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1. L’INDUSTRIA ITALIANA. DALLA GRANDE ALLA PICCOLA …13-36).pdf · Prima di analizzare il...

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1. L’INDUSTRIA ITALIANA. DALLA GRANDE ALLA PICCOLA IMPRESA 1.1. L’IMPORTANZA DELLA GRANDE IMPRESA Prima di analizzare il comparto oggetto del presente lavoro appare utile inquadrare, attraverso una rassegna ragionata delle risultanze di recenti indagini, i principali problemi dell’economia italiana che vincolano i proces- si di crescita e la capacità competitiva dei sistemi di grande impresa e dei si- stemi distrettuali. Come ha evidenziato un recente studio della Banca d’Italia, il rallen- tamento dell’economia italiana rispetto alle economie avanzate ha una dina- mica di lungo periodo, che si è accentuata nel corso dell’ultimo triennio (e si sta estendendo ormai al 2004) configurando “la più lunga fase di ristagno economico degli ultimi 50 anni” (Ciocca, 2003). Molti fattori vengono rite- nuti responsabili di questo ristagno, sia dal lato della domanda aggregata che dal lato dell’offerta. Tra gli altri si segnalano i più importanti. Dal lato della domanda aggregata scendono nell’ultimo decennio i consumi privati e pubblici, 1 che la crescita delle esportazioni nette non riesce a compensare. La quota delle esportazioni italiane di beni su quelle mondiali flette dal 5% nel 1990 (prezzi correnti) al 3,6% nel 2003, a ritmi superiori a quella registrata dalle economie dei paesi industrializzati (dal 6,7% al 5,7% nel periodo 1995-2002) e gli elevati profitti degli anni novanta vengono di- retti prevalentemente al “consolidamento meramente finanziario dell’impre- sa” (Ciocca, 2003) più che a investimenti strategici (ad esempio l’innalza- mento di dotazione del capitale umano, le tecnologie complesse, più difficili da imitare, l’orientamento a settori produttivi a elevata intensità di capitale). Anche gli investimenti diretti all’estero crescono in misura insufficiente, se raffrontati a quelli delle altre economie europee; 2 lo stesso discorso riguarda gli investimenti diretti nel nostro paese, soprattutto quelli greenfield. Con ri- ferimento al saldo commerciale, l’entrata sulla scena competitiva dei paesi dell’Estremo Oriente comporta sfide “inedite” per l’economia italiana e pro- 13 1 La diminuzione nel decennio e stata in media da 1,8 a 0,9 punti del PIL per i consumi priva- ti e da 0,5 a 0,1 punti del PIL per quelli pubblici. La ricerca ne enfatizza l’effetto territoriale, in quanto la riduzione penalizzerebbe soprattutto una fascia di popolazione meridionale, com- promettendone le prospettive materiali e culturali contingenti (Ciocca, 2003). 2 Poco più dell’1%, contro il 5-6% di Francia, Germania, Spagna.
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1. L’INDUSTRIA ITALIANA.DALLA GRANDE ALLA PICCOLA IMPRESA

1.1. L’IMPORTANZA DELLA GRANDE IMPRESA

Prima di analizzare il comparto oggetto del presente lavoro appareutile inquadrare, attraverso una rassegna ragionata delle risultanze di recentiindagini, i principali problemi dell’economia italiana che vincolano i proces-si di crescita e la capacità competitiva dei sistemi di grande impresa e dei si-stemi distrettuali.

Come ha evidenziato un recente studio della Banca d’Italia, il rallen-tamento dell’economia italiana rispetto alle economie avanzate ha una dina-mica di lungo periodo, che si è accentuata nel corso dell’ultimo triennio (e sista estendendo ormai al 2004) configurando “la più lunga fase di ristagnoeconomico degli ultimi 50 anni” (Ciocca, 2003). Molti fattori vengono rite-nuti responsabili di questo ristagno, sia dal lato della domanda aggregata chedal lato dell’offerta. Tra gli altri si segnalano i più importanti.

