato da una distribuzione anche eguale dei beni primari:

1. in quanto la sua personale ricerca della vita buona può o meno usufruire dell’indice di beni messo a sua disposizione;

2. in quanto, a parità di dotazione dei beni primari, ottiene acquisizioni inferiori. Es: se è portatore di handicap o altre forme di disagio. Dunque, sottolinea Sen, vi sono molte condizioni personali e sociali che influenzano la conversione dei redditi e risorse in qualità della vita.

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Per Sen è allora più opportuno porre in primo piano, non i beni primari, ma direttamente la vita reale che la gente riesce a vivere, o, andando oltre, la libertà di realizzare vite reali cui si possa a ragion veduta dare valore. Chiamiamo questo aspetto libertà sostanziale. Per la sua riflessione, Sen introduce due concetti:

a) Funzionamento: (radici aristoteliche) riguarda ciò che una persona può desiderare poiché gli dà valore, di fare o di essere. Questi funzionamenti cui viene riconosciuto un valore vanno dai più elementari, come l’essere nutrito e il non soffrire di malattie evitabili, ad attività o condizioni personali molto complesse, come l’avere rispetto di sé o partecipare alla vita in comunità;

b) Capacitazione: è propria di una persona, ed è l’insieme delle combinazioni alternative di funzionamenti che essa è in grado di realizzare. E’ una specie di libertà: la libertà sostanziale di realizzare più combinazioni alternative, o, detto in modo meno formale, di mettere in atto più stili di vita alternativi.

Dalle precedenti considerazioni, si comprende come, per Sen, la società desiderabile non sia quella che massimizza la dotazioni di beni primari, ma quella che massimizza la loro libertà sostanziale (come capacitazione). 5. Habermas e la teoria della democrazia Premessa: nell’ambito della filosofia pratica bisogna distinguere fra due tipi di norme d’azione:

- le norme morali: - le norme giuridiche.

Detto questo, introduciamo Hebermas. In Fatti e norme, egli elabora un principio del discorso dal quale discendono sia un principio morale di universalizzazione, per il quale le norme valide sono quelle che tutti i coinvolti potrebbero discorsivamente accettare, che un principio concernente le norme giuridiche legittime, chiamato da Hebermas “principio democratico”. Il principio della democrazia è il punto di incontro tra lo strumento del diritto e il principio dell’accordo discorsivo di tutti gli interessati, sul quale solo può fondarsi la validità di norme pratiche. Dunque, per essere legittime, le norme giuridiche che governano la nostra convivenza sociale devono essere il risultato di processi discorsivi precisamente e rigorosamente istituzionalizzati, e quindi capaci di generare un diritto legittimo in quanto discorsivamente fondato. Hebermars ritiene che la democrazia dovrebbe essere pensata a partire non da una contrapposizione, ma da un rapporto di complementarietà tra l’autonomia liberale dell’individuo privato e l’autonomia pubblica dei cittadini. In parole povere: diritti individuali e sovranità popolare, strettamente intesi, non stanno in conflitto ma si integrano reciprocamente. I diritti degli individui sono condizioni del processo democratico, ma anche il risultato, poiché i diritti sono anche quelli che i cittadini si autoattribuiscono. Ne consegue che i diritti fondamentali non preesistono alla comunità politica, e che la comunità politica non può prescindere di diritti. Vediamo i tipi (categorie) di diritti che Hebermas indica:

1) i diritti che tutelano le pari libertà individuali, cioè i classici diritti liberali; 2) i diritti che definiscono lo status di un membro associato, cioè a quale titolo si appartiene a

una certa comunità (demos); 3) i diritti ad agire in giudizio per la tutela dei propri diritti; 4) i diritti a partecipare ai processi discorsivi di creazione del diritto, cioè i diritti a esercitare

l’autonomia politica (ovvero i diritti democratici); 5) i diritti di ripartizione sociale, cioè i diritti a godere di condizioni di vita che consentano di

utilizzare con pari opportunità i diritti elencati nei punti precedenti. Nb: per l’autore i diritti formano un sistema nel senso che sono necessari perché si possa avere una democrazia ben funzionante. Nella democrazia il discorso si istituzionalizza grazie a un sistema di diritti, a ma ciò genera ambiguità: fondando la sua legittimità su procedure discorsive (a due livelli, quello informale del pubblico e quello istituzionalizzato dei parlamenti) la comunità democratica dei cittadini per un verso presuppone che tutti partecipino alla ricerca cooperativa delle soluzioni migliore; per l’altro

