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0. Premessa Parte 1 Le prime ricerche: il problem solving Parte 2 ...

Date post: 30-Dec-2016
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0. Premessa Parte 1 Le prime ricerche: il problem solving 0. Premessa 1 1. I bambini di fronte ad un problema aritmetico privo dei dati numerici: come si orientano nella scelta dei dati e delle strategie risolutive 3 2. I modelli concettuali di ‘problema’ nei bambini della scuola elementare 10 3. Il ruolo del contesto e della domanda nel problema espresso in forma verbale 23 4. Il ruolo delle convinzioni nella risoluzione di problemi 34 Parte 2 Esplorando… 0. Premessa 1 1. Un’esperienza cruciale: il corso di recupero (da ricercatore e insegnante a ricercatore-insegnante) 4 2. Le altre esperienze 13 Parte 3 Verso una teoria per le difficoltà in matematica 0. Premessa 1. Alcuni riferimenti importanti (il quadro teorico?) 2.Quali difficoltà? 3. L’opzione ‘catalogo’ per una teoria sulle difficoltà 4. Contesti, obiettivi, convinzioni 5. Una definizione di difficoltà, ovvero: dall’opzione ‘catalogo’ ad una teoria per le difficoltà Parte 4 Dalla teoria alla pratica 0. Premessa 1. Riconoscere il fallimento 2. Individuare i comportamenti fallimentari 3. Interpretare i comportamenti fallimentari 4. Conclusioni, problemi aperti, direzioni future 5. Spunti per il dibattito sulla formazione del ricercatore (la consegnerò a Pisa)
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0. Premessa

Parte 1Le prime ricerche: il problem solving

0. Premessa 11. I bambini di fronte ad un problema aritmetico privo dei dati numerici:come si orientano nella scelta dei dati e delle strategie risolutive

3

2. I modelli concettuali di ‘problema’ nei bambini della scuola elementare 103. Il ruolo del contesto e della domanda nel problema espresso in formaverbale

23

4. Il ruolo delle convinzioni nella risoluzione di problemi 34

Parte 2Esplorando…

0. Premessa 11. Un’esperienza cruciale: il corso di recupero (da ricercatore e insegnantea ricercatore-insegnante)

4

2. Le altre esperienze 13

Parte 3Verso una teoria per le difficoltà in matematica

0. Premessa1. Alcuni riferimenti importanti (il quadro teorico?)2.Quali difficoltà?3. L’opzione ‘catalogo’ per una teoria sulle difficoltà4. Contesti, obiettivi, convinzioni5. Una definizione di difficoltà, ovvero: dall’opzione ‘catalogo’ ad unateoria per le difficoltà

Parte 4Dalla teoria alla pratica

0. Premessa1. Riconoscere il fallimento2. Individuare i comportamenti fallimentari3. Interpretare i comportamenti fallimentari4. Conclusioni, problemi aperti, direzioni future

5. Spunti per il dibattito sulla formazione del ricercatore(la consegnerò a Pisa)

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1. Le prime ricerche: il problem solving 1

1Le prime ricerche: il problem solving

0. PremessaIn questa prima parte ripercorro le ricerche che gradatamente mi hanno portato a pormi il problemadelle difficoltà, e ad affrontarlo come illustrerò nella seconda parte.Il primo gruppo di ricerche cui farò riferimento è costituito da 4 lavori sul problem solving a livellodi scuola elementare e media, e precisamente:1. I bambini di fronte ad un problema aritmetico privo dei dati numerici: come si orientano nellascelta dei dati e delle strategie risolutive2. I modelli concettuali di “problema” nei bambini di scuola elementare3. Il ruolo del contesto e della domanda nel problema espresso in forma verbale4. Il ruolo delle convinzioni nella risoluzione di problemi

Nel 1998 ho pubblicato questi lavori (apparsi a suo tempo sulle riviste L’insegnamento dellamatematica e delle scienze integrate, La Matematica e la sua didattica, Studi di Psicologiadell’educazione), in un volume della Pitagora dal titolo Problemi e convinzioni.Già nell’introduzione di quel volumetto sottolineavo alcuni temi che ho scelto come centrali perquesto seminario:

“Ritengo che il maggior fascino del nostro lavoro sia la possibilità che ci dà ogni ricerca diosservare e di interpretare con nuovi strumenti, e quindi in modo rinnovato, la stessa realtà: perquesto una ricerca che si conclude apre piuttosto nuovi problemi e nuovi interrogativi. È unprocesso teoricamente senza fine, vivendo il quale apprendiamo e (quindi) cambiamocontinuamente, e nel quale ha un ruolo cruciale la dimensione emotiva. Le decisioni cheprendiamo continuamente in questo processo (cosa osservare, come osservare, come interpretare irisultati osservati, come mettere alla prova tale interpretazione) sono infatti decisioni fortementepersonali, influenzate certo dalle conoscenze, ma anche dalle convinzioni e dai valori che abbiamo,e dalle emozioni che proviamo.Questo percorso, al di là dei risultati che produce, caratterizza un qualsiasi processod’apprendimento (e quindi anche d’insegnamento): ogni processo d’apprendimento significativoprovoca cambiamenti nel modo di vedere la realtà, e porta molti più interrogativi che risposte. Equesti interrogativi spingono a loro volta alla ricerca di risposte, in un percorso continuo eaffascinante di crescita, in cui d’altra parte la dimensione emotiva ha un ruolo centrale.Molte difficoltà in contesto scolastico, difficoltà degli allievi ma anche degli insegnanti, sonodovute a mio parere proprio ad una scarsa consapevolezza e valorizzazione della dimensionetemporale ed emotiva del processo d’insegnamento - apprendimento. In particolare la capacità diriconoscere / formulare / risolvere problemi, ritenuta a ragione sempre più importante in un mondosoggetto a continui e veloci cambiamenti, richiede due requisiti fondamentali: l’investimentoemotivo che fa nascere un progetto, e la possibilità di spostarsi mentalmente nel tempo (futuro epassato) che caratterizza le fasi di risoluzione strategica di un problema, cioè l’anticipazione ed ilcontrollo, oltre che l’azione.

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1. Le prime ricerche: il problem solving 2

Il confronto fra quello che si era PRIMA e quello che si è diventati DOPO un’esperienzad’apprendimento può costituire allora uno strumento per acquistare consapevolezza delladimensione temporale di tale esperienza, e, dando il senso del lavoro fatto, per motivare al lavorofuturo.In questa ottica, se anche alcuni aspetti delle singole ricerche che ho scelto di presentare “colsenno di poi” appaiono o appariranno ingenui o datati, l’aspetto dinamico del percorso di ricercache le ha prodotte, una dopo l’altra, l’importanza dei processi decisionali e la loro strettaconnessione con gli aspetti emozionali, testimoniano comunque la dimensione temporale edemotiva di un processo di conoscenza che, come dice Polanyi1, non può che essere personale.”

Come dicevo, sono in fondo le stesse sollecitazioni che mi hanno spinto ad accettare di fare questoSeminario, e ad organizzarlo in questo modo.E’ naturale quindi che nel presentare questo primo gruppo di ricerche attinga principalmente a queltesto.

Per motivi di spazio ho tagliato in modo drastico tutti i lavori2, selezionando le parti piùsignificative rispetto al tema del Seminario, che non sono necessariamente le parti più significativenel contesto dei lavori stessi.In particolare ho ridotto notevolmente le parti introduttive, le conclusioni, ed i risultati, mentre horisparmiato la descrizione della metodologia. Le parti che ho lasciato sono riportate fedelmente daltesto del ’98, e di fatto quindi dagli articoli originali.Per evidenziare il legame fra una ricerca e l’altra, e per permettere di cogliere il percorso di ricercanel suo complesso, ho inserito all’inizio di ogni parte una breve premessa. Si tratta quindi di pezziscritti ‘col senno di poi’: per mettere in evidenza lo stacco temporale e logico li ho chiamati‘Ripensando…’, ed ho utilizzato un carattere tipografico diverso.La decisione più delicata è stata quella relativa all’esplicitazione del quadro teorico, e ai riferimentialla letteratura. Ho scelto di evitare ripetizioni, e di inserire quindi i riferimenti al quadro teoricosolo quando questi non comparivano già esplicitamente nelle ricerche precedenti: ho selezionato inun certo senso una serie di istantanee cruciali del quadro teorico nei vari momenti. Queste istantaneea volte le ho lasciate come erano originalmente nel testo (ma solo quando questo non appesantiva lalettura con inutili ripetizioni), altre volte ho preferito inserirle in forma modificata e più snella nellapremessa ‘Ripensando…’.

Per motivi di spazio tutti i riferimenti bibliografici di questa parte e delle successive (molto ridottirispetto alle versioni originali degli articoli) sono stati raccolti in fondo.

1 “La conoscenza personale è un impegno intellettivo e come tale è essenzialmente rischiosa.(…)Ho mostrato che in ogni atto di conoscenza entra un contributo appassionato della persona che conosce ciò che vieneconosciuto, e che questa componente non è un’imperfezione bensì un fattore vitale della conoscenza.“[Michael Polanyi, La conoscenza personale, pag. 70]2 Nel caso di ‘I modelli concettuali …’, che era all’origine di 40 pagine, questo ha significato purtroppo eliminaremoltissime risposte dei bambini e alcuni paragrafi interi.

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1. Le prime ricerche: il problem solving 3

1. I bambini di fronte ad un problema aritmetico privo deidati numerici: come si orientano nella scelta dei dati e dellestrategie risolutive.*

0. Ripensando…All’epoca di questo primo lavoro avevo ottenuto da poco il posto di ricercatrice a Pisa, dopo 13anni di attività diverse: borsa di studio a Bologna in un settore estraneo alla didattica(abbandonata per poter insegnare), insegnamento nella scuola media inferiore (senza aver mai unaclasse ‘normale’: doposcuola, sostegno, corsi per lavoratori). Avuta l’opportunità di rientrareall’Università come ricercatrice, avevo dovuto prendere servizio a Bologna, ma ero finalmenteconvinta che quello era il mio lavoro, e che volevo fare ricerca in didattica a Pisa. Nel 1987 hoottenuto il trasferimento a Pisa: nonostante i primi anni di Università li avessi seguiti lì, nonconoscevo nessuno e non avevo la più pallida idea di come si fa ricerca in didattica. Findall’inizio mi interessavano di più problemi di tipo trasversale piuttosto che legati a contestispecifici: e quale attività più trasversale in matematica di quella di risoluzione di problemi? Deiproblemi mi intrigava il fatto che, a tutte le età, in tutti i tipi di scuola, un problema dividesse ilmondo in due: chi lo sapeva fare, e chi non lo sapeva fare. Mi interessavano quindi i processirisolutivi, ma non capivo come si potessero studiare. Mossa da queste curiosità ho cominciato aleggere qualcosa: le prime letture sono state naturalmente gli italiani (Borasi, 1984; Boero, 1986;Mostacci, 1987), non necessariamente matematici (il primo libro che ho letto sui problemi è stato‘La soluzione di problemi’, di Mosconi e D’Urso, del 1974), e poi da quelli i primi ‘stranieri’ (Lesh,Lester, e soprattutto l’articolo ‘sovversivo’ della Nesher, del 1980). E’ proprio nel libro diMosconi che trovo un lavoro di Rimoldi del 1960, ‘Problem solving as process’: il metodo descritto(lì utilizzato per insegnare a studenti universitari di medicina come effettuare una diagnosi medica)mi sembra originale e particolarmente adatto proprio per studiare i processi risolutivi.In quel periodo era visitatore a Pisa il professor E. Fishbein della School University di Tel Aviv: lechiacchierate con lui in rumeno (lui) – italiano (io), con l’eventuale traduzione della moglie, mihanno insegnato moltissimo sull’impianto della ricerca dal punto di vista metodologico.

1. Il problemaLa ricerca si propone di indagare, a tre diversi livelli di età, sulla capacità di individuare i datiessenziali di un problema peraltro standard.Il concetto di dato essenziale richiede però una precisazione: può accadere, infatti, che alcuneinformazioni, non rilevanti per la risoluzione del problema, siano però essenziali per un certosoggetto nella fase di costruzione del problema stesso (Nesher, 1980).In altre parole un’indagine sulla capacità di individuare i dati essenziali di un problema presupponeche per il bambino esista già il problema, mentre molti insuccessi nel processo di risoluzione sonoin realtà dovuti proprio alla mancata “penetrazione della situazione problematica” (Boero, 1986).3Ecco allora la necessità di analizzare più in generale quale tipo di comportamento hanno i bambinidi fronte ad una struttura problematica priva di dati numerici: se e come utilizzano la libertà di cuidispongono per costruire e risolvere un problema in modo consistente.In particolare ci interessa individuare:- Quali dati i soggetti richiedono;- A quale tipo di problema scolastico fanno riferimento;

*L’articolo, scritto in collaborazione con E. Fischbein, è stato pubblicato su L’insegnamento della matematica e dellescienze integrate, vol. 12, n.9, 1989.3 P.Nesher (1980) parla di “pragmatic deep structure of the problem”.

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- Se i soggetti, una volta scelti i dati, li utilizzano tutti;- Se infine, una volta risolto il problema che essi stessi hanno contribuito a

definire chiedendo i dati, sono in grado di modificarlo, adattando ilprocedimento seguito ad una situazione nuova.

Per questo tipo d’indagine naturalmente era indispensabile una metodologia che permettesse albambino una notevole libertà di scegliere e di operare al di fuori degli schemi scolastici, econsentisse al ricercatore un’analisi approfondita dei comportamenti dei soggetti, che fosseesauriente cioè non solo riguardo ai risultati finali, ma soprattutto ai modi di pervenire a talirisultati.

2. Metodo.Nella nostra indagine abbiamo volutamente utilizzato un testo avente la struttura di un problemaaritmetico standard di scuola elementare, in cui mancavano però dati numerici (fig.1).

FIG.1: Il testo del problema.

Leggi il seguente problema:ProblemaPer fare dei panini ho comprato in uno stesso negozio pane, prosciutto, formaggio.Quanto ho speso per prosciutto e formaggio insieme?

Tale testo è stato presentato in due versioni differenti: una versione libera, ed una con cartellini.

I. Versione libera.In tale versione i bambini erano riuniti in gruppi formati da un massimo di otto soggetti.Ogni bambino riceveva un foglio con il testo del problema (v. fig.1) e due consegne:1. doveva chiedere per iscritto all’insegnante presente le informazioni di cui

aveva bisogno per risolvere il problema: tale persona rispondeva quindialle domande poste scrivendo sullo stesso foglio i dati richiesti;

2. doveva risolvere il problema.

Data la situazione piuttosto nuova per i bambini e dato che ai fini della ricerca interessava che tutti isoggetti avessero ben chiara la consegna, questa veniva ripetuta, se necessario, più volte, anche asingoli bambini individualmente.Il limite di tempo per la prova era di 20 minuti.

II. Versione con i cartellini.In questa versione è stato usato un metodo illustrato da J.Rimoldi nel lavoro “Problem solving as aprocess” (1960).Ne riportiamo la descrizione originale:“Si propone al soggetto una breve formulazione del problema che egli deve risolvere e gli sisottopongono una serie di domande, fra cui egli sceglie quelle che considera necessarie e sufficientiper giungere alla soluzione giusta.Per la formulazione del problema si usano schede mobili contenute in tasche piatte, parzialmentesovrapposte, sistemate in modo regolare su una cartella. Sul lato visibile sono scritte le domandeche il soggetto può fare - una domanda per scheda - e la risposta corrispondente è scritta sul retrodella scheda stessa. Ciascuna scheda (item) viene numerata e lo sperimentatore o il soggettoregistrano le domande poste e alla fine scrivono su un pezzo di carta la soluzione raggiunta. Ilsoggetto decide da solo quali schede scegliere e quando è il momento di non chiedere più altre

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schede; non gli vengono mai dati suggerimenti per orientarlo verso la soluzione giusta.”

FIG.2. Fronte e retro del primo cartellino.

aQuanti etti diformaggio hai

comprato? 3

_______________________________________________________________

In questa versione il problema veniva proposto ad ogni soggetto individualmente. Questi dovevaleggere il testo (che era anche in questo caso quello illustrato in fig.1), quindi lo sperimentatore glichiedeva:“Sapresti risolvere questo problema?”Solo quando il bambino riconosceva l’impossibilità di trovare la soluzione, vista l’assenza di datinumerici, lo sperimentatore gli mostrava gli undici cartellini (v. fig.3), stendendoli sul tavolo dallaparte delle domande (sempre in ordine alfabetico) e spiegandogli che ogni cartellino recava sul retrola risposta corrispondente.Veniva quindi data la consegna:- il bambino doveva leggere tutte le domande riportate sui cartellini e

scegliere quelli che gli servivano per poter risolvere il problema;- doveva quindi girare i cartellini, e avendo a disposizione i dati che aveva

scelto come essenziali, risolvere il problema.

Anche in questo caso il limite di tempo, di fatto mai raggiunto, era di 20 minuti, ma al bambinoveniva raccomandato di procedere con calma.

In ambedue le versioni, quella libera e quella con i cartellini, veniva proposta un’ulteriore domandaai bambini che avevano risolto correttamente il problema utilizzando solo due dati, vale a dire, conla simbologia dei cartellini cui faremo d’ora in avanti riferimento, con le strategie:h + i costo del prosciutto + costo del formaggiof – l spesa totale - costo del pane

I. Nella versione libera veniva consegnato un secondo foglio e veniva data la seguente consegna:“Immagina di non poter chiedere i dati che hai usato prima. Riusciresti a risolvere il problema inun altro modo, chiedendo cioè altre informazioni? Procedi quindi come prima: chiedidirettamente all’insegnante le informazioni necessarie, e risolvi il problema.”II. Nella versione con i cartellini venivano semplicemente levati i due cartellini usati (h e i, oppure fe l) e veniva data al bambino la seguente consegna:“Riesci a risolvere il problema usando solo questi cartellini? Procedi come prima: scegli icartellini che ti servono, quindi girali e risolvi il problema.”

3. Soggetti.Ogni versione è stata proposta a 60 bambini di quarta elementare, ad altrettanti di quinta elementaree di prima media.L’indagine ha coinvolto quindi 360 bambini, per un totale di 26 classi e 13 scuole.

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FIG.3: Gli undici cartellini utilizzati. Accanto ad ogni cartellino, a destra dellafreccia, è riportato il numero scritto sul retro.

aQuanti ettidiformaggiohaicomprato?

3

bQuanti etti

diprosciutto

haicomprato?

2

cQuanti

panini haicomprato? 12

dQuantocosta unetto di

prosciutto?3600£

eQuantocosta unetto di

formaggio?1300£

fQuanto hai

speso intutto? 13500£

gQuanto tiha dato di

resto ilnegoziante?

1500£

hQuanto haispeso per ilprosciutto? 7200£

iQuanto haispeso per ilformaggio? 3900£

lQuanto haispeso per il

pane? 2400£

mQuantocosta unpanino? 200£

Più in particolare:- 9 classi di quarta elementare, distribuite in 5 scuole;- 8 classi di quinta elementare, distribuite in 5 scuole;- 9 classi di prima media, distribuite in 3 scuole.Ogni classe veniva divisa in due gruppi in base all’iniziale dei cognomi dei bambini: il primogruppo (rispetto all’ordine alfabetico di tali iniziali) lavorava sulla versione libera, il secondo sullaversione con i cartellini.

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4. Risultati

4.1 La capacità di individuare i dati essenziali del problema.[Le tabelle che seguono mettono in evidenza quanti sono i soggetti che chiedono solo i datiessenziali.]

TAB. 2: Individuazione dei dati essenziali. 4

Versione libera:

chiedono solo i dati essenziali chiedono anchealtri dati (%)

h, i (%) a, e, b, d (%) f, l (%)4a el. 50 0 0 505a el. 50 5 3,3 41,71a media 26,7 3,3 5 65

Versione con i cartellini:

chiedono solo i dati essenziali chiedono anchealtri dati (%)

h, i (%) a, e, b, d (%) f, l (%)4a el. 16,7 5 0 78,35a el. 23,3 10 0 66,71a media 23,3 1,7 0 75

Globalmente la tabella ci dice che sono meno della metà (a parte il caso: 5a elementare, versionelibera) i soggetti che hanno richiesto esattamente i dati essenziali del problema posto.Osserviamo però che la capacità di individuare i dati essenziali presuppone che il soggetto abbia giàcostruito una situazione problematica e che abbia inoltre il concetto di dato essenziale, cioè di datonecessario per fissare la soluzione: tale concetto manca invece nei bambini che pensano al datocome elemento descrittivo della situazione problematica.

4.2 Le strategie.Passiamo ora ad analizzare come i dati richiesti vengono utilizzati, in altre parole quali strategiemettono in atto i soggetti.

TAB.5: Le strategie

Versione libera:

corrette (%) errate (%) non risponde (%)4a elem. 53,3 31,7 155a elem. 78,3 16,7 51a media 56,6 41,7 1,7

4 Esistono in realtà anche altri gruppi di dati essenziali, quali (h, a, e) ecc., che però non sono mai stati scelti nelcorso dell’esperienza.

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Versione con i cartellini:Corrette (%) errate (%) non risponde (%)

4a elem. 31,7 68,3 05a elem. 51,7 46,6 1,71a media 41,6 55 3,4

Interessante ci sembra l’analisi delle strategie errate.Si riconoscono nell’analisi dei protocolli alcuni errori ricorrenti, e più precisamente:�costo del prosciutto + costo del formaggio + costo del pane

in simboli: h+i+l�costo unitario del prosciutto + costo unitario del formaggio

in simboli: d+e con la variante d+e+m�quantità di prosciutto + quantità di formaggio

in simboli: a+b con la variante a+b+c

(…)Le strategie riportate si pongono naturalmente a livello diverso: si passa come si è detto da un erroresostanzialmente di lettura, a uno (d+e) in cui si sommano costi unitari senza preoccuparsi dellequantità, e infine a uno (a+b) in cui addirittura si sommano quantità per avere un costo totale.

Al di là delle ovvie valutazioni in merito, ci sembra importante sottolineare che tali diversi livelli dierrore comportano da parte dell’insegnante interventi di recupero sostanzialmente differenti: èfondamentale in altre parole che l’insegnante sappia non solo che un alunno sbaglia, ma anchecome sbaglia.(…)Abbiamo cercato di analizzare le strategie errate, cercando per ognuna di esse delle motivazioni giàritrovate nelle strategie corrette. È chiaro però che accanto a strategie errate, ci sono anchefenomeni in cui si combinano numeri a caso: una impressione a livello qualitativo è che talifenomeni siano più contenuti quando è il bambino stesso a dover scegliere i dati. In particolare (equesto invece si può ricavare dai dati della tabella 7) sono più limitati nella versione libera che nellaversione con i cartellini.

4.3 La capacità di individuare dati alternativi e strategie alternative.Abbiamo detto che in ambedue le versioni veniva proposta un’ulteriore domanda ai bambini cheavevano risolto correttamente il problema utilizzando solo due dati, vale a dire:costo del prosciutto + costo del formaggio h + icosto totale – costo del pane f – l

Per tale domanda abbiamo quindi un totale di:- 46 prove in 4a elementare: 32 nella versione libera

14 nella versione con i cartellini- 64 prove in 5a elementare: 41 nella versione libera

23 nella versione con i cartellini- 51 prove in 1a media 30 nella versione libera

21 nella versione con i cartellini

Per avere una visione globale di quanti soggetti hanno risposto correttamente alla seconda domanda,abbiamo evidenziato nella tabella 9 le percentuali di risposte corrette, espresse sul campione totale

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1. Le prime ricerche: il problem solving 9

iniziale:

TAB. 9: Risposte corrette alle due domande

versione libera (%) versione con i cartellini (%)4a elem. 15 105a elem. 26,6 201a media 11,7 21,7

(…)I dati quantitativi ci sembrano piuttosto preoccupanti: risulta, infatti, che la capacità di risolvere unproblema in modo critico, attivo, che permetta di adattarsi a situazioni modificate, è patrimonio diuna minima percentuale di bambini.

5. ConclusioniIl metodo presentato ha permesso di analizzare i comportamenti dei soggetti e di non fermarsi allasemplice constatazione di un successo o di un fallimento della prova proposta.Abbiamo visto infatti che sia una prova positiva che una negativa possono in realtà nasconderelivelli di comprensione e di errore differenti, che d’altra parte è indispensabile conoscere se sivogliono programmare interventi di recupero adeguati.

Abbiamo constatato inoltre come il proporre ai bambini un problema diverso da quelli di routine, ed’altra parte più vicino per caratteristiche strutturali ai problemi reali, abbia messo in evidenzaimportanti carenze a livello di capacità di individuazione di dati, di pianificazione di strategie, dicomprensione del valore di un’informazione, di adattamento a situazioni modificate.

Molti bambini non procedono in modo lineare, secondo le tappe:- lettura del testo;- individuazione dei dati;- pianificazione della strategia;- soluzione.La nostra ipotesi è che essi affrontino il problema “combinando” in qualche modo TESTO, DATI, ecerti SCHEMI RISOLUTIVI che hanno interiorizzato nella loro esperienza scolastica.(…)

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1. Le prime ricerche: il problem solving 10

2. I modelli concettuali di “problema”nei bambini della scuolaelementare*

0. Ripensando…Il quadro teorico intanto si era allargato: ancora Nesher(1980) , ma poi Lesh (1981), Schoenfeld(1987), Kilpatrick (1987).Scoprivo così che la ricerca internazionale aveva evidenziato una netta frattura fra problemi reali eproblemi scolastici a livello di processi risolutivi.Gli esempi riportati erano molto efficaci (e sempre gli stessi…):P. Nesher (1980) riferiva che molti bambini cui viene chiesto “Quale sarà la temperaturadell’acqua in un recipiente se ci metti una caraffa d’acqua a 80° F e una a 40° F?” rispondono“120° F”. Se però agli stessi bambini viene posto il problema reale “Come diventa l’acqua se inun recipiente metti acqua calda e acqua fredda?” essi rispondono: “Tiepida.”Schoenfeld (1987) riportava le risposte di studenti statunitensi al seguente problema:«Un camion dell’esercito può portare 36 soldati.Se bisogna trasportare 1128 soldati alla loro sede d’addestramento, quanti camion occorrono?»Il 29% dei 45.000 studenti interpellati risponde “31 col resto di 12”, e il 18% arrotonda a 31.Kilpatrick (1987) riferiva che in una ricerca del 1983 furono presentate a bambini di età compresafra i 5 e i 12 anni storie senza domanda di questo genere: “Il signor Lorenz e 3 colleghi partono daBielefeld alle 9 e viaggiano per 360 km fino a Francoforte, con una sosta di 30 minuti.”Nonostante la domanda non ci fosse, la maggior parte dei bambini più grandi ottenne in qualchemodo un risultato.

Da un punto di vista generale le conclusioni della ricerca precedente si limitano quindi a confermarequanto gli studi sul problem solving, ad ogni livello e in ogni paese del mondo, hanno da tempo messo inevidenza: i comportamenti messi in atto dai bambini (ma anche da soggetti adulti) nella risoluzione diproblemi scolastici appaiono spesso irrazionali. In particolare in questo caso abbiamo evidenziato che lamaggior parte dei bambini coinvolti nell’indagine (fine scuola elementare / inizio scuola media) pare nonriconoscere i dati essenziali e comunque non risolve il problema dato.Fin qui l’osservazione dei comportamenti.Questa osservazione non è un processo neutrale: nel decidere cosa osservare, e come osservare, ilricercatore (o più in generale colui che osserva) prende una serie di decisioni impegnative esoggettive, anche se spesso inconsapevoli. Ma all’osservazione segue un processo ancora più“personale”, che è quello dell’interpretazione dei comportamenti osservati.Dal punto di vista didattico tale interpretazione è fondamentale per intervenire in modo mirato con ilsingolo soggetto, utilizzando l’errore come informazione preziosa per ri-orientare il lavoro dell’alunno (maanche quello dell’insegnante). Nel nostro caso in particolare la metodologia utilizzata (quella dei cartellini)porta l’attenzione sui processi risolutivi, consentendo così di andare al di là dei prodotti sbagliatievidenziati, e favorendo quindi un’ipotesi di interpretazione degli errori fatti. Naturalmente è importanteche l’insegnante sia consapevole di lavorare su un’ipotesi, e che sia quindi disponibile a rimetterla indiscussione, utilizzando il feedback continuo che proviene dall’interazione con l’alunno. D’altra parte nonè la validità o meno dell’ipotesi che deve interessare l’insegnante: il suo obiettivo è realizzare, in qualchemodo ma in quella classe, con quei soggetti, in quel momento, il processo di insegnamento / apprendimento.Anche dal punto di vista teorico i comportamenti osservati sono suscettibili di diverse interpretazioni, ma lanecessità di prescindere da aspetti contingenti, l’impossibilità di interagire direttamente con i soggetti, indefinitiva gli obiettivi diversi che ricercatore e insegnante si pongono, conducono per ogni interpretazionead ulteriori ricerche, indagini, verifiche.

* L’articolo è stato pubblicato in L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate, vol.14, n.7, n.9, 1991,vol.15, n.1, 1992.

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1. Le prime ricerche: il problem solving 11

Così l’ipotesi piuttosto generale che abbiamo proposto nelle conclusioni - che i bambini affrontinoil problema combinando in qualche modo testo, dati, e certi schemi risolutivi che hannointeriorizzato nella loro esperienza scolastica – porta ad ulteriori domande.Perché tali schemi risolutivi sono così lontani dai processi risolutivi attivati nella risoluzione deiproblemi reali? Questo infatti è un elemento fondamentale e ricorrente negli studi di variricercatori e di vari paesi: lo stesso bambino che a scuola mette in atto comportamenti tali da farpensare a risposte casuali, è spesso in grado di mettere in atto processi risolutivi consistenti eanche raffinati quando si trova davanti ad un problema reale. Non si può allora liquidare ilproblema ipotizzando semplicemente che quel bambino non ha le conoscenze, o addirittura che nonha le capacità.Ma ancora:Come nascono questi schemi risolutivi?E a quali schemi interpretativi sono associati?L’ipotesi generale si fa più fine: ai processi risolutivi così diversi nei due casi (problemi scolastici /problemi reali) corrispondono schemi interpretativi diversi. In altre parole i bambini “vedono” ilproblema scolastico come qualcosa che non ha niente a che fare con i problemi reali.Questa ipotesi richiede un’ulteriore indagine, più mirata, che permetta di rispondere alladomanda:Come “vedono” i bambini i problemi reali? E i problemi scolastici?Ed è questo l’oggetto della ricerca che segue.

1. Il problema(…)La frattura fra problemi reali e problemi scolastici a livello di processi risolutivi da un lato, el’attenzione riconosciuta al ruolo di fattori non cognitivi e metacognitivi dall’altro, ci porta in modopiuttosto naturale a chiederci se è possibile evidenziare analoghe fratture a livello di PROCESSID’APPROCCIO.Fra gli aspetti non cognitivi evidenziati precedentemente, appaiono allora particolarmentesignificative le convinzioni, cioè il modo in cui i bambini vedono la matematica, e nel nostro caso inparticolare l’attività di risoluzione dei problemi.La ricerca si propone di indagare sulle convinzioni che hanno i bambini di scuola elementare suiproblemi, affrontando in particolare due questioni:- quale modello concettuale di problema reale hanno i bambini della scuola

elementare;- quale modello concettuale di problema scolastico.

2. L’indaginePer comprendere quale concetto di problema hanno i bambini della scuola elementare sono statescelte tre domande:

A: Fai un esempio di problema.B: Che cos’è per te un problema?C: Cosa ti fa venire in mente la parola «problema»?

In modo poco preciso (anche perché non sempre i bambini rispondono sullo stesso piano in cui èposta la domanda) potremmo dire che tali formulazioni presuppongono il coinvolgimento di sferediverse: cognitiva (A), metacognitiva (B), affettiva (C).La scelta di questi diversi punti di vista non è casuale, ma mira ad avere un quadro il più espressivoe completo di come i bambini vedono il problema, e quindi anche delle eventuali differenze a livello

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concettuale fra problema “reale” e problema scolastico, che giustifichino i differenti comportamentiche i bambini mettono in atto nei processi risolutivi.

3. SoggettiOgni domanda è stata posta a un campione di 50 bambini per ogni classe dalla prima alla quintaelementare, per un totale di 750 bambini:

classe 1a classe 2a classe 3a classe 4a classe 5a TOTDomanda A 50 50 50 50 50 250Domanda B 50 50 50 50 50 250Domanda C 50 50 50 50 50 250TOTALE 150 150 150 150 150 750

Le scuole coinvolte nell'indagine sono state 6 (del comune di Livorno) per un totale di 43 classi:- 9 classi prime;- 9 classi seconde;- 8 classi terze;- 8 classi quarte;- 9 classi quinte.

4. MetodologiaIl foglio con la domanda veniva distribuito in classe ad ogni bambino e quindi compilato in miapresenza. Alcuni bambini avevano la domanda A, altri la B, altri la C. Non venivano posti limitidi tempo.L’insegnante di classe veniva pregata di non intervenire: i bambini dovevano rivolgere a mequalsiasi richiesta di chiarimento, senza farla sentire ai compagni.Nelle prime classi naturalmente la metodologia adottata è stata differente: i bambini venivanochiamati uno per volta in un’altra classe, dove veniva loro posta la domanda (A, B, o C). Va detto aquesto proposito che la domanda iniziale veniva successivamente modificata, se il bambinodimostrava di non comprenderla: questo proprio perché le diverse formulazioni non erano fini a sestesse, ma erano intese a una maggiore conoscenza delle idee e dei pensieri dei bambini. In ognicaso i protocolli riportano fedelmente tutti i passi delle conversazioni.

5. L’analisi dei protocolliDalla lettura approfondita e incrociata dei protocolli si ricava un’impressione globale piuttostocompleta di come i bambini vedono i problemi.I tentativi di definizione che troviamo nelle risposte di tipo B (“Che cos’è per te un problema?”)diventano molto più chiari ed espressivi se letti alla luce delle risposte di tipo C (“Che cosa ti favenire in mente la parola PROBLEMA?”).D’altra parte gli esempi (domanda A) forniscono ulteriori strumenti per comprendere quello che inrealtà i bambini intendono, al di là dell’eventuale incompletezza o ambiguità delle altre risposte.Per fornire allora un quadro il più possibile organico dei dati emersi dall’indagine, ho scelto diprocedere per punti (v. figura 1), analizzando le informazioni che su singole questioniparticolarmente importanti si possono ricavare da tutte le risposte, privilegiando le considerazioni dicarattere qualitativo ma anche facendo richiamo a molti protocolli.Tali protocolli sono riportati fedelmente, perché credo che la presenza di errori ortografici e/osintattici e di altri particolari (l’uso del carattere stampatello piuttosto del corsivo, ecc.) possafornire una chiave di lettura più completa: le uniche modifiche eventualmente apportate sono l’usodel grassetto per evidenziare alcune parti, o addirittura lo stralcio di alcune frasi. Ogni protocollo èseguito da una sigla: il primo numero (da 1 a 5) indica la classe, il secondo (da 1 a 150) il numero

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progressivo del protocollo all’interno della classe, la lettera finale il tipo di domanda (A, B, o C).Per non appesantire il discorso le analisi quantitative ritenute più significative sono rimandate alletabelle in appendice o alle note.Ho ritenuto opportuno trattare a parte il caso delle classi prime, sia per la diversa metodologiaadottata (l’intervista invece del questionario), sia perché i problemi riportati in quel caso sonoesclusivamente problemi “reali”, data la mancata esperienza di problemi scolastici.

5.1 Problema «reale» e problema scolastico.Nel corso dell’indagine molti bambini, dopo aver letto la domanda, chiedevano: «Ma vuoi direproblemi di scuola o gli altri?».Eppure dai protocolli questa perplessità non appare: sono pochi (21 su 600) i bambini che sentonol’esigenza di riportare in qualche modo questa ambiguità iniziale, facendo esplicitamenteriferimento alla possibilità di interpretare in almeno due modi diversi la parola “problema”.

Dal nostro punto di vista i protocolli di questi bambini sono estremamente significativi: inparticolare è interessante analizzare se essi utilizzano due modelli concettuali differenti di problemaa seconda del contesto, oppure se si riferiscono ad un unico modello concettuale, e in tal caso glisforzi e le giustificazioni con cui arrivano a questa sintesi.

Il primo atteggiamento, corrispondente a due modelli nettamente distinti, è rappresentato conestrema espressività da 5.120 B:

«C’è un problema addosso alla gente, c’è un problema che si fa sul quaderno.»

5.105B mette in evidenza il ruolo del contesto per interpretare il significato della parola«problema»:

«Per me un problema è una preoccupazione, oppure un testo di matematica da risolvere,secondo che in che discorso si mette questa parola.»

(…)

Il secondo atteggiamento, che fa riferimento ad un unico modello concettuale di problema, validosia per il problema scolastico che per quello reale, richiede alcune puntualizzazioni.Il problema scolastico infatti può essere ricondotto al modello concettuale di problema reale inalmeno due modi diversi, a seconda che si concentri l’attenzione:a] sulla problematicità della situazione in cui si trova il soggetto/solutore (l’allievo) che deve dare

una risposta e trova delle difficoltà;b] oppure, nel caso di problemi simulazione di problemi reali, sulla problematicità della situazione

(«reale») in cui si trova il soggetto protagonista.

Nel primo caso appare chiaro come il problema che si attiva nel bambino risponde all’obiettivo“dare una risposta”:

«mi fa venire in mente problema di una storietta corta dove finita la storia bisogna risolverlae quando non riesco a concentrarmi sul problema mi immagino sempre: ecco perché l’hannochiamata problema.» [4.14 C]

«Un esempio di problema può essere quello di un problema di matematica che non miriesce.» [5.39 A]

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Nel secondo caso c’è un coinvolgimento in una situazione problematica di cui non si è protagonisti,e il problema attivato nel bambino è (se si attiva) “come risolvere tale situazione problematica”.Riportiamo tutti i protocolli riconducibili a questo tipo di atteggiamento (solo 3 su 600!):

«Per me un problema (in matematica) è un problema di una persona però da risolvere innumeri (........).(.....) e invece in italiano un problema è così: la mamma le casca il passeggino e il bimbo si famale. Questo per me è un problema in italiano.» [3.18 B]

«Una persona che deve sistemare 40 bottiglie su due scaffali in parti uguali deve calcolare epoi mettere la somma; all’inizio per questa persona era un problema.» [3.122 B]

«Secondo me un problema è una difficoltà che delle persone possono avere, e noi attraversoun testo dobbiamo risolverlo.» [4.22 B]

Mi sembra notevole lo sforzo di ricondurre in questo modo il concetto di problema matematicoscolastico a quello più generale di problema: penso che questo tipo di approccio possa risultaremolto produttivo nell’attività di risoluzione dei problemi per evitare alcune tipiche patologie, ma suquesto tornerò nelle conclusioni.

6. Il problema scolasticoDalla lettura e analisi dei protocolli che si riferiscono esplicitamente al problema scolastico emergeun quadro piuttosto completo e articolato di come i bambini vedono tale problema: differenti tipi elivelli di risposte (corrispondenti in genere, ma non sempre, alle diverse formulazioni A, B, C)danno il loro contributo alla costruzione di tale quadro, attraverso definizioni, esempi, e altri tipi dicaratterizzazione, alcuni legati più alla sfera affettiva che cognitiva.

6.1 Gli elementi caratteristici del problema scolasticoQuali sono per i bambini gli elementi caratteristici del problema scolastico? Cercheremo dimetterlo in evidenza analizzando prima i protocolli di tipo B e C riconducibili a definizioni eassociazioni, e poi gli esempi (protocolli A).

6.1.1 Definizioni e associazioniLe definizioni esplicite identificano per lo più il problema scolastico con una struttura linguisticaformale, caratterizzata da un testo in cui sono presenti numeri:

«Per me un problema è una scritta dove ci sono i numeri.» [2.35 B]

«È una storia che si fa in matematica.» [2.98 B]

«Per me un problema è un tema di matematica.» [3.118 B]

Tale testo non viene ulteriormente caratterizzato: in particolare è interessante notare come pochibambini sentono l’esigenza di evidenziare esplicitamente fra le caratteristiche la presenza di unadomanda o di una richiesta (troveremo conferma di questo in alcuni esempi):

«Secondo me il problema e un insieme di parole con scritti dei numeri. C’è un soggetto, unazione. Il problema e un problema che ci chiediamo noi attraverso la domanda.» [4.45 B]

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Le definizioni esplicite però sono decisamente una minoranza, anche fra i protocolli B5.Il problema viene caratterizzato dai più attraverso il tipo di procedura che mette in atto per larisoluzione: viene cioè definito implicitamente dalla necessità di eseguire operazioni.Tale tipo di definizione diventa più frequente nelle ultime classi:

(…)«Per me un problema è dove bisogna pensare a se dividere, moltiplicare, addizionare,togliere i seguenti numeri» [4.47 B]

«Per me un problema è una domanda da risolvere con un operazione.» [4.123 B]

«Per me un problema sono delle operazioni in successioniLe dobbiamo trovarle, ragionando con il proprio cervello» [5.41 B]

(…)

6.1.2 Esempi.L’analisi dei protocolli relativi agli esempi (domanda A) conferma pienamente il modelloconcettuale di problema scolastico evidenziato ai punti precedenti.Gli esempi inoltre caratterizzano ulteriormente tale modello, rendendo espliciti alcuni elementi chenon emergono dalle definizioni (com’è fatto più in dettaglio il testo, cosa rappresentano i numeri inesso presenti, ecc.6).Riprendiamo per maggior chiarezza due definizioni:

«Secondo me il problema e un insieme di parole con scritti dei numeri. C’è un soggetto, unazione. Il problema e un problema che ci chiediamo noi attraverso la domanda.» [4.45 B]

«Un problema è una cosa da risolvere attraverso operazioni Matematiche. Può esserecostruito da qualsiasi oggetto di ogni forma e dimensione. Può essere grande o piccolo.»[3.125 B]

Tali definizioni offrono a mio parere una chiave interpretativa estremamente efficace per la letturadei protocolli A.Ritroviamo infatti in tutti gli esempi:- alcuni elementi strutturali: la presenza di una situazione, e di dati numerici

caratterizzanti alcuni elementi di tale situazione;- alcuni elementi variabili: il tipo di situazione, i protagonisti, gli oggetti, i

dati numerici.La variabilità di ogni singolo elemento appare solo in parte soggetta a vincoli di relazione con glialtri elementi, di modo che è come se il bambino attingesse, per ogni elemento variabile, a unrepertorio di possibilità, senza preoccuparsi di coordinare tali scelte, se non a livello linguistico.Così il protagonista può essere la mamma, il negoziante, il bambino, ecc., gli oggetti possono esseremele, caramelle, figurine, le azioni: comprare, perdere, togliere, dividere, e questa sostituzione

5 Su 95 protocolli B che si riferiscono al problema scolastico, solo 25 rispondono esplicitamente alla domanda “Checos’è per te un problema?”: 8 in seconda, 6 in terza, 8 in quarta, 3 in quinta.

6cfr. Vygotsky: “L’adolescente formerà ed userà un concetto abbastanza correttamente in una situazione concreta, matroverà stranamente difficile esprimere quel concetto a parole, e la definizione verbale sarà nella maggior parte dei casimolto meno completa di quanto ci si sarebbe potuto aspettare dal modo in cui egli usava il concetto.”

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appare locale, finalizzata non all’elaborazione di una struttura problematica significativa, enemmeno alla costruzione di una struttura narrativa consistente, ma alla riproduzione di un testoavente certe caratteristiche formali.Gli esempi quindi o riportano “storie” già viste con minime variazioni7:

«Mario a 10 funghi e Laura ne a 20. Domanda Quanti funghi ci sono in tutto?» [2.33 A]

(…)

oppure, laddove subentrano variazioni più evidenti, propongono per lo più “storie” scarsamenteplausibili, prive di coerenza interna.

(…)

Ma a mio parere il punto centrale, che permette di inquadrare e interpretare tutti questicomportamenti, è che sui 123 esempi di problemi matematici uno solo riporta una situazioneeffettivamente problematica:

«Un bambino ha 90 caramelle e le vuole divide per cinquanta bambini come deve fare?»[3.76 A]

La domanda finale scaturisce quindi come naturale esplicitazione dell’obiettivo relativo a talesituazione. Ma quando questo non avviene il ruolo della situazione descritta finisce per esserequello di fornire elementi corredati di dati numerici da combinare in funzione della domanda posta:

«La mamma di Davide va a fare la spesa e compra una scatola di uova che costa 1500£.Quanto costeranno 3 scatole di uova?» [5.25 A]

D’altra parte se questa è la funzione della situazione descritta, se i dati e la storia hanno l’unicosignificato di essere utilizzabili per rispondere a una domanda estranea, appare in particolareperfettamente comprensibile e coerente quanto osservato precedentemente relativamente alla scarsaplausibilità della storia e dei dati.È comprensibile anche il fatto che in alcuni protocolli delle prime classi l’eccessiva enfasi data allastoria e ai numeri, e lo scollegamento totale della domanda rispetto a tale storia, fa sì che manchiaddirittura tale domanda.Eloquente in questo senso il protocollo di 3.39, che per la quantità e la qualità dei fatti descrittiassume una connotazione addirittura patologica:

«Una bambina ha 124 fiochetti 50 si sono amuffati.Una sua amica la va a trovare e gliene regala 140.Nei giorni seguenti ne indossa 95 e si rompono.Sua madre ne prende 70 e le porta al lavoro.Suo fratello ne butta via 8 perche non gli piacevano.La bambina il giorno dopo ne compra 10 colorati di colori diversi.

7 Fra i personaggi i più frequenti sono la mamma (presente nel 17,8% degli esempi, contro una presenza del babbo del3,7%) e il bambino in prima persona (8,4%). Fra gli oggetti la parte del leone la fanno le caramelle (24%) seguite damele (11%), palline (8%), figurine (3%).

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Il giorno dopo che era il suo compleanno ne indossa 6 perché va in dei posti e compra 50vestiti, 4 fiocchi e 20 camicine.» [3.39 A]

Ma la domanda manca anche nel caso di “storie” meno complesse e confuse:

«La mamma ha comprato 20 cioccolatini e Daniele 6.Le hanno messe tutte insieme.» [2.20 A]

(…)6.2 Altri aspetti significativi.Al di là delle definizioni esplicite o implicite, i protocolli ci forniscono numerose informazionisugli atteggiamenti dei bambini nei confronti dell’attività di risoluzione dei problemi scolastici.L’importanza di tale tipo di informazioni è ormai unanimemente riconosciuta dai ricercatori che sioccupano di problem solving, ed è legata più in generale al riconoscimento che la dimensionecognitiva non è sufficiente per analizzare e interpretare certi fenomeni (Mayer, 1982; Lester,1987; Schoenfeld, 1987).

Gli aspetti che i protocolli permettono di evidenziare con maggior chiarezza riguardano:- quali funzioni riconoscono i bambini all’attività di risoluzione di problemi;- quali sono, secondo i bambini, gli atteggiamenti generali da mettere in atto

nell’attività di risoluzione di problemi;- come vivono i bambini tale attività.Il fatto che questi aspetti siano propri della dimensione metacognitiva spiega come mai leinformazioni ad essi relative ci vengano dai bambini delle ultime classi, quando cioè matura lacapacità di prendere le distanze da sé e in particolare dalla propria attività cognitiva.

6.2.1 Quali funzioni riconoscono i bambini all’attività di risoluzione dei problemi.Si notano essenzialmente due posizioni differenti:i) il problema viene visto come verifica delle proprie capacità o della

propria preparazione;ii) il problema viene visto come occasione di ragionamento o di

consolidamento di abilità8.

«Per me un problema è una cosa che bisogna saper risolvere.Un problema è un esercizio-prova per vedere se una persona ha afferrato l’argomento. «[3.42 B]

«La parola problema si ignifica prova di matematica» [3.67 C]

«Il problema per me è un quiz che serve per vedere che, sea capito quello che li annoinsegnato.» [5.17 B]

«Per me un problema è una serie di domande che formano un test, che serve per vedere lecapacità di un bambino.» [5.26 B]

«Per me un problema è come una prova di capacità, che serve per riconoscere l’intelligenzadel ragazzo o della ragazza.» [5.36 B]

8 Ambedue queste caratterizzazioni aumentano nelle ultime classi: le due posizioni si equivalgono comunqueperfettamente in ogni classe, esclusa la quarta, in cui prevale la funzione del consolidamento.

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«Per me un problema e una cosa che si fa a scuola per imparare a contare.» [2.28 B]

«Per me un problema è una aiutazione nei numeri e per il cervello di in parare» [3.114 B]

«Un problema per me è una cosa che ci fa esercitare sul ragionamento sulla matematica»[4.6 B]

(…)

6.2.2 Quali sono, secondo i bambini, i comportamenti da mettere in atto nell’attività dirisoluzione di problemi?Su questo punto le indicazioni dei bambini sono unanimi: bisogna leggere e rileggere il testo,ragionare, stare calmi e lavorare da soli.Ad una lettura più approfondita possiamo però riconoscere due atteggiamenti diversi, anche setalvolta difficilmente distinguibili: le indicazioni, le raccomandazioni date dall’insegnante in alcunicasi vengono recepite come suggerimenti per affrontare e superare con successo la risoluzione delproblema, e come tali vengono interiorizzate e quindi rese esplicite dal bambino nel momento didifficoltà, quasi il bambino avesse un insegnante “interiore” (Hirabayashi e Shigematsu, 1987),mentre in altri casi appaiono più come regole accettate passivamente, volte a soddisfare esigenzedell’insegnante stesso.

Espressivo il protocollo di 4.8 C, dove il bambino comincia cercando di tranquillizzarsi ripetendo leraccomandazioni della maestra, arriva però alla considerazione cruciale «se uno lo capisce bene,altrimenti non lo può più capire» e gli sforzi iniziali di non perdere la calma falliscono miseramente:

«Per me un problema è uno svolgimento di cui bisogna riflettere, pensare. Ed è anche unalezione che si svolge nel quaderno di aritmetica, la parola problema mi fa venire in menteuna cosa di cui ha bisogno di tempo, è una cosa che bisogna impegnarci capirla. Ilproblema è una cosa un po' difficile ma se un bambino mette bene i dati può capirefacilmente. Si certo è uno svolgimento che se uno lo capisce bene, altrimenti non lo può piùcapire.Per me la parola problema è una cosa difficile che mi fa sentir male.» [4.8 C]

(…)

6.2.3 Come vivono i bambini l’attività di risoluzione di problemi.L’identificazione piuttosto frequente vista in precedenza fra intelligenza e capacità di risolvereproblemi può avere conseguenze piuttosto rilevanti sui bambini, in particolare sul loro modo divivere l’attività di risoluzione di problemi.E infatti osserviamo che quei bambini che avvertono il problema come gratificante, lo fanno inquanto riescono a risolverlo senza difficoltà. Viceversa laddove subentrano difficoltà, l’attività dirisoluzione di problemi è sentita come frustrante, associata a sensazioni negative.Fanno eccezione solo i protocolli di 5.114 B e 5.122 B.Questo dato conferma anche come il concetto di problema scolastico che hanno i bambini sia moltopiù vicino a quello di esercizio che a quello di problema vero e proprio.

«Per me un problema è bellino perché si possono fare le operazioni e poi ci sono i voti»[3.118 B]

«Per me il problema è una parola da risolvere, certe volte difficile, certe volte facile, e mipiace, se lo sbaglio vuol dire che non l’ho risolto se non lo sbaglio vuol dire che l’ho risolto,secondo me è un indovinello che ci vuole un po’ a risolverlo ma poi ci riesco sempre, basta

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pensarci.» [4.2 B](…) «La parola problema mi fa venire in mente che non hai capito un problema» [2.41 C]

«Il problema è facile ma ha quelli che non sono tanti bravi non lo sanno fare.» [3.54 B]

«Per me un problema è una parola dificile perché ce da fare i conti abbastanza conti.» [3.123B]

«Per me un problema non è niente soltanto che quando faccio i problemi gli sbaio e questo mipreocupa perché fà preocupare anche i miei genitori e a me questo dispiace molto.Per me i problemi di classe secondo come sono gli so fare.» [4.5 B]

(…)

«Secondo me un problema è una cosa che si può facilmente svolgere anche essendo un po’noioso» [5.114 B]

«Per me un problema è molto difficile ma divertente.» [5.122 B]

7. Il problema “reale”La ricchezza dei protocolli che fanno riferimento al problema «reale» suggerisce analisi a diversilivelli: in particolare una lettura psicologica approfondita permetterebbe di ottenere informazionisulla sfera affettiva del bambino (quali sono i problemi dei bambini, come vivono i bambini iproblemi degli adulti, ecc.) mentre un’analisi linguistica particolareggiata metterebbe a fuocoalcuni aspetti rilevanti dell’uso del linguaggio (i vari tipi di definizioni, di esempi,...).

Sarebbe interessante approfondire tutti questi elementi, che concorrono a fornire una visione globaledel bambino, ma esigenze di spazio e di competenze ci spingono a circoscrivere l’analisi dellerisposte a quegli aspetti più legati all’obiettivo della nostra ricerca, cioè al rapporto problema“reale” / problema scolastico.

7.1 Le classi successive alle prime.Analizzando il concetto di problema scolastico che emerge dai protocolli A, B e C abbiamoriconosciuto una notevole omogeneità nelle risposte dei bambini: le differenze fra un bambino el’altro e le eventuali modifiche nel tempo sono limitate più che altro a scelte diverse nelle ulterioricaratterizzazioni.Questo non accade nel caso del problema “reale”: in particolare il significato che viene attribuito aquesta parola varia da bambino a bambino.Nel linguaggio comune la parola “problema” viene infatti usata in più accezioni. Dal nostro punto divista l’effettiva varietà di significati va valutata alla luce delle definizioni che caratterizzano inqualche modo l’attività di risoluzione di problemi in generale, e quindi di problemi matematici inparticolare. Riportiamo ad esempio una definizione classica, dovuta a Duncker (1935):

Un problema sorge quando un essere vivente ha una meta ma non sa come raggiungerla.

Possiamo riconoscere allora alcune classi di significati: s’intende che i significati di una stessaclasse, pur differenti fra loro, presentano però forti analogie nel modo di differenziarsi dalledefinizioni citate.Una classe molto frequente, soprattutto nelle risposte dei bambini più piccoli è quella che contiene i

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significati guaio/ incidente/ disgrazia9.Il problema appare in questo caso più che altro come la rottura di un equilibrio preesistente: ladifferenza sostanziale dalla nostra definizione riguarda il fatto che non viene definito esplicitamenteun obiettivo da raggiungere (anche se si può considerare obiettivo implicito il ripristino delprecedente equilibrio).

«Io sono caduto e piango.» [2.6 A]

«Una signora perde una borsa, E venuto un terremoto, Un incendio,Sono morte delle persone.» [3.25 A]

(…)

Una seconda classe appare invece quella corrispondente al problema come “situazione di disagio”10.Ancora non è esplicitato un obiettivo, ma la situazione si configura come situazione problematica:in altre parole siamo alle origini del problema.

