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1 Pierluigi Albini Diario di un prigioniero dicembre 1917 - novembre 1918 Trascrizione, commento e note a cura di Danilo Agliardi. Originari presso Ateneo di Brescia
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Pierluigi Albini

Diario di un prigioniero

dicembre 1917 - novembre 1918

Trascrizione, commento e note a cura di Danilo Agliardi.

Originari presso Ateneo di Brescia

Febbraio 2018

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I parte

Salisburgo, dicembre 1917 – aprile 1918

Premessa del curatore

Siamo nel dicembre 1917. Il 5, sulle Melette, gli Austriaci sfondano la linea di difesa italiana ed Albini è fatto

prigioniero. Dopo una serie di spostamenti, viene rinchiuso, con altri ufficiali, nella fortezza di Salisburgo. È una prigionia relativamente sopportabile, a parte la fame.

Il 4 aprile del 1918 Albini tenta di evadere con un gruppo di commilitoni, calandosi dalle finestre. Il grosso dei fuggitivi viene subito ripreso, mentre solo in due, fra cui il nostro, rimangono uccelli di bosco.

Non per molto, dopo qualche giorno pure loro vengono ripresi.Albini ed altri vengono trasferiti a Celle, nell’alta Germania, dove arrivano il 24

aprile del 1918. Qui la prigionia è molto più dura.Nonostante l’esperienza negativa legata al primo tentativo di fuga, Albini ci

riprova. Il regolamento del campo prevedeva che i detenuti che volevano uscire dal campo consegnassero il tesserino, in modo da riprenderlo al rientro. In caso di fuga, il personale se ne sarebbe accorto il giorno stesso, vedendo il cartellino non ritirato. Albini, il 31 di luglio, esce dal campo senza consegnare il tesserino, approfittando di un momento di confusione. Si allontana verso il confine olandese, ma dopo nove giorni di girovagare, è costretto a consegnarsi a causa di una ferita al piede.

Ripreso, viene punito mediante l’internamento ad Hannover. Tutto sommato, gli è andata ancora bene: per chi veniva sorpreso ad evadere era prevista la fucilazione.

Ritorna a Celle a metà settembre.Qui si trova quando apprende la notizia della fine della guerra.Il diario è stato diviso, dal curatore, in due parti: il periodo di prigionia a

Salisburgo e quello a Celle.

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Dicembre 1917

Salisburgo, 20 dicembre 1917 - Siamo giunti oggi in questa città e fummo ricoverati in castello.

Salisburgo, 24 dicembre - La città è tutta affaccendata, essendo oggi la vigilia di Natale.

Come tutte le città attraversate da un fiume, desta subito buona impressione, piace. L’acqua, elemento di ricchezza agricola ed industriale, è pure oggetto che torna sempre gradito allo sguardo; è il miglior ornamento di un campo, di una casa, di un giardino.

L’origine di questa città si perde nell’oscurità dei tempi. Sembra sia stata quivi una colonia romana chiamata Ivavo. Queste terre appartennero nei tempi dell’imperatore Costantino alla Prefettura dell’Illiria. Solo però nel 454 d.C. si sviluppò il cristianesimo.

Nel 785 Salisburgo fu eretta a vescovado, che ebbe giurisdizione dalle Alpi all’Ungheria e accumulò in breve tempo benefici e regalie da assurgere ad importante principato tedesco.

Nel 1167 Federico Barbarossa concesse un rescritto imperiale con cui riconosceva i diritti e la dignità principesca ai principi-vescovi salisburghesi.

Quivi nacque Mozart il 27 gennaio 1756. La cittadinanza volle onorarlo elevando a lui un monumento. Esiste dal 1880 un museo mozartiano, che conserva i flauti, le spinette, i ritratti di famiglia, le partiture complete originali ed il teschio del grande musicista.

Sopra una scogliera negra che domina la pianura circostante, a 542 metri sopra il livello del mare, sorge il castello turrito, merlato, massiccio. Venne costruito l’XI secolo dall’arcivescovo Gerhart nel 1077.

Dal XII al XV secolo servì spesso come sede per gli arcivescovi.Nel 1497 Leonardo di Keutschach lo fece allargare ed il vescovo Paris dei conti

Lodroni fece fare le mura attorno alle fortificazioni.Matteo Lang, dal 5 giugno al 5 settembre 1525, vi sostenne l’assedio degli insorti

(contadini e cittadini) e si poté liberare dall’assedio solo con l’intervento delle truppe sveve.

In der festung1 - L’arcivescovo Wolf Dietrich fu tenuto prigioniero da Marco Sittico per ordine papale ed imperiale, per 5 anni, fino alla morte.

Poi la storia del castello perde ogni interesse. Diviene la sede dei principi, i quali seguono le sorti di tutte le lotte del popolo tedesco.

Ora siamo qui noi prigionieri di guerra. La storia della città ed i visitatori a venire ci rammenteranno.

Oggi la città è tutta coperta di neve. Ci sono le carrozzelle adagiate con molle sulle slitte, le quali vengono trainate da cavalli. Dei minuscoli biroccini vengono trainati da bellissimi cani san Bernardo, dei quali si fa qui molto uso. Godo vedere bambini trastullarsi sulla neve.

1 Nella fortezza

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Passato il ponte sul fiume (il Salzach), scorsi il vecchio castello dal quale eravamo discesi. Il fiume ed il castello mi rammentarono il Rodano ed il palazzo dei Papi di Avignone, sebbene siano molto differenti.

Là principiai, si può dire, la guerra e qui forse la termino. Con una piccola furberia son potuto uscire dalla fortezza, malgrado la vigilanza che si mantiene per noi. Nessuno mi ha osservato e conosciuto sotto il cappotto di semplice soldato e così tra il contento mio e il sorriso degli altri sono sceso.

Sfido io, abbiamo fame, non si può comperare nulla con quello che ci si dà, fa ben uopo escogitare qualche rimedio.

Fummo oggetto di viva curiosità per tutti i cittadini, ma anch’io fui curioso!Fantastico la fuga… ho potuto procurarmi un berretto austriaco…comperai dei

libri.Il soldato che ci accompagna era impaziente, ma venne tacitato dal libraio con una

sigaretta. Non potendo entrare in una offelleria per fare acquisti, ed avendo dovuto attendere per molto tempo, tanto che tutti pestavano i piedi pel freddo, fissava stando di fuori tutte quelle leccornie, quella cuccagna, col naso schiacciato sul vetro come usano fare i bambini. Godette il senso della vista ma non il palato!

Rientrato, rovesciai tutto sul pagliericcio; i compagni mi presero d’assalto, si congratularono per la felice riuscita della piccola impresa ed ora stanno sfogliando i volumi che ho comperato e ceduto anche a loro e che leggeranno ben volentieri.

Un sacco parevo, imbottito di nutrimento spirituale e materiale. Un sacco colmo di cibarie e di scienza.

Tenevo su di me aringhe, scatolette, libri, marmellata, sapone, polvere insetticida. Le aringhe costarono una corona, le uova sessanta heller…

Sto leggendo “Napoleon raconté par lui meme”. Sono due grossi volumi scritti in forma di diario ed abbastanza interessanti. È stato un uomo di grande genio, energico ma ambizioso e capriccioso come Alessandro, cui il mondo parve piccolo per le sue mire che passarono i limiti ove il pensiero non più può giungere; così come tutti gli altri uomini che hanno il cervello forgiato in quel modo.

Come gli attuali vari Erostrato di Germania, coi loro reticolati cingono ora tutto il mondo di una siepe ininterrotta di spine, lui invece tentò di farsene un marciapiede. Tali uomini che cercarono la gloria nel sangue dei popoli dovrebbero essere maledetti per tutti i secoli.

Continuando a leggere le memorie, trovo che i suoi eserciti si batterono molto nei luoghi ove io sono stato.

Chalon sur Marne, Vitry le Francois, Bar sur Aube, Troyez, Epernay, Fere Champenoise, tutte località conosciute che mi rammentano il ‘914-15.

Infatti, in Champagna, proseguendo nei lavori di approccio verso il nemico, scavando nei camminamenti, trovammo gli avanzi di quei guerrieri che, ancora cento anni dopo, difendevano il suolo della patria. I figli hanno alzato muraglie con le ossa dei loro padri. Quegli ossari erano rifugio, termine saldo e incrollabile per i nuovi soldati di Francia, segnati al livello del suolo da una massiccia croce di pietra.

Portavo un mattino del mese di gennaio il caffè in trincea con la marmitta. Non essendo ancora ben chiaro il giorno, passavo diretto attraverso i campi ed evitavo così di perdere tempo e spazio per lunghi e tortuosi camminamenti. I prussiani mi videro e aprirono il fuoco su di me. Trovandomi vicino, subito mi riparai accostato ad una di queste croci.

Il caffè quel mattino i compagni lo sorbirono freddo, avendo dovuto strisciare sul campo e perder tempo per scendere in trincea.

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Natale (1917) - Dopo la venuta del generale austriaco che ispezionò il castello, avemmo qualche piccola miglioria riguardo alla nettezza dei locali e nostra, nessun aumento però sulla razione viveri o pane. Il pane rimane sempre di gr. 1200 per settimana, cioè due pagnottelle rotonde, nere, contenenti crusca, patate ed altri ingredienti che io ignoro.

Potremmo anche uscire a passeggio, ma a che pro? Per condurre a spasso la fame? Bisogna tenere in movimento il corpo il meno possibile per non aumentare il bisogno di dover mangiare, per questo si preferisce di restare qui.

Alcuni sono a letto perché si sentono deboli, i giovani di diciannove, venti anni soffrono anche di più di questa insufficienza di cibo e già sono dimagriti molto.

Questo tormento lo soffre pure chi è robusto, epperciò non avvezzo a nutrirsi con così scarso pasto, non bastante per vivere, ma forse sufficiente per non morire.

I soldati poi stanno peggio di noi2 perché debbono lavorare e non possiedono denaro per poter comprare qualcosa. Raccolgono pure loro adesso le briciole di pane e le bucce delle mele come i soldati serbi di Franzensfest.

Al mattino nei primi giorni di arrivo si aveva il caffè. Lungo, assai diluito era quel caffè fatto di ghianda, credo, ma ora è stato abolito perché riceviamo invece un brodo la sera.

Sembra che si disponga di fare la mensa da noi, ma temo che anche questa si risolva in una burla.

Ospiti indesiderati noi siamo per l’autorità civile di Salisburgo, la quale si rifiuta di fornire viveri agli ufficiali italiani prigionieri.

E sempre disagi, quasi che non bastassero la prigionia, le malattie di questa guerra ci voleva anche la fame. In tali condizioni si trascorre la più bella e simpatica festa dell’anno.

Natale ‘917 - Che tu sia l’ultimo venuto tra tanta sciagura e tanta catastrofe. Tu che sempre varcasti le soglie delle nostre case, lieto di pace e di tranquillità, deh! Ritorna benigno, torna messaggero modesto, quale fosti sempre, di gioia e di sorrisi. In ogni tempo venisti a noi salutato dai popoli, dal mondo, non al rombo sinistro, ai colpi prescritti dal cannone, come ambisce venire la prole dei potenti, ma al suono più solenne delle campane! Deh! Ritorna Natale quale tu fosti e fa che il metallo e gli ordigni che ora lacerano le carni ed i cuori, al mondo imposti dalla vanità e dalla superbia, si rifondano in sacri bronzi per celebrare la tua festa.

1918

Anno nuovo - Entro nel quinto anno di guerra e penso a ciò che ancora mi aspetta. Certi dettagli si schiudono ora alla memoria, da dove provengano non lo so. Si aprono alla luce e ci fanno rivivere momento lontani, poi si dileguano da sé. Dei visi e dei nomi che credo perduti nell’oblio ritornano con grati ricordi di motti gentili e di squisita cortesia; ma la mente divaga, si sofferma qua e là poi riprende la corsa vertiginosa.

Solamente alla città e al paese natale si intrattiene e riposa…pensa ai parenti e ai conoscenti a tutti invia un mesto saluto ed un augurio di rivederci! Ma come e

2 Ricordiamo che l’Albini è aspirante ufficiale, quindi, in base alla Convenzione di Ginevra, gode, come tutti gli ufficiali, di un trattamento decisamente migliore rispetto ai soldati semplici: tra i vari privilegi, gli ufficiali non sono adibiti a lavori e vivono in strutture più accoglienti (per modo di dire).

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quando? In quali circostanze di dolore o di gioia? Vorrei scrivere, ma come posso? Qui tutto è misurato e controllato.