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verso però, consente anche che ognuno prenda parte al processo democratico facendo un uso puramente strategico e autointeressato dei propri diritti. Le democrazia come la pensa Hebermas è strutturalmente aperta a due esiti ben diversi:

- i titolari di diritti si confrontano con gli altri sul terreno del discorso al fine di ricercare gli argomenti migliori;

- oppure, i titolari di diritti usano i loro diritti di comunicazione e di partecipazione solo come strumento per perseguire i loro interessi.

L’autore sostiene che la sovranità popolare ha bisogno della deliberazione formale in sedi istituzionalizzate, ma anche del dibattito informale dell’opinione pubblica. Nb: sovranità popolare= potere comunicativo. La critica a Hebermas egli rifiuta una visione puramente strategica dell’agire politico democratico, portandolo a tendere verso una visione idealizzata della comunicazione e, in particolare, del dibattito pubblico democratico. Hebermas, a sua volta, critica Bobbio e Dewey. 6. La critica del normativismo: la teoria del potere di Foucault Tra i teorici del potere che hanno segnato il Novecento, Michel Foucault si distingue, attraverso una teoria per la quale:

1. il potere non è qualcosa che si concentra nella istituzione statale o nei luoghi deputati della sovranità, ma vive in un insieme di pratiche che attraverseranno la società in ogni suo aspetto: bisogna perciò costruire una microfisica del potere, cioè di tracciarne le mappe, inseguendolo in tutte le pratiche istituzioni in cui si incarna. Es: prigioni, manicomi, luoghi di lavoro, ospedali, pratiche mediche ecc.

2. Tra potere e sapere, cioè fra potere e forme del discorso, scrive Foucault, vi è un interconnessione molto più intrinseca e profonda di quanto a prima vista non appaia. Il potere non può più essere rappresentato semplicemente come un qualcosa che opprime gli individui, i loro i bisogni e le loro pulsioni, ma il potere li produce, li costituisce. Il potere ha natura non repressiva ma produttiva, poiché esso codifica la soggettività e i comportamenti.

Nb: Foucault non intende rinunciare allo spazio della critica, anzi, lo rivendica, infatti, egli concepisce la critica come qualcosa che faccia parte dell’intreccio conflittuale di strategie di potere. Il paradosso che nasce è il seguente: la realtà è letta con le categorie della volontà di potenza (Nietzsche), ma non si prende partito per la potenza, bensì per le forme di resistenza. La rinuncia alla riflessione sul potere legittimo lascia spazio solo per una politica intesa come resistenza, destabilizzazione e decostruzione. 5. Femminismo e teoria politica Il problema di fondo delle teorie femministe è quello di mettere a tema e sottoporre a critica il potere, o supremazia sociale, del sesso maschile su quello femminile. La critica al patriarcato, iniziata già alla fine del Settecento, diventa il centro di sofisticate elaborazioni teoriche negli anni Settanta del Novecento. Una delle autrici più influenti è Luce Irigaray che, nel 1974, dal libro Speculum, l’altra donna, prende le mosse contro la rappresentazione della donna e della sessualità femminile. L’autrice si rivolge alle teorie freudiane, nelle quali la donna è vista come non-maschio, e viene letta attraverso categorie di «assenza» e «mancanza», come colei che possiede «invidia» verso l’organo sessuale maschile. Perciò, il potere degli uomini sulle donne in società si radica in un ordine simbolico e in un sistema di saperi che assume il sesso maschile come paradigma dell’intero genere umano (alcune autrici lo definiscono «fallologocentrico»). Ed è per questo che il differire delle donne dagli uomini diventa una differenza che corrisponde ad una mancanza e, soprattutto, a una inferiorità. In un sistema a economia binaria, gli uomini sono il polo positivo e dominante, le donne quello negativo e dominato. In altre parole: il maschile è l’universale, la donna è umanità incompleta. Spostiamoci verso la critica dell’eguaglianza politica moderna: in un primo tempo essa si pone come eguaglianza per tutti i cittadini, ma solo maschi, poi, nel corso del Novecento, le donne non

