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Attività umana, beni, aziende, produzione e consumo. 1) L’attività umana e l’economia
a) Il poeta per poetare ha bisogno di mangiare, ed in più di carta e penna ne fa uso esagerato.
(Produce poesia e consuma cibo, carta e inchiostro).
Qualsiasi attività umana, anche la più nobile ed
elevata, si concretizza inevitabilmente in attività
di produzione e di consumo. Senza sufficiente
cibo, senza carta e senza inchiostro, Dante e
Shakespeare non avrebbero prodotto le loro
opere, lasciando di sé solo le loro ossa.
Poetessa satolla e munita di carta e penna Ciò che, senza cibo, carta e penna resterebbe del poeta
b) I soldi non si mangiano; i soldi non riparano dal freddo; i soldi non tolgono il mal di denti (né per via
orale, né per via rettale); i soldi non profumano le ascelle; i soldi non riparano i rubinetti ecc. ecc. Gli
spaghetti si mangiano; un piumino ci tiene al caldo; un analgesico lenisce (= attenua) il mal di denti; un
deodorante ascellare agevola la socializzazione; il servizio dell’idraulico ripara il rubinetto ecc. ecc.
Non sono i soldi a soddisfare le esigenze
umane, bensì i beni. I soldi servono per
facilitare gli scambi, cioè gli acquisti e le
vendite; servono a rendere più efficiente
l’attività di produzione e di consumo, perché
senza scambi ognuno dovrebbe prodursi da sé
gli spaghetti, i piumini, i farmaci, i deodoranti
e la riparazione del rubinetto; i soldi rendono
perciò più fluida, più efficiente l’attività
umana, ma in sé servono a niente. L’inutilità dei soldi L’utilità dei beni
c) I beni (gli spaghetti, i piumini, i farmaci, i deodoranti, i servizi di riparazione ecc.) non esistono in natura, e
allora per ottenerli l’uomo la deve modificare.
La natura è mamma buona solo di quegli
stronzetti dei puffi, ma è matrigna carogna
di noi umani: la lasciassimo fare
moriremmo tutti presto di fame e malattie
varie. I beni, non esistendo in natura, li
dobbiamo produrre noi umani
modificando l’ambiente.
La Natura nella fantasia La Natura nella realtà
d) Per produrre i beni servono il lavoro dell’uomo e altri beni, non i soldi: i soldi non avvitano i bulloni,
non piegano le lamiere, non cementano i mattoni, non fanno andare i motori ecc.
A produrre i beni sono il lavoro umano e
il capitale, cioè altri beni come chiavi
inglesi, presse, edifici, robot, computer,
cemento, materie prime ecc.
I soldi non producono i beni Il lavoro e il capitale producono i beni
2
La pagina precedente è fondamentale; devi perciò comprenderla e assimilarla profondamente.
Se pensi di cavartela leggendola in modo superficiale o anche imparandola a memoria, sei
completamente fuori strada. Il mio compito è farti capire le basi dell’economia e anche del
funzionamento di un’azienda, e i cinque anni (con due ore nel biennio e cinque o sei settimanali in 3a, 4
a e 5
a)
saranno sufficienti solo se ti impegnerai a fondo. Se la comprensione dell’economia (intendendo per
economia lo studio di come una società decide che cosa produrre, come e per chi (1)) non è facile, ciò è dovuto anche
al fatto che quasi tutti (alla televisione, sui giornali, a scuola, in famiglia, al bar ecc.) ne parlano credendo di dire
cose sensate e non si accorgono, invece, di sparare enormi sciocchezze. Chi non ha alle spalle anni e
anni di studi medici non si metterebbe mai a discutere di quali sono i sistemi migliori per normalizzare il
battito cardiaco in caso di fibrillazione atriale; invece un po’ tutti, anche senza aver studiato economia,
si sentono di dire la loro, ad esempio, su cosa si dovrebbe fare per ridurre la disoccupazione, e così chi
di economia ne capisce è costretto a sentire, magari pronunciate da qualche “esperto” alla televisione o
da qualche politico in parlamento, un sacco di idiozie megagalattiche del tipo che “bisogna mandare in
pensione prima i lavoratori per fare posto ai disoccupati”.
Sei in macchina, accendi la radio e ti capita di sintonizzarti su un canale nel momento in cui la
conduttrice chiede ai due “esperti”, ospiti della trasmissione: “ … ma allora, in conclusione, quali sono
le cause dell’insonnia e quali i rimedi che si possono suggerire?” Il primo esperto risponde: “Il fatto
che i disturbi del sonno siano sempre più diffusi fra la nostra popolazione è principalmente dovuto alla
recente accelerazione del moto rotatorio del sole intorno alla terra che causa significative alterazioni
nel metabolismo umano. Il rimedio all’insonnia è, quindi, utilizzare orologi a velocità variabile,
sincronizzati con il mutante movimento del sole”; interviene il secondo ospite: “Ciò che ha detto il
prof. Mentechiara è innegabile, e una dimostrazione è che il problema dell’insonnia non si è aggravato
fra le popolazioni dell’Oceania, proprio per effetto del fatto che all’accelerazione del moto solare
nell’emisfero boreale si contrappone un rallentamento del sole nell’emisfero australe”.