Dal lato della domanda aggregata scendono nell’ultimo decennio iconsumi privati e pubblici,1 che la crescita delle esportazioni nette non riescea compensare. La quota delle esportazioni italiane di beni su quelle mondialiflette dal 5% nel 1990 (prezzi correnti) al 3,6% nel 2003, a ritmi superiori aquella registrata dalle economie dei paesi industrializzati (dal 6,7% al 5,7%nel periodo 1995-2002) e gli elevati profitti degli anni novanta vengono di-retti prevalentemente al “consolidamento meramente finanziario dell’impre-sa” (Ciocca, 2003) più che a investimenti strategici (ad esempio l’innalza-mento di dotazione del capitale umano, le tecnologie complesse, più difficilida imitare, l’orientamento a settori produttivi a elevata intensità di capitale).Anche gli investimenti diretti all’estero crescono in misura insufficiente, seraffrontati a quelli delle altre economie europee;2 lo stesso discorso riguardagli investimenti diretti nel nostro paese, soprattutto quelli greenfield. Con ri-ferimento al saldo commerciale, l’entrata sulla scena competitiva dei paesidell’Estremo Oriente comporta sfide “inedite” per l’economia italiana e pro-

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1 La diminuzione nel decennio e stata in media da 1,8 a 0,9 punti del PIL per i consumi priva-ti e da 0,5 a 0,1 punti del PIL per quelli pubblici. La ricerca ne enfatizza l’effetto territoriale,in quanto la riduzione penalizzerebbe soprattutto una fascia di popolazione meridionale, com-promettendone le prospettive materiali e culturali contingenti (Ciocca, 2003).2 Poco più dell’1%, contro il 5-6% di Francia, Germania, Spagna.

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voca tensioni al modello di specializzazione3 dell’economia italiana, che so-no accentuate dalla concorrenza estera dei paesi industrializzati. Su questoargomento si tornerà più avanti, nel corso della trattazione.

Relativamente all’offerta aggregata, i problemi strutturali non consen-tono di “applicare bene il lavoro, innovare, applicare il progresso tecnico ecompetere” (Ciocca, 2003). Infatti il prodotto interno lordo pro capite si ri-duce rispetto agli anni ottanta, a seguito del rallentamento di una pur elevataproduttività del lavoro.

Tutto questo viene attribuito ad alcuni limiti della struttura dell’offerta.I limiti di formazione dei lavoratori, di spese per la ricerca, di contenuto ricor-so alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione si associanoal fatto che tra l’arcipelago delle grandi imprese e l’arcipelago delle piccoleimprese “sono carenti la complementarità nella ricerca e l’osmosi nella diffu-sa applicazione delle innovazioni” (Ciocca, 2003). A questo contribuirebbeuna diminuzione complessiva di concorrenza all’interno dell’economia italia-na, attribuibile alle politiche di controllo proprietario delle imprese e allo spo-stamento dell’impresa privata dal mercato a settori di servizi gestiti in prece-denza dall’impresa pubblica,4 che ha “aperto all’impresa privata aree e pro-spettive di quasi rendita” (Ciocca, 2003), indebolendo la via dell’innovazionecompetitiva, quella di un deciso aumento degli investimenti in ricerca e svi-luppo. L’aumento del grado di monopolio ne costituisce una conferma.5

Alcune evidenze empiriche confermano e specificano le osservazioniprecedenti. In Italia i due principali motori dello sviluppo, i sistemi di gran-de impresa e quelli integrati di piccola e media impresa, affrontano ambe-due i processi di ristrutturazione degli anni settanta e ottanta “senza cercare

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3 Nella letteratura economica si afferma sempre più l’idea che la despecializzazione in settoriavanzati (chimica e farmaceutica, elettronica di largo consumo, etc.) o addirittura la rinunciaa produrre in settori ad elevato valore aggiunto (biotecnologia, chimica fine, informatica,etc.) si configuri come un vero nocciolo duro della capacità di competere del paese e ciò sem-bra riportare il dibattito su coordinate più coerenti e meno ideologiche di quanto non fosse (enon sia) la disputa sulla dimensione d’impresa. Sulle difficoltà della grande impresa e sullainadeguata corrispondenza delle strategie manageriali, delle politiche industriali e del lavoroa tali difficoltà si veda il saggio di Gallino (2003).4 La privatizzazione dell’IRI e del sistema bancario italiano sembravano avere affievolito laricerca di ambiti protetti da parte dell’industria italiana. Sull’argomento e sui caratteri late co-mer dello sviluppo industriale italiano si veda Bianchi (2002).5 Gli aumenti degli indici di Lerner nei mercati delle merci sono elevati, sono saliti in media a19, contro 15-16 dei decenni settanta e ottanta. Ciò avviene quando l’economia italiana divie-ne più aperta in termini di interscambio di beni, e servizi finanziari con l’estero. Cfr. Ciocca(2003).