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vengono più escluse. A tal proposito però, Adriana Cavero ci mostra un singolare paradosso: prima le donne venivano coerentemente escluse poiché donne e non uomini, ora invece, vengono incluse da una logica di omologazione che gli consente di diventare uguali agli uomini, mentre però esse restano donne. Dunque, mentre gli uomini si collocano senza attriti in un’eguaglianza pensata a loro misura, le donne per entrarvi devono rinunciare alla loro differenza. Vediamo ora una tappa fondamentale, segnata dalla critica di Carol Gilligan (In a different voice, 1982) alla psicologia morale evolutiva di Lawrence Kohlberg. Nei suoi studi di psicologia evolutiva, Kohlberg distingue diversi livelli di sviluppo della coscienza morale:

a) stadio preconvenzionale: il fanciullo comprende le nozioni di giusto e sbagliato solo in termini di punizioni e ricompense che ne derivano;

b) stadio convenzionale: il buon comportamento è quello conforme alle regole date dalla famiglia e dalla società;

c) stadio postconvenzionale: i dilemmi morali non sono risolti col riferimento alle regole vigenti, ma si richiamano valori di tipo universale.

La riflessione della Gilligan parte dal fatto che, poste di fronte ai test usati da Kohlberg per misurare il livello di consapevolezza morale raggiunto da un soggetto, le ragazze tendevano a collocarsi ai livelli più bassi. Gilligan propone un’interpretazione alternativa. Il fatto che le donne non tendano in generale a risolvere i dilemmi morali in base a principi astratti e universali non significa che non li posseggano o che non li sappiano usare, ma è indice che l’etica femminile si lascia guidare da orientamenti diversi che, nella scala di Kohlberg, appaiono inferiori. L’approccio femminile non è inferiore, ma diverso, infatti, dai test, si è notato che le femmine tendono ad analizzare i contesti e i legami preesistenti delle e nelle situazioni. Vediamo un test: si chiedeva se, un signore senza soldi la cui moglie è malata fa bene a rubare le medicine. Mentre i maschi rispondevano di sì, in base a principi generali come quello che la vita di una persona è più importante del diritti di proprietà, le femmine davano risposte più sfumate e articolate. Es: se il marito viene arrestato, chi si prenderà cura della moglie? Propria delle donne è insomma un’etica della cura che, piuttosto che ad una massa universale o ad un “altro” generalizzato, si indirizza alla persona concreta che esprime un bisogno. Secondo la Gilligan, non vi è un unico parametro di pensiero morale o un’unica concezione del giusto, perciò: a un’etica maschile dei principi fa da contraltare un’etica femminile della cura. Ne consegue un problema, messo in risalto dalla stessa teoria femminista: sostenere la specificità femminile nel senso di un’etica della cura significa consacrare la donna al ruolo tradizionale che l’ordine patriarcale le ha sempre assegnato. Accanto ad una posizione come quella della Gilligan che assume come oggetto polemico l’universalismo della teoria morale e politica, ve ne sono altre che invece accettano, in una certa misura, i presupposti di questo universalismo, ma non le conseguenze che in genere ne derivano: è il caso di Susan Okin. Ella si scontra, per esempio, con la Teoria della giustizia di Rawls. Per la Okin il merito di Rawls è quello di aver messo nel giusto risalto il ruolo che la famiglia svolge nella società come fattore che condiziona e determina le opportunità di cui gli individui possono giovarsi, mentre il limite è quello di non aver tratto, dai principi che lo stesso Rawls pone alla base della sua costruzione, tutte le conseguenze che se ne sarebbero potute ricavare, al fine di mettere in discussione la struttura sessista della famiglia e della società esistente. La critica della Okin non si rivolge contro i principi della teoria di Rawls, ma contro il modo in cui egli li applica. Se si approfondisce l’idea del velo di ignoranza, e al tempo stesso si assume la tesi secondo la quale la famiglia è una delle istituzioni sociali fondamentali, allora se ne deve trarre, andando oltre Rawls, la conseguenza che le parti in posizione originaria dovrebbero preoccuparsi di estendere anche alla sfera famigliare i principi di giustizia, cosa che implicherebbe una sostanziale revisione del modo in cui fino ad oggi ha funzionato l’istituzione fondamentale, ma anche una riconsiderazione.