Ringrazio tutti della benevolenza che mi resero e del coraggio che mi infusero nelle mie vene ancora convalescenti alimentando l’entusiasmo e la perseveranza nella lotta intrapresa.

Ripenso alla marcia bellica adempiuta intorno alla mia contrada del primo agosto 19143; ripenso a tutte le località ed ai fatti ai quali dovetti assistere, mi si sfilano quietamente avanti come quadri esposti ad una mostra. Da un lustro dura questa danza guerriera sempre così lontano dalla mia casa.

Principiai scendendo da Loween a Budwa, sulla prima decade, occupando coi Montenegrini quel territorio, così ebbi l’avventura di essere stato in questa guerra, il primo italiano che invase il territorio austriaco, poi attraverso l’Albania, la Costa azzurra, la Valclusa, l’Aube, la Champagna, l’Artois, l’Yvonne, il Carso, il Pasubio, l’Altopiano dei Sette Comuni eccomi giunto ora nella fortezza di Salisburgo. Non fui inghiottito da questo uragano, ma dovrò inaugurare un’altra serie di angosce e orrori?

E quando terminerà questo diario di un volontario?Quando terminerà questo tumulto d’avventura, questo tributo di sangue, di fatiche,

di prigionia, di dispendio e di fame?Segnerò la parola fine?Sempre disposto però a tutto fare e sacrificare per riuscire nel mio intento: quello

cioè dii contribuire il più efficacemente possibile acciò la vittoria arrida a noi. Ogni titubanza, ogni piccola debolezza mia ed altrui, è per me quasi un rimprovero; ed oggi, per inaugurare il Capodanno ho fatto il fermo proposito di non desistere dalle mie intenzioni, ma di rafforzarle ed ampliarle sempre di più. Finché l’Italia è in guerra, io pure lo sono e il mio stato attuale non implica che sia terminato il mio compito. Se il cuore, la volontà e la fortuna ancora mi assecondano, chissà che non riesca.

Progetti - Che ora sarà? Un’ora, due ore, può essere. Il vento di fuori con sibili e schianti acuti che fanno venire i brividi, s’infrange contro i saldi fianchi dell’antica fortezza. Sembra che tutto voglia travolgere!

Si quieta un poco, poi riprende la raffica violenta, perdendosi tra la massa dei muri saldissimi ed il labirinto dei corridoi e dei volti oscuri. Dal campanile del castello giunge il suono di sette tocchi di campana, quattro lievi e tre più sonori. Sono le tre di notte. Si ode l’ululato di un cane, sembra un lamento.

Nevica. Mi accovaccio sotto le lenzuola ed architetto tutte le possibilità riguardo alla fuga che eseguirò prima dell’estate, se mi sarà dato di poterla eseguire. Ora è impossibile, il terreno e il tempo non offrono nessuna prospettiva di buona riuscita; forse tardi avrò anche più utili cose da manifestare.

Fame, fame, fame - Ieri sera a tarda ora non potevo prendere sonno, perché la fame mi molestava. Non resistetti, presi la piccola pagnotta che mi dovrebbe servire per tre giorni e mezzo e ne strappai con avidità alcuni morsi.

L’avrei mangiato tutto quel tozzo, se non avessi pensato che ancora per due giorni avrei dovuto ripartirlo.

Oggi è stata una bella giornata di sole e siamo usciti in parecchi a passeggio. Quasi tutti i giorni si può andare e chi esce lo fa per divagarsi un poco, osservando qualcosa

3 Qui l’autore fa riferimento ad una manifestazione, tenutasi a Ciliverghe, in favore dell’entrata in guerra dell’Italia, nell’agosto del 1914.

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di nuovo. La passeggiata sarebbe piacevole, se l’andata e il ritorno non fosse molestata dalla soverchia fame che non si può mai soddisfare.

Siamo deperiti ed oltremodo deboli. Mentre quest’oggi camminavo, sentivo un vuoto alla testa, un certo affanno pari a quello di un ammalato che da molti giorni non esce dal letto. Le gambe non mi reggevano e sarei tornato sui miei passi ben volentieri se avessi potuto e non avessi dovuto poi sentire le lamentele degli altri che sarebbero stati fatti rientrare per causa mia. Così pensavo mentre si camminava pel lungo vialone che conduce a Grodig; ma se tutti fossero stati interrogati, uno per uno, e richiesto loro se desideravano risalire in fortezza, tutti avremmo acconsentito, ognuno accusando il medesimo mio affanno.

E come in avvenire mi risolverò ad evadere di qui per tornare in Italia, accingermi a tutti i disagi e le inevitabili peripezie del lungo viaggio, se mi trovassi ancora in queste condizioni, così spossato?

Nostalgie - Mentre attraversavo la camerata per scendere al solito salone ove leggere qualcosa, uno dei compagni che ancora cova la cuccia, mi chiede qual’è (sic) la più bella città d’Italia.

Il mio paese! – risposi.Quello per nulla affatto rimase persuaso della rispostaLaggiù ho i miei ricordi più cari... un muro, una pianta, un fosso, un vigneto, una

siepe, un sasso, una croce mi ricordano una birichinata, un pericolo, un amore, una caccia, una canzone, una merenda, un’idea di lavoro.

Mai altro luogo, mai altra casa piacque più della mia. Ah, è pur bello amare il suo paese! Solo riconosce ciò chi ha dovuto trovarsene lontano. Più lontano è il piede e più appresso è il cuore. Ma vi tornerò? Tornerò a vedere il mandorlo ed il pesco in fiore, le messi e quei cuori d’oro?

Riescirò? (sic) - Su e giù, su e giù cammino nel cortile interno del castello pel solo intento di allenare il corpo alle future fatiche e penso a dare forma concreta ai miei progetti. Non ho determinato bene ancora quel che dovrò fare, ma sento una smania addosso, un brulichio di idee.

Debbo assoggettarmi a delle privazioni per essere pronto nel momento opportuno.Riescirò? Già altri tentarono il gesto audace, spiccando il volo di notte tempo, ma

vennero presi e ricondotti in fortezza ed ora stanno scontando in prigione il fio della loro temerarietà.

Anche stanotte il mio cuore non batteva che per l’ansia della fuga. La mia mente non era occupata che a stabilire e disporre il necessario. Mi figuravo di prendere un cappotto e un berretto austriaco di scendere le scale, attraversare il cortile e poi? Sarei uscito liberamente senza essere riconosciuto? Ho visto in un certo luogo una corda. Potrò prendere quella, calarmi dalla finestra e…ma mi viene in mente che le mura sono guernite intorno da sentinelle.

Ad ogni difficoltà mi rivoltavo nel letto. Confidare ad amici la cosa e cercare con loro qualche mezzo? Ad amici fidati, che non si lascino scappare parola…altrimenti…

Quante difficoltà e pericoli! E come fuggire allora? Di dove? Come potrei nutrirmi durante il viaggio, se nessuno me ne desse? Poiché certo non potrei comprare nulla essendo forse riconosciuto per un sodato straniero, un fuggitivo o peggio ancora una spia!

Poi il pensiero, dal progetto della fuga volò a casa. Ma quanti altri pensieri si tirò seco! Essi mi calmarono l’animo e mi fecero prendere sonno. Ma che sonno, che

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cattivi sogni! Scalate, sentinelle, corde, fughe, neve, monti, boschi, carte geografiche, poi austriaci, austriaci, austriaci…

Ecco quest’aria fresca e l’esercizio del camminare mi hanno eccitato l’appetito, appetito che sarebbe desiderabile per uno che potesse soddisfarlo. E perciò ora succede la caduta di tutta la mia opera e del progetto di eroica economia di stamattina. Vengo in camerata e in pochi secondi mi mangio il pane che avevo intenzione di riservare.

Qui è un baccano indiavolato. In sessantun siamo pigiati qua dentro.“Largo, largo viene il gran menage”“Fate largo” grida uno.“Menage, menage” urlano i più affamati“Sapete che il colonnello verrà sostituito?” dice un altro entrando dopo di me.“Chi te l’ha detto?”“Lo seppi in cancelleria”“E il motivo? Per quale motivo va via?“Il motivo? Per quale motivo va via?“Lo si può ben arguire: è la conseguenza delle evasioni da questa fortezza, bisogna

ben trovare un capro espiatorio. In questo caso è il comandante”.Secco e lungo com’è puoi ben dire che è un arieteTutti risero“Gavette di rango! Presto gavette di rango c’è qui il menage” grida il capo-

camerata.Si scioglie il crocchio, tutti vanno ai loro posti a prendere le gavette e ritornano

dispensandole in fila sugli appositi banchi.Che il colonnello Libosch comandante di questo concentramento se ne andasse era

vero, lo si seppe poco dopo in cortile per l’appello. Il nuovo aiutante ce ne diede notizia.

È cortese questo nuovo ufficiale, fa il possibile per rendere questa permanenza meno disagiata. È garbato, mentre il Leuknant Franz non poche volte si oppose a che noi potessimo avere qualche miglioria, qualche agio. Altro non aveva sulle labbra ogniqualvolta apriva la bocca che l’ormai per noi famoso nein, verboten.

Ma venne sostituito e se ne andò, ed ora la medesima sorte tocca al colonnello. La disposizione presa al riguardo di quest’ultimo è stata causata certamente dall’evasione di tre capitani.

Primavera (1918) - I fringuelli, svolazzando di ramo in ramo sugli ippocastani, si rincorrono e cantano ininterrottamente. Indizio certo che siamo entrati nella bella stagione. Mentre cantano, palpitano in tutto il loro corpicino, dibattono la coda e le ali nel fremito della loro canzone che innamora e fa rimanere quasi estatici chi li osserva.

Si forbiscono il becco col ramoscello ove posano, poi lo puntano nuovamente in aria verso il cielo. Tremola la graziosa testolina sotto la gola. Hanno ripreso la loro canzone.

Anche noi sentiamo che si approssima il momento di spiccare il volo: il tempo diventa sempre più propizio.

Siamo in parecchi che vogliamo fuggire. È un fervore occulto di preparativi e come in una gara osserviamo chi prepara e dispone mezzi migliori per assicurarsi la buona riuscita dell’impresa. Come se si trattasse di un cavallo da corsa, io sono ben quotato dai compagni; si fanno buoni pronostici a mio riguardo e mi si dice che riuscirò.

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Speriamo che la fiducia sia fondata e l’augurio si avveri, ma le difficoltà sono tante, sono troppe.

Il primo che scapperà, intralcerà l’opera degli altri, che immediatamente lo vorranno seguire prima che venga intensificata ancor più la vigilanza sia qui in fortezza che sulle strade che conducono in Svizzera o verso l’Italia.

Il comando austriaco, per evitare che si posseggano quantità rilevanti di denaro, solamente ce ne rilascia una piccola somma ogni dieci giorni, così si è costretti a speculare con quella per farne un gruzzolo sufficiente pel viaggio.

Sono deciso e preparato, il mio bagaglio non dovrebbe essere troppo pesante. Fra qualche notte mi troverò fuori del castello, fra i campi. Tutti saranno a letto, solamente alcuni compagni mi aiuteranno ad evadere nel calarmi da una delle finestre, all’altro lato della fortezza.

Tutto pronto: mi sono procurato lo zaino, gli schizzi, la bussola, gli itinerari, le tenaglie taglia fili. Porterò con me le note del diario, nel sacco porrò le provvigioni, otto grossi pani che mi costano ottanta corone, tanto quanto in tempi normali era bastante per comperare due quintali di farina. La libertà bisogna pur ben pagarla.

Le notti saranno oscure, poiché attendo che la luna volga al novilunio.Spero non si tronchi il mio sogno nel più bel momento.Mi aiuti la sorte e fra qualche settimana sarò forse in Italia, al Garda, a casa, forse

steso sulla linea…morto di morte violenta!Provo intanto un malessere insopportabile. Queste giornate di forzata aspettazione

mi paiono eterne, le ore, misurate dall’impazienza, suonano troppo lente per l’animo mio che fugge…

L’agitazione è molta, non posso rimanere fermo, vado e vengo sperando di calmare il turbamento dello spirito. L’idea di soccombere nella temeraria impresa è l’affanno il meno penoso, ma il pensiero di venire ripreso ricondotto qui o qualcosa di peggio mi fa palpitare il cuore. I fringuelli cantano liberi svolazzando sui rami, vicino alla chiesetta del castello: è primavera. Reclino il capo, lo sguardo verso terra, l’orecchio attento. Talvolta socchiudo le palpebre, tutto racchiudendomi nella delizia interiore, rapito da questo canto, eseguito da un sì minuscolo cantore su questa scena, in questo teatro.