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nuovi profili produttivi attraverso la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodottiin nuovi settori” (Bianchi, 2003) e un più elevato grado di comunicazione einterazione.6 Si differenziano così dai competitori europei che si sono predi-sposti in anticipo ad affrontare la nuova fase di integrazione europea conuna intensa attività di fusioni e acquisizioni internazionali7 e hanno definitoun modello di corporate governance simile a quello anglosassone (Bianchi,2003), ampliando il loro grado di apertura, la loro integrazione (Bianchi,2002) e la capacità di presidiare i nuovi mercati. Le economie europee han-no colto in anticipo il nesso tra la globalizzazione e il riemergere dell’im-portanza delle economie di scala, l’accresciuto ruolo della ricerca e svilup-po e della rete distributiva (Bianchi, 2003) e in questa direzione si sonoorientate.

Le multinazionali straniere8 nel corso degli anni compresi tra il 1989 eil 1992 hanno dato vita a intensi processi di fusione e acquisizione che nehanno aumentato in modo rilevante le dimensioni e il peso nei confronti delleeconomie nazionali9 di riferimento. La solida struttura finanziaria ha reso piùfacile incrementare le attività al di fuori del paese di origine, alla ricerca dicosti minori o di acquisizione “di vocazioni locali” (Coltorti, 2004), ed hapermesso di aumentare la produttività a tassi maggiori dei costi unitari del la-voro e i profitti. Tutto questo ha provocato un grosso rimescolamento a dannodelle multinazionali statunitensi. Ad esempio, Daimler Benz e Volkswagenerano molto più piccole della Fiat, oggi sono più grandi (Cfr. Tabb. 1-2-3).

Le strategie di internazionalizzazione delle multinazionali non sonostate omogenee ma hanno seguito due modelli differenti:1. il primo, prevalentemente di costo, è stato realizzato da Regno Unito e

Stati Uniti;

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6 Sul ruolo delle innovazioni incrementali e sulla loro capacità di produrre valore aggiunto siveda Fortis (1998).7 Il mancato coinvolgimento dell’Italia in questi processi ha comportato un posizionamentodei grandi gruppi italiani, relativamente a fatturato e dividendi, di tipo regionale in mercatiglobali. Per i corrispondenti dati, disaggregati per singolo settore produttivo, si veda Bianchi(2003).8 L’indagine sulle multinazionali riguarda le imprese industriali più grandi del mondo. Permultinazionali si intendono quelle che hanno almeno 2 miliardi di euro di fatturato e l’1% deltotale paese. Sono considerate tutte le più grandi multinazionali aventi sede negli Stati Uniti,Europa e Giappone. Nel manifatturiero non ci sono servizi. Netta è la separazione tra pro-prietà e controllo (almeno in quelle non di proprietà pubblica). L’efficienza è misurata dalrendimento del capitale investito. (Coltorti, 2004).9 In genere le multinazionali restano legate al posto d’origine da un “cordone ombelicale” robu-sto: la presenza della Borsa, del centro commesse (come ad esempio per quelle militari), etc..

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2. il secondo, orientato prevalentemente al mercato, ha consentito alla Fran-cia e alla Germania di aumentare le vendite.

Le multinazionali italiane rispetto a tali processi hanno mantenuto unprofilo essenzialmente defilato e orientato maggiormente al primo modello,con poca alta tecnologia e intensità di R&S (Figg. 1-2), con produzioni me-diamente standardizzate, con investimenti in attività finanziarie e produttivediverse da quelle originarie. Queste strategie, pur aumentando l’attivo e for-nendo qualche vantaggio (Tab. 3) le hanno indebolite rispetto alle concorrentie hanno causato una riduzione dei rendimenti. Il risultato è stato che il pesodelle multinazionali italiane sul territorio nazionale è rimasto nettamente infe-riore (6,5% del fatturato complessivo) a quello degli altri maggiori paesi euro-pei, solo un quarto di Germania e Regno Unito e circa un terzo della Francia.

Il divario nei confronti degli altri competitori globali può essere attri-buito anche alla composizione polarizzata e non equilibrata delle multina-zionali italiane: da una parte le più piccole, che contano meno e dall’altra lepiù grandi, Fiat ed Eni (Fig. 3). Quest’ultima peraltro gode in Italia di unaposizione privilegiata, di una rendita metanifera, con prezzi molto superioriai costi, che non è riscontrabile in altri paesi. La polarizzazione ha un pesodecisivo nella spiegazione del rendimento e della solidità finanziaria dellemultinazionali italiane. Se si scompone il risultato tra l’Eni e le altre multi-nazionali italiane si evince che il miglioramento del rendimento (ROI)10 è at-tribuibile esclusivamente all’Eni.