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Parte VIII. Questioni per la filosofia politica 1. Il fondamento dei diritti e della democrazia Fra Rawls e Hebermas, l’autore del manuale ci mostra il suo parere a proposito del rapporto fra teoria politica e teoria morale. Innanzitutto, il principio di un’etica del discorso prescrive il rispetto e l’ascolto delle ragioni degli altri, e, a partire da questo orientamento si può tentare di rispondere alla domanda che sempre si ripresenta in filosofia politica: quale è il «fondamento» dei diritti e della democrazia? Dal principio etico che presuppone il rispetto di tutte le persone, con i loro bisogni, pretese e interessi, consegue anche la giustificazione di un ordine giuridico-politico che garantisca l’eguaglianza di diritti, ovvero l’eguale libertà e dignità di tutte le persone, non solo come mero principio morale, ma come norma di cui si impone, anche coattivamente, il rispetto. L’esigenza di superare la mera moralità in un ordine giuridico ha la sua radice nella moralità stessa: essa mi prescrive di rispettare le altre persone, ma non può realmente obbligarmi a ciò finché io non abbia la garanzia che anche gli altri si comporteranno così nei miei confronti. Se non la si intendesse la morale diventerebbe, paradossalmente, la via per trasformare chi ne segue la regola in una preda disarmata, che viene calpestata da tutti coloro che invece la calpestano. In questa linea di pensiero il principio del dialogo è principio di coercizione giuridico-politica. 2. Sistema dei diritti e democrazia Assumiamo un piano contrattualista, una via mediana fra Rawls e Hebermas: in cui i diritti e gli istituiti nei quali si traduce l’istanza dell’eguaglianza o della giustizia sociale sono assunti come diritti fondamentali a pari titolo dei diritti di libertà individuale e dei diritti democratici. Cerchiamo ora di capire come le tre dimensioni fondamentali dei diritti di libertà, dei diritti democratici e dei diritti sociali debbano essere pensate ciascuna per sé e, al tempo stesso, nel nesso che le unisce.

a) i diritti di libertà individuale costituiscono la garanzia di base perché ognuno sia non solo tutelato nella sicurezza e nella persona, ma possa sviluppare, attraverso la libera scelta dei suoi modi di vita, la sua ricerca del proprio bene;

b) i diritti democratici assicurano che gli interessi, i valori, le esigenze di ognuno concorrano, attraverso il dibattito pubblico e le appropriate procedure di rappresentanza e di deliberazione, alla formazione delle leggi;

c) i diritti sociali hanno la finalità di assicurare a ciascuno le condizioni per il più ampio sviluppo possibile della sua personalità umana, ovvero, per usare il linguaggio di Sen, dei suoi “funzionamenti” e delle sue “capacitazioni”.