«Un bambino camminava in un giardino dove trova un coniglietto affamato con due piccoliconigliettini che gli giravano in torno.Il bambino a paura e urlando chiama mamma vieni ad aiutarmi, e la mamma lo aiuta. »[2.94 A]

«Un giorno mia mamma mi diedde 2 milalire ma poi iele dovevo redere ma quando fu ilgiorno di riredere le 2 milalire non le avevo più perche io ci avevo giocato.Un giorno quando mia nonna mele diede io avevo l’intenzione di giocarci ma quando le videmia mamma mi disse:-Ora Francesa mele devi rendere disse-Perché dissi io-Ti ricordi dell'altra volta quando tele avevo date, ora te mele devi rendere.Era vero così liele ho ridate, ma la prossima volta non le chiderò più, perché mi stufa poiridarle.» [3.47 A]

«Fiorella a un problema.Il suo fratellino di due mesi di notte piange sempre e la sveglia.La mattina è stanca perché di notte non dorme.» [3.92 A]

(…)

Finalmente la classe dei significati in linea con la definizione data: c’è un obiettivo da raggiungere,e delle difficoltà per raggiungerlo11.

«Oggi la mamma deve andare a fare la spesa, io e Silvia siamo malate.Il problema è che mamma non sa con chi lasciarci.» [2.8A]

9 Questo significato è più frequente nelle seconde e nelle terze (si riscontra rispettivamente nel 31% e nel 48% deiprotocolli), mentre scompare quasi nelle quarte (4%) e nelle quinte (2%).10: Tale significato invece appare piuttosto irregolare: compare infatti nel 19 % delle seconde, nel 24% delle terze, nel13% delle quarte, nel 31% delle quinte(classi in cui si connota per lo più come disagio psicologico).11 Questa classe di significati appare piuttosto stabile nel tempo, a parte un calo notevole nelle terze (38% nelle seconde,12% nelle terze, 35% nelle quarte, 35% nelle quinte): c’è da osservare però in generale che nelle classi seconde e terzec’è un maggior numero di protocolli che non è possibile classificare con certezza.

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«Non parlare quando la maestra spiega.» [2.100 A]

«Catturare un bufalo» [3.6 A]

«Un bambino non sa contare e ha fatto una scommessa di contare le macchine che sono in ungarage pubblico» [4.115 A]

(…)

Rientra in questa classe di significati anche il problema visto come dubbio / incertezza / mancanzadi conoscenza:

«Scivi il problema?Come si fa nascere un babino.» [2.67 A]

«Che cosa significa la parola nacque?Quando un bambino o una bambina nascono.» [2.77 A]

«Nell’astuccio della mia amica Valentina c’erano due penne rosse, e tre penne blu.Ma Valentina non le aveva perse ma ce l’aveva in mezzo al quadernone della maestra Rita.»[2.93 A]

(…)

Un aspetto che qui non è possibile approfondire ma che emerge in modo evidente anche daiprotocolli riportati è la varietà delle risposte pur riconducibili ad uno stesso significato: c’è chiriporta esperienze particolari e chi ipotizza situazioni nuove, chi nel definire ha bisogno di riferirsi aesempi e chi è in grado di astrarre gli elementi strutturali.Voglio però sottolineare esplicitamente un elemento a mio parere centrale, su cui torneròampiamente nelle conclusioni: tutti gli esempi scelti dai bambini rappresentano problemi in cui ilsolutore è anche il protagonista della situazione problematica descritta.Ritengo che gli aspetti fin qui evidenziati possano influire sul modo di porsi di fronte ad unproblema di qualsiasi tipo.In particolare una accezione limitativa del termine, che non metta in evidenza l’esistenza di unobiettivo da conseguire (quale può essere quella di guaio/ incidente) o addirittura un atteggiamentodi chiusura precostituito (problema come difficoltà insuperabile) possono avere conseguenzenegative nell’approccio al problema scolastico, o proiettando tout court tali aspetti negativi, oimpedendo di inquadrare il concetto di problema scolastico in quello generale di problema: inquest’ultimo caso contribuendo a creare un modello concettuale separato basato più che altro sucaratterizzazioni formali.

E se è vero che i modelli di problema reale presi in considerazione col passare degli anni sembranofondersi in un unico modello più generale (grazie alle crescenti capacità di generalizzazione e dicontrollo dei propri processi cognitivi del bambino) è anche vero che il bambino entra in contattocon i problemi scolastici molto prima di aver raggiunto questa maturazione.

8. ConclusioniLe informazioni ricavate dalla lettura dei protocolli ci suggeriscono la seguente ipotesi:Nel corso della scuola elementare i bambini elaborano due modelli concettuali distinti eindipendenti di problema reale e di problema scolastico.In particolare:

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Nel caso del problema reale i diversi significati di problema che si riscontrano nel linguaggiocomune danno luogo a più modelli distinti. Tali modelli diversi, presenti già nei bambini di primaelementare, tendono poi con l’età ad unificarsi in una struttura più generale e stabile, consistente conle definizioni classiche di problema, in cui viene evidenziato un obiettivo e delle difficoltà araggiungerlo.Il problema reale viene ulteriormente caratterizzato dai bambini come problema in cui il solutore èanche il protagonista della situazione problematica.Dalla seconda elementare il bambino, entrando in contatto con i primi problemi scolastici, cominciaad elaborare un concetto di problema scolastico che appare indipendente da quello sopra descritto diproblema reale, e in particolare meno soggetto del precedente a differenze fra un bambino e l’altro ea variazioni nel tempo.Il problema scolastico viene chiaramente caratterizzato come una struttura linguistica avente certecaratteristiche (la presenza di dati numerici) e seguita da una domanda. Tale domanda nonscaturisce da una situazione problematica, e l’unico rapporto che ha con il contesto è quello dirichiedere l’utilizzazione dei dati numerici: la problematicità (quando c’è) è circoscritta alladifficoltà di rispondere alla domanda.

Alla luce di queste osservazioni appare chiaro come sia difficile per i bambini operare una sintesifra questi due modelli, e diventano quindi del tutto comprensibili le differenze, evidenziate nellapremessa, a livello di processi risolutivi.

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3. Il ruolo del contesto e della domanda nel problema espressoin forma verbale*

0. Ripensando…La ricerca precedente pare confermare che i bambini elaborano, attraverso l’esperienza scolastica,un modello di problema matematico scolastico fortemente dissociato da quello di problema reale,che costruiscono prima e indipendentemente da tale esperienza.Più precisamente nel caso del problema “reale” il contesto si caratterizza come una situazioneproblematica, nel senso che evidenzia la difficoltà a raggiungere un certo obiettivo: la domandanasce quindi in modo naturale dal contesto, anche se a partire dalla stessa situazione problematicasono possibili diverse formulazioni.Nel caso del problema scolastico, così come risulta caratterizzato dalla maggior parte dei bambinicoinvolti nell’indagine precedente, il contesto non si presenta di per sé come situazioneproblematica: la domanda finale è una fra le tante possibili, la cui unica relazione con il contestoconsiste nel richiedere l’utilizzazione dei dati in esso esplicitati.L’ipotesi avanzata – che a questi modelli diversi siano da ricondurre i processi risolutiviprofondamente diversi attivati nei due casi – non viene quindi smentita, e ancora una voltasuggerisce ipotesi più fini.La mancanza di un collegamento intrinseco fra contesto e domanda spesso osservabile neiproblemi scolastici standard fa sì che la comprensione del problema richieda, nel caso di taliproblemi, la piena comprensione del significato della domanda, senza che il bambino si possaappoggiare al “senso” della situazione descritta. Nel caso reale, invece, il bambino può cogliere ilsenso del problema anche a prescindere dalla domanda finale. Ma allora il fatto che un problema presenti le caratteristiche del problema reale sopra descrittedovrebbe facilitare il processo di comprensione e quindi di soluzione.E allora, se nella formulazione di un problema verbale agiamo su alcune variabili legate alcontesto in modo da richiamare nel bambino schemi interpretativi diversi – una volta di problemareale, una volta di problema scolastico standard - ci aspettiamo di osservare nei due casi processirisolutivi diversi.

È questa l’idea alla base della ricerca successiva: proporre ai bambini testi di problemi che nondifferiscano per la struttura matematica (la cui soluzione richieda cioè più o meno le stesseconoscenze e le stesse abilità) ma che siano diversi in quanto un testo riproduce la struttura delproblema scolastico standard, l’altro invece simula un problema reale.Se è vera l’ipotesi suggerita dalla ricerca precedente, il fatto che questi due problemi rimandino aschemi diversi (in un caso allo schema di problema scolastico, in un altro a quello di problemareale) dovrebbe portare i bambini a processi risolutivi diversi.In particolare il problema di tipo reale dovrebbe consentire l’attivazione di quei processi dipensiero razionali in genere associati ai problemi reali: in definitiva, ci aspettiamo che i bambini lorisolvano più facilmente.

1. Il problemaL’analisi dei comportamenti messi in atto da molti bambini nell’attività di risoluzione di problemimette in evidenza notevoli carenze a livello di controllo sulle strategie utilizzate: la scelta delleoperazioni appare spesso come una combinazione dei dati numerici del tutto casuale, o dettata al piùdal richiamo a schemi interiorizzati nella precedente esperienza scolastica.Non è possibile interpretare la complessità di tali fenomeni facendo ricorso a fattori esclusivamente

* L’articolo è stato pubblicato su La Matematica e la sua didattica, n.2, 1992.

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cognitivi: le ricerche sul problem solving degli ultimi anni (Mayer,1982; Cobb,1985;Schoenfeld,1987) hanno messo in evidenza la necessità di categorie più ampie, sottolineando che “ilfallimento di un soggetto nel risolvere un problema, quando egli possiede le conoscenze necessarie,dipende dalla presenza di fattori non solo cognitivi, ma anche non-cognitivi e metacognitivi, cheinibiscono la corretta utilizzazione di tali conoscenze.” (Lester, 1987).Tali fattori comprendono controllo e regolazione della conoscenza, convinzioni, ma anche emozionie atteggiamenti quali motivazioni, interesse, sicurezza: si ha quindi una rivalutazione del ruolo delladimensione affettiva anche nell’attività di risoluzione di problemi, che riflette del resto la posizioneche vede i processi di pensiero fortemente dipendenti dal contesto.

D’altra parte la ricerca sul problem solving (Goldin e Mc Clintock,1979; Kulm, 1979) ha anchemesso in evidenza la necessità di definire alcune variabili atte a descrivere le caratteristiche deiproblemi utilizzati nella ricerca, in modo da poter meglio interpretare e generalizzare i risultatiottenuti: come sottolinea Goldin (1982), il problema è lo strumento di misura per lo studio delproblem solving, e differenze anche minime a livello di alcune sue caratteristiche, quali sintassi,contenuto, contesto, o struttura, ne influenzano profondamente la difficoltà.Fra le variabili evidenziate assumono particolare importanza quelle legate al CONTESTO, intese adescrivere le differenze fra problemi aventi la stessa struttura matematica (Kulm,1979).A livello di problemi espressi in forma verbale, le variabili di contesto che sono state maggiormentestudiate (Goldin e Caldwell, 1979; Webb, 1979) sono quelle relative alle dicotomieconcreto/astratto, familiare/non familiare, ipotetico/reale.L’importanza di tali categorie è avvertita anche dai Nuovi Programmi della Scuola Elementare, cherecitano:“Le nozioni matematiche di base vanno fondate e costruite partendo da situazioni problematicheconcrete che scaturiscano da esperienze reali del fanciullo.”E in effetti i testi dei problemi scolastici sembrano riflettere lo sforzo di conciliare il riferimento al“concreto” con quello all’esperienza e al vissuto del bambino, cioè al “familiare”.In realtà però queste preoccupazioni si sono rivelate insufficienti: i cosiddetti comportamenti“patologici” dei bambini (quali combinazioni a caso di numeri, mancanza di controllo sui risultati,ecc.) non risparmiano i problemi che fanno riferimento a oggetti concreti e situazioni familiari,perché i bambini affrontano i problemi scolastici “senza correlarli ad alcuna esperienza di vita reale,ma piuttosto accettandoli come parte di un rituale scolastico.” (Nesher, 1980).

Se è vero allora che la gradualità CONCRETO / ASTRATTO gioca un ruolo fondamentale nellosviluppo delle capacità del pensiero, le osservazioni precedenti ci costringono ad un tipo di analisiche tenga conto della specificità del processo di soluzione dei problemi, ma, ancora prima, dellacomplessità del processo d’approccio ad un problema.

Obiettivo della presente ricerca è appunto definire una variabile di contesto (che chiameremo“livello”) del problema, e evidenziarne il ruolo, illustrando i risultati di un’indagine sperimentaleche ha coinvolto 300 bambini di 2a e 3a elementare.

2. Definizione di una variabile di contesto: il livello di un problema.2.1 Il problema condiviso.Ogni definizione classica di problema mette in evidenza l’esistenza di un obiettivo da raggiungere edi difficoltà per raggiungerlo.Ad esempio secondo Duncker (1935):

Un problema sorge quando un essere vivente ha una meta ma non sa come raggiungerla.

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Perché nasca il problema è necessario quindi che ci sia una MOTIVAZIONE a raggiungere unobiettivo: questa motivazione non va confusa con la motivazione a risolvere il problema, una voltache questo è nato.In altre parole ci sono due momenti distinti:i) la valutazione dell’obiettivo, che è alla base della motivazione a raggiungerlo, che a sua volta fa

nascere il problema;ii) la valutazione del problema, una volta che questo è sorto, e che è legata alla motivazione a

risolvere il problema.A livello scolastico tutt’al più si è concentrata l’attenzione sul secondo momento, ma a mio pareretanti comportamenti “patologici” sono proprio da ricondurre al fatto che manca il primo momento dimotivazione.Appare in particolare fondamentale la distinzione fra problemi autoposti, in cui il soggetto solutoreè anche colui che pone il problema, e problemi eteroposti, in cui il soggetto solutore affronta unproblema posto da altri.Nel caso dei problemi eteroposti (che sono la totalità dei problemi scolastici) è possibiledistinguere:- l’obiettivo che ha in mente chi pone il problema;- l’obiettivo che si pone (se se lo pone) il soggetto solutore.Sorge allora naturale la questione: l’obiettivo pensato dal soggetto che pone il problema (che per dipiù come vedremo non è necessariamente l’obiettivo dichiarato esplicitamente) è condiviso dalsolutore?La domanda non è irrilevante, in quanto solo conoscendo l’obiettivo che si è posto il soggettosolutore ha senso valutarne le strategie risolutive.Molto espressivo in questo senso mi sembra il seguente aneddoto (Ankeny, 1982), che ha comeprotagonista il matematico Johnny Von Neumann, fondatore della teoria dei giochi:Von Neumann, a cui si devono importanti teoremi sull’esistenza di strategie ottimali in certi tipi digiochi, venne insistentemente sfidato a poker da un gruppo di giovani matematici.Accettò finalmente di giocare, ma fra lo sconcerto dei presenti nel giro di mezz’ora aveva persotutto il suo denaro, puntando come se non guardasse nemmeno le carte.Finita così rapidamente la partita, si allontanò scusandosi. Gli altri giocatori rimasero a discutere ilsuo comportamento, senza riuscire a comprendere quali strategie avesse adottato.Finalmente uno di essi trovò la soluzione: “Ecco! Lui non ha cercato di massimizzare il suo denaro,ma di minimizzare il suo tempo!”

La strategia seguita da Von Neumann appare quindi consistente rispetto all’obiettivo di ridurre alminimo il tempo perso: l’obiettivo, e quindi il problema, di vincere denaro, non era invece da luicondiviso, e la sua strategia in base a tale obiettivo appariva, infatti, completamente irrazionale.

È indispensabile quindi nel porre un problema aver ben chiaro l’obiettivo che si vuole attivare, epreoccuparsi di farlo condividere dal soggetto solutore.

In fondo è la stessa preoccupazione che manifestano alcuni ricercatori (Freudenthal, 1973;Donaldson e McGarrigle, 1974; McGarrigle, Grieve e Hughes, 1978) nel discutere le classicheprove di Piaget sulla conservazione.Mc Garrigle e Donaldson ad esempio ipotizzano che il fallimento di una prova può essere dovuto alfatto che il bambino interpreta in modo “sbagliato” il problema e di conseguenza risolve compitidifferenti da quelli richiesti: essi sottolineano il ruolo del contesto, e in particolare delcomportamento non verbale dello sperimentatore, ed ottengono in effetti in alcune classiche proverisultati notevolmente diversi, modificando esclusivamente tale variabile.

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Le osservazioni fatte ci spingono ad operare una classificazione dei problemi che non si fermi adun’analisi superficiale della domanda formulata, ma permetta in qualche modo di coglierel’obiettivo effettivo da cui il problema stesso scaturisce.

2.2 Il livello di un problema.Distinguiamo allora tre livelli di problema:1) 1° livello, corrispondente ai problemi cosiddetti “pratici”: il soggetto solutore è protagonista dellasituazione problematica, e in particolare può interagire con essa. L'attenzione è concentrata sulraggiungimento di un obiettivo pratico.

Esempio 1-Sono le ore 16.30.Mi trovo in una città che non conosco, e devo raggiungere una certa strada (che non conosco),avendo un appuntamento per le ore 17.00.

L’obiettivo è raggiungere quella strada per le ore 17.00.Il problema viene risolto quando tale obiettivo viene raggiunto: per far questo posso interagire conla situazione problematica (interpellare eventuali passanti, comprare una cartina, chiamare un taxi,ecc.).Prima di questo, il problema nasce se sono motivato a raggiungere quell’obiettivo.

2) 2° livello, corrispondente ai problemi cosiddetti “teorici”: l’attenzione è concentrata sui modi diraggiungere un obiettivo pratico.

Esempio 2-Supponiamo di simulare il problema precedente, attraverso il seguente TESTO:“Immagina la seguente situazione: sono le ore 16.30 e sei in una città che non conosci. Deviraggiungere una certa strada (che non conosci) avendo un appuntamento per le ore 17.00.Come puoi fare?”

L’obiettivo naturalmente in questo caso non può essere quello di “raggiungere la strada”, ma al piùquello di “trovare un modo per raggiungere la strada”.Le differenze a livello di processi risolutivi sono enormi: in particolare non è possibile interagirecon la situazione problematica, ma nel pianificare una strategia andranno considerate le variepossibilità (se ci sono passanti / se ci sono dei taxi/ se i negozi sono aperti, ecc.).Ma quello che più interessa in questo contesto è che le motivazioni che fanno nascere i dueproblemi sono differenti, e in particolare richiedono gradi d’astrazione differenti.

3) Un terzo caso ancora diverso, che definiremo 3° livello, è quello tipico dei problemi scolastici:

Esempio 3-“Per comprare 5 bottiglie di Coca Cola ho speso 7500 £.Quanto costa una bottiglia di Coca Cola?”

In questo caso non siamo sicuramente di fronte ad un problema pratico, ma nemmeno ad unoteorico: manca in realtà una situazione problematica, seppure simulata.L’obiettivo che ha in mente12 l’insegnante, al di là della domanda formulata, non è quello di sapere

12 Si intende che l’insegnante vuole far nascere nel bambino. L’obiettivo dell’insegnante è ancora diverso: ad esempioverificare se il bambino ha acquisito certe competenze, o favorire certi processi di pensiero, o altro.

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quanto costa una bottiglia di Coca Cola, ma nemmeno di sapere come si può trovare quanto costauna bottiglia (non considererebbe infatti soddisfacenti risposte quali: “Si può chiedere alnegoziante.” o “Si può guardare sulla bottiglia.”): l’obiettivo reale è quello di rendere esplicito ilnesso fra i dati e l’incognita.Ben altre sono allora le motivazioni che permettono di condividere tale obiettivo.In particolare richiedono una notevole capacità d’astrazione: il riferimento al concreto del testo èquindi solo apparente, non sostanziale.Se il bambino non condivide l’obiettivo sopra detto, possono attivarsi in lui motivazioni araggiungere obiettivi alternativi: possono sorgere cioè per lui problemi diversi, quali ad esempio“rispondere alla domanda”, “soddisfare l’insegnante”, ecc.13

In tal caso il contesto, con il suo riferimento al concreto e al reale, assume il ruolo di un contenitoredi dati da utilizzare per rispondere alla domanda finale. In effetti questa caratterizzazione è proprioquella che emerge da una ricerca precedente (Zan,1991 e 1992), finalizzata a conoscere leconvinzioni dei bambini di scuola elementare sull’attività di risoluzione di problemi14.

In un problema di 3° livello allora il riferimento al concreto del contesto viene reso vano dall’altogrado di astrazione necessario per condividere il problema stesso, che viene in genere recepito come“domanda” dal soggetto solutore15.

L’ipotesi da cui nasce l’indagine che presentiamo è quindi che la categoria CONCRETO/ASTRATTO giochi un ruolo fondamentale già nel processo d’approccio ad un problema, cioè nelmomento in cui il problema nasce per il soggetto solutore, e che i comportamenti patologici che siriscontrano nei bambini siano dovuti non a difficoltà a livello di processi risolutivi, ma a carenze inquesto processo d’approccio.In questo senso un problema di 2° livello, risultando più facilmente condivisibile, dovrebbe renderepiù naturale questo processo, e risultare in definitiva più “facile” di un problema di 3° livello.

3. L’indagine.La scelta di un contenuto piuttosto che un altro era naturalmente abbastanza irrilevante per gliobiettivi della nostra ricerca, finalizzata a evidenziare il ruolo di una variabile legata al contesto, enon alla struttura del problema. L’esigenza di confrontare sullo stesso problema bambini diseconda e terza elementare ha però sconsigliato l’utilizzazione di prove di tipo aritmetico, dato ildivario esistente fra le due classi a livello di conoscenza di tecniche di calcolo.

13 Mi sembra interessante osservare a questo proposito che Nicholls (1983) nella sua teoria delle motivazioni, distinguetre tipi di atteggiamenti:- extrinsic-involvement: imparare è visto come un mezzo per ottenere qualcosa (il consenso dell’insegnante, finire la

scuola prima, un premio, ecc.);- ego-involvement: l’attenzione è concentrata sullo sforzo di apparire intelligente o di non sembrare sciocco;- task-involvement: l’attenzione è concentrata sul compito; la soddisfazione e il senso di competenza derivano da una

nuova intuizione e da miglioramenti nelle performances.Dal punto di vista dei “problemi” mi sembra si possano interpretare tali atteggiamenti come corrispondenti a obiettivi, equindi a problemi, differenti: in particolare solo nell’ultimo caso (task-involvement) si può parlare di problema“condiviso”.14 Il problema scolastico viene assimilato infatti alla DOMANDA, e le difficoltà che il termine “problema” evoca nellinguaggio naturale vengono al più identificate con la difficoltà a rispondere a tale domanda:“Mi fa venire in mente problema di una storietta corta dove finita la storia bisogna risolverla e quando non riesco aconcentrarmi sul problema mi immagino sempre: ecco perché l'hanno chiamata problema.” (Veronica,4a

elementare)15 Questo ha delle conseguenze importanti: se il soggetto ritiene (come in genere accade in contesto scolastico) che coluiche pone la domanda conosce la risposta, penserà che la domanda stessa è finalizzata non a sapere la risposta, ma acontrollare se l’allievo sa la risposta, con implicazioni facilmente immaginabili sia a livello di comportamenti messi inatto, sia a livello di emozioni e atteggiamenti.

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È stato scelto quindi un test di probabilità, tratto da un’indagine presentata agli InternucleiElementari 1990 dal Nucleo di Modena, relativa alla “Influenza del tipo di rappresentazioneutilizzato nel testo di un problema sulla risposta dell’intervistato.”.Oltre alla versione originale (che abbiamo chiamato A) sono state proposte due versioni alternative,B e C:

Versione AOgni volta che va a trovare i nipotini Elisa e Matteo, nonna Adele porta un sacchetto di caramelle difrutta e ne offre ai bambini, richiedendo però che essi prendano le caramelle senza guardare nelpacco.Oggi è arrivata con un sacchetto contenente 3 caramelle al gusto di arancia e 2 al gusto di limone.Se Matteo prende la caramella per primo, è più facile che gli capiti al gusto di arancia o dilimone?_______________________________________________Perché?_________________________________________________________

In tale versione è dedicata molta attenzione al contesto, che appare ricco, familiare, e vuolecoinvolgere il bambino sul piano affettivo.In realtà il problema non è simulazione di un problema reale, in quanto il contesto non descrive unasituazione effettivamente problematica, ma ha l’unica funzione di essere un contenitore di dati (nonnecessariamente numerici) da utilizzare per rispondere alla domanda. Secondo le nostre definizioniil problema A è quindi di terzo livello.Nella ricerca citata gli sperimentatori sottolineavano come in alcune risposte scorrette fosseropresenti motivazioni di tipo emotivo-affettivo, quali:“È più facile che gli capiti al gusto di arancia perché gli piacciono di più.”Il coinvolgimento affettivo pare quindi costituire in questo caso fattore inquinante dei processi dipensiero.

Le versioni alternative utilizzate nella presente ricerca nascono proprio dall’analisi dellecaratteristiche del problema A, e dalle ultime osservazioni fatte: in particolare la versione C nascedalla convinzione che il coinvolgimento emotivo-affettivo sottolineato precedentemente non sianecessariamente causa di blocco, ma possa funzionare invece da spinta per costruire processirisolutivi costruttivi.Il problema C è infatti di secondo livello, in quanto simulazione di un problema pratico, e piùprecisamente di un problema di scelta.La versione B invece presenta un contesto più povero rispetto a quella originale: il testo è sintetico,le informazioni date sono solo quelle essenziali. Si tratta comunque ancora di un problema diterzo livello.La struttura matematica è la stessa della versione C, e ad un’analisi approfondita può appariredifferente rispetto alla versione A.

Versione BCi sono due sacchetti: nel primo ci sono 3 caramelle di menta e 2 all’arancio, nel secondo 2caramelle di menta e 3 all’arancio.A occhi chiusi, è più facile pescare una caramella di menta dal primo sacchetto o dalsecondo?___________________________________________________Perché?_________________________________________________________

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Versione CImmagina di avere davanti a te due sacchetti: nel primo ci sono 3 caramelle di menta e 2all’arancio, nel secondo 2 caramelle di menta e 3 all’arancio.Tu puoi prendere a occhi chiusi una caramella da un solo sacchetto.Da quale sacchetto preferisci pescare? ________________________________Perché?_________________________________________________________Ti piacciono di più le caramelle di menta o quelle all’arancio? _____________

4. Soggetti.Ogni versione è stata sottoposta a 50 bambini di seconda elementare e 50 di terza elementare, per untotale di 300 soggetti:

versione A Versione B versione C TOTALESeconda elementare 50 50 50 150Terza elementare 50 50 50 150TOTALE 100 100 100 300

Ogni bambino quindi ha affrontato solo una delle tre versioni.

L’indagine ha coinvolto:- 8 classi seconde, distribuite in 4 scuole;- 8 classi terze, distribuite in 4 scuole.

5. Metodologia.I bambini di ogni classe venivano ripartiti in tre gruppi, in base all’ordine alfabetico dell’iniziale delcognome.I soggetti di uno stesso gruppo venivano condotti tutti insieme in un’altra aula, e lì venivapresentato loro il problema.Dato che la ricerca voleva mettere in evidenza l’influenza di una variabile di contesto, il testoveniva letto e illustrato a voce alta dal ricercatore, per evitare difficoltà di lettura che avrebberofortemente penalizzato la versione più lunga e i bambini più “deboli” (in particolare nelle seconde).Prima dell’esecuzione delle prove veniva chiesto all’insegnante di classificare i bambini secondo ilivelli basso / medio / alto: ogni protocollo quindi reca anche tale indicazione.

6. Analisi e risultati.6.1 Interpretazione delle risposte corrette.È questo un punto estremamente delicato, specialmente in casi come questi in cui le risposte sonovariamente articolate.La scelta fatta per valutare la correttezza delle risposte nasce dalla considerazione che nelle varieversioni la giustificazione della risposta alla prima domanda è altrettanto importante della rispostastessa.Per le versioni A e B quindi sono stati considerati corretti i protocolli che presentavano la primarisposta giusta e la giustificazione corretta.

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Nella versione C compaiono invece tre domande:1. Da quale sacchetto preferisci pescare?2. Perché?3. Ti piacciono di più le caramelle alla menta o quelle all’arancio?

In questo caso la ragionevolezza della prima risposta può essere valutata solo alla luce della terza:prima e terza domanda insieme corrispondono quindi alla prima domanda delle versioni A e B.La seconda domanda è ancora una richiesta di giustificazione, del tutto simile alle altre versioni.In definitiva quindi la classificazione complessiva delle risposte in CORRETTE / ERRATE /AMBIGUE riflette la valutazione di tali giustificazioni.

Questa analisi nelle versioni A e B risulta piuttosto semplice.Casi evidenti di giustificazioni scorrette sono:- “Perché è il suo gusto preferito.”- “Perché ha guardato.”- “Se Matteo prendeva quella al limone ne rimaneva una sola e invece è meglio prenderla

all’arancia.”In altri casi è difficile capire se la giustificazione è corretta oppure no.Ad esempio un bambino (versione A) risponde correttamente:“È più facile che a Matteo capiti il gusto d’arancia.”motivando così:“È più facile che la caramella d’arancia sarà in cima."Tale spiegazione non ci dà sufficienti informazioni sul ragionamento seguito (Sarà in cima perché lecaramelle d’arancia sono di più ed è più facile pescarne una? Oppure si tratta di una “forzatura”della situazione?).Risposte di questo genere sono state quindi classificate come ambigue.

Per la valutazione della versione C la situazione si presenta invece diversa.Si osservano, infatti, due tipi di giustificazione:G1: “scelgo il sacchetto...perché ci sono più caramelle di...”G2: “scelgo il sacchetto ... perché mi piacciono di più le caramelle...”

Tali tipi di giustificazione sono stati considerati entrambi corretti, e ci è sembrato comunqueimportante analizzarli anche in relazione ad altre variabili, quali il livello del soggetto (basso /medio / alto) e la classe (2a / 3a).

6.2 Risultati.Le risposte dei bambini alle varie versioni, classificate in corrette, errate, ambigue secondo i criteriappena illustrati, sono evidenziate nelle tabella 1:

TAB 1: Le risposte dei bambini.

Classi seconde:

corrette errate Ambigue non risponde TotaleA 14 33 3 0 50B 13 31 5 1 50C 35 11 3 1 50

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Classi terze:

Corrette errate Ambigue non risponde TotaleA 27 22 1 0 50B 26 22 2 0 50C 37 10 3 0 50

Ci è sembrato interessante un’ulteriore analisi dei protocolli, che in particolare mettesse in evidenzale risposte degli alunni di livello più basso (o meglio considerati tali dagli insegnanti).La tabella 2 mostra, per ogni versione e per ogni classe, il numero di risposte corrette date da talialunni sul totale degli alunni “bassi” che, come si può constatare, è abbastanza omogeneo sia alvariare delle versioni sia al variare delle classi.

TAB.2: Risposte corrette degli alunni “bassi” nelle varie versioni.

A B C TotaleSeconde 1 [12] 0 [10] 10 [13] 11 [35]Terze 2 [11] 2 [15] 4 [10] 8 [36]Totale 3 [23] 2 [25] 14 [23] 19 [71]

Salta agli occhi come gli alunni bassi siano fortemente aiutati dalla versione C, ma è interessantenotare come questo avviene in misura notevolmente maggiore nelle seconde rispetto alle terze.Questo ci conferma che da una classe all’altra diventa sempre più difficile aiutare gli alunni indifficoltà, forse più a causa dell’irrigidirsi di certi atteggiamenti (quali convinzioni, motivazioni,ecc.) che di lacune cognitive effettivamente insuperabili.

6.3 Analisi delle giustificazioni relative alla versione C.

(…)

7. Conclusioni.

Se assumiamo come ragionevole la valutazione delle risposte esatte, la differenza fra il numero dirisposte corrette alla versione C e quello delle risposte corrette alle versioni Ad e B è effettivamentesignificativa.Interessante è anche il fatto che le versioni A e B appaiono in questo senso del tutto equivalenti (v.tabella 1), mentre un’analisi legata solo alle variabili del contesto usualmente prese inconsiderazione individuerebbe le differenze maggiori fra la versione A (testo ricco di informazionianche non rilevanti, contesto motivante, ecc.) e le versioni B e C (testo sintetico, situazionesimile,..).La variabile che differenzia C da A e B assume quindi particolare rilevanza, e possiamo esprimere irisultati osservati concludendo che i bambini interpellati hanno risolto con maggior frequenza ilproblema di secondo livello (versione C), rispetto a quelli di terzo livello (versioni A e B).Questo appare quindi confermare che la dicotomia CONCRETO / ASTRATTO sia significativa piùa livello di motivazioni che a livello di contenuto: “condividere” un problema di terzo livellorichiede infatti maggiori capacità d’astrazione che condividere un problema di secondo livello.

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Come abbiamo già osservato, naturalmente è possibile che un bambino, pur non condividendo ilproblema di terzo livello, si ponga un problema alternativo, quale quello di “rispondere alladomanda”. La distinzione può apparire abbastanza sottile, in quanto la risoluzione di questoproblema alternativo può portare di fatto alla risoluzione del problema iniziale. Va osservato peròche questo non necessariamente avviene: soprattutto nei soggetti più deboli, o comunque neisoggetti per i quali la risoluzione del problema iniziale richieda effettivamente una“ristrutturazione” delle conoscenze, il fatto che il bambino non sia in qualche modo costretto aricostruire la situazione problematica può essere causa di blocchi a livello di processi risolutivi.Tipici in questo senso i cosiddetti comportamenti “patologici” più volte citati, quali combinazioni acaso di numeri, mancanza di controllo sui risultati, ecc., riconducibili al fatto che il bambino “non èin grado di immaginare il dominio di oggetti e trasformazioni che l’autore ha in mente. Egli cercadi inferire direttamente dalla formulazione verbale del testo del problema scolastico l'operazionematematica necessaria.” (Nesher,1980).La maggiore “sensibilità” dei più deboli alle variazioni del livello spiega anche perché le differenzefra la versione C e le altre siano molto più marcate nelle seconde che nelle terze.

Lo schema seguente, che presenta un’analisi più approfondita dei processi risolutivipresumibilmente messi in atto dai bambini nella versione C, può risultare utile per chiarire questopunto:

Quale sacchetto scelgo?

Da quale sacchetto è più facile pescare una caramella di menta?

Nel caso della versione C il bambino quindi è spinto a riformulare il problema in terminimatematici: la risoluzione (ma ancora prima la formulazione) del problema matematico però inquesto caso è funzionale alla risoluzione del problema teorico iniziale, anche se il bambino non ènecessariamente consapevole di tale processo.Possiamo osservare come in questo caso il problema matematico la cui soluzione è funzionale allasoluzione del problema C altro non è che la versione B.La struttura del problema A ricalca invece quella del problema scolastico standard di terzo livello.L’autore del testo parte dal problema matematico che vuole porre:

Scelgo ilsacchetto…

Ci sono 2 sacchetti. Nel 1° ci sono 3caramelle di menta e 2 all’arancio.Nel 2° ci sono 2 caramelle di menta e3 d’arancio. Posso prendere a occhichiusi una caramella da un solosacchetto. Vorrei prendere unacaramella di menta

Ci sono 2 sacchetti.Nel primo ci sono 3 caramelle di menta e 2d’arancio. Nel secondo ci sono 2 caramelle dimenta e 3 d’arancio.

Dal 1°sacchetto

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?

e da questo costruisce un contesto ricco e apparentemente motivante che in genere non rappresentauna situazione in se stessa problematica, ma ha la funzione di contenitore di dati da utilizzare perrispondere alla domanda finale:

?

La domanda rimane la stessa: il problema non viene modificato (nel senso che non viene reso piùreale), ma viene modificato solo il modo di dare le informazioni necessarie per risolverlo.

Alla luce di queste osservazioni la differenza fra le risposte A e B da una parte, e C dall’altra, cidice che alcuni bambini non arrivano a risolvere il problema dato non perché hanno difficoltà alivello di processi risolutivi (visto che la soluzione del problema C comporta la soluzione delproblema B) ma perché in realtà non hanno costruito il problema.La mancata risoluzione della versione C ci dà in questo senso maggiori informazioni sulle difficoltàa livello di processi risolutivi.Più in generale l’importanza del processo di formulazione del problema, già sottolineato dairicercatori (Kilpatrick, 1987; Brown e Walter, 1983) appare particolarmente significativa se, comespesso accade, il problema è utilizzato per verificare l’acquisizione di conoscenze o addirittura peraccertare le capacità del bambino.

Abbiamo già riportato nella premessa l’ipotesi di alcuni ricercatori i quali sostengono, in base aricerche fatte modificando in vari modi il contesto delle prove di conservazione di Piaget, che ilfallimento della prova può essere dovuto al fatto che il bambino interpreta in modo “sbagliato” ilproblema e di conseguenza risolve compiti differenti da quelli richiesti.Nel problema di terzo livello non condiviso, infatti, l’attenzione è concentrata interamente sulladomanda: la comprensione del problema poggia quindi solamente sulla comprensione delladomanda, perché il contesto è solo un contenitore di dati, e non contribuisce a dare informazioni perla costruzione del problema stesso. In definitiva se il soggetto fraintende la domanda, non

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1. Le prime ricerche: il problem solving 34

comprende il problema16.

Porre il problema in modo che sia il bambino stesso a riformularlo secondo i nostri obiettivi darebbeallora maggiori garanzie sul fatto che il bambino condivide il problema dato, cioè risolve lo stessoproblema che l’insegnante o il ricercatore ha in mente, e fornirebbe in definitiva maggioriinformazioni sulle effettive difficoltà che il bambino incontra a livello di processi risolutivi.

Per riuscire a far questo è però indispensabile convincersi che la dimensione affettiva non va subitacome ostacolo per l’attività di risoluzione di problemi, in quanto fattore “inquinante” dei processi dipensiero, ma va assecondata e valorizzata per poter costruire apprendimenti veramente significativi.

16 Questo risulta evidente nel caso della versione A: da alcune risposte appare chiaro che il soggetto sta rispondendo adaltre domande.Ad esempio:“All’arancia. Se Matteo prendeva quella al limone ne rimaneva una sola e invece è meglio prenderla all’arancia.”“Al limone. Perché è più facile che gli arrivi.”

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4. Il ruolo delle convinzioni nella risoluzione di problemi*

0. Ripensando…Nuove letture (soprattutto il libro di McLeod e Adams del 1989, Affect and Mathematical ProblemSolving, e poi Borkowski, 1992; Dweck et al., 1980 e 1988; Gardner, 1993; McDonald, 1989;McLeod, 1992; Nicholls et al., 1990; ancora Schoenfeld, 1983, 1985; Shaughnessy, 1985; Silver,1982, 1985, 1987; Sternberg, 1996; Weiner, 1974), o nuovi modi di leggere i lavori già letti (Cobb,1985; Kilpatrick, 1987; Lester, 1987; Schoenfeld, 1987) suggeriscono chiavi interpretative diverseper le difficoltà nella risoluzione di problemi: emerge così un approccio teorico che sottolineacome in generale la prestazione di un soggetto in matematica sia influenzata da una serie di fattoriche interagiscono profondamente.

In particolare i processi di controllo attivati da un soggetto nella risoluzione di un problema (cioèle decisioni prese e quindi in generale i comportamenti che ne seguono), hanno luogo all’internodel contesto costituito dalle convinzioni (o credenze) possedute dal soggetto (Cobb, 1985;Schoenfeld, 1985a; Silver 1982a e 1982b).Tali convinzioni si possono definire come “la conoscenza soggettiva (cioè non necessariamentevera) di un individuo su di sé, sulla matematica e sull’ambiente” (Lester, 1987). In questaprospettiva le persone sono interpreti del mondo circostante e percepiscono la propria esperienzaalla luce di schemi interpretativi che hanno sviluppato in esperienze precedenti.Questo ha importanti implicazioni per l’insegnamento. Quando cerchiamo di insegnare un nuovoargomento non possiamo pensare che i nostri allievi siano vuoti contenitori da riempire con laconoscenza (Schoenfeld, 1987): le convinzioni, o meglio i sistemi di convinzioni, influenzano ilmodo in cui un nuovo argomento viene percepito e quindi appreso.Fra i vari campi della ricerca sull’apprendimento della matematica, lo studio dell’attività disoluzione di problemi è quello che ha maggiormente enfatizzato e analizzato l’influenza dei sistemidi convinzioni che un soggetto ha. Nel problem solving infatti assumono un ruolo centrale ledecisioni, strategiche o tattiche (Schoenfeld, 1983), che un soggetto prende e tali processidecisionali sono fortemente influenzati dalle convinzioni che il soggetto possiede.Ad esempio Schoenfeld (1985b) osserva che molti studenti con difficoltà sono caratterizzati daconvinzioni generali sul problem solving, spesso implicite, quali:- la matematica formale ha poco o niente a che fare col pensiero reale e col problem solving;- i problemi di matematica si possono sempre risolvere in meno di 10 minuti;- solo i geni sono capaci di scoprire o creare in matematicaL’organizzazione di tali convinzioni in strutture coerenti e stabili rimanda ad una “visione” dellamatematica, cioè ad una epistemologia, che Schoenfeld definisce non matematica per mettere inevidenza lo scollamento dall’epistemologia condivisa dagli esperti. Se da un lato l’epistemologianon matematica di molti studenti con difficoltà si evolve con l’esperienza scolastica, dall’altrocostituisce la chiave di lettura di tale esperienza, impedendo in alcuni casi un correttoapprendimento.Ad esempio la ricerca sugli stili cognitivi (Sternberg, 1996) mette in evidenza che molti studentiassociano la matematica alle modalità di presentazione da parte dell’insegnante: l’epistemologiache lo studente costruisce allora, non potendo dissociare questi due aspetti (la natura intrinseca

* Questo testo, versione riveduta e integrata dei due articoli di P. Poli e R.Zan: ‘Le convinzioni dei bambini suiproblemi: un confronto fra bravi e cattivi solutori.’, Studi di Psicologia dell’Educazione, n.1-2, 1996, e ‘Il ruolo delleconvinzioni nella risoluzione di problemi: presentazione di un questionario elaborato per un’indagine nella scuolaelementare’, In La Matematica e la sua didattica, n.4, 1996, è stato pubblicato su Problemi e convinzioni, Pitagora,1998.

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1. Le prime ricerche: il problem solving 36

della disciplina / la modalità di presentazione), esemplifica spesso la matematica come materiaschematica e poco creativa.Queste ultime osservazioni suggeriscono che le convinzioni non solo fanno da guida potente aiprocessi di controllo che caratterizzano l’attività di problem solving, ma sono profondamentelegate anche ad aspetti affettivo-motivazionali quali le emozioni e gli atteggiamenti. Il legameprofondo fra aspetti cognitivi e affettivi, riconosciuto attualmente anche dalla ricercasull’apprendimento della matematica (Mc Donald, 1989; Adams e Mc Leod, 1989; Mc Leod, 1992)si esprime nelle convinzioni in modo particolarmente esplicito e suggestivo (Lester, 1987; Silver,1985).Cobb osserva ad esempio che le convinzioni dei bambini sulla matematica possono essere messe inrelazione con le loro motivazioni, influenzando il modo in cui i bambini gestiscono i proprifallimenti, la loro confidenza, la loro persistenza, la loro volontà di prendere l’iniziativa, e il modoin cui traggono soddisfazione da situazioni di problem solving. Nicholls e altri (1990) mettono inevidenza il legame fra le convinzioni che i bambini costruiscono sulle cause del successo inmatematica e il tipo di motivazione che li guida nell’attività matematica.I sistemi di convinzioni possono quindi risultare utili non solo per spiegare la selezione o meno distrategie, ma anche la perseveranza o meno di un soggetto, o il suo senso di soddisfazione oinsoddisfazione in attività di problem solving: essi possono infatti costituire una “formidabilebarriera affettiva”, impedendo di fatto ad un soggetto di utilizzare le conoscenze che pure possiede(Silver 1982b, Shaughnessy, 1985; Schoenfeld, 1987).Silver (1987) suggerisce l’idea che ogni studente costruisca, dall’interazione fra le esperienze inclasse e le convinzioni possedute, una sorta di curriculum nascosto parallelo a quello costituitodagli insegnamenti espliciti. Tale curriculum influenza fortemente gli atteggiamenti del soggettonei confronti della matematica, ed è ad esso che ci si deve rivolgere per permettere agli studenti disviluppare atteggiamenti e convinzioni che riflettano una visione della matematica come disciplinastimolante, creativa, interessante e costruttiva: “I nostri studenti possono trarre maggiori beneficieducativi dalla nostra attenzione al curriculum nascosto costituito dalle loro convinzioni e dai loroatteggiamenti nei confronti della matematica, che da qualsiasi miglioramento che possiamoapportare al curriculum trasparente dei fatti, delle procedure, e dei concetti matematici.” (ibidem,pag.57).In definitiva la ricerca attuale sull’apprendimento della matematica e sul problem solving enfatizzail ruolo centrale delle convinzioni sulla matematica, in particolare la loro influenza sui processi dicontrollo e sugli atteggiamenti.

Dalla ricerca però emerge sempre più chiaramente che il rendimento di un soggetto in una certadisciplina non è influenzato solo dalle convinzioni che il soggetto ha sulla disciplina stessa: essorisente fortemente anche di sistemi di convinzioni più generali.Particolarmente importanti appaiono ad esempio le teorie dell’intelligenza, che riflettono lecredenze di un individuo circa le caratteristiche dell’intelligenza stessa. Secondo Dweck e Licht(1980) è possibile distinguere fra una teoria statica, secondo la quale l’intelligenza è una entitàinnata e non modificabile, ed una teoria dinamica o incrementale, che prevede la possibilità dicambiamenti e incrementi nel tempo.Le ricerche evidenziano il legame fra il tipo di comportamento adottato da un bambino di fronte alcompito e le teorie dell’intelligenza che esso possiede (Dweck e Leggett, 1988). Vengonoindividuati due tipi di bambini in base al loro comportamento (Dweck e Licht, 1980): i bambinidetti helpless tendono ad evitare le difficoltà, mostrano un peggioramento delle prestazioni e dellestrategie dopo i primi fallimenti fino ad abbandonare il compito, fanno previsioni di tipopessimistico rispetto alle proprie prestazioni e sviluppano reazioni ansiose. Essi tendonogeneralmente a perseguire un obiettivo di prestazione, cercano cioè di mantenere l’autostimaevitando le situazioni in cui possa emergere la loro inadeguatezza: l’apprendimento è percepito

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come una situazione minacciosa, in cui le loro abilità sono messe alla prova. I bambini mastery-oriented invece hanno un atteggiamento positivo, perseverano nell’attività dopo un insuccesso,usano strategie più efficaci, fanno previsioni ottimistiche rispetto ai loro risultati. Essi sipropongono un obiettivo di apprendimento, cioè vedono il compito come un’occasione peracquisire nuove abilità (Elliot e Dweck, 1988). La ricerca dimostra come i bambini con obiettivo diapprendimento rappresentano l’intelligenza come un’entità suscettibile di cambiamento econtrollabile (teorie incrementali), mentre i bambini con obiettivo di prestazione tendono invece avedere l’intelligenza come entità fissa ed immutabile (teorie statiche).Altri sistemi di convinzioni importanti sono quelli costituiti dalle convinzioni che un soggettocostruisce su di sè. Fra queste particolarmente significative appaiono il senso di auto-efficacia,cioè la convinzione che un soggetto ha “di potercela fare” (Borkowski, 1992), e le attribuzionicausali, cioè le convinzioni che un individuo costruisce per spiegare le cause di un fallimento o diun successo. A questo proposito Weiner (1974) individua tre dimensioni di causalità:- il locus di attribuzione, che può essere esterno / interno al soggetto; la fortuna o la difficoltà

del compito hanno un locus esterno, a differenza dell’abilità o dell’impegno: un bambino puòpensare di aver risolto un problema di matematica perché è stato aiutato (causa esterna)oppure perché si è impegnato (causa interna);

- la stabilità nel tempo: l’abilità è considerata relativamente stabile (“ho fatto bene il compitoperché sono bravo”), mentre non lo è la fortuna (“ho sbagliato il compito per caso”);

- la controllabilità da parte del soggetto stesso: l’impegno, a differenza dell’abilità, èconsiderato controllabile (“non ho fatto bene il problema perché non mi sono impegnatoabbastanza”).

Le ricerche sottolineano come l’attribuzione di insuccesso a fattori stabili e non controllabili puòdeterminare un disinteresse per l’apprendimento scolastico, con perdita di speranza e senso diinutilità, soprattutto se questa tendenza attributiva viene generalizzata a tutte le situazioni possibili(fattore globalità individuato da Abramson, Seligman e Teasdale, 1978).Emerge quindi sempre più chiaramente l’intreccio profondo fra i vari sistemi di convinzioni e leoperazioni di selezione, applicazione e monitoraggio di strategie (processi di autoregolazione): isistemi di credenze, in particolare le credenze attribuzionali e il senso di auto-efficacia, assumonorilevanza come fattori motivazionali, e forniscono l’energia necessaria ad attivare i processi diautoregolazione che caratterizzano la risoluzione di problemi (Borkowski, 1992; Borkowski eMuthukrishna, 1994).

In definitiva le convinzioni hanno un ruolo estremamente significativo di “ponte” fra aspetticognitivi, metacognitivi, affettivi:

conoscenze

convinzioni

processirisolutivifattori

metacognitivi

fattori affettivi

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1. Le prime ricerche: il problem solving 38

Questa ipotesi generale ci permette allora di riformulare i risultati delle prime ricerche quiriportate: in particolare la ricerca sui “Modelli concettuali di problema nei bambini della scuolaelementare” ci dice che molti bambini hanno sui problemi scolastici convinzioni diverse rispetto aquelle che hanno sui problemi reali, ma soprattutto ci permette – attraverso le risposte dei bambini– di conoscere tali convinzioni.Rileggendo con questa chiave interpretativa la ricerca stessa, si fa strada in modo naturaleun’ipotesi più fine: se è vero che queste convinzioni hanno un ruolo guida nel processo di soluzionedi problemi, è ragionevole aspettarsi che i bambini “bravi solutori” e i bambini “cattivi solutori”di problemi possiedano sistemi di convinzioni diverse.La ricerca sui modelli concettuali non permette di affrontare tale questione, perché le risposte deibambini non sono accompagnate da informazioni relative alla loro abilità nel risolvere problemi, enon è quindi possibile analizzare la relazione fra i due dati.

Per affrontare tale questione è quindi necessario indagare sulle convinzioni di bambini, di cui siconosce l’abilità di risoluzione di problemi.Ed è questo l’oggetto della ricerca successiva.

1.Il problema(…)

Se la teoria che abbiamo descritto all’inizio e le ricerche che si collocano nel suo contestoenfatizzano il legame fra le convinzioni possedute da un bambino e i processi risolutivi messi inatto, la natura di questo legame rimane ancora relativamente inesplorata soprattutto in ambitomatematico. In particolare non è chiaro se esiste, ed eventualmente come si caratterizza, unacorrelazione fra certi tipi di convinzioni e il successo/fallimento nella risoluzione di problemi.Lo studio preliminare che andiamo a descrivere si proponeva proprio questo obiettivo: riconoscerese bravi e cattivi solutori di problemi possiedono sui problemi matematici scolastici convinzionisignificativamente diverse.

2.1. Campione.Hanno partecipato alla ricerca 101 bambini frequentanti III, IV e V classe elementare nei circolididattici di Pisa e Livorno (a.s. 1993-’94); sono stati esclusi dalla ricerca gli alunni portatori dihandicap ed i bambini che non hanno completato il protocollo di indagine.Per discriminare i bambini “bravi solutori” e i bambini “cattivi solutori”, il campione iniziale è statosottoposto ad una batteria di 4 problemi matematici standard.Si sono così evidenziati due gruppi:- un gruppo di 30 alunni “bravi solutori”, costituito dai bambini che hanno risolto tutti i problemi

proposti;- un gruppo di 21 alunni “cattivi solutori”, costituito da bambini che hanno risolto non più di un

problema.Il campione finale è quindi costituito da 51 bambini.

2.2. Metodo.Oltre alla batteria di problemi è stato somministrato collettivamente un questionario sulleconvinzioni sui problemi matematici scolastici.Il questionario, riportato integralmente in appendice, indaga tre tipi di convinzioni:

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1. Le prime ricerche: il problem solving 39

- Convinzioni sulle caratteristiche del problema: allo scopo di individuare quale concetto diproblema matematico si siano costruiti i bambini abbiamo utilizzato una tecnica diretta ed unaindiretta. Da una parte sono utilizzate domande a risposta alternativa sul problema reale e suquello scolastico; al bambino è chiesto inoltre di esprimere il proprio accordo su alcuneconvinzioni sui problemi (ad es.: “Ci può essere un problema di matematica senza numeri?”; “Iproblemi di matematica hanno sempre una soluzione.”). Dall’altra, proponiamo una serie di testial bambino chiedendo di riconoscere quali sono a suo parere problemi di matematica. Alcuni diquesti testi contengono dei numeri, altri no; alcuni presentano situazioni reali con domandecoerenti, altri ancora una serie di dati senza alcun legame con la domanda, come il famosoproblema “dell’età del capitano” (“In una nave ci sono 27 marinai, 4 mozzi ed 1 cuoco. Quantianni ha il capitano?”).

- Convinzioni sui comportamenti da mettere in atto di fronte al problema: le domande permettonodi ricostruire la rappresentazione dei processi di risoluzione (“Quando devi risolvere un problemadi matematica, cosa fai?”), degli obiettivi dell’attività di risoluzione di problemi (“Secondo te, acosa serve fare un problema di matematica?”), della difficoltà del compito (“Alessandro dice: -Un problema con tante domande è più difficile di un problema con una domanda sola- Seid’accordo con lui?”).

- Convinzioni relative a sé come solutore di problemi: questa parte indaga le idee che i bambinicostruiscono su se stessi come solutori di problemi matematici. Viene indagato il ruolodell’impegno (“Alessia dice: - Per far bene un problema l’impegno non conta- Sei d’accordo conlei?”), la valutazione delle possibilità di riuscita (“Marco dice: - Un problema o lo capisci subitoo non lo capisci più- Sei d’accordo con lui?”), l’emergere di sentimenti positivi o negativi difronte al compito (“Cosa provi quando la maestra ti dice: - Adesso facciamo un problema- ?”).