Arrivi a casa, convinto di aver ascoltato una trasmissione comica non particolarmente divertente;
sali le scale, entri in cucina dove, con la televisione accesa, ti accoglie tua madre: “Hai sentito cosa
hanno deciso all’ONU? L’ha proposto Obama, ma sono stati tutti d’accordo, anche la Cina: fra due
settimane, quando la luna sarà piena, verrà bloccata nel cielo così che tutte le notti dell’anno saranno
rischiarate dalla sua luce e si potrà risparmiare il 53,72% dell’energia elettrica consumata per
illuminare le strade del mondo. Non ti sembra una grande idea?”
Stupefatto, esci di casa e ti accorgi che tutti ormai usano orologi a velocità variabile causando
casini incredibili e si aspettano che la prossima luna rimarrà piena tutte le notti. Pizzicotto di verifica:
non stai sognando. A questo punto, consapevole di aver seguito le lezioni di geografia astronomica alle
medie con scarsa attenzione, per scrupolo vai su Wikipedia e poi anche in biblioteca a consultare un
testo di astronomia; è come pensavi, sono tutti pazzi e sei tu ad aver ragione: è la terra che gira intorno
al sole, è la rotazione della terra sul suo asse a determinare il giorno e la notte e fermare la luna non è
possibile.
La situazione descritta non è, ovviamente, immaginabile che si verifichi; ma lo stato d’animo che
vivresti se si realizzasse è analogo a quello di chi ha studiato (e capito) l’economia e vive nel mondo
reale: ascolta corbellerie in tutte le trasmissioni, legge idiozie sui giornali, frequenta persone la gran
parte delle quale crede a quelle sciocchezze e vede i governi di un po’ tutto il mondo prendere decisioni
sbagliate.
Ma perché l’economista è condannato a vivere questa esperienza che, invece, all’astronomo o al
medico viene risparmiata? Perché le idee e le teorie astronomiche così come la scienza medica nulla
hanno a che fare, almeno da qualche secolo, con il potere di governo, mentre le idee e le teorie
economiche hanno ancora, e avranno sempre, molta influenza sul potere politico.
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E’ naturale che un tempo l’idea errata che il sole girasse intorno alla terra fosse diffusa: le
conoscenze scientifiche erano pressoché nulle e l’apparire dell’alba a Est e del tramonto a Ovest portava
a quella convinzione. Se oggi tutti sanno che è la terra a girare intorno al sole e che è il suo girare su
sé stessa ad alternare il giorno e la notte, è perché gli astronomi, grazie a osservazioni e riflessioni più
attente, lo hanno capito molti secoli fa, e successivamente questa conoscenza si è potuta diffondere
anche fra i non esperti in quanto nessuno, almeno negli ultimi secoli, aveva un qualche interesse che la
gente continuasse a credere nell’idea sbagliata.
Per l’economia le cose funzionano diversamente dall’astronomia e dalla medicina: alcune idee
antiche continuano purtroppo a dominare e a essere comunemente ritenute corrette nonostante da tempo
ne sia stata dimostrata la falsità. Ed è così perché in tanti, e principalmente chi ha il potere di governo,
hanno interesse che le idee corrette non si diffondano. Nei cinque anni in cui ci frequenteremo e
parleremo di economia tenterò, fra le altre cose, di dare un piccolo contributo a modificare questo stato
di cose.
(1) La “Economia”, intesa come “scienza economica”, è stata definita in tanti modi; la definizione riportata è di Stanley Fischer
e Rudiger Dornbusch (“Economics”, pag. 3, McGraw-Hill 1983)
2) I “beni” e i “beni economici”.
Un bene è qualsiasi cosa, materiale o immateriale, che soddisfa un bisogno.
Quando l’uso di un bene da parte di qualcuno non limita la possibilità di consumare lo
stesso bene da parte di altri, allora quel bene non è un “bene economico”.
Così, ad esempio, non sono beni economici la luce del sole o l’aria: entrambi certamente sono
“beni”, in quanto soddisfano esigenze umane; ma dal momento che quando voi prendete il sole e
respirate l’aria non limitate le mie possibilità di fare altrettanto, allora significa che la luce del sole e
l’aria sono beni sovrabbondanti rispetto alle esigenze, non sono cioè scarsi, e quindi non sono beni
economici.
Quando un bene è, invece, scarso rispetto ai desideri degli uomini, allora quello è un “bene
economico”.
Attenzione, quindi: se parlo di “beni economici” non alludo a beni acquistabili a poco prezzo,
ma a qualsiasi bene che non sia disponibile per tutti in modo gratuito, sia che costi molto come una
Ferrari sia che costi pochissimo come uno spillo.
Così, sono beni economici, ad esempio, un’auto, una casa, ma anche un ponte, una visita
medica, una scatola di abbracci (del Mulino Bianco), un trattore, un posto al concerto di Ligabue, un
muletto, una telefonata al cellulare, un taglio di capelli, una vacanza a Milano Marittima ecc.
I beni economici (ma d’ora in poi, per comodità, li chiamerò semplicemente “beni”, dal momento che
dei beni non economici ce ne frega nulla), devono essere prodotti, perché in natura non ci sono. E a creare i
beni sono le “aziende” (che conosceremo nel paragrafo 5) a pagina 6).