La fuga - Evaso la notte del 4 aprile, per qualche giorno mi mantenni libero, ma venni ripreso unitamente al compagno, un modenese. In quelle ultime ore di attesa fremevo di allegrezza, scorgevo nel sembiante dei compagni che pure dovevano fuggire la risoluzione ferma e costante, la terra sembrava mi tremasse sotto i piedi. Siamo fuggiti in otto, divisi in tre gruppi Ogni gruppo avendo un itinerario proprio doveva separarsi appena lasciato il castello, onde non esser facilmente presi.

Il cielo scuro ci protesse, sembrò si fosse arrabbiato in quel momento. Ci calammo piano piano, neri come sacchi di contrabbando (in quel momento pensai alla bionda Giulietta Cappelletti che se non fosse rimasta fedele al suo Romeo e avesse sposato il conte Lodroni impostole dal padre, sarebbe venuta ad abitare quel castello) da una delle finestre gotiche facendo uso di due tubi d’incendio strettamente annodati.

Quale strano servizio resero quegli oggetti! Certamente i tedeschi non avrebbero pensato mai che in luogo di spegnere un eventuale incendio avrebbero alimentato vieppiù nei nostri petti la fiamma di libertà, facendoci intuire un aiuto prezioso ed insperato.

Fui l’ultimo ad uscire abbracciando l’esile colonnina e dopo di me vennero calati gli zaini. Tutto procedette bene e silenziosamente, secondo il piano prestabilito; ma quando toccato il suolo ci accingemmo a discendere, subito constatammo la

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difficoltà dei passaggi. Il terreno cedeva sotto i piedi, staccando con esso dei ciottoli che rotolavano giù pel pendio ripido producendo un fracasso indiavolato. Nei giorni precedenti, osservando dall’alto la conformità del terreno sul quale dovevamo transitare, nessuno di noi aveva supposto potesse accadere ciò. Coi gomiti, colle mani, colle dita e le unghie tentavamo di aggrapparci alle roccie (sic) o alle radici, ma queste a loro volta cedevano e si strappavano.

Un soldato austriaco che rientrava a quell’ora, a tale rumore inusitato e strano, volgendosi verso la nostra direzione, si mise a gridare. Egli gridava ma chi di noi comprendeva qualcosa di quello che diceva? Però a quella voce rimanemmo estremamente stupiti, sconcertati, la bocca semiaperta, gli occhi spalancati.

Stemmo zitti. Il grido di sotto saliva più forte. Inutile illuderci, eravamo scoperti. Zitti, immobili ed attenti sempre. Chi piantato sopra uno sterpo, chi penzolava da un fuscello o da un ciuffo d’erba. In quel momento, per non essere visti avremmo voluto impicciolirci e ritirarci in un guscio come chiocciole. Dopo qualche istante mi parve di udire un passo misurato e deciso che saliva verso l’entrata e allora pensai che quello sconosciuto, forse intimorito, andasse certamente a sollecitare l’intervento di altri soldati, i quali di corsa sarebbero scesi subito ad ostacolarci con ogni mezzo la fuga. Meditai e risolvetti come poteva togliere me e gli altri da simile imbarazzo.

Avevo percepito il pericolo, ma bisognò risolversi ad affrontarlo. Gli altri silenziosi nell’ombra, erano certo occupati dei medesimi miei pensieri. Non chiesi né dissi nulla ad essi per evitare una inutile discussione, sicuro che le mie mosse avrebbero incitato gli altri a seguirmi. Avevo pensato che se lo sconosciuto si era di nuovo incamminato sulla strada, non ci doveva essere più nessuno e perciò si poteva riprendere la discesa e svignarsela in fretta.

Se invece fosse ancora ed in compagnia di un altro o di altri…che la fortuna mi tenga la mano e mi protegga!

Abbandonandomi col dorso sul terreno ripido scivolai ed in men che non si dica, balzato giù anche dal muricciolo di ritegno, ero sulla stradetta e senza essermi fiaccato in nessuna parte del corpo.

Allora, come il riccio che dal viandante prende una pedata e tutto il suo corpo spinoso stringe ed aggroviglia, così in quel momento, ravvolto dall’oscurità, stetti fermo sul terreno, raggomitolato sotto lo zaino, le ginocchia giunte al petto, il viso sul terreno, trattenendo il respiro perché l’udito percepisse liberamente ogni rumore.

Nessuna persona si trovava dov’ero rotolato, nessun grido, nessuno si precipitò su di me ma quale istante d’attesa fu quello e quale gioia ne seguì.

Balzando in piedi, dopo un gran sospiro di meditazione, dissi a me stesso: sono libero.

Feci portavoce con le mani gridando “scendi, scendi”. Il grido venne inteso ed ebbe un primo effetto: infatti vidi subito un’ombra muoversi, scendere ed approssimarsi: era proprio lui, il compagno.

Gli altri sei erano un poco più, su mi avranno udito e spero che anche essi saranno discesi. Non so cosa avvenne di loro, poiché noi ci incamminammo subito, prima che scendessero i soldati a contrastare il passo.

In preda all’agitazione dello spirito erravamo attraverso i viali, siepi e prati. Finché uno si agita non è che impetuoso, abbiamo voluto metterci in quiete e pensare, riprendemmo poi il cammino temendo sempre di incontrare qualcuno. La notte, favorendo la marcia, abbiamo potuto camminare per molte ore, silenziosamente, con la paura e le precauzioni di colpevoli, risoluti di non ritornare mai più in quei luoghi.

Distratti dalle idee si camminò sino all’alba senza accorgersene, attesi fortunatamente ed inseguiti dal solo abbaiare dei cani che erano nelle aie delle case e

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che giunse però a noi grato quanto lo furono ai nemici dei romani il grido delle vigili oche del tempio di Giunone. Infine, a misura che il giorno schiarendosi illuminava le cose, subentrò in noi una debolezza ed uno spossamento che richiedevano nutrimento e riposo.

Dormimmo pacificamente, l’uno addossato all’altro, e quando la brezza mattutina ci svegliò, sentimmo lo spirito abbastanza calmo ed in stato di deliberare sul da farsi.

Intanto che ci mantenemmo sotto la roccia e tra gli abeti, avendo per compagni gli scoiattoli e le lepri, non ci venne alcun inconveniente; sopraggiunta però la seconda notte, fummo costretti a discendere ed avvicinarci alla foce del fiume, le acque del quale ci avrebbero servito da guida sicura. Colla precauzione di evitare i villaggi, troppo illuminati per noi, camminammo così parte sulla strada e parte vagando pei prati.

In questi ultimi giorni in castello tutti sapevano di ciò che stava per accadere e mentre passavo per le camerate, per le scale o nei cortili era un continuo ripetersi di auguri e di buoni pronostici.

“Albini ti raccomando, bada di essere prudente!” e un altro: “Sempre sui monti, non discendere mai nelle valli, non avere fretta, vai con calma e riuscirai”.

Alcuni mi resero messaggero di scritti per le loro famiglie. Li tengo con me, la speranza di tornare in patria non è ancora svanita sinché lo spirito è irrequieto, sinché continuo le trame per procurarmi la libertà.

Chissà che non ponga al torchio una nuova edizione riveduta e corretta della fuga. Dovrò occuparmi onde perfezionarla, perché se fosse altrimenti tornerei sempre sui miei passi ed il sacrificio rimarrebbe vano. Dopo essermi lambiccato il cervello non vorrei riuscisse pari all’opera di tanti studiosi che consumano l’esistenza in meditazioni gravi, al fine di rendere più saggia e migliore la società, questa invece peggiora, la barbarie la più violenta in questi tempi trionfa oltraggiando l’umanità e si pavoneggia dopo essersi presentata al mondo in veste legale, in nome del diritto.

Ma evidentemente la fortuna non mi asseconda più, fece un punto e disse: ora basta.E dovrò dunque decidermi a restare qui, dovrò piegare l’angolo superiore del diario

e chiuderlo? Oppure a quel segno vi terrò l’indice pe riaprirlo e proseguire nel momento opportuno?

Sono costretto a zittire, non posso confidarmi neanche a questi fogli perché potrebbero di nuovo venirmi tolti e con ciò scoprire il progetto.

Al mattino adunque, non visti da alcuno, seduti in un bosco con le braccia incrociate, l’uno fumava quietamente la sua pipa, l’altro strappando l’erba giocherellava gettandola d’innanzi tra le gambe e sui piedi. Alzando poi il capo si osservava giù in fondo uscire il fumo dal comignolo di una casa e attraverso l’uscio e la finestra si intravvedeva la fiamma che preparava al lavoratore il primo nutrimento della giornata.

Da ciascun lato della porta i rami tortuosi di due tenere piante da frutto guadagnavano il muro arrampicandosi ed abbracciando tutto il vano della finestra.

Usciva il lavoratore senza cappello in testa e scamiciato; prima sua cura fu quella di osservare in alto se il cielo era sereno e prometteva buon tempo.

Poi lo vidi entrare in una delle solite baracche di legno e uscire quasi subito con una grossa bracciata di fieno che portava nella stalla vicina. Tutti e due osservavamo quella scena, con uno sguardo vorrei dire assente, ma i nostri pensieri erano certo gli stessi e volavano e volavano lontano, comprendevamo bene, ma non ce lo dicevamo. Il silenzio e la mestizia erano più eloquenti della parola.

Noi pure abbiamo una famiglia ed una casa, un fuoco ed un cielo; in questo momento i parenti lontani, svegliandosi nel loro letto ci pensano oppure sono

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occupati nelle solite faccende domestiche. Noi invece siamo qui derelitti, in terra inospitale, privi di ogni conforto morale e materiale. La natura stessa ci contrasta il cammino, siamo cacciati ovunque dagli uomini armati contro di noi, ed inseguiti persino dai cani appositamente istruiti per scoprire le traccie (sic). E nelle medesime condizioni nostre, qua e là sperduta, vi è tutta una moltitudine di infelici che l’amore ha reso arditi e le nazioni civili selvaggi.

Questi poveri naufraghi della terra tentano di aggrapparsi ad un legno amico o neutro che li riconduca alla costa; molti altri, solitari e silenziosi, colla solo guida degli astri vagano tra le foreste ed i monti attraversando fiumi e valli, pietoso pellegrinaggio verso il tempio della patria; gente che salvatasi dall’acciaio e dal piombo, deve ora subire la fame, più crudele e più terribile di ogni umano tormento.

Contemplando la vasta pianura, un poco più discosto di quel luogo malinconico, mi venne di rivedere alto, massiccio e nero il castello dal quale eravamo fuggiti.. chiamai l’amico, quello venne aprendosi un varco tra gli sterpi e non appena lo scorse disse indicandolo colla mano: “Eccolo là, eccolo là, ecco i torrioni, non ci rivedrete più, maledetti!”.

Tale fu il saluto rivolto da noi a quel triste luogo!Ma purtroppo avevo motivo di lagnarmi sovente, constatando che non sempre il

mio compagno era dotato di quella forza fisica e morale e dello spirito di sacrificio, tanto necessari per riuscire nella nostra difficile ma non impossibile impresa.

Fui sempre da tutti dissuaso di partire solo, epperciò io stesso l’avevo scelto credendolo persona più adatta di me, ma diversi fatti mi disillusero presto; constatai subito che i suggerimenti e le cure che avevo supposto di aver bisogno, dovevo invece io stesso rivolgere a lui, e questo non sarebbe stato il peggior male se si fosse sottomesso ed avesse saputo resistere solamente un poco alle prime difficoltà. Invece fu una debacle completa che trascinò me pure nella nuova e non meno infelice prigionia.

Consumava troppi viveri, non poteva sopportare il peso dello zaino ((in verità era pesante) aveva infine dei bisogni e delle abitudini che nello stato in cui noi eravamo si dovevano assolutamente, a parer mio, eliminare. Per questo parecchie furono le rimostranze ed i battibecchi, tanto che ci eravamo separati, ma poi, non volendo lasciarlo solo, tornai sui miei passi e lo ritrovai ancora coricato a terra, sulla pubblica via.

Ero indispettitissimo (sic) di intravvedere che facendo così potevamo facilmente essere ripresi.

Dopo una notte percorsa in parte sotto la pioggia, giungemmo a Berchtesgaden di Baviera; il compagno era stremato dalla fatica, io avvilito.