Ovviamente, tra i diversi tipi di diritti non regna nessuna armonia prestabilita, nel senso che i giochi di equilibri tra di essi include necessariamente tensioni o frizioni, che solo nel concreto esercizio della pratica democratica si possono sciogliere. Come fa notare Hebermas, per un verso la democrazia presuppone i diritti di libertà e i diritti sociali, per altro verso questi diritti vengono stabiliti nel processo democratico, che sempre di nuovo li reinterpreta e li ricordifica. Ciò significa che la democrazia, intesa nel senso ampio del termine, e cioè come l’insieme sinergico dei diritti di libertà, dei diritti sociali e dei diritti politici è, come talvolta è stato sostenuto, una questione di gradi: tanto più si attua e si espande quanto più rende giustizia a tutte le dimensioni, da quella della libertà squisitamente individuale a quella della partecipazione politica attiva, fino a quella della più ampia garanzia di diritti sociali espansivi. Il che significa anche saper gestire, attraverso il dialogo democratico, le tensioni che sempre insorgono tra i diversi aspetti della libertà. 3. La politica della democrazia e le sfide del mondo globalizzato Nel mondo globalizzato, che si viene delineando dopo il crollo del muro di Berlino e l’ingresso nel terzo millennio dell’era cristiana, le prospettive realistiche di una democrazia comunicativa ed espansiva sembrano trovarsi di fronte a sfide e a difficoltà molto diverse da quelle con le quali dovevano confrontarsi nel mondo bipolare.

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Da qualche tempo, in molte analisi sociologiche, economiche e politiche, si tende a raccogliere gli aspetti salienti dei mutamenti che hanno trasformato gli assetti planetari sotto il concetto di globalizzazione, che, in francese, si preferisce indicare con il termine di mondialisation. Gli aspetti principali del processo possono così essere schematizzati:

- sul terreno economico assistiamo allo sviluppo di un mercato mondiale che ormai copre tutto il pianeta, a una crescita della interdipendenza tra paesi e aree diverse, e a una più aspra competizione globale;

- sul terreno politico molti sostengono la tesi che saremmo ormai entrati nell’età postwestfaliana, perché la fase attuale non vede più come attore decisivo lo stato nazionale, ma ad esso si sostituisce una molteplicità di livelli normativi sovra e transnazionali, di regimi regionali come l’Unione europea e di regolazioni da parte di enti sopranazionali, che configurano una sorta di multilevel governance;

- lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e delle reti globali fino alla dimensione di una comunicazione- mondo, che trasforma non solo le forme del lavoro e di modi di vita e di consumo, ma anche le modalità della politica;

- molta attenzione è stata suscitata dalle trasformazioni che la globalizzazione introduce negli stili di vita.

La pressione della competizione globale, lo sviluppo di forme produttive differenziate e una più marcata individualizzazione degli stili di vita hanno destrutturato quello che era stato uno degli avvenimenti fondamentali di spinta dei processi di democratizzazione, e delle politiche sociali del dopoguerra: il movimento operaio organizzato, con i suoi partiti e sindacati. La tendenza che prevale è quella verso una riduzione della democrazia in senso mediatico: le facce dei leader soppiantano il dibattito pubblico e il cittadino attivo è rimpiazzato dallo spettatore dei talk-show. Ma le sfide più importanti per una politica democratica sono quelle che sono indotte dai mutamenti nei rapporti fra le nazioni; non si parla più di giustizia sociale, ma di giustizia globale. Tra le conseguenze più evidenti della globalizzazione:

- la veloce mobilità dei capitali finanziari a livello planetario condiziona le politiche economiche degli stati;

- gli ampi flussi migratori e la crescente mobilità della popolazione rendono sempre più incerta e difficile la determinazione dei confini del demos, con il rischio che la cittadinanza democratica si riduca, negando le sue premesse universalistiche, a statuto privilegiato di una parte della popolazione;

- con il permanere in campo di un’unica superpotenza, sembra delinearsi nel sistema-mondo una struttura di tipo imperiale, dove i singoli stati-nazione potrebbero ridursi tutti alla condizione di stati e sovranità limitata, e i più deboli alla condizione di quasi-stati.


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