Inoltre il questionario indaga le convinzioni del bambino a proposito dell’intelligenza (teoriedell’intelligenza), allo scopo di indagarne la relazione con le altre convinzioni.Ai bambini è chiesto sempre di spiegare il perché delle loro scelte con risposte aperte, allo scopo diverificare la effettiva comprensione del quesito. Inoltre, abbiamo utilizzato esclusivamentedomande aperte per aree non indagate precedentemente.Le alternative di scelta nelle risposte strutturate sono costruite in base alle produzioni dei bambininella ricerca di Zan descritta precedentemente (Zan, 1991 e 1992). Questo consente anche diutilizzare un linguaggio semplice e comprensibile al bambino.Per motivare i bambini all’inchiesta, ai soggetti viene richiesto un aiuto per scoprire, tramite le lororisposte, cosa pensano i bambini della loro età sulla matematica. Il questionario è presentato comeun’attività diversa da quella scolastica e si sottolinea che non esistono risposte giuste o sbagliate:questo permette ai bambini di esprimersi liberamente. Inoltre, molte domande non sono formulatein prima persona, ma al bambino è chiesto di valutare che cosa farebbe un altro bambino in unacerta situazione (ad es.: “Alice dice: - Un problema con un testo corto è più facile di uno con untesto lungo.- Sei d’accordo con lei?”).

3. Risultati.Come abbiamo già sottolineato, la presente ricerca si configura come studio preliminare, e tali sonoquindi da considerare i risultati che presentiamo. Molti di essi sono già fortemente indicativi, altrici danno comunque informazioni su come procedere per la ricerca futura; in alcuni casi è il numerobasso dei soggetti coinvolti che rende difficile l’interpretazione dei dati, in particolare il confrontofra il gruppo dei bravi solutori e quello dei cattivi solutori.Per motivi di spazio ci limitiamo a presentare le risposte alle domande a nostro parere piùsignificative. Sono omesse in particolare le risposte alle domande aperte, e le motivazioni previsteper molte domande a scelta multipla, che, seppure estremamente interessanti, richiederebberoun’analisi differenziata e complessa.

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1. Le prime ricerche: il problem solving 40

Per maggior chiarezza e leggibilità abbiamo inserito in ogni domanda analizzata la tabella con irelativi dati ed eventuali commenti. Viene indicato con ALTI il gruppo dei bravi solutori (30bambini), e con BASSI quello dei cattivi solutori (21 bambini). Per riconoscere se le differenze fra igruppi sono significative le risposte ad alcune domande sono state raggruppate ulteriormente,naturalmente in base a criteri fondati dal punto di vista teorico.Le domande esaminate sono raggruppate secondo l’area indagata:a] concetto di problema;b] rappresentazione dei processi di soluzione;c] convinzioni su di sé come solutore di problemi.

a] Concetto di problemaDei 10 items che mirano ad individuare quale concetto hanno i bambini di problema scolastico,alcuni lo fanno in modo diretto, altri in modo indiretto, attraverso domande relative all’attività disoluzione di problemi.Le domande dirette esplorano il rapporto fra problema scolastico e problema reale e gli schemi inbase ai quali i bambini riconoscono un problema scolastico. Le altre domande indagano sugliobiettivi che i bambini riconoscono nell’attività di soluzione di problemi, sull’adesione dei bambiniagli stereotipi del problema scolastico, sulle categorie in base alle quali viene valutata a priori ladifficoltà di un problema.

3. Secondo te, perché i problemi di matematica si chiamano proprio problemi?ALTI BASSI

[A] È un nome come un altro per distinguerli: sipotevano chiamare anche esercizi.

4 5

[B] Perché per la mente c’è una situazione difficile darisolvere.

17 6

[C] Perché se un bambino non riesce a risolverlo, si trovain un problema.

2 6

[D] Perché descrivono un problema di qualcuno, e cichiedono di risolverlo.

7 4

Le quattro risposte rimandano a modelli impliciti di problema diversi, dando informazionisignificative da un lato sull’associazione fra modello di problema reale e di problema scolastico(nella risposta A, a differenza delle altre, manca tale associazione) dall’altro sul tipo di motivazionelegata alla risoluzione del problema: centrata sul compito (risposte B e D) oppure sul soggettosolutore (risposta C). Inoltre il modello implicito nella risposta B si presenta più generale di quelloimplicito nella risposta D.Raggruppando, dato il numero basso di risposte, le scelte A e C (caratterizzate entrambedall’assenza di una motivazione centrata sul compito) riconosciamo che bravi e cattivi solutorifanno riferimento a modelli impliciti di problema significativamente diversi rispetto alle categorieevidenziate (chi2=6,153; p=0,047).

4. Cos’è secondo te un problema di matematica?ALTI BASSI

[A] Un testo in cui ci sono dei numeri e una domanda. 4 4[B] Una situazione da risolvere con l’aiuto dellamatematica.

23 5

[C] Un esercizio in cui bisogna decidere le operazioni dafare- e poi farle.

2 6

[D] Un esercizio che si fa nell’ora di matematica. 1 6

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1. Le prime ricerche: il problem solving 41

Anche questa domanda permette di evidenziare modelli di problema scolastico differenti, seppurerispetto a categorie diverse dal caso precedente. Le quattro possibili risposte rimandano a schemidiversi in base ai quali riconoscere i problemi scolastici. Tali schemi suggeriscono di identificare 4categorie di soggetti:- formalisti, che riconoscono il problema da caratteristiche formali del testo, quali la presenza di

numeri e di una domanda (risposta [A]);- strutturali, per i quali il problema viene caratterizzato, in modo strutturale, dal fatto di richiedere

l’uso di strumenti matematici (risposta [B]);- operativi, per i quali i processi risolutivi ritenuti caratterizzanti dei problemi sono limitati alle

operazioni aritmetiche (risposta [C]);- pragmatici, per i quali il problema è caratterizzato da elementi contingenti, come lo svolgersi

durante l’ora di matematica (risposta [D]).Raggruppando, dato il basso numero di risposte, le categorie di risposte A, C e D, riconosciamoanche in questo caso convinzioni significativamente diverse: i bravi solutori, a differenza dei cattivi,appartengono per lo più alla categoria degli strutturali (chi2=13,939; p<0,001).

5. Ci può essere un problema di matematica senza numeri?ALTI BASSI

� SÌ 21 8� NO 9 13Le risposte dei due gruppi differiscono in modo significativo (chi2=5,126; p=0,024).

6. I problemi di matematica hanno sempre una soluzione?ALTI BASSI

� SÌ 13 12� NO 17 9Le risposte dei due gruppi non differiscono in modo significativo (p>0,25).

7. Giacomo ha fatto un problema. Si è accorto però di non aver usato un dato e allora decidedi rifarlo perché pensa di aver sbagliato. Sei d’accordo con lui?

ALTI BASSI� SÌ 13 10� NO 17 11I due gruppi non differiscono in modo significativo (p>0,75).

8. È possibile che due compagni risolvano lo stesso problema in due modi diversi, e cheabbiano ragione tutti e due?

ALTI BASSI� SÌ 26 15� NO 4 6I due gruppi non differiscono in modo significativo (p>0,1).

9. Alessandro dice: “Un problema con tante domande è più difficile di un problema con unadomanda sola.” Sei d’accordo con lui?

ALTI BASSI� SÌ 6 11� NO 24 10

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1. Le prime ricerche: il problem solving 42

I cattivi solutori, a differenza dei bravi, pensano per lo più che un problema con tante domande siapiù difficile di uno con una domanda sola (chi2= 5,828; p=0,018).

10. Alice dice: “Un problema con un testo corto è più facile di un uno con un testo lungo.” Seid’accordo con lei?

ALTI BASSI� SÌ 3 13� NO 27 8Anche in questo caso le convinzioni dei due gruppi sono significativamente diverse (chi2=13,18 conla correzione di Yates; p<0,001).

11. Nicola dice: “I problemi con numeri piccoli sono sempre più facili di quelli con numerigrandi.” Sei d’accordo con lui?

ALTI BASSI� SÌ 7 8� NO 23 13Le risposte dei due gruppi non differiscono in modo significativo (p>0,25).

25. Secondo te, a cosa serve fare un problema di matematica?ALTI BASSI

[A] Per imparare a fare bene i conti. 2 4[B] A niente. 1 0[C] Perché la maestra vuol capire chi ha studiato e chino.

0 0

[D] Per imparare a ragionare. 26 16[E] Perché la maestra vuole capire chi è intelligente e chino.

1 1

Raggruppando, dato il numero basso dei dati, le risposte A, B, C, E, troviamo che i due gruppi nondifferiscono in modo significativo (p>0,5): l’obiettivo “imparare a ragionare” pare condiviso daentrambi i gruppi.

b] Rappresentazione dell’attività di risoluzione dei problemi(…)

c] Rappresentazione di sé come solutore di problemi matematici(…)

4. Conclusioni.I dati che abbiamo presentato, seppure relativi ad un numero basso di soggetti, confermano l’ipotesi,alla base dello studio pilota, che bravi e cattivi solutori hanno convinzioni significativamentediverse sui problemi.Tali convinzioni costituiscono schemi interpretativi della realtà, che agiscono come guida nellaselezione delle strategie (Silver,1982a): la nostra ricerca suggerisce che alcuni di questi schemi sono“vincenti”, in quanto correlati al successo, e altri “perdenti”, in quanto correlati al fallimento.In particolare le risposte dei bravi solutori rimandano a schemi di problemi stabili, scarsamentesensibili ad elementi formali e contestuali. Tale stabilità emerge anche nella valutazione a prioridella difficoltà di un problema: i bravi solutori, a differenza dei cattivi solutori, non si fannoinfluenzare da elementi sintattici quali la lunghezza del testo o il numero delle domande, eall’interno del processo risolutivo danno maggiore importanza al procedimento piuttosto che aicalcoli.

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In definitiva tali schemi “vincenti” sembrano stimolare la corretta utilizzazione delle conoscenze: larelazione fra le dimensioni cognitiva, metacognitiva e affettiva, sottolineata dalla letteratura (vediSchoenfeld, Silver, Cobb, Borkowski) e confermata dalla presente ricerca, dovrebbe portarel’insegnante a considerare l’effetto giocato dalle componenti affettive nell’apprendimento, inparticolare a cercare di esplicitare le convinzioni dei bambini ed a lavorare su di esse.Come abbiamo già sottolineato in precedenza, nella costruzione e nel consolidamento delleconvinzioni di un soggetto riveste un ruolo centrale l’esperienza scolastica, e in particolare il tipo diinsegnamento ricevuto.Nel campo della risoluzione di problemi ad esempio, molte ricerche mettono in evidenza il peso chehanno nella formazione di stereotipi certe caratteristiche dei problemi utilizzati nella prassiscolastica. Particolarmente rilevanti appaiono la formulazione del problema in un linguaggioverbale sintetico e artificioso (Nesher, 1980), e più in generale il fatto che il problema scolastico, adifferenza di quanto accade in genere per il problema reale, è posto e formulato da altri (Kilpatrick,1987).È quindi fondamentale che l’insegnante riesca a presentare una varietà di situazioni, se vuoleprevenire la costruzione e il consolidamento di convinzioni perdenti, ma è comunque necessario chesappia affrontare e analizzare situazioni di fallimento o di difficoltà. Tale analisi richiedel’utilizzazione di categorie più ampie rispetto a quelle che fanno riferimento esclusivamente alpossesso di conoscenze e abilità: in questa prospettiva l’insegnante di Scenetra, riuscendo a scoprirele convinzioni della bambina, è riuscita a neutralizzarne gli effetti, e a liberare le sue potenzialità.Questo lavoro preliminare di esplicitazione è forse quello più complesso (Schoenfeld, 1985) erichiede da parte dell’insegnante un atteggiamento di particolare attenzione e disponibilità. Non sitratta di elaborare strumenti per classificare i bambini in base alle convinzioni che hanno, ma dicercare di portare alla luce le teorie che hanno costruito, per poter interpretare i loro comportamentialla luce di tali teorie, e non delle nostre. Le domande che abbiamo presentato possono essere unpunto di partenza per avviare questo tipo di lavoro, soprattutto possono essere spunto di riflessioneper l’insegnante, ma non vanno calate tout court nel lavoro della classe per classificare i bambini inbase alle risposte date: un uso di questo genere andrebbe esattamente nella direzione oppostarispetto a quello che abbiamo cercato di delineare. Inoltre gli strumenti che l’insegnante ha adisposizione sono vari e ben più ricchi: le domande aperte, l’osservazione in classe, la discussionecollettiva (cfr. Bartolini Bussi e altri, 1995).Una volta portate alla luce le teorie dei bambini, non si tratta poi di insegnare le convinzioni giuste,ma di offrire una varietà di situazioni che impedisca la costruzione ed il consolidamento di schemiperdenti, e ne favorisca invece la rimozione. Ci sembra interessante sottolineare a questo propositoche i due gruppi (bravi e cattivi solutori) non si differenziano in modo significativo nelle risposteche fanno riferimento a opinioni o raccomandazioni in genere esplicitate dall’insegnante (v.domande 8, 25, 29). La consapevolezza del bambino che esiste una opinione corretta (quellaespressa dall’insegnante) gli impedisce di esprimere opinioni personali divergenti, ma questo nonsignifica necessariamente che tale opinione sia interiorizzata al punto tale da incidere suicomportamenti. Ci sono quindi convinzioni che, pure apparentemente presenti a livelloconsapevole, non costituiscono una “visione del mondo” elaborata dal bambino, ma piuttosto unriflesso, più o meno condiviso, della visione del mondo proposta dall’adulto: è ragionevoleipotizzare che il peso di tali convinzioni sulla scelta dei comportamenti da mettere in atto sia indefinitiva meno rilevante. L’identificazione dei sistemi di convinzioni costituirebbe comunque solo un primo passo, seppureimportante, verso il recupero delle difficoltà. Il legame che si è evidenziato fra convinzioni erendimento è infatti dialettico e complesso, e non si può ridurre ad un semplice rapporto di causa-effetto in un senso o nell’altro. Questa complessità pone una serie di questioni teoriche e didatticheche saranno oggetto della nostra ricerca futura:- Si possono modificare i sistemi di convinzioni del bambino?

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- In caso affermativo, come?- Un eventuale cambiamento delle convinzioni avrebbe poi ripercussioni sul rendimento? Quali?

(…)

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2. Esplorando… 1

2Esplorando…

0. PremessaLe ricerche illustrate al punto precedente avevano in comune sia il livello scolastico (elementari /medie), che il tema (problem solving), ma in realtà l’ultima delle 4, quella sulle convinzioni deibambini sui problemi, apre a problematiche completamente diverse, in cui la risoluzione deiproblemi scolastici nella scuola elementare ha un ruolo tutto sommato di contesto.

E in effetti quella ricerca segna per me l’abbandono del problem solving come tema di ricerca.Cerco di spiegare il perché.Non perché ormai sapevo abbastanza del problem solving! Anzi: vedevo come oscuri aspetti cheall’inizio non potevo immaginare.Nemmeno per il ‘richiamo’ degli aspetti affettivi, che si erano affacciati nel lavoro sul contesto e poidefinitivamente insediati in quello sulle convinzioni. Certamente il richiamo c’era ed era sufficienteper andare alla scoperta di un campo nuovo, ma non per abbandonare il vecchio!Il fatto è che mi rendevo sempre più conto che gli strumenti che avevo erano inadeguati a spiegareproprio i fenomeni che mi interessavano. Ho conservato i quaderni di allora: appunti, dubbi nonabbastanza lucidi da poter essere esplicitati, una confusione resa evidente da innumerevoli puntiinterrogativi ed esclamativi di varie dimensioni. Sentivo di non avere i mezzi per affrontare ilproblema delle dinamiche problema / domanda. Intuivo che c’era di mezzo la linguistica, e lapsicologia, soprattutto la psicologia sociale. Sentivo che si mescolavano livelli diversi, ma nonriuscivo a controllarli, e nemmeno a distinguerli.Non era (solo) quello che ora chiamerei scarso senso di auto-efficacia: anche certe ricerche di altrimi lasciavano insoddisfatta.

Certo, il problema che io avvertivo era stato individuato e analizzato in diversi contesti, con diverseterminologie. Ma avevo quasi l’impressione che in realtà nella maggior parte degli studi l’attenzionea questo problema fosse minima, e che, dette alcune cose a riguardo (là dove tali cose si dicevano),poi si andasse avanti ‘come se’ le cose funzionassero: mentre per me era un problema da cui non sipoteva prescindere.Ogni volta che leggevo le analisi dei processi risolutivi di allievi, fatte all’interno del contesto delproblem solving matematico, non potevo fare a meno di ripensare alla risposta di quella bambina diquarta elementare:

«mi fa venire in mente problema di una storietta corta dove finita la storia bisogna risolverlae quando non riesco a concentrarmi sul problema mi immagino sempre: ecco perché l’hannochiamata problema.» [4.14 C]

In particolare ogni volta che leggevo espressioni quali ‘non è in grado di’, ‘non ha le capacità di’(espressioni che io stessa avevo usato nel primo studio sui dati essenziali), mi veniva in mente

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2. Esplorando… 2

Scenetra, la ricerca sul contesto, e ancora Sandro, quel bambino di quinta elementare che avevascritto:

«C’è un problema addosso alla gente, c’è un problema che si fa sul quaderno.»

Non ho abbandonato ‘il problema’: sono andata a cercarmi i mezzi. Questo ha significato ‘uscire’dal problem solving matematico, uscire dal locale, per spiegare fenomeni che sentivo giocarsi fuorida tali contesti.L’allargamento della ricerca in didattica della matematica dal locale può generare ( e di fatto genera)alcune perplessità. C’è chi si chiede: Ma è ancora didattica della matematica la ricerca che sioccupa di convinzioni, di emozioni, di atteggiamenti? O del linguaggio? Questo abbandono di uncampo – di cui parlavo prima – non è addirittura l’abbandono della ricerca in didattica dellamatematica?Riprenderò queste domande più avanti, e darò le mie risposte.Voglio comunque osservare che le mie prime ricerche, o meglio l’esperienza di lavoro nel problemsolving, mi hanno lasciato tante cose, non solo problemi nuovi e la spinta a cercare altrovesoluzioni, ma alcuni strumenti per valutare dove e come cercare!Dal problem solving ho imparato infatti:- a chiedermi che obiettivi mi pongo, e più in generale che obiettivi si pone un altro, PRIMA di

giudicare le strategie- a distinguere obiettivi e strategie.Sono elementi che sono stati cruciali anche dopo aver lasciato il tema specifico del problem solving:sono diventati un modo di guardare la realtà.Tanto che tutto il percorso descritto in questo Seminario mi vien da vederlo come un unicoProblema, e in fondo, all’interno di tale percorso riconosco le fasi tipiche di un processo risolutivo:le prime ricerche che ho presentato costituiscono il momento della comprensione (o meglio dellaformulazione, visto che si tratta più di problem posing che di problem solving); la parte centrale (iltentativo di definire una teoria) si può vedere come la pianificazione e l’implementazione del pianorisolutivo; e finalmente (ma non necessariamente alla fine!) seguirà la verifica dei risultati, cioè ilcontrollo di questa teoria con la pratica1.Proprio per questo mi sembra di poter definire esplorazione il momento che sto descrivendo: ilproblema c’è, ma non è ancora chiaro il piano. Si provano strade, si fanno tentativi, si analizzanoalcuni aspetti particolari: si esplora.

Le esperienze di questo periodo sono state per me assolutamente cruciali. Ripercorrendole in ordinecronologico:- l’esperienza di recupero agli studenti di biologia (a.a. 1993-’94)- il corso di recupero in un Liceo Pedagogico (anno 1994-‘95)- l’indagine sui processi decisionali (dopo il 1995)- un pre-corso agli studenti della Facoltà di Scienze (settembre 1996)- un’indagine evolutiva sull’atteggiamento nei confronti della matematica (1996-’97)- il corso per insegnanti di matematica di scuola superiore sul tema del recupero delle difficoltà

(1998-’99)Le ricerche sono caratterizzate da una metodologia diversa, rispetto a quelle del gruppo precedente:conseguenza della relativa libertà che caratterizza le fasi di esplorazione, ma segno anche di uncambiamento graduale di ‘paradigma’ di ricerca, allora del tutto inconsapevole.

1 Pietro Di Martino non è convinto di questa similitudine, per le implicazioni che ha, che suggeriscono un approcciotroppo normativo. Ha ragione, ma la lascio lo stesso: mi piace l’idea dell’esplorazione come fase preliminare alle altre.

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Parallelamente la lettura di nuovi lavori fa da sfondo a queste esperienze, influenzandole marimanendone influenzata. I riferimenti via via si allargano sollecitati da nuove intuizioni o da nuoviproblemi, e a loro volta sollecitano nuove intuizioni e nuovi problemi: il quadro teorico ancora unavolta evolve con le ricerche.Difficile ricostruire con esattezza questa evoluzione, che è poi la mia evoluzione.Ed è impossibile riportare integralmente le esperienze, alcune delle quali non sono mai statepubblicate per intero.La scelta che ho fatto è stata quindi anche questa volta di selezionare e sottolineare le parti piùsignificative rispetto al tema del Seminario. In questo senso l’esperienza più importante è stataquella del recupero agli studenti di Biologia, in cui per la prima volta agivo come ricercatore mentreinsegnavo. Ho dato quindi particolare spazio alla descrizione dell’intervento, riportando gran partedell’articolo a suo tempo pubblicato. Ho invece tagliato la parte introduttiva per evitare alcuneripetizioni relative al quadro teorico, in parte già presente nelle ricerche precedenti. Anche in questasezione ho sottolineato il percorso di ricerca fatto nella premessa ‘Ripensando…’: ed è in questapremessa che ho inserito i riferimenti nuovi (l’istantanea del quadro teorico di quel momento), oltread alcune riflessioni a mio parere cruciali per il problema delle difficoltà, e anche per il problemadella formazione del ricercatore che fa da sfondo in questo Seminario.Per quanto riguarda le altre esperienze, mi sono limitata ad alcune considerazioni estremamentesintetiche che ritengo particolarmente significative in questo contesto.

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1. Un’esperienza cruciale: il corso di recupero (da ricercatoree insegnante a ricercatore – insegnante)

0. Ripensando….L’intervento di recupero è stato un’esperienza cruciale per diversi motivi che cercherò dianalizzare.Per la prima volta le mie attività di ricercatore e di insegnante hanno interagito.Perché quella scelta, dopo tanti anni che facevo esercitazioni ai corsi di Istituzioni di Matematicaper Biologia? Perché proprio in quel momento?Il fatto è che la ‘teoria’ lentamente mi aveva cambiato, ed in particolare aveva cambiatol’insegnante che è in me. Intendo qui per teoria i risultati delle ricerche: quelle personali, e iresoconti di quelle di altri, che si intrecciavano continuamente.In particolare la riflessione sul ruolo dei fattori affettivi si era approfondita ed allargata dalleconvinzioni alle emozioni ed atteggiamenti.Il ruolo ad essi riconosciuto è una conquista piuttosto recente della ricerca in problem solving(testimoniata dal volume già citato "Affect and mathematical problem solving", di McLeod eAdams, del 1989, interamente dedicato ai collegamenti fra problem solving e fattori affettivi) e inpsicologia dell'apprendimento in generale: le ricerche tradizionali infatti si limitavano agli studidegli effetti dell'ansia (un'emozione) e dell'interesse (un atteggiamento) sulla performance, mentreora si riconosce più in generale che "gli stati emozionali interagiscono in modo importante con letradizionali funzioni cognitive." (Mandler, 1989).In questi lavori le emozioni vengono definite come reazioni soggettive a situazioni specifiche: tipiciesempi sono la gioia, la paura, l'ansia, la frustrazione. Esse sono legate ai comportamenti in duesensi: possono agire come motore di azioni (con effetti stimolanti o debilitanti) o possono essereconseguenza di azioni. Si sottolinea che gli atteggiamenti differiscono dalle emozioni per esserecaratterizzati da una maggiore persistenza nel tempo e da una minore intensità: possono quindiessere considerati, a differenza delle emozioni, tratti caratteristici di un soggetto, anche seeventualmente transitori. La definizione di atteggiamento cui faccio riferimento in quel periodo èpiuttosto vaga: accetto la caratterizzazione di Rokeach (in Kulm, 1980) come “un’organizzazionedi diverse convinzioni su un oggetto o una situazione specifici, che predispone un individuo arispondere in qualche modo preferenziale.” E così accetto le considerazioni di Mc Leod (1989),secondo il quale c’è uno stretto rapporto fra emozioni e atteggiamenti: una reazione emozionaleripetuta a un oggetto o a una situazione tende a perdere le caratteristiche di forte intensità mabreve durata nel tempo, e si consolida in atteggiamento verso quell’oggetto o quella situazione,meno intenso ma più persistente. Ad esempio, osserva Mc Leod, se uno studente ha continueesperienze negative con dimostrazioni di geometria, l'impatto emotivo davanti a tali compitiperderà col tempo di intensità, e la reazione emotiva alle dimostrazioni geometriche diventerà piùautomatica e stabile. In molti studi viene sottolineato che anche se gli atteggiamenti consideratitradizionalmente più significativi sono motivazione, interesse, fiducia in se stessi, fatalismo, inrealtà le ricerche che tentano di evidenziare una correlazione fra atteggiamenti e rendimento nonhanno dato risultati incoraggianti. Un aspetto estremamente delicato e controverso in tale tipo distudi è la misurazione degli atteggiamenti (Kulm, 1980). In particolare, in molte ricerche non siriesce a distinguere fra convinzioni e atteggiamenti: così la misura di atteggiamenti viene spessorealizzata attraverso questionari sulle convinzioni, rendendo ambigui e difficilmente interpretabili irisultati.La riflessione su questi aspetti, e la rilettura continua delle mie esperienze precedenti alla lucedelle idee nuove che venivo a scoprire, avevano cambiato poco per volta il mio modo di guardare larealtà.

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Poco per volta avevo cominciato a guardare - e quindi a vedere - cose che prima non guardavo, equindi non vedevo.Da qui è nato il corso di recupero: da un modo diverso di osservare e interpretare.Certo le occasioni per guardare, e quindi per vedere, me le dava però il mio ruolo di insegnante.Ed è questa osservazione che produce l’ipotesi di ricerca: si possono rimuovere le cause difallimenti all'esame di matematica se si sviluppano ‘adeguatamente’ le capacità metacognitive(cioè di gestione delle risorse cognitive possedute) e se si modificano gli atteggiamenti negativi.E quindi è come ricercatore che comincio questa impresa: il motore è la curiosità, voler indagaresulle cose, mettere alla prova certe ipotesi. Ma c’è anche un altro motore: l’interazione con glistudenti che falliscono, conoscere (il più delle volte semplicemente intuire) le loro storie. Marco,Irene, Paola… Nella ricerca non ci sono ipotesi ‘migliori’ di altre, ‘più buone’ di altre, ma nellarealtà sì.Dicevo che ho cominciato l’esperienza come ricercatore- ma a parte l’impossibilità materiale ditrovare un insegnante che si facesse carico della sperimentazione – la particolarità e soprattutto lanovità dell’esperienza suggerivano l’opportunità che il ricercatore e l’insegnante fossero la stessapersona. L’esperienza era così nuova, che non potevo contare su altre precedenti: gli interventi alivello metacognitivo esplicito avevano avuto in genere carattere di ‘recupero’, coinvolgendo per lopiù soggetti con difficoltà d'apprendimento, seppure lievi o specifiche. Anche se i risultati di annidi studi teorici e sperimentali in questo campo suggerivano l’efficacia di un approccio di questotipo ai disturbi d'apprendimento (soprattutto con soggetti non troppo giovani), rimanevano aperteperò molte questioni su quali fossero le modalità più opportune di intervento. L’aspetto piùdelicato dal punto di vista teorico sembrava essere quello della possibilità / opportunità / modalitàdi separare l'intervento metacognitivo da un intervento cognitivo (Montague, 1992) o viceversa dicontestualizzarlo in un ambito di conoscenze specifiche, quale ad esempio un corso curricolare dimatematica (Hutchinson, 1992; Schoenfeld,1987; Lester e al., 1989).D’altra parte venivano anche evidenziati i limiti di un intervento basato solo su aspettimetacognitivi, relativamente alla persistenza nel tempo del miglioramento ottenuto. Veniva infattisottolineata la necessità di considerare anche aspetti affettivi, in particolare legati allamotivazione, quali il senso di autoefficacia e il piacere di apprendere, che sono strettamentecollegati alla selezione di strategie e ai processi di controllo: si evidenziava cioè il legame fra losviluppo delle capacità metacognitive e le ragioni che spingono il soggetto verso l'apprendimento(Borkowski e Muthukrishna, 1994) .In definitiva era tutto da inventare. Bisognava quindi definire o ridefinire di volta in volta lestrategie da utilizzare, ma anche prendere una serie di decisioni non prevedibili e quindi nonpianificabili. Si trattava in fondo di sperare che la stessa ‘sensitivity’ (v. Mason, 1994) che miaveva portato a pormi il problema mi avrebbe poi aiutato ad affrontarlo.In quella situazione – ed è questo che qui mi interessa sottolineare – le dinamiche fra i miei dueruoli (di ricercatore e di insegnante) sono state varie, e si sono modificate nel tempo. Ci sono statidei conflitti: se il mio obiettivo di ricercatore era ‘vedere se funziona’, quello di insegnante era‘farlo funzionare’ (o addirittura che qualcosa, qualsiasi cosa, funzionasse!). Non è stato unconflitto negativo: ha prodotto sicuramente un investimento delle mie energie (=motivazioni) diinsegnante nel mio lavoro di ricerca.Credo sia un punto che meriti di essere approfondito.Ripensando col distacco consentito dal tempo passato, ma anche con la consapevolezza acquisitada altre ricerche, e da altre esperienze (penso da un lato al corso di Istituzioni che ormai tengo datanti anni, dall’altro all’attività di aggiornamento che mi permette un feedback continuo con gliinsegnanti su questo tema) vedo questa presenza nella stessa persona di due ruoli diversiassolutamente cruciale.Ma non è un fatto fisico: è un processo lento di integrazione continua, nel quale l’esperienza delricercatore modifica profondamente l’insegnante che è in lui, ma anche viceversa.

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2. Esplorando… 6

Si ha cioè una dinamica di questo tipo2:

… teoria insegnante pratica ricercatore teoria… modifica modifica modifica modifica

Questo punto mi sembra particolarmente significativo per la formazione dei ricercatori, ma ancheper la formazione degli insegnanti: ci ritornerò sopra più avanti.

1. Il problemaÈ in questo contesto di problematiche che si inserisce la ricerca qui descritta, finalizzata a verificarel'efficacia di un intervento esplicitamente diretto agli aspetti metacognitivi e affettivi(motivazionali), in un contesto strettamente disciplinare, quale il programma di matematica di uncorso universitario.Più precisamente essa riguarda un'esperienza di recupero da me realizzata nell'a.a. '93-'94 con ungruppo di studenti di Scienze Biologiche dell'Università di Pisa, che avevano alle spalle una serie difallimenti alla prova d'esame di Istituzioni di Matematiche.In tale anno, e negli anni precedenti, svolgevo esercitazioni a tali corsi, e avevo avuto modo diosservare (correggendo gli elaborati scritti, assistendo alle prove orali, svolgendo attività diricevimento) alcune difficoltà tipiche di molti studenti, peraltro spesso circoscritte all'esame diMatematica.Ad esempio per quanto riguarda la prova scritta, il cui superamento è essenziale per l'ammissionealla prova orale, si riscontravano in molti elaborati carenze dovute a:-mancanza di controllo del tempo (in particolare veniva dedicato ad un singolo esercizio unapercentuale eccessiva del tempo totale disponibile; nella risoluzione dei singoli esercizi non c'eracontrollo sul tempo dedicato a tentativi di risoluzione);-mancanza di controllo sui procedimenti: in itinere (ad esempio nei problemi di geometria cherichiedevano costruzioni intermedie, non c'era controllo sulla correttezza di tali costruzioni, per cuiun eventuale errore pregiudicava tutto il procedimento) e finale (ad esempio nella risoluzione diequazioni differenziali o di integrali indefiniti non veniva sfruttata la possibilità di verificare lacorrettezza dei risultati);-mancanza di controllo sui calcoli (per cui anche negli esercizi che risultavano più "facili" nonveniva ottenuto il punteggio massimo);-rinuncia a priori ad affrontare gli esercizi relativi ad alcune aree del programma (ad esempio quelleche erano state aggiunte al programma in anni successivi).Per quanto riguarda la prova orale, i problemi evidenziati erano:-inefficacia del metodo di studio, che privilegiava la memorizzazione rispetto alla comprensione enon favoriva il collegamento fra le varie conoscenze 3; -incapacità di programmare la propria preparazione, di decidere cioè quando e quanto studiare (adesempio se mancava il tempo per una preparazione completa veniva sacrificata la parte finale delprogramma, e non quella ritenuta eventualmente meno significativa);-incapacità di valutare la propria preparazione, e di decidere quindi in particolare il momento dipresentarsi all'esame.Inoltre molti studenti affermavano di fornire in sede d'esame una prestazione molto inferiorerispetto alla propria preparazione per gli effetti di emozioni negative, quali ansia o addiritturapanico. D'altra parte i colloqui avuti nell'attività di ricevimento mettevano in luce che i ripetuti 2 Adattato da Malara e Zan, in stampa.3Tale frantumazione della materia in episodi indipendenti aveva conseguenze anche sul piano emotivo in quanto,comportando uno sforzo di memoria eccessivo, generava un senso di profonda insicurezza e quindi ansia.

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fallimenti avevano prodotto atteggiamenti negativi, da un lato verso la prova d'esame da superare(fatalismo, rassegnazione), dall'altro verso la matematica (scarso interesse o addirittura rifiuto,insicurezza).Si riconoscevano poi nei confronti della matematica convinzioni generali che avevano un effettonegativo sulla preparazione alla prova scritta, quali: "la conoscenza della teoria non è necessaria perla risoluzione degli esercizi"; "gli esercizi sono solo un problema di addestramento"; quindi "piùesercizi si fanno più probabilità ci sono di superare l'esame"...Nei confronti dei diversi tipi di esercizi tali convinzioni si facevano più specifiche e sidifferenziavano, producendo atteggiamenti a volte addirittura contrastanti 4: eccessiva sicurezza eschematismo (ad esempio negli studi di funzione) / insicurezza e mancanza di punti di riferimento(ad esempio nella geometria).L'osservazione di questi comportamenti mi ha portato quindi a formulare la seguenteinterpretazione:I ripetuti fallimenti di molti studenti non dipendono tanto dall'insufficienza delle conoscenze,quanto dalla cattiva gestione delle stesse e dall'influenza di fattori affettivi (emozioni eatteggiamenti), che contribuiscono ad inibire l'utilizzazione ottimale delle conoscenze possedute,(abbassando quindi notevolmente il rendimento che tali conoscenze permetterebbero). Da tale interpretazione discende l'ipotesi:Si possono rimuovere le cause di tali fallimenti (e quindi ottenere il superamento dell'esame)se si sviluppano "adeguatamente" le capacità metacognitive (cioè di gestione delle risorsecognitive possedute) e se si modificano gli atteggiamenti negativi.

2. Il progetto.Nasce in questo modo l'idea di un intervento teso da un lato a sviluppare la conoscenzametacognitiva degli studenti e la loro capacità di attivare strategie di controllo, dall'altro a rimuoverequelle convinzioni "debilitanti" che sono alla base di atteggiamenti negativi. Più in particolare, per lo sviluppo della conoscenza metacognitiva il progetto prevede ilraggiungimento delle seguenti capacità:-saper valutare le conoscenze possedute; saper esplicitare i propri dubbi e quindi essere consapevolidell'eventuale necessità di colmare lacune;- rendersi conto dei propri punti deboli (ad esempio: lentezza, scarsa precisione nei calcoli,difficoltà a memorizzare..) e dei propri eventuali punti forti;- saper valutare a priori la difficoltà di un esercizio e il tempo necessario per risolverlo.Per lo sviluppo della capacità di attivare strategie di controllo il progetto prevede ilraggiungimento dei seguenti obiettivi:- per lo studio: l'attivazione di strategie, quali porsi domande, decidere quando favorire processi dimemorizzazione rispetto a processi di comprensione5; la gestione del programma d'esame (deciderequanto tempo dedicare ai singoli argomenti, quanto tempo alla ripetizione, ecc.);-per la prova scritta: controllo a priori delle possibilità di riuscita e del tempo necessario allosvolgimento dei singoli esercizi e della prova complessiva; controllo in itinere sui procedimenti, sultempo, sui calcoli; controllo finale sui risultati e valutazione complessiva sulla prova svolta. 4In realtà alcuni ricercatori (McLeod 1992; Tirosh, 1993) concordano sul fatto che non si possa parlare di unatteggiamento nei confronti della matematica, ma di tanti atteggiamenti nei confronti dei vari argomenti o attività dimatematica. Ad esempio uno studente può manifestare atteggiamenti (e anche emozioni) completamente diverse neiconfronti della risoluzione di espessioni o nella risoluzione di problemi. Questo rende naturalmente ancora piùcomplesso il problema di misurare un ipotetico atteggiamento globale nei confronti della matematica, problema cuiabbiamo già accennato precedentemente.5Ad esempio l'acquisizione di una definizione comporta un processo di memorizzazione, che però può essere facilitatodalla comprensione delle relazioni che tale definizione stabilisce fra diversi aspetti di un argomento. Cosìl'utilizzazione, in un teorema, di particolari artifici . I processi di comprensione e memorizzazione interagisconoprofondamente, e la gestione di tale interazione è compito del soggetto che apprende.

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Nel caso delle convinzioni, l'obiettivo comprende:-l'esplicitazione e la rimozione delle convinzioni che sono alla base degli errori persistenti di ognisoggetto 6 ;-la messa in discussione delle convinzioni (metacognitive) che influiscono negativamente sullemodalità di preparazione (ad esempio che "per prepararsi allo scritto non è necessario conoscere lateoria.");-lo slittamento delle attribuzioni di fallimento da cause percepite come non controllabili (difficoltàdella materia, dell'esame, sfortuna, lacune di base) a cause percepite come controllabili (impegnoinsufficiente, metodo di studio inadeguato).

3. Soggetti.Viene quindi comunicato, attraverso un avviso diretto agli studenti interessati, il progetto diorganizzare un corso di "recupero" che, attraverso l'intervento sui fattori descritti, si pone l'obiettivoesplicito di aiutare gli studenti a superare l'esame 7.Nonostante in tale avviso fossero anche elencati i requisiti necessari per la frequenza, si presentanoal primo incontro circa 70 studenti (provenienti da due corsi diversi), che si riducono però a 30quando viene ribadito che condizione assolutamente necessaria per l'ammissione è non solo nonaver superato l'esame di Istituzioni, ma anche avere almeno un'esperienza fallimentare alle spalle.Tale requisito è infatti essenziale per il tipo di intervento previsto, che ipotizza la presenza diconoscenze, ma un'insufficiente capacità di gestirle.

4. L'intervento.Lo spirito del corso viene esplicitato agli studenti in occasione del primo incontro (21 ottobre '93).In tale occasione viene loro consegnato anche un test d'ingresso, articolato in due parti: la prima(v.appendice 1) relativa a convinzioni (in particolare attribuzioni di fallimento), atteggiamenti edemozioni relativi alla matematica; la seconda consistente in due problemi di matematica (uno digeometria e uno studio di funzione).Condizione necessaria per il funzionamento di un corso che si propone di intervenire soprattutto alivello metacognitivo e affettivo-motivazionale, è l'assunzione piena, da parte degli studenti, dellaresponsabilità dell'apprendimento (Ashman e Conway, 1991, p.221) .Questo aspetto viene sottolineato fin dall'inizio, assieme alle implicazioni da esso derivanti:-responsabilità nella frequenza, e nel tenersi aggiornati dopo eventuali assenze;-obbligo di svolgere i compiti assegnati (esercizi / teoria) entro i termini richiesti;- impegno di esplicitare chiaramente eventuali dubbi, avanzando solo richieste puntuali dichiarificazione .

Tale assunzione di responsabilità comporta in genere una modifica radicale di atteggiamenti, equindi uno sforzo notevole che può venire attivato solo se gli studenti riescono ad attribuirgli unvalore positivo. Fondamentale in questo senso è allora riuscire a ottenere che gli studenti credanonel legame fra impegno e rendimento (Kurtz e Borkowsky, 1984, in Ashman e Conway, 1991).Proprio per questo motivo, in particolare per modificare innanzitutto il senso di autoefficacia e dipossibilità di successo degli studenti (che per la maggior parte vedono nella prova scritta un

6Schoenfeld (1985) osserva che il momento più complesso del processo di rimozione di convinzioni che stanno alla basedi errori è proprio quello iniziale, che consiste nell'individuarle.

7È importante, perchè gli studenti siano motivati e investano le proprie energie, che l'obiettivo esplicito di un corso direcupero sia condiviso dagli studenti. Nel nostro caso non sarebbe stata altrettanto condivisibile la finalità di impararela matematica: sarà una sfida per il docente dimostrare agli studenti che proprio imparare la matematica può essere ilpercorso più economico e sicuro per raggiungere i loro obiettivi.

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ostacolo assolutamente insormontabile), viene deciso di dividere il corso in due parti: la prima dipreparazione alla prova scritta, la seconda di preparazione alla prova orale.Non è possibile per motivi di spazio descrivere dettagliatamente il contenuto del corso. Mi limiteròquindi a sintetizzare alcune indicazioni generali, rimandando per il materiale utilizzato alleappendici.

-Preparazione alla prova scritta.Anche se il carattere essenzialmente metodologico del corso non è strettamente condizionato dallascelta dei contenuti, le stesse esigenze di carattere motivazionale descritte sopra portano ad unaselezione dei contenuti in base alle esigenze evidenziate dalla maggior parte dei corsisti.Si individuano così le seguenti aree di intervento:-geometria dello spazio;-studi di funzione;- integrali. Al di là di alcune differenze legate alla specificità dei contenuti, su cui mi soffermerò in seguito, lametodologia generalmente seguita è la seguente:1. esplicitazione delle conoscenze necessarie, che2. ogni studente deve preoccuparsi di acquisire autonomamente e individualmente;3.- verifica (in classe o a casa) del possesso di tali conoscenze (in genere attraverso test diautovalutazione o questionari), con eventuale ritorno, in caso negativo, al punto precedente;4.-presentazione di "esercizi", per la soluzione dei quali è sufficiente l'applicazione diretta di taliconoscenze;5. presentazione di "problemi".Trasversalmente:- discussione in classe su eventuali richieste di chiarificazioni, purchè dettagliate e puntuali ;- discussione sugli errori, e ricerca delle convinzioni soggiacenti8.Dopo una prima fase iniziale i "problemi" vengono proposti con una griglia (v.appendice 3)finalizzata all'attivazione di processi di controllo (a priori, in itinere, finali), sia che si tratti disingoli esercizi, che di compiti con più items.Inoltre alla conclusione dei vari argomenti vengono affrontate, a casa e in classe, prove incondizioni d'esame: limiti di tempo, svolgimento individuale, appunti consultabili.Al di là di queste indicazioni generali, vorrei soffermarmi su alcuni punti legati alla specificità degliargomenti.È già stato osservato che non si può parlare in realtà di un unico atteggiamento nei confronti dellamatematica. Inoltre un atteggiamento è costituito da sistemi di convinzioni che interagiscono.Così l'atteggiamento di insicurezza riscontrato in molti studenti nei confronti della geometria, puòessere spiegato a mio parere dall'interazione fra le seguenti convinzioni su di sè e sulla matematica,più o meno specifiche:- i problemi di geometria sono uno diverso dall'altro;- non è possibile, per risolverli, utilizzare schemi di riferimento, in altre parole ricondurli adesercizi;- solo persone particolarmente dotate possono risolvere problemi di matematica che non siano diroutine;

8Ad esempio molti studenti, nonostante le ripetute correzioni, continuavano a voler rappresentare una retta nello spaziocon un'equazione di primo grado. Dopo un'insistente analisi dell'origine di tale errore, è emersa la convinzione di unodi essi che combinando linearmente le due equazioni di un sistema, si ottiene un'equazione equivalente alle altre due.Così il sistema (rappresentante le intersezioni di due piani) può essere sostituito con un'unica equazione, rappresentantela retta! Questa convinzione specifica, collegata a mio parere anche con una più generale, metacognitiva, e cioè che unsistema va comunque risolto, produceva in tale studente gli errori persistenti citati all'inizio. La rimozione di taleconvinzione ha messo fine a questi errori,

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- "io" non sono dotato per la matematica.L'atteggiamento di eccessiva sicurezza e schematismo riscontrato nei confronti degli studi difunzione si può spiegare in termini di un altro sistema di convinzioni, che coesiste col precedente.È chiaro allora che un atteggiamento "negativo" nei confronti della matematica è costruitodall'interazione fra tali sistemi, ed è ragionevole ipotizzare che per ottenere un cambiamento in taleatteggiamento è necessario intervenire in modo differenziato sulle diverse convinzioni che loproducono. Sarà necessario da un lato aumentare la sicurezza degli studenti nei confronti deiproblemi di geometria, fornendo loro ad esempio schemi di problemi cui fare riferimento9, dall'altromettere in crisi il comportamento eccessivamente schematico messo in atto nei confronti degli studidi funzione, proponendo prove opportune (ad esempio richieste di riconoscere fra un certo numerodi grafici quello corrispondente a una funzione data, con il minimo numero di controlli).Questo stretto legame fra contenuti, convinzioni e atteggiamenti mi sembra costituisca unargomento a favore della necessità di contestualizzare un intervento metacognitivo in un ambitodisciplinare.

Alla fine della prima parte dedicata alla preparazione dello scritto, emerge l'esigenza di controllarel'evoluzione nel tempo dei risultati raggiunti dai singoli corsisti, e di individuarne possibili erroriricorrenti, eventualmente inconsci. Infatti manca spesso la consapevolezza del ruolo positivo chel'errore può avere nel processo d'apprendimento, per cui molti studenti tendono a rimuovere i proprisbagli, piuttosto che a indagarne le cause. Queste riflessioni portano alla decisione di correggeretutti gli elaborati consegnati, e di dedicare del tempo a colloqui individuali con ogni soggetto, inmodo da fare il punto sui progressi ottenuti e su eventuali convinzioni personali da rimuovere.-Preparazione all'orale.

(…)

5. Risultati.Il corso termina alla fine del primo semestre (il 7 febbraio '94) con un totale di 36 ore (2 oresettimanali all'inizio, 4 ore settimanali dopo i primi incontri).La frequenza degli studenti è alta: dopo i primi tre incontri, il numero dei corsisti si stabilizza su27, con una frequenza media di 25.Al termine del corso gli studenti manifestano un notevole cambiamento a livello di comportamentimetacognitivi e di atteggiamenti:-fanno collegamenti;-studiano in modo critico;-sono in grado di individuare i propri dubbi;-davanti ad una prova scritta mettono in atto strategie di controllo;-si mostrano più interessati alla materia;-ma soprattutto si sentono più sicuri di "potercela fare", in quanto è cambiata la percezione dellacontrollabilità della causa dei fallimenti precedenti .Tali cambiamenti sono del resto confermati dai risultati. Infatti al termine del corso la totalitàdegli studenti supera la prova scritta e successivamente la prova orale, riportando le votazioni finalievidenziate nel seguente grafico:

9 La presentazione da parte dell'insegnante di schemi di problemi cui fare riferimento tende a ricondurre il problemaall'applicazione di un algoritmo.Sowder (1985) osserva che insegnare problemi per tipi è in questo senso l'antitesi del problem solving. D'altra parte inquesto contesto la capacità di risolvere problemi coinvolge la dinamica fra i singoli problemi e il metaproblema dirisolverli. Le strategie risolutive naturalmente variano nei due casi. In particolare, dato l'obiettivo del corso, la nostraattenzione è focalizzata soprattutto sul metaproblema.

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Si potrebbe naturalmente obiettare che tale successo è stato influenzato dalla mia presenza (inquanto esercitatrice ufficiale dei corsi) nelle commissioni d'esame, ma le interrogazioni sono statecondotte dai professori titolari dei due corsi, e questo (unitamente alla varietà delle votazioniriportate) mi sembra garantisca la credibilità dei risultati .

6. Conclusioni.I risultati costituiscono indubbiamente una verifica oggettiva del funzionamento del corso.L'aspetto più delicato (Schoenfeld, 1987; Brown e al., 1983) è quello di capire "cosa" in particolareha prodotto il cambiamento di rendimento.Mi sembra che tale questione si possa affrontare a due livelli diversi: uno teorico, l'altro didattico.Come osserva Brown (ibd., p.134): "If the intervention is successful, follow-up studies can bedesigned to track down the more specific components responsible. Such tracking down istheoretically necessary. Regarding the implications for education, confounded treatments that workare extremely interesting in themselves. Clarification of the specific factors responsible for positiveeffects may allow refinements of the package, but an intervention that works (for any of a number ofreasons) is a desirable outcome in its own right."

Dal punto di vista teorico è quindi indubbiamente rilevante capire il ruolo delle variabili in gioco.L'esperienza è stata condotta senza particolari accorgimenti in questo senso, sia perchè si trattava diuna fase iniziale esplorativa (seppure con una ipotesi alla base), sia perchè motivi di caratteredeontologico non rendevano a mio parere possibile il confronto con un gruppo di controllo.Se non è possibile quindi individuare con sufficiente precisione le variabili responsabili delsuccesso, è però ragionevole ipotizzare che alcuni aspetti abbiano avuto un peso particolarmentesignificativo.L'individuazione di tali aspetti emerge sia da una mia analisi personale a posteriori del corso, sia dalconfronto fra le risposte al questionario d'ingresso e quelle a un breve questionario proposto aicorsisti a distanza di 8 mesi dall'esame, sia da interviste individuali realizzate con alcuni corsisti.Il fattore centrale alla base della svolta nel rendimento pare essere il cambiamento radicaleavvenuto nel senso di auto-efficacia degli studenti, che aumenta progressivamente nei primiincontri, grazie al concorrere di diversi fattori:-la omogeneità del gruppo, che consente ad ogni studente di accettare le proprie difficoltà, e dilavorare in un clima rilassato e collaborativo;-la fiducia nel docente, a sua volta costruita e rinforzata in un feedback continuo di impegno→risultati→ impegno. Ha un ruolo essenziale in questo senso l'organizzazione del materiale,graduata per difficoltà crescente;-le dinamiche positive che si sono realizzate nel gruppo, unito dall'avere un obiettivo comune emotivante.

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Anche gli obiettivi che erano stati posti inizialmente al centro dell'intervento, in particolare laconsapevolezza metacognitiva e la capacità di auto-regolazione, sembrano quasi assumere il ruolodi strumenti per il raggiungimento di tale mutamento radicale di atteggiamento.Questa ipotesi, cioè che l'aspetto affettivo-motivazionale giochi un ruolo cardine nel cambiamentodi rendimento, è del resto confermato dalle ricerche, già citate in precedenza, condotte daBorkowski e dai suoi collaboratori.L'intervento metacognitivo appare cruciale nel far passare la responsabilità dell'apprendimento dallaparte del docente a quella dell'allievo, favorendo in questo modo lo sblocco di atteggiamenti passivie rinunciatari.Nel nostro caso tale passaggio è reso evidente anche dal cambiamento verificatosi nel processo diattribuzione delle cause dei fallimenti precedenti. Se al test d'ingresso gli studenti attribuiscono talifallimenti a fattori esterni (difficoltà della materia, difficoltà dell'esame,...) o comunque noncontrollabili (fattori emotivi) o percepiti come non controllabili (lacune di base10), dopo il corsol'attribuzione slitta a fattori ritenuti controllabili, quali l'inadeguatezza del metodo di studio.

Se dal punto di vista teorico è evidente la necessità di ulteriori ricerche più mirate, in cui ci sia uncontrollo maggiore delle variabili in gioco, dal punto di vista didattico, come osserva Brown, sipossono trarre indicazioni differenti. In particolare è interessante controllare e affinare conulteriori esperienze quei fattori specifici che si ritengono responsabili del funzionamento del corso.In questo senso mi sembrano importanti i seguenti aspetti, la cui valorizzazione permetterebbe forseun ridimensionamento del ruolo del docente, e quindi una maggiore generalizzabilità dell'esperienzaad altre situazioni di difficoltà:-la individuazione del percorso da proporre agli studenti, con la relativa selezione attenta delmateriale, che deve consentire il raggiungimento di risultati positivi conseguentemente all'impegno;-le caratteristiche del gruppo, costituito da studenti che hanno in comune non solo obiettivi edifficoltà, ma anche - e forse soprattutto- esperienze fallimentari passate che, mettendo in crisi lafiducia nel metodo di studio usato, li rendono disponibili ai cambiamenti.

(…)Un intervento diretto al recupero deve comunque, a mio parere, muoversi su diversi piani collegati:quello delle conoscenze, della consapevolezza metacognitiva, dei processi di controllo, degliatteggiamenti e delle emozioni. Tali piani possono giocare ruoli diversi in momenti diversi, senzagerarchie prestabilite fra uno e gli altri. L'obiettivo infatti è un obiettivo globale e ambizioso, cuinuocerebbero schemi rigidi e preconcetti: lo studente che riesce a superare le proprie difficoltà è unindividuo che sta meglio con se stesso e quindi con gli altri.

Appendice(…)

10 A questo proposito una corsista, accompagnando con una lettera il questionario passato dopo la fine del corso, scrive:"Le lacune di base ci sono (c'erano) e certo non aiutano, ma mi sono sempre state presentate come un peccatooriginale..."

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2. Le altre esperienze

0. Ripensando…Dal punto di vista del mio personale percorso di ricercatore l’esperienza di recupero è statacruciale per diversi motivi.L’intensità con cui ho vissuto l’esperienza mi ha fatto capire, al di là del successo (che pure è statoimportante per capire cosa potevo fare) che i miei interessi più profondi dal punto di vista dellaricerca erano quelli che coniugavano la mia curiosità intellettuale con esigenze derivate dai mieivalori, e connotate (quindi?) anche a livello emozionale: in definitiva l’intervento sulle difficoltà inmatematica di allievi che per questo motivo si sentono in difficoltà. E mi ha fatto anche capire –cioè ‘vivere’ - il ruolo cruciale dell’affettività, soprattutto del senso di auto-efficacia, edell’interazione profonda fra i processi cognitivi e affettivi.Ma soprattutto quest’esperienza mi dà la certezza che anche con studenti non più giovanissimi èpossibile superare una situazione di difficoltà in matematica. E’ una specie di ‘teorema diesistenza’: non sufficiente per costruire nuove esperienze, ma importante dal punto di vista teorico.A partire da questo punto fermo continua la fase di esplorazione, con indagini, interventi, eriflessioni a vari livelli.

1. Un pre-corsoIl successo del corso di recupero mi spinge a sperimentare un pre- corso per studenti della Facoltà diScienze, basato sulla consapevolezza dei processi decisionali e sul metodo di studio. Non misoffermo qui sulla metodologia utilizzata e sui risultati. Quello che è cruciale in questo contesto èche il pre-corso nasce dall’idea di prevenire le difficoltà che all’interno del corso di recupero avevocercato di superare. Questo mi pone davanti ad un problema estremamente interessante dal punto divista teorico: cosa vuol dire prevenire le difficoltà? In particolare, significa evitare fallimenti?Significa evitare errori?Sono domande cruciali per le successive riflessioni sul tema delle difficoltà, in particolare per ladefinizione stessa di difficoltà.