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3) La classificazione dei bisogni, l’utilità decrescente dei beni e il valore.
I libri di testo suddividono i bisogni in vari modi, ad esempio fra bisogni “primari” (o “necessari”)
e “secondari (o “voluttuari”), oppure fra bisogni “individuali” e “collettivi”. Io credo che una
classificazione abbia senso solo quando è possibile stabilire un confine certo fra un elemento e l’altro, e
poiché, invece, nelle classificazioni che in genere i testi fanno dei bisogni non mi pare che sia così, non
ve ne propongo alcuna.
Primo esempio: quale è la distinzione fra bisogno primario e bisogno secondario? Per il vostro
libro i bisogni primari (o necessari) sono quelli “ … legati a stati di bisogno fondamentali per la
sopravvivenza di ogni individuo, come il bisogno di nutrirsi, di dormire, di vestirsi”, mentre i bisogni
secondari (o voluttuari) sono quelli “ …che sono soddisfatti dopo quelli fondamentali e che dipendono
dal desiderio di condurre una vita qualitativamente migliore, come il bisogno di spostarsi col motorino,
di svolgere un’attività sportiva”.
A prima vista la distinzione potrebbe sembrare chiara, ma in realtà vale nulla; infatti, poiché per
sopravvivere a un individuo bastano pochi etti di pane secco al giorno per nutrirsi e una caverna e un
cappotto per ripararsi dal freddo invernale, ne risulta che qualsiasi altro bene (come il water, l’energia
elettrica, un paio di scarpe o un po’ di frutta una volta al mese) soddisfa bisogni voluttuari; a questo punto, quindi,
praticamente tutti i bisogni risultano voluttuari, e quindi perde di senso la classificazione.
Secondo esempio: la classificazione fra bisogni “individuali” e bisogni “collettivi”; sempre il
libro dice che sono bisogni individuali quelli “ … avvertiti dall’uomo nella sua sfera privata, come il
bisogno di leggere un libro o di ascoltare della musica”, mentre i bisogni collettivi sono “… avvertiti
dall’individuo in quanto membro di una società organizzata , come il bisogno di sicurezza, di giustizia,
di assistenza sanitaria, di istruzione.” Forse sono io a essere poco intelligente, ma proprio non riesco a
capire perché l’assistenza sanitaria rientri fra i “bisogni collettivi”, mentre il bisogno di ascoltare
musica o guardare un film siano “bisogni individuali”: come se il mal di denti fosse meno privato di una
risata al cinema.
Voglio, invece, segnalarvi un concetto semplice e perfino banale, ma che è di centrale
importanza per la comprensione dell’economia: quello della “utilità marginale decrescente dei beni”,
cioè il fatto che la soddisfazione che otteniamo dalla prima mela (o dal primo iPad o dal primo scooter o dalla
prima giornata a Mirabilandia o dal primo quello che ti pare) è maggiore di quella che ci dà la seconda mela (o il
secondo iPad o il secondo scooter o la seconda giornata a Mirabilandia o il secondo quello che ti pare); e ancor meno ne
otteniamo dalla terza mela ecc. ecc.
Questo concetto ne introduce un altro, pure importantissimo: non esiste il valore oggettivo di un
bene. Qualsiasi economista che non sia un ciarlatano (= buffone, fanfarone) sa che il concetto di valore “vero”
di un bene o, come anche si dice, di prezzo “giusto”, è un non senso, un’idea tanto assurda quanto
diffusa fra chi non ha studiato economia. E non solo il valore “oggettivo” non esiste perché per me un
concerto con musiche di Mozart vale molto di più di un concerto di Vasco Rossi mentre per voi è il
contrario (come dire che il valore dei beni è soggettivo), ma non esiste per almeno altri due motivi:
1. perché il valore che diamo a un bene è in funzione della maggiore o minore disponibilità che abbiamo
dello stesso bene (è il concetto visto prima dell’utilità marginale decrescente);
2. perché il valore di un bene dipende anche dalla disponibilità di altri beni (se, ad esempio, venisse a
mancare la benzina, il valore delle biciclette aumenterebbe mentre quello degli scooter diminuirebbe).
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Per capire l’economia è fondamentale comprendere che il valore dei beni, cioè delle cose e dei
servizi che desideriamo (da un astuccio alla zappa, da un caffè al bar a un volo a New York), non è oggettivo, non è
cioè un dato certo che può essere misurato.
Tra le domande “qual è il valore di un
bene?” e “qual è il colore di un
camaleonte?” quella con più senso è di gran
lunga la seconda (= è molto più intelligente la seconda).
Ad essa, infatti, pur non potendosi
rispondere una volta per tutte poiché il
colore del camaleonte cambia in funzione
dell’ambiente in cui è inserito, è pur sempre
almeno possibile rispondere univocamente
caso per caso: “lì, tra le foglie verdi (rosse), quel
camaleonte è oggettivamente di colore verde
(rosso)”.