Per ripararci dall’acqua che bagnava gli zaini e di conseguenza il pane, ci introducemmo in una casaccia che all’apparenza era abbandonata. Infatti non vi stava alcuna persona di dentro e si trovava in disordine, ma io diffidava e dissi che piuttosto d’entrare avrei preferito riposare di fuori. Lui insistette e così dovetti rimanere io pure, poiché l’allontanarsi equivaleva al non rivederci più. Però volli entrare in una vecchia cassa che avevo vista vuota, una di quelle casse lunghe e quadre che si usano per contenere biancheria ed altro; là dentro mi allungai ma dovetti rimanervi con le gambe piegate, essendo troppo corta. Venni coperto dall’amico con alcuni stracci raccolti negli angoli, poi calato il coperchio, sopra quello lui pure si stese e così rimasi chiuso come un morto dentro quella specie di sarcofago.

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Già si era fatto giorno; di fuori pioveva sempre, vicino alla spalla destra un tarlo rosicchiava lentamente il legno antico, però stanchi come si era ci addormentammo subito ugualmente.

La casa, posta vicino ad una cava di pietre, serviva da ripostiglio per arnesi da minatore ed attrezzi agricoli e noi ci trovavamo in una stanza che in tempi normali serviva di certo da cucina agli operai. Se fosse stato bel tempo, nessuno sarebbe venuto là dentro (in questo caso manco noi saremmo entrati) avendo altri lavori a cui accudire di fuori, ma il contadino, che generalmente è previdente, certe faccende le tiene sempre riservate per quando piove e non può uscire nei campi. Per questo motivo venimmo scoperti da uno di questi contadini. Venne scoperto il compagno, non io che svegliatomi stava dentro ascoltando e vedendo da una fessura quella scena invero interessante e che avrebbe fatto ridere chiunque non si fosse trovato nella…cassa.

Vennero altre persone, giunse più tardi anche un gendarme, l’amico fu condotto nel villaggio ed io rimasi sempre chiuso ed immobile come una mummia.

Ma più tardi, non sapendo più che fare là dentro, indispettito, avvilito e non volendo più da solo proseguire il viaggio perché privo di certi oggetti necessari, mi feci scorgere di fuori. Avvisato, salì un altro gendarme che, impugnando l’arma, minacciò di volermi sparare se osavo tentare nuovamente di fuggire.

Così terminò quell’avventura disgraziata.Qui mi chiedo perché così infantilmente mi sono fatto riprendere, mentre avevo

faticato tanto per fuggire e mi rimprovero pel fatto che avrei dovuto proseguir da solo e subito, nonostante i pochi mezzi di cui disponevo. Mi trovo ben scontento riguardo a ciò e non so spiegarmi io stesso; non posso comprendere questo fatto così in contrasto coi propositi. Infatti, in qualunque altro momento che non fosse stato quello così infelice, vivaddio, mi sarei fatto bucare piuttosto che ricadere nelle mani dei tedeschi. E allora, perché ciò? L’uomo non può sempre disporre di se stesso, né del suo animo. Vi sono dei momenti di naturale spossatezza ed abbandono dello spirito; questi succedono appunto immediatamente dopo un pericolo o dalla fatica soverchia.

Se durante questo tempo, richiesto per la riflessione ed il riposo dell’animo, intravviene un altro ostacolo, allora l’individuo si avvilisce e cede.

Così successe a me.

II parte

Arrivo a Scheuen, presso Celle, 24 aprile 1918- rimpatrio Natale 1918 o gennaio 1919 (?)

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Premessa del curatore

Cellelager era uno dei campi, forse il principale di quelli situati in Germania, destinato agli ufficiali prigionieri.

Era situato a nord-est di Hannover, nella regione della Bassa Sassonia, a due ore di ferrovia da Amburgo e Brema, nel mezzo di una pianura che più fonti descrivono come squallida, desolata e senza luce.

A partire dal dicembre 1917 vi vennero tradotti circa 1400 ufficiali italiani, provenienti per lo più da Rastatt, poi seguiti il mese successivo da 1300 aspiranti ufficiali da Crossen ed infine, a marzo, da 250 ulteriori ufficiali da Rastatt. Complessivamente ospitò 3501 italiani, di cui 2921 ufficiali e 580 uomini di truppa

Erano due condizioni assai diverse. I primi, gli ufficiali, godevano di privilegi impensabili per il soldato semplice. Come loro, anche medici e preti. Vivevano in baracche in muratura, con veri letti, l’acqua calda e riscaldamento, per di più ricevono anche una paga. Non sono obbligati al lavoro, addirittura i colonnelli avevano il loro attendente.

Tutt’altra situazione per i soldati semplici.Gli uomini sono racchiusi in baracche fatiscenti, al freddo, cibo scarso, e,

soprattutto costretti a lavori pesanti con turni massacranti.La mortalità dei soldati nei campi di prigionia raggiunge il 12 %, contro il 3 %

degli ufficiali.Le morti durante la prigionia solo in minima parte dipendono dalle ferite di

guerra: per lo più sono dovute a malattie, soprattutto tubercolosi ed edema da fame. Questa situazione dipende non solo dalla “barbarie” del nemico austriaco o tedesco, come la propaganda italiana ci voleva far credere, ma anche dalla scelta deliberata dello Stato italiano di non inviare gli aiuti necessari per il sostentamento.

Per la verità, le convenzioni internazionali prevedono che i prigionieri sono a carico dello Stato in cui si trovano, ma era pur vero che gli Imperi Centrali, a causa del blocco, a malapena riuscivano a sfamare i propri cittadini e soldati.

Francia e Inghilterra furono le prime ad inviare pacchi ai loro soldati prigionieri.L’Italia, in particolar modo Cadorna, è inflessibile, riconoscendo nei prigionieri

non più i suoi soldati, ma i traditori.I primi prigionieri italiani giunsero a Celle nel dicembre 1917. Fra gli ufficiali

troviamo anche lo scrittore Carlo Emilio Gadda, che raccoglierà le sue memorie nel libro Giornale di guerra e di prigionia.

Il campo era diviso in quattro blocchi, formati da baracche mentre al centro c’erano le cucine, i bagni e l’infermeria.

Una delle prime azioni cui dovevano sottostare i prigionieri era la perquisizione e la conversione di eventuali soldi in marchi “da campo”, da spendere nelle kantinen, che vendevano (quando c’erano) surrogati di liquori, saponette, matite e quaderni.

Il vero problema, però, era costituito dalla carenza di cibo. I soldati coniarono un nuovo termine per indicare il cibo principale: sbobba.

Si tratta di una specie di brodaglia, più acqua che brodo, arricchita con verdure: questo era il piatto tipico. Pacchi mandati dalle famiglie…nulla, almeno fino al marzo del 1918. Il ministro Sonnino impose la proibizione alle famiglie, alla CRI e a qualsiasi privato di inviare pacchi ai “vinti di Caporetto”.

Unica nota positiva è stata la facoltà, da parte dei tedeschi, di permettere incontri culturali tra i prigionieri: era un modo per non perdere la propria identità ed evadere idealmente da quel luogo. Grazie ai diari dei vari ufficiali, siamo in grado

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di conoscere il programma delle lezioni. Gli argomenti spaziavano un po’ dappertutto: dalla letteratura, all’apicoltura, alla storia, all’arte, alla medicina…

Assai diffusa, anche, la pratica della musica. Tra i prigionieri c’erano parecchi musicisti dilettanti e qualche professionista. Gli

strumenti li avevano acquistati mediante collette e furono organizzati parecchi concerti. Non mancavano poi baritoni e tenori: insomma, non eravamo alla Scala, però era tanta manna per passare il tempo. Addirittura qualche soldato tedesco chiese di far parte dell’orchestra.

Per maggiori informazioni sul tipo di prigionia a Celle, rimandiamo alla lettura dell’ottimo lavoro di Rolando Anni e Carlo Perucchetti, Voci e silenzi di prigionia – Cellelager 1917-18, Gangemi editore, 2015.

Si tratta di una raccolta di diari scritti da ufficiali di questo campo.

1918 (aprile)

Germania - Aspettando che ci venisse assegnato questo campo di concentramento, per pochi giorni fummo prima a Karlsruhe, poi a Heidelberg nel Baden.

Quivi erano molti ufficiali francesi, inglesi, portoghesi e persino dei marinai giapponesi.

Dai francesi venni accolto con molta cordialità. Quando seppero che sono un reduce dalla Francia e dissi loro di avere indossato i

pantaloni e il kepi rouge, non passava giorno che non mi volessero dimostrare la loro gratitudine facendomi il presente di qualche piccolo dono. Quanto entusiasmo pel loro paese e quanto sono ammirabili pel loro patriottismo quei francesi.

Giunsi il 24 aprile qui a Scheuen vicino a Celle, nello stato dell’Hannover.Mi fecero penosissima impressione i visi sparuti ed anemici dei compatrioti, tremila

circa, tutti stati fatti prigionieri nell’offensiva dello scorso ottobre. Laceri nelle vesti, senza calzature, sudici, in più cattive condizioni delle nostre quando eravamo in Austria che già erano pessime. Quanto è triste vedere questa moltitudine di larve sbiancate, dai profili aguzzi e dagli occhi febbricitanti.

Riferiscono di avere passati giorni tremendi, giorni di fame, di freddo e di maltrattamenti!

Mi si stringe il cuore, fremo di sdegno a simili racconti orrendi. Ho assistito ai funerali di alcuni di questi giovani. Il corteo si forma vicino alle baracche dell’ospedale, qui dopo la cerimonia d’uso il feretro viene levato.

Un picchetto in armi, al comando di un ufficiale, prende il cammino seguito dal clero, tutti sacerdoti prigionieri; segue la bara portata dai nostri soldati sulla quale vi è sempre deposta una corona di fiori freschi ed un lungo nastro tricolore. Vengono poi due o tre ufficiali tedeschi, infine noi circondati da altri armati.

Il picchetto, a passo lento e cadenzato, entra in un bosco di giovani abeti, i sacerdoti salmodiano e noi seguiamo muti e pensierosi. Il piccolo camposanto è vicino, vi si entra per un cancelletto di ferro ed è cinto da una rete metallica. Quindi, adagio, la bara viene posta dentro la fossa, alcuni ufficiali, compresi quelli tedeschi, vi gettano sopra un pugno di terra. Noi in posizione di attenti, lo sguardo fisso sulla bara, facciamo il saluto.

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Intanto il picchetto tedesco rende il saluto delle armi, sparando tre colpi a salve; la cerimonia è terminata e si torna all’accampamenti sempre mesti e silenziosi.

Morire in così verde età, sepolti in terra straniera, lontani dalle loro famiglie, che speravano rivederli dopo tanta e tale assenza!

Giovani baldi e robusti, non predestinati alla tubercolosi, la terribile malattia che in pochi mesi li distrusse e fece soccombere. Chissà a quanti di noi sarà passato per la mente di dovere seguire la medesima sorte triste ed immatura.

2 giugno - Questa guerra mi getta da un estremo all’altro d’Europa, vengo sospinto di fronte, di fianco, a tergo, ma come una vela sbattuta dai venti non si strappa, ma tutta si avvolge attorno all’albero maestro, così ancora salda rivolgo la mente e la volontà al mio paese lontano.

In qualunque luogo ove la fortuna capricciosa ed incostante mi getti, so accontentarmi, ho sempre con me qualche cosa per potermi intrattenere e la noia che divora gli altri, a me è sconosciuta perché sono occupato.

È nella quiete della prigione che scrissi le note che riguardano l’evasione, le altre, quelle intendo dire di Salisburgo, mi vennero prese unitamente ai diversi oggetti come già dissi e chissà se le potrò riavere.

Strano, sono pressoché abituato a delle punizioni le quali, pur essendo in certo qual modo inflitte giustificatamente, hanno però su di me un effetto sempre lusinghiero e mi giungono più ambite di un encomio.

Non posso dire del piacere e della soddisfazione intima che provo alcune volte in certe cose che creo e disfo e che sono ignorate agli altri.

Ma se lo spirito non fosse nutrito da queste soddisfazioni che provengono dalla perseveranza nell’adempimento del dovere, come potrei sopportare tante sofferenze? Come potrei decidermi ad affrontarne con animo lieto delle altre peggiori?

Sono trascorsi due mesi dal giorno della fuga e già scontai la punizione inflittami. Prima però di varcare questa soglia avevo gettato le basi di un nuovo edificio; l’architetto è in prigione ma i decoratori sono alacremente al lavoro, dopodomani mi unirò a loro, lascierò (sic) il diario per prendere altri arnesi…

Attendevo questa punizione, doveva arrivare l’avviso da Salisburgo e venne infatti accompagnata anche da un’altra accusa che mi piace raccontare.

Durante i giorni che abbiamo pellegrinato per le località ove fummo poi ripresi, da individui rimasti sino ad allora ignoti, venne commesso un furto in un negozio.