2. Un corso di recupero in un Liceo Pedagogico.Nell’anno scolastico 1994-’95 un’insegnante di matematica del Liceo Pedagogico di Pisa,scoraggiata dagli scarsi risultati ottenuti gli anni precedenti con interventi tradizionali di recupero,mi chiede la collaborazione per sperimentare un intervento alternativo.Mi stimolano a fare questo tentativo le differenze notevoli fra le due situazioni, quella universitariache avevo sperimentato con successo e quella di una seconda classe di scuola superiore: lamotivazione degli studenti è completamente diversa nei due casi, e inoltre il fatto di non esserel’insegnante curricolare (anche se poi sarò io personalmente a portare avanti il recupero) porta adaffrontare ed evidenziare problemi nuovi. In fondo sono entrambi aspetti che hanno a che fare conla generalizzabilità dell’esperienza.Non descrivo qui il corso di recupero, né i risultati11. Quello che infatti mi interessa mettere inevidenza è l’aspetto della ‘diagnosi’, realizzata in modo completamente diverso rispetto al corsoprecedente, dove era stata il frutto della mia osservazione di anni come insegnante. Tale diagnosicomporta la costruzione di nuovi strumenti d’osservazione, basata sulla stessa ipotesi di lavoro cheaveva caratterizzato il corso realizzato a livello universitario: le difficoltà scolastiche che incontranogli studenti della scuola superiore sono raramente dovute solo a carenze di conoscenze. Più spessosi riscontrano: 11 L’esperienza, compreso il materiale utilizzato, è stata descritta in un articolo dal titolo ‘Difficoltà d’apprendimento eproblem solving: proposte per un’attività di recupero.’, L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate,vol.19B, n.4, 1996.

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- limiti notevoli nelle capacità di decidere quali conoscenze utilizzare in un certo contesto, e come:in altre parole difficoltà a riorganizzare e utilizzare il proprio sapere in vista di un obiettivo, capacitàche caratterizza l'attività di risoluzione di problemi;- atteggiamenti negativi quali mancanza di interesse, di determinazione, di motivazione;insicurezza; fatalismo, con conseguente delega all’insegnante della responsabilitàdell’apprendimento; -emozioni debilitanti, quali noia, paura, ansia.Questo può spiegare il fallimento di interventi come quelli tradizionali, circoscritti all’ambito delleconoscenze.Questa ipotesi di lavoro viene ‘testata’ attraverso una serie di prove, che rappresentano un tentativodi costruire strumenti diagnostici alternativi rispetto a quelli tradizionali basati solo sulla verifica diconoscenze e di abilità, ed è su quest’aspetto che mi soffermerò:1] Con la collaborazione dell’insegnante di lettere viene proposto a tutta la classe (nelle ore diitaliano) il tema: “Considerazioni e riflessioni sul mio rapporto con la matematica dalle elementariad oggi.”Inoltre ai 15 studenti che parteciperanno all’intervento di recupero vengono proposti:2] un questionario sugli atteggiamenti nei confronti delle proprie difficoltà in matematica;3] una prova di problem solving, costituita da 4 problemi, di cui due scolastici standard, in cuiviene espressamente richiesto di tentare di rendere espliciti i propri processi di pensiero e le proprieemozioni. In particolare si chiede di sottolineare eventuali momenti di blocco, cercando dievidenziarne le cause.Non entro qui nei dettagli dei risultati. Quello che mi interessa sottolineare è che gli strumentiutilizzati suggeriscono l’ipotesi che gli studenti del gruppo del recupero abbiano un atteggiamentodi fatalismo, che si esprime nella rinuncia a ‘provare’, nel dare risposte a caso, e che può avereradici in un certo tipo di convinzioni sulla matematica e su di sé.Ad esempio dai temi possiamo grossolanamente riconoscere 3 categorie, peraltro non disgiunte:a) Convinzioni più o meno esplicite sulla difficoltà della materia: le potremmo considerare risposteinconsapevoli alla domanda “Perchè la matematica é difficile?”, anche se naturalmente é comunquefortemente presente l’interazione con la personalità del soggetto:“Secondo me la matematica é una delle materie più brutte perchè é complicata, con tutte leformule, le definizioni, i concetti e tutti quei numeri.” (Serena)“Quanto alle spiegazioni che avvengono in classe, cerco il più possibile di stare attenta, anche setalvolta dopo un po’ che ascolto, comincio a pensare ad altro, e quando inizio nuovamente aprestare attenzione alla lezione, magari sono stati spiegati argomenti fondamentali, per lacomprensione della lezione, e io mi ritrovo, così, di partenza svantaggiata.” (M.Cristina)b) Sistemi di convinzioni in cui le convinzioni sulla matematica interagiscono profondamente conle convinzioni che il soggetto ha su di sè:“Fin dalle elementari la matematica la vedevo sottoforma di un qualcosa che solo gli intelligentisapevano affrontare: sarà perchè io non ero molto portata per quella materia, oppure non volevoesserlo.” (Valeria)“(La matematica) puoi capirla meglio se viene ben spiegata, ma se non ti piace, credo che nonpiacerà mai. (...) Quello che penso io della matematica, a differenza delle altre materie é chedipende dalla predisposizione di ognuno di noi.” (Benedetta)c) Convinzioni su di sè debilitanti (in cui gioca un ruolo centrale il comportamentodell’insegnante), con una forte componente affettiva, associate in particolare ad emozioni negative.Le emozioni negative, perdendo col tempo in intensità ma aumentando in persistenza, siconsolidano provocando un’associazione “automatica” alla matematica.“La maestra ci aveva detto molto esplicitamente che la matematica non le piaceva, e credoseriamente che abbia trasmesso su di noi le sue idee. Una volta durante un’esercitazione in classe

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mi ha messo un grosso zero, da quel momento penso proprio che la matematica non sia fatta perme.” (Sara) “La matematica che incubo! (...) La maestra quando non riuscivo in qualche cosa, mi mandava aposto e chiamava una persona più brava di me.” (Elena)“La professoressa delle medie aveva l’abitudine di rendere un’interrogazione, qualcosa dispaventoso in cui non si poteva sbagliare mai.” (Francesca) “Se alla fine della quinta elementare (la matematica) non mi piaceva, figuratevi voi alle medie conuna professoressa soprannominata “la tortura”, il motivo del suo soprannome era semplice nondava mai la sufficienza sia nelle interrogazioni che nei compiti scritti.” (Katiuscia)“...una sola vicenda di questa materia così odiata dagli studenti mi é ancora rimasta impressanella mente, dove tutto entra ma non la matematica. Tutto iniziò in seconda elementare, dove lamia insegnante di circa sessantacinque anni stava correggendo il quesito. Io, che allora ero unabambina non avrei mai pensato che da quel giorno sarei stata nemica di quella materia cosìaffascinante, ma quando la maestra mi consegnò il compito e vidi quel grosso due rosso che miguardava capii che io non sarei mai andata d’accordo con quell’argomento “ (Giulia)Da questi ultimi protocolli appare evidente che le valutazioni negative vengono percepite da moltistudenti come valutazioni sulle proprie capacità più che sulle proprie prestazioni e hanno quindicome effetto la rinuncia a priori di utilizzare le risorse possedute, perchè il soggetto si convince dinon avere risorse sufficienti.Questo legame fra il senso di auto-efficacia e l’impegno (e quindi il rendimento), é peraltroconfermato dalle riflessioni di altri studenti:“Mi sono infatti resa conto che anche il problema più difficile e l’espressione più noiosaACCOMPAGNATI dal sorriso dell’insegnante si presentano più digeribili anche da parte mia.Non certo che in due anni sia nato un amore sconsiderato per la matematica ma posso dire aquesto punto di poterci convivere e ammetto che ogni volta che riesco nella risoluzione di funzioni elogica matematica sono invogliata a riprovarci fino a che un brutto voto rigetta il mio morale aterra.” (Elisa)“..la situazione era sempre la solita fino a quando (alle medie) ho preso molto buono, il voto piùalto di tutta la classe in un compito. (...) Così la voglia di studiare matematica é cresciuta adismisura ma tutto questo é durato poco.” (Miria)“Questa storia durò fino a quando non giunsi in questa scuola. Il mio primo voto alle scuolesuperiori fu sei e mezzo, ce la potevo fare e da lì non mi sono mai arresa.” (Giulia) “Durante il periodo estivo mi feci un esame di coscienza e capii che il problema non era lamatematica ma io. Riflettei molto e decisi di cominciare a studiare seriamente, promettendo a mestessa di fare il possibile. Dopo alcuni mesi mi resi conto che potevo farcela, che anch’io ero ingrado di risolvere un’espressione, un monomio e un problema di geometria. Cominciai a trarresoddisfazioni che mi hanno portato ad un orgoglio.” (Sara D.)

Anche dalla prova di problem solving vengono indicazioni interessanti, non tanto perchéemergono carenze peraltro già note a livello di contenuti, ma perché l’esplicitazione richiesta deiprocessi risolutivi permette di riconoscere in molti soggetti convinzioni significative, siaspecifiche12 che generali, sulla matematica e sulle capacità possedute.Emerge in particolare una convinzione molto diffusa fra gli studenti: per risolvere problemi non ésufficiente (e al limite nemmeno necessario) ragionare, ma bisogna aver memorizzato una serie diregole molto precise e specifiche da applicare nelle diverse situazioni13.

12Ad esempio "Questo é sbagliato perche' mi torna l'area piu' grande del perimetro." (Katiuscia)Difficilmente un insegnante riuscirebbe a immaginare, e quindi a riconoscere con domande dirette opportune, taliconvinzioni, che sembrano emergere soprattutto dall'esplicitazione dei processi di controllo.13Solo alcuni studenti centrano l'attenzione sulla comprensione:

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"Cioè mi risolvo il guadagno applicando la regola che non mi ricordo, riguardante ricavo, spesa,guadagno." (Problema 2, Francesca)Tale convinzione si evidenzia soprattutto nel terzo problema14, che é quello che rispecchiamaggiormente, per le esperienze dei ragazzi, la struttura del problema scolastico:"Prima bisogna dividere il perimetro per il numero, per i segmenti che risultano 14, e poi nonriesco cioè non ricordo bene come si fa." (Sara P.)"Non mi ricordo bene la formulina però dovrebbe essere cosi': devo dividere il perimetro per unlato e poi lo devo moltiplicare per 3 che é l'altezza." (Cristina)"Non mi ricordo le varie formule." (Elisa )"In questo momento sto pensando per cosa moltiplicare il 14." (Sara B.)" Poi qui mi confondo e non so se devo dividere il perimetro per 3 e poi moltiplicarlo per 4."(Francesca)La convinzione che per risolvere problemi occorre aver memorizzato una serie di regole, unita allaconsapevolezza di non ricordare tali regole, costituisce un sistema di convinzioni debilitante egenera un atteggiamento di fatalismo, profondamente passivo.Si rafforza quindi l’ipotesi, suggerita dall’analisi dei temi e del questionario sulle difficoltà, che lacausa del fallimento sia in questi casi, più che una cattiva gestione delle conoscenze, la decisione apriori (seppure inconsapevole) di non utilizzarle.Da questa ‘diagnosi’ discende l’idea di utilizzare il problem solving come contesto per imparare aprendere decisioni, stimolando il soggetto solutore ad assumersi la responsabilità delle propriescelte, e favorendo quindi il passaggio della responsabilità dell’apprendimento dall’insegnanteall’allievo. D’altra parte le decisioni prese durante l'attività di soluzione di problemi sonoinfluenzate dalle convinzioni che un soggetto ha, sulla matematica ma anche sulle proprie capacità:attraverso il problem solving é quindi possibile portare alla luce convinzioni scorrette o comunquedebilitanti sulla matematica e su di se' come solutore di problemi, favorendo quindi il processo dirimozione di atteggiamenti negativi.Ma, come ho detto, non entro qui nei dettagli dell’impianto del corso e dei suoi risultati.

3. Le decisioni.Incrociando gli studi sul problem solving e quelli sulla metacognizione emerge l’importanza delledecisioni nel contesto dell’apprendimento: in particolare dietro molte situazioni di fallimento sipossono riconoscere decisioni inadeguate. Questo mi porta ad indagare sulla consapevolezza che gliallievi hanno delle decisioni prese in contesto scolastico, in particolare in matematica, e ancora piùnello specifico nella risoluzione di problemi. L’indagine viene realizzata attraverso unsemplicissimo questionario, che, in tempi successivi, verrà in definitiva proposto a più di 300 allievidella scuola dell’obbligo, e a qualche classe di scuola superiore.

Il questionario era costituito da sei domande aperte, finalizzate a riconoscere se l’allievo eraconsapevole dei propri processi decisionali, prima nel contesto extrascolastico, poi in quelloscolastico, e infine nell’ambito della matematica e dei problemi di matematica:

Il questionario sulle decisioni1.Ti capita a volte di prendere decisioni, cioè di decidere qualcosa?Fai un esempio.2.Ti piace prendere decisioni? "Ora cerco di capire cosa vuol dire 4/3 dell'altezza. Solo che non riesco a capire cosa intende dire 4/3 dell'altezza."[Laura]"Non riesco a capire come si trova l'altezza e la base." [Benedetta]

14 “In un rettangolo il perimetro misura 112 cm, e la base é 4/3 dell’altezza. Calcola l’area del rettangolo.”

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Perché?3.A scuola ti capita di prendere decisioni?Fai un esempio.4.A casa quando devi fare i compiti, ti capita di prendere decisioni?Fai un esempio.5.Qual è la materia in cui ti capita più spesso di prendere decisioni?Perché?6.Quando devi risolvere un problema di matematica ti capita di prendere decisioni?Fai un esempio.

I risultati mettono in evidenza che per la maggior parte dei bambini la scuola non è un contesto incui si prendono decisioni, tanto meno lo è la matematica e la risoluzione di problemi. Questo datoè allarmante e testimonia una visione della disciplina ‘perdente’, in quanto spinge a comportamentiautomatici piuttosto che strategici.

Le risposte più sconcertanti sono quelle relative alla domanda 3. Anche gli allievi che in contesto extrascolastico simostrano consapevoli della varietà e dell’importanza dei processi decisionali continuamente attivati nella vita di tutti igiorni, dichiarano invece che in contesto scolastico non vengono prese decisioni, oppure le banalizzano:“No, non mi capita mai, perché le decisioni le prendono le professoresse a scuola, oppure le bidelle.” [Serena, 2amedia]“Sì. Quando scelgo una penna per scrivere.” [Sara, 1a media]Sono pochi i soggetti consapevoli del controllo che possono esercitare sui propri comportamenti in contestod’apprendimento:“Sì mi capita anche molto spesso di prendere decisioni, magari fra due penne o decisioni più importanti del tipo noninsistere tanto per essere interrogati.” [Giulia, 1a media]“Di come comportarmi e di decidere di come fare qualcosa.” [Danilo, 1a media]

Anche la domanda 4 (“A casa quando devi fare i compiti, ti capita di prendere decisioni? Fai un esempio.”) mette inevidenza una varietà di risposte che corrisponde a diversi livelli di consapevolezza dei processi decisionali che vengono(o che andrebbero!) attivati durante il lavoro fatto a casa:“No, perché tanto li devo fare.” [Cristiano, 3a media]“Posso decidere dove farli, a che ora cominciare, a che ora smettere.” [Simona, 3a media]“A casa mi capita di prendere decisioni quando devo scegliere quale materia studiare per prima in base alle mieconoscenze. Decido anche se penso di essere più o meno preparata su una materia e quindi quanto tempo devodedicarle.” [Francesca, 3a media]

Le risposte alla domanda 2 sono quelle che più delle altre permettono di riconoscere l’idea di decisione che hanno isoggetti. In particolare permettono di evidenziare che solo in alcuni di essi è presente la consapevolezza che i processidecisionali sono strettamente legati all’assunzione di responsabilità:“Sì, solo se influenzano altre persone. Perché mi piace comandare.” [Marco, 3a media]“Sì. Perché mi piace essere libero.” [Daniele, 1a media]“ È bello essere liberi di decidere. Allo stesso tempo, però, ciò comporta delle responsabilità. A me piace poterscegliere, ma, talvolta, prima di farlo, chiedo consigli per fare la cosa più giusta.” [Dinora, 3a media]“No. A volte rimango col dubbio di aver fatto bene a prendere quella decisione anche perché poi devo assumermi laresponsabilità.” [Cristiano, 3a media]In definitiva molti allievi non sembrano agire in vista di obiettivi, o non sembrano consapevoli del controllo che possonoesercitare sui propri comportamenti: stare attenti / impegnarsi / riflettere, vengono percepiti quindi in questi casi comecomportamenti casuali.Questo purtroppo vale in particolare nel contesto dell’apprendimento della matematica, e, cosa ancora più sconcertante,nel contesto dell’attività di risoluzione di problemi.

Questo dato emerge in particolare dalle risposte alle domande 5 e 6.Infatti per quanto riguarda la domanda 5 (“Qual è la materia in cui ti capita più spesso di prendere decisioni? Perché?”)la matematica è quasi completamente assente. La maggioranza dei bambini risponde “L’italiano”, con variemotivazioni:“Perché non so cosa devo fare.” [Michael, el.]“Ci possono essere le domande.” [Jonathan, el.]

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“Perché se la maestra ci dà da decidere tre titoli di un tema te ne devi scegliere uno, magari rinunciando ad un altrotitolo che ti piaceva.” [Lucy, el.]“L’italiano, perché quando si fa per esempio un tema o una serie di domande, devo scegliere che termini usare e come‘tirare su’ la mia composizione.” [Francesca, 3a media]È evidente nel caso di Lucy che la presa di decisioni viene identificata, in modo riduttivo, con la necessità di effettuareuna scelta fra diverse possibilità, scelta che in alcuni casi si presenta difficile per le implicazioni di rinuncia checomporta. Così la bambina alla domanda 2 (“Ti piace prendere decisioni? Perché?”) risponde: “No. Perché alcune voltedevi decidere su cose che ti piacciono entrambe, e alla fine devi sempre rinunciare a qualcosa che ti piace.”Questa identificazione decidere = scegliere si ripresenta in modo evidente alla domanda 6 (“Quando devi risolvere unproblema ti capita di prendere decisioni? Fai un esempio.”)“Sono indecisa a che operazione fare.” [Alessia]“Non so se metterci un’operazione o un’altra.” [Sara]“Scegliere le operazioni.” [Michael]Sono pochi i bambini che forniscono una risposta più articolata:“Quando devo svolgerlo, come svolgerlo, come organizzarmi e quale operazione devo fare.” [Chiara]

Ma quello che qui mi serve sottolineare è che in molti casi anche gli allievi che riconoscono diprendere decisioni in contesto d'apprendimento fanno riferimento a decisioni che non sono ‘interne’alle discipline.Significative le seguenti risposte:

[3.A scuola ti capita di prendere decisioni? Fai un esempio.]‘No, quasi mai. Mi succede soltanto quando faccio i compiti in classe: di fare prima un esercizio ol’altro oppure una domanda se no mi può succedere quando mi scelgono come capoclasse perscrivere una persona alla lavagna…’ [Ilan, 2a media[‘Sì. Quando a scuola ho scritto male qualcosa, strappo la pagina e riscrivo.’ [Valentina, 1amedia]‘A volte. Quando magari all’intervallo i miei amici mi chiedono la merenda e io devo decidere sedargliela o no, oppure quando qualcuno mi dice se vado con lui in corridoio, mentre un altro midice se resto in classe.’ [Simone, 2a media]

[5.Qual è la materia in cui ti capita più spesso di prendere decisioni? Perché?]‘A Inglese quando prendo i brutti voti se dirlo prima o dopo a mia madre.’ [Jonatha, 3a media]‘Sono le materie orali come la storia e la geografia perché devo decidere se devo alzare la manoo no, oppure se andare volontaria o no.’ [Simona, 3a media]

[6.Quando devi risolvere un problema di matematica ti capita di prendere decisioni?Fai un esempio.]‘Sì. Nei compiti di Matematica la professoressa ci da problemi e espressioni, e io non so maiquale scegliere da fare prima.’ [Francesco, 2a media]‘Sì. Come se il problema non mi riesce mi metto a giocare con la penna. ‘ [Manuele, 1a media]

4. L’evoluzione dell’atteggiamento nei confronti della matematica.La visione della matematica che un allievo costruisce nel corso della sua esperienza scolastica èstrettamente legata al concetto di atteggiamento verso la matematica.La ricerca sugli atteggiamenti e sul loro legame con il rendimento è un campo estremamentecomplesso ed insidioso, da un lato perché pone il problema di come misurare gli atteggiamenti,dall’altro perché c’è una notevole ambiguità sull’uso del termine. Nonostante questo, la ricercainternazionale concorda nell’affermare che l’atteggiamento verso la matematica si deterioragradualmente nel passaggio dalle scuole elementari alle superiori. Dal punto di vista didattico unproblema significativo è quello di individuare quali variabili influiscono sull’atteggiamento nei

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confronti della matematica, e soprattutto quali di queste variabili sono controllabili. Un’eventualerisposta a queste domande può fornire infatti agli insegnanti strumenti di prevenzione e diintervento.Per affrontare questo problema ho fatto riferimento ad una definizione articolata di atteggiamentocome insieme di convinzioni ed emozioni associate alla matematica, che predispongono ad un certocomportamento (è quindi una definizione leggermente diversa da quella adottata per l’intervento direcupero a livello universitario, in particolare per il riferimento alle emozioni). Insieme alleinsegnanti del mio gruppo di ricerca abbiamo quindi proposto a circa 500 studenti di scuoleelementari / medie / superiori un tema15 (già utilizzato da altri in altri contesti): «Il mio rapporto conla matematica [dalle elementari ad oggi].» Premesso che la lettura integrale di questi temi offre unavarietà e una ricchezza di informazioni che non si lascia facilmente ‘ingabbiare’ in categorie, lachiave di lettura da noi utilizzata cercava di riconoscere nella strutturazione degli atteggiamentinegativi / positivi nei confronti della matematica il ruolo giocato da variabili quali: le emozioni,l’esperienza di risoluzione di problemi, le convinzioni su di sè e sulla matematica, il rapporto conl’insegnante.

Anche in questo caso però mi limito alle osservazioni che ritengo più significative per il tema delSeminario. Sono essenzialmente tre:La prima riguarda lo strumento utilizzato, cioè il tema, ed è quindi un aspetto in parte già visto nelcontesto del corso di recupero al liceo pedagogico, ma che qui voglio sottolineare: tale strumentopermette spesso di ottenere una quantità di informazioni preziose sull’allievo, e sulle possibili causedelle difficoltà che incontra.La seconda e la terza riguardano invece le informazioni che si possono trarre dai temi.Le ‘storie’ degli allievi con la matematica mettono in evidenza realtà diversissime. In altre parole lanarrativa permette di cogliere la diversità degli allievi, in particolare la diversità degli allievi indifficoltà: dietro uno stesso giudizio ad una verifica scritta di tipo standard, o ad un test d’ingresso,ci possono essere due mondi completamente diversi, il che significa bisogni estremamente diversi.Infine in alcuni temi emerge chiarissimo un punto che ho cercato più volte di sottolineare:l’intreccio profondo fra aspetti cognitivi, metacognitivi e affettivi. Dietro un atteggiamento‘negativo’ (comunque si voglia intendere questo termine) ci possono essere esperienze emozionalinegative, ma anche conoscenze insufficienti.

Per mettere in evidenza questi aspetti ho scelto fra i tanti tre temi, di livelli scolastici diversi, cheriporto integralmente e come sono stati scritti. Lascio a chi legge il compito di commentarli, inparticolare alla luce delle osservazioni precedenti.

‘Per me la matematica è solo una perdita di tempo perché una volta imparati i numeri si può anchesmettere, invece no, si continua e le lezioni incominciano a torturarti piano piano ed è unasensazione bruttissima quando scrivo e non capisco, e mi sembra di scendere all’inferno: il sudorescende dalla testa ai piedi, divento tutto rosso e mi sembra di esplodere.Le lezioni sono un supplizio e mi sembra che la maestra rida su di me e mi dica: Non lo sai fare!Bene! Bene!...Ed io avrei voglia di strappare il quaderno ma prevedo sempre quello che mi accadrebbe: lamaestra urlerebbe: Piniii... Che cosa è questa schifezza! Ma il peggio è che dopo la sgridata hotutti i capelli ritti e mi vergogno davanti a tutte le altre maestre.’[Andrea, 3a elementare]

15 L’indagine è stata proposta come poster al Convegno di Castel San Pietro Terme su Matematica e difficoltà del 1997.

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‘Mi ricordo vagamente della mia maestra di aritmetica di prima, in seconda ricordo una signoraanziana che andò subito in pensione. Era nervosa con un tic continuo alle spalle, spesso urlava e avolte ci prendeva per un orecchio. Ho presente invece molto bene la mia maestra dalla terza allaquinta. Si chiama Elena, è alta e magra ma aveva una natura pessimista, da pessimismoleopardiano: ad esempio verso Pasqua ci faceva fare dei problemi sulle uova con delle situazionidove tanti pulcini morivano prima di nascere. Domandava: quanti nasceranno vivi? A me passavala voglia di saperlo. Secondo me era troppo formale: teneva molto alla disciplina e pretendeva chechiedessimo il permesso per andare a buttare la carta nel cestino e rispettassimo la fila, buoni ezitti, per farle correggere i quaderni; noi eravamo vivaci e lei diceva “Io parlo, parlo, ma a voi....”e concludeva con un gesto della mano strusciata sotto il mento che voleva dire:...non ve ne importaniente... Ma a me quello che seccava più di tutto era il continuo ripetermi che avevo fatto la“Primina” come la chiamava lei, come se fosse una colpa e io mi sentivo a disagio con i mieicompagni: “Come mai hai fatto la primina?...Vedi Giacomo? Questo ti è mancato... Questo èperché non hai fatto la prima normale...” Infatti quando quest’anno sono andato a trovare le miemaestre lei me lo ha ridetto. Però Elena mi sorprese quando un giorno la incontrai a scherma,dove c’è anche suo figlio, mi sembrò un’amica che mi volesse bene, mi lodò per la mia intelligenza,mi incoraggiò, mi disse anche che ero bello e che avevo degli “ottimi genitori” e che senz’altroavrei avuto buoni risultati negli studi...poi a scuola non mi disse mai più nulla di queste cose e lelezioni di matematica me le ricordo un po’ tristi. Elena spiegava con le spalle girate alla classe,riempiva la lavagna e parlava con quel tono di voce monotona. In quinta si ammalò gravementema venne sempre a scuola ugualmente perché disse che voleva portarci fino in fondo. Ora sono inprima media e la professoressa di matematica è brava, simpatica, specialmente quando ci fascienze, ma la vorrei più incoraggiante nei miei confronti.Penso che il mio rapporto con la matematica sia stato sempre “buio e tenebroso”; non ho maiavuto la padronanza nella materia e fin dai primi tempi delle elementari mi sentivo incerto; anchese una cosa la sapevo mi sorgevano un sacco di dubbi.Ecco, io non so il “perché” della matematica, perché quello schema, quel procedimento e non unaltro; perché, come dice il mio babbo: “Nell’aritmetica non si inventa.”; io a volte invento esbaglio; vorrei proprio sapere i motivi, le cause, perché così mi sembrano tutte regole astratte eappiccicate qui e là.’[Giacomo, 1a media]

‘La matematica è una materia scientifica con la quale ho avuto, e ho ancora, dei problemi. Alleelementari, i problemi che ho incontrato non erano molti, anche perché erano concetti facili ed eroentusiasta della nuova esperienza che stavo vivendo, quale era la scuola. I veri problemi sonoarrivati alle scuole medie. Anche se in principio andavo discretamente, col tempo iniziai a“precipitare”. Per onestà la causa principale, quasi unica, dell’inizio del mio declino è stata lostudio. Ciò che più mi mette in soggezione di questa materia è il fatto che non basta studiarla,come può bastare a storia o italiano, ma bisogna anche capirla. Le nozioni di matematica nondevono essere imparate meccanicamente, cioè, degli argomenti devi conoscere il perché. Non sipuò procedere nello studio della matematica memorizzando gli argomenti. Alle superiori il quadrogenerale non cambiò affatto, anche perché si aggiunse il fatto che non avevo una base solida.Tuttavia nel biennio me la sono cavata decentemente. E’ il triennio che mi crea molti più problemi.Inoltre ho constatato che spesso “penso di aver capito, ma poi mi accorgo che non ho capitoniente”. Il problema principale resta comunque l’impegno!’[Giuseppe, 4a professionale]

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4. Un corso per insegnanti di matematica di scuola superiore sul tema:“Recuperare ed orientare in matematica: problem solving, metacognizione eaffettività nell’insegnamento / apprendimento della matematica”.Nelle conclusioni dell’articolo in cui ho pubblicato la prima volta l’esperienza del corso di recuperoa livello universitario facevo riferimento alla necessità, dal punto di vista teorico, di capire il ruolodelle variabili in gioco.Individuavo come ipotesi l’importanza dei seguenti aspetti:- Le dinamiche positive che si erano realizzate, favorite dall’omogeneità del gruppo, che consentivaad ogni studente di accettare le proprie difficoltà e di lavorare in un clima rilassato e collaborativo, edi condividere con i compagni un obiettivo comune e motivante.- La fiducia nel docente, a sua volta costruita e rinforzata in un feedback continuo di impegno→risultati→ impegno.Sottolineavo a questo proposito il ruolo dell’organizzazione del materiale, graduata per difficoltàcrescente.In realtà, ritornando sull’esperienza a distanza di anni, la domanda ‘Cosa ha funzionato?’ mi haportato a riflessioni e quindi a risposte diverse.La selezione del materiale, l’articolazione del corso (in due parti diverse per scritto e orale), ma piùin generale l’organizzazione del corso nel suo complesso, costituivano alcune delle decisioniimportanti che avevo preso in genere prima dell’interazione con gli studenti, e che avevo modificatoe aggiustato alla luce di tale interazione. Certo ritengo ancora che quelle decisioni siano stateimportanti, cioè che sia stato importante l’effetto che hanno avuto. Ma sono solo quelle le decisioniche hanno avuto un effetto importante sugli studenti? Per esempio, chiamavo gli studenti per nome.Ricordo come mi colpì un giorno l’osservazione di un ragazzo (sui 24 anni, grande e grosso…):”Lei non ha idea di come è importante per me sentirmi chiamare per nome. Non era mai successoall’università…” Marco mi ha fatto notare l’importanza di una scelta che da sola non sarei riuscitaa cogliere. Ma quante altre decisioni ho preso, come insegnante? Altri studenti, tornando atrovarmi dopo la conclusione del corso, mi riferivano singoli episodi che per loro erano statiimportanti, e che io nemmeno ricordavo. E al di là di quello che loro avevano riconosciuto comeimportante, chi può dire le conseguenze di comportamenti apparentemente più insignificanti? Quelgiorno che ho risposto in quel modo a quell’intervento… e quella risposta ha scatenato quell’altrointervento… e poi ancora la mia risposta… Scrivono Artigue e Perrin-Glorian (1991, p. 14):«Various recent researches, for instance (Arsac, 1989), have highlighted the macroscopic effect ofdecisions which can be qualified as microscopic if one refers to the level of observation, and thebifurcation in the dynamics of a classroom which can be caused by an apparently innocent remark,or even a simple movement or expression by the teacher.».E’ l’analogo dell’effetto farfalla in meteorologia: differenze minime nei dati iniziali possono avereripercussioni incredibili su un sistema complesso.La realtà è quindi che non è possibile esplicitare tutte le decisioni prese dall’insegnante: nemmenoquelle che hanno avuto gli effetti più importanti per il successo dell’esperienza. E questo ènaturalmente un punto cruciale per la generalizzabilità dell’esperienza: come gestirlo?Nella complessità delle variabili in gioco la riproducibilità dell’esperienza (e quindi la sua validità)si sposta dai prodotti ai processi: dalle decisioni che ha preso l’insegnante, a come le ha prese, equindi anche al perché.La riproducibilità dell’esperienza passa allora attraverso una formazione dell’insegnante, finalizzatanon a rendere esplicite e a comunicare le decisioni da prendere, ma a mettere in grado l’insegnantedi prendere le decisioni adeguate.Tornando all’esperienza di recupero, questo punto di vista mi suggerisce l’opportunità diorganizzare un percorso di formazione insegnanti sul tema delle difficoltà: la pianificazione di talepercorso richiede in un certo senso di mettere a disposizione dell’insegnante quelle conoscenze e

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quelle esperienze, in altre parole quella ‘teoria’, che, come dicevo all’inizio, nel mio percorsohanno avuto l’effetto di cambiare l’insegnante che è in me.Il programma del corso, realizzato con una ventina di insegnanti di scuola superiore, e articolato in12 incontri per un totale di 30 ore, è quindi il seguente:

PRIMA PARTE : Le difficoltà in matematica1. Modelli del processo d’apprendimento / insegnamento: l’insegnante mediatore.2. Verso una definizione di difficoltà. Il problem solving.

SECONDA PARTE : Fattori che influiscono sul problem solving1. La metacognizione.2. Misconceptions e convinzioni.3. Le emozioni.4. Gli atteggiamenti.

TERZA PARTE : Proposte operative1. Esempi di interventi a livello universitario.2. Esempi di interventi di recupero nella scuola superiore.3. Un pre-corso.

QUARTA PARTE : L’insegnante come solutore di problemi1. Implicazioni del modello d’apprendimento/insegnamento costruttivista: l’insegnante comesolutore di problemi.2. Le convinzioni degli insegnanti.3. Le emozioni degli insegnanti.

La fatica di scrivere le dispense per l’intero programma16 è una scelta che ha a che fare con lospirito e gli obiettivi del corso: vuole permettere la riflessione dei corsisti sui temi trattati, ma anchefacilitare la comunicazione con colleghi insegnanti.

16 Queste dispense sono state pubblicate in tempi diversi: v. Zan 1998a, 1999a, 2000a, b, c, d, e; 2001a.

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 1

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Verso una teoria per le difficoltà in matematica

0. PremessaCome dicevo nella seconda parte, l’intervento di recupero con gli studenti di Biologia è stato comeun teorema di esistenza, che mi ha permesso di stabilire alcuni importanti punti fermi:- Si possono superare alcune difficoltà anche gravi, anche con studenti ormai adulti.- Questo superamento passa attraverso un intervento multiplo, che coinvolge aspetti

metacognitivi ed emozionali, in particolare il senso di auto-efficacia.- Si può modificare il fatalismo.- Più in generale: si può modificare l’atteggiamento negativo nei confronti della matematica.

(Già… ma che cos’è l’atteggiamento negativo?)

Dalla stessa esperienza del recupero d’altra parte, e dalle esplorazioni successive, nascono anchenuove domande:- Soprattutto: Come si può generalizzare quell’esperienza?- E quindi: Cos’ha funzionato?- E poi: che cos’è il fatalismo? Più in generale: che cos’è un atteggiamento negativo? E ancora:

che cos’è l’atteggiamento?- Cosa vuol dire ‘prevenzione’ nel contesto delle difficoltà? E anche se evidentemente un’idea di

difficoltà a monte di queste esperienze c’era già, la risposta a questa domanda esige maggiorechiarezza e precisione. Pone in definitiva il problema di rispondere ad un’altra domanda:

- Che cosa sono le difficoltà?

Il problema abbandonato a suo tempo (l’interpretazione di certi processi risolutivi degli allievi nelcontesto dei problemi scolastici verbali) e che mi aveva spinto a cercare nuovi strumenti, in un certosenso è sfumato in secondo piano.Il progetto si è fatto più ambizioso in due aspetti: per la varietà dei fenomeni da interpretare, masoprattutto per il fatto che l’interpretazione è finalizzata ad un cambiamento. In definitiva la ricercadi strumenti teorici più potenti ha portato all’individuazione di nuovi problemi, didattici e di ricerca,e soprattutto all’individuazione di un campo di problemi, che è quello delle difficoltà in matematica,che si configura come una problématique (Balacheff, 1990):

‘It could be added that that search for theories is not sufficient, insofar as theories are of no use ifthey are not related to precise problems. (…)First of all, theories are tools either to solve problems or to clarify them and improve theirformulation. Inversely, to solve research problems very often leads to the improvement of theories,or at least it puts them under question; and sometimes it leads us to consider the need for newtheories. (…)

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 2

A ‘problématique’ is a set of research questions related to a specific theoretical framework. Itrefers to the criteria we use to assert that these research questions are to be considered and to theway we formulate them.’ [Balacheff, 1990, p. 258]

Caratterizzare tale campo di problemi come problématique fa quindi implicitamente riferimento aduna ‘teoria’ che renda legittimi tali problemi e che suggerisca il modo per formularli.Una tale teoria, mettendo insieme ‘all the isolated bits of empirical data into a coherent conceptualframework of wider applicability’ (Cohen & Manion, 1994, p.11), è proprio quella che ‘serve’all’insegnante per agire sulla pratica.Ma questa organizzazione teorica è importante anche per la ricerca in educazione matematica, datoche la visione dinamica della ricerca suggerita finora, che rende difficile immaginare un risultato‘conclusivo’, rende quindi importante poter contare su un corpo di conoscenze organizzato, senzadover ogni volta ‘ricominciare’ dall’inizio.E’ venuto allora il momento di descrivere una possibilità per tale teoria, e di passare quindi allaparte centrale di questo Seminario1.

D’altra parte, se, come ho osservato prima, si tratta proprio della teoria che ‘serve’ all’insegnante,un primo tentativo in questa direzione l’avevo fatto, quando ho scritto le dispense per il corso sulledifficoltà. La definizione di un percorso di formazione finalizzato a mettere l’insegnante in gradodi prendere decisioni adeguate nel contesto delle difficoltà richiede proprio ‘organizing a wholeslough of unassorted facts, laws, concepts, constructs, principles, into a meaningful and manageableform. It constitutes an attempt to make sense out of what we know concerning a givenphenomenon’ (Mouly, 1978). Cioè quella che Mouly stesso caratterizza come ‘teoria’.

In fondo ora si tratta di riprendere quel tentativo, di ‘aggiustarlo’ (a tre anni di distanza tante cosenon mi convincono più), ma soprattutto di presentarlo ad altri interlocutori2, i ricercatori della nostracomunità, il che comporta presentarlo con obiettivi diversi.

L’organizzazione del discorso sulle difficoltà non è più finalizzata a ‘muovere all’azione’l’interlocutore, ma a convincerlo della consistenza e dell’opportunità di certe affermazioni, alla lucedi conoscenze, convinzioni, e obiettivi generali condivisi.

1Come avevo sottolineato nel programma iniziale: «'Teoria' vuol mettere in evidenza il tentativo di organizzare in modoorganico i risultati delle mie ricerche, collegando ad essi altri studi interessanti per il tema delle difficoltà ma nati inaltri contesti.» 2 Quando gli interlocutori erano insegnanti, l’obiettivo era quello di ‘muovere all’azione’. Lester (1998), sottolineandoil fallimento della ricerca in didattica della matematica nel confrontarsi con gli insegnanti, vede una motivazione nelfatto che: "(...) researchers and teachers have accepted different ways to frame their discourse about what they knowand believe about mathematics teaching and learning. By and large, teachers communicate their ideas through, whatSchwandt (1995) calls 'the lens of dialogic, communicative rationalism'. By contrast, researchers typicallycommunicate their ideas in terms of (monologic) scientific rationalism. (...) To accept dialogic rationalism involvesaccepting that reason is communicative: "It is concerned with the construction and maintenance of conversationalreality in terms of which people influence each other not just in their ideas but in their being" (Schwandt, 1995, p.7). Itaims to actually move people to action, in addition to giving them good ideas. Dialogic rationalism, then, hassomething to say to mathematics educators about how we make and justify claims in our research. In particular,dialogic rationalism attempts to avoid treating students and teachers as objects of thought in order to make claimsabout them that will guide future deliberative actions. Instead, it aims to include teachers (and students?) in dialogicconversations in order to generate practical knowledge in specific situations". [Lester, 1998, p.203 – 205]Questo obiettivo influenza notevolmente non solo lo ‘stile’ del discorso, ma l’organizzazione del discorso nel suocomplesso. L’esigenza di chiarezza è finalizzata all’argomentazione di certe posizioni, la scelta degli esempi acoinvolgere e a condividere i problemi affrontati. Per ‘muovere all’azione’ infatti è necessario creare una praticasociale e parlare direttamente all’esperienza delle persone (Mason, 1998). E’ importante allora presentare la ricerca ‘informs which promote personal construal, in which readers find themselves seeing their past experiences in fresh light,and sensitizing them to potential incidents to notice in the future’ (Mason, 1994, p. 199).

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 3

Un punto centrale cui dedicherò ampio spazio riguarderà quindi la modalità di ‘costruzione’ dellanostra teoria: è sufficiente raccogliere in un unico contenitore (che sarà poi appunto la nostra ‘teoriaper le difficoltà’) contributi provenienti da vari contesti? Oppure questi contributi per essereveramente utilizzabili vanno ‘cuciti’ con idee e costrutti nuovi, caratteristici della nostraproblématique?Perché questo corpo di conoscenze costituisca una ‘teoria’, infatti, dovrà essere in grado di chiarirema prima ancora di formulare i problemi legati ai fenomeni che ci interessano: dovrà dare quindiprima di tutto strumenti per osservare la realtà, in particolare per riconoscere fenomeni significativiper le difficoltà.

Ma prima di questo affronterò un altro punto importante, quello della condivisione: da unacomunità all’altra cambiano le cose che si possono dare per condivise.Così fra ricercatori si possono dare per condivise alcune ‘esperienze’ che si devono inveceesplicitare quando si parla ad insegnanti (non ricercatori): ad esempio il significato che si dà a certitermini, o il riferimento a studi, teorie, ricerche…D’altra parte fra insegnanti si possono dare per condivise alcune ‘esperienze’ che si devono inveceesplicitare quando si parla a ricercatori (non insegnanti): essenzialmente in questo caso l’esperienzadegli allievi in difficoltà. E siccome qui mi rivolgo a ricercatori, dovrò chiarire a quale tipo didifficoltà faccio riferimento, e perché.

Queste considerazioni quindi precederanno la descrizione di una possibile teoria per le difficoltà.

Anche in questa parte centrale si pone il problema del quadro teorico. Dato che questa non è solouna ricerca teorica, ma è una ricerca di una teoria, più che di quadro teorico mi sembra sia il caso diparlare di riferimenti teorici significativi. Per non appesantire il testo dedico a questi riferimenti unospazio specifico all’inizio.

C’è un’ultima considerazione importante. A differenza delle parti precedenti, quella che segue nonè frutto di una mia elaborazione personale, ma della collaborazione con Pietro Di Martino,dottorando a Pisa e quindi ‘ricercatore in formazione’. In questa impresa che mi ha creato nonpoche difficoltà è stata per me una collaborazione cruciale, non solo per le critiche lucide e puntuali,ma anche per i numerosi suggerimenti costruttivi, relativi sia all’impianto del discorso in generaleche ad aspetti più particolari: molti esempi sono suoi, e nel testo ci sono, ‘incollate’, molte parti deisuoi messaggi elettronici.Visto il rilievo che ho voluto dare in questo Seminario al mio percorso di ricerca e soprattutto diricercatore, non posso tacere l’importanza che ha avuto e sta avendo in tale percorso la possibilità diuna collaborazione di questo tipo, ma ancora di più la particolarità dell’esperienza di ‘tutore’: nonavrei mai immaginato di provare tanta soddisfazione nell’essere criticata e anche superata nel miolavoro di ricerca!

Ricordo infine che il titolo di questa parte, che ricalca il titolo del Seminario, è ‘Verso una teoria perle difficoltà in matematica.’Sono affezionata a quel ‘verso’, come ad un’ancora di salvezza!E arrivata alla parte più impegnativa di questo Seminario non posso che ringraziare la miaprudenza nel programma iniziale:«‘Verso’ suggerisce che si tratta di un'impresa non conclusa.»

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 4

1. Alcuni riferimenti importanti (ovvero: il quadro teorico?)

1.0 PremessaNelle parti precedenti ho inserito qua e là dei riferimenti al quadro teorico, che ho paragonato adistantanee scattate in alcuni momenti significativi. Per continuare la metafora, sembrerebbe venutofinalmente il momento di una fotografia di quelle belle: in posa, nello studio del fotografo.

Ma in realtà ho una certa resistenza a definire quadro teorico quello che sto andando a descrivere,per più di un motivo.

La perplessità più importante l’ho espressa nella premessa, e riguarda il fatto che questa non è solouna ricerca teorica, ma è una ricerca di una teoria. Quello che si intende in genere per quadroteorico (già, ma cosa si intende in genere per quadro teorico?) in questo caso dovrebbe comprenderele assunzioni che faccio a monte di tale teoria: oltre al concetto stesso di teoria e al suo ruolo, alcuneipotesi di carattere estremamente generale, quali l’ipotesi (costruttivista, ma non solo) che vedel’individuo interprete della realtà e quindi l’allievo come soggetto che costruisce la propriaconoscenza. Si tratta di un modello d’apprendimento che supera il modello del ‘travaso’, messo incrisi da molti studi sia a livello epistemologico che psicologico. Nonostante in educazionematematica si faccia in genere riferimento a tale modello come all’ipotesi costruttivista, val la penasottolineare che tale ipotesi è compatibile con diversi approcci epistemologici, didattici, e anchepsicologici (in particolare quelli di ispirazione Vygotskiana che enfatizzano la dimensione socialedell’apprendimento).

Se questa in fondo è l’unica ipotesi che incornicia tutte le considerazioni che farò, non c’è dubbioche alcune teorie o semplicemente ricerche avranno un ruolo essenziale nella costruzione dellateoria per le difficoltà. Sono teorie e ricerche che devo esplicitare, in quanto non fanno parte delbagaglio usuale di conoscenze di un ricercatore in didattica della matematica, e non le posso quindidare per condivise.Sintetizzando:1. Il passaggio nella ricerca dalla metacognizione all’affettività2. Convinzioni e sistemi di convinzioni3. Emozioni (in particolare le teorie di Mandler e di Ortony ed al.)4. Atteggiamenti

Alcune sono state il ‘quadro teorico’ delle mie ricerche precedenti. E sono apparse qua e là, inmomenti diversi, con livelli d’approfondimento diversi: fissate staticamente (appunto: leistantanee). Ma ha senso questa visione statica del quadro teorico? E in particolare ha sensol’esplicitazione del quadro teorico all’inizio di una ricerca?Il rapporto quadro teorico / ricerca è dialettico, quasi contraddittorio. La scelta della ‘teoria’ cuifare riferimento dipende infatti dal problema che il ricercatore si pone. In particolare se ilricercatore non ha certi strumenti li cerca (quello che è successo nel mio percorso dopo le ricerchesui problemi), ed espande in questo modo la teoria cui fa riferimento. D’altra parte il problema cheil ricercatore si pone dipende dal quadro teorico che assume: l’osservazione che fa dipende infattidalle ‘lenti’ che usa per guardare.Come risolvere questa contraddizione?Mi sembra che il quadro teorico evolva insieme al processo di ricerca, o meglio, ancora una volta, èil ricercatore che cambia nel processo di ricerca, e con lui il quadro teorico (Mason, 1994). Questoperò dà luogo ad un altro problema: la possibilità per il ricercatore di esplicitare la teoria cui fariferimento. Gran parte di questa teoria infatti è stata metabolizzata, andando a costituire quella chePolanyi (1990) chiama ‘conoscenza tacita’, che è la conoscenza che influenza l’azione: è il bagagliodi conoscenze e convinzioni con cui ha affrontato, e prima ancora individuato, il problema. In altre

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 5

parole in un certo momento, all’inizio, il quadro teorico è ‘dentro’ il ricercatore, implicito. E’quello che gli permette di osservare. Dall’osservazione nasce il bisogno di altri strumenti: il quadroteorico si allarga. Ma è sempre il ricercatore che cambia, più o meno consapevolmente, più o menocon una direzione in mente.

Il quadro teorico messo all’inizio di una ricerca appiattisce tutto questo processo, anzi, in un certosenso lo confonde ed imbroglia, mettendo all’inizio quello che in realtà è quasi il prodotto finale,cioè quasi la fotografia più recente.

Premesso questo, per esigenze di chiarezza una fotografia ci vuole: come dicevo deve descrivereteorie e ricerche cui farò riferimento e cui ho già fatto riferimento. Ricerche ‘madri’, e ricerche‘figlie’, che da quelle sono nate (come gli approfondimenti sul concetto di atteggiamento), e adessosono più mature delle madri. Tutto nello stesso istante.

Non è una fotografia possibile: sarà un fotomontaggio.

1.1 Dalla metacognizione all’affettività

Il termine metacognizione, sempre più usato anche in contesto didattico, ha in realtà accezioni osignificati diversi in diversi contesti di ricerca, o addirittura presso diversi ricercatori. Questaambiguità ha risultati contrastanti: da posizioni entusiastiche, che vedono nella metacognizione unaspecie di “ombrello” in grado di dar conto di qualsiasi fenomeno relativo all’apprendimento, alrifiuto di considerare un concetto così mal definito come oggetto di studi scientifici.Campione, Brown e Connell, pionieri degli studi in questo campo, in un lavoro del 1988ripercorrono la “storia” di questo costrutto.L’interesse per la metacognizione ha origine da un lavoro di Tulving e Madigan (1970) in cui gliautori criticano le ricerche sulla memoria. In particolare essi rilevano che la ricerca ignora un fattofondamentale che differenzia gli esseri umani dagli altri esseri viventi: il fatto che le persone hannoconoscenze e convinzioni sui propri processi di memorizzazione. Questa osservazione viene ripresada Flavell (1971) che comincia a studiare le metamemoria dei bambini, ponendosi domande quali:cosa sanno i bambini della propria memoria, e come arrivano a costruire tale conoscenza? Questotipo di lavoro, che richiede ai bambini di riflettere sui propri processi di memoria, enfatizza laconsapevolezza dei propri processi di pensiero.Nello stesso periodo, ma da una prospettiva leggermente diversa, altri ricercatori (in particolare AnnBrown) si interessano al problema dei processi di “gestione” dell’apprendimento. Il primo motivodi questo interesse è il risultato tipico degli interventi finalizzati a migliorare negli studenti le abilitàdi memoria e di soluzione di problemi. Nonostante in effetti il rendimento migliori quando lasituazione è sotto il controllo dello sperimentatore, gli studenti falliscono ripetutamente nell’usare lanuova competenza acquisita in modo autonomo. Essi non sembrano cogliere la significatività delleabilità apprese e di conseguenza sono in grado di utilizzarle solo se lo sperimentatore dà indicazionidi farlo. Questi risultati spingono quindi a lavorare sui processi di auto-regolazione degli studenti esull’uso di risorse strategiche. Questo aspetto riguarda essenzialmente il controllo dellaconoscenza.Ci sono quindi diversi aspetti nello studio della metacognizione. Uno riguarda la conoscenzadell’individuo sulla conoscenza, su se stesso come soggetto che apprende, sulle risorse disponibili esulla struttura della conoscenza nei domini in cui sta lavorando. Un altro punta l’attenzionesull’autoregolazione, sul monitoraggio e l’orchestrazione delle proprie abilità cognitive. Unulteriore aspetto trasversale è l’abilità di riflettere sia sulla conoscenza che sui processi di gestione.

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Questi punti di vista differenti possono creare confusione,3 ma messi insieme riescono a dareun'immagine espressiva di come un individuo possa apprendere bene in un certo dominio: i soggettiche apprendono con successo sono in grado di riflettere sulle proprie abilità di problem solving,hanno disponibili potenti strategie per trattare con problemi nuovi, e sono in grado di regolarequeste strategie in modo efficiente.

Nel contesto dell’educazione matematica l’interesse nei confronti della metacognizione nasceall’interno degli studi sul problem solving.I primi ricercatori che si sono occupati di problem solving matematico hanno tentato di analizzare iprocessi messi in atto dai bravi solutori, nella prospettiva, più o meno implicita, che si potesseinsegnare ai cattivi solutori le strategie e le euristiche così evidenziate. Il tentativo più brillante inquesto senso è quello realizzato da G. Polya (1945) che ha tentato di evidenziare metodi in grado didominare ogni tipo di problema, facendo riferimento a schemi di risoluzione generali.Polya non si limita però ad evidenziare il processo risolutivo tipico di un bravo solutore:nell’intento di “insegnare” a risolvere problemi, egli formula domande e suggerimenti, che,indicando implicitamente le operazioni mentali utili per la risoluzione, vogliono fornire una guida alragionamento produttivo. Alla luce delle sue osservazioni si radicalizza in particolare laconvinzione che i bravi solutori siano caratterizzati dall’avere a propria disposizione un buonrepertorio di strategie ed euristiche.Mentre il lavoro di Polya però descrive il comportamento di un bravo solutore nell’intento diinsegnare a risolvere problemi, gli studi successivi, pur traendo ispirazione dalle sue opere, nesnaturano di fatto lo spirito, focalizzando l’attenzione su strategie specifiche: ad esempio si insegnaagli studenti ad utilizzare una o più delle euristiche suggerite, quali “fai un disegno” o “pensa ad unproblema collegato”, e si confronta la loro performance con quella precedente al trattamento(Silver, 1982): in realtà quando le strategie vengono insegnate in questo modo, non sono piùeuristiche nel senso di Polya, ma diventano semplici algoritmi (Schoenfeld, 1992). Ed in effetti taliesperienze si rivelano fallimentari: i soggetti così “addestrati” non sembrano in grado digeneralizzare e trasferire le conoscenze apprese ad altre situazioni.I risultati scoraggianti di questi studi, unitamente a quelli di vari accertamenti periodici sull’abilitàdi risoluzione di problemi condotti su campioni di popolazioni scolastiche di diversi livelli, hannodato vita a nuovi filoni di ricerca: l’attenzione non viene più focalizzata esclusivamente sullaconoscenza matematica posseduta, ma su come questa viene utilizzata, cioè sulle capacità diorganizzazione e gestione del proprio sapere e delle proprie facoltà intellettuali.In particolare, mentre il concetto tradizionale di “bravo solutore di problemi” è strettamente legatoal dominio di conoscenze specifico cui il problema fa riferimento (nel senso che un bravo solutoredi problemi di geometria è semplicemente uno che conosce bene la geometria), Schoenfeld (1983a)introduce l’idea che esista un’abilità di risolvere problemi che in qualche modo prescinde dalleconoscenze possedute nel dominio stesso: tale abilità consiste nella capacità di ottimizzare leproprie risorse in vista di un obiettivo dato, e si appoggia su efficaci e continui processi di controlloe autoregolazione.Questo punto di vista riflette quindi le posizioni delle più recenti ricerche in psicologiadell’apprendimento che abbiamo descritto all’inizio, secondo le quali fallimenti e successi non sipossono spiegare solo in termini di conoscenze possedute dal soggetto: altri fattori sonodeterminanti in tal senso, e in particolare proprio quelli metacognitivi, legati alla “gestione” dellaconoscenza stessa.