Quanto al valore di un bene, invece,
esso non è determinabile oggettivamente nemmeno se riferito a un determinato contesto ambientale e
temporale; ad esempio: non solo il valore che ha in questo istante una bottiglia da 33 cl d’acqua
Ferrarelle sugli scaffali dell’Esselunga a Reggio è diverso da quello che ora la stessa bottiglia ha nel
distributore automatico a scuola, ma non si può nemmeno dire che oggi qui a scuola quella bottiglia valga
0,35 €: 0,35 € è il suo prezzo, ma il prezzo è una cosa, altra cosa è il valore.
Il prezzo alla “macchinetta” di 35 cent ci dice solo che per il merendero (per il venditore) il valore
della bottiglia è inferiore a 0,35 € (altrimenti non la scambierebbe per 35 cent) e che invece per te (per il
compratore) sono i 35 cent che valgono meno della bottiglia (altrimenti non avresti chiesto di uscire dall’aula per
scambiare 0,35 € con la bottiglia); e nello stesso istante in cui per te la bottiglia d’acqua vale più di 0,35 €,
per il tuo compagno di banco – che non ha sete – vale meno. A essere “oggettivo” è solo il prezzo (che,
comunque, varia nel tempo e da luogo a luogo), mentre il valore è soggettivo, variando anche da persona a
persona.
Al contrario della temperatura o del peso di un bene (dati, questi, che possono essere misurati con certezza),
il valore non è una caratteristica intrinseca del bene. L’uomo ha impiegato migliaia di anni
per arrivare a capirlo, tanto è vero che fino a non molto tempo quasi tutti pensavano che esistesse il
“giusto prezzo” delle cose. Ancora oggi, in realtà, sono in tanti a credere che si possa determinare il
valore di un bene, ma come ho già detto questo capita perché solo una piccola parte della popolazione
studia (e, soprattutto, comprende) l’economia.
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4) Beni di consumo e beni di produzione
Se serve a poco classificare i bisogni, è invece importante avere chiara la distinzione fra “beni di
consumo” e “beni di produzione” (quest’ultimi chiamati spesso “beni di investimento”). La differenza fra gli
uni e gli altri non sta nella loro natura bensì nella loro destinazione, tant’è che sarebbe più chiaro
chiamarli “beni per consumo” e “beni per produzione”.
La distinzione, infatti, sta nello scopo per il quale si usa il bene: se il bene serve direttamente per
soddisfare un bisogno è un bene di consumo, ma se lo stesso bene è utilizzato per produrne un altro,
allora il primo bene è di produzione (e quindi in realtà serve comunque per soddisfare un bisogno, ma in modo
indiretto).
Uno stesso bene, quindi, può essere l’una e l’altra cosa: se il bamboccione mantenuto dai genitori
usa l’Audi Q3 unicamente per spassarsela con gli amici,
quell’auto è un bene di consumo; se invece l’Audi è usata dal
taxista per lavoro, allora è un bene di produzione; se vado al
Sigma e compro della frutta per mangiarla, compro un bene di
consumo; se la stessa cosa la fa il gelataio di Rivalta per fare
il gelato alla pesca, allora le pesche da lui comprate al Sigma
sono un bene di produzione. Tipico bene di consumo Tipico bene di produzione
Faccio notare (ma ne parleremo più approfonditamente in quarta in altri appunti) che, in base a questa
definizione, il lavoro (ad esempio quello svolto dal magazziniere del Sigma di Rivalta) è un bene di produzione
allo stesso modo di un muletto o delle uova per la Barilla.
5) Le aziende
La definizione di azienda che massimizza il rapporto efficacia / lunghezza credo sia:
organismo che utilizza beni e lavoro per produrre qualcosa che soddisfa esigenze umane
Se ci pensate un po’, in tale definizione è possibile far rientrare soggetti come la Ryanair ma anche
la famiglia Rossi, la Vodafone, il comune di Reggio Emilia, o ancora la Casa di Carità di S. Girolamo e
lo stato italiano.
Evidentemente, saranno diverse le esigenze che le varie aziende tendono a soddisfare [ad
esempio e nell’ordine delle aziende citate appena sopra: esigenze di trasporto (la Raynair), di mangiare un
pasto caldo al rientro da scuola (la famiglia Rossi), di comunicare rapidamente con una persona distante (la
Vodafone), di camminare per strade non ingombre di rifiuti (il comune di Reggio), di dare sollievo ai più
sfortunati (la casa di Carità) e, infine, di essere protetti dai delinquenti (lo stato italiano)], così come diverse
saranno la qualità e la quantità dei beni e del lavoro utilizzati per produrre, ma è indubbio che tutti i
soggetti descritti sono, sulla base della definizione data, “aziende”. Un’utile distinzione può poi essere
fatta, all’interno del vastissimo universo delle aziende, fra le aziende di “erogazione” e quelle di
“produzione”:
le aziende di erogazione hanno come scopo la soddisfazione di esigenze umane;
le aziende di produzione hanno come scopo il guadagno e, per perseguirlo ( = cercare di ottenerlo),
soddisfano esigenze umane
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In altre parole, tutte le aziende producono beni e soddisfano bisogni, ma per le aziende di
produzione la soddisfazione delle esigenze altrui è solo un mezzo (= lo strumento) e non il fine (= lo scopo).