Per quanto riguarda invece la solidità finanziaria, se si considera il ca-pitale di rischio (l’efficienza è misurata dal capitale netto tangibile in per-centuale dei debiti finanziari), ebbene, se si esclude nuovamente l’Eni, il da-to italiano si dimezza e si pone su livelli notevolmente inferiori a quelli deglialtri paesi (Fig. 4).

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10 Il ROI (Return on Investment) identifica il rendimento della gestione tipica dell’azienda.Rappresenta la massima remunerazione che l’impresa è in condizione di fornire al capitale fi-nanziario raccolto a qualsiasi titolo. Il ROE (Return on Equity) identifica il rendimento delcapitale proprio e si può dire che rappresenta la capacità di una impresa di finanziarsi me-diante la non distribuzione degli utili netti.

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FIG. 1 POCA ALTA TECNOLOGIA (% fatturato settori contenenti high-tech nel 2002 - chimica, mezzi i trsporto,

elettronica)

32

58,5 5774,8

29

10,2 17,4

39 31,3 25,6 22,9

2,3

Italia Germania USA Giappone

Altri

Energia

High-Tech

FIG. 1. POCA ALTA TECNOLOGIA(% fatturato settori contenenti high-tech nel 2002

chimica, mezzi di trasporto, elettronica)

FIG. 2. BASSA INTENSITÀ DI R&S(% sul fatturato 2002)

Fonte: Coltorti (2004).

Fonte: Coltorti (2004).

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5081547922

121747775 7590 6297 5367 4912 4265 4198 3132 2582 2480 2475 2156 2055

FIG. 3. LE MULTINAZIONALI ITALIANE NEL 2002:2 MILIARDI DI FATTURATO E ALMENO L’1% DEL TOTALE DEL PAESE

Fonte: Coltorti (2004).

FIG. 4. SOLIDITÀ FINANZIARIA NEL 2002

Fonte: Coltorti (2004).

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In Italia il sistema delle grandi imprese ha un profilo evolutivo coeren-te con quello tratteggiato per le multinazionali. Il processo di privatizzazioneha fatto emergere nuovi gruppi e nuove imprese, li ha consolidati o trasfor-mati, soprattutto quelli dei distretti, ma il processo non si è esteso e non si ècompiuto e si è, almeno per ora, arrestato; ha subito un ripiegamento che haprodotto effetti sulla internazionalizzazione del sistema produttivo, sulla di-mensione dei gruppi industriali, sulla struttura proprietaria delle imprese esulla tecnologia incorporata nei prodotti. Tanto è vero che nessuna impresaviene coinvolta nei grandi processi di fusione fra multinazionali a fine deglianni novanta (Bianchi, 2003) e prevale nel sistema nel suo complesso l’o-biettivo del controllo della proprietà a scapito della crescita dell’impresa,unitamente alla ricerca di ambiti settoriali protetti e maggiormente remune-rativi (Tab. 4).11 Ciò incentiva investimenti in beni prevalentemente tradizio-nali e una bassa quantità di esportazioni a elevato contenuto tecnologico.

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11 Le imprese private si sono spostate verso i settori a regolazione pubblica che hanno mostra-to negli anni novanta margini di profitto maggiori dei settori di mercato. Sui risultati di eser-cizio e sul fatturato delle principali imprese dei servizi a regolazione pubblica tra il 1990 e il2000 si veda Bianchi (2003).

TAB. 1. - LE PRINCIPALI SOCIETÀ ITALIANE, 2001.

Fatturato* Settore Proprietà

IFI 58.245 Mt Fam. 1,00ENI 48.925 Ener Pub. 0,83OLIVETTI 31.373 Sep Diffusa 0,53ENEL 28.240 Ener Pub. 0,48MONTEDIS 15.448 Ali Diffusa 0,26PARMAL 7.801 Ali Fam 0,13PIRELLI 7.757 Gom Fam 0,13POSTE 7.428 Sep Pub. 0,12ESSO IT 6.759 Ener Inter 0,11FINMECC 6.716 Mt Pub. 0,11GESTORE 5.984 Ener Pub. 0,10OMNITEL 5.658 Sep Inter 0,09EDIZIONI 5.428 Div Fam 0,09ALITALIA 5.273 Tra Pub. 0,09FERROVIE 5.428 Tra Pub. 0,09

* Fatturato in milioni euro 2001

Fonte: Mediobanca, Le principali imprese italiane 2001, Milano 2002. Nel 2002 Montedison viene ac-quisita da Fiat e Olivetti da Telecom (Pirelli). Si accentua lo squilibrio tra Fiat – IFI e i gruppi rimanenti.