2 In particolare è talmente stretto il legame fra metacognizione e problem solving che c’è il rischio che qualsiasi abilitàrelativa alla risoluzione di problemi venga definita come metacognitiva. A questo proposito Cornoldi (1995),richiamando il pericolo di considerare metacognitivo tutto ciò che guida il comportamento, sottolinea che «il requisitonecessario [per parlare di metaconoscenza piuttosto che di conoscenza] è che l’oggetto della conoscenza sia la nostraattività mentale, piuttosto che il comportamento o il mondo esterno.»

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Sebbene, come abbiamo visto, il termine “metacognizione” venga utilizzato in una vasta gamma disignificati, nella ricerca sul problem solving matematico (Schoenfeld, 1987) si pone l’accento sudue categorie di comportamento metacognitivo, distinte ma correlate:a. La conoscenza del proprio patrimonio cognitivo e dei propri processi di pensiero4.b. Il controllo o autoregolazione.

All’inizio ho sottolineato come gli studi sui processi di autoregolazione abbiano avuto origine daesperienze di interventi in ambito strettamente cognitivo, rivelatesi fallimentari in termini digeneralizzabilità e di persistenza nel tempo.È naturale quindi che a tali studi siano seguite ricerche che hanno avuto come oggetto interventifinalizzati allo sviluppo e al recupero di abilità metacognitive. In realtà queste ricerche hanno postonuove questioni, a diversi livelli. Un primo livello riguarda il problema5 teorico della possibilità,opportunità, modalità di separare l'intervento metacognitivo da un intervento cognitivo (Montague,1992) o viceversa di contestualizzarlo in un ambito di conoscenze specifiche, quale ad esempio uncorso curricolare di matematica (Schoenfeld,1987; Lester e al., 1989; Hutchinson, 1992).Ma è il secondo livello che qui voglio sottolineare. Nel contesto della psicologiadell’apprendimento i limiti già evidenziati di un intervento che si basi solo su aspetti cognitivi,relativamente alla persistenza nel tempo del miglioramento ottenuto, sono stati in realtà evidenziatianche nel caso di interventi esclusivamente metacognitivi. A questo proposito viene sottolineata lanecessità di considerare anche aspetti affettivi, in particolare quelli motivazionali, che sonostrettamente collegati alla selezione di strategie e ai processi di controllo. Si evidenzia cioè illegame fra lo sviluppo delle capacità metacognitive e le ragioni che spingono il soggetto versol'apprendimento (Borkowski e Muthukrishna, 1994):“L’estensione più recente della teoria metacognitiva considera le influenze non cognitive sullaprestazione, come ad esempio le credenze attribuzionali e gli stili di apprendimento (…). Premessafondamentale nella più recente versione della metacognizione è che i fattori personali-motivazionali infondono energia alle abilità esecutive di autoregolazione che sono necessarie perla selezione, l’utilizzo e il monitoraggio di strategie. (…)Le variabili motivazionali sono ritenute l’aspetto energetico dei processi di auto-regolazionesottostanti le attività di problem-solving” [Borkowski e Muthukrishna, 1994, pg.46-47]

Il passaggio dalla consapevolezza all'attivazione di processi di controllo, in altre parole, è tutt'altroche automatico, e se da un lato richiede un repertorio di strategie, che possono costituire il cuore diun intervento metacognitivo, dall'altro richiede un investimento di energie e risorse, che il soggettopotrà attivare solo se ritiene possibile avere dei risultati: in particolare il senso di auto-efficaciaappare assolutamente cruciale. Non è un caso che proprio in questo contesto venga sottolineatal’importanza della “responsabilità dell’apprendimento” (Brown et al., 1983; Campione et al., 1988;Borkowsky e Muthukrishna, 1994).

Mi sembra molto significativo il fatto che il penultimo paragrafo6 del classico capitolo di A. Brown,J. Bransford, R. Ferrara e J. Campione su ‘Learning, remembering, and understanding’ del 1983 siintitoli ‘Beyond Cold Cognition’. Espressive anche le parole con cui tale paragrafo conclude:‘It seems clear that the cold cognitive aspects of learning are only part of a much larger system thatinfluences development; indeed, the purely cognitive aspects may be less primary than we like tothink they are.’ [p. 147]

4 Schoenfeld include in questa categoria anche l’accuratezza nel descrivere il proprio pensiero: tale capacità, piuttostolimitata nei bambini, in genere si incrementa notevolmente con l’aumentare dell’età, pur rimanendo spesso inconscianell’individuo.5 Problema cui ho fatto riferimento riportando l’esperienza di recupero agli studenti di Biologia.6 Altrettanto significativo il fatto che l’ultimo invece è ‘Beyond isolated cognition’.

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Anche nel campo dell’educazione matematica agli studi sulla metacognizione fa seguito laconsapevolezza dell’importanza degli aspetti affettivi7. Tale consapevolezza nasce quindinell’ambito del problem solving, ed è ufficializzata dall’uscita di un libro a cura di D. Mc Leod e V.Adams dal titolo eloquente: Affect and Mathematical Problem Solving, del 1989, in cui si sottolineala necessità di avere una teoria efficace per spiegare fenomeni che sfuggono ad analisi cognitive ometacognitive.La prefazione del volume si apre con queste parole (grassetto mio):‘Research on mathematical problem solving has received considerable attention in recent years,not only from those who do research on mathematics learning and teaching, but also frompsychologists and others who work in the cognitive sciences. Although most of this research hasfocused on cognitive factors, there has been a surge of interest in the role of affect in mathematicalproblem solving. This book explores these affective factors and their relationships to thecognitive processes involved in problem solving.(…)The origins of the book can be found in George Mandler’s (1984) theory of emotion and in EdwardSilver’s (1985) effort to integrate the multiple perspectives that influence research on mathematicalproblem solving.'’ [p. v]

E difatti il libro contiene due contributi di Mandler, lo psicologo cognitivista alla cui teoria fannoriferimento molti ricercatori nel campo del problem solving: il primo di questi contributi, ‘Affectand Learning: Causes and Consequences of Emotional Interactions’, introduce le idee base dellateoria di Mandler che è assunta da tutti i ricercatori che hanno collaborato al volume.Seguire questo filo ci porterebbe quindi a descrivere brevemente tale teoria, e d’altra parte l’idea diemozione è cruciale in questo contesto, ma per motivi di chiarezza espositiva conviene tornare alconcetto più generale di affettività.La terminologia in questo campo, come del resto in altri, è ambigua e spesso fuorviante (il termineinglese ‘affect’ evoca il nostro ‘affetto’ piuttosto che ‘emozione’). Nel libro di Mc Leod e Adamsc’è un contributo su questo tema di Hart, che sottolinea l’importanza di trovare una terminologiacomune fra psicologi e ricercatori nel campo dell’educazione matematica, ed esplicita cosa siintende per fattori affettivi o emozionali. In realtà conviene piuttosto far riferimento alla posizionesuccessivamente espressa da Mc Leod (1992), visto che è uno dei ricercatori che ha dato contributipiù significativi in questo campo, e il suo lavoro è citato in tutte le ricerche del settore. Secondo McLeod i fattori emozionali o affettivi comprendono (v. fig. 1):- le convinzioni;- gli atteggiamenti.- le emozioni.

L’aspetto più controverso di questa categorizzazione riguarda la collocazione delle convinzioni:alcuni ricercatori (ad esempio Kilpatrick, 1985; Schoenfeld, 1987) le considerano fattorimetacognitivi, altri (Hart, 1989, e, appunto, Mac Leod, 1992) affettivi; altri ancora metacognitivi oaffettivi a seconda del contesto cui fanno riferimento (ad esempio metacognitive quelle sullamatematica, affettive quelle su di sé). A prescindere da questo aspetto, è interessantel’osservazione di Mc Leod su questa “terna” di fattori: nel passaggio dalle convinzioni alleemozioni aumenta la componente emozionale, mentre al decrescere della componente cognitiva(che però non scompare del tutto!) corrisponde anche una diminuzione della stabilità nel tempo.E cominciamo proprio dalle convinzioni.

7 Naturalmente aspetti affettivi erano stati già oggetto d’attenzione da parte dei ricercatori in educazione matematica (v.Hembree, 1991): ma si trattava per lo più di studi sull’ansia, nell’ottica di una separazione fra processi di pensiero edemozioni, che vedeva le emozioni come ostacolo ai processi di pensiero.

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FIG.1Mc Leod (1992): I fattori affettivi nell’educazione matematica.

Categoria EsempiConvinzioni:Sulla matematicaSu di séSull’insegnamento dellamatematicaSul contesto sociale

La matematica è basata su regole.Io sono capace di risolvere problemi.Insegnare significa spiegare .

L’apprendimento richiede competizione.Atteggiamenti Scarso apprezzamento per le dimostrazioni geometriche.

Divertimento nel risolvere problemi.Preferenza per l’apprendimento per scoperta.

Emozioni Gioia (o frustrazione) nel risolvere problemi non di routine.Valutazioni estetiche in matematica.

1.2 Le convinzioni

In realtà ho già parlato ampiamente di convinzioni (o credenze: in inglese ‘beliefs’) nella primaparte, introducendo anche alcuni riferimenti importanti (Cobb, 1985; Schoenfeld, 1985a; Silver,1982a e 1982b; e naturalmente il libro di Mc Leod e Adams del 1989).Qui evito di ripetere le cose estremamente generali che ho già detto, e voglio invece approfondirealcuni punti importanti e sottolinearne altri più problematici.Come vedremo anche per le emozioni, non troviamo in letteratura vere e proprie definizioni di‘convinzioni’. In un recente articolo Furinghetti e Pehkonen (1999) hanno condotto un’analisiapprofondita delle diverse accezioni con cui il termine viene usato, ed in generale delle carenze alivello teorico della ricerca sulle convinzioni.Tale analisi mette in evidenza che fra gli specialisti del settore ci sono posizioni anche moltodiverse, e comunque non c’è accordo su un’unica caratterizzazione.8 Nonostante questo a nostroparere l’uso nella letteratura del termine appare sufficientemente condiviso (a differenza ad esempiodi quello che accade col costrutto di atteggiamento).Appare anche condivisa, a prescindere dalla collocazione delle convinzioni nell’ambitometacognitivo o affettivo, l’idea che le convinzioni costituiscano un ‘ponte’ fra aspetti cognitivi,metacognitivi e affettivi. Brown e al. (1983) nel loro lavoro cruciale sulla metacognizionesottolineano l’importanza di questi legami, concludendo che “Gli aspetti emozionali non possonoessere separati da quelli cognitivi, così come quelli individuali non possono essere separati daquelli sociali.”

Un punto tuttora controverso e aperto riguarda il rapporto conoscenza / convinzioni.Vedere le convinzioni come “la conoscenza individuale soggettiva (cioè non necessariamenteoggettivamente vera) su di sé, sulla matematica, sull’ambiente, e sugli argomenti affrontati inparticolari compiti di matematica” (Lester, 1987), non aiuta certo a chiarire la natura di talerapporto: in un’ottica costruttivista, qual è peraltro quella assunta dai ricercatori che si occupano diconvinzioni, non è forse vero che tutta la conoscenza è costruita dal discente? In che senso allora leconvinzioni sono la conoscenza soggettiva?Il problema, tuttora aperto, è affrontato in diversi modi. Secondo alcuni (Da Ponte, 1994) non c’èdistinzione fra convinzioni e conoscenza: le convinzioni sono parte della conoscenza, addirittura

8 Ad una ventina di ricercatori del settore veniva chiesto di esprimere il proprio parere su caratterizzazioni, espresse daaltri, del costrutto di ‘convinzione’.

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tutta la nostra conoscenza poggia in definitiva su convinzioni, che hanno il ruolo di proposizioninon dimostrate.Altri affrontano la questione indirettamente, concentrando piuttosto gli sforzi sull’analisi dellerelazioni che intercorrono fra le varie convinzioni possedute da un soggetto. Le convinzioni infattisi organizzano per lo più in strutture relativamente stabili, i cosiddetti sistemi di convinzioni, cuiabbiamo già fatto riferimento. La struttura di tali sistemi (Green, 1971) presenta alcunecaratteristiche che li differenziano dai sistemi di conoscenze (Törner e Pehkonen, 1996).Ad esempio:1. La struttura quasi –logica.I sistemi di conoscenza sono formati logicamente da premesse e da conclusioni dedotte da talipremesse. Invece le relazioni fra convinzioni non possono essere definite logiche, in quanto leconvinzioni sono organizzate in relazione a come il soggetto vede le connessioni fra esse. In altreparole, ogni persona ha nel suo sistema di convinzioni una struttura che possiamo definire quasi-logica, con alcune convinzioni primarie ed altre che derivano ‘logicamente’ da queste, che vengonochiamate derivate. Inoltre questo ordine quasi-logico è unico per ogni persona.A causa della mancanza di una struttura logica, però, alcune convinzioni possono anche essere incontraddizione con altre9. Viceversa, un’importante caratteristica dei sistemi di conoscenza è chenon possono contenere contraddizioni.2. La ‘centralità psicologica’.Ha a che fare con la ‘forza’ psicologica delle convinzioni, cioè il “grado” di convinzione che lecaratterizza. In questo senso si possono distinguere convinzioni centrali (quelle con maggior“forza” psicologica e quindi più consolidate) e convinzioni periferiche. Anche questa dimensione èassente nei sistemi di conoscenza. Non si può dire che qualcuno conosce un certo argomento“intensamente”.Le due dimensioni precedenti sono ortogonali: una convinzione può essere centrale, ma nonprimaria, e viceversa. E in ogni caso il fatto che sia o meno primaria / centrale dipende non dallaconvinzione di per sé, ma da come è organizzata nel sistema di convinzioni di quel particolareindividuo.3. La struttura “a grappolo”.Le convinzioni sono strutturate in settori relativamente isolati: questo isolamento fa sì che unsoggetto possa avere contemporaneamente convinzioni apparentemente contraddittorie.

La struttura in cui si organizzano le convinzioni però non è importante solo rispetto al problema delrapporto convinzioni / conoscenza. A nostro parere è un elemento assolutamente cruciale, e di fattospesso sottovalutato o addirittura ignorato, per il problema dell’influenza delle convinzioni suiprocessi decisionali. Una singola convinzione può di fatto portare a comportamenti ancheestremamente diversi, a seconda del sistema di convinzioni in cui è inserita. Ad esempio laconvinzione ‘Per riuscire in matematica bisogna essere portati’ è probabilmente condivisa non soloda studenti (o ex-studenti) con difficoltà, ma anche da studenti (o ex-studenti) che riescono. Ma neidue casi cambia probabilmente la convinzione su di sé cui è associata: in un caso ‘E io non sonoportato’, nell’altro ‘E io sono portato’. In questa rete di connessione fra convinzioni appaionoparticolarmente importanti, proprio per le connessioni che hanno, le convinzioni su di sé, ed inparticolare la convinzione ‘di potercela fare’, cioè il cosiddetto senso di auto-efficacia: tale 9 Osserva a questo proposito Gardner: “I bambini portano nella propria coscienza un gran numero di copioni, stereotipi,modelli e credenze. Questi schemi concettuali, se esaminati analiticamente, possono celare molte contraddizioni interne(…) Queste contraddizioni, però, vengono notate solo raramente, e anche quando lo sono, raramente turbano ilbambino. Va aggiunto, poi, che gli adulti portano con sé analoghi complessi di enunciati e sentimenti conflittuali (peresempio, nella sfera politica), la cui natura contraddittoria raramente diventa motivo di turbamento nella vita di ognigiorno. Dovrebbe essere evidente, però, che l’esistenza di prospettive contraddittorie può interferire conl’apprendimento formale.Tali prospettive, infatti, oltre che essere contraddittorie tra di loro, possono essere in contrasto, in tutto o in parte, conconclusioni consolidate di una disciplina.” (Gardner, 1993, pag.111)

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convinzione è fortemente legata ad un contesto (nel nostro caso: l’apprendimento dellamatematica).

Lo studio delle convinzioni nella loro organizzazione in sistemi potrebbe forse aiutare a superareun’ambiguità spesso riscontrata in quest’area, che ha a che fare con gli strumenti di osservazionescelti: la contraddizione fra le convinzioni che un soggetto ‘dichiara’ (ad esempio quando rispondead un questionario appositamente preparato) e quelle che invece ‘pratica’10, cioè quelle chesembrano guidare i suoi processi decisionali. Questa contraddizione è stata messa in evidenza damolti ricercatori (v. in particolare Schoenfeld, 1989). Si può ipotizzare allora che le convinzionicentrali siano quelle che dirigono i comportamenti: per interpretare il comportamento bisognaquindi riuscire a riconoscerle, e d’altra parte per portarle alla luce occorre privilegiare situazioni incui influenzano i comportamenti, quali ad esempio l’attività di risoluzione di problemi, piuttostoche la compilazione di un questionario.D’altra parte lo studio delle convinzioni nella loro organizzazione in sistemi appare cruciale ancheper affrontare un altro problema tipico di quest’area: il cambiamento delle convinzioni. Per riuscirea modificare una convinzione è importante che sia primaria, altrimenti bisogna risalire a quellaprimaria da cui è derivata. Quindi, individuate le convinzioni centrali, bisogna, per modificare ilcomportamento, intervenire su quelle primarie da cui (eventualmente) derivano. Il problema è chel’organizzazione delle convinzioni è personale: la stessa convinzione può essere primaria per unsoggetto, derivata per un altro, centrale per uno, periferica per un altro. Questo significa che lostudio delle convinzioni deve essere individualizzato. In questo senso può essere importanteconoscere la ‘storia’ di un soggetto (ad esempio attraverso temi, diari, ecc.), perché ci dice qualcosasu come si sono formate le convinzioni, in particolare su quali possono essere quelle primarie.

In definitiva siamo (ora11) fortemente convinti che le convinzioni vadano studiate nella loroorganizzazione in sistemi, anche se questo naturalmente comporta problemi non indifferenti per lametodologia di osservazione da utilizzare, e che gli studi di questo tipo, assolutamente necessari,sono invece ancora insufficienti.

1.3 Le emozioni

Come ho detto precedentemente nel campo dell’educazione matematica i ricercatori che sioccupano di emozioni fanno per lo più riferimento alla teoria di Mandler (1984).Mandler considera la risposta emozionale come risultato di una combinazione (da parte delsoggetto) di analisi cognitive e risposte fisiologiche. Più precisamente la sua ipotesi è la seguente:

1. Se una sequenza di azioni viene interrotta o se si verifica una discrepanza percettiva o cognitivarispetto alle aspettative, si ha come conseguenza una eccitazione fisiologica (visceral arousal).

2. L’esperienza soggettiva dell’emozione è prodotta dalla combinazione di questa eccitazionefisiologica con la valutazione cognitiva dell’esperienza.

Quindi non è l’esperienza in sé che suscita un’emozione, ma l’interpretazione che ne viene data.Dato che la nascita di emozioni è dovuta spesso ad una pianificazione interrotta, è comprensibileche il contesto del problem solving sia un contesto naturale per la nascita di emozioni, negative epositive (Di Martino, 2001).

10 Problema particolarmente sentito nella ricerca sulle convinzioni degli insegnanti, e che mette in discussione glistrumenti tradizionalmente utilizzati per indagare sulle convinzioni, quali i questionari (v. Malara e Zan, in stampa).11 Sottolineo ‘ora’, perché in effetti il lavoro presentato nella prima parte sulle convinzioni dei bambini sui problemi,utilizzava un questionario in cui le convinzioni erano indagate e poi analizzate isolatamente.

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Abbiamo finora parlato di emozioni senza darne una definizione, e in realtà non è facile trovarnedefinizioni esplicite soddisfacenti, anche se la riflessione sulle emozioni, sia in campo filosoficoche in quello psicologico ha una lunga tradizione.Goleman (1996) scrive: “Io riferisco il termine emozione a un sentimento e ai pensieri, allecondizioni psicologiche e biologiche che lo contraddistinguono, nonché a una serie di propensioniad agire.” [pag.333]Alcune problematiche tipiche di quest’area riguardano l’esistenza o meno di emozioni primarie: “ilblu, il rosso e il giallo del sentimento dai quali derivano tutte le mescolanze” [Goleman, ibidem,pag.333]). Esistono tali emozioni? Ed in caso affermativo, quali sono12 ?Quello che qui interessa sottolineare è che attualmente sono moltissimi i contributi, provenienti dadiverse aree disciplinari, che evidenziano un rapporto estremamente profondo fra processi cognitivied emozionali (Damasio, 1995; Goleman, 1996).

Interessante in questo contesto é anche l’approccio alle emozioni che caratterizza gli psicologicognitivisti13, e che abbiamo già visto nella teoria di Mandler (oltre a Mandler cfr. Weiner, 1983;Ortony ed al., 1988): non è l’evento in sé che genera un’emozione, ma l’interpretazione che ilsoggetto dà dell’evento stesso.

In particolare Weiner (1983) considera cruciale in tale interpretazione il processo di attribuzionecausale cui abbiamo già fatto riferimento nelle parti precedenti14.Di particolare interesse dal punto di vista attribuzionale sono emozioni come la pietà, la rabbia esenso di colpa. Ad esempio all’origine della rabbia si riconosce una particolare interpretazionedegli eventi: il soggetto attribuisce la causa di un evento percepito come sgradevole ad un altrosoggetto, con la convinzione che l’evento stesso si sarebbe potuto evitare. In altre parole nellarabbia si riconosce come caratterizzante la dimensione di controllabilità dell’evento scatenante. 12 Ecco l’elenco proposto da Goleman dei “candidati principali e alcuni membri delle loro famiglie”:• Collera: furia, sdegno, risentimento, ira, esasperazione, indignazione, irritazione, acrimonia, animosità, fastidio,

irritabilità, ostilità e, forse al grado estremo, odio e violenza patologici.• Tristezza: pena, dolore, mancanza d’allegria, cupezza, malinconia, autocommiserazione, solitudine, abbattimento,

disperazione e, in casi patologici, grave depressione.• Paura: ansia, timore, nervosismo, preoccupazione, apprensione, cautela, esitazione, tensione, spavento, terrore;

come stato psicopatologico, fobia e panico.• Gioia: felicità, godimento, sollievo, contentezza, beatitudine, diletto, divertimento, fierezza, piacere sensuale,

esaltazione, estasi, gratificazione, soddisfazione, euforia, capriccio e, al limite estremo, entusiasmo maniacale.• Amore: accettazione, benevolenza, fiducia, gentilezza, affinità, devozione, adorazione, infatuazione, agape12.• Sorpresa: shock, stupore, meraviglia, trasecolamento.• Disgusto: disprezzo, sdegno, aborrimento, avversione, ripugnanza, schifo.• Vergogna: senso di colpa, imbarazzo, rammarico, rimorso, umiliazione, rimpianto, mortificazione, contrizione.Come ho detto, si tratta dell’elenco proposto da Goleman. L’ho preso però dal testo che ho più volte citato e che è unatraduzione italiana di quello originale: immagino la difficoltà nel cercare il corrispondente di certi vocaboli! Sottolineoquesto aspetto perché rimanda ad un problema importante in quest’area: i nomi che abbiamo in ogni lingua perdescrivere le emozioni sono del tutto insufficienti a coprire l’intera gamma delle emozioni esistenti.13 A questo proposito vorrei evitare fraintendimenti: non è assolutamente mia intenzione ridurre il problema delleemozioni alla loro origine cognitiva, ignorando o sottovalutando quello che la “psicologia del profondo” ha da dire e dafare a riguardo.14 Le attribuzioni causali sono le convinzioni che un individuo costruisce per spiegare le cause di un fallimento o di unsuccesso. A questo proposito Weiner (1974) individua tre dimensioni di causalità:- il locus di attribuzione, che può essere esterno / interno al soggetto; la fortuna o la difficoltà del compito hanno un

locus esterno, a differenza dell’abilità o dell’impegno: un bambino può pensare di aver risolto un problema dimatematica perché è stato aiutato (causa esterna) oppure perché si è impegnato (causa interna);

- la stabilità nel tempo: l’abilità è considerata relativamente stabile (“ho fatto bene il compito perché sono bravo”),mentre non lo è la fortuna (“ho sbagliato il compito per caso”);

- la controllabilità da parte del soggetto stesso: l’impegno, a differenza dell’abilità, è considerato controllabile (“nonho fatto bene il problema perché non mi sono impegnato abbastanza”).

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Così se per l’assenza di un collega siamo costretti ad assumerci un incarico per noi sgradevole,l’emozione che ne segue dipenderà in modo sostanziale dalla nostra interpretazione di tale assenza:se l’attribuiamo ad una volontà deliberata del collega di evitare il lavoro proveremo rabbia; mal’emozione sarà profondamente diversa se attribuiamo la stessa assenza a cause incontrollabili oaddirittura spiacevoli come una malattia grave, o problemi famigliari.

Un altro tentativo interessante di elaborare una teoria delle emozioni che tenga conto in modosistematico ed esauriente della loro origine cognitiva è stato fatto dagli psicologi Ortony, Clore eCollins (1988).Essi distinguono tre classi fondamentali di emozioni, a seconda che si tratti di reazioni a:-oggetti: la reazione emozionale, genericamente definibile in termini di piacere/dispiacere, ècondizionata dalle attitudini e dai gusti del soggetto (emozioni tipiche: amore, odio);-eventi: la reazione emozionale, genericamente definibile come contentezza/scontentezza, ècondizionata dagli obiettivi che un soggetto si pone (emozioni tipiche in questa classe: felicità,infelicità, pietà, invidia...);-agenti: la reazione emozionale, genericamente definibile in termini diapprovazione/disapprovazione, è condizionata dalle convinzioni del soggetto, in particolare dai suoistandards (emozioni tipiche: orgoglio, vergogna, ammirazione, riprovazione). A partire da queste tre classi si formano anche emozioni più articolate come la rabbia, in cui lareazione ad un evento sgradevole si compone con la reazione ad un agente ritenuto responsabile ditale evento (ritroviamo quindi le posizioni di Weiner). In questo senso possiamo dire che la rabbiaè un’emozione più “complessa” di altre, ad esempio della noia, in quanto è più complesso ilprocesso di interpretazione della realtà che la fa nascere .

Più in generale potremo definire semplici quelle emozioni che sono reazioni determinate da gusti eattitudini (quindi ad esempio: noia, tristezza, odio), e definire invece complesse quelle emozioni chesono reazioni determinate da obiettivi, convinzioni, valori.Ad esempio l’emozione che proviamo quando facciamo una passeggiata sul mare in una bella mattina di primavera è inquesto senso più semplice dell’emozione che proviamo quando veniamo a sapere che negli Stati Uniti è stata eseguitauna condanna a morte: in quest’ultimo caso infatti il processo di interpretazione della realtà che scatena orrore, pietà,rabbia, è estremamente articolato.

1.4 Gli atteggiamentiL’interesse per gli atteggiamenti nasce intorno agli anni ’30 nell’ambito della psicologia sociale,dove si diffondono rapidamente ricerche applicate a studi sull’opinione pubblica, a previsioni sulcomportamento elettorale, a ricerche di mercato, e in generale ad ogni settore nel quale la possibilitàdi conoscere gli orientamenti e le opinioni della gente assume un’enorme importanza (Arcuri eFlores D’Arcais, 1974).Nonostante il consenso sull’importanza dell’atteggiamento, c’è però fin dall’inizio molta ambiguitàsul significato e sull’uso del termine: in un capitolo sugli atteggiamenti redatto nel 1935 per loHandbook of Social Psychology (e curato da C. Murchinson), Allport riporta ben sedici definizionidiverse. All’interno di questa varietà possiamo individuare due tipologie importanti:

1. Secondo l’accezione più semplice l’atteggiamento è il grado di affetto positivo o negativoassociato ad un determinato oggetto.

2. Una accezione più articolata vede nell’atteggiamento tre componenti: una reazioneemozionale, le convinzioni riguardo l’oggetto, il comportamento nei confronti dell’oggetto.

A prescindere dalla varietà delle definizioni si riconosce in ogni caso la caratterizzazione degliatteggiamenti come stati interni, o mentali, che hanno una direzione (favorevole / sfavorevole) eduna intensità variabile, e che sono legati ad una predisposizione ad agire.

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Nel campo della psicologia sociale comunque l’interesse dei ricercatori è sempre stato diretto più aindividuare strumenti di misura che garantissero una certa scientificità alla nozione diatteggiamento, che a definire il concetto stesso.In particolare si avvertiva la necessità di superare metodologie ingenue e non sempre attendibili,quali l’inchiesta diretta (consistente nel chiedere direttamente alla persona il suo atteggiamento neiconfronti di un certo problema) e l’osservazione dei comportamenti. Per quanto riguarda la prima,a fronte di vantaggi notevoli, quali la flessibilità e la possibilità di ottenere informazioni dettagliate,si riscontrano svantaggi quali il costo (se il numero di persone coinvolto nell’indagine è moltoelevato) ma anche la difficoltà di confrontare fra loro risultati ottenuti da diversi soggetti. Perquanto riguarda invece la seconda, va osservato che il comportamento di una persona è influenzatoda tante variabili, non solo dall’ atteggiamento: inferire dal comportamento di una persona il suoatteggiamento è quindi un processo soggetto a grossi margini di errori.Il procedimento che pare superare questi problemi consiste nel presentare al soggetto una serie diaffermazioni nei confronti del problema in questione, cercando naturalmente di considerare tutte leposizioni possibili a riguardo, e di chiedergli il suo accordo o disaccordo a riguardo. Questametodologia, che presenta numerosi vantaggi, è quella che sta alla base delle cosiddette scale diatteggiamento, che sono lo strumento più adottato nella psicologia sociale.La scala d’atteggiamento quindi è uno strumento costituito da una serie di affermazioni relativeall’oggetto in questione. Nella sua versione originale è stata introdotta da Thurstone e Chave nel1929, ma la versione attualmente più utilizzata è quella introdotta nel 1932 da Likert che prevedeuna differenziazione delle risposte in 3 gradazioni (“d’accordo”, “indeciso”, “non d’accordo”) o in5 (“pienamente d’accordo”, “d’accordo”, “indeciso”, “non d’accordo” e “per niente d’accordo”).

Un aspetto estremamente delicato, oltre naturalmente alla scelta degli items, è quellodell’attribuzione del punteggio alle cinque diverse opzioni. Non mi soffermo su quest’aspetto, esulle tecniche utilizzate per affrontarlo, rimandando al testo di Arcuri e Flores D’Arcais. Quelloche ci interessa sottolineare è che in definitiva viene ottenuto un punteggio finale, somma deipunteggi ottenuti ai singoli items: tale punteggio è la “misura” dell’atteggiamento, e come tale puòessere in particolare messo in correlazione con altre variabili.

Uno strumento più recente è il cosiddetto “differenziale semantico”, introdotto da Osgood e dai suoicollaboratori negli anni cinquanta. Si tratta di una scala di valutazione di tipo grafico, in cui sonoevidenziati, agli estremi di un segmento suddiviso in un certo numero di intervalli, aggettivi oppostiquali buono / cattivo, bello / brutto, ecc. Il soggetto deve dare la propria valutazione dello stimoloproposto (ad esempio: le frazioni) ponendo una crocetta sull’intervallo corrispondente al“significato affettivo” attribuito al concetto.Alcuni studi hanno messo in evidenza che in molte situazioni questo tipo di scale, dette valutative,danno più o meno gli stessi risultati delle scale tradizionali (v. Osgood e al., 1957), e d’altra partesono più semplici da costruire. Questo spiega la loro popolarità, soprattutto quando l’argomentooggetto della ricerca si presta ad essere espresso in modo semplice.

La lettura del testo citato di Arcuri e Flores D’Arcais mette bene in evidenza la complessità deiproblemi connessi alla misurazione degli atteggiamenti, e la profondità delle riflessioni che stannoalla base delle scelte fatte.

Nell’ambito dell’educazione matematica l’importanza dell’atteggiamento, e più in generale deifattori affettivi, è stata rivalutata intorno agli anni ’70, e da allora ha avuto sempre maggiore risalto,tanto che Aiken osserva in un suo articolo di rassegna del 1976 che il periodo dei sei anniprecedenti ha registrato una quantità di ricerche sugli atteggiamenti superiore a tutta quella anterioreal 1970.Si conferma in questo campo l’ambiguità delle definizioni evidenziata nel contesto in cui il concettodi atteggiamento è nato, cioè la psicologia sociale. Le due tipologie di definizioni che abbiamo

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riportato in generale danno luogo, nell’ambito dell’educazione matematica, alle due accezioni diatteggiamento nei confronti della matematica più diffuse. Più precisamente:

1. L’accezione più semplice vede l’atteggiamento come il grado di affetto positivo o negativoassociato ad un determinato oggetto. Secondo questo punto di vista l’atteggiamento neiconfronti della matematica è semplicemente un’inclinazione positiva / negativa nei confrontidella matematica (Mc Leod 1992, Haladyna e al., 1983).

2. L’accezione più articolata vede nell’atteggiamento tre componenti: una reazione emozionale,le convinzioni riguardo l’oggetto, il comportamento nei confronti dell’oggetto. In questaottica l’atteggiamento di un soggetto nei confronti della matematica è definito in modo piùarticolato dalle emozioni che egli associa alla matematica (che comunque mantengono unavalenza positiva/negativa), dalle convinzioni che possiede a riguardo, dai comportamenti cheattiva (Hart, 1989).

Anche nel campo dell’educazione matematica l’attenzione dei ricercatori è sempre stata rivolta piùalla costruzione di strumenti per rilevare l’atteggiamento, che alla definizione esplicita di cosa siintende per atteggiamento.Ma se questo approccio nel campo della psicologia sociale ha avuto effetti positivi, in quanto hastimolato la riflessione su problemi di misura cruciali in tale ambito, nel campo dell’educazionematematica ha portato spesso a costruire strumenti, senza che fosse ben chiaro cosa si intendevamisurare e perché. In altre parole molto spesso viene dato per scontato che è importante misurarel’atteggiamento nei confronti della matematica, senza esplicitare non solo una definizione diatteggiamento, ma nemmeno i problemi che si intendono affrontare attraverso tale misura. Inquesto modo si elude la domanda fondamentale e preliminare ad ogni processo di misura: perchémisurare? Quali sono i problemi significativi cui le misure fatte cercano di dare una risposta?Riprendendo l’esempio del tavolo15 fatto da Thurstone e Chave, se è vero che alcuni indici possonodescrivere proprietà significative di un oggetto (ad esempio di un tavolo), è vero anche che la sceltadegli indici dipende in modo determinante dal contesto, in particolare dal problema che intendorisolvere. Così se devo spostare il tavolo da una stanza all’altra mi interesseranno le suedimensioni, ma se lo devo sollevare anche il suo peso, e se ad esempio lo devo restaurare miserviranno informazioni sul legno e sull’epoca di costruzione.In particolare i problemi legati all’atteggiamento nell’ambito della didattica della matematica sonodiversi da quelli tipici della psicologia sociale. In quel contesto ciò che interessa è in effetti ladisposizione emozionale di un soggetto (o piuttosto di vasti gruppi di soggetti) nei confronti di uncerto tema o oggetto: le informazioni raccolte servono infatti a prevedere i comportamenti insituazioni poco complesse, per lo più in situazioni di scelta, quali il voto o l’acquisto di beni diconsumo.Ben diversa è la situazione per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti della matematica.Certamente anche i dati relativi ad una generica disposizione emozionale positiva o negativapossono essere significativi, in relazione a problemi quali la scelta di corsi di matematica a livellopre-universitario (problema che negli Stati Uniti è rilevante, ma da noi, almeno attualmente, no) opiù in generale la scelta di scuole o facoltà in cui la presenza dei corsi di matematica ha un certopeso (ad esempio molti ragazzi scartano a priori certe facoltà scientifiche, e ancora prima certescuole, perché “c’è troppa matematica”).

15 “Non si può negare che un atteggiamento sia una faccenda complessa che non può essere facilmente descrittautilizzando un solo indice numerico. Per quanto riguarda il problema della misura, fare questa affermazione equivalead osservare che un comune oggetto come un tavolo è così complesso da non poter essere facilmente misurato facendoricorso ad un unico indice numerico. (…) Tuttavia non esitiamo a dire che una tavola può essere misurata, e ilcontesto ci consente di chiarire quali caratteristiche o dimensioni della tavola cerchiamo di misurare.” [pag.96]

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Ma i problemi che la ricerca nel campo dell’educazione matematica riconosce più interessanti dalpunto di vista didattico sono altri, ben più articolati:- C’è relazione, e quale, fra rendimento e atteggiamento?- Come evolve nel corso dell’esperienza scolastica l’atteggiamento nei confronti della

matematica? In particolare, come si spiega il deterioramento dell’atteggiamento neiconfronti della matematica che si verifica dall’inizio delle scuole elementari alla fine dellascuola superiore16?

- Quali sono le variabili che influiscono sull’atteggiamento? In particolare, quali di questevariabili sono controllabili? Come dire:

- Si può modificare l’atteggiamento nei confronti della matematica?

Nella formulazione di molti di questi problemi è implicito il riferimento ad un atteggiamentopositivo nei confronti della matematica. Ma in realtà se si vanno ad esplicitare le opinioni su cosa sideve intendere per atteggiamento positivo, si ritrovano posizioni estremamente varie se nonaddirittura contraddittorie, che risentono naturalmente anche della definizione di atteggiamentoscelta. Se ad esempio l’atteggiamento è inteso come disposizione emozionale positiva/negativa neiconfronti della matematica, appare chiaro cosa si intende per atteggiamento positivo: unadisposizione emozionale positiva nei confronti della matematica. Ma se l’atteggiamento è intesocome un complesso articolato di convinzioni, emozioni, comportamenti associati alla matematica,non è chiaro a priori che cos’è (e se c’è) un atteggiamento “positivo”: appare infatti riduttivo fareriferimento solo alla componente emozionale (v. Di Martino e Zan, 2001a).La definizione scelta, eventualmente in modo implicito, di atteggiamento, in particolare diatteggiamento positivo, influisce in modo determinante sulla formulazione del problemateorico o didattico preso in considerazione e dei problemi ad esso “naturalmente” collegati.Ad esempio il problema di riconoscere eventuali correlazioni fra atteggiamento e rendimento puòassumere almeno due direzioni completamente diverse: a] Se l’atteggiamento è inteso come disposizione emozionale positiva / negativa nei confronti dellamatematica, si tratterà di riconoscere se la disposizione positiva (l’atteggiamento positivo) ècorrelata o meno al successo. In effetti, i risultati delle ricerche a riguardo sono molto confusi, e ingenerale non evidenziano tale correlazione17.b] Se l’atteggiamento è inteso come un complesso articolato di convinzioni, emozioni,comportamenti associati alla matematica, e assumiamo la definizione suggerita precedentemente,considerando l’atteggiamento positivo come quello associato al successo, la risposta al problema inquestione è ovvia18 “per definizione”. Il problema viene rimandato piuttosto a quello accennatosopra, di riconoscere cioè se esiste un pattern di convinzioni, emozioni, comportamenti associati alsuccesso.

Anche la questione, estremamente importante dal punto di vista didattico, di come favorire losviluppo di un atteggiamento positivo cambierà a seconda della definizione scelta: nel primo caso sitratterà di favorire semplicemente una disposizione emozionale positiva, mentre nel secondo 16 Questo deterioramento è confermato da tutti i ricercatori che hanno indagato a riguardo (cfr. Pellerey e Orio, 1996).In uno dei contributi raccolti nel volume Affect and mathematical problem solving, lo psicologo George Mandler (1989)sottolinea l’importanza di studi longitudinali per avere informazioni sull’evoluzione dei bambini da “curiosity machine”a “mathematical idiot”. In particolare egli pone alcune domande significative: Quand’è che appaiono per la prima voltai segni dell’avversione verso la matematica? Come si riconoscono questi segni al loro insorgere nel contestodell’apprendimento?

17 Ad esempio Mc Leod (1992) riporta i dati di una ricerca che mette in evidenza che agli studenti giapponesi lamatematica piace meno che a studenti di altri paesi, nonostante nei confronti internazionali il rendimento deigiapponesi in matematica sia il più alto.18 In realtà il problema di definire il ‘successo’ non è così banale.

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richiederà di favorire quel pattern di convinzioni, emozioni e comportamenti riconosciuti comevincenti.

La mancanza di chiarezza su cosa si intende per atteggiamento, in particolare per atteggiamentopositivo, che si riflette sulla formulazione del problema di ricerca, ha conseguenze importanti anchesulla scelta degli strumenti di misura.

La ricerca sugli atteggiamenti anche nel campo dell’educazione matematica utilizza per lo più lescale di Likert: le indagini sono quindi condotte attraverso la somministrazione di questionaricomposti da una serie di affermazioni su cui è richiesto il grado d’accordo del soggetto (Adesempio: “Mi piace fare problemi”). Il punteggio finale, somma dei punteggi ottenuti ai singoliitems, pretende di “misurare” quindi l’atteggiamento nei confronti della matematica, e può esseremesso in correlazione con altre variabili, quali ad esempio il rendimento del soggetto.

Indubbiamente le scale di Likert presentano diversi vantaggi: sono facili da costruire, dasomministrare, e soprattutto permettono operazioni statistiche sui dati.Ma, come osserva Mc Leod (1987), quello che guida molte delle ricerche condotte in questo modosembra essere la metodologia statistica piuttosto che la teoria.In particolare gli items utilizzati non consentono in genere di risalire alla definizione implicita diatteggiamento assunta, e d’altra parte manca per lo più una definizione esplicita. In molti studi adesempio si osserva un’identificazione fra atteggiamenti e convinzioni (cfr. Di Martino e Zan,2001b): gran parte delle ricerche finalizzate a riconoscere l’atteggiamento degli studenti neiconfronti della matematica utilizzano infatti questionari organizzati come elenchi di convinzioni sucui si chiede l’opinione del soggetto.

Per maggior chiarezza, prendiamo come esempio per le nostre considerazioni un’affermazionefrequentemente usata nei questionari: “La matematica è utile”.Il punteggio “positivo” è dato a chi si dichiara d’accordo. Perché questa scelta?.Forse il punteggio positivo è attribuito all’aspetto cognitivo? In altre parole, la convinzione “lamatematica è utile” è considerata una convinzione vincente, cioè correlata al successo?O piuttosto il punteggio positivo è assegnato all’emozione che si ritiene associata a taleconvinzione, che si assume quindi come un’emozione positiva? In questo caso è implicito ilpassaggio: “Se condivido questa convinzione, ne segue una disposizione emozionale positiva”.I due punti di vista sono diversi, eppure, nel caso dell’affermazione presa in esame, a mio parerealtrettanto insoddisfacenti.La convinzione “La matematica è utile” è davvero da considerarsi a priori, cioè per tutti, vincenterispetto a quella “La matematica non è utile” ?Per convincersi che non è così, basta leggere cosa dice a proposito dell’utilità della matematica G.Hardy, il cui atteggiamento positivo nei confronti della matematica non può essere messo indiscussione e, cosa altrettanto significativa, il cui successo in matematica è ben noto. In altreparole, la convinzione di G. Hardy è particolarmente significativa in quanto è la convinzione di unesperto:“La vera matematica dei veri matematici, quella di Fermat, di Eulero, di Gauss, di Abel e diRiemann, è quasi totalmente inutile (...). Non è possibile giustificare la vita di nessun veromatematico professionista sulla base dell’utilità del suo lavoro.” [‘Apologia di un matematico’,pag.87]“(...) gli universi immaginari sono molto più belli di un mondo stupidamente costruito come ilnostro mondo reale.” [ibidem, pag.96]“Non ho mai fatto niente di utile. (...)Giudicato secondo tutti i parametri pratici, il valore della mia vita matematica è nullo; e al di fuoridella matematica è assolutamente insignificante. Ho un’unica possibilità di sfuggire a un verdettodi irrilevanza totale, se si giudica che ho creato qualcosa che valeva la pena creare.” [ibidem,pag.105]

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Ma veniamo al secondo aspetto. Ammesso che uno condivida la convinzione “La matematica èutile”, ne segue necessariamente una disposizione emozionale positiva?Anche la risposta a questa domanda è negativa. In altre parole la convinzione che “La matematica èutile”, anche se condivisa, non ha la stessa valenza per tutte le persone: in particolare per moltimatematici l’utilità della matematica è un aspetto assolutamente irrilevante.

Ma c’è ancora un altro aspetto che abbiamo già evidenziato a proposito delle convinzioni e che vasottolineato anche in questo contesto.Riconoscere le convinzioni (esplicite) di un certo soggetto non ci dà informazioni sul ruolo cheesse ricoprono nella gerarchia dei sistemi di convinzioni di quel particolare soggetto. Questo dato èinvece importante, perché è ragionevole ipotizzare che le convinzioni centrali abbiano un pesomaggiore delle altre sui comportamenti attivati in situazioni di problema. Ad esempio Schoenfeld(1989), nel commentare i dati relativi ad un questionario finalizzato a studiare le relazioni fra leconvinzioni sulla matematica di 230 studenti di scuola superiore e il loro rendimento, riconosce lapresenza di convinzioni apparentemente “promettenti” e di emozioni positive. In realtà poi ilcomportamento degli studenti durante l’attività matematica sembra guidato più dalle loro precedentiesperienze che dalle convinzioni professate. Per sciogliere questa contraddizione Schoenfeldipotizza che gli studenti vedano in modo rigidamente separato la matematica intesa come “scienza”e la matematica intesa come materia scolastica: le loro convinzioni ed emozioni “positive”riguardano quell’entità astratta e in definitiva sconosciuta che è la scienza matematica, ma nellarealtà della loro attività scolastica le convinzioni cui fanno riferimento sono poi quelle costruiterelativamente all’esperienza scolastica. In ogni caso possiamo concludere che le convinzioni veramente significative sono quelle cheagiscono da guida nei comportamenti di un certo individuo, e questo, abbiamo già osservato,dipende non solo dalla convinzione stessa, ma dalla forza e dal ruolo che essa ha all’interno deisistemi di convinzioni dell’individuo.

In definitiva: “in molti studi che considerano l’atteggiamento come variabile, l’assunzione sembra essere chel’atteggiamento è definito come il totale di una serie di items qualsiasi usati in una scala. È invecefatta poca attenzione a spiegare il costrutto teorico che può giustificare la scelta di un particolareitem o insieme di items che sono collegati a caratteristiche dell’atteggiamento chiaramenteformulate. I ricercatori non dovrebbero pensare che scale etichettate con un certo nome propriosiano l’unico modo accettabile di misurare gli atteggiamenti.” [Kulm, 1980, pag.365].È importante quindi che“la metodologia di ricerca diventi più flessibile e che più studi usino metodi di ricerca diversi,comprese le interviste, invece che solo i questionari. Solo allora possiamo aspettarci che la ricercasugli atteggiamenti dia dei nuovi contributi al campo dell’educazione matematica.” [Mc Leod,1992, pag.582].

Fra gli altri metodi di ricerca per l’osservazione degli atteggiamenti possiamo distinguere quelli incui:

- è richiesto al soggetto stesso di registrare in qualche modo il proprio atteggiamento (le scaledi Likert rientrano in quest’ambito, ma metodi di questo tipo possono essere anche menostrutturati: ad esempio i temi, o le frasi da completare di cui abbiamo parlato nel contestodelle convinzioni);

- un’altra persona (ad esempio l’insegnante) osserva il soggetto, in un contesto naturaled’apprendimento o in un contesto appositamente strutturato;

- sia il soggetto che una persona esterna sono coinvolti nell’osservazione (metodi di questotipo sono ad esempio le interviste).

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In definitiva il campo della ricerca legato all’atteggiamento nei confronti della matematica sipresenta confuso: in mancanza di omogeneità fra questi aspetti, alcuni risultati appaiono ambigui, senon addirittura contraddittori con altri. Così non è ben chiara la correlazione sperata fra un “buonatteggiamento” e rendimento (cfr. Mc Leod, 1992; Kulm, 1980), e d’altra parte se c’è chi fariferimento ad un unico atteggiamento nei confronti della matematica (Haladyna et al., 1983) altriinvece sostengono che si debba parlare di tanti atteggiamenti diversi a seconda degli argomenti edelle attività considerate (Tirosh, 1993); altri ancora sostengono che bisogna distinguere fraatteggiamento nei confronti della matematica intesa come teoria e atteggiamento nei confronti dellamatematica intesa come materia scolastica (Schoenfeld, 1989), o piuttosto che l’atteggiamento neiconfronti della matematica può riferirsi a vari oggetti o situazioni, quali il contenuto matematico, lecaratteristiche della matematica, il tipo di insegnamento, le attività matematiche in classe el’insegnante di matematica (Kulm, 1980).Ma soprattutto il campo della ricerca legata all’atteggiamento nei confronti della matematica ècomplesso. Tre tappe appaiono importanti affinché si possano interpretare i risultati presentati e sipossano confrontare con quelli di altri studi:

a] definizione di atteggiamento;b] individuazione e formulazione del problema che si vuole affrontare;c] scelta dello strumento di misura.

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2. Quali difficoltà?

La parola ‘difficoltà’ in contesto d’apprendimento (in particolare della matematica) evoca tanterealtà diverse, o tanti modi diversi di guardare la stessa realtà. Non ci sono definizioni esplicite cuifare riferimento, e nemmeno regole d’uso, e come sempre ogni individuo dà un’interpretazionepersonale che risente delle sue esperienze, delle sue convinzioni, ma anche dal contesto e quindi dalmomento.Ad esempio il gruppo GRIMED (Gruppo di ricerca interuniversitario matematica e difficoltà) è composto da personeinteressate a problematiche di vario tipo, che vanno dall'integrazione di alunni con handicap in attività matematiche, adanalisi di tipo epistemologico su alcuni ostacoli della disciplina: se si rinuncia a condividere un’unica interpretazionedella parola difficoltà le diverse ‘anime’ del gruppo convivono pacificamente, ed ogni anno riescono ad esprimersi in unconvegno apprezzato e seguito da molti insegnanti. Il successo di tale convegno a mio parere è legato anche a questadiversità di punti di vista e di approcci, che risponde alla varietà delle attese e delle convinzioni degli insegnanti chepartecipano.

Spesso è l’espressione linguistica all’interno della quale la parola viene usata che dirigel’interpretazione: allievi con difficoltà, allievi in difficoltà, difficoltà d’apprendimento, difficoltàdegli allievi in matematica…Si possono vedere le difficoltà come ostacoli al successo (focalizzando l’attenzione sul processo), opiuttosto come insuccesso (attenzione sul prodotto). Si può associare la parola ‘difficoltà’ ad untratto caratteristico dell’allievo (difficoltà di un allievo, o allievo con / in difficoltà), e allora spessosi fa riferimento alla natura di tali difficoltà (difficoltà legate a deficit sensoriali o psichici, diorigine socio-culturale, ecc.), o invece a caratteristiche della disciplina (difficoltà della matematica),o ancora alla relazione fra allievo e disciplina (difficoltà di un allievo in matematica).Dal punto di vista della pratica la gestione da parte dell’insegnante di tutte queste realtà, che d’altraparte si intrecciano e in ogni caso non sono facilmente distinguibili, costituisce un problema. Ma iofocalizzerò la mia attenzione sull’ultimo caso, quello che fa riferimento alla relazione allievo /disciplina come causa di insuccesso, in quanto lo ritengo particolarmente importante per piùmotivi19:- perché ritengo sia quello che investe maggiormente il ruolo di insegnante, come mediatore fra

l’allievo e la disciplina;- perché in particolare l’insegnante si sente chiamato in causa nella sua specificità di insegnante

di matematica per la diagnosi stessa di difficoltà: è l’insegnante di matematica che fa talediagnosi a posteriori, cioè dopo aver osservato i comportamenti dell’allievo in attivitàmatematiche, e non a priori, a prescindere dalla matematica (come nel caso di deficit psichici osensoriali, o situazioni familiari deprivate dal punto di vista socio-culturale), o invece aprescindere dall’allievo (come nel caso ad esempio degli ostacoli epistemologici);

- perché è un fenomeno di dimensioni significative e con conseguenze preoccupanti, sia a livellodel singolo che a livello sociale;

- perché è un fenomeno davanti al quale spesso l’insegnante sente di non avere gli strumentiadeguati: in altre parole è avvertito come problema da molti insegnanti.

La gestione di tale fenomeno avviene infatti tradizionalmente con interventi limitati alle conoscenze(correzione degli errori, ripetizione delle spiegazioni…), che nella maggior parte dei casi nonproducono l’effetto sperato. Paradossalmente tali interventi rendono anzi più evidente il problemaoriginario, in quanto aumentano, anziché diminuire, la forbice fra gli allievi con difficoltà inmatematica e i ‘bravi’: questi ultimi traggono vantaggio anche dalla ripetizione di argomenti, dallacorrezione degli errori, dalla messa in guardia da errori tipici, ecc. Questo paradosso a lungo andarefavorisce la nascita di una convinzione dell’insegnante che io chiamo ‘antinomia dell’insegnante’,

19 E nello stesso tempo mi sembra il più trascurato nella ricerca didattica.

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che genera emozioni negative nell’insegnante stesso, e alla lunga può portare alla rinuncia adintervenire: « Riesco ad insegnare qualcosa soltanto a quelli che imparerebbero da soli.E non riesco ad incidere su quelli che veramente avrebbero bisogno di un aiuto. »Come tutte le convinzioni, l’antinomia dell’insegnante è frutto dell’esperienza, o meglio di unapersonale interpretazione dell’esperienza. Come dicevo, all’interno di quest’esperienza apparecruciale il (ripetuto) fallimento dell’intervento di recupero basato esclusivamente sulle conoscenze.

Tale intervento segue d’altra parte una fase di osservazione (in cui l’insegnante fa la diagnosi di difficoltà), ed una diinterpretazione. L’osservazione per lo più è realizzata attraverso verifiche scritte, interrogazioni, domande dal posto,ecc., e l’indicatore privilegiato è l’errore, che viene percepito come un segnale che qualcosa non funziona.L’interpretazione che ne segue è molto spesso così automatica da rimanere implicita: se c’è errore, è perché non ci sonole conoscenze necessarie. Da questa interpretazione segue coerentemente un intervento finalizzato a garantire leconoscenze mancanti.

La teoria che vogliamo costruire deve (vuole?) fornire all’insegnante strumenti per intervenire congli allievi che percepisce come allievi con difficoltà in matematica (riuscendo quindi a sradicare laconvinzione che ho chiamato antinomia dell’insegnante). Strumenti teorici, dunque. D’altra partela visione che ho esplicitato in precedenza dell’insegnante come agente decisionale riconosce ilruolo cruciale di una teoria, come corpo di conoscenze in grado di incidere sui fattori cheinfluenzano le decisioni: conoscenze, ma anche convinzioni ed emozioni. Attraverso questoprocesso una teoria può quindi riuscire a modificare l’insegnante, e quindi incidere sulla pratica.Questa posizione ha come conseguenza che il confronto con gli insegnanti per una ricerca di questotipo non è solo un passo successivo alla ricerca, esterno ad essa, di cui in particolare il ricercatorepuò fare a meno, ma diventa una fase necessaria per gli obiettivi stessi della ricerca, e per lemotivazioni del ricercatore.