Ecco quindi, ad esempio, che l’organismo famiglia Rossi è
certamente un’azienda di erogazione, in quanto le produzioni di beni e
servizi che in essa si attuano (colazione mattutina, spaghetti aglio-olio-
peperoncino per cena, lavaggio biancheria ecc.) hanno l’unico fine di
soddisfare delle esigenze umane. E così anche la Casa di Carità di S.
Girolamo, il comune di Reggio Emilia e lo stato italiano (chiedendo scusa
alla Casa di Carità per l’abbinamento indegno coi due enti pubblici impositori),
poiché producono beni e servizi senza avere come scopo il guadagno, sono aziende di erogazione.
Al contrario, la Ryanair e la Vodafone – ma anche
il fornaio, la birreria, la discoteca o il caldarrostaio
ambulante – sono aziende di produzione, in quanto si
danno da fare per soddisfare i desideri altrui allo scopo
di arricchirsi.
Da quanto detto qui e nel paragrafo precedente si deduce che, mentre le aziende di
produzione utilizzano solo beni di produzione, quelle di erogazione usano sia beni di
produzione che di consumo.
Alcuni soggetti possono vestire, in momenti diversi, ora l’abito di azienda di produzione ora
quello di azienda di erogazione. Ciò è evidente nel caso del signor Mauro, l’idraulico che ieri
pomeriggio, agendo come azienda di produzione, ha prodotto il servizio di riparazione di un rubinetto a
casa mia, e che alla sera, agendo come azienda di erogazione, ha prodotto il servizio di ninna nanna a
suo figlio di dieci mesi. Si può quindi dire che:
quando si agisce (si consuma o si produce) con lo scopo ultimo di soddisfare i bisogni (propri o
altrui) allora si riveste l’abito dell’azienda di erogazione. Come voi che mangiate la merenda, io che
taglio l’erba a casa mia, la nonna che prepara la torta di mele per la nipote, la nipote che mangia la torta
di mele (e che si scorda di ringraziare la nonna), il missionario che insegna a leggere ai bambini kenioti,
l’Associazione Ricerca sul Cancro che ricerca nuovi sistemi di cura della malattia ecc.;
quando l’azione è sì volta (= indirizzata, finalizzata) a soddisfare i bisogni, ma ha per scopo finale
l’arricchimento, allora chi agisce riveste l’abito dell’azienda di produzione. Come il merendero
che porta a scuola le pizze, io che – a pagamento – taglio l’erba a casa vostra, il fornaio che prepara la
torta di mele per il cliente, l’Oxford Institute che insegna l’inglese ai bambini italiani, la Barilla S.p.A.
che studia nuove merendine da lanciare sul mercato ecc.).
Non dovete pensare però che tale distinzione sia sempre netta e precisa. Sono tante, infatti, le
aziende e le attività che presentano caratteristiche ambigue, per le quali la collocazione in una piuttosto
che nell’altra categoria è alquanto dubbia.
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6) L’attività economica
L’attività economica comprende le azioni svolte dall’uomo per procurarsi e per
utilizzare i beni economici necessari a soddisfare i bisogni.
Si può quindi dire che solo nel Paradiso, terrestre e non, non vi è attività
economica, poiché solo là tutti i bisogni sono appagati senza sforzo. Sulla Terra, invece,
ovunque e da quando c’è l’uomo c’è l’economia. Qui a destra potete vedere come il
Masaccio, grande pittore dei primi del ‘400, immaginò il momento dell’inizio dell’attività
economica.
“La cacciata dal Paradiso terrestre” o “L’inizio dell’era economica”
6.1) La produzione
Molti libri di testo suddividono l’attività economica fra “produzione”, “scambio”, “consumo”,
“risparmio” e “investimento”. Credo che in questo modo non solo si complicano inutilmente le cose
(come già si è visto prima con i bisogni), ma – peggio – c’è il rischio che lo studente impari un concetto
sbagliato, cioè che scambio e produzione siano cose diverse; in realtà è impossibile distinguere
l’attività di produzione da quella di scambio, essendo già lo scambio una produzione.
Non dovete, infatti, intendere la produzione solo come
qualcosa di fisico originato dalla trasformazione dei “fattori
produttivi” (gli “input”) in qualcosa di diverso (l’ “output”), cioè, ad
esempio, il trasformare nocciole, uova, cacao, zucchero e lavoro
in Nutella o l’utilizzare lavoro e strumenti per produrre un
servizio sanitario: la produzione, invece, va intesa come
creazione di ricchezza, cioè con un significato più ampio di quello abitualmente
inteso dal profano (= da chi non è competente) di economia. D'altronde, gli stessi libri in
genere ammettono che “la produzione è l’attività con cui, impiegando i fattori produttivi, si ottengono
nuovi beni e servizi o si accresce l’utilità dei beni esistenti”.
La produzione, quindi, è l’attività svolta con l’intenzione di aumentare il valore dei
beni disponibili sulla terra e utili a soddisfare, direttamente (nel caso dei beni di consumo) o
indirettamente (nel caso dei beni di produzione), i bisogni.