Dopo avere scassinata la porta della bottega, questa fu svaligiata, asportando oggetti di vestiario, lenzuola, un grammofono e, tra le altre cose, tutto un corredo da sposa. Il comando della gendarmeria di Berchtergaden ci fece interrogare se sapevamo niente di questo fatto.

Si può supporre che gente disposta ad arrischiare il tutto per tutto (il fine giustifica i mezzi) possa appropriarsi di generi alimentari se gliene mancano affatto, pur di riuscire nel loro scopo, ma che voglia caricarsi il dorso di peso superfluo introducendo nello zaino trine e nastri, ciò è veramente ridicolo.

Con nessuna pompa nuziale io ed il mio compagno abbiamo voluto mai celebrare la libertà che abbiamo sposata; lontano il pensiero di voler stendere delle lenzuola attraverso il letto di qualche fiume per poter passare di là o sopra il muschio per gustare una buona dormita.

E il grammofono? Che forse volevamo andare in Italia al suono della Marsigliese?Bastò che all’ufficiale incaricato dell’esame, per mezzo dell’interprete, facessi

riferire queste ragioni, perché quello ormai convinto ci congedasse.

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4 Giugno - Viva la Francia, viva l’Italia - Ieri sera, poco prima del tramonto del sole, accadde un gravissimo fatto di sangue che dimostrò ancora una volta quanti siano i pericoli che quotidianamente minacciano la nostra esistenza per l’inumano trattamento tedesco.

Un gruppo di ufficiali francesi feriti, che veniva condotto al lazzaretto del campo, visti da noi furono acclamati al grido di “Vive la France”. Essi risposero unanimemente al saluto col grido di “Vive l’Italie”. Bastò questo perché noi tutti in brevissimo tempo facessimo ressa preso i reticolati onde osservare le pietose condizioni di quei nostri colleghi. Questa accoglienza esasperò alquanto i tedeschi, intervenne il comandante del campo che impartì ordini severi ai suoi dipendenti. Ciò li rese gonfi di baldanza. Coll’armi alla mano percossero quanti ebbero la disavventura di non poterli evitare. Uno di questi tedeschi, più furibondo e più feroce degli altri, non potendo raggiungere un ufficiale che tentava di ripararsi dentro una baracca, scaricò su di lui a due passi di distanza, la sua arma. Cadde colpito da pallottola a mitraglia che gli squarciò il dorso, sì che a brani e a fiotti la carne ed il sangue inzaccherarono le pareti attorno. L’infelice è il giovane Giovanbattista Aicardi di Porto Maurizio.

Durerà questa faccenda forse a lungo ancora, ma la forza dovrà cedere al sentimento. Noi siamo il sentimento. Noi vinceremo.

La galleria, Giugno - Col crollo della galleria cadde pure la migliore speranza di poter evadere dal campo. Questo è cinto intorno da solidi reticolati e guardato di fuori da numerose sentinelle, di modo che ne è quasi impossibile la fuga pur dovendo incorrere in un grave pericolo chi tenta darne esecuzione.

È stata una sciagura per tutti, anche per coloro che non ebbero mai intenzione di fuggire; era quello l’edificio al quale avevo accennato. Non voglio però mi si attribuisca un’idea che non mi appartiene, anch’io la appresi dagli ufficiali francesi prigionieri al campo di Heidelberg. Il lavoro l’avevo confidato ad altri e da questi fu principiato, stanteché io dovetti subire la punizione.

Questa galleria partiva dalla baracca numero 42, posta dentro il campo e doveva sbucare sotto quella dove alloggiano i soldati tedeschi adibiti ai vari servizi.

Quest’altra baracca è al di là degli alti reticolati accennati, così che noi, passando sotto a quelli, avremmo lasciato sulla crosta del terreno ed alle nostre spalle i reticolati stessi, le sentinelle, le garrite, le baracche, la prigionia infine, ed ogni altra cosa che avrebbe potuto intralciare il passo.

Si avrebbe dovuto uscire sotto il pavimento di legno, dove dormono i tedeschi e di lì, piano piano eludendo un’altra sentinella ci saremmo portati al largo ed allora…buon viaggio via pei campi in direzione ovest, verso la frontiera olandese.

È stata una prova ardua e non priva di pericolo, ma poteva riuscire, anzi doveva riuscire se la sfortuna anche qui non avesse messo lo zampino, facendo tutto scoprire ai tedeschi dopo ben trentacinque giorni di paziente lavoro da certosino.

Nell’interno il terreno era sabbioso, e perciò friabile, cedeva formando delle piccole cupole che si dovevano pazientemente riempire dopo avere rinforzata tutta la volta con tavole spezzate e panche sottratte dalle baracche o con ogni altra cosa che si trovasse nel campo e che avesse potuto servire.

In due si era insaccati in quella specie di budello ed un terzo doveva stare all’imboccatura.

Sarebbe stata un’imprudenza andarvi da soli poiché si poteva rimanere chiusi dentro da una frana e morire asfissiati, mentre provvedendo a quel modo i due che si trovavano di dietro se ne sarebbero accorti e avrebbero soccorso l’infortunato.

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Eravamo un gruppo di sei o sette, tutti giovani, sani e robusti come quercioli, nonostante le sofferenze. Ci davamo il cambio sul lavoro, come era malagevole e brutto stare là sotto! E come si era costretti a lavorare di lena e spingere avanti il lavoro in considerazione che dopo poco tempo si doveva sortire perché l’aria mancava e cresceva l’affanno.

Il lucignolo posto in un piccolo calamaio dietro ed imbevuto in poco petrolio rischiarava fiocamente la galleria.

Al minimo soffio la fiammella si estingueva; allora erano guai occorrevano mezze scatolette di fiammiferi prima di poterlo riaccendere in quell’ambiente quasi privo di ossigeno, intossicato dallo zolfo.

Si sortiva col dolore di testa e lo stomaco rovesciato, il viso pallido e barcollanti come ubriachi. Troppo mi dilungherei se raccontassi tutti i triboli sofferti là sotto, tra i quali la fame, che lavorando si faceva sentire maggiormente.

Quando crollò la galleria naturalmente rincrebbe a tutti, poiché ognuno attendeva con ansia il giorno in cui saremmo sortiti, ma anche si rise quella notte e tutti i giorni appresso osservando l’affaccendarsi dei soldati che temevano vi fossero altre gallerie partenti da altre baracche.

Come era bello poter riuscire!Sarebbero venuti folli pel dispetto, questi tedeschi.Dopo tale fatto, certamente ci doveva essere una perquisizione e mi ero alzato di

buon’ora quel mattino per procurare un nascondiglio più sicuro a certi oggetti che mi avrebbero dovuto servire per la fuga. All’uopo mi piace raccontare il dialogo avuto tra me e il soldato tedesco interprete presso il comando.

Questi entrò nella baracca per riferire che nessuno e per nessuna ragione doveva trovarsi mancante all’appello di quel mattino, gli ammalati stessi dovevano essere presenti. Stavo allacciandomi le fascie (sic) quando mi ripassò vicino per uscire e dissi a lui con fare indifferente: ”Cosa c’è di nuovo stamattina, interprete, che mi pare di scorgere un affaccendarsi insolito? Mi sembra vi sia qualcosa di strano!”

“Come non lo sa? - rispose - “non sa che è stata scoperta una galleria?“Una galleria! E chi l’ha fatta, i tedeschi?” tornai a chiedere con aria di sorpresa

ed incredulità.“I tedeschi!? Gli italiani! Gli italiani che vogliono scappare” aggiunse lui

andandosene tutto stupefatto. ”Oh che birboni! Oh che briganti sono questi italiani!” - termino io rialzandomi dopo avere finito di allacciarmi.

L’interprete uscì frettolosamente ed i compagni, che nel frattempo si erano svegliati e principiavano a vestirsi, risero ben di gusto poiché pure loro erano cogniti dell’accaduto.

E così la mia prigionia è tutta una costante preoccupazione per la fuga, il mio spirito non trova pace in nessun luogo. Sono pensoso ed irrequieto. Affaccendato ad organizzare, a vedere, ad organizzare sempre. E questa irrequietezza mi reca disagio in confronto degli altri prigionieri che qui rinchiusi hanno ormai la rassegnazione di dovervi restare sino a guerra terminata e procurano così di scorrere il tempo il meno infelicemente possibile.

Desidererei che subentrasse pure in me la loro persuasione, che li rende almeno certi di potere rivedere le rispettive famiglie, mentre invece io brancolo sempre nell’ignoto…

Vi è nel campo una piccola biblioteca, perciò potei leggere ed istruirmi scegliendo gli autori che prediligo; vi è pure un’orchestrina ed un teatro. In questi giorni appunto si stanno facendo le prove per mettere in scena l’opera La Gioconda. Col diletto

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potrei trovare la distrazione, mentre invece fantastico sempre, il mio capo è come un alveare ove ronzano continuamente nuove idee e nuovi progetti.

La faccenda della galleria è finita purtroppo, ma dalla mente già è passata nei ferrivecchi, ma chissà che non scelga qualche altro mezzo, qualche ferro nuovo. Oh se quest’altro ferro potesse portarmi fortuna!...

5 luglio - Come nel Montenegro ed in Francia, così in Italia ebbi il piacere di conoscere una donna, una brava e gentile signorina.

Di Rugizza la sfortunata giovane montenegrina, non so cosa avvenne, gli austriaci già da tempo occupano la Czernagora!

Di Gisella Lefevre invece sono informato, ci teniamo in corrispondenza ed anche poco fa mi scrisse: “Je ne vous oublié pas, vous avez en moi un’amie, souvernez vous”.

Di questa mia nuova amica debbo dire un mondo di bene. Mentre tutta un’intensa opera di demoralizzazione infestava l’interno d’Italia ed anche la fronte con scritti che sembravano innocui, con discorsi che parevano avessero nessuna efficacia sull’animo di chi li udiva e persino nelle canzoni popolari che sembravano incitare ogni cittadino all’adempimento del proprio dovere, mentre in realtà contribuivano all’opposto, questa giovane adempì tutta un’ammirabile opera di incitamento e di conforto verso il soldato alla fronte, aiutandolo con scritti e con parole a sostenere le dure prove della guerra.

Oh, ve ne fossero molte in Italia di tali donne, ve ne fossero molte di queste benemerite persone così preziose alla Nazione!

A lei mi sono legato da riconoscente affetto e simpatia, per gli incoraggiamenti datimi prima di essere preso prigioniero e per le esortazioni e gli atti di carità che ancora ininterrottamente mi prodiga e che consolano alquanto l’animo afflitto.

La seconda fuga, 2 agosto (1918)4 - Ero molto affaticato e mi addormentai di un sonno profondo: dormii proprio come poche persone io penso avrebbero potuto dormire nella mia medesima situazione.

Appoggiato col dorso allo zaino, le braccia unite attorno alle ginocchia, osservavo il pane che avevo steso al suolo e le formiche che vi passeggiavano sopra. Durante i giorni che lo zaino fu lasciato fuori del campo in attesa di andarlo a riprendere, questi insetti si erano dati ritrovo, ma li rovesciai fuori con ogni altra cosa all’aria e al sole.

In attesa che tutto si asciughi, penso di proseguire nelle mie note.Nei giorni passati, scorgendo prossima la stagione favorevole, il pensiero cullava

sempre l’idea e ciascun giorno mi preparavo pel nuovo viaggio.Sempre mi pizzicava la volontà di evadere e mulinava la risoluzione.Ero tormentato, ma amavo quel tormento e gli incoraggiamenti degli amici mi

scaldavano, mi animavano.Mi ero proposto di fare ciò quando nei campi vi potevano essere pronte le patate da

raccogliere e da mangiare poiché su quelle solamente avevo fatto assegnamento per la nutrizione. E così’ avvenne infatti l’altro giorno 31 luglio.

Una singolare circostanza mi si presentò per recuperare la libertà, questa fortunatamente questa volta non presentava alcun pericolo personale e ne approfittai subito.

Il comando tedesco, allo scopo di farci sortire a passeggio, aveva fornito tutti gli ufficiali di una cartolina di stampa, la quale da noi firmata ci impegnava sulla parola

4 In realtà, come risulta dal testo, la fuga avviene il 31 luglio

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di onore di non fuggire, pena la fucilazione se avremmo (sic!) trasgredito a questo nostro obbligo. La cartolina rimaneva sempre con noi, ma ogni volta si sortiva bisognava farne la consegna per poi riprenderla terminata la passeggiata.

Ieri l’altro successe un po’ di confusione presso il cancello di uscita, ne trassi subito profitto naturalmente non venni compreso nel numero e di conseguenza non consegnai lo stampato.