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3. L’opzione ‘catalogo’ per una teoria sulle difficoltà

Le considerazioni fatte al punto precedente hanno come implicazione la mia convinzione che ilproblema delle difficoltà, nel senso che ho cercato di delineare prima, è un problema significativo, eche quindi è importante che ci sia un ‘campo’ dedicato ad esso. In realtà tale problema non ha unospazio specifico all’interno della ricerca in didattica, anche se è fortemente presente come tematrasversale20: talmente presente, che spesso mi è capitato di pensare (soprattutto quando mipresentavano come persona che fa ricerca sulle difficoltà) che quasi tutta la ricerca in educazionematematica è ricerca sulle difficoltà, considerando le varie interpretazioni che si possono dare aquesta parola. (D’altra parte ci sarebbero certe ricerche se non ci fossero difficoltà?)

Si potrebbe quindi pensare di costruire un corpo di conoscenze, utile per affrontare il problemadelle difficoltà, mettendo insieme tutti quei contributi che la ricerca attuale in didattica ha prodotto,anche se indirettamente, su questo tema. Chiamerò questa scelta opzione catalogo.Perché questo corpo di conoscenze costituisca una ‘teoria’, però, deve garantire qualcosa di più diuna generica utilità. Dev’essere in grado di chiarire ma prima ancora di formulare i problemi legatiai fenomeni che ci interessano:‘First of all, theories are tools either to solve problems or to clarify them and improve theirformulation. Inversely, to solve research problems very often leads to the improvement of theories,or at least it puts them under question; and sometimes it leads us to consider the need for newtheories. (…)’ [Balacheff, 1990, p. 258]

Tale teoria dovrebbe dare quindi prima di tutto strumenti per osservare la realtà, in particolare perriconoscere le difficoltà.

Seguendo l’opzione catalogo, i contributi della ricerca in didattica della matematica che a primavista appaiono più rilevanti per tale scopo sono quelli che fanno esplicito riferimento alle difficoltà.Primi fra tutti quelli nel campo di errori:

‘Pupils’ errors are the most obvious indication of their difficulties with mathematics. Theproblem of the meaning of these errors is one of the key issues in the field of research onmathematics teaching.’ [Balacheff, 1990, p. 26]

Non tento qui di dare una definizione di errore, impresa evitata peraltro perfino da ricercatori cheagli errori hanno dedicato studi specifici (v. ad esempio Radatz, 1980; Shaughnessy, 1985; Maurer,1987; Borasi21, 1996): d’altra parte non lo ritengo essenziale né per la comprensione, né per laconsistenza delle osservazioni che seguono.

20 Naturalmente questo non vuol dire che non ci siano contributi di ricercatori su questo tema. Ad esempio c’è unarticolo molto ricco (anche di riferimenti) di Paolo Boero (1990). E poi naturalmente ci sono moltissimi contributi negliatti dei convegni organizzati dal Grimed su Matematica e difficoltà.21‘Thus, although the ambiguity uncovered in the previous paragraphs makes the definition of mathematical error adifficult and controversial philosophical task, such ambiguity may be turned to advantage in a pedagogical context.Given that my ultimate goal is to uncover new ways to promote inquiry in school mathematics, hereafter I have chosento interpret the term mathematical error in the most comprehensive way possible, so as to maximize the occasions ofusing the proposed strategy in mathematics instruction. Thus, within this book, even borderline cases such ascontradictions, tentative hypotheses and definitions, constrasting results. or results that do not make sense, areconsidered legitimate starting points for error activities – that is, instructional activities designed so as to capitalize onthe potential of “errors” to initiate and support inquiry.’ (Borasi, 1996, p. 30)

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 23

I contributi della ricerca in didattica sugli errori, sia a livello di osservazione e descrizione che alivello di interpretazione, sono moltissimi. Provengono dai vari contesti disciplinari specifici(aritmetica, algebra, analisi, probabilità,…); da ambiti di ricerca trasversali il cui focus è propriosull’errore (v. gli studi sulle misconceptions, o sugli ostacoli epistemologici: con enfasirispettivamente sull’allievo e sulla matematica); da studi sui processi risolutivi (dal problemsolving, a studi sui processi che caratterizzano l’attività matematica, quali la dimostrazione); dastudi sull’influenza che alcune variabili significative hanno sui processi risolutivi (v. gli studi sulcontratto didattico, e in generale sulla dimensione sociale dell’apprendimento, ma anche sul ruolodel linguaggio). Ma sicuramente la lista non è esaustiva: in realtà quasi ogni ricerca nel campo delladidattica fa riferimento ad errori.

Anche se tali studi danno informazioni che possono essere utili per affrontare il problema delledifficoltà, la mia opinione è che, da soli, non offrano strumenti adeguati per osservare fenomenisignificativi, in particolare per riconoscere la presenza di difficoltà. Un’identificazione immediataerrori e difficoltà appare poco praticabile (e in realtà poco praticata) in quanto non permetterebbe dicogliere alcuni elementi tipici della difficoltà. In particolare mentre la difficoltà rimanda al rapportoalunno / sapere, e quindi il suo riconoscimento ha elementi di soggettività, il riconoscimentodell’errore rimanda ad un sapere istituzionalizzato, e quindi è oggettivo.D’altra parte proprio per questo poter ricondurre in qualche modo il riconoscimento di difficoltà aquello degli errori sarebbe molto comodo dal punto di vista della pratica e della teoria, in quantopermetterebbe di “oggettivizzare” le difficoltà.E in effetti questo tentativo è presente in molte posizioni, sia nella ricerca che nell’insegnamento.Quello che viene fatto solitamente infatti è valutare gli errori, cioè riferire gli errori ad una scala diobiettivi, che in genere però rimane implicita (più precisamente rimangono impliciti sia gli obiettivi,che la scala in cui sono organizzati!): in questo modo gli errori si rendono ‘relativi’, e non piùassoluti. Come prima l’errore c’è o non c’è: ma se c’è può essere grave oppure ‘veniale’. Il fattoche in genere la valutazione degli errori non sia accompagnata dall’esplicitazione dei criteri in baseai quali viene fatta, rivela che si assume implicitamente che i valori e quindi gli obiettivi in base aiquali si valuta, ma anche la gerarchia degli obiettivi, siano univocamente determinati22.A questo punto l’identificazione errore-difficoltà può essere fatta, e la definizione / diagnosi didifficoltà si presenta come naturale: è in difficoltà l’allievo che fa errori ‘gravi’.L’oggettivizzazione delle difficoltà è stata realizzata grazie alla relativizzazione dell’errore!Apparentemente c’è solo un passaggio interpretativo, ovvero quello di valutare l’errore, vale a direassociarlo ad un obiettivo, cioè stabilire quale obbiettivo l’errore può precludere.Ma non è così semplice. La valutazione degli errori, e più in generale ogni valutazione, è unprocesso che avviene in un contesto specifico, caratterizzato da obiettivi e valori: un errore è ‘grave’o ‘veniale’ in un certo contesto, cioè in relazione ad una certa gerarchia di obiettivi. In mancanza diuna scala gerarchica di obiettivi tale distinzione perde di senso23, e d’altra parte al variare dellascala gerarchica l’errore veniale può diventare grave e viceversa.

Per esempio, in genere in matematica un errore di distrazione è considerato un errore veniale a differenza magaridell’uso di una regola che contraddice un noto risultato. Perché questa scelta? Forse è motivata dal fatto che si pensache un tale errore sia più facilmente superabile? In realtà non è detto, la persona che ha compiuto quell’errore didistrazione può avere problemi di controllo, mentre magari chi ha contraddetto un noto risultato con un passaggio puòsemplicemente non conoscere quel risultato. E’ probabile allora che si pensi che l’obbiettivo evitare distrazioni siameno importante dell’obbiettivo conoscere fatti. A questo punto interviene il contesto: vale per esempio la stessa cosaper un commercialista? O per un chirurgo che sta operando? 22 Mi sembra di poter interpretare come tentativi di esplicitare questi criteri alcune classificazioni dell’errore, qualiquelle di Norman (1980, citato in Mandler, 1989), che identifica tre categorie di errori: ‘errors in the formation of anintention, defective activation of component schemas, and defective triggering.’ Successivamente egli distingue fra‘mistakes’, che derivano da errori nella formazione di un’intenzione, e ‘slips’, che sono errori nell’esecuzione diun’intenzione (Mandler, 1989, p.13).23 Per esempio nei quiz televisivi tale scala gerarchica non ha senso e infatti non esistono scale di gravità di errori

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 24

Quindi la caratterizzazione di difficoltà data potrebbe funzionare se la classificazione degli errori inuna scala di gravità fosse condivisa: questo accadrebbe ad esempio se l’unico contesto che influiscesulla scala degli obiettivi fosse quello disciplinare, cioè la matematica, e se questo contesto fossecaratterizzato da valori condivisi. A quel punto gli esperti, in particolare i ricercatori e gliinsegnanti di matematica, per il fatto di condividere certe conoscenze, condividerebbero valori equindi obiettivi e scala di obiettivi. Ma la realtà non è così. La visione della matematica degliesperti non è monolitica (v. Grigutsch e Törner, 1998; Mura, 1993, 1995) e di conseguenza nonsono univocamente determinati valori e quindi obiettivi. Ma a mio parere non è nemmeno vero chel’unico contesto che influisce sulla gravità di un errore è quello ‘largo’, cioè la disciplina.Interviene invece il contesto più specifico del problema in questione. In definitiva la soggettivitàche abbiamo creduto di lasciare fuori chiudendo la porta, è rientrata dalla finestra!

Ad esempio consideriamo l’errore estremamente frequente:

tale scrittura viene regolarmente corretta.Supponiamo che tale errore venga registrato in un esercizio in cui non ha conseguenze sul risultato:l’errore viene valutato ‘grave’? Non mi riferisco (solo) alla valutazione in termini di attribuzione diun voto ad un compito, ma di giudizio su competenze dell’allievo che ha fatto il compito.Supponiamo ora che il contesto cambi:Lo studente deve calcolare:

Procede così:

Quant’è ‘grave’ adesso, lo stesso errore che prima veniva corretto quasi a malincuore?Un aspetto legato al contesto che appare particolarmente significativo è quello che rimanda alladimensione temporale dell’errore. L’errore ‘veniale’ continua ad essere considerato tale alladecima volta che viene commesso dallo stesso allievo? O viceversa l’errore è considerato ‘veniale’proprio in quanto giudicato facilmente superabile, e allora il fatto stesso di ripeterlo lo rende nonpiù veniale?

La presunta controllabilità dell’errore da parte dell’allievo è un elemento che gioca un ruolo estremamente diverso inmomenti diversi: quando l’insegnante riconosce un allievo come allievo in difficoltà, lo riconosce probabilmente ancheperché fa errori gravi, cioè non veniali, nel senso detto sopra. Dal momento però che l’allievo è stato ‘riconosciuto’come allievo in difficoltà o viceversa bravo, la valutazione cambia completamente: l’errore diventa veniale proprio seincontrollabile, perché in realtà da un lato la percezione di incontrollabilità porta a modificare gli obiettivi,.e conl’allievo in difficoltà si abbassano le richieste, dall’altro subentra quasi un giudizio morale, per cui all’allievo bravo nonsi ‘perdona’ di non aver controllato ciò che poteva controllare.Questa contraddizione rimanda alla complessità del processo di valutazione, ma più in generale del processo diinsegnamento, ed ai danni che alcune scelte didattiche pur fondate e ragionevoli possono produrre (v. Zan, 2001):l’abbassamento degli obiettivi, se legato ad aspettative basse, può avere effetti molto negativi sull’apprendimento24 (v.ad esempio i classici studi sull’effetto Pigmalione di Rosenthal e Jacobson).

24 Non è questo il contesto giusto per affrontare questi problemi, ma credo che questa contraddizione (fra l’esigenza diabbassare gli obiettivi e quella di mantenerli significativi) si possa sciogliere anche considerando maggiormente la

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 25

Un altro tipo di approccio agli errori, che suggerisce invece la necessità di distinguere errori edifficoltà, è quello che emerge da una rivalutazione dell’errore stesso come occasione diapprendimento. Il riferimento più immediato, seppure in contesto non didattico, è quello aBachelard:‘Quando si ricercano le condizioni psicologiche dei progressi della scienza, ci si convince benpresto che è in termini di ostacoli che bisogna porre il problema della conoscenza scientifica. Enon si tratta di considerare ostacoli esterni, come la complessità e la fugacità dei fenomeni, oppured’incolpare la debolezza dei sensi e dello spirito umano, perché è all’interno dell’atto stesso delconoscere che, per una specie di necessità funzionale, appaiono lentezze e confusioni. E’ qui chemostreremo alcune cause di stagnazione e persino di regresso della scienza; qui ne rileveremo lecause di inerzia; e tutte queste cause le chiameremo ostacoli epistemologici. (…) Il pensieroempirico è chiaro a posteriori, quando il meccanismo delle ragioni è già stato messo a punto.Tornando su un passato di errori, la verità la si trova in un vero e proprio pentimento intellettuale.Si conosce, infatti, contro una conoscenza anteriore, distruggendo conoscenze mal fatte, superandoquello che nello spirito stesso fa da ostacolo alla spiritualizzazione’ (Bachelard, 199525, p.11

In contesto didattico è significativo quello che dice a proposito F. Enriques:

‘Il Maestro sa che la comprensione degli errori dei suoi allievi è la cosa più importante della suaarte didattica. Egli impara presto a distinguere gli errori significativi da quelli, che non sonopropriamente errori - affermazioni gratuite di sfacciati che cercano di indovinare - dove manca losforzo del pensiero, della cui adeguatezza si vorrebbe giudicare. E degli errori propriamente detti,che talora sono in rapporto con manchevolezze delle singole menti, ma nei casi più caratteristici sipresentano come tappe del pensiero nella ricerca delle verità, il maestro sa valutare il significatoeducativo: sono esperienze didattiche che egli persegue, incoraggiando l'allievo a scoprire da sé ladifficoltà che si oppone al retto giudizio, e perciò anche ad errare per imparare a correggersi’(Federigo Enriques26)

Una rivalutazione dell’errore in questo senso proviene anche da altri filosofi della scienza, qualiKuhn, Popper, Polanyi. Fra le tante mi piace in particolare la seguente riflessione di Popper (citatain Baldini, 1986), perché sottolinea il fatto che l’errore può essere non solo un’occasione (e quindicausa) di apprendimento, ma anche una conseguenza dell’aver accettato una sfida(d’apprendimento) significativa:‘Evitare errori è un ideale meschino: se non osiamo affrontare problemi che siano così difficili darendere l’errore quasi inevitabile, non vi sarà allora sviluppo della conoscenza. In effetti, è dallenostre teorie più ardite, incluse quelle che sono erronee, che noi impariamo di più. Nessuno puòevitare di fare errori; la cosa più grande è imparare da essi.’

La rivalutazione degli errori nel senso di Popper comporta, a livello didattico, la valorizzazione deiprocessi di pensiero significativi rispetto alla correttezza di prodotti che si può ottenerebanalizzando le richieste.Questa posizione è legata al dibattito sulle ‘prove oggettive’ che è attualmente molto forte nelsistema scolastico occidentale.

Molti ricercatori sottolineano che il fatto di non commettere errori, di produrre risposte corrette, non garantisce che cisia stata un’effettiva comprensione.

dimensione temporale del processo di insegnamento / apprendimento: l’abbassamento degli obiettivi è uno strumento diora per poterli tenere alti in prospettiva.25 Il testo originale invece è del 1938.26 Sono debitrice della citazione a Claudio Bernardi (che però è debitore del riferimento completo!).

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 26

Ad esempio Campione, Brown e Connell (1988), in un articolo in cui sottolineano “l’importanza della comprensione diquello che si fa”, riportano una ricerca estremamente significativa di Peck, Jenks e Connell in cui allievi di diverseclassi vengono intervistati dopo una prova “oggettiva” standard.

Sulla base di queste interviste, i ricercatori individuano quattro tipi di studenti:

A] Quelli che hanno dato risposte corrette e che sanno motivare il perché di tali risposte.

B] Quelli che hanno dato risposte scorrette e dimostrano di non aver capito.

Queste sono in fondo le due categorie che il test voleva discriminare.

Ma anche:

C] Quelli che hanno dato risposte corrette ma non hanno capito quello che hanno fatto.

D] Quelli che hanno dato risposte sbagliate ma dimostrano di aver capito.

Sempre sulla base di queste interviste, gli autori concludono che il 41% degli allievi appartiene ai gruppi 3 o 4: in altreparole, il 41% degli allievi non è stato discriminato nel modo corretto!

Ma le critiche suggerite da queste considerazioni non riguardano solo le prove cosiddette“oggettive”, che privilegiano domande a scelta multipla o comunque a risposta chiusa, e richiedonoin genere di eseguire esercizi piuttosto che risolvere problemi: riguardano anche il lavoro che vienefatto in classe. Gran parte di questo lavoro è basato su quello che H. Gardner27 (1993) chiama “ilcompromesso delle risposte corrette”: “Insegnanti e studenti (...) non sono disposti ad assumersi i rischi del comprendere e siaccontentano dei più sicuri ‘compromessi delle risposte corrette’.In virtù di tali compromessi, insegnanti e studenti considerano che l’educazione abbia avutosuccesso quando gli studenti sono in grado di fornire le risposte accettate come corrette.”

Del resto anche i libri di testo sono per lo più organizzati per minimizzare le “occasioni di errore”(Krygowska, 1957), e le schede strutturate, frutto di un lavoro pesante da parte dell’insegnante,troppo spesso permettono invece all’allievo di minimizzare la fatica di pensare, e lo conduconoinconsapevole al risultato giusto.

Anche dal punto di vista emozionale il voler evitare occasioni d’errore non appare un obiettivo sensato28. Dice Mandler(1989), uno degli psicologi di riferimento nel campo del problem solving:‘Is it the case, then, that errors and mistaes should be avoided whenever possible, and that tasks should be designed sothat problem solving can be learned without errors? I now come to the subject of errorless learning: Can it happen? Isit a good thing? I shall return to the real world soon and discuss the inevitability of errors and mistakes and theadvantages of having had prior experiences with them.’ (Mandler, 1989, p. 14)

Nel contesto della didattica della matematica tipico di questo approccio, che al tempo stessoridimensiona e valorizza l’errore, è il lavoro della Borasi. Nell’introduzione al suo libro del 1996scrive (grassetto mio):‘[…] some schools of thought have been aware that errors are not only inevitable, but also ahealthy part of one’s education – as suggested by the popular motto “You learn from mistakes.”Despite the positive connotations of this message, however, the concept of error making in

27 Lo psicologo americano ha scritto recentemente sul Los Angeles Times un articolo divulgativo molto polemico sullavalutazione dell'apprendimento attraverso i test. In particolare egli pone la domanda: «Qual è la relazione fra i risultatiai test e un'educazione di qualità?» Fra le conclusioni quella che il prezzo più alto che si paga in un sistemacompletamente basato su voti a test è che non si sente mai una discussione pubblica su «cosa vuol dire usare bene lamente, comprendere, apprezzare, creare conoscenza, essere una persona istruita. E così gli studenti possonolegittimamente trarre la conclusione che questi valori non ci interessano».28 Naturalmente per utilizzare gli errori anche dal punto di vista emozionale non basta dare occasioni di effettivoproblem solving: bisogna contestualmente insegnare a gestire le emozioni collegate (v. Di Martino, 2001).

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 27

education has not yet received adequate analysis and consequently the education community has sofar failed to find imaginative ways of using errors constructively in formal instruction.More specifically, although a positive role for errors has certainly been recognized in recent yearsin some areas of mathematics education research, student errors have primarily been employed byresearchers and teachers as a tool to identify learning difficulties and to plan curriculum andteaching material accordingly or, more generally, as a means to understand students’ conceptionsand learning processes. However valuable, these approaches have not invited the studentsthemselves to capitalize on their errors as learning opportunities, nor they have enabled educatorsto take advantage of the educational potential of errors in ways that go beyond diagnosis andremediation.In contrast the approach to errors informing this book recognizes the potential of errors toprovide the source of valuable opportunities for mathematical exploration, problem solving, andreflection, for students as well as teachers. I have tried to summarize this approach with theexpression “capitalizing on errors as springboards for inquiry” (…)’ (pp. 3-4)

Come dicevo queste posizioni sottolineano di fatto la necessità di distinguere errori e difficoltà. Mapotrebbero anche suggerire l’opportunità di distinguere gli errori in ‘buoni’ e ‘cattivi’, a secondadella loro significatività.Ma anche in questo senso un errore non è di per sé buono o cattivo: dipende dal contesto, inparticolare c’è bisogno di considerare in tale contesto la dimensione storica. Nella realtà scolastical’importanza della dimensione storica diventa importanza della storia della classe, ma anche delsingolo allievo. Sono storie diverse, che possono avere ‘tempi’ diversi, e che possono portare avalutare in modo diverso la ‘bontà’ di uno stesso errore: un errore ‘buono’ per la classe, può nonesserlo per un allievo che non è ancora pronto a coglierne l’efficacia, e viceversa.Inoltre, l’errore che consideriamo ‘buono’, continua ad essere buono dopo che l’allievo l’hacommesso 10 volte di seguito?Anche in questo caso la dimensione temporale acquista una particolare rilevanza come parametroda tener presente nel valutare l’errore.

Questo suggerirebbe di associare errori e difficoltà in un altro modo ancora, considerando cioè ladimensione temporale dell’errore, ossia l’errore nella storia dell’allievo. In altre parole potremmoconsiderare in difficoltà l’allievo che fa lo stesso errore ripetutamente.Ma anche la dimensione temporale non ha un valore assoluto, e va coniugata ancora con il contesto.Infatti in generale non basta la ripetizione dell’errore per parlare di difficoltà: prendiamo il caso diun atleta che si prepari ad un evento importante, tipo Olimpiadi. Per tutto l’anno si allena peresempio nel salto in lungo a saltare il più vicino al limite: durante questi allenamenti sbaglierà unsacco di volte, ma tutto è finalizzato a rendere il massimo nel giorno della gara. In altre parole èancora una volta il contesto, in particolare l’obiettivo che il soggetto si pone, a enfatizzare o menola gravità di una ripetizione dell’errore.

Queste riflessioni suggeriscono di associare la difficoltà piuttosto che agli errori, direttamente allasoluzione di problemi di matematica. Chiamando ‘fallimento’ il mancato raggiungimentodell’obiettivo che caratterizza il problema, potremmo così identificare difficoltà in matematica confallimenti nel risolvere problemi di matematica. O piuttosto, dato che nella risoluzione di unproblema il fallimento va messo nel conto, potremmo recuperare l’importanza della dimensionetemporale del fallimento sottolineata nelle considerazioni precedenti proponendo una definizionedi difficoltà in matematica come fallimento ripetuto nella risoluzione di problemi dimatematica.In questo modo si supererebbe il problema del compromesso delle risposte corrette, concentrandodirettamente l’attenzione sui processi risolutivi piuttosto che sui prodotti.

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 28

Inoltre, associare la difficoltà al fallimento (ripetuto) significa fare riferimento ad un obiettivospecifico, legato ad un problema specifico. Questo permetterebbe di sciogliere l’ambiguità di unadefinizione di difficoltà legata ad una classificazione di errori in una scala di gravità, chepresuppone una definizione di obiettivi che in genere rimane implicita.Certo questa definizione introdurrebbe un’altra ambiguità, dovuta alla presenza di due soggettidiversi, allievo e insegnante, che a priori possono fare riferimento ad obiettivi diversi, e quindi aproblemi diversi, e possono di conseguenza avere percezioni diverse del fallimento. Cosa vuol direallora che un allievo è in difficoltà? Che l'insegnante riconosce i suoi ripetuti fallimenti? Che luistesso li riconosce?Ma questa ambiguità, invece che essere un limite della definizione, sarebbe a mio parere un puntodi forza, perché sottolineerebbe la necessità di distinguere fra la percezione delle difficoltà che hal’insegnante e quella che ha l’allievo stesso: permetterebbe quindi di riconoscere, e forse gestire, unelemento intrinseco di complessità nel processo di insegnamento.Piuttosto appare limitativo, soprattutto se vogliamo considerare la possibilità che un allievopercepisca le proprie difficoltà (cioè che riconosca i propri ripetuti fallimenti), fare riferimentoesclusivamente a problemi di matematica.Questo ultimo punto, del resto collegato al precedente, è cruciale e sottile al tempo stesso, e meritaun approfondimento.

4. Contesti, obiettivi, convinzioni29.C’è un primo motivo per cui non possiamo identificare fallimenti nella risoluzione di problemi dimatematica con difficoltà: le difficoltà evidenziate dagli allievi nel contesto della matematica nonsono necessariamente associate a fallimenti in problemi di matematica.

Da un lato ci possono essere difficoltà senza tali fallimenti. Consideriamo ad esempio l’allievo cheall’interno di una verifica scritta dedica usualmente tutto il tempo ad un singolo problema: anche sefa bene quel singolo esercizio, tale comportamento è fallimentare. In questo caso però le suedifficoltà in matematica non sono dovute ad un fallimento nel risolvere problemi di matematica, mapiuttosto problemi che incontra nel contesto dell’apprendimento della matematica. Potremmodefinirli problemi ‘in grande’, per distinguerli dai problemi ‘in piccolo’, i cui processi risolutivi sigiocano tutti all’interno della matematica.Questo suggerisce la necessità di allargare l’osservazione dai processi risolutivi messi in attonel contesto della matematica, ai processi risolutivi messi in atto nel contestodell’apprendimento della matematica: cioè dai problemi in piccolo ai problemi in grande.D’altra parte anche un fenomeno così diffuso fra gli allievi in difficoltà (e quindi per noisignificativo) quale quello delle risposte – o più in generale dei processi risolutivi – date a caso, nonsi può analizzare rimanendo all’interno della matematica. Un errore che è frutto di un processocasuale non si ripete in quanto tale, e non è affrontabile in quanto tale: quella che si ripete è lacasualità del processo (che produce quindi errori sempre diversi), ed è quella che è associata alladifficoltà.In questo caso fallimenti in problemi di matematica sono in realtà conseguenza di processi risolutiviche non si giocano nel contesto della matematica: sembra proprio che a caratterizzarli sial’estraneità rispetto alla matematica di una loro possibile interpretazione. La difficoltà è associata a 29 Il titolo del paragrafo è proprio la traduzione del titolo dell’articolo di Cobb del 1986 che cito più volte: ‘Contexts,goals and beliefs’. Fino all’ultimo sono stata molto indecisa se inserire tutte le riflessioni che qui faccio sui contesti nelquadro teorico. Ho deciso poi di introdurre il discorso solo qui, e non prima, per evidenziare il ruolo diverso che ha(rispetto alle ricerche riportate nel Quadro teorico) nella costruzione di un discorso sulle difficoltà, in particolare nellacaratterizzazione delle difficoltà. Inoltre per problemi di tempo / spazio / competenze non faccio riferimento allaricerca sui contesti, che è immensa, dato anche il significato diverso che viene attribuito al termine. Paolo Boero hatenuto a Pisa l’anno scorso un seminario per i dottorandi proprio su questo, e la cosa più naturale è rimandare alle sueindicazioni, anche bibliografiche.

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 29

tali processi risolutivi, piuttosto che al loro prodotto, che è (solo) casualmente errato.Paradossalmente il prodotto potrebbe essere corretto, ma è il fatto che sia stato dato a caso cherimanda ad un’idea di difficoltà.Ancora una volta limitare l’attenzione ai processi risolutivi che si giocano internamente aiproblemi di matematica impedirebbe di gestire tali fenomeni.

Ma c’è un ultimo motivo che suggerisce di allargare ai problemi in grande. Come dicevo sopra, sevogliamo considerare la possibilità che un allievo percepisca le proprie difficoltà (cioè chericonosca i propri ripetuti fallimenti), fare riferimento esclusivamente a problemi di matematicaappare limitativo.Cobb (1986) suggerisce l'ipotesi che i problemi che gli studenti affrontano nel contestodell'apprendimento della matematica sono più sociali che matematici (cioè sono problemi 'ingrande', piuttosto che problemi 'in piccolo'): gli obiettivi che un soggetto si pone nei due casi sonoprofondamente diversi e richiedono quindi strategie risolutive profondamente diverse. Egli osservache a livello d'apprendimento della matematica queste considerazioni pongono essenzialmente laquestione: come sono influenzati gli obiettivi degli allievi dalle interazioni sociali in classe?In generale secondo Cobb obiettivi diversi sono da mettere in relazione a contesti diversi in cui unsoggetto prende decisioni e agisce: è alla luce di tali contesti ed obiettivi che va letta la razionalitàdei comportamenti.

Affrontando in generale il problema di quei comportamenti di soggetti che vengono comunemente definiti 'irrazionali',egli critica le interpretazioni usuali delle prove ormai classiche di Kahneman e Tversky (1982), o di Perkins, Allen eHefner (1983), citate soprattutto nella letteratura sulle convinzioni (Schoenfeld, 1985).Ad esempio in un lavoro del 1982 Kahneman e Tversky riportano un esperimento in cui a due gruppi di soggetti (ungruppo composto da studenti senza esperienze nel campo della statistica, un altro composto da laureati in psicologia,che avevano invece seguito corsi di statistica) vengono date alcune informazioni sulla personalità di Linda. Ecco la lorodescrizione dell’esperimento:«Linda ha 31 anni, non è sposata, è schietta e molto vivace. È laureata in filosofia. Quando era studentessa, siinteressava molto ai temi della discriminazione e della giustizia sociale, e prendeva parte a manifestazioni antinucleari.Venne chiesto ai soggetti che partecipavano all’esperimento quale di questi due affermazioni su Linda fosse piùprobabile:[A] Linda è un’impiegata di banca.[B] Linda è un’impiegata di banca attiva nel movimento femminista.In un campione piuttosto numeroso di studenti che non avevano seguito corsi di statistica, 86% dei soggettigiudicarono più probabile la seconda affermazione. Invece in un campione composto da laureati in psicologia, solo il50% commise tale errore. Però la differenza fra studenti senza una preparazione a livello statistico e laureati sparìquando le due affermazioni furono presentate in una lista di otto affermazioni riguardanti Linda. Più dell’80% dientrambi i gruppi valutò l’opzione [B] più probabile dell’opzione [A]».

Cobb suggerisce che i comportamenti dei soggetti che sbagliano appaiono consistenti se consideriamo obiettivialternativi rispetto a quelli in base ai quali li valutiamo irrazionali. Più precisamente se un soggetto si pone nel contestodello 'statistics game', deve vedere l'individuo (in questo caso Linda) come membro di una classe, e quindi prescindereda tutte le caratteristiche dell'individuo che non lo caratterizzino in tal senso. Ma l'obiettivo, se uno non si mette nelcontesto dello statistics game, può essere invece quello di fornire una rappresentazione dettagliata di Linda. In fondo èl'obiettivo caratteristico del 'modeling context', sia che il processo di modellizzazione abbia come prodotto una teoriascientifica o piuttosto una rappresentazione di un'altra persona. Cobb conclude: «Questa analisi indica che diresemplicemente che il comportamento dei soggetti non è completamente razionale non prende in considerazione unpunto importante. All'interno dei vincoli del modeling context il loro comportamento era perfettamente razionale – essisanno dall'esperienza che funziona. È il processo in base al quale costruiamo rappresentazioni degli altri». (Cobb, 1986,pag 3)Analogamente si possono interpretare i comportamenti apparentemente irrazionali descritti negli studi di Perkins, Allene Hefner (1983). In questo caso, vengono poste a soggetti adulti alcune domande e si chiede una posizione motivata ariguardo. Ad esempio una delle domande era: «La violenza alla televisione aumenta in modo significativo laprobabilità di violenza nella vita reale?».Lo studio mette in evidenza che la maggior parte degli argomenti prodotti non proviene da un'analisi sufficientementeelaborata, tanto che gli stessi soggetti, su richiesta, sono in grado di produrre controesempi alle proprie argomentazioni!In questo caso secondo Cobb è il contesto dell' 'everyday reasoning' che dirige il modo di ragionare, e che è

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 30

completamente diverso dal contesto dell' 'academic reasoning': un ragionamento che appare logico in un contesto puònon esserlo in un altro, semplicemente perché cambiano nei due casi gli obiettivi.

In definitiva questi esempi «illustrano che comportamenti che possono essere inizialmente liquidati come irrazionalicominciano ad avere senso quando si prendono in considerazione i contesti all'interno dei quali i soggetti hanno operatoe gli obiettivi che essi hanno tentato di raggiungere». (Cobb. 1986, pag.3)

Queste considerazioni appaiono particolarmente importanti quando, come accade in contestoscolastico, un soggetto (l’insegnante) valuta i processi risolutivi di un altro soggetto (l’allievo):suggeriscono infatti che la razionalità di un comportamento di un soggetto può essere valutata soloalla luce dell’obiettivo che il soggetto stesso si era posto.Molto espressivo in questo senso mi sembra il seguente aneddoto (Ankeny, 1982, in Nicholls,1984), che ha come protagonista il matematico John Von Neumann, fondatore della teoria deigiochi, che ho già citato nella prima parte:

Von Neumann, a cui si devono importanti teoremi sull'esistenza di strategie ottimali in certitipi di giochi, venne insistentemente sfidato a poker da un gruppo di giovani matematici.Accettò finalmente di giocare, ma fra lo sconcerto dei presenti nel giro di mezz’ora avevaperso tutto il suo denaro, puntando come se non guardasse nemmeno le carte.Finita così rapidamente la partita, si allontanò scusandosi. Gli altri giocatori rimasero adiscutere il suo comportamento, senza riuscire a comprendere quali strategie avesse adottato.Finalmente uno di essi trovò la soluzione: «Ecco! Lui non ha cercato di massimizzare il suodenaro, ma di minimizzare il suo tempo!».

Il comportamento di Von Neumann appare irrazionale quindi rispetto all’obiettivo “massimizzare ildenaro”, ma non lo è rispetto all’obiettivo “minimizzare il tempo di gioco”: una valutazione sullarazionalità rimanda, anche se implicitamente, ad un obiettivo cui fare riferimento. Per dirla conCobb, rimanda ad un ‘contesto’.

Qualcuno potrebbe giudicare la strategia di von Neumann irrazionale, in quanto giudica il suo (probabile) obiettivoirrazionale: ma la valutazione di razionalità non può essere relativa all’obiettivo.Mi sembra interessante a questo proposito il seguente esempio, (anche questo un classico di questo tipo di studi), esoprattutto discutibile l’interpretazione che ne viene data.

In un esperimento di Tversky e Shafir (1992) tre gruppi di studenti dovevano immaginare il seguente scenario:“Hai appena consegnato gli scritti di un difficile esame universitario. Saprai dopodomani se sei stato promosso o sesei stato bocciato. Ti viene proposta un’offerta particolarmente vantaggiosa per una vacanza alle isole Hawaii (un«pacchetto» tutto-compreso per sette giorni a sole 200.000 £). Devi, però, decidere entro domani, dando un anticipo di50.000 £ non rimborsabili. Puoi differire la decisione di un giorno (quindi, nel frattempo saprai con certezza se seistato promosso o se sei stato bocciato), pagando un extra di 15.000 £ non rimborsabili, e non scalabili dal prezzo delpacchetto. Che decideresti di fare?”

Al primo gruppo si diceva di immaginare di aver superato l’esame: il 54% pagava e prenotava, il 30% rimandava ladecisione.Al secondo gruppo si diceva di immaginare di essere stati bocciati: le percentuali erano analoghe.Al terzo gruppo veniva detto che l’esito dell’esame non era ancora noto: in questo caso, la grande maggioranzapreferiva rimandare la decisione e pagare la penale.

Piattelli Palmerini (1993) commenta così (il grassetto è mio):‘Tra tutte le «terne» di risposte ottenute, quella di gran lunga dominante, quindi, è stata: compro, se so che sonopromosso; compro, se so che sono bocciato; non compro (o pago le 15000 lire di pura attesa) se ancora non loso. Ritroviamo qui, come nel caso della roulette (o della moneta), l’effetto disgiunzione nella sua forma pura.Anche qui, la risposta degli studenti di Stanford ci sembra molto, molto assennata. Anche qui sentiamo che noistessi risponderemmo proprio così. Un’altra prova che il tunnel della prudenza irrazionale si annida inciascuno di noi.

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 31

C’è naturalmente, una «spiegazione» (termine che metto tra virgolette, in quanto non ha niente di razionale).Come Tversky e Shafir precisano nella loro analisi dei risultati, in caso di incertezza, i soggetti avvertono di nonavere una «buona ragione per decidere. Non si sentono di prenotare la convenientissima vacanza alle Hawaii«perché» non sanno ancora, al momento della prenotazione, se con quella azione stanno celebrando unsuccesso, o se invece stanno indulgendo in un contentino a un insuccesso. Di nuovo in barba al principio diSavage, poco importa che l’azione sia esattamente la stessa, e che vi siano buoni motivi per intraprenderlasubito e comunque. Agisce una sorta di principio psicologico di ragion insufficiente. Per intraprendereun’azione (in questo caso per fare una prenotazione) sentiamo di dover avere una ragione precisa. Due ragionipossibili, ugualmente valide, ma tra loro diverse, non ci «bastano». Nemmeno se sappiamo con certezza chel’una o l’altra diventerà domani quella «buona», dopo aver saputo il risultato dello scrutinio, e che ambedue siconcretizzano nella stessa decisione.’ (Piattelli Palmerini, 1993, p. 102-103)

A mio parere in questo caso si dà per scontato – come unica possibilità ‘razionale’ – che un soggetto si ponga comeobiettivo primario quello di risparmiare. In questo modo si valuta la razionalità di un obiettivo (cosa che non ha senso)piuttosto che di una strategia! Un giudizio di razionalità sugli obiettivi taglia fuori i valori alternativi rispetto a quello‘economico’. Valori quali il ‘bello’, il ‘giusto’, il ‘vero’, che peraltro caratterizzano certi contesti (anche ‘disciplinari’:v. l’arte, ma anche la matematica, l’etica, …) vengono in questo modo sacrificati all’unico valore consideratoammissibile: l’utile. Più in generale un giudizio di razionalità sull’obiettivo non tiene presente la forte componenteemozionale che caratterizza un obiettivo30.Molto significativo a proposito il seguente esempio, tratto da Latouche31 (2000):

‘A Città del Messico, una ventina di anni fa, un turista americano adocchia in una bottega una sedia fatta amano dai colori assai vivaci e poiché gli piace ne chiede il prezzo all’artigiano indiano. «Dieci pesos».«Se ne ordino sei, del medesimo modello, che prezzo mi faresti?» «Settantacinque pesos», risponde l’indiano.«Ma come!» esclama sconcertato lo yankee che si aspettava un prezzo forfettario e si stupisce di uncomportamento tanto poco commerciale e chiaramente antieconomico. Si tratterà di un malinteso: per unasedia dieci pesos e per sei settantacinque! «Volevi dire cinquantacinque pesos?» «No, settantacinque pesos persei sedie».Dopo lunga discussione l’indiano finalmente dà la seguente spiegazione: «Che risarcimento avrò perl’incredibile fastidio di un lavoro che mi costringe a rifare per cinque volte esattamente la stessa cosa?»[Latouche, 2000, p.20]

Tutte queste considerazioni mettono in evidenza che uno stesso compito può richiamare ‘contesti’diversi (nel senso di Cobb) in soggetti diversi o in situazioni diverse: in altre parole può richiamareobiettivi diversi e razionalità diverse. Sottolineano di conseguenza la possibilità che uno stessocomportamento possa essere valutato in modi diversi a seconda dell’obiettivo che un soggetto sipone. Evidenziano in definitiva una complessità che è necessario tener presente se si vuoleaffrontare in modo efficace il problema delle difficoltà.In particolare, dato che uno stesso compito può essere associato ad un problema in piccolo o ad unoin grande, suggeriscono ancora una volta l’opportunità di allargare l’osservazione dai processirisolutivi messi in atto nel contesto della matematica, ai processi risolutivi messi in atto nel contestodell’apprendimento della matematica: cioè dai problemi in piccolo ai problemi in grande.

In definitiva il contesto, che aveva fatto capolino ogni volta che tentavamo di oggettivizzare ledifficoltà, fa definitivamente il suo ingresso come protagonista!

5. Una definizione di difficoltà, ovvero: dall’opzione catalogo ad una teoria per ledifficoltà

30 Mi sembrano molto interessanti, a proposito del legame obiettivi / emozioni, gli studi di Damasio (1995) sul legamefra la capacità di prendere decisioni e quella di provare emozioni.31 Latouche commenta che tale storia è pressochè universale, dato che oltre alla versione ambientata in Messico,raccontata da Raimundo Panikkar, esiste una versione sostanzialmente identica che Jean Malaurie ambienta inGroenlandia, e lui stesso ne ha raccolto una versione a Kinshasa.

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 32

E’ venuto il momento di ‘tirare le fila’.Il punto di partenza è stato quello di sottolineare come i problemi legati alle difficoltà che lericerche passate (e non solo quelle, naturalmente!) hanno permesso di evidenziare, individuano unaproblematica, e hanno bisogno di una teoria.Questa teoria dovrebbe fornire strumenti per interpretare fenomeni significativi per le difficoltà,nell’ottica di un intervento: ancora prima però, dovrebbe fornire strumenti per orientarel’osservazione (cioè per scegliere cosa osservare) e per analizzare i dati raccolti attraversol’osservazione (cioè per riconoscervi aspetti significativi rispetto al quadro teorico assunto). D’altraparte è a partire da un’osservazione che l’insegnante fa la diagnosi di difficoltà.Le considerazioni fatte suggeriscono che il corpo di conoscenze ottenuto semplicementeraccogliendo i contributi delle ricerche in didattica che fanno esplicito riferimento alle difficoltà(quali quelle sugli errori o sul problem solving), non è sufficiente per costituire una teoria per ledifficoltà. Tale corpo di conoscenze non riesce a connotarsi come teoria, in quanto non è in gradodi dare strumenti adeguati per riconoscere fenomeni significativi, in particolare per individuare ledifficoltà.Non è sufficiente in altre parole mettere insieme un repertorio di risultati, quali quelli che sembranonaturalmente più vicini al tema delle difficoltà: le ricerche più significative per il problema delledifficoltà appaiono piuttosto quelle che permettono di ‘cucire’ questi risultati, consentendo in talmodo di selezionare e di utilizzare anche altri contributi.Il filo per queste cuciture, cioè il primo passo necessario per arrivare ad una teoria, è unacaratterizzazione di difficoltà: solo a partire da tale caratterizzazione sarà possibile utilizzarecontributi altrimenti inerti.

E’ venuto quindi il momento di tentare tale caratterizzazione. Prima di farlo, riassumiamo leconsiderazioni fatte fin qui, in modo da fare il punto su quali requisiti deve avere talecaratterizzazione:- Le considerazioni fatte sull’errore sconsigliano di assumere come indicatori gli errori. Abbiamoosservato in particolare come, nonostante l’oggettività degli errori, l’associare difficoltà ad errori èfrutto di una serie di decisioni soggettive che spesso rimangono implicite: in particolare rimangonoimpliciti gli obiettivi rispetto ai quali è valutata la gravità di un errore. Inoltre il riferimento aglierrori comporta il rischio di privilegiare le risposte corrette ai processi risolutivi messi in atto insituazioni di problema.- Questi due punti suggeriscono l’opportunità di fare riferimento esplicito ad un problema, e quindiad un obiettivo, e di spostare il focus dall’errore al fallimento, inteso come mancato raggiungimentodi tale obiettivo: il fallimento quindi è associato ad un obiettivo specifico.Il riferimento ad un fallimento, e quindi ad un obiettivo, introduce un doppio elemento disoggettività.Un primo elemento di soggettività è legato all’individuazione dell’obiettivo: il fallimento di unallievo riconosciuto da un insegnante in base ad un certo obiettivo, può non essere riconosciuto daun insegnante diverso, che fa riferimento ad un obiettivo diverso.Ma anche il fallimento che l’insegnante riconosce in base ad un certo obiettivo può non esserericonosciuto dall’allievo, se questi si pone un obiettivo diverso.D’altra parte questa problematicità è inevitabile, in quanto intrinseca alla complessità del processodi insegnamento / apprendimento: basti pensare alla varietà delle valutazioni che insegnanti diversidanno su uno stessa prestazione.Un secondo elemento di soggettività è legato invece al riconoscimento del fallimento: può accadereche due insegnanti che pure fanno riferimento ad uno stesso obiettivo, ne riconoscano ilraggiungimento in modi completamente diversi. Addirittura può accadere che uno consideri chel’obiettivo è stato raggiunto, e l’altro no. D’altra parte anche questa soggettività caratterizza ilprocesso di insegnamento / apprendimento: anche qui basti pensare alla diversità delle prove diverifica costruite a partire da un obiettivo dichiarato esplicitamente.

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 33

In definitiva la soggettività intrinseca nel fare riferimento ad un obiettivo, invece di essere un limiteper una caratterizzazione delle difficoltà, permette di riconoscere esplicitamente una complessitàdestinata altrimenti a produrre ambiguità.- D’altra parte non è comunque opportuno assumere il fallimento tout court come indicatore didifficoltà per diversi motivi.Da un lato ne conseguirebbe il rischio di un appiattimento del processo di insegnamento /apprendimento sul compromesso delle risposte corrette: porsi come finalità quella di evitarecomunque il fallimento può portare l’insegnante ad abbassare le richieste, a privilegiare esercizi diroutine a problemi significativi ma ‘rischiosi’.Ma c’è anche un altro motivo, legato alla specificità dei fenomeni su cui vogliamo intervenire. Ladimensione temporale del fallimento è un elemento importante per caratterizzare le difficoltà. E’vero che anche un singolo fallimento può essere estremamente significativo. Ma se l’allievo riescea superare il fallimento, perché riesce a trarne informazioni per riorientare il proprio lavoro, perquanto fosse significativo e importante quel fallimento, l’insegnante non si trova a doverintervenire, e non percepisce l’allievo come allievo in difficoltà. Ad esempio alcuni studentiall’Università dopo una prima bocciatura ottengono risultati anche ottimi, perché riescono a trarreinformazioni da tale esperienza, e ad utilizzarle: interpretano cioè la bocciatura, individuandocomportamenti fallimentari e quindi modificandoli. Non è un caso che il corso di recupero fosserivolto a studenti che avevano più fallimenti alle spalle: è questa ripetizione del fallimento chesuggerisce un’idea di difficoltà, e che soprattutto richiede l’intervento dell’insegnante.Ecco perché una caratterizzazione di difficoltà che fornisca strumenti efficaci per osservare einterpretare deve distinguere fallimento e difficoltà.Questo suggerisce di assumere come indicatore di difficoltà la ripetizione del fallimento.

Riassumendo:- la problematica fin qui evidenziata (nel corso delle prime due parti e all’inizio di questa)evidenzia la necessità di una teoria per le difficoltà- le considerazioni fatte in questa parte a proposito di una possibile teoria evidenziano la necessitàdi una caratterizzazione di difficoltà- tali considerazioni suggeriscono che questa caratterizzazione deve riuscire a tener conto diquesti aspetti:

- deve recuperare la dimensione soggettiva e temporale del fallimento- deve comprendere situazioni non circoscritte alla risoluzione di problemi di matematica

(vedi le riflessioni sui contesti del paragrafo precedente).

Tutte queste considerazioni suggeriscono allora di assumere una definizione di difficoltà inmatematica come fallimento ripetuto in problemi che l’allievo si trova ad affrontare nelcontesto dell’apprendimento della matematica (che non sono necessariamente problemi dimatematica).

Nella definizione di difficoltà ritroviamo quindi gli elementi di soggettività che già avevamosottolineato per il fallimento: -Le difficoltà di un allievo vanno riferite ad un obiettivo.Questo comporta che un allievo può essere in difficoltà rispetto ad un obiettivo, e non rispetto ad unaltro. In particolare comporta che un allievo possa essere in difficoltà per un insegnante (che sipone un certo obiettivo) e non per un altro (che si pone un obiettivo diverso).

Ed è proprio quello che succede nella pratica quando un insegnante eredita una classe da un insegnante completamentediverso per convinzioni e obiettivi: a volte l’allievo che era riconosciuto come allievo in difficoltà non lo è più. Masuccede anche il viceversa: l’allievo che era ‘bravo’ si ritrova ad essere in difficoltà.Ma questo comporta anche (come vedremo a fondo) che un allievo può non considerarsi in difficoltà, se fa riferimentoad obiettivi diversi da quelli dell’insegnante.

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3. Verso una teoria per le difficoltà in matematica 34

- Se essere in difficoltà fa riferimento ad un ripetuto fallimento rispetto ad un obiettivo, la diagnosidi difficoltà comporta il riconoscimento del mancato raggiungimento di tale obiettivo.Questo comporta che, pur condividendo l’obiettivo di riferimento, persone diverse (l’insegnante e ilricercatore / due insegnanti / l’insegnante e l’allievo) possano non condividere la diagnosi didifficoltà.

Ad esempio spesso i ragazzi con buone abilità metacognitive riescono a mettere in atto strategie di ‘evitamento’ checonsentono loro, pur non raggiungendo certi obiettivi, di dare comunque buone ‘prestazioni’, ed in definitiva di nonessere riconosciuti come allievi in difficoltà. Qui è un problema di diagnosi: evidentemente le strategie messe in attodall’insegnante per riconoscere il raggiungimento di tali obiettivi non hanno funzionato.

In definitiva la definizione data di difficoltà mette in evidenza la presenza dei processi decisionalidell’insegnante (ma anche dell’allievo) che stanno a monte della diagnosi di difficoltà. Inparticolare per l’insegnante tale diagnosi presuppone :- l’esplicitazione dell’obiettivo cui fa riferimento- il riconoscimento del mancato raggiungimento di tale obiettivo.In questo modo viene sottolineata la responsabilità dell’insegnante in tale diagnosi: è l’insegnanteche riconosce un certo allievo in difficoltà rispetto ad un certo obiettivo.In particolare la diagnosi di difficoltà che due insegnanti diversi possono o meno fare su uno stessoallievo rimanda ad un confronto fra gli insegnanti sul piano degli obiettivi, e delle strategieutilizzate per riconoscerne il raggiungimento.Potremmo dire, seguendo Postman e Weingartner (1973), che quando l’insegnante dice:‘Quell’allievo ha difficoltà’, in realtà dice molto di più di se stesso, dei suoi obiettivi, dei suoivalori, delle sue convinzioni, delle sue conoscenze, che dell’allievo32:

‘…noi trasferiamo i nostri sentimenti e le nostre valutazioni a oggetti al di fuori di noi. Peresempio, diciamo «John è stupido» o «Helen è vivace» come se la stupidità e la vivacità fosserodelle caratteristiche di John e Helen. Una parafrasi letterale di «John è stupido» (ovvero, il suosignificato più scientifico) può essere qualcosa del tipo: «Quando percepisco il comportamento diJohn, sono deluso, angustiato, frustrato o disgustato». La proposizione che uso per esprimere lemie percezioni e valutazioni di questi fatti è «John è stupido».Dicendo «John è stupido», parliamo di noi stessi molto di più che di John. Eppure, questo fattonon si riflette per nulla nell’affermazione. L’io – il segno della partecipazione di colui chepercepisce – è stato rimosso mediante una peculiarità grammaticale.’ (Postman e Weingartner,1973, p. 114-115)

32 Come dicono Postman e Weingartner, ‘stupidità’ è una categoria grammaticale: non esiste in natura. E’ il linguaggioche l’ha tirata fuori.Mi sembra interessante allargare questa riflessione ai costrutti che usiamo come ricercatori. In fondo l’osservazione diPostman e Weingartner mi sembra molto simile a quella che fanno Ruffell, Mason e Allen (1998) a propositodell’atteggiamento:'Words are very powerful. They can bring into existence what was previously not present. Do people actually possess'things' called 'beliefs', 'attitudes', 'Weltanschauung', etc.? Might these 'things' be the constructs of observers who havealready decided that they exist, who need categories to classify their observations and who need constructs to account-for what they claim to see? Might not the act of probing, of asking a question, actually generate utterances and otherbehaviour which the prober can then interpret as indicating belief or attitude?' (Ruffell et al., 1998, p. 15)

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4. Dalla teoria alla pratica 1

4Dalla teoria alla pratica

0. PremessaUna delle caratterizzazioni di ‘teoria’ più condivisa è quella che sottolinea la possibilità di ‘makesense’ di una certa realtà:‘(...) what is in common in the use of the word 'theory' is the human enterprise of making sense, inproviding answers to people's questions about why, how, what.’ (Mason and Waywood, 1996,p.1060)Valutare l’efficacia di una teoria, in particolare di un costrutto teorico, significa quindi valutarequesto tentativo di ‘make sense’ . E’ necessario allora il ritorno alla pratica1, in particolare a queifenomeni da cui tutto è nato.Questo ritorno alla pratica coinvolge diversi livelli: sicuramente quello dell’interpretazione deifenomeni, ma anche quello dell’osservazione. Una teoria infatti non si limita a fornire strumenti perinterpretare fenomeni che si erano già osservati (e proprio questa osservazione aveva spinto allanecessità di nuove organizzazioni, sistemazioni, costrutti, …), ma fornisce anche strumenti perosservare fenomeni che non si erano osservati, in quanto fornisce delle lenti particolari attraverso lequali guardare la realtà.I processi di osservazione e di interpretazione dei comportamenti degli allievi non sono a prioriassociati al problema didattico di riconoscere / superare / prevenire le difficoltà: anche il ricercatorecontinuamente osserva ed interpreta. Ma anche quando l’attenzione a questi processi accomunainsegnante e ricercatore, il focus dell’insegnante e quello del ricercatore possono essere diversi:spiegare un comportamento per il ricercatore può essere il fine ultimo (all’interno di una singolaricerca, intendo), mentre per l’insegnante è piuttosto un modo per realizzare il processod’insegnamento2.Questa diversità ha conseguenze anche sui modi di osservare e interpretare.Infatti se sono possibili diversi modi, tutti legittimi, di descrivere lo stesso fenomeno, nel momentoin cui la descrizione è finalizzata ad un intervento alcuni modi risulteranno più efficaci di altri. Inaltre parole la prospettiva dell’intervento diventa un elemento di valutazione delle ipotesiinterpretative. Una teoria per le difficoltà, cioè una teoria che in qualche modo riesca a legare 1 Vygotskij, (1926, in Mecacci, 1999), parla di superare ‘la prova suprema della pratica’. Mecacci scrive a proposito:‘L’esempio forte che fa Vygotskij dello scontro tra la teoria psicologica e la pratica è quello dei test d’intelligenza. Ilimiti teorici del concetto di intelligenza vengono smascherati allorchè vengono applicati i test relativi. La praticarimanda indietro ai fondamenti teorici e ne reclama la revisione. Ma il riconoscimento dei valori della pratica nonsignifica sminuire l’importanza della teoria. La teoria in psicologia rimane fondamentale sia per l’acquisizione dinuove conoscenze che per la loro applicazione. Tuttavia, come precisa Vygotskij, la pratica è un arbitro imparziale enon consente che vi siano più vincitori.’ [p. 19-20]2 La differenza di obiettivi risulta più chiara se si fa riferimento alla ‘impressione di successo’, cioè all’impressione diaver risolto un problema. Il ricercatore ha questa impressione di successo quando l’allievo risponde in modo daconfermare una certa ipotesi interpretativa, mentre l’insegnante ce l’ha quando l’allievo risponde in modo da far pensareche ci sia stato apprendimento. Mason (1990) fa riferimento a differenti epistemologie: ‘Practitioner epistemology isrooted in coping, in action and activity to get something done. Validity is based on what seems to work at the time.Theorist epistemology is rooted in conceptualisation and classification. Validity is based on fit between observationand prediction, between description and experience.’ (p. 179)

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4. Dalla teoria alla pratica 2

l’obiettivo del ricercatore e quello dell’insegnante, misura allora la propria validità attraverso lapratica, non solo nell’aspetto di riuscire a spiegare fenomeni (‘make sense’), ma anche nel senso didare strumenti per modificarli.In particolare per l’insegnante il processo di interpretazione non è altro che un’ipotesi di lavoro. Lateoria dimostra la propria validità se lo aiuta a formulare nuove interpretazioni (laddove quelleusuali falliscono), ma queste interpretazioni non sono ‘giuste’ o ‘sbagliate’: in quanto ipotesi dilavoro, funzionano o non funzionano. E questa verifica richiede necessariamente chedall’interpretazione si passi all’intervento.