Un chilo di nutella vale più delle nocciole, del cacao delle uova, del lavoro, dell’energia ecc. che
sono stati utilizzati (e perciò distrutti) per ottenerla, e quindi grazie a quella produzione l’umanità si è
arricchita (il valore dei beni disponibili è aumentato e quindi si soddisfano maggiori bisogni); l’eliminazione di una
caria da un dente malato vale di più di quanto è stato impiegato nello studio dentistico durante la cura, e
quindi anche in questo caso l’umanità, complessivamente, sta meglio: grazie alla produzione di quel
servizio, chi aveva mal di denti ora sta meglio e nessuno sta peggio a causa della sua maggiore
soddisfazione (nemmeno il dentista e l’infermiera che hanno lavorato, perché se è vero che sono più stanchi è anche vero
che ora hanno più denaro. Discorso diverso sarebbe il caso del dentista-schiavo, che svolge il servizio perché obbligato con
la forza o la minaccia, ma per fortuna la schiavitù è quasi scomparsa e chi lavora lo fa volontariamente in cambio di soldi).
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E ora pensate a questo caso, che mi sembra chiarisca bene come lo scambio sia già di per sé
produzione di ricchezza: tu ed io vinciamo a una lotteria i cui premi sono degli elettrodomestici.
A te, che soffri il caldo e mangi spesso fuori casa, capita una lavastoviglie; a me, che ho una casa
fresca anche d’estate e non sopporto né i ristoranti né lavare i piatti, è toccato un climatizzatore. Se uno
di noi viene a conoscenza della situazione dell’altro, la conseguenza naturale sarà quella di scambiarci i
beni, perché in questo modo entrambi avremo la possibilità di soddisfare esigenze per noi più importanti
di quanto non potremmo fare se ci tenessimo i beni che abbiamo vinto (magari perché non ci conosciamo e
ignoriamo la situazione o perché qualcuno o qualcosa ci impedisce di scambiare).
Sia tu che io, quindi, col solo scambiarci i premi vinti (tu mi dai la lavastoviglie e io in cambio ti do il
climatizzatore) miglioriamo la nostra situazione, ci arricchiamo entrambi senza danneggiare nessuno;
scambiando, abbiamo quindi svolto un’attività di produzione (di valore) arricchendo così, nel suo
complesso, l’umanità e questo nonostante che i beni a disposizione siano esattamente gli stessi.
6.2) Produzione “fisica” e produzione “economica”
Per “produzione” si possono intendere due cose: a) la produzione in un senso “fisico” (lo stabilimento
di Alba (Cuneo) della Ferrero che “produce” ogni giorno circa un milione di chili tra Nutella, Kinder, Tic Tac ecc., o la
parrucchiera che ieri ha “prodotto” otto tagli di capelli, due colpi di luce e un’extension); b) la produzione in senso
economico, cioè la “produzione di valore”. Chiunque parli di economia sapendo quel che dice dà al
termine “produzione” il secondo significato (il b))
A te, d’ora in avanti, la produzione aziendale della Ferrero deve suggere non solo, e non tanto,
l’immagine di centinaia di camion che ogni giorno escono dagli stabilimenti pieni di vasetti,
cioccolatini, pinguì eccetera per fare in modo che siano disponibili sugli scaffali dei supermercati di
tutto il mondo: la produzione la devi concepire come “valore” in grado di soddisfare bisogni e desideri
delle persone. Così alla produzione del vasetto di Nutella contribuiscono anche l’autista del camion che
lo porta da Alba a Reggio e il dipendente Esselunga che lo mette sullo scaffale del supermercato, e ciò
in quanto quel vasetto è più utile a Reggio su quello scaffale che non ad Alba nel magazzino Ferrero.
In qualche caso, fortunatamente raro, vi è produzione fisica senza che ci sia produzione “vera”,
cioè produzione in senso economico: se l’azienda produce qualcosa che poi nessuno desidera e acquista
(come un vestito orrendo o un film talmente noioso che nessuno va a vedere) allora, in senso economico, ha prodotto
nulla; c’è stata sì produzione fisica, ma non c’è stata produzione di valore; anzi: in senso economico c’è
stata distruzione di valore (o produzione negativa) perché per realizzare fisicamente quell’abito schifoso o
quel film palloso sono stati comunque usati (consumati, distrutti) degli altri “beni” (la stoffa, l’elettricità, il
lavoro degli operai tessili o degli attori ecc.) che avevano un valore (perché potevano servire a qualcosa d’altro) e che
ora non sono più disponibili.
Si può anche dire, quindi, che quando si dà ai termini “produzione” e “utilizzo” il significato
comune (fisico, quello inteso da chi non studia economia), allora i beni prodotti possono anche non essere
utilizzati. Se però dal significato comune dei termini passiamo al loro significato “economico” le cose
cambiano: infatti, in senso economico se un bene è prodotto allora è inevitabile che sia anche utilizzato,
e ciò perché la produzione fisica, concreta, di un bene o un servizio diventa anche “produzione” in
senso economico solo se quel bene o servizio ha un valore, e il valore può averlo solo se qualcuno è
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disposto a comprarlo perché gli è utile. In altre parole: se produco qualcosa che nessuno vuole (come
delle scarpe tutte sinistre o un aereo che precipita un volo su tre) allora, in senso economico, ho prodotto nulla.