La maggior difficoltà era superata, un quarto di ora dopo mi trovai libero e solo nel bosco in traccia dello zaino che avevo avuto la previdenza di nascondere in un cespuglio nei giorni precedenti. È sempre il medesimo, quello austriaco, che mi servì anche nella prima fuga e che tenni nascosto per tema che mi venisse tolto dai tedeschi. Contiene tutti i miei averi, pane, riso, sale, fiammiferi, gavetta, tutte cose di prima e assoluta necessità, senza di quelle non potrei continuare.

Proseguendo nelle mie note intendo solo rammentarmi certi aneddoti che rileggendoli mi torneranno sempre divertenti e certi particolari che il tempo mi potrebbe lasciar scordare. Non mi dilungo nello scriverne alcuni un poco tristi e noiosetti ed altri ancora insignificanti.

Epperciò non dico della giovane che mi vide correre nel bosco subito dopo avere lasciato i compagni, del soldato che custodiva le capre, del guardiano ferroviario, del vecchio contadino, dei bambini di Boye, dei due ciclisti, dell’apparizione del fiume Aller, della prima veglia, del primo capriolo e tante tante altre piccole avventure.

Sono idee tronche e periodi mal connessi che vennero quando a loro piacque e che sono stato costretto a descrivere essendo affatto privo di memoria, durante il cammino, al chiaro di luna o del fuoco mentre cucinavo, ovvero di giorno seduto tra i boschi.

Alle tre di notte passai il fiume sopra un ponte di ferro nei presi di una officina elettrica.

Giunto di là del ponte attraversai un giardino, poi scavalcai un muro di cinta e sceso su una stradetta dovetti camminare per un tratto tra le case; dopo di queste mi trovai presto ad un crocicchio di vie. Qui vi era una tabella indicativa inchiodata su un palo tagliato quadro e dipinto a fascie (sic) larghe ed oblique di colore nero e bianco. Ma non potevo leggere cosa vi stava scritto. Allora mi levai lo zaino usando di nuova la buona precauzione di portarlo un poco discosto da me perché ammettendo di essere trovato in quel luogo ed in quell’attitudine, avrei potuto svignarmela senza preoccuparmi di prenderlo, sicuro di tornare quando di percolo non ve ne fosse stato più.

Levai dalle tasche i fiammiferi e la candela, la accesi e poi mi arrampicai sul palo per potervi leggere ciò che vi era scritto facendo uso del solo braccio rimasto libero, ma scesi subito poiché con l’aria il moccolo si spense. Quattro cinque volte ho ripetuto pazientemente questi movimenti e sempre colla medesima facilità si spegneva.

I fiammiferi si consumavano e sapendo di dover farne economia, mi indispettivo per simile inutile spreco.

Le tribolazioni aguzzano il cervello: mi venne l’idea di andare a sedermi sul palo stesso a cavalcioni della tabella. Lassù ho potuto leggervi, finalmente, a caratteri gotici queste due parole: “Nach Hamburen” e più sotto una freccia che indicava la direzione ove si trova il paese.

Quando fui nuovamente a terra ho estratto la carta geografica, la stesi sul terreno e per accertarmi meglio consultai anche la bussola.

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Questa pure è una degli oggetti preziosi per una fuga e perciò proibita al campo e perché non mi venisse trovata la tenni sempre nascosta al collo appesa in forma di scapolare.

Rintracciato sulla carta il paese, rimisi accuratamente ogni cosa al suo posto, mi ricaricai lo zaino e proseguii dunque in direzione di Hamburen.

Durante il cammino pensavo che per riuscire nella mia impresa avevo bisogno di salute, di molta prudenza e fermezza nel voler dominare l’animo e queste gambe che avrebbero voluto correre, correre sempre. Il giorno prima la fretta fu giustificata perché forse chissà che i tedeschi avessero lanciato liberi anche i cani per rintracciarmi, ma in quel momento il pericolo non esisteva più e perciò non dovevo preoccuparmi.Dopo mezzodì per poco non venni scorto da alcune giovani che andavano alla cerca di funghi. Venivano a passo molto lento, tenendo lo sguardo a terra e volgendo quietamente la testa un poco a destra, un poco a sinistra, a seconda della probabilità di potere trovare dei funghi. Fu il canto di un fanciullo che stava con loro che mi pose all’erta. Quando giunsero quelle persone avevo la gavetta appesa al fuoco e le patate vi cuocevano dentro, ma fu un attimo, il recipiente venne levato dal suo gancio, versai a terra l’acqua bollente e sparii nel bosco.

Siccome ogni giorno, anzi pressoché ogni ora mi accade un fatto nuovo e sempre dissimile dagli antecedenti, ne viene che mi trovo abituato, quando vi ho posto rimedio non ci penso più, ammetto che non sia avvenuto, di modo che non influisce sull’animo.

Per questo motivo, alla sera, senza alcuna tema, con alcuna indifferenza passai tra un gruppo di case. Sulla via e davanti alle porte vi era ancora gente che discuteva; zittirono al mio passaggio e guardarono senza potere discernere chi fossi causa l’oscurità. Non ho potuto sapere che paese era quello, credo fosse Jagahs (Hagahs?).

3 agosto - Questo mese è anche favorevole pel fatto che vi è la raccolta dell’orzo e coi covoni il contadino forma le biche che dispone in lunghe file.

Sono tappato in una di queste e vi rimarrò fino a stasera tardi. Qui sotto si sta perfettamente bene e non potrei trovare un nascondiglio e un giaciglio migliore.

Ho dovuto levare le scarpe perché essendomi indurito il cuoio per il continuo camminare nel bagnato mi fanno male ai piedi. Non so cosa fare per vincere il dolore, ciò mi allarma ed inquieta.

Intanto osservo due bei leprotti, uno castano, l’altro grigio cenere. Certamente sono i medesimi che feci scappare stamane, si riunirono i due amanti. Quale differenza fra quegli animali e me! Loro sono protetti da una legge, da un divieto di caccia e di un’ammenda per chi osa ucciderli, per me invece la caccia è sempre libera ed havvi perfino istituito un premio di cattura.

Scorgo pure una nidiata di pernici condotta dai genitori; cammina in perfettissimo ordine sparso, proprio ad arco di ventaglio. Avrei desiderato vederle volare tutte insieme e a tale intento scossi un poco i covoni, ma non si alzarono, invece fecero presto presto adunata attorno al maschio, che con un piccolo grido le chiamò tutte a sé premurose e fidenti.

Lo fossimo noi pure in guerra così precisi ed ossequienti alla voce dei nostri capi, come quelle bestiole…

Mentre resto qui sotto non temo di nulla, ma quando alla notte accendo il fuoco sono sempre affrettato ed inquieto, temo di qualche sorpresa. Non potrei trovarmi senza avvedermene presso un’abitazione, venire approssimato da qualcheduno armato e richiesto chi sono, cosa faccio?

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Curioso il mio sistema di cucinare, tutt’affatto primitivo, veramente selvaggio. Adopero il metodo usato da fanciullo quando in fretta, durante le vacanze autunnali, coi fratelli e gli altri birichini facciamo cuocere le zucche e i fagioli tolti dai campi. Accesa la legna il vento ne alimenta la fiamma ed io un poco di qua e un poco di là l’attizzo.

Parmi di udire le note del Wagner quando descrive il fuoco nella Walkirie. Le legne, soffiandovi dentro, scoppiettano, mi sento ardere le guancie (sic), gli occhi lagrimano pel bruciore che mi reca il fumo; le mani nere e ruvide di terra e di carbone si affondano nel muschio umido e fino.

Pianto due pinoli ad ogni lato del braciere ed un terzo lo metto di traverso sulla loro sommità, nel mezzo di questo pongo un filo di ferro curvo ai due capi a forma si S prolungata di maniera che a sua volta può tenere sospesa la gavetta.

Questa contiene patate sbucciate e tagliate a fette ovvero viene riempita di fave o patate e fave insieme; vi verso l’acqua sino quasi all’orlo e quando principia a bollire introduco qualche pizzico di sale che tengo in un sacchetto di tela; le patate presto cuociono nell’acqua che bolle, tolgo col cucchiaio la schiuma rossiccia che si forma agli orli del recipiente e qualche pagliuzza e pezzettino di legno cadutovi dentro a caso.

Intanto, attratte dal chiarore della fiamma si approssimano le farfalle notturne; fanno dei giri concentrici che grado a grado vanno diminuendo di diametro, volano intorno a me che sto ginocchioni intorno ai legni ed alla gavetta: si abbassano sempre più finché si brucian l’ali e cadono tra le braci risplendenti.

Nel frattempo una quantità di moscerini e di zanzare non mi dà tregua con le loro punzecchiature, debbo grattarmi ininterrottamente e viso e mani.

La casa dei fiori bianchi, 5 agosto - Ieri sera nel bosco, mentre stavo sbucciando le fave, mi apparve un bel capriolo: era giovane e si approssima senza alcun sospetto brucando qua e là le foglie.

Trovai molto diletto ad osservarlo, infine quando riprincipiai a sbucciare mi scorse e fuggì oltremodo spaventato nel fitto degli alberi a balzi alti e lunghi onde evitare i numerosi sterpi che gli potevano intralciare il passo. Teneva le gambe esili e lunghe dritte ed unite come gli steli di quattro margherite; mi fece veramente ridere quel selvatico nel vederlo darsi a simile fuga precipitosa,

Stanotte poi, verso l’una, ho potuto trovare vicino ad una casa un pozzo.Vi era un’oscurità ed un silenzio profondo in quel luogo. Levatomi lo zaino ed

estratta la bottiglietta la calai nel pozzo per mezzo di un palo che stava di traverso sul parapetto, questo era fornito di un chiodo ad una delle estremità per potervi appendere il secchio.

Tra il pozzo e la casa vidi pure un cancelletto basso di legno e tra questo e quella un minuscolo giardino dove ho potuto scorgere nonostante l’oscurità molti fiori bianchi.

Ve ne saranno stati altri dei fiori, ma non ho potuto vederli quelli. In pensier mio diedi un nome a quell’abitazione e per rammentarmela e distinguerla dalle altre la denominai la casa dei fiori bianchi. Appoggiato coi gomiti tra le punte delle aste di quel cancello, col mento sulle palme delle mani, pensavo alla quiete ed alla pace che si doveva godere in quel luogo solitario, al contrasto che vi era tra la mia esistenza e quella delle persone che là dentro dormivano. In quel momento di contemplazione immaginai, anzi mi parve quasi di udire il respiro tranquillo di una giovine donna. Poiché quella casetta, pensavo io senza dubbio alcuno, non poteva appartenere che ad un animo gentile e quelle aiole stesse adorne di fioretti bianchi erano là ad attestarlo. La grazia e la beltà che appariva di fuori doveva pure fiorire nell’interno;

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questa tra qualche ora sarebbe uscita incontro alla bellezza del giorno, la sua voce bianca si sarebbe unita a quella degli uccelli ed al suono della campana.

Ripreso il cammino, il pensiero rammentava con compiacenza i tempi passati che la vista della casetta aveva fatti rievocare. Le idee scaturivano fuori e si avventuravano in un modo prodigioso.

Essendo gradite sembravano tutte attuabili, sì che il mio animo commosso e consolato alquanto dimenticava presto il tempo, il luogo e l’esilio.

Ma la stridula voce di un gufo ed una grossa radice che mi fece inciampare mi resero presto alla realtà delle cose e pensai che si può sognare anche vegliando.

Stamane poi mi è successo un bel caso. Si era fatto giorno e non avendo ancora trovato il luogo adatto onde rifugiarmi, temevo di essere visto da qualche persona che a quell’ora si recava al lavoro. “Piuttosto di proseguire mi sdraio sotto quei tronchi di abete,” pensavo “e se durante il giorno piove, pazienza, la prenderò”. In così dire, mi diressi a quella volta. Là vicino vi era anche una piccola baracca di legno che osservai accuratamente tutto intorno. Quella offriva una bella comodità, sarebbe stata la fenice degli alberghi ma era chiusa a chiave e d’altronde troppo comoda epperciò altrettanto pericolosa per me. Davanti a questa baracca passava un piccolo binario sistema Decauville e ad un centinaio di metri più giù vi erano parecchi carrelli e relativi vagoncini.