L’intervento sulle difficoltà può essere di recupero o di prevenzione: seguendo la definizione data didifficoltà, recuperare significherà interrompere la ripetizione del fallimento, e prevenire inveceevitare tale ripetizione. Naturalmente l’intervento dell’insegnante è diretto all’allievo: è l’allievo inprima persona che potrà interrompere il fallimento modificando i propri comportamenti fallimentari.Ne segue l’importanza di individuare tali comportamenti.

Qui entrano in gioco in modo cruciale alcune ipotesi molto generali che abbiamo fatto (v. Quadroteorico): il modello genericamente costruttivista secondo il quale l’individuo costruisce la propriaconoscenza, e l’importanza che ne segue dell’assunzione da parte dell’allievo della responsabilitàdell’apprendimento.Perché l’allievo modifichi i propri comportamenti fallimentari, è importante allora che ne acquisticonsapevolezza.

Mi ha colpito molto, anni fa, una relazione di Andrea Canevaro al Convegno su Matematica e difficoltà. Negli attipubblicati, inizia un paragrafo intitolato ‘Anticipare per apprendere’ con una citazione di B. Bettelheim: ‘(…) la storiadei campi di sterminio mostra che, perfino in un ambiente così oppressivo, alcune forme di difesa offrono un certogrado di protezione: la difesa più importante è capire quello che sta accadendo in noi stessi e perché.’(B. Bettelheim,1988, p.305)Canevaro continua:‘Riflettere a partire da questa citazione può servire a collocare nella giusta luce l’anticipazione dell’esperienza perfavorire l’apprendimento.Jacques Salom, (1991) ha compiuto un interessante esperimento, presso il reparto di chirurgia pediatrica dell’ospedaledi Marseille-Nord. In questo ospedale, quando si decide di operare un bambino, lo si fa venire otto giorni prima,domandandogli di portarsi dietro il proprio orsacchiotto o la propria bambola. Se non vuole o non può, il repartoregala a quel bambino o a quella bambina un orsacchiotto o una bambola. Il chirurgo spiega e simula realisticamentel’operazione sull’orsetto o sulla bambola. E ogni bambino riparte con quello o quella che ha subito l’operazione e chedovrà curare. Jacques Salom, ritiene che sia una piccola rivoluzione: riuscire a “far perdere tempo” ad un chirurgoin spiegazioni e simulazioni realistiche su orsi di peluche o bambole di pezza! Ma anche gli amministratori hannopotuto rendersi conto che ne vale la pena. Su circa tre anni di esperienza, il tempo di ospedalizzazione è diminuito dal25 al 35%, e per le complicazioni post-operatorie si arriva ad una diminuzione di circa il 65%.’ [Canevaro, 1996, p. 5]

La teoria ‘cucita’ utilizzando la definizione di difficoltà data ci permette di vedere alcuni ostacolialla realizzazione del processo di interruzione del fallimento, ancora prima di suggerire strategie diintervento.Dal fatto che la nostra definizione fa riferimento a fallimenti, e quindi al mancato raggiungimento diobiettivi, e dalla presenza di due soggetti diversi, allievo e insegnante, segue infatti da un lato lanecessità di distinguere fra l’obiettivo che si è posto l’allievo e l’obiettivo cui fa riferimentol’insegnante, dall’altro quella di distinguere fra la percezione della realtà dell’insegnante e quelladell’allievo. In altre parole non solo non si potrà parlare in modo univoco di un obiettivo, manemmeno di percezione del fallimento o di individuazione di comportamenti fallimentari:l’insegnante avrà una certa percezione del fallimento e dei comportamenti fallimentari, e l’allievopotrà avere la stessa, o un’altra, o addirittura nessuna.Questo ci porta ad osservare alcuni momenti che nell’approccio tradizionale sono sottovalutati, inmodo nuovo e con maggiore problematicità.

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4. Dalla teoria alla pratica 3

D’altra parte questa problematicità è inevitabile, in quanto intrinseca alla complessità del processodi insegnamento / apprendimento: l’insegnante, in quanto esperto della disciplina e mediatore fra lastessa e l’allievo, può e deve riconoscere il fallimento, ma è comunque l’allievo che lo deveinterrompere. Un ostacolo importante all’interruzione del fallimento può essere proprio il fatto chel’allievo non ha consapevolezza dei propri comportamenti fallimentari.

Naturalmente ‘la prova suprema della pratica’ nel senso dell’intervento, non è affrontabile erisolubile qui. Quello che si può fare qui – e che farò - è considerare alcune implicazionidell’approccio descritto, proporre alcune strategie coerenti con tale approccio, e anche rileggere gliinterventi che hanno funzionato alla luce della teoria elaborata. Il resto richiede altri interlocutori ealtri tempi: ma confrontarsi con tali interlocutori nel rispetto di quei tempi è a mio parere unacondizione assolutamente necessaria per garantire la qualità di una ricerca di questo tipo.

1. Riconoscere il fallimentoRiprendiamo la definizione di difficoltà che abbiamo dato:‘… difficoltà in matematica come fallimento ripetuto in problemi che l’allievo si trova adaffrontare nel contesto dell’apprendimento della matematica (che non sono necessariamenteproblemi di matematica)’

Definire la difficoltà come ripetuto fallimento in un problema in grande o in piccolo incontrato nelcontesto dell’apprendimento, ha diverse conseguenze importanti.

Il fatto di far riferimento anche a problemi in grande ha come prima implicazione per l’insegnante lanecessità, già in fase di diagnosi, di allargare l’osservazione dai comportamenti messi in atto dagliallievi nei problemi interni alla matematica (ad esempio: risolvere un’equazione, calcolare unintegrale,…) che abbiamo chiamato problemi ‘in piccolo’, ai problemi più globali che l’allievoincontra nel contesto dell’apprendimento di tale disciplina (ad esempio: studiare, prendere lasufficienza ad una verifica scritta o orale, essere promosso…): i problemi ‘in grande’.E’ a partire da questa osservazione infatti che l’insegnante riconosce situazioni di fallimento

Ma una volta che l’insegnante ha riconosciuto il fallimento, perché abbia successo l’interventofinalizzato a evitare che il fallimento stesso si ripeta, occorre che l’allievo in prima personamodifichi i comportamenti fallimentari, cioè quei comportamenti che lo hanno portato alfallimento.

Questo non significa che fra le cause del fallimento non ci possano essere anche fattori‘incontrollabili’ (ad esempio la difficoltà intrinseca di un argomento, o problemi specifici di unsingolo allievo): saranno comunque elementi importanti da conoscere e da gestire. Ad esempiol’analisi delle cause del fallimento può portare ad ipotizzare che gli obiettivi erano troppo alti, equindi a ridefinire obiettivi, in genere sotto-obiettivi rispetto a quelli iniziali3.

3 Questo succede ad esempio quando uno studente all’università pianifica di dare 4 esami insieme (=obiettivo) e dopoaver fallito ridimensiona i propri piani. Ma questo ridimensionamento degli obiettivi può avvenire anche da partedell’insegnante: ad esempio quando in un’interrogazione orale abbassa successivamente la difficoltà delle domande, oquando in una prova scritta a posteriori ‘alza i voti’ perché ritiene di aver dato esercizi troppo difficili.

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4. Dalla teoria alla pratica 4

Inoltre se i comportamenti fallimentari stessi esulano dal controllo dell’allievo e dell’insegnante, ilfatto di riconoscerli non sarà sufficiente per modificarli. Più precisamente, il problema non è se lecause esulano dal controllo, ma se se vengono percepite (dall’allievo o dall’insegnante) come noncontrollabili da parte dell’allievo, che è molto diverso: in altre parole quello che importa sono leconvinzioni che l’allievo (e l’insegnante) hanno a riguardo.Tipico esempio è quello delle lacune di base: per molti studenti (e per molti insegnanti) sono unacausa frequente di fallimento ripetuto, e sono considerate incontrollabili. Ricordo un episodio delcorso di recupero che mi ha colpito molto. Una corsista, Paola, accompagnando con una lettera ilquestionario passato dopo la fine del corso, scrisse: ‘Le lacune di base ci sono (c’erano) e certo nonaiutano, ma mi sono sempre state presentate come un peccato originale...’Un peccato originale da cui non è possibile affrancarsi. Si può immaginare la forza frenante(Shaughnessy, 1985, parla di ‘formidabile barriera affettiva’) dell’interazione di queste convinzioni:

Per permettere l’investimento di risorse necessario per interrompere il fallimento occorre interveniresul senso di auto-efficacia, cioè sulla convinzione di ‘potercela fare’. Ma la convinzione di ‘nonpotercela fare’, pur se è centrale, è una convinzione derivata da altre, o meglio dall’interazione fraaltre. Bisogna allora riuscire a rimuovere almeno una di tali convinzioni. In questo caso (nel casodi Paola, intendo) la convinzione più promettente per un lavoro di rimozione pare essere ‘Le lacunedi base non si possono superare’: questo significa che nell’ottica del recupero il primo obiettivo checi si pone non è quello di colmare le lacune di base, o di convincere l’allievo che non le ha, o diconvincere l’allievo che non sono determinanti (ognuna di queste possibilità rappresenta in effetti

Ionon posso riuscire

in matematica

Io ho lacune dibase

Le lacune di basenon si possonosuperare

Per riuscire inmatematicabisogna averebuone basi

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4. Dalla teoria alla pratica 5

un’opzione diversa per il lavoro di recupero, la cui opportunità non può essere valutata a priori, maandrà vista volta per volta), ma invece di convincerlo che la situazione è modificabile. Il lavoro dirimozione delle convinzioni naturalmente non è per niente banale: non si tratta di spiegare a Paolache le lacune di base si possono modificare, ma di metterla in situazioni tali da creare conflitto conle sue convinzioni (ma su questo punto torneremo dopo).In generale la rimozione di uno scarso senso di auto-efficacia richiede un lavoro mirato da partedell’insegnante, che non si può limitare ad un generico incoraggiamento. In particolare lacondizione di essere esperto della disciplina gioca un ruolo cruciale:- nel definire obiettivi realisticamente raggiungibili da parte dell’allievo (infatti questo richiede,

oltre la conoscenza dell’allievo, anche la conoscenza ‘tecnica’ dell’obiettivo e della suadifficoltà);

- nel mettere in atto strategie didattiche che rendano l’allievo in grado di raggiungerli.

Più in generale quando l’allievo attribuisce le cause del proprio fallimento a fattori che percepiscecome non controllabili, il lavoro di recupero può richiedere come prima fase in un interventofinalizzato ad ottenere uno slittamento a fattori percepiti come controllabili. Questo può significareuno slittamento delle attribuzioni di fallimento (ad esempio dalla severità del professore o difficoltàdella materia ad un metodo di studio inadeguato), o anche, come nel caso descritto sopra,semplicemente una modifica della percezione di controllabilità: in altre parole le convinzioni sullacausa del fallimento non cambiano, ma cambiano le convinzioni sulla controllabilità di tale causa.

Mi sembra interessante riflettere a questo proposito su un fattore molto enfatizzato da insegnanti, studenti, e anchefamigliari: l’impegno.Tradizionalmente (cfr. Marini, 1990) l’impegno viene considerato una causa interna e controllabile, e viene valutatapositiva quindi l’attribuzione di fallimento a scarso impegno: il fatto che uno studente in difficoltà ritenga controllabileil proprio insuccesso gli permette di investire le risorse necessarie.Ma è davvero così controllabile l’impegno? Qual è ad esempio il rapporto fra forza di volontà ed impegno? In unarticolo dal titolo “Volli, sempre volli, fortissimamente volli. La rinascita della psicologia della volontà.” MichelePellerey (1993) affronta proprio il tema della volizione, riassumendo anche i risultati della ricerca psicologica ariguardo.Mentre la motivazione ha un ruolo centrale nel momento pre-decisionale, la volizione costituisce il processo post-decisionale: in altre parole mentre la motivazione è il processo attraverso il quale si formano le nostre intenzioni, lavolizione è il processo in base al quale le nostre intenzioni si attuano, cioè “il concreto voler conseguire il fine espressodalle nostre intenzioni” (pag.1010).Un altro aspetto interessante messo in evidenza dalle ricerche su questo tema è ancora una volta il ruolo delle capacità diautoregolazione (o controllo) nel riuscire a portare a compimento quanto deciso4. “Attraverso il sistema diautoregolazione, infatti, i soggetti sviluppano strategie personali che permettono un impiego produttivo del tempo edell’impegno nel portare a termine i diversi compiti.” (pag.1013).

Ma oltre ai problemi legati alla volizione, una generica attribuzione di successo all’impegno lascia aperte altre questioni.Soprattutto, in quali comportamenti si concretizza l’impegno? “Impegno” sta ad indicare una generica disposizione alavorare, ma non la direzione da dare a tale lavoro.E in effetti molti studenti che hanno grosse difficoltà in matematica all’inizio degli studi universitari sono studenti che siimpegnano “molto”: hanno frequentato, hanno preso appunti, spesso prendono lezioni private, studiano “tanto”, fannotanti esercizi.L’idea di un impegno di per sé risolutivo si rivela per quello che è: un miraggio, utile per mantenere la propria autostimae fiducia nelle possibilità di successo finché non viene attivato, ma uno strumento quasi controproducente se, quando siattiva, viene usato nel modo scorretto.In effetti l’impegno per essere produttivo deve essere “ben diretto”, e questo ancora una volta richiede capacitàmetacognitive: da un lato richiede conoscenza delle proprie risorse (pensiamo a quegli studenti che non essendo abituati 4 Michele Pellerey si chiede se al rinnovato interesse al tema della volizione in campo psicologico farà seguito anche unnuovo interesse in campo educativo. Egli osserva (pag. 1015- 1016): ‘Tuttavia la forza per agire (…) non è un dono, mauna conquista. È un vero e proprio apprendistato. E, come ogni apprendistato, esso implica in primo luogo lapossibilità di osservare direttamente o attraverso forme mediate (come storie, racconti, film) modelli di comportamentoa cui ispirarsi.’

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a studiare per più di un’ora, pianificano per recuperare maratone interminabili o addirittura notti insonni passate suilibri…), dall’altro richiede idee chiare sugli obiettivi da raggiungere e sui comportamenti da attivare. E questo ha a chefare con la conoscenza della disciplina, delle sue caratteristiche.

L’individuazione di comportamenti fallimentari da parte dell’insegnante richiede l’analisi deiprocessi risolutivi messi in atto nell’attività di soluzione di problemi.Dato che l’osservazione del fallimento comprende problemi ‘in piccolo’ e problemi ‘in grande’,oltre a processi risolutivi inadeguati ‘in piccolo’ l’insegnante si trova ad individuare anche processirisolutivi fallimentari ‘in grande’, quali ad esempio modi poco efficienti di affrontare una provascritta, di studiare, di pianificare il proprio lavoro. L’individuazione dei comportamenti fallimentari(probabilmente) responsabili di un fallimento richiede un’analisi approfondita, ed in particolare laconoscenza dei processi messi in atto dall’allievo. L’insegnante da solo difficilmente può ricostruirei processi risolutivi messi in atto dall’allievo, soprattutto in certi casi, e quindi per l’individuazionedi eventuali comportamenti fallimentari la partecipazione attiva dell’allievo è importante. Spessoinvece (anche) lo studente percepisce il fallimento e lì si ferma, senza cercare di evidenziarecomportamenti fallimentari: questo non gli permette di trarne informazioni utili per modificare ipropri comportamenti. Ad esempio come mai non ha risolto quel problema? Forse semplicementenon ha studiato abbastanza. Oppure ha studiato, ma non ha capito. E se non ha capito, cosa non hacapito? Oppure invece sono lacune precedenti la causa del fallimento. O ancora, carenze piùgenerali a livello di risoluzione di problemi.

Nel corso di recupero a Biologia, utilizzavo la strategia di far studiare un argomento in modo sistematico (in particolarerelativamente alla geometria), quindi di controllare tale studio, e solo dopo proporre esercizi e quindi poi problemi(esplicitando peraltro agli studenti il senso di questa scelta): questa strategia aveva proprio la finalità di favorire neglistudenti la consapevolezza necessaria per utilizzare in modo produttivo un fallimento, individuando comportamentifallimentari.

Se i comportamenti fallimentari causano errori, l’individuazione dei comportamenti fallimentaririconduce al classico filone di ricerca – trasversale - che è dato dall'interpretazione di errori.Appaiono interessanti in questo senso tutti i contributi che avanzano ipotesi interpretativesull’origine degli errori sistematici: in particolare quelli sui ‘misconcetti5’.

Gli studi in quest’area sono accomunati dall’enfasi su alcuni aspetti, che li differenzia in modo netto dagli studiprecedenti sull'analisi degli errori (cfr. Borasi, 1996):- la motivazione a capire le radici dei misconcetti, e non solo ad eliminarli- lo sforzo di assumere il punto di vista di chi apprende, piuttosto che quello dell’esperto- l’accettazione della ragionevolezza dei misconcetti e quindi la necessità che l’allievo ne percepisca i limiti come

pre-requisito per modificarli.Le ricerche di Brown e Burton (1978), che hanno evidenziato errori sistematici (“bugs” nel testo inglese) nellasottrazione, sono rappresentative di questo approccio. Un bug piuttosto tipico si può riscontrare nello svolgimento delleseguenti operazioni:

278- 352- 406- 543- 510- 1023-135= 146= 219= 367= 238= 835=143 214 213 224 328 1812

L’errore è sistematico, e appare una modificazione plausibile della procedura standard: “in ogni colonna si sottraesempre la cifra più bassa da quella più alta, indipendentemente dalla posizione”.Secondo Brown e Burton spesso il comportamento generale descritto deriva dal bisogno del bambino di controllaresituazioni percepite come nuove: egli comincia con i casi che già conosce, facendone modifiche plausibili. In questosenso il bambino si comporta come uno scienziato, anche se, a differenza dello scienziato, egli non è consapevole digeneralizzare, ma, soprattutto, generalizza in base a caratteristiche superficiali e non ai significati.

5 In realtà si evita sempre più spesso di usare il termine originario misconceptions , preferendo espressioni alternativequali alternative conceptions, o implicit theories.

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Essi sottolineano l’importanza che l’insegnante sia consapevole della presenza di bugs in certi comportamenti.Se questo non avviene, essi osservano, l’insegnante tenderà ad interpretare il fallimento come negligenza o comeignoranza completa dell’algoritmo: nel primo caso assegnerà al bambino numerosi esercizi, nel secondo rispiegheràprobabilmente l’intero algoritmo.Ma mettiamoci dalla parte del bambino: Johnnie.Egli sta seguendo quello che ritiene essere l’algoritmo corretto e che, apparentemente a caso, viene segnato come errato.Ad esempio, Johnnie sottrae 284 da 437 e ottiene 253:437 -284 =253

L’insegnante commenta: “hai dimenticato di sottrarre 1 da 4 nella colonna delle centinaia.” Disgraziatamente,l’algoritmo di Johnnie consisteva nel sottrarre la cifra più bassa da quella più alta in ogni colonna. Johnnie non ha laminima idea di quello che intende l’insegnante e si sente molto stupido per il fatto che non capisce. L’insegnante èd’accordo con questa affermazione dato che nessuno dei suoi rimedi ha avuto effetto sulla performance di Johnnie.[Brown e Burton, 1978, pp.167-168]

Alice, 4a ginnasio, è alle prese con la distinzione fra ipotesi e tesi. Deve riconoscere in alcuni enunciati di teoremi qualè l’ipotesi e qual è la tesi, ma, regolarmente, chiama ipotesi la tesi. L’insegnante le spiega ripetutamente cosa si intendeper ipotesi e tesi, ma inutilmente. Alice ascolta attentamente la spiegazione, ma davanti alla richiesta di riconoscereipotesi e tesi, continua a sbagliare. Finalmente l’insegnante le chiede di descrivere a voce alta il ragionamento che fa.L’ argomentazione di Alice, una volta esplicitata, è perfino convincente: “Quando in un discorso normale, o anche nellescienze, diciamo “faccio un’ipotesi” poi però dobbiamo far vedere che è vera...cioè la dobbiamo dimostrare6.”

Numerose sono le ricerche sul significato generalmente attribuito al segno “=” , che viene interpretato (anche da moltiragazzi di scuola superiore) come “comando” di esecuzione di operazioni (cfr. Kieran, 1981).Ad esempio nel risolvere il problema: “In un bosco vengono piantati 425 alberi nuovi. Qualche anno dopo, vengonoabbattuti i 217 alberi più vecchi. Nel bosco ci sono quindi 1063 alberi. Quanti alberi c’erano prima che venisseropiantati quelli nuovi?” molti studenti scrivono:1063 + 217 = 1280 – 425 = 855Bambini più piccoli, davanti a espressioni quali “4 + 5 = 3 + 6” reagiscono dicendo che dopo il segno “=” cidev’essere la risposta, e non un altro problema! Trasformano quindi l’espressione iniziale nelle due espressioni “4 + 5= 9” e “3 + 6 = 9”.Questa interpretazione crea non poche difficoltà in contesto algebrico, dove è richiesta invece la comprensione dellavalenza relazionale del simbolo.In mancanza di tale interpretazione, il fatto che aggiungendo ai due membri di un’equazione la stessa quantità si ottieneun’equazione equivalente può apparire incomprensibile. Commenta mia figlia Alice, fonte inesauribile di informazionipreziose: “Non sarò certo io a contestare una regola che tutti accettano! Mi adeguo senz’altro. Ma nessuno miconvincerà che se aggiungo la stessa quantità ai due membri di un’equazione, non cambia niente!”

Un’interpretazione suggestiva di questi fenomeni è quella fornita da Fischbein (1992) con la teoria dei modelli primitivi:un modello primitivo tacito del fenomeno o del concetto in questione è un’interpretazione significativa di quellanozione matematica che si sviluppa ad uno stadio iniziale del processo d’apprendimento (spesso suggerita in modoesplicito dall’insegnante) e che continua ad “influenzare, tacitamente, le interpretazioni e le decisioni risolutivedell’allievo. Il termine tacito significa semplicemente che l’individuo non è consapevole di questa influenza, oppure,per lo meno, della sua estensione.” [Fischbein, , pag.26].Ad esempio la convinzione errata che il prodotto di due numeri sia maggiore di ogni fattore può derivare dal modelloprimitivo di moltiplicazione come addizione ripetuta. Questo modello impone un numero di restrizioni: si devedistinguere fra operando, che può essere un numero positivo qualsiasi, e operatore, che deve invece essere un numerointero (si può dire 3 volte 0,65; ma 0,65 volte 3 non ha senso). Una conseguenza del modello dell’addizione ripetuta èappunto la proprietà che la moltiplicazione “fa ingrandire”7.

Questi studi hanno implicazioni didattiche importanti anche perché mettono in crisi l’idea che l’errore sia dovuto solo amancanza di conoscenze, e quindi permettono di spiegare il fallimento di un intervento di recupero basato solo sulleconoscenze.

6 Faccio notare che in questo contesto sto usando la parola ‘ipotesi’ nel senso indicato da Alice. E l’insegnante dimatematica e fisica, o di scienze alle medie, usa la stessa parola con significati diversi a seconda dell’ora!7 Osserva spiritosamente Sheila Tobias nel suo Come vincere la paura della matematica, che anche nella Bibbia c’èscritto: “Crescete e moltiplicatevi!”

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4. Dalla teoria alla pratica 8

Per individuare comportamenti fallimentari, come del resto per individuare errori, è necessarioessere esperti della disciplina.Ma riconoscere un comportamento come fallimentare richiede anche ipotesi su un presunto rapportodi causa ed effetto fra il comportamento stesso e il mancato raggiungimento di un obiettivo.La presenza di due soggetti diversi nel processo di analisi del fallimento, ed il riferimento aobiettivi, comportano un’ambiguità intrinseca, direi addirittura una doppia ambiguità, che èimportante riconoscere per poter gestire. Da un lato è necessario distinguere fra l’obiettivo che si èposto l’allievo e l’obiettivo cui fa riferimento l’insegnante, dall’altro bisogna tener presente cheallievo e insegnante, in quanto soggetti diversi, hanno anche una percezione diversa della realtà.Questa ambiguità è inevitabile, in quanto intrinseca alla complessità del processo di insegnamento /apprendimento. E proprio perché è inevitabile per gestirla8 bisogna accettarla esplicitamente.

In particolare può capitare che l’insegnante riconosca un fallimento che l’allievo invece nonriconosce, per motivi diversi:- perché si è posto obiettivi diversi- perché non si è posto obiettivi9

- o anche perché usa criteri diversi per valutare se un obiettivo è stato raggiunto10.

Un caso importante: l’allievo non percepisce il fallimento perché si è postoobiettivi diversi.Il caso in cui l’allievo non percepisce il fallimento in quanto si è posto obiettivi diversi èparticolarmente frequente.Ad esempio a scuola spesso l’allievo si pone obiettivi di prestazione piuttosto che d’apprendimento,ed è alla luce di quelli che valuta un esito come fallimentare o meno: così può capitare che l’allievonon percepisca il fallimento che invece l’insegnante riconosce. Questo accade ad esempio quandol’insegnante corregge un errore che non ha effetti sul risultato finale: se l’allievo si è posto comeobiettivo quello di fornire una risposta corretta può riconoscere un errore senza che questo significhinecessariamente prendere atto di un fallimento.

Abbiamo già fatto l’esempio dell’errore:

Se tale errore non ha conseguenze sul risultato dell’esercizio, l’allievo non assocerà a tale errore un fallimento: ilfallimento non c’è proprio stato, se l’obiettivo prefissato era rispondere correttamente!Mentre, nell’esempio che abbiamo analizzato successivamente:

8 La ‘gestione’ di cui parlo in questo contesto è a carico dell’insegnante: è l’insegnante l’interlocutore privilegiato peragire sulla pratica. Per questo, oltre che per il fatto (del resto collegato) che l’insegnante a differenza dell’allievo èesperto della disciplina, non c’è e non ci può essere simmetria nei ruoli di allievo e insegnante in tutte le riflessioni cheseguono.9 A volte si tratta di una ‘rinuncia’ a priori, che può essere proprio diretta ad evitare il fallimento e a preservarel’autostima (perché ad esempio l’allievo si pone obiettivi troppo alti, o anche fraintende gli obiettivi postidall’insegnante). Anche in questo caso si tratterà di intervenire sul senso di auto-efficacia dell’allievo: ma per poterlofare, occorrerà capire da dove esso deriva.10 In particolare anche se l’allievo condivide l’obiettivo dell’insegnante, può darsi che riconosca il raggiungimento ditale obiettivo in modo diverso dall’insegnante. Tipico è il caso delle interrogazioni: a volte un allievo è convinto di averfatto bene semplicemente perché non è stato corretto dall’insegnante, e magari percepisce come fallimentarel’interrogazione del compagno ‘bravo’, che, interrogato su problemi nuovi e più difficili, ha risposto in modo menoautomatico.

xx =2

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4. Dalla teoria alla pratica 9

lo stesso errore impedisce di trovare la risposta corretta, e viene quindi associato ad un fallimento.

Oppure, un altro errore frequente è:

Se quest’errore capita nel contesto:

non ci sarà fallimento, e la correzione dell’insegnante non sarà il riconoscimento di un fallimento.Ma se invece il contesto è il seguente:

lo stesso errore sarà associato al fallimento.

Un fenomeno analogo11 succede frequentemente nell’ambito delle convenzioni, ad esempio conl’uso delle parentesi: se lo studente interpreta le parentesi come segni per ricordarsi le precedenze, ilrisultato corretto dimostra che le parentesi sono state usate correttamente!

Marco deve moltiplicare x + 1 per x +2.Scrive così: x + 1 � (x+2)Ma esegue così := x2 + 2x + x + 2 = x2 + 3x + 2

In definitiva non c’è fallimento: la correzione dell’errore apparirà un’inutile pignoleria12.

Ma anche il caso di Scenetra (Cobb, 1985), se immaginiamo di interrompere la scena primadell’intervento risolutivo dell’insegnante, si può leggere come una situazione che non vienepercepita come un fallimento dalla bambina, in quanto Scenetra ha raggiunto l’obiettivo che si eraposta13.

Scenetra frequenta la 2a elementare. La sua insegnante vuole verificare se la bambina è in grado di mettere in relazionefatti aritmetici, in particolare se sa utilizzare una somma nota per trovare una somma incognita. Scrive quindi, una sottol’altra, le due espressioni:34 + 9 = 43 11 Dico analogo, e non lo stesso, perché qui l’allievo può addirittura non accettare che ci sia un errore: qui si infrangeuna convenzione che ha un certo fine, e siccome il fine viene rispettato (non sbagliare le precedenze), l’infrazione puònon essere nemmeno riconosciuta! 12 Ad un corso d’aggiornamento un’insegnante, confermandomi la frequenza di comportamenti come quello di Marco,mi ha detto: ‘Io gli tolgo due punti: uno perché ha sbagliato a mettere le parentesi, l’altro perché ha sbagliato a leggerele parentesi che ha messo!’ Dal punto di vista della ‘caccia all’errore’ il ragionamento non fa una piega. Dal punto divista della possibilità di un recupero significativo invece è assolutamente controproducente.13 Il caso di Scenetra, come altri, si può leggere anche come effetto del ‘contratto didattico’. Ma questa lettura nonfunziona con tutti gli altri esempi.

1

11lim

)11(lim1lim

22

2

=−

=−

=−−∞→−∞→−∞→ x

xx

xx

x

xx

xxx

= xdxx

log1

=−==e

e exdxx1

1 11loglog][log1

=−−−==−

−−

11 ???)log()1log(][log1

ee exdx

x

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4. Dalla teoria alla pratica 10

34 + 11 =Invitata a completare la seconda espressione Scenetra incolonna 34 e 11 ed esegue l’addizione. Alla domanda esplicita:“Ma potevi utilizzare il risultato della prima espressione?” la bambina risponde di no, quasi turbata.Fortunatamente l’insegnante e l’assistente presente alla sessione, Marva, insistono. Così l’insegnante chiede: “Secondote, come avrebbe fatto Marva?”E Scenetra semplicemente: “Lei avrebbe aggiunto 2 a 43.”

Un altro esempio un po’ diverso dai precedenti mi è stato suggerito da un insegnante di scuolamedia, scambiando alcune opinioni sul fenomeno così frequente delle risposte date apparentementea caso: alcuni allievi rispondono immediatamente, senza riflettere, perché cercano l’attenzionedell’insegnante. Questo è un altro caso in cui l’allievo non può percepire il fallimento in quanto,pur dando risposte scorrette, raggiunge il proprio scopo di ‘catturare’ l’attenzione dell’insegnante14.

In mancanza di percezione del fallimento l’allievo non può riconoscere i propri comportamentifallimentari, perché in realtà per lui semplicemente non ci sono, dato che non c’è stato fallimento.D’altra parte il coinvolgimento attivo dell’allievo nel lavoro finalizzato ad interrompere ilfallimento è importante, perché in definitiva è l’allievo in prima persona che deve modificare ipropri comportamenti. In questi casi allora il cambiamento dei comportamenti fallimentari richiedeun percorso di recupero meno diretto, o eventualmente un lavoro preliminare mirato ad ottenere ilriconoscimento del fallimento.Una strategia per recuperare la percezione del fallimento da parte dell’allievo può consistere nelproporre situazioni in cui il mancato raggiungimento dell’obiettivo cui fa riferimento l’insegnanteabbia come conseguenza il mancato raggiungimento dell’obiettivo dell’allievo (come succedeva inalcuni casi nell’esempio precedente relativo all’errore). Ma può essere opportuno anche un lavorodi esplicitazione e di riflessione sugli obiettivi di allievo e insegnante.

La chiarezza sugli obiettivi che allievo e insegnante si pongono, cruciale per riconoscere uneventuale mancato riconoscimento del fallimento da parte dell’allievo, è importante anche quandoquest’ultimo percepisce il proprio fallimento.Ad esempio nella fase di recupero spesso l’insegnante non esplicita chiaramente gli obiettivi daraggiungere, e rimane quindi implicito che gli obiettivi dell’allievo che deve recuperare siano glistessi che non è riuscito a raggiungere quando aveva a disposizione molto più tempo e più strumenti(le spiegazioni dell’insegnante, ma anche il confronto con i compagni). Questi obiettivi non sonorealistici, e in genere l’insegnante, rendendosene conto, si “accontenta” di molto meno, spesso delladimostrazione di un generico impegno. Ma l’allievo, non conoscendo questi obiettivi alternativi,non ha strumenti per dirigere e controllare i propri comportamenti: spesso rinuncia, proprio perchéavverte la situazione come incontrollabile.

Ma la chiarezza degli obiettivi è importante anche per un altro motivo. Può accadere infatti, espesso è proprio quello che succede, che allievo e insegnante riconoscano entrambi un fallimento,ma lo attribuiscano al mancato raggiungimento di obiettivi diversi.Spesso questo accade perché i problemi che noi insegnanti vediamo come problemi in piccolo sonovisti dall’allievo come problemi in grande15: in altre parole l’obiettivo cui fa riferimento l’insegnanteè ‘interno’ alla matematica, mentre l’obiettivo che si pone l’allievo è ‘esterno’. Come dice Cobb

14 Il fatto che questo fenomeno succeda più facilmente con insegnanti che hanno un buon rapporto con gli allievi, e chesdrammatizzano l’errore, mi sembra lo configuri come un ‘danno dei bravi insegnanti’ (v. Zan, 2001).15 Ma può accadere anche che sia l’insegnante a fare riferimento ad un problema in grande, mentre l’allievo rimaneancorato al problema in piccolo. Questo succede ad esempio quando l’attenzione dell’insegnante è rivoltamaggiormente allo sviluppo delle abilità metacognitive, ad esempio alla gestione delle risorse in una verifica scritta, oalla costruzione di un metodo di studio efficace.

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4. Dalla teoria alla pratica 11

(1986), i problemi che gli studenti affrontano nel contesto dell'apprendimento della matematicasono più sociali che matematici.

Il processo che la scuola didattica francese indica con devoluzione è quello attraverso il quale questa frattura si salda:l’allievo si fa carico del problema, l’obiettivo è condiviso.Quello della devoluzione è un progetto ambizioso, che passa attraverso la proposta di significative situazioniadidattiche, e che porta ad evidenziare alcuni paradossi:‘The teacher must make sure that the student solves the problems set in order to evaluate, and make it possible to makethe student evaluate, whether she has accomplished the task.But if the student produces her answer having had herself to make the choices which characterize suitable knowledgeand which differentiate this knowledge from insufficient knowledge, the evidence becomes misleading. This occursparticularly when the teacher is indiced to tell the student how to solve the given problem or what answer to give. Thestudent, having had neither to make a choice nor to try out any methods nor to modify her own knowledge or beliefs,has not given the expected evidence of the desired acquisition. She has given only an illusion of it. The teacher has thesocial obligation to teach everything that is necessary about the knowledge. The student – especially when she hasfailed – asks her for it.And therefore, the more the teacher gives in to her demands and reveals whatever the student wants, and the moreshe tells her precisely what she must do, the more she risks losing her chance of obtaining the learning which she isin fact aiming for.’ (Brousseau, 1997, p. 41)Il paradosso cui fa riferimento Brousseau mi sembra in definitiva il paradosso di qualsiasi processo educativo. Laresponsabilità dell’educatore, non solo dell’insegnante, è in fondo proprio quella di ottenere che l’individuo si assuma leproprie responsabilità. E’ in generale questa dinamica sottile fra le responsabilità dei due soggetti che generacontraddizioni, e che è alla base del disagio che molti di noi oggi sentono come genitori oltre che come insegnanti16. Maritengo che queste contraddizioni si possano sciogliere solo nella prospettiva di tempi lunghi, o meglio,nell’articolazione attenta delle dinamiche fra tempi brevi e tempi lunghi: il progetto che in tempi brevi, ed in relazionead un singolo problema, appare poco realistico, diventa realizzabile in prospettiva, in relazione al Problemadell’apprendimento. Nello specifico del discorso che qui ci interessa in tempi lunghi17 si possono` 'usare' le componenti'extra-matematiche' anche per obbiettivi d'apprendimento.Invertendo il ragionamento fatto in precedenza, infatti, risolvere il problema in piccolo può essere un modo perrisolvere il problema in grande (ad esempio risolvere il problema di geometria che ha dato l’insegnante è un modo perrisolvere il problema di rispondere all’insegnante).Questo ha degli aspetti positivi dal punto di vista didattico: significa poter far leva sul problema in grande per veicolarealtre ‘cose’ che ci interessa veicolare. Certo il fatto che non sia l’unica strategia possibile pone una sfida all’insegnante:come fare per rendere tale strategia più appetibile? In fondo è esattamente la situazione del corso di recupero aBiologia: convincere gli studenti che il modo più economico e anche gratificante per risolvere il ‘loro’ problema(superare l’esame) era in fondo quello di imparare un po’ di matematica!Questo percorso appare più realistico anche dal punto di vista emozionale: nella maggior parte dei casi si può ipotizzareche gli obiettivi a componente emozionale maggiore siano quelli su di sé e non sulla matematica. Eliminare lacomponente 'extra-matematica' sembra quindi improponibile. Appare più praticabile mostrare come si può raggiungereun obiettivo extra-matematico (che probabilmente gli alunni hanno nella maggior parte dei casi più ‘a cuore’) passandoattraverso il raggiungimento di un obbiettivo matematico.

16 E’ stato proprio questo disagio a spingermi ad individuare ed analizzare ‘I danni del ‘bravo’ insegnante’. (Zan, 2001).Le riflessioni che qui accenno sono quelle che concludevano l’articolo: ‘Credo che il ‘bravo’ insegnante diventisemplicemente … bravo insegnante, quando riesce a pensare su tempi lunghi e non brevi: quando si convince che hatempo a disposizione, e che in questo tempo vale la pena di investire sforzi e risorse. Gli aspetti affettivi diventanocruciali non per gestire una relazione soddisfacente nell’immediato, ma per sostenere la realizzazione di un progettoeducativo a lungo termine, perché questa realizzazione richiede fiducia, coinvolgimento, attenzione. L’interesse perl’allievo non si concretizza stabilendo con lui un generico buon rapporto, evitando il conflitto, evitando – a lui e a noistessi – emozioni negative, ma accettando il disagio di gestire il conflitto, se necessario, accettando anche la sofferenzadi vederlo vivere emozioni negative: in altre parole sostenendo, e non evitando, la sua fatica, confortati dallaconvinzione che abbiamo davanti abbastanza tempo per vedere – o comunque per avere - i risultati di questa fatica.In particolare il sostegno da dare agli allievi in difficoltà non si esaurisce in un supporto per ‘aiutarli’ a dare rispostegiuste, ma si allarga alla determinazione di perseguire processi di pensiero significativi, e di costruire pazientementeoccasioni di crescita.’17 Quello della varietà dei ‘tempi’ con cui si muovono i fenomeni interessanti dal punto di vista didattico, e laconseguente necessità di diversificare gli strumenti per analizzarli ed in generale per gestirli è un problema importante.Arzarello, Bartolini Bussi e Robutti (in stampa) lo affrontano, sottolineando alcune questioni metodologiche connesse.

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4. Dalla teoria alla pratica 12

In caso di fallimento poi, il fatto di aver ‘legato’ in qualche modo l’obiettivo dell’allievo a quello dell’insegnante puòpermettere di facilitare la condivisione del fallimento, l’analisi dei comportamenti fallimentari, e quindi il lorocambiamento.

In definitiva la definizione di difficoltà data sottolinea la necessità di chiarezza sugli obiettivi cheinsegnante ed allievo si pongono. Questo rimanda ad un altro problema: quello dellaconsapevolezza dei propri obiettivi, sia da parte dell’insegnante che da parte dell’allievo.Un elemento che complica ulteriormente le cose è il fatto che in generale avere la consapevolezza diquale obiettivo ci si è posti non è per niente banale: nei problemi reali la formulazione dell’obiettivoè un processo che può risultare estremamente difficile, tanto che a volte si riesce a formularel’obiettivo solo a posteriori, quando il problema è stato risolto o comunque superato. A volte è soloa partire dalla ‘impressione di successo’18, cioè dall’impressione di aver risolto il problema, chesiamo in grado di risalire all’obiettivo che ci eravamo posti. In ogni caso è fondamentale chel’insegnante cerchi una risposta alle domande: ‘Quali obiettivi mi sto ponendo? Quali obiettivivoglio che si ponga l’allievo?’

2. Individuare i comportamenti fallimentariAnche assumendo che insegnante e allievo condividano la percezione di fallimento, non si puòcomunque assumere che l’allievo condivida con l’insegnante il riconoscimento dei comportamentifallimentari da modificare.Allievo e insegnante, in quanto soggetti diversi, hanno infatti una percezione distinta deicomportamenti fallimentari: quindi anche se l’allievo condivide l’obiettivo dell’insegnante, ericonosce il fallimento, non è detto che riconosca come fallimentari gli stessi comportamenti.

Inoltre, come abbiamo già osservato, anche se un fallimento è riconosciuto sia da allievo che dainsegnante, può darsi che nei due casi il fallimento sia dovuto al mancato raggiungimento di dueobiettivi diversi: quando l’insegnante riconosce un comportamento fallimentare dell’allievo, fariferimento in genere al suo obiettivo, e non a quello dell’allievo. Se l’insegnante valutasse icomportamenti in base ad obiettivi diversi, probabilmente identificherebbe come fallimentaricomportamenti diversi19.

18 E’ un termine che mi è stato suggerito dalla lettura di Mosconi e D’Urso (1973), i quali parlano invece dell’impressione di errore, cioè dell’esperienza psicologica di errore. In quel lavoro i ricercatori si pongono il problema:‘se, e quando, al correlato oggettivo di un comportamento sbagliato corrisponda un’impressione soggettiva disbagliare. Esiste un’esperienza psicologica, un vissuto tipico che possiamo chiamare ‘impressione di errore’? In qualicircostanze e a quali condizioni si manifesta?’ [Mosconi e D’Urso, 1973, p. 190-191]19 Supponiamo ad esempio che un allievo abbia copiato da un compagno (per esempio ad un compito scritto) lasoluzione, ma abbia sbagliato a copiare.Se l’allievo si pone come obiettivo quello di dare una risposta corretta all’insegnante, il comportamento fallimentare nonconsiste nell’aver copiato la soluzione, ma nell’averla copiata male! La strategia di copiare ha fallito in questo casoperché ha fallito la copiatura (per evitare la ripetizione del fallimento la prossima volta starà più attento), ma indefinitiva se il rendimento dell’allievo è molto basso, le probabilità di dare una risposta corretta sono effettivamentemaggiori nel caso in cui copi che nel caso in cui faccia da solo. Se l’obiettivo dell’insegnante non era la rispostacorretta, ma la produzione di un processo di pensiero significativo, e se l’insegnante si accorge del fatto che l’allievo hacopiato, considererà tale comportamento come fallimentare, a prescindere dalla risposta. Qui la diversità di obiettivi fasì che un comportamento che è fallimentare rispetto ad un obiettivo non lo è invece rispetto ad un altro.

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Come abbiamo ripetuto più volte, spesso la differenza di obiettivi fra allievo e insegnante è legata alfatto che uno stesso compito è percepito dall’insegnante come problema in piccolo, e dall’allievocome problema in grande.Ad esempio se davanti ad un problema l’allievo si pone l’obiettivo di rispondere correttamente,quello che per l’insegnante è un problema in piccolo diventa per l’allievo un problema in grande.Se ad esempio l’allievo per dare la risposta corretta all’insegnante risponde a caso, e sbaglia larisposta, probabilmente percepirà come fallimentare quella particolare risposta (tanto che se larisposta fosse giusta non ci sarebbe fallimento). Come spesso succede, dopo un primo fallimento inquesto caso l’allievo modifica la risposta, ma non il fatto di averla dato a caso!

Ad esempio per risolvere un problema di geometria, Azzurra deve trovare il perimetro di unrettangolo che ha le basi di 12 cm e 8 cm. La ragazza moltiplica 12 per 8. L’insegnante le dice:“Ma perché moltiplichi? Devi trovare il perimetro…”E Azzurra: “Divido?”

Se per Azzurra il comportamento fallimentare è ‘dare la risposta sbagliata’, per l’insegnante(probabilmente) è invece ‘rispondere a caso’20.A livello di intervento ne consegue che non si tratta di modificare / correggere la risposta diAzzurra, perché invece di quella risposta poteva essere un’altra (eventualmente anche corretta!): sitratta di modificare il comportamento che consiste nel dare risposte a caso.

Questi esempi mettono in evidenza un altro aspetto importante. La ricerca dei comportamentifallimentari richiede la ricostruzione dei processi risolutivi messi in atto dall’allievo. Se questaricostruzione è completamente a carico dell’insegnante, l’insegnante stesso può seguire percorsidiversi. Nell’esempio di Azzurra l’insegnante che si chiede: ‘Perché risponde: «Divido?» ?’, puòfare l’ipotesi che Azzurra abbia risposto a caso, e identificare immediatamente tale comportamentocome fallimentare. Questo comportamento fallimentare è un processo risolutivo che si giocaesternamente alla matematica. Oppure l’insegnante può ipotizzare che il processo risolutivo si ègiocato internamente alla matematica (seppure senza successo), e tentare quindi di ricostruirlo.Questa ipotesi di fondo, come qualsiasi altra, può pregiudicare il successo del lavoro di recupero chene segue. Se negli esempi fatti l’insegnante tentasse di ricostruire il processo risolutivo interno allamatematica che ha portato Azzurra a rispondere ‘Divido?’, si incamminerebbe in un lavoro direcupero destinato molto probabilmente all’insuccesso21.

In realtà l’importanza di cercare di ricostruire i processi di pensiero dell’allievo, senza limitarsi ad un’analisi puramentecognitiva, è importante anche nella ricerca. In un lavoro originale del 1997 Leron e Hazzan affrontano questo problema,sottolineando la necessità di assumere il punto di vista dell’allievo nell’analizzare i suoi comportamenti. Essipropongono uno strumento che chiamano ‘virtual monologue’, in cui il ricercatore cerca di riprodurre la ‘voce’ dellostudente, esplicitando i suoi probabili pensieri, le sue emozioni, le sue sensazioni. Molto interessante ci sembra l’analisiche i ricercatori fanno attraverso il ‘virtual monologue’ di un protocollo in contesto algebrico, in contrapposizione conl’analisi originale, sullo stesso protocollo, fatta da Sfard e Linchevsky solo dal punto di vista di processi cognitivi cherimangono ‘dentro’ la matematica.

20 In questo caso però, a differenza del precedente, l’insegnante, in quanto esperto, valuta fallimentare la strategia diAzzurra anche rispetto all’obiettivo di dare una risposta corretta: la probabilità di indovinare una risposta in matematicain generale è infatti molto bassa!21 Se viceversa nel caso di Alice (che sbagliava a distinguere ipotesi e tesi) l’insegnante avesse rinunciato a ricostruire ilprocesso di pensiero sottostante quelle risposte, e le avesse interpretate come risposte date a caso, probabilmentel’intervento di recupero avrebbe fallito. Naturalmente l’osservazione dei comportamenti dell’allievo è molto importante,ed è importante che si ‘permetta’ tempi lunghi: ad esempio la sistematicità di certe risposte, che è un elementosignificativo per decidere quale direzione dare alla ricerca dei comportamenti fallimentari, ha bisogno di tempi lunghiper essere riconosciuta.

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In definitiva così come ci poteva essere mancata condivisione della percezione del fallimento nellafase di riconoscimento del fallimento stesso, così ora ci può essere mancata condivisionenell’individuazione dei comportamenti fallimentari, cioè dei comportamenti che portano alfallimento.Ma anche in questa fase il coinvolgimento attivo dell’allievo è importante, perché è comunquel’allievo in prima persona che deve modificare i propri comportamenti. In mancanza di percezionedei propri comportamenti fallimentari l’allievo non ha motivi per modificarli: anche in questo casoallora il cambiamento dei comportamenti fallimentari può richiedere un percorso di recupero miratoproprio a far sì che l’allievo abbia tale percezione, e questo ancora una volta può richiedere unlavoro esplicito e mirato sugli obiettivi.Nel caso di Azzurra ad esempio non si tratta di arrivare a modificare le risposte di Azzurra, ma difar sì che Azzurra le modifichi. Azzurra le modificherà, quando percepirà come fallimentare lastrategia di rispondere a caso. Ma per ottenere questo è necessario capire perché Azzurra ora mettein atto tale strategia: solo così sarà possibile capire come intervenire per far sì che arrivi a percepirlacome fallimentare.

Se l’individuazione dei comportamenti fallimentari è già un’ipotesi di lavoro per l’insegnante, oral’insegnante è tenuto a prendere posizione con un’ipotesi di lavoro ancora più fine: infatti deve fareipotesi sulle possibili cause che hanno prodotto tali comportamenti fallimentari.

3. Interpretare i comportamenti fallimentariLa domanda: Quali sono le cause di processi risolutivi fallimentari? rimanda alla domanda: Dacosa sono influenzati i processi risolutivi di un soggetto che risolve un problema?Gli studi sul problem solving matematico hanno dato alcune risposte a questa domanda.L’attenzione dei ricercatori (v. Quadro teorico) si è gradatamente allargata dalle conoscenze erisorse cognitive possedute, all’abilità di gestire tali risorse (metacognizione), alle convinzioni (sullamatematica, su di sé, sull’ambiente), ad emozioni e atteggiamenti.Vorrei sottolineare alcuni aspetti relativi a questo punto estremamente delicato, che può generare (edi fatto genera) equivoci.‘Allargata’ non vuol dire ‘spostata’. L’importanza delle conoscenze e delle abilità più strettamentecognitive non viene messa in dubbio. Ad esempio fra le ipotesi interpretative sulle cause dicomportamenti fallimentari trovano il loro spazio da una parte i nodi concettuali della disciplina, edall’altra eventuali carenze dell’allievo dovute a deficit di varia natura. D’altra parte la distinzionedei fattori in cognitivi, metacognitivi, affettivi è un’esigenza teorica, e non una realtà. Come giàsottolineato precedentemente (v. Quadro teorico) tutti questi fattori interagiscono fra di loro. Inparticolare carenze a livello cognitivo possono avere un effetto sul fallimento non solo diretto maanche mediato: questo succede ad esempio quando la mancata consapevolezza delle regole di basedell’aritmetica genera una visione della matematica come disciplina di prodotti scollegati, e questa asua volta genera un atteggiamento di fatalismo con conseguente fallimento.Ma soprattutto il processo interpretativo, per dirla con Groddeck, ha a che fare con ‘opinioni non dilusso’:

‘Secondo me ci sono due tipi di opinioni: quelle che s’intrattengono per proprio diletto, quindile opinioni di lusso, e quelle che si usano come strumenti, cioè le ipotesi di lavoro: se esse sianogiuste o sbagliate, per me è una questione secondaria.’ [Groddeck, Il libro dell’Es, p. 190]

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Quindi se l’ipotesi che il fallimento è dovuto ‘direttamente’ a mancanza di conoscenze ‘funziona’, ilche vuol dire che ‘funziona’ un intervento di recupero basato su tale ipotesi, non c’è bisogno dicercare ipotesi interpretative alternative.

Ad esempio il corso di recupero agli studenti di Biologia (v. parte 2) era nato dal fallimento di interventi precedenti, sepur diversificati e in alcuni casi non esplicitamente diretti al recupero: la maggior parte dei corsisti aveva seguito i corsidi lezioni ed esercitazioni più di una volta, ed era andata a lezioni private. E’ questa informazione, unita al fatto chenessun studente aveva avuto difficoltà altrettanto importanti in altri esami, a suggerire la necessità di provareinterpretazioni e interventi alternativi.D’altra parte l’osservazione degli studenti non limitata ai loro prodotti, ma allargata ai processi risolutivi, aveva messoin evidenza alcune tipiche carenze metacognitive. Negli esercizi ad esempio erano ricorrenti comportamenti quali:mancanza di controllo sul tempo da dedicare ad un tentativo di soluzione, mancanza di controllo sui risultati ancheladdove era possibile, mancanza di regolazione dei comportamenti in base ai propri punti deboli (eventualmente dovutaalla mancata consapevolezza di tali punti deboli).

L’intervento di recupero realizzato al liceo pedagogico (v. parte 2) era nato proprio dall’insuccesso di interventitradizionali precedenti, basati esclusivamente sulle conoscenze. E’ questo insuccesso che spinge a interpretazionialternative, e quindi a utilizzare strumenti di diagnosi più fini.Uno di questi strumenti consisteva in un gruppo di 4 problemi, dati con la seguente consegna :

Qui di seguito ci sono 4 problemi, che tu devi cercare di risolvere.IMPORTANTE!!!

Cerca di scrivere tutti i tuoi pensieri, tutti i ragionamenti che fai, le impressioni e le emozioni che provi, le difficoltà cheincontri.E' quello che pensi e che provi che ci interessa, non il risultato!

Alessandra affronta il terzo problema: deve trovare l’area di un rettangolo, sapendo che il perimetro è 126 cm, el’altezza è i ¾ della base.Abbozza correttamente un disegno:

ma poi non conclude, e. scrive:“a questo punto non so, cioè non mi ricordo bene la formula”Possiamo ipotizzare in questo caso che la rinuncia ad andare avanti (=comportamento fallimentare) sia l’effettodell’interazione di due tipi di convinzioni: sui problemi di matematica (‘Per risolvere i problemi bisogna conoscere unaserie di formule da applicare di volta in volta’) e su di sé (‘E io non le so’).

Per risolvereproblemi bisognaapplicare delleformule

Io non conosco leformule

Io non possorisolvere problemi

Assumere questa come ipotesi di lavoro significa mirare l’intervento di recupero non ad un lavoro esplicito sui problemidi geometria (eventualmente analoghi a quello su cui c’è stato fallimento), ma alla rimozione delle convinzioni da cuideriva la rinuncia a provare. Più precisamente secondo la nostra ipotesi tale rinuncia è frutto della convinzione ‘Io nonposso risolvere problemi’, a sua volta derivata dall’interazione delle due convinzioni: ‘Per risolvere problemi bisognaapplicare le formule’, e ‘Io non conosco le formule’. La rimozione della convinzione derivata (‘Io non posso risolvereproblemi’) può passare attraverso percorsi diversi, che richiedono all’insegnante una valutazione piuttosto complessa, incui il fatto di essere esperto della disciplina, e comunque la personale concezione della disciplina, giocano un ruolocruciale.