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I servizi denotano uno stato di difficoltà, ad eccezione delle assicura-zioni e dei servizi finanziari. Il problema è che trasporti, comunicazioni, ser-vizi informatici, altri servizi alle imprese, servizi alle persone, servizi al go-verno, royalties e licenze sono servizi essenziali che servono ad aumentare ilvalore aggiunto alla produzione e la penetrazione nei mercati.13

L’ultimo censimento dell’industria e dei servizi (1991-2001) sintetiz-

La tabella successiva chiarisce le dimensioni del distacco dai maggio-ri paesi industrializzati in termini percentuali di prodotti esportati a elevatocontenuto tecnologico e di spese percentuali sul prodotto lordo in ricerca esviluppo, totali e delle sole imprese (Tab. 2).12

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12 Le direttive dell’Unione europea prevedono per le spese in R&S il raggiungimento di unaquota del 3% sul PIL. 13 La capacità di presidio delle grandi imprese e il trasferimento delle tecnologie alle impreseminori sono una condizione importante perché il sistema paese possa competere con successo.

TAB. 2. - ESPORTAZIONI DI BENI AD ALTA TECNOLOGIA E SPESE IN RICERCA ESVILUPPO.

Ht/X RS/PIL RSI/PIL

S 6,0 0,89 0,46I 8,0 1,03 0,54G 14,0 2,38 1,63F 24,0 2,19 1,38UK 24,5 1,87 1,27J 25,0 2,93 2,07US 28,0 2,65 1,98

Fonte: Bianchi (2003).

I dati sul valore aggiunto (Tab. 3) e sui servizi alla produzione ne co-stituiscono gli effetti.

TAB. 3. - VARIAZIONI ANNUALI DEL VALORE AGGIUNTO 2002.DATI CUMULATIVI DI 1941 SOCIETÀ ITALIANE.

Industrie di base 0,46Società industriali -6,06Distribuzione al dettaglio 8,88Servizi pubblici acqua, gas, autostrade 6,77Trasporti 3,19Totale 1941 società -2,62

Fonte: Mediobanca (2003).

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za i risultati delle strategie adottate dalle imprese maggiori. L’occupazionemanifatturiera nell’ultimo decennio si riduce mediamente del 7% (pari a–367.759 addetti); a questo risultato contribuisce lo sgretolamento14 dellagrande impresa (- 23,2%) e in misura di gran lunga più ridotta, anche se in-dicativa, la piccola impresa (-4,6%). Solo le medie imprese tengono e l’oc-cupazione aumenta (+ 0,5%) (Tab. 4). Il risultato negativo delle impresemaggiori si comprende meglio se si considerano le 15 migliori grandi impre-se italiane (Top 15). Per queste imprese la riduzione dell’occupazione mani-fatturiera è altrettanto intensa, pari al –20,7% e può essere spiegata con lastrategia di realizzare altrove la produzione di beni assorbiti dal mercato in-terno. Lo confermano i dati relativi alle voci “Vendite in Italia, Esportazionie Ripartizione del valore aggiunto” della Tabella 5.

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14 Se si considerano le unità locali il calo è ancora maggiore, pari addirittura a – 39,7% diunità locali con 1.000 e più addetti (Coltorti, 2004).

TAB. 4. - INDUSTRIA MANIFATTURIERA (variazione 1991-2001).

Classe addetti variazione variazione variazioneimprese numero addetti % addetti

Piccole (1- 49) -9.710 132.647 -4,6

50 -99 364 26.634 5,7100 - 199 20 4.034 1200 - 249 -25 5.278 -4,2250 - 499 -54 18.252 -5,4

Totali medie 305 7.138 0,5

500 - 999 -35 -22.452 -8,51000 e più -18 -219.798 28,3

Totali grandi -53 -242.250 -23,2

Totale -9.458 -367.759 -7

Fonte: Coltorti (2004).

TAB. 5. - IMPRESE MEDIO-GRANDI IN ITALIA DAL 1996 AL 2000(variazioni % - insiemi chiusi - prezzi correnti).

Medie GI italiane Filiali italianeimprese di MN estere

Tutte Top 15 MN

Valore aggiunto 25,6 11,7 12,4 17,8Occupati 12,2 -6,4 -20,7 -3,9Vendite in Italia 27,1 16,8 42,1 29Esportazioni 36,4 36,4 27 37,6

Fonte: Coltorti (2004).