Il tutto denotava però il completo abbandono di ogni lavoro e di ogni cosa. I carrelli erano stati poi tolti dal loro binario e rovesciati ed i vagoncini quasi tutti capovolti al suolo. “Qui sotto non si dovrebbe stare male anche se piove” pensavo guardando uno di quelli, il più lontano dal binario, “confido in questo disordine, sono lontano dall’abitato e certo non verrà nessuno e se anche venisse qualcuno, come può immaginare che lì sotto si trova una persona?”. Decisi adunque di nascondermi sotto quella lamiera. Prima osservai bene intorno se mi vedeva nessuno, poi sollevai con fatica il vagoncino e vi spinsi dentro lo zaino; a stento sono passato pur io indi lo lascia cadere di nuovo al suo posto rimanendovi chiuso sotto.

Di fuori ogni cosa doveva apparire allo stato di prima. Ritirando a poco a poco le gambe, il corpo, le braccia, la testa da quel guscio di ferro, mi ero apparso come una mastodontica tartaruga e ridevo, ridevo da solo della mia bella trovata. Volto uno sguardo al mio nuovo appartamento mi accorsi che era completamente oscuro, ma rimediai subito anche a questo ponendo ad ogni angolo delle pietruzze o pezzettini di legno. In questo modo ebbi luce ed aria. Mangiai tutte le patate che tenevo perché lo stomaco mediante tale nutrimento avesse potuto avere più calorie e di conseguenza minore la probabilità di dovermi svegliare pel freddo; disposi poi ogni cosa e mi coricai con la testa sullo zaino ove trovai quasi subito sonno.

Dopo qualche ora venni svegliato da alcune voci che parlavano da vicino. Ma non temevo affatto in quel luogo, non volevo persuadermi che avrei potuto essere sorpreso, sebbene così nascosto e di conseguenza rimanevo là accovacciato, ma tranquillo.

Il freddo mi aveva intirizzito le membra, mi dolevano le ossa, tremavo come fossi sortito allora dal bagno ed i denti battevano al pari di un campanello elettrico.

Adagio adagio colla guancia a terra spiai fuori da quello spiraglio per osservare chi fossero e cosa facessero coloro che parlavano. Rimasi ben sorpreso e turbato quando li scorsi! Erano cinque uomini; non compresi quello che dissero ma dagli sguardi e dai cenni pensai che erano venuti per lavorare e che avrebbero messo i carrelli e i vagoni sui binari. Però c’era ancora un poco di speranza perché mi pareva di avere inteso dire che gliene occorressero solo quattro ed in questo caso, essendo da me

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scelto il più lontano ed inoltre completamente capovolto epperciò di più difficile trasporto, non avrebbero dovuto farne uso.

Ma fu breve questa speranza perché continuando ad osservare, ne vidi uno che accennò verso me.

“Maledizione” pensai o forse anche borbottai tra i denti che digrignai “proprio questo vengono a prendere, sono scoperto. Eccoli, vengono, vengono…”

“Qui” suggerii a me stesso quando vidi quelle sedici dita passar sotto, “bisogna far buon viso a cattiva sorte, perché non mi accada qualcosa di peggio. Nel medesimo istante che deliberavo ciò, il vagone veniva sollevato ed io rimasi allo scoperto.

Lesto saltai in piedi come quei fantocci-sorpresa che si comperano pei bambini che allorquando si leva il coperchio dalla scatola entro la quale sono compressi per gioco di una molla scattan su allegri e contenti come pasque. Tale certamente apparvi io a quegli stranieri.

Passato il primo momento di stupore tutti risero, che avrebbe potuto farne a meno scorgendomi in quel comico abbigliamento?

Sopra l’uniforme militare tenevo una blouse a righe, da contadino, di colore celeste ed in testa un cappellaccio di paglia.

Quegli stracci li avevo levati alcuni giorni prima da una croce piantata in un orto dove avevano servito da spauracchio. Il quadro era stato veramente esilarante!

Venni interrogato e risposi come potei, un poco coi cenni, un poco colle parole, queste mi riuscivano dure a strappare dalla lingua, più che un osso dei molari.

Dopo fui accompagnato in una baracca vicina, la medesima che avevo osservato al mattino se mi avesse potuto servire come luogo di riposo. Venni rinchiuso là dentro da quegli uomini, ma ebbero la dabbenaggine di tornare al lavoro senza disporre di rimanerne qualcuno di fuori a vigilare.

Visto che ero incustodito, ne approfittai subito naturalmente.Con un forte colpo di leva feci saltare la serratura, l’uscio si aprì e uscii di corsa,

non voltandomi più indietro nemmeno per osservare se era stato veduto e inseguito. Sono di lieto umore essendo la marcia della notte scorsa andata bene. Andata bene intendo dire perché non ho mai sbagliato via, ma non pel piede il quale mi fa sempre più male. Sono contento anche perché ripenso a quest’altra fuga riuscita così felicemente.

Saranno rimasti ben sorpresi quegli uomini quando avranno visto l’uscio spalancato e che lo spauracchio vivente non si trovava più dentro la baracca.

7 agosto - Non passa giorno senza che qualche cosa di nuovo e di inatteso mi accada. Ieri, appena dopo il ponte di Riederling, mi successe un altro caso, ma questo ripugnommi alquanto.

Venni scorto da tre contadini uno dei quali si era insospettito di me; avrebbe voluto avvicinarmi ed aveva fatto anche cenno che mi trattenessi, ma subodorato il vento infido feci comprendere che non avevo compreso.

Lo sconosciuto, visto ciò, si pose a gridare ed allora per tutta risposta, prima che quelli si approssimassero, lesto presi la corsa traverso il campo. Allora anche gli altri due si accostarono al primo e tutti uniti come tre bracchi tentarono di acchiapparmi. Non mi preoccupavo troppo di loro, sapendo di correre bastantemente per non essere raggiunto, però stavo attento avanti a me ed ai fianchi, riservandomi le forze per poterne fare uso migliore ammettendo che qualche altra difficoltà mi si presentasse. Allettati dalla speranza di una pronta resa, uno urlava come un carrettiere, ed un altro teneva levata la frusta coll’impugnatura in alto accennando di volermela calare sulla testa appena gli fossi capitato a tiro. Ma l’intervallo aumentava e la delusione era

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prossima. Avevo già corso un bel tratto giù pel campo e m’imbattei in un fosso. Saltai di là. Entrato poi in un bosco di giovani abeti tra quelli mi strappai e viso e mani e vesti.

Dopo ho attraversato il binario di una ferrovia ed una straduzza e poi finalmente mi fermai, parte perché non ce la facevo più, parte pel fatto che mi volevo assicurare se ero ancora inseguito e se nessuno intorno mi aveva visto correre. Per fortuna non vi era alcuna persona, mi rappacificai un poco e proseguii nel cammino a passo lento ma lungo. Però il fatto di essere cacciato ed inseguito in quel modo mi disgustò alquanto e anche adesso, contrariamente alla deliberazione presa, non posso allontanare dalla memoria il pensiero che mi turba.

Vi è anche il piede che mi fa grattare il capo, quello è il malanno più grave; sembra diventi grosso e si allunghi nella scarpa come una vescica rimpinzata d’aria. Qualche volta cammino a piede nudo, ed allora mi trovo più in agio, ma quello è un sollievo momentaneo, la rugiada rinfrescando le piaghe li vivifica e così più acuto è il dolore quando sono costretto a rimettermi la scarpa. Non ho mai avuto i piedi così, proprio adesso una siffatta molestia mi sopravviene.

8 agosto - Cammino, le ombre delle piante mi inseguono come dei fantasmi silenziosi, l’orecchio è attento e lo sguardo si rivolge a destra verso la costellazione dell’orsa minore dove è la stella polare. Sono sempre vigilante ed irrequieto, il passo stesso è soffice ed appena appena lascia dietro si sé un piccolo solco nell’erba rugiadosa. Ogni rumore, ogni voce o strido mi fanno temere, mi fermo ed attendo ovvero cerco l’oscurità più folta tra gli alberi.

Le notti sono quasi sempre stellate: vedo un guizzo, un arco di luce vivissima cadere a precipizio e sparire; è una stella che si distrugge.

Cammino. Apro il sentiero tra i cespugli alti di ginepro e mi porto sopra un tronco ferroviario, ne seguo la linea per essere più certo di non sbagliare, poi passo sopra un ponte di ferro. Sotto vi è un canale e vedo scorrere l’acqua lucente; la vista di quella mi desta ancor di più la volontà di dissetarmi. Sdrucciolo giù per la riva aggrappandomi ad un ramo, mi curvo verso la corrente e bevo. Dopo aver bevuto, riempio anche la bottiglia indi salgo di nuovo la ripa, attraverso la strada, torno nei prati.

Infine più tardi, stordito e stracco, mi lascio cadere sul terreno appoggiandomi col dorso ad un abete senza muovermi né scrollarmi più.

“Dove sono?” mi chiesi qualche tempo dopo, quando mi svegliai da quella specie di torpore. La luna e le stelle si erano allontanate dal luogo dove le avevo lasciate, tenevo freddo, la camicia imbevuta di sudore era diventata diaccia. Per scaldarmi un po’ pesto i piedi sul terreno, poi rimetto lo zaino. Cammino cammino. Ecco un lume, certo è un casolare, là forse una mamma veglia alla cuna del suo bambino; poi lontano lontano un punto oscuro che nell’approssimarsi si allarga sempre più. Deve essere una foresta di abeti. Vorrei vedermi già dentro e più in là, prima ancora di arrivare, entrerò nel folto di quel luogo e cucinerò.

Odo molto fracasso, mi fermo sui due piedi attento. È un grosso ramo secco che scricchiola staccandosi dal tronco e che nella caduta schianta gli altri minori e li traina con sé.

Mi risolvo di stabilirmi là per tutto il rimanente della notte. Col nuovo giorno mi appiatto in un nascondiglio più favorevole che mi protegga dal vento, dall’acqua e dagli uomini.

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8 agosto - Quale situazione e quale costernazione è la mia. Mentre cammino parlo da solo, quasi grido, faccio dei movimenti bruschi, trinciando per aria dei gesti di dispetto, levo le mani al cielo, mi batto la fronte e le lascio cadere penzoloni indicando le scarpe che sono la causa del malanno. Nulla trovo che tenga rimedio a queste contrarietà. Non so digerire la collera, mi parrebbe di volermi graffiare il petto per l’ira.

Il giorno stà (sic) per finire e considero quale è la sorte che mi attende con questo piede che non più mi sorregge, ma debbo trascinare con me.

Forse nuovamente mi pentirò della risoluzione che sto per prendere e mi dirò che fu un atto di debolezza poiché avrei dovuto continuare ugualmente, così come potevo.

Ma si può procedere quando tutto è ostile, quando ogni altro sacrificio riesce vano ed il tempo e la pioggia non concedono tregua e raddoppiano gli affanni?

Ore 10 – Ormai sono rassegnato, tristemente rassegnato; il compito è stato superiore alla mia volontà e non spero più in me.

L’animo fu troppo baldanzoso e fidente nella buona fortuna.

Hannover 11 (agosto) - Dalla finestra in cui mi trovo scorgo una parte della cupa città. Vedo eretta nella piazza Waterloo la colonna che commemora la vittoria riportata dai prussiani contro le truppe di Napoleone.

Alla mia sinistra, seduto sopra uno sgabello colla testa reclinata sulle braccia incrociate sonnecchia un sergente del 101 reggimento di fanteria francese. Esso pure evase dal suo campo per volere passare in Olanda e di là, se fosse riuscito, in Francia; ma venne fermato e condotto qui, che da quindici giorni attende la sua pena e soffre, soffre la fame.

Il giorno nove, dopo aver distrutto tutto ciò che mi poteva fare aumentare i giorni di punizione, dopo aver gettato via il cappellaccio, la giubba celeste, lo zaino, la gavetta e parecchi altri oggetti, uscii dal bosco e mi condussi su una strada.

Là attesi che giungesse la persona adatta al caso mio per potermi presentare. Vidi infatti venire una bambina che si dirigeva verso Wunstorf, tenendo un cesto al braccio. Quando le feci cenno che si approssimasse essa si volta indietro credendo che io volessi parlare ad altri e rimase ben sorpresa nel capire che era proprio lei che attendevo. Anche quella piccina deve ricordarsi per molto tempo di me.

Mi feci condurre ad uno stabilimento di concimi chimici che si trovava vicino. Qui vi erano dei prigionieri belga e francesi costuditi (sic) da soldati tedeschi. Questi ultimi mi condussero subito nel fabbricato ove fui interrogato ed alla sera venni tradotto qui ad Hannover e messo insieme a questo sergente.

Dormiamo sopra un tavolaccio stretto e massiccio arredato da due uniche coperte vecchie e polverose.