Allo stesso modo, anche il termine “uso” di un bene non va inteso solo in senso fisico perché
occorre dargli un significato più ampio. Ad esempio, i beni da collezione (come i cristalli Swarovski, le
figurine Panini, i francobolli ecc.), pur non essendo materialmente usati proprio per prolungarne al massimo
la conservazione, sono invece certamente utilizzati in senso economico, tanto è vero che soddisfano i
gusti e le esigenze del collezionista. La particolarità di questo caso, che comunque ha un’importanza
trascurabile, sta nella capacità di questi beni di dare utilità (di fornire soddisfazione) senza perdere di valore.
Ecco allora che, sulla base delle considerazioni appena fatte e come già scritto poco sopra, in senso
economico non è possibile che la ricchezza prodotta non sia anche utilizzata (J.B. Say aveva ragione e J.M.
Keynes torto, e non preoccuparti se non capisci questa parentesi).
6.3) Ancora su Valore e Produzione
La corretta comprensione di cosa è il valore e cosa è la produzione è assolutamente necessaria per
comprendere l’economia, ed è per questo che dedico un altro paio di pagine per ribadire, in forma un po’
diversa, concetti già esposti, anche a rischio di sembrare ripetitivo; tu hai il compito non solo di comprenderli
e impararli, ma anche di familiarizzare con questi concetti perché è necessario che ti diventino del tutto
naturali.
Sappiamo già che il valore di un bene dipende dal valore dei bisogni che, direttamente (se è un bene di
consumo) o indirettamente (se è un bene di produzione), può soddisfare. Sappiamo anche che, non esistendo l’unità
di misura della soddisfazione (non esiste il “feliciometro”), non si può nemmeno misurare oggettivamente il valore
dei beni. Così, non essendo il valore misurabile con certezza, non esiste il “giusto” valore, cioè non ha senso
chiedersi quale sia il valore corretto di un bene. Il valore non è, infatti, una caratteristica oggettiva dei beni
(come invece lo sono, ad esempio – per i beni fisici – la lunghezza e il colore).
Quanto alla produzione, sappiamo già che con questo termine, in economia, si intende qualsiasi attività
originata dalla volontà umana con lo scopo di provocare un aumento del valore dell’insieme dei beni esistenti.
Il concetto di produzione, perciò, non si esaurisce nella trasformazione fisica di qualche bene (gli input) in un
prodotto finito (l’output), ma è molto più ampio.
(Tieni sempre presente l’esempio della lotteria in
cui tu, che mangi sempre fuori casa, vinci una
lavastoviglie mentre io, che non guardo mai la TV,
vinco un maxi-televisore. Io non so della tua situazione
e tu non sei al corrente della mia. Ermes, che conosce
sia te che me, mi propone di scambiare il maxi-
televisore per una lavastoviglie e a te chiede di cedere la
lavastoviglie in cambio di un maxi-televisore; noi
accettiamo entusiasti. Ermes, in pratica, si è limitato a
segnalarci l’opportunità di scambio (ha prodotto e fornito
una informazione) e per questo suo servizio ha chiesto e ottenuto 50 € da ciascuno di noi. I beni esistenti sono fisicamente sempre gli
stessi, ma il loro valore è aumentato di almeno 100 € (50 + 50) perché ora è più elevato il valore dei bisogni che, con gli stessi beni, si
riescono a soddisfare. Questo maggior valore che è stato immesso nei due beni l’ha creato l’attività di Ermes, il servizio di
mediazione (un bene anch’esso) il cui valore si è trasferito nella lavastoviglie e nel televisore).
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Chiunque dica che la produzione è la trasformazione di materie prime e altri beni in beni finiti ha capito
nulla di economia (anche se magari ha scritto un libro di testo di economia per le scuole medie superiori).
Per “consumo” si intende l’utilizzo dei beni direttamente finalizzato alla soddisfazione di bisogni. Il
consumo, quindi, provoca (a parte il caso trascurabile dei beni da collezione) una distruzione di ricchezza in quanto a
fronte della perdita di valore del bene consumato non vi è alcuna produzione di altri beni (vi è, però, un bisogno
soddisfatto in più). Così l’uso di 100 litri di benzina, di 1.000 km di autostrada e dell’auto per andare in vacanza
costituisce un consumo (e se la benzina costa 1,6 €/l, il pedaggio 0,1 €/km e l’auto durante il viaggio ha perso 40 € di valore per
l’usura (si è “ammortizzata” per 40 €), allora sono stati consumati beni del valore complessivo di 300€); al contrario, in base a
quanto scritto al punto precedente, l’uso di 100 litri di benzina, del servizio autostradale e dell’auto da parte di
un taxista non costituisce un consumo ma una trasformazione di quei beni in altri (cioè nei servizi di trasporto
prodotti dall’azienda “Taxi”, beni questi che, a loro volta, possono essere stati o consumati da un turista in vacanza oppure trasformati
in qualcosa d’altro ancora se, ad esempio, sono stati acquistati da un lavoratore in trasferta che ha usato il taxi per andare a svolgere
un servizio di assistenza da un cliente).