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Negli esempi fatti abbiamo visto il ruolo giocato da abilità metacognitive e da convinzioninella soluzione di problemi di matematica.D’altra parte abbiamo visto che se è vero che la difficoltà è associata a ripetuti fallimenti nellarisoluzione di problemi, non si tratta però necessariamente di problemi di matematica, ma più ingenerale di problemi che l’allievo incontra nel contesto dell’apprendimento della matematica.Ecco allora la necessità di ripensare agli aspetti metacognitivi e affettivi in relazione al ruolo cheessi possono avere in tale tipo di problemi.

Ritornando al corso di recupero, le carenze metacognitive suggerite dai comportamenti di molti studenti non eranocircoscritte ai singoli problemi di matematica, ma riguardavano anche la gestione complessiva dei compiti scritti, inparticolare la gestione del tempo (quanto tempo dedicare ad un singolo esercizio, da quale cominciare), ma anche delleproprie risorse (quali esercizi privilegiare in base alle proprie conoscenze e abilità; consegnare o meno il compitosapendo di non poter rifare lo scritto nella stessa sessione): in altre parole carenze a livello metacognitivo. Carenze diquesto tipo si erano evidenziate anche alle prove orali di alcuni studenti che erano riusciti a superare lo scritto:soprattutto gestione inadeguata del tempo nella preparazione dell’esame orale, e scarsa consapevolezza del livello dipreparazione.

Le carenze metacognitive (per definizione…) sono spesso responsabili di fallimenti in problemi di gestione quali quelliprecedenti. D’altra parte le convinzioni permettono di fare ipotesi interpretative su fenomeni altrimenti difficili daspiegare e quindi da gestire, anche perché influenzano i processi di controllo metacognitivo.Abbiamo accennato alle risposte date a caso. In alcuni casi invece le risposte che gli allievi danno appaionoautomatiche, anche in situazioni di problema. Anche qui il processo risolutivo fallimentare che interessa modificare nonè quello contingente prodotto, ma piuttosto l’attivazione di un comportamento automatico invece che strategico. Alcuneipotesi interpretative possono essere legate alla concezione di problema o al riconoscimento di un compito comeproblema:- l’allievo percepisce il problema come un esercizio, e quindi attiva un comportamento automatico piuttosto che

strategico- oppure l’allievo non associa ad un problema la necessità di attivare un comportamento strategico.Ancora una volta le ipotesi interpretative configurano diversi scenari, in cui quello che conta è l’interazione fra un certosistema di convinzioni (e non una singola convinzione!) e altri elementi, quali: conoscenze (quelle ad esempio cheintervengono nella valutazione di un compito come un problema o un esercizio) e abilità metacognitive (quelle chespingono ad attivare comportamenti diversi a seconda del compito, e quindi ad interrogarsi sulla natura del compito).Questo sistema può contenere ad esempio una catena di convinzioni che hanno fra le loro derivate la convinzione che:Nell’attività matematica non ci sono decisioni da prendere22.

Ma analizziamo il fenomeno delle risposte date a caso.Riprendiamo l’esempio di Azzurra:

Per risolvere un problema di geometria, Azzurra deve trovare il perimetro di un rettangolo che ha le basi di 12 cm e 8cm. La ragazza moltiplica 12 per 8. L’insegnante le dice: “Ma perché moltiplichi? Devi trovare il perimetro…”E Azzurra: “Divido?”

Come abbiamo già osservato, a livello di intervento non si tratta di modificare / correggere la risposta di Azzurra, perchéinvece di quella risposta poteva essere un’altra (eventualmente anche corretta!): si tratta di modificare il comportamentoche consiste nel dare risposte a caso. Ma prima ancora si tratta di formulare ipotesi interpretative su talecomportamento, e non sulla particolare risposta data. In altre parole la domanda cui interessa rispondere non è: Perchérisponde «Divido?» ? ma è: Perchè risponde a caso?

Un’ipotesi interpretativa è che il comportamento di Azzurra possa essere causato dalla convinzione che la matematicanon è controllabile, e quindi (convinzione derivata da quella) che l’unica strategia sensata è rispondere a caso, o evitaredi rispondere.D’altra parte la convinzione che la matematica non è controllabile può a sua volta derivare da convinzioni diverse:- da uno scarso senso di auto-efficacia (convinzione di ‘potercela fare’):“Alle elementari non ero una grossa cima in matematica, quindi in 3a elementare vidi che non ero brava e chiusi cosìla mia testa, dicendo che questa non faceva per me.” [Azzurra, 1a media]- dalla convinzione che la matematica è di per sé incontrollabile 22 Abbiamo visto dall’indagine sulle decisioni quanto questa convinzione sia effettivamente molto diffusa.

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“Vorrei proprio sapere i motivi, le cause, perché così mi sembrano tutte regole astratte e appiccicate qui e là.”[Giacomo, 1a media]

La convinzione che la matematica è una disciplina di per sé incontrollabile può essere l’ultimo anello di una catena diconvinzioni che caratterizzano la matematica come un insieme di prodotti scollegati tra loro, in quanto svuotati deiprocessi sottostanti. Un anello di questa catena può essere la convinzione:In matematica quello che conta sono i prodotti [e non i processi] .che ha delle conseguenze molto gravi in relazione all’errore: se il prodotto è sbagliato, lo studente percepirà comefallimentare l’intera prestazione (e d’altra parte viceversa è difficile convincere davanti ad un risultato che “torna” che ilprocedimento è sbagliato); ma soprattutto se il prodotto è riconosciuto come sbagliato, dopo la correzione vienesemplicemente sostituito col prodotto giusto.

È il caso (forse) di Martina. L’insegnante le ha corretto l’errore tipico:

a ba c

++

motivando con esempi, facendo vedere che il procedimento non vale con casi controllabili come7535

++

.

“Vedi? Non viene la stessa cosa... Non si può! ” Se l’attenzione di Martina è centrata sul prodotto, l’unica cosa che la

ragazza registrerà di questa spiegazione è la raccomandazione finale: “non si può”. Il prodotto sbagliato a ba c

++

sarà

semplicemente sostituito con quello giusto a ba c

++

.

E questo spiega cosa succederà quando Martina si troverà davanti a x ya y

++

!

Una conseguenza estremamente importante di questa concezione distorta della matematica è che secondo lo studentetutti i prodotti vanno ricordati, senza potersi appoggiare ai processi sottostanti.Ne segue un’altra convinzione, più precisamente legata al successo:In matematica ci vuole tanta memoria.

“Alle medie la matematica iniziò a essere un po’ più confusa specialmente per la geometria che con tutte le formule delperimetro, Area, circonferenza, diametro, ecc., imparate a memoria rendevano solo la vita più complicata. Forse cisono troppi teoremi e troppe cose per dei ragazzi delle medie che secondo me impararle a memoria è impossibile difattiogni volta che c’era un compito in classe tutti avevano scritto o sul banco o sulla mano le formuline del trapezio-parallelepipedo.” [Luca, 3a Istituto Tecnico]“Non è possibile ricordarsi tutte queste definizioni di limite! Ci vuole troppa memoria!” [Elisa, studentessa diBiologia]

Ma dato che è davvero impossibile ricordarsi TUTTO, ecco l’ultimo anello della nostra catena:La matematica è una disciplina incontrollabile.

Convinzioni che possono essere associate al sistema di convinzioni descritto sono le cosiddette attribuzioni di fallimentoa cause percepite come non controllabili: “Ho fatto male il compito perché era difficile, perché il professore è severo,perché sono sfortunato...”

In matematica quello checonta sono i prodotti

I prodotti vanno ricordati

In matematica ci vuole tantamemoria ��

Io non ho tutta quellamemoria

La matematica èincontrollabile

Il successo non è sotto ilmio controllo

Se fallisco non dipende dame

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In realtà naturalmente le cose non sono così schematiche: spesso la visione della matematica come disciplina di per séincontrollabile è accompagnata anche da uno scarso senso di auto-efficacia. Quello che varia è il ‘peso’ di ognuna diqueste convinzioni.La rimozione della percezione di incontrollabilità della matematica richiede quindi un cambiamento della concezionedella matematica o del senso di auto-efficacia. Ma poiché si tratta in ogni caso di convinzioni derivate, è importantepreliminarmente fare ipotesi su quali possono essere le convinzioni primarie che le generano. Nel caso preso in esamesopra, si tratterà di intervenire su una visione della matematica come insieme di prodotti sconnessi fra loro: è chiaro chequesto cambiamento dovrà passare attraverso un lavoro sulle conoscenze o comunque contestualizzato nello specificodella disciplina.

Altri comportamenti fallimentari che mi sembra si possano leggere come prodotto di sistemi di convinzioni sono quelliche D’Amore (v. in particolare 1996) raccoglie sotto il termine ‘matematichese’.

Ad esempio alla domanda:P3. Antonio studia fino alle 17 e Giovanni studia fino alle 18.Chi ha studiato per più tempo?ecco le risposte di Massimo e Massimiliano (2a media):

18:17=9:5 (poi barrato)18x9=172 minuti17x8,5=144,5 minutistudia di più Giovanni

17= Antonio studia fino18= Giovanni studia fino24-17=7 (quando ha iniziato antonio)24-18=6 (quando ha iniziato Giovanni)17-7=10 (quanto ha studiato Antonio)18-6=12 (quanto ha studiato Giovanni)Giovanni ha studiato per più tempo.

Il ‘buon senso’ tipico del ragionamento quotidiano (la razionalità del contesto reale quotidiano) viene censurato (perchéconsiderato non legittimo), a favore di comportamenti, processi, espressioni linguistiche che l’allievo considera leuniche legittime nel contesto matematico.

Il ruolo che abbiamo riconosciuto alle convinzioni nell’interpretazione dei comportamentifallimentari pone, a livello di intervento, il problema della loro rimozione.La rimozione di convinzioni riconosciute (o meglio: ipotizzate) come perdenti è uno dei punti piùdelicati: il cambiamento di convinzioni è un tema molto importante e aperto all’interno del dibattitosulle convinzioni, sia nella psicologia sociale che nella didattica della matematica. Nella didatticatale problema è affrontato più che altro nel contesto della formazione insegnanti23.Le strategie utilizzate nell’intervento di recupero agli studenti di Biologia sono un esempio ditentativo di rimozione di convinzioni perdenti. Quello che qui vorrei mettere in evidenza è chel’interazione più volte sottolineata fra aspetti cognitivi, linguistici, metacognitivi e affettivi, fa sì cheil cambiamento di convinzioni, e anche di emozioni e di atteggiamenti, può passare attraverso unlavoro centrato sulle conoscenze. Quello che cambia rispetto all’intervento tradizionale di recuperoè che non si lavora necessariamente sulle conoscenze o sulle abilità che l’allievo sembra in un certomomento non possedere, ma su quelle che possono essere associate alle convinzioni che siritengono causa dei suoi fallimenti: in altre parole la scelta delle conoscenze su cui lavorare dipendedalle convinzioni o atteggiamenti perdenti di cui si ipotizza la presenza.Un esempio chiarirà meglio la differenza. 23 E non credo che questo sia un caso. Credo piuttosto che dipenda dal fatto che per la maggior parte i ricercatori indidattica sono impegnati, in quanto insegnanti, nei corsi di formazione: la loro ‘pratica’ li porta quindi a scontrarsi conun problema estremamente significativo quale quello dell’ostacolo rappresentato da certe convinzioni dei loro allievi.

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4. Dalla teoria alla pratica 19

Un lavoro esplicito sul senso delle convenzioni (proprio convenzioni: non è un errore di battitura!),che per certi versi può essere considerato quasi un lusso rispetto alle conoscenze e abilità che siritengono importanti a livello scolastico, può essere invece necessario per rimuovere alcuneconvinzioni sulla matematica che la caratterizzano come disciplina di prodotti più che di processi,portando l’allievo ad un atteggiamento di fatalismo:“vorrei proprio sapere i motivi, le cause, perché così mi sembrano tutte regole astratte eappiccicate qui e là.’[Giacomo, 1a media]

Quindi davanti ad un’ipotesi di fatalismo come nel caso di Giacomo (o come quella emersa nelcorso al liceo pedagogico) l’intervento di tipo cognitivo c’è, ma è finalizzato a rimuovere ilfatalismo stesso, e non (come succede invece nell’intervento di tipo tradizionale) direttamente amodificare le risposte scorrette che l’allievo dà.Più in generale quello che contraddistingue il tipo di approccio che abbiamo descritto è il fatto diintervenire in modo mirato rispetto all’ipotesi di diagnosi fatta. Questo richiede un’utilizzazionedell’interazione fra aspetti cognitivi, metacognitivi, affettivi altrettanto mirata.

All’interno del corso di recupero a Biologia il lavoro sull’atteggiamento ‘negativo’ degli studenti nei confronti dellamatematica ha richiesto diagnosi più fini, e in corrispondenza a tali diagnosi percorsi differenziati e con direzioni varie.Ad esempio gli atteggiamenti nei confronti dei diversi tipi di esercizi a volte apparivano addirittura contrastanti:eccessiva sicurezza con conseguente automatismo (ad esempio negli studi di funzione) / insicurezza con conseguenterinuncia a provare (ad esempio nella geometria).Le convinzioni probabilmente responsabili di tali atteggiamenti sembravano essere diverse nei due casi: nel caso dellageometria la convinzione che i problemi sono tutti diversi l’uno dall’altro e quindi la convinzione di non poterlicontrollare; nel caso dello studio di funzioni la convinzione che i problemi sono tutti uguali e quindi basta seguiremeccanicamente una successione di istruzioni per ottenere un risultato corretto. Da questa ipotesi è seguito un lavorospecifico e diverso nei due casi: lavoro a livello cognitivo, certo, ma mirato alla rimozione delle convinzioni considerateresponsabili del fallimento.

Le osservazioni fin qui fatte sulle convinzioni mi portano a riprendere un punto già accennato nellapremessa, riguardo ai possibili modi diversi di descrivere lo stesso fenomeno. Dicevamo che laprospettiva dell’intervento diventa un elemento di valutazione delle ipotesi interpretative: se ci sonomolte teorie e molte parole per descrivere un solo fenomeno, l’efficacia di tali teorie e di tali paroleper descrivere non garantisce però un’analoga efficacia nel dare informazioni per dirigere unintervento teso a modificare quello stesso fenomeno. Questo è evidente nel caso delle convinzioni.La descrizione dei sistemi di convinzioni in termini di convinzioni centrali e periferiche rappresentainfatti un’ipotesi ragionevole per spiegare (per capire) certi fenomeni: se assumiamo che leconvinzioni centrali influenzano i processi decisionali di un individuo più di quelle periferiche, nesegue che per capire le cause di tali processi è importante riconoscere le convinzioni centrali diciascun soggetto. Ma se la comprensione delle cause di certi fenomeni è finalizzata ad uncambiamento, certe interpretazioni rischiano di rimanere piuttosto sterili. Nell’esempio delleconvinzioni la distinzione fra convinzioni centrali e periferiche non ci dà da sola sufficientiinformazioni per un intervento; quello che appare cruciale è invece un altro aspetto della struttura diorganizzazione dei sistemi di convinzioni: quello che distingue le convinzioni in primarie ederivate. Infatti finalizzare un intervento al cambiamento di una convinzione derivata, senzamodificare la convinzione primaria da cui questa deriva, appare piuttosto improduttivo. Questonaturalmente pone un problema legato al fatto che l’organizzazione delle convinzioni è personale(cioè la stessa convinzione può essere primaria per un soggetto, derivata per un altro, centrale peruno, periferica per un altro): il problema di come riconoscere l’organizzazione delle convinzioni(l’albero24 delle convinzioni), e non solo le convinzioni, di quel particolare allievo.

24 L’immagine mi è stata suggerita da Alessandra Mariotti, ed in effetti rende l’idea della complessità delle

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4. Dalla teoria alla pratica 20

La storia dell’allievo è importante, perché è questa storia che ci dice qualcosa su come si sonoformate le convinzioni, quindi su quali sono quelle primarie. D’altra parte per mettere in evidenzale convinzioni che maggiormente dirigono i processi risolutivi è importante osservare l’allievomentre risolve problemi.E in effetti gli strumenti di diagnosi utilizzati per il corso di recupero al liceo pedagogico (v. parte 2) erano di due tipi:una batteria di problemi con la richiesta di esplicitare i propri processi di pensiero e le proprie emozioni, ed il tema ‘Io ela matematica’. Le informazioni ottenute da questi due strumenti erano molto diverse, ma la loro integrazione eraassolutamente necessaria per pianificare un intervento mirato.

Negli esempi precedenti l’influenza dei sistemi di convinzioni si esercitava internamente ad uncontesto. In altri casi invece, le convinzioni (o meglio, i sistemi di convinzioni) sembrano avere unruolo cruciale nel dirigere verso la scelta di un contesto o l’altro, oltre che nel caratterizzare larazionalità tipica di tali contesti.

Questo succede spesso nell’attività di soluzione di problemi espressi attraverso un testo. Acomplicare le cose infatti in questo si inserisce anche il contesto evocato dal testo del problema25.

A volte può accadere che le informazioni richiamate da tale contesto spingano i processi risolutivi in una direzionediversa rispetto a quella considerata corretta o comunque attesa.

Questo era il caso, nella mia ricerca sul ruolo del contesto riportata nella parte 1, della versione A del problemautilizzato, che era proprio quella col contesto più ricco, ‘concreto’, famigliare:

Versione AOgni volta che va a trovare i nipotini Elisa e Matteo, nonna Adele porta un sacchetto di caramelle di frutta e ne offre aibambini, richiedendo però che essi prendano le caramelle senza guardare nel pacco.Oggi è arrivata con un sacchetto contenente 3 caramelle al gusto di arancia e 2 al gusto di limone.Se Matteo prende la caramella per primo, è più facile che gli capiti al gusto di arancia o dilimone?_______________________________________________Perché?_________________________________________________________

Alcune giustificazioni alle risposte scorrette date dai bambini erano del tipo:‘Perché è il suo gusto preferito.’‘Perché ha guardato.’‘Se Matteo prendeva quella al limone ne rimaneva una sola e invece è meglio prenderla all’arancia.’

Il seguente esempio invece è tratto da Pier Luigi Ferrari (2001). Si tratta di un dato a campioni di livello scolarevariabile, dalla II media alla II e alla V liceo:

Problema 2In una casa è stato rotto un vaso cinese. In quel momento si trovanoin casa in 4 ragazzi: Angelo, Bruna, Chiara eDaniele. Al ritorno, la padrona di casa vuol sapere chi ha rotto il vaso e interroga i 4, uno alla volta. Ecco ledichiarazioni di ciascuno:Angelo: ‘Non è stata Bruna’Bruna: ‘E’ stato un ragazzo’Chiara: ‘Non è stato Daniele’Daniele: ‘Non sono stato io’Sai scoprire chi è il colpevole? Attenzione, però: delle 4 testimonianze, 3 corrispondono alla verità mentre 1 è falsa.Chi ha rotto il vaso cinese? Spiega come hai fatto a trovare la risposta.

‘Di questi dati ci interessano soprattutto le strategie di interpretazione del testo.Nelle II medie, soltanto una minoranza (intorno al 20%) ha dato la risposta ‘Chiara’; poco meno del 50% ha risposto‘Angelo’, mentre quasi il 20% ha scelto ‘Daniele’.Gli alunni hanno mescolato strategie basate sull’interpretazione 8più o meno adeguata) di tutte le dichiarazioni con ramificazioni, di un ordine che però non è lineare, e rimanda anche a radici forse inaccessibili.25 E la complicazione è anche linguistica: perché lo stesso termine ‘contesto’ viene utilizzato per designare unacomponente del testo.

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l’applicazione di conoscenze su quel contesto, derivanti dall’esperienza personale e non dai dati testuali. Così chirisponde ‘Angelo’ utilizza soprattutto l’interpretazione apodittica delle 4 dichiarazioni, supposte tutte vere, motivandocon argomenti come ‘Angelo non è discolpato da nessuno’, che dipendono più dalle opinioni o dalle esperienze delsoggetto su contesti di quel tipo che dalle informazioni esplicitamente date. Anche qualcuno che risponde ‘Chiara’ usaargomenti basati sull’esperienza (‘Chiara non è nominata da nessuno perché vogliono coprirla’). La risposta‘Daniele’ è basata su considerazioni contestuali (‘Si discolpa, quindi probabilmente è stato lui.’) o anche sull’ipotesiche egli stia mentendo, senza considerare che in tal caso le affermazioni false sarebbero 2.In tutti i modelli di risposta molti alunni hanno utilizzato argomenti contenenti parole come ‘probabilmente’, ‘è facileche’.

Ancora di P.L. Ferrari (2001) il seguente esempio, proposto a matricole universitari, che dovevano tradurre in equazionile relazioni espresse nel problema senza risolverlo.

Problema 7Prima della partita Jim ha una quantità di dollari tripla rispetto a Tom. Durante la partita Jim ha perso metà dei suoidollari a vantaggio di Tom, e ora Tom ha una quantità di dollari che è 12 volte maggiore dei dollari che ora ha Jim.

‘Problemi di questo tipo mettono in luce svariati comportamenti. E’ molto diffusa la scelta di rappresentare ilproblema usando le equazioni J=3T, T=12J. Bloedy-Vinner (1996) chiama questi (ed altri) comportamenti‘analgebrici’ perché riguardano l’applicazione al linguaggio algebrico di proprietà tipiche del linguaggio quotidiano.In questo caso si tratta delle lettere J, T che rappresentano ‘i dollari che ha Jim [Tom]’ e che contengono indicali, cioèespressioni (come ‘i dollari che ora ha Jim’) che sono interpretabili soltanto previa conoscenza del contesto spazio-temporale in cui sono state prodotte. Il linguaggio quotidiano gode dell’aggiornamento automatico degli indicali: sedico ‘Questo è bello, questo no’ chi è presente capisce benissimo che ‘questo’ assume significati diversi nella stessafrase, con l’aiuto di gesti, ecc. Invece le variabili matematiche, che spesso sono usate per rappresentare quantitàdeterminate in un preciso contesto spazio-temporale , non si aggiornano automaticamente ma bisogna aggiornarle ‘amano’, sia usando variabili diverse quando è necessario (‘x è bello, y no’), sia modificando le espressioni (se adesso‘la mia età’ è n anni, fra dieci anni ‘la mia età’ è n+10 anni).’

Un altro problema proposto da Pier Luigi Ferrari a matricole universitarie è il seguente:m,n sono numeri interi.Si sa che m divide 7, e che n divide 7.E’ vero che il prodotto mn divide 7?

La maggior parte degli studenti risponde di sì, perché i divisori di 7 sono solo 7 e 1, e quindi m=7, n=1 o viceversa.Siccome le lettere sono diverse, non può essere che m e n siano uguali!

Un altro caso interessante è il seguente, dove più che di risposta scorretta si deve parlare di risposta diversa da quellaattesa:“Bisogna portare in una certa località 128 persone. Se un pullman porta 40 persone, quanti pullman serviranno26?”

Alcuni bambini rispondono: “Ci vogliono 3 pullman, e gli altri vanno a piedi o in taxi perché non conviene noleggiareun pullman per 4 persone!”

In tutti questi casi si possono interpretare i comportamenti fallimentari dei soggetti alla luce delconflitto fra due contesti: quello reale, o evocato dal testo, e quello matematico. O meglio, con la‘vittoria’ del contesto reale su quello matematico27.

Le possibilità a livello di intervento sono allora (non contrapposte l’una all’altra):‘Aggredire’ le convinzioni responsabili di questo scivolamento?Assecondarle, intervenendo sul contesto (il che può significare sul testo del problema) in modo daostacolare questo scivolamento?Non sono interventi alternativi, ma possono giocarsi in tempi diversi (sia come ordine, che come

26 E’ un problema analogo a quello classico riportato e analizzato da Schoenfeld (1987).27 A dir la verità nell’ultimo caso, quello dei pullman, il contesto reale vince su quello pseudo-reale più che su quellomatematico.

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durata): l’intervento sul contesto può precedere l’altro, estremamente più impegnativo.

In fondo è questo il senso delle mie ricerche presentate nella prima parte: la ricerca sul ruolo del contesto suggeriva chese voglio attivare nei bambini processi di pensiero probabilistico devo trovare contesti significativi per tale tipo dipensiero. Usando la terminologia di Cobb, si tratta di trovare un contesto ‘naturale’ per la razionalità che caratterizza ilpensiero probabilistico. D’altra parte la ricerca sul ruolo delle convinzioni suggeriva la necessità di modificare certeconvinzioni perdenti che i bambini hanno sui problemi, e che dirigono i loro processi risolutivi.

Voglio sottolineare, per non essere fraintesa, che il contesto reale non è di per sé una ‘sirena’pericolosa le cui tentazioni vanno a priori evitate. Anzi! I riferimenti possibili qui evidentementesarebbero molti: mi limito ad accennare ai campi d’esperienza di Paolo Boero. Lo scivolamento dicui parliamo è fallimentare perché d’ostacolo ai processi di pensiero che vogliamo attivare,fuorviante non rispetto alla risposta corretta, ma proprio ai processi di pensiero che la situazioneproposta voleva stimolare.E’ questo il caso della versione A. E la modifica sul contesto apportata nella versione C ha proprioil senso non di contrapporre i due contesti, sminuendo la forza di quello reale, ma di coordinarli. Sescivolamento c’è, ben venga! Perché il contesto reale in questo caso è in perfetta sintonia conl’altro.

Ma ci sono dei casi in cui questo tipo di intervento non va bene, perché cambia radicalmente ilproblema iniziale. In altre parole facilita la risposta corretta, ma modifica i processi di pensiero chevogliamo attivare.E’ quello che accadrebbe nel secondo problema di Pier Luigi Ferrari: potremmo agire sullaformulazione evitando i comportamenti fallimentari, ma questo non ci darebbe nessuna impressionedi successo. Perché quello che lì ci interessa attivare (forse) è proprio la capacità di scegliere fra idue contesti, e se eliminiamo l’influenza di uno dei due, quella che otteniamo è una vittoria di Pirro!

Mi sembra molto interessante a questo proposito la distinzione che riporta Ferrari fra proposizione eatto linguistico28:

‘Proposizioni e atti linguistici.Si definisce proposizione quell’aspetto del significato di una frase che consente di identificare ireferenti e stabilire se la frase è vera o falsa. Un atto linguistico, che riguarda anche le frasi nondichiarative (interiezioni, ordini, domande,...) include anche il fatto di produrre quella frase inquelle circostanze; oltre a una proposizione può quindi esprimere atteggiamenti, convinzioni,impegni, azioni del parlante (illocuzione) o modificare atteggiamenti, convinzioni, comportamentidel ricevente (perlocuzione).Esempi:‘Quel quadro non è bello, è un obbrobbrio.’Si nega la proposizione associata a ‘Quel quadro non è bello’‘Quel quadro non è bello, è un capolavoro’Si nega l’adeguatezza dell’atto linguistico associato a ‘Quel quadro è bello’, non la proposizione.

Nella pratica matematica c’è spesso ambiguità tra proposizioni e atti linguistici (P.L. Ferrari,2001)

L’ambiguità di cui parla Ferrari è un’ambiguità che mi sembra intrinseca alla necessità dicomunicare: è un’ambiguità che l’esperto sa gestire, al punto tale da non rilevarla nemmeno. Maper il non esperto è un elemento destabilizzante, perché dà informazioni contraddittorie su qual è ilcontesto cui aggrapparsi. D’altra parte se è un’ambiguità intrinseca è importante imparare a gestirla. 28 La distinzione è dovuta ad Austin, J.L.:1962, How to do things with words, Cambridge (Mass.): Harvard U.P.

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La stessa ambiguità si può riconoscere negli esempi in cui il contesto reale ‘ammicca’ in modo cosìevidente da far scivolare: ma in questi casi non è un’ambiguità intrinseca.

Per chiarire le cose faccio due esempi che nella letteratura sul contesto sono dei classici: il primo riguarda lecontestazioni alle prove di Piaget, il secondo il test di Wason e le modifiche di Legrenzi.

Consideriamo ad esempio una tipica prova di conservazione di Piaget:In una tipica prova di Piaget l’uguaglianza iniziale dell’attributo principale è combinata con una somiglianza percettiva:

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Il bambino viene interrogato sull’uguaglianza iniziale – e l’accetta.Avviene una trasformazione che distrugge la somiglianza percettiva, senza intaccare l’attributo principale:

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Il bambino viene di nuovo interrogato sull’attributo principale.Se il bambino risponde correttamente si dice che ‘conserva’ l’attributo principale. Altrimenti, si dice che ‘non

conserva’.

Alcune obiezioni ormai classiche mosse a questo tipo di procedura riguardano il fatto che l’attenzione del bambino nonè concentrata sul significato della domanda dello sperimentatore: il bambino dà un senso a questa domanda, senso che èfortemente influenzato dalle informazioni del contesto (il cambiamento avvenuto, il fatto che l’interlocutore è un adulto,lo stesso adulto che ha causato il cambiamento…). M. Donaldson (1979) porta esempi molto belli di studi in cui lasituazione sperimentale descritta viene alterata in certi aspetti contestuali. Questi studi evidenziano che se ilcambiamento del punto 3. viene provocato accidentalmente da un personaggio diverso dall’interlocutore adulto (adesempio un orsetto che scombina la disposizione iniziale dei gettoni) i risultati sono molto diversi: sono molto piùnumerosi i bambini che rispondono ‘correttamente’, cioè che dimostrano di conservare. In definitiva viene confermata inquesto modo l’ipotesi che molti bambini risolvono un problema che è diverso da quello posto dallo sperimentatore.

Potremmo anche dire che il contesto nel quale è dato il problema spinge l’interpretazione del bambino in una direzioneche ostacola la risposta corretta. La modifica del contesto (ottenuta ad esempio con l’intervento dell’orsetto) spingeinvece l’interpretazione del bambino in una direzione che è in accordo con la risposta corretta.Il contesto in questo secondo caso ‘aiuta’ la risposta corretta perché favorisce il processo di comprensione del problema.In fondo è esattamente quello che è accaduto con la versione C nella mia ricerca sul ruolo del contesto che ho riportatonella seconda parte.

Diverso invece a mio parere il classico esempio delle carte di Wason, e la versione modificata proposta da Legrenzi (v.ad esempio Legrenzi, 199829) .

Test delle carte (Wason, 1966):Ci sono 4 carte: in ogni carta da una parte c’è un numero, dall’altra una lettera.Le carte sono presentate così:

A R 4 7

Dobbiamo verificare se per queste 4 carte è vera la regola: “Se da una parte c’è una vocale, dall’altra c’è un numeropari.”Quali carte gireresti per controllare se questa regola è vera?Le risposte corrette a questo test, studiatissimo in tutto il mondo, sono dell’ordine del 10%. 29 Nel libro le problematiche del contesto sono affrontate per ‘dare un’idea del lavoro sperimentale che si è fattorecentemente per cominciare a capire su basi empiriche e scientifiche il funzionamento dei nostri processi cognitivi’,(p. VIII).

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Una modifica di tale test è stata proposta proprio da Legrenzi.Test delle buste (Legrenzi):Regola: “Se una busta è chiusa, deve essere affrancata con un francobollo da 750 £”Quali buste gireresti, fra le 4 riportate sotto, per controllare se la regola è soddisfatta?”

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750 £ 500£ APERTA CHIUSA

In questo caso le risposte corrette aumentano in modo significativo.Ma in questo caso a mio parere (a differenza di quello che succede con le modifiche della Donaldson) il contestosuggerisce la risposta corretta, e non la costruzione del problema (che può avere come prodotto la risposta corretta):aggiunge infatti alcune informazioni, trasferite dall’uso dell’implicazione nel linguaggio comune, che modificanostrutturalmente il compito di partenza.

4. Conclusioni, problemi aperti, direzioni futureCome sempre quando si conclude una ricerca, o piuttosto quando ci si ferma a fare il punto sulpercorso fatto, ci sono alcuni punti fermi che è possibile sottolineare, ma si evidenziano anchealcuni problemi non risolti, e si delineano problemi nuovi e quindi nuove direzioni di ricerca.

Punti fermi.Il tipo di approccio delineato, coerente con il costrutto teorico introdotto a partire dalla definizionedi difficoltà come fallimento ripetuto in problemi che l’allievo incontra nel contestodell’apprendimento della matematica, permette in definitiva di identificare alcuni punti fermi. Sedovessimo sintetizzare quello più importante, diremmo che riguarda l’importanza di tener presentela diversità degli allievi: dietro un fallimento ci può essere una varietà di situazioni, che richiedonointerventi diversi, mirati.In particolare gli studi citati e le considerazioni fatte in precedenza, contribuendo a mettere in crisil’ipotesi che il fallimento sia dovuto esclusivamente a mancanza di conoscenze specifiche nelcampo della matematica, sottolineano l'opportunità di un'estrema cautela, da parte dell'insegnantema anche del ricercatore, nell'interpretare i comportamenti fallimentari degli allievi come segnaledi carenze di quel tipo. Ma in generale ogni interpretazione riguardo alla razionalità deicomportamenti messi in atto è innanzitutto un'interpretazione sugli obiettivi che il soggetto si èposto, anche se tale interpretazione troppo spesso rimane implicita o viene data per scontata anchenella ricerca, oltre che nell'insegnamento30. In definitiva c’è un baratro teoricamente incolmabile fraquello che l’allievo fa e quello che sa fare.

30 Questo fatto ha implicazioni importanti anche sulla comunicazione ricercatore / insegnante.Può accadere in particolare che gli obbiettivi assunti implicitamente da ricercatore e insegnante non coincidano(esattamente come può accadere che non coincidano obiettivi di allievo e insegnante). Questo può portare ad avere unapercezione diversa di presenza di difficoltà, oppure può accadere che la difficoltà eventualmente riconosciuta daentrambi sia però associata a fallimenti nel raggiungere obbiettivi diversi. Per questo ritengo sia essenziale anche nellaricerca tentare di esplicitare ciò che di solito si assume come condiviso e si lascia quindi implicito: in particolare i criteriin base ai quali valutiamo fallimentari i comportamenti degli allievi, il che rimanda, come ho osservato, agli obiettivi inbase ai quali si diagnostica un fallimento.

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Un altro punto fermo riguarda il ruolo dell’insegnante, non solo nell’intervento di recupero eprevenzione delle difficoltà, ma anche, purtroppo, nella nascita delle difficoltà stesse.Le convinzioni perdenti, o epistemologicamente scorrette, infatti, non nascono con l’allievo: sono ilfrutto dell’interpretazione dell’esperienza, ed in tale esperienza gioca un ruolo cruciale propriol’insegnante. Così la convinzione che la matematica è fatta di prodotti più che di processi è spessoil risultato di un insegnamento che privilegia prodotti a processi, in cui si fanno memorizzare molteformule (ad esempio in trigonometria) e più in generale si frammenta un fenomeno in tanti casiparticolari (ognuno con il suo nome!) senza far cogliere la logica sottostante, in cui si evitanodomande difficili, in cui si privilegiano esercizi a problemi.Più in generale la visione della matematica come disciplina incontrollabile è alimentata da alcunescelte e pratiche didattiche. L’insegnante appare come unico depositario delle “regole del gioco”:può dire “Dal disegno si vede che...” o ancora “E’ evidente che...”, ma le stesse frasi pronunciatedagli studenti vengono censurate. Ma allora certe cose si possono dire, si possono fare, oppure no?E quando? Ma soprattutto come si può riconoscere quando è lecito e quando no?31 L’insegnante ingenere non lo esplicita, e gli studenti si convincono semplicemente che certe cose le può fare solol’insegnante.D’altra parte lo scarso senso di auto-efficacia è spesso il risultato di un insegnamento pocoincoraggiante, di processi di valutazione in cui l’insegnante valuta l’allievo piuttosto che laprestazione (‘Questo ragazzo è da 4’).E’ chiaro dalle osservazioni fatte che il lavoro di prevenzione dell’insegnante può prescindere daifallimenti dei singoli allievi, ed avere una prospettiva autonoma più ampia: la possibilità diprevenire le difficoltà infatti passa anche attraverso scelte didattiche mirate ad evitare la costruzionedi convinzioni perdenti.Ma oltre a poter incidere sulla formazione delle convinzioni degli allievi, l’insegnante può far moltoper esplicitare e rimuovere convinzioni pre-esistenti. E soprattutto l’insegnante può monitorarecontinuamente l’interpretazione che gli allievi danno dell’esperienza con la matematica che stannovivendo in classe, in modo da poter conoscere eventuali convinzioni perdenti, e metterle indiscussione, mano a mano che emergono. D’altra parte anche il lavoro di recupero vacontinuamente monitorato, e le interpretazioni avanzate dall’insegnante vanno viste come ipotesi dilavoro, suscettibili di cambiamenti anche radicali: ne discende la necessità della collaborazionecontinua e attiva dell’allievo al proprio percorso formativo. Tale collaborazione non solo rendepossibile un intervento mirato di recupero, e prima ancora un lavoro di prevenzione efficace:sdrammatizza anche eventuali fallimenti dell’insegnante. Questo sottolinea l’importanza di altriaspetti, che possono diventare oggetto esplicito di un lavoro di prevenzione ad ampio respiro:perché la collaborazione allievo / insegnante sia possibile bisogna avere canali di comunicazioneche permettano all’allievo di esprimere senza censura i propri pensieri, ma anche i propri sentimentie bisogni, e d’altra parte perché tale comunicazione sia produttiva è importante che l’allievo siaabituato a riflettere sui propri processi di pensiero, e a descriverli. L’importanza degli aspettimetacognitivi e affettivi torna quindi anche a incorniciare tutto l’intervento di prevenzione erecupero.La teoria proposta ci ha permesso anche di fare maggiore chiarezza su un fenomeno che primaappariva più confuso: i possibili motivi dell’insuccesso così frequente di interventi di recuperobasati solo sulle conoscenze.

31 Questa domanda apparentemente banale apre a mio parere una serie di riflessioni sull’insegnamento della matematica:molta della conoscenza che vogliamo far acquisire agli studenti (ad esempio quella che permette di riconoscere quandoil rigore è trascurabile) è “tacita” (cfr. Polanyi, 1990). Il modo naturale per trasmettere questo tipo di conoscenza pareessere l’apprendistato, che tradizionalmente viene utilizzato per realizzare lo sviluppo della razionalità pratica, ma cheha anche altre potenzialità: Pellerey (1996) ritiene ad esempio che anche “un’aquisizione valida e feconda delle altreforme di razionalità esiga modelli, maestri e tirocinii, apprendistato appunto.” (pag.716).

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E d’altra parte le considerazioni fatte fin qui non entrano in realtà nel merito del cambiamento deicomportamenti fallimentari, ma piuttosto del cambiamento della percezione dei comportamentifallimentari. Abbiamo infatti messo in evidenza come la definizione data di difficoltà permette dievidenziare alcuni possibili ostacoli al riconoscimento dei comportamenti fallimentari da parte siadegli allievi che dell’insegnante, e suggerisce alcune strategie per superare tali ostacoli. In fondo gliinterventi di recupero illustrati nella seconda parte erano proprio centrati su questi aspetti. Ilsuccesso di tali interventi pare suggerire quindi che una volta acquisita consapevolezza deicomportamenti fallimentari, la modifica di tali comportamenti può passare attraverso un interventoquale quello ‘tradizionale’ centrato esclusivamente sulle conoscenze, o addirittura può rendere taleintervento non necessario. Questo naturalmente suggerisce un’ipotesi di ricerca più fine, e aprequindi nuove direzioni di ricerca.Ma altri problemi interni alla ricerca presentata rimangono invece da precisare o da affrontare.

Problemi da approfondire o da affrontare.- La definizione stessa di difficoltà data, che pure in prima approssimazione sembra in grado didirigere l’osservazione su fenomeni significativi, e di suggerire strategie per affrontarli, adun’analisi approfondita presenta aspetti da definire e da chiarire ulteriormente. Il richiamo ad unfallimento ‘ripetuto’, che pure nasce dall’esigenza di non considerare il fallimento un’esperienza daevitare a priori, e di fare un ‘ritratto’ dell’allievo in difficoltà corrispondente all’esperienza diinsegnante, trascina alcune questioni che vanno esplicitate e sistemate.- Un aspetto rimasto per ora in ombra ma da affrontare, per il suo rilievo non solo per la teoria maanche per la pratica, è l’evoluzione nel tempo di convinzioni, emozioni, atteggiamenti, ed il ruoloche ha in questa evoluzione lo spazio interpersonale allievo/allievo, ma soprattuttoallievo/insegnante.- All’interno del quadro teorico va approfondito il collegamento fra affettività e cognizione, erimane da sviluppare il ruolo della specificità dei contenuti matematici rispetto alla problematica deifattori affettivi.- Infine non è stato affrontato il confronto con teorie e costrutti che pure sono vicini allaproblematica delle difficoltà: penso in particolare ai contributi della scuola francese sulla teoriadelle situazioni e sugli ostacoli.

Problemi nuovi.D’altra parte, una teoria non si limita a dare strumenti per affrontare e risolvere problemi. Fornisceanche nuovi strumenti per osservare, che generano a loro volta nuovi problemi:‘(…) theory is itself a potential source of further information and discoveries. It is in this way asource of new hypotheses and hitherto unasked questions; it identifies critical areas for furtherinvestigation; it discloses gaps in our knowledge; and enables a researcher to postulate theexistence of previously unknown phenomena.’ [Cohen & Manion,p. 11]

Vediamo alcuni di questi problemi.

1. Il ruolo cruciale che abbiamo riconosciuto alle convinzioni nella fase interpretativa pone ilproblema di come modificarle, ma ancora prima di come riconoscerle.Si pone quindi la necessità di elaborare strumenti di osservazione adeguati. In particolare sononecessari strumenti che permettano di ricostruire la ‘storia’ dell’allievo. Ancora una volta uso leparole di Groddeck per sottolineare la difficoltà di questa impresa:‘Non deve credere che io abbia trovato bell’e fatto questo romanzo nell’anima della mia paziente,così come Gliel’ho presentato. Era frantumato in mille pezzetti, nascosti nelle dita, nel naso, neivisceri e nell’addome. Noi l’abbiamo messo insieme, e molte cose non le abbiamo trovate o leabbiamo trascurate, talora intenzionalmente, più spesso per stupidità. E devo confessare, per

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concludere, di aver lasciato via tutto ciò che risultava oscuro, e che era, quindi, l’essenziale.’[Groddeck, Il libro dell’Es, p. 198]

2. Ci sembra importante approfondire le dinamiche fra contesti / obiettivi / convinzioni, in fondosolo accennate nel lavoro di Cobb del 1986, e qui riprese.Ma ci sembra interessante anche da esplorare il legame di contesti / obiettivi / convinzioni con i tipidi razionalità (v. Boero, 1999), qui solo suggeriti.Ci sembra di poter ipotizzare che molti fenomeni apparentemente diversi si possono unificare se sivedono in termini di differenti razionalità utilizzate a seconda dei contesti, e di gestione di talirazionalità. Se chiamiamo razionalità esterna quella tipica del contesto della vita di tutti i giorni (ocomunque, quella non tipica della matematica) e razionalità interna quella deduttiva, tipica delragionamento matematico32, possiamo interpretare la maggior parte dei problemi evidenziati daglistudenti nell’apprendimento della matematica in termini di gestione di tale razionalità.Più precisamente:a) A volte gli studenti non sembrano consapevoli del fatto che la matematica è caratterizzata da unaparticolare razionalità, e usano la razionalità esterna nei problemi di matematica. O comunquefalliscono nel riconoscere quando si deve usare una e quando l’altra.Esempi: le dimostrazioni per induzione fatte con un certo numero di controlli; processi di controlloesterni quali risultati ‘troppo brutti’, ecc. ma anche l’uso del linguaggio matematico che ricalcaquello del linguaggio naturale, come negli esempi che abbiamo visto di P.L. Ferrari.b) A volte pur sembrando consapevoli del fatto che la razionalità interna è diversa da quella esternafalliscono nell’usare quella interna. Questo può accadere per diversi motivi:b1) Perché usano una razionalità interna che è una pseudo-razionalità matematica.Questa pseudo-razionalità si esprime nella censura dei modi di ragionare considerati legittimi nelcontesto della vita quotidiana (v. il lavoro di Healy e Hoyles del 2000 su concetto di dimostrazione)e nell’adozione di un linguaggio pseudo-matematico, quale quello che D’Amore (v. in particolare1996) chiama ‘matematichese’.b2) Perché abdicano alla razionalità, essendo convinti di non possedere quella ‘interna’.Azzurra (la ragazzina che risponde ‘Divido?’) sembra rientrare in questo caso. E forse anche glistudi di Nunes, Schliemann, Carraher (v. ad esempio 1993) sul mancato trasferimento dalla ‘strada’alla ‘scuola’ di conoscenze e abilità matematiche.c) A volte evitano di usare la razionalità esterna nei problemi ‘in grande’ (oppure hanno carenze alivello di tale razionalità).Esempi di questo tipo si riscontrano nella gestione delle prove scritte.

Quello che in molte situazioni di fallimento sembra mancare è:- non solo la conoscenza della razionalità interna - problema tipicamente affrontato dalla ricerca

in didattica (v. studi sulla dimostrazione, o sul linguaggio algebrico), ma anche:

32 Ma è davvero condivisa fra i matematici questa convinzione? In un’intervista pubblicata sul Bollettino U.M.I.dell’agosto 2000, Giovanni Prodi, parlando dei risultati conseguiti in matematica negli ultimi decenni che più lo hannocolpito, dice: ‘Io non esiterei a rispondere: «I teoremi probabilistici di primalità». In queste teorie la probabilitàinterviene nel cuore del ragionamento; mi sembra molto interessante che si possa ottenere un abbassamento dellacomplessità pagandolo con l’introduzione di un margine di incertezza.’ (p. 152)A questo proposito Pietro Di Martino mi suggerisce una distinzione fra contesti che mi sembra interessante. Oltre alladimensione ‘verticale’ che fa distinguere fra contesto matematico e contesto reale, c’è anche una dimensione‘orizzontale’. Ad esempio la razionalità del quotidiano non è unica, ed in particolare è fortemente influenzata da fattoridi tipo sociale, culturale, ecc. Ma nello stesso modo non è unica quella matematica. In quest’ultimo caso però, adifferenza del precedente, queste varie sfumature sono permesse solo agli esperti: gli ‘altri’ sono confinati alla logicadeduttiva.Alessandra Mariotti invece mi suggerisce di distinguere fra matematica come disciplina scolastica e matematica comedisciplina scientifica.

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4. Dalla teoria alla pratica 28

- la consapevolezza di queste due differenti razionalità- l’abilità nel gestirle (cioè una meta-razionalità)problemi, questi ultimi, che mi sembrano invece sottovalutati dalla ricerca in didattica.

Ci sembra che il ruolo delle convinzioni sia centrale a più livelli:- nel ritenere che la matematica sia caratterizzata da una razionalità specifica- (in tal caso) nel caratterizzare tale razionalità- nel ritenersi in grado di conoscere / utilizzare tale razionalità- nel riconoscere quando utilizzare tale (o altre) razionalità.In altre parole le convinzioni sembrano influenzare i processi risolutivi dei problemi all’interno diun contesto specifico, ma anche – a monte – i processi decisionali che dirigono verso un contestoinvece che un altro, e la possibilità di investire risorse in un problema.D’altra parte la scelta di un obiettivo ha una forte dimensione emozionale.Per questi motivi riteniamo che un quadro teorico estremamente promettente, in quantopermetterebbe forse di contenere e spiegare tutti questi fenomeni, è proprio quello dell’affettività, inparticolare delle convinzioni (più precisamente dell’influenza delle convinzioni sui processidecisionali), e delle emozioni (più precisamente della loro influenza sulla scelta dell’obiettivo esulla ‘forza’ con cui è tenuta una convinzione).

3. Una questione indubbiamente trascurata in questo Seminario è quella del linguaggio. Si puòtrattare il linguaggio ‘come’ altri fattori (come risulterebbe nel progetto precedente centrato sullagestione dei vari tipi di razionalità), oppure il linguaggio ha un ruolo talmente specifico da renderetale progetto poco praticabile?

4. Anche il costrutto teorico di atteggiamento merita ulteriori analisi.A livello di teoria infatti l’atteggiamento pare essere un costrutto potente di sintesi fra convinzionied emozioni.D’altra parte tale costrutto presenta alcune caratteristiche cruciali anche per la pratica:- è un tratto dell’individuo: sposta l’attenzione dalle difficoltà a chi ha difficoltà, o più in generale

dall’apprendimento a chi apprende- è caratterizzato da tempi lunghi (nel formarsi e nel cambiare), tipici della pratica più che della

teoria- anche per essere riconosciuto richiede strumenti e tempi che privilegiano l’osservazione ‘lunga’

in classe.

5. Le riflessioni fatte sul ruolo delle abilità metacognitive e dell’affettività nei processi dirisoluzione di problemi in grande e in piccolo, e la caratterizzazione dell’insegnante come agentedecisionale, portano in modo naturale a studiare le abilità metacognitive degli insegnanti, ma anchele loro convinzioni e le loro emozioni (cfr. Malara e Zan, in stampa). In particolare in relazione alproblema delle difficoltà alcune convinzioni sembrano meritare particolare attenzione, come leconvinzioni dell’insegnante sulla possibilità di interrompere il fallimento33.

33 Un’indagine condotta da I. Baldini e S. Santini (1997). sulle teorie del successo degli insegnanti di matematica con 30insegnanti di scuola superiore ha messo in evidenza che- 27 insegnanti su 30 ritengono che l’impegno sia necessario e modificabile;- 10 insegnanti su 30 ritengono che l’intelligenza sia necessaria e non modificabile;- più in generale 20 insegnanti su 30 ritengono che almeno una caratteristica essenziale per il successo sia non

modificabile.E’ interessante osservare che molti insegnanti sottolineano con commenti espliciti la ambiguità della parola“intelligenza”: nonostante questo, l’intelligenza è considerata essenziale anche dalla maggior parte di essi!

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4. Dalla teoria alla pratica 29

6. Inoltre, la definizione di difficoltà proposta ha una naturale estensione all’insegnante: sepensiamo all’allievo in difficoltà come ad un allievo che fallisce ripetutamente nei problemi cheincontra nel contesto dell’apprendimento della matematica, possiamo pensare all’insegnante indifficoltà come all’insegnante che fallisce ripetutamente nei problemi che incontra nel contestodell’insegnamento della matematica. Si apre allora uno scenario di possibili osservazioni /interpretazioni / interventi del tutto simile a quello prefigurato per l’allievo. In particolarel’atteggiamento di fatalismo, che abbiamo ipotizzato come causa / effetto frequente per le difficoltàdi allievi, potrebbe essere un fenomeno importante da analizzare anche nel caso degli insegnanti,tanto da far pensare ad una specie di dualità:

Apprendimentodella matematica

Insegnamentodella matematica

Allievi InsegnantiL’atteggiamento di molti allievi nei confrontidell’apprendimento della matematica ècaratterizzato da:

fatalismo

L’atteggiamento di molti insegnanti neiconfronti dell’insegnamento della matematica ècaratterizzato da:

fatalismo

Convinzioni sull’apprendimento dellamatematica:

- percezione di incontrollabilità- attribuzioni di fallimento esterne (ho fatto

male il compito perché era difficile, perchél’insegnante…)

Convinzioni sull’insegnamento dellamatematica:- percezione di incontrollabilità- attribuzioni di fallimento esterne (non

riesco a insegnare perché ci sono troppialunni in classe, perché il preside, lefamiglie, …)

Le emozioni associate all’apprendimento dellamatematica sono:

- frustrazione- rabbia- ansia

Le emozioni associate all’insegnamento dellamatematica sono:

- frustrazione- rabbia- ansia

Il comportamento tipico è:- rinuncia a rispondere- risposte a caso

Il comportamento tipico è:- rinuncia ad intervenire- interventi non mirati

7. Infine un problema completamente aperto su cui credo importante cominciare ad interrogarsi èquello dei valori.Le decisioni prese da un soggetto quando risolve un problema appaiono influenzate anche dai valoriche ha. Ma addirittura gli obiettivi subiscono tale influenza, tanto che a volte la mancatacondivisione di un obiettivo suggerisce una mancata condivisione di valori. Quali sono allora ivalori che entrano in gioco nel processo di insegnamento / apprendimento? E a monte: Cosa sono ivalori? In particolare qual è il rapporto fra valori, convinzioni, emozioni?E se i valori sono importanti nei processi decisionali di un soggetto, e ancora prima nell’individuareobiettivi, qual è il loro ruolo nel processo di ricerca? Ci sono valori condivisi all’interno dellacomunità dei ricercatori in didattica? E in caso affermativo, quali sono questi valori?

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4. Dalla teoria alla pratica 30

“I wish to make the point that the choice of perspective, and of method, represents a choice ofvalues. Those choices say what the researcher considers important, what needs to be explained, andwhat does not.” (Schoenfeld34, 1994, p.704)

34 Ma ho ‘copiato’ la citazione di Schoenfeld dalle riflessioni con cui Pietro Di Martino ha aperto la sua relazione al‘Seminario Junior’ di maggio. E allora riporto integralmente la sua introduzione: ‘In questo seminario, oltre a presentare gli argomenti di cui mi occupo e le problematiche ad essi associate, vorreitentare di esplicitare le convinzioni, le assunzioni e gli obbiettivi che mi hanno portato a scegliere di studiare taliargomenti. L’esplicitazione di quelli che potremmo chiamare (o che dovrebbero essere) i ‘motori della ricerca’ èinfatti, secondo me, essenziale affinchè possa esistere un confronto approfondito tra ricercatori: “Because researchquestions, goals, and underlying assumptions are usually learned implicitly when people are socialized into aprofession, they can be difficult even for insider to explain and compare. (…) As long as discussion betweenresearchers trained in different traditions take place only at the level of methods, however, little communication ispossible because the questions, goals, and assumptions that constitute methodological choices are not made explicit.”(M.A.Eisenhart, 1988, p.102)Più recentemente, al plenary panel del PME 2000, Boero sottolinea “the importance of (and the difficulty ofcontrolling) ideological assumptions”; è evidente che se tali assunzioni sono rese esplicite è più facile controllarle.Tra l’altro queste assunzioni si collegano a ciò che studio, perché sono fortemente convinto che dipendano molto dafattori affettivi quali le inclinazioni, le convinzioni e i valori che il ricercatore ha, e gli obbiettivi che si pone (quindil’influenza dei fattori affettivi non solo nell’attività matematica, come cercherò di mostrare dopo, ma anche nellaricerca in didattica della matematica): “I wish to make the point that the choice of perspective, and of method,represents a choice of values. Those choices say what the researcher considers important, what needs to be explained,and what does not.” (Schoenfeld, 1994, p.704)’

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