La broda che ci si dà ripugnerebbe ad un cane eppure noi la divoriamo. Sembrerà che ecceda nel mio dire, ma non esagero mai e la parola è appropriata. Il pane è nero, contiene segatura di legno e non è affatto bastante. Non posso pulirmi né mutarmi i panni perché privo di ogni cosa, epperciò sono sudicio e pezzente.

Visto che cammino malamente, avvisarono il medico che venne. Mi fece lavare e fasciare il piede gonfio; col riposo le due piaghe guariranno e sarò mandato a Scheuen ove verrò interrogato e mi si comunicherà la punizione che dovrò scontare. Penso di non più lottare contro questa mia situazione infelice; sarebbe un volermi tormentare vanamente e inasprire senza frutto le sofferenze morali e materiali

Non mi darò in preda ad altre meditazioni, lascierò (sic) ogni pensiero di fuga, colla tregua lo spirito affaticato e bisognevole di quiete, chissà che si decida a pazientare e

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attendere la pace che ristabilirà ogni cosa e mi darà il mezzo di riabbracciare i cari lontani.

Settembre 10 - Un mese giusto di punizione mi fece scontare il colonnello tedesco. Gli amici procurarono a provvedermi pane e libri, tanto da passare il tempo meno triste di quello che avrei trascorso senza di essi. In seguito fui informato che mentre mi conducevo fuori la vita vagabonda tra i boschi, qui accadevano altri fatti comicissimi che mi riguardavano e che resero al mio nome un poco di popolarità tra gli ufficiali del campo.

Il 31 luglio, giorno della mia fuga, l’ufficiale tedesco che condusse i compagni alla passeggiata non poté accorgersi che ne mancava uno, poiché il numero di coloro che erano usciti corrispose a quanti ne entrarono. Per due giorni dopo la mia partenza, agli appelli del mattino e della sera i colleghi fecero in modo che risultassi presente, creando un’apposita confusione tra le file e rispondendo per me quando veniva pronunziato il mio nome dal tedesco incaricato di fare l’appello. Tutto ciò per evitare le immediate ricerche e perché nello stesso tempo trovavano soddisfazione di potersi burlare dei tedeschi.

La cosa avrebbe continuato in tale modo se un altro fatto sopravvenuto non facesse scoprire la fuga.

Parecchi ufficiali stavano lavorando ad una galleria che partiva da un’altra baracca e quasi il lavoro stava per finire quando i tedeschi, che erano già in sospetto per la scoperta della prima vigilavano e infatti la notte del 2 agosto piombarono improvvisamente in quel luogo e passarono sotto il pavimento ove trovarono che quieti e senza alcuna tema attendevano al lavoro. Avvenne un tumulto, un putiferio, vi fu un fuggi generale.

Si udirono:

“diverse lingue orribili favelle, parole di dolore accenti d’iravoci alte e fioche e suon di man con elle…5

Pochi si salvarono e gli altri vennero presi e condotti alle prigioni ove li trovai quando io pure vi giunsi. All’indomani un sordo malcontento vi fu per tutto il campo, l’appello venne fatto con diligenza ed io risultai mancante.

Siccome era stato accertato che la galleria non aveva ancora lo sbocco che arrivasse al di là del reticolato, per i tedeschi risultava evidente il fatto che io non fossi sortito la notte antecedente, ma bensì nascosto nel campo per tema di essere maltrattato e punito. I compagni miei ci trovarono piacere a coltivare questa loro persuasione e lo facevano nei modi più burleschi e differenti. Successero scene da sbellicarsi dalle risa.

Quando poi i tedeschi fecero fiutare al cane il mio pagliericcio e le coperte per poi condurlo sotto le baracche in cerca di me, fu un vero divertimento per tutti.

Aprirono brecce nei muri, segarono le tavole per fare delle botole e scendere sotto i pavimenti, rovistarono ogni angolo al chiaror di lanterne chiamandomi ad alta voce. Il colonnello tedesco infliggeva rimproveri ai suoi dipendenti, pretendendo che io venissi scovato. Questi intensificarono le ricerche e gli amici miei con audacia e genialità imbrogliavano la matassa che si faceva arruffata oltre ogni dire.

Colle punte delle baionette mi cercarono persino sotto le cataste delle fascine. Un giorno, provvisti di picconi e badili, fecero cadere la volta dalla galleria, con altro

5 Vedi Dante, Divina Commedia. Inferno, canto III vv. 25-27

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terreno nuovo livellarono il piano e poi se ne andarono. Un italiano più balordo degli altri, tracciò su quel terreno una enorme freccia e davanti a questa, in direzione della galleria, scrisse a lettere grandi il mio nome, volendo far credere (e ciò non era inverosimile) che fossi rimasto asfissiato e seppellito sotto. Poi sul terreno smosso da poco sparse dei fiori deposto in forma di corona. Finalmente, sia perché conobbero di essere presi a gabbo dagli italiani, sia perché stufi di tanto inutile lavoro, smisero ogni ricerca.

Queste cose, ripeto mi furono riferite rientrando nel campo; risi ben di gusto nell’apprenderle e così ancora oggi ripensando a quelle corbellature così ben sostenute e ben riuscite.

Wildemann, novembre - Tutti quelli che evasero dal campo di Scheuen e che furono ripresi vennero internati qui a Wildemann, nello stato dell’Oberharz.

Con quel vento che spirava adesso in Germania, tenere nel campo degli elementi turbolenti non doveva essere cosa prudente.

Saremmo stati capaci di sobillare anche gli altri. Ma quel che doveva succedere avvenne ugualmente senza di noi, poveri untorelli, che non avevamo altra intenzione che quella di andare alle nostre case.

L’impero germanico non è più, il militarismo disfatto.È stata proclamata la repubblica… siamo i vincitori!L’Austria è in sfacelo, le truppe austro-tedesche, concluso l’armistizio, si debbono

ritirare da tutti i fronti; il mondo stupefatto assiste ad avvenimenti straordinari che la storia non ha registrato mai. Sono contento oltre ogni dire, non mi sacrificai inutilmente ed osservo con compiacenza che i soldati d’Italia passano vincitori attraverso i luoghi dove ho combattuto parecchi anni orsono, in Albania e in Francia e penso che non più direbbe il Poeta:

“o patria mia vedo le mura e gli archie le colonne, ma la gloria non vedo”e non più dimostrerebbe il rammarico perché“in istranie contradepugnano i tuoi figlioli, Italia mia”.6

p. 263 bisdisegno con treno che imbocca la via del ritorno in Italia.

Sono partito non per spirito militare ma per tutto ciò che suona in antipatia, per rendere soccorso alle vittime, per appoggiare il bon diritto contro la forza bruta, da qualunque parte si riveli e questo sempre e ovunque. La collera e il dispetto contro tutto ciò che è prepotenza li concepii nelle aule scolastiche, osservando i monumenti che ornano la mia città, leggendo la nostra storia. È giunta l’ora di sbarazzare le nazioni e il mondo da coloro che lo inquietano e l’affaticano. Verranno deposte le armi, ma non l’idea né il pentimento e si veglierà acciò simili sciagure non si ripetano a danno dell’umanità

p. 265 bis - disegno con penne e inchiostro con parola fine, sullo sfondo la data:

1918, 4 Novembre

6 Leopardi, All’Italia

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Nota del curatore

Qui termina il diario. C’è da chiederci come mai Albini non abbia parlato del ritorno: non una parola, non un cenno.

Forse è meglio così, forse lo stesso si è rifiutato di toccare uno deglii aspetti più vergognosi di questa guerra, ovvero l’avversione dei Comandi militari italiani nei confronti dei prigionieri. Vediamo di ricostruire quanto successo.

Nel novembre del 1918 finisce la guerra e dal 20 dello stesso mese i prigionieri sono liberi di tornare. Sì, ma come?

Gli Austriaci li liberano subito (sarebbe il caso di dire che li abbandonano a se stessi) e i soldati sono allo sbando.

Assistiamo a colonne di soldati che, a piedi, raggiungono i confini della “patria” e a migliaia sono ammassati in centri di raccolta al confine, soprattutto nella zona di Trieste o di Vipiteno.

Proprio gli accenni alla restituzione immediata dei prigionieri italiani in Austria fu una delle cause per cui i detenuti di Celle (e di altri campi germanici) dovettero aspettare lunghi periodi di tempo, in certi casi fino al gennaio 1919, per poter rientrare in patria. I servizi di vigilanza austriaci infatti si affievolirono o cessarono subito dopo l’armistizio, complice lo sfacelo dell’Impero, e così torme immense di soldati si riversarono spontaneamente verso le frontiere, spesso a piedi o con mezzi di fortuna. Per evitare nuovamente tali ingorghi, e gestire nel frattempo i prigionieri già rientrati, fu l’Italia stessa che fece in modo di ritardare il rientro dei detenuti in Germania, accordandosi col governo tedesco affinché il loro ritorno avvenisse per scaglioni, dilazionato nel tempo.

Ma come venne vissuta, a Celle, la notizia delle fine della guerra?Inizialmente ci fu un’euforia generale, com’è facile comprendere. Poi, però di

fronte al passare del tempo gli animi cominciarono a perdere le speranze. A complicare le cose ci si mise anche la rivolta dei marinai tedeschi che, occupate le navi e i luoghi principali con bandiere rosse, resero ancor più difficile la situazione. Soltanto verso Natale iniziarono le prime partenze e gli ultimi lasciarono Celle a metà gennaio del 1919.

Il primo blocco di prigionieri partì il 21 dicembre: erano 750 e furono scelti per sorteggio. Il viaggio di ritorno seguì un itinerario tortuoso, sconfinando in Francia poi in Svizzera.

Il Governo italiano non li voleva... Diaz, addirittura, propose di inviarli in campi di concentramento in Libia, ma poi

questa ipotesi tramontò e si scelse di utilizzare i luoghi in cui erano stati tenuti prigionieri gli austriaci. Viene fatto obbligo a tutti coloro che rientravano di presentarsi anziché a casa, nei centri di raccolta più vicini per essere nuovamente… internati.

La maggior parte di questi centri si trovavano in Emilia e in Toscana, soprattutto a Livorno.

Perché questo astio?I prigionieri erano considerati traditori veri e propri.D’Annunzio li definisce “imboscati d’oltralpe”. Chi tiene il diario di prigionia non manca di sottolineare, nel viaggio di ritorno,

l’accoglienza festante degli abitanti della Svizzera, in netto contrasto con quanto troveranno in Italia.

Ecco cosa scrive uno dei prigionieri.

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Arriviamo a Basilea con le finestre tutte imbandierate…una compagnia schierata ci rende gli onori…nel salone della stazione tavole imbandite con signorine della CR che servono in tavola con cortesia…Alle porte dell’Italia, finalmente! Domodossola. Un plotone di fanteria ci impedisce di scendere, mangiamo in piedi sul treno e si sente un “vigliacchi”.7

Un ulteriore affronto questi soldati dovettero subirlo con gli interrogatori. In sostanza dovettero ammettere che erano dei felloni, che erano stati fatti prigionieri per colpa loro e per mancanza di coraggio e, soprattutto, non dovevano emergere sentimenti critici verso le autorità, in primis quelle militari. Guai, poi, se emergevano sentimenti di vago sapore socialista…

La vicenda degli interrogatori dei prigionieri si concluse definitivamente il 2 settembre 1919, quando un’amnistia promossa dal nuovo governo Nitti (succeduto ad Orlando) scagionò buona parte degli accusati di diserzione, circa 40.000 dei 60.000 che erano detenuti e l’estinzione di 110.000 processi sui 160.000 in corso. Tale provvedimento venne attuato anche per stemperare il malcontento che gli ex detenuti nei campi stranieri avevano sviluppato verso le istituzioni. Venne inoltre completata la smobilitazione dell’esercito. Insieme all’amnistia cominciò un processo pubblico nei confronti della conduzione della guerra (e sull'opportunità della partecipazione ad essa): le colpe del Comando Supremo cominciarono così a venire a galla, mettendo però di conseguenza in ombra le, ormai secondarie, responsabilità di esso verso il caso dei prigionieri. Il riordino dell’assetto dell’esercito nel dopoguerra, una volta scaricate le colpe di Caporetto su Cadorna, venne comunque affidato a quegli stessi uomini che lo condussero in guerra, come Diaz, e perfino Badoglio, uscito immeritatamente indenne dalla Commissione, addirittura nominato Capo di stato maggiore dell’esercito.

Forse perché discutere a fondo e realisticamente la guerra, avrebbe voluto dire rischiare di arrivare ad una condanna della classe dirigente italiana!

7Dal diario di Angelo Rognoni in Anni- Perrucchetti, op. cit., p. 194


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