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I dati esposti sollevano chiaramente questioni di grande importanzache possono così essere sintetizzati:

a) una limitata capacità tecnologica ed innovativa del nostro tessuto produt-tivo, con una spesa in ricerca e sviluppo che a stento raggiunge l’1% delPIL, contro valori decisamente più elevati da parte dei paesi sviluppati incui il rapporto supera sistematicamente il 2%;

b) un modello di specializzazione produttiva piegato verso la piccola impre-sa e che si caratterizza per produzioni tradizionali a basso valore aggiun-to, dove la concorrenza dei paesi emergenti appare sempre più agguerritaed insistente;

c) il “declino” della grande impresa, deputata per dimensioni, capacità orga-nizzativa e risorse ad introdurre nuovi prodotti, nuovi processi, nuovetecniche e nuovi modelli di organizzazione. Le poche grandi imprese pre-senti nel nostro paese, sembrano più orientate verso i settori di pubblicautilità, da cui ricavare elevate posizioni di rendita, che verso “l’arena”della competizione a livello internazionale;

d) la negligenza della “policy”, che non ha colto in tempo i cambiamentiposti dalla globalizzazione, sottovalutando l’esigenza di dare stabilità ecompetitività all’economia italiana attraverso opportuni investimenti nel-la ricerca. “La connessione, la complementarietà e la interdipendenza,che connotano un’attività di ricerca e sviluppo, sono così numerose e la-tenti da non poter essere valorizzate dai soli meccanismi di mercato. Intal caso, i segnali di prezzo non possono svolgere un ruolo adeguato perun efficace sfruttamento delle opportunità di investimento che aumenta-no il benessere sociale. Lasciato a se stesso, il “mercato” della ricerca esviluppo ha elevate probabilità di fallimento. Vi è bisogno di forme espli-cite, codificate e razionali di strategia” (Antonelli-Messari, 2003).

I ritardi accumulati nella ridefinizione del sistema della ricerca hannofortemente indebolito la capacità competitiva del nostro Paese, che oggi pre-senta un corpo industriale non sufficientemente attrezzato per affrontare laconcorrenza sui mercati internazionali (Varaldo-Pagano, 2003: 399-430).Come è stato di recente affermato (Bianchi-Messari-Onofri, 2003), agli inizidegli anni ottanta, dopo le due crisi petrolifere degli anni settanta, l’econo-mia italiana si trovava di fronte ad un bivio:a) individuare un sentiero di crescita basato su un riposizionamento strate-

gico del Paese, e quindi rilancio della grande impresa, puntando sull’atti-vità di ricerca e sviluppo;

b) mirare ad un modello di specializzazione a basso contenuto innovativo,con produzioni standardizzate e con un tessuto imprenditoriale piegatosulla piccola e media impresa.

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L’adattamento passivo alla seconda ipotesi crea così i presupposti perl’attuale situazione, l’intero modello comincia a scricchiolare, a perdere po-sizione negli scambi internazionali ed a risentire di una perdita progressivadi competitività. Certo, la congiuntura difficile, l’aumento consistente delprezzo del petrolio, la supervalutazione dell’euro rispetto al dollaro sono tut-ti fattori che incidono negativamente sull’evoluzione dell’export italiano, delmade in Italy in particolare, anche se la matrice dell’erosione della quota dicommercio internazionale va ricercata nelle scelte effettuate nei decenni pre-cedenti. Si è così creata una asimmetria tra domanda ed offerta di beni: ladomanda di beni ad alta tecnologia cresce a livello mondiale ad un tasso pra-ticamente doppio rispetto agli altri prodotti e mentre in Italia la loro quota èrimasta ferma all’8% nel passato decennio, nell’Unione europea è invece au-mentata dal 13,5% al 18,5%, con un incremento cioè di cinque punti.

Le conseguenze negative di questo processo sono quelle sintetizzatenelle tabelle precedenti:

a) rafforzamento di una struttura proprietaria a carattere familiare, “che po-ne vincoli stringenti agli investimenti innovativi perché privilegia l’inde-bitamento di breve termine e gli investimenti sostitutivi di lavoro”;

b) ruolo secondario della grande impresa nel contesto produttivo, “con laconseguenza che l’intero peso della crescita del Paese è oggi addossato aisistemi di piccola impresa”;

c) “spostamento dei residui gruppi di grandi imprese verso attività più red-ditizie e sicure quali i servizi di pubblica utilità” (Bianchi-Messari-Ono-fri, 2003).

Appare evidente quanto sia importante e prioritario recuperare il gapdi innovazione e di competitività. E ciò non solo per arricchire l’offerta delnostro modello produttivo ma anche per rivitalizzare l’attuale modello dispecializzazione, contribuendo al rafforzamento innovativo del sistema dipiccola e media impresa mediante la fornitura di esternalità di alto profilo.

Come detto in precedenza, il peso della crescita economica è stato so-stanzialmente affidato agli organismi produttivi di minore dimensione, e se-gnatamente ai 199 distretti industriali individuati dall’ISTAT che produconoil 38% del PIL del Paese, comprendono il 40% della forza lavoro industriale,danno lavoro a 142,7 milioni di unità e vi abitano 14 milioni di persone.

La maggior parte dei distretti è collocata nel Nord, circa 119, segue ilCentro con 60 distretti ed il Sud con soli 15. I settori coinvolti sono soprat-tutto il tessile e l’abbigliamento (70 distretti), pelli, cuoio e calzature (28),prodotti per la casa (37) e meccanica ed alimentari rispettivamente con 33 e17 distretti.

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1.2. IL RUOLO DEL DISTRETTO INDUSTRIALE

L’individuazione dei distretti segna una svolta sotto il profilo teorico.Infatti, uno dei mutamenti principali a livello teorico è la legittimazione diuna struttura produttiva basata in gran parte sulle piccole e medie imprese.Si tratta di un salto concettuale piuttosto interessante, perché fino a pochianni fa l’operare delle unità produttive di modeste dimensioni veniva conce-pito in termini residuali, vale a dire in ordine alla copertura di economie in-terstiziali (Penrose, 1966), di arretratezza e marginalità, di subalternità o, an-cora, al pari di strutture prive di comunicazione o di sensori sull’ambiente(Rullani, 1996). La coesistenza di piccole e grandi imprese veniva letta al-l’interno di un quadro teorico dove, da una parte, la grande impresa potevagodere dei vantaggi connessi ai rendimenti di scala e alla capacità di incor-porare profitti e, dall’altra, la piccola impresa rappresentava, invece, un ele-mento di compensazione nei periodi di crisi congiunturale, cioè una sorta di“esercito industriale di riserva” su cui far ricadere da parte della grande im-presa il costo delle crisi economiche (Steindl, 1960; Mistri, 1993: 40). In al-tre parole “piccole imprese come fenomeno transitorio, patologico o - nelmigliore dei casi - minore” (Becattini, 1987). La loro sopravvivenza era do-vuta alla capacità di eludere le norme e le regole di natura fiscale e contribu-tiva e alle imperfezioni esistenti nel mercato dei fattori produttivi. Il dibatti-to non si può ritenere concluso, in particolare nel contesto attuale, dove ladiffusione e lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comuni-cazione e il conseguente avvento della new economy, propongono nuove im-pegnative sfide che tendono a ridimensionare il ruolo delle piccole imprese(Gambardella-Varaldo, 2000: 340). Infatti se andiamo a confrontare la di-mensione delle imprese italiane con quella degli altri paesi industrializzati,l’Italia risulta essere caratterizzata da un livello di microimprese decisamen-te superiore e il suo modello di specializzazione risulta essere sensibilmenteasimmetrico, in quanto registra una non trascurabile debolezza della struttu-ra industriale dal lato tecnologico e una forte specializzazione nelle produ-zioni cosiddette tradizionali.

Lo sviluppo della piccola impresa non può essere né mitizzato né sot-tovalutato (Trigilia, 1992: 93). È indubbio che le grandi imprese godono, ingenerale, di economie di scala di tipo tecnico-manageriale e finanziario, mache all’interno delle strutture industriali vi possano essere dimensioni ottimedi impresa anche piccole è altrettanto vero, in funzione dei mutamenti tem-porali che avvengono nei campi della tecnologia, della domanda o del prez-zo dei fattori (Balloni, 1998: 8).

Sul rapporto tra piccole imprese ed economia si è sviluppato un fortedibattito. La tesi del distretto industriale è l’elemento centrale di tale dibatti-

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to. Partendo dallo schema economico di Marshall (Marshall, 1920), Becatti-ni (1979; 1987), attraverso i suoi contributi sulla realtà economica della To-scana, cerca di offrire uno schema teorico capace di interpretare le caratteri-stiche dei sistemi produttivi basati sulle piccole imprese. Anche Fuà (1983)ha analizzato la categoria piccole imprese come espressione interpretativadello sviluppo delle aree del modello Nec. In Marshall l’industria è “un in-sieme di imprese che disponendo di attrezzature tecniche similari, di espe-rienze e conoscenze tecniche comuni, sono in condizioni di produrre più omeno l’una gli stessi prodotti dell’altra” (Becattini, 1962: 110).

Con riferimento alle economie di scala, Marshall scriveva che “il con-sueto modo di trattare dei vantaggi della divisione del lavoro e della produ-zione su larga scala mi appare sotto un certo aspetto insoddisfacente. Infatti,il modo in cui questi vantaggi sono discussi nella maggior parte dei trattati dieconomia è tale da pensare che i più importanti di essi possano essere ottenu-ti solo mediante la concentrazione di grandi masse di lavoratori in immensistabilimenti. I vantaggi della produzione su larga scala possono in generaleessere conseguiti, sia raggruppando in uno stesso distretto un gran numero dipiccoli produttori, sia costruendo grandi officine. Per molti tipi di merci èpossibile suddividere il processo di produzione in parecchie fasi ciascunadelle quali può essere eseguita con la massima economia in un piccolo stabi-limento... Se esistesse un gran numero di questi piccoli stabilimenti specializ-zati per l’esecuzione di una particolare fase del processo produttivo vi sareb-be spazio per redditizi investimenti di capitale nell’organizzazione delle in-dustrie sussidiarie rivolte a soddisfare i loro bisogni particolari” (Becattini,2000: 53). “Non si tratta... semplicemente... di una ‘forma organizzativa’ delprocesso produttivo di certe categorie di beni ma di un ‘ambiente sociale incui le relazioni tra gli uomini, dentro e fuori dai luoghi di produzione, nelmomento dell’accumulazione come in quello della socializzazione, le pro-pensioni degli uomini verso il lavoro, il risparmio, il giuoco, il rischio etc.presentano un loro peculiare timbro e carattere” (Becattini, 1987: 8).

La tesi dei distretti industriali si è via via arricchita di diverse versio-ni15 (Brusco, 1982; Piore-Sabel, 1984; Goodman et al., 1989; Pyke-Becattini-Sengenberger, 1990; Pyke, 1992). Una delle più recenti definizioni di distret-to industriale è data da Pyke (1992), secondo cui si tratta di un “sistema indu-striale... composto (generalmente) di piccole imprese indipendenti, organiz-zate su base locale o regionale, appartenenti allo stesso settore industriale (in-

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15 Si va dalle aree-sistema di Garofoli (1982; 1999) al concetto di grappoli o costellazioni diimprese.

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cluse le attività a monte e a valle), le imprese individuali tendenti a specializ-zarsi in una particolare fase produttiva, organizzate insieme con le istituzionilocali nell’ambito di relazioni sia di competizione che di cooperazione”.

I tratti fondamentali del distretto possono essere schematizzati nel se-guente modo:16

- Enfasi posta sul concetto marshalliano di atmosfera industriale, intesa co-me fioritura di piccoli imprenditori nel contesto locale che, grazie alle bas-se barriere all’entrata, possono mettere a frutto le loro capacità professio-nali, accumulate nel corso di precedenti esperienze come ex-operai ed ex-artigiani. Le stesse posizioni lavorative variano da quelle imprenditoriali aquelle svolte a domicilio, a quelle part-time e, infine, al lavoro salariato.

- Esistenza di una diffusa specializzazione produttiva, che consente alle im-prese non solo di apportare miglioramenti incrementali ai propri standardproduttivi, ma anche di cogliere i mutamenti della domanda, manifestan-do in tal modo una forte flessibilità in risposta al mercato. Una domandasempre più differenziata e variabile obbliga il mantenimento di una strut-tura produttiva che abbia, appunto, i requisiti della specializzazione e del-la flessibilità, onde rispondere con immediatezza alle preferenze dei con-sumatori. Da questo punto di vista, si può ritenere che i comportamentivariabili dei consumatori in termini di domanda mettano in evidenza ilruolo peculiare della piccola impresa rispetto al modello fordista e produ-cono ulteriori momenti di specializzazione lungo la filiera produttiva, alfine di allineare il prodotto alle richieste espresse dal mercato.

- Presenza molto ampia di una popolazione di unità produttive tali da farpensare ad una sorta di impresa collettiva. L’agglomerazione di imprese,anche attraverso un adeguato reticolo di relazioni, permette di superare ledebolezze strategiche, organizzative e strutturali insite nella dimensioneminima dell’impresa e, quindi, far acquisire al distretto i vantaggi deri-vanti dalle economie di scala. L’elemento divisione del lavoro si inseri-sce all’interno di tale meccanismo in quanto accresce il grado di specia-lizzazione nelle varie fasi produttive e i