La frase “nulla si crea e nulla si distrugge” è vera nel mondo fisico, ma nel mondo economico è
totalmente falsa: l’azione umana, infatti, crea o distrugge valore. Mentre l’attività di consumo distrugge
sempre valore, l’attività di produzione (intesa come detto nelle pagine precedenti) normalmente crea valore, ma a
volte lo distrugge (e, in ogni caso, trasferisce valore da un bene a un altro, cioè dagli input all’output). Una produzione
(un’attività produttiva) è efficiente se crea valore, cioè se il valore del suo output è superiore al valore degli input
utilizzati per ottenerlo. Questo maggior valore è chiamato “utile”, ma sarebbe più chiaro chiamarlo
“creazione”. In caso contrario, quando cioè per ottenere un output che vale 100 si utilizzano input dal valore
di 110, si dice che l’attività è inefficiente e ha provocato una “perdita”, ma sarebbe più chiaro parlare di
“distruzione” (di 10 € di valore).
Nel corso della storia, ahimè, l’uomo non ha mai perso l’abitudine di distruggere ricchezza anche senza
soddisfare bisogni e al di fuori del caso dell’azienda inefficiente: lo ha fatto (e continua a farlo) sia all’ingrosso
(con le guerre) sia al minuto (con vandalismi, attentati ma anche con altri delitti contro il patrimonio come i furti e le rapine,
attività umane in cui, oltre a un trasferimento di ricchezza dalla vittima del reato al delinquente che lo compie, si realizza anche una
distruzione di valore (la porta scassinata e il fatto che gli oggetti rubati perdono di valore perché posseduti da persone che li apprezzano meno
dei legittimi proprietari, e se non capisci torna alle pagine 4 e 5); ma l’uomo distrugge ricchezza anche con i delitti contro la persona:
l’omicidio di un bravo idraulico, al di là dell’aspetto morale e del dolore che provoca alla vedova e ai sette bimbi rimasti orfani, è
un danno economico perché riduce il valore del capitale umano esistente sulla terra, e quindi la possibilità di soddisfare bisogni).
Nonostante le innumerevoli distruzioni piccole e grandi, razionali (quelle causate dalla volontà di soddisfare un
bisogno) o irrazionali (quelle originate dalla malvagità o dalla stupidità) che si sono susseguite dalla sua cacciata dal
Paradiso terrestre (e, se non capisci, torna alla pag. 8), nel corso della storia l’uomo ha creato molta più ricchezza di
quanto ne abbia distrutta. Ciò è dimostrato dal fatto che mentre i nostri progenitori decine di migliaia d’anni
fa morivano quasi tutti di freddo e di fame nelle caverne e mentre pochi secoli fa morivano di peste e di
appendicite nei lazzaretti (e non pochi ancora di fame e di freddo nelle loro stamberghe), oggi noi siamo
straordinariamente più ricchi e così ci ammaliamo per l’eccesso di calorie derivante dal troppo cibo nello
stomaco e il troppo caldo in classe d’inverno.
Se oggi abbiamo a disposizione cibo in abbondanza, termosifoni caldi, auto comode, cure efficaci ecc.
ecc. è perché non tutto il valore che l’uomo ha creato è stato distrutto, nonostante i tanti bisogni soddisfatti e
le tante attività inefficienti o irrazionali. La parte non distrutta del valore creato è il “risparmio”, quel
risparmio che, se non viene trasformato in moneta, è anche “investimento”, cioè valore in grado di soddisfare in
futuro, direttamente ma più spesso indirettamente, sempre più bisogni (queste ultimissime righe che hai letto sono
particolarmente difficili, perciò se non le comprendi è normale; hai qualche anno di tempo per arrivarci).
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Se, invece, da decine di migliaia
d’anni le gazzelle continuano a essere
mangiate dai leoni e a morire di sete nelle
stagioni troppo aride, i pettirossi
continuano a essere angariati dalle gazze e
a morire di fame negli inverni troppo
nevosi è principalmente perché gazzelle e
pettirossi (ma anche scimpanzé e tutti gli altri
animali), al contrario dell’uomo, non
scambiano. Tutti gli animali, come l’uomo,
tendono a riprodursi; tutti gli animali,
come l’uomo, cercano di soddisfare i
propri bisogni; tanti animali, come l’uomo,
producono beni per soddisfare meglio i
bisogni (il pettirosso fa il nido, il ragno la
ragnatela, lo scoiattolo fa scorta di nocciole ecc.).
L’unica differenza che distingue l’attività istintiva del genere umano da quella di tutti gli altri esseri viventi
è l’attitudine a scambiare (nessuno ha mai visto un cane dare un osso a un altro in cambio di una crosta di
formaggio).
Il vero regalo fatto da Prometeo al genere umano è l’attitudine allo scambio, non l’intelligenza e la
memoria, come falsamente racconta la mitologia greca: intelligenza e memoria le hanno anche gli animali
(certamente noi abbiamo più intelligenza – ma meno memoria – di loro, ma è soltanto una questione quantitativa), ma la qualità
dell’attitudine allo scambio è, invece, solo nostra; è questa attitudine che ha permesso all’uomo di diventare
sempre più efficiente nella sua azione produttiva, perché ha reso possibile la specializzazione delle sue
attività: ognuno fa solo ciò in cui riesce meglio e lo fa anche per gli altri, poi scambia la sua produzione
con le cose che gli servono per soddisfare i propri bisogni e che gli altri sanno fare meglio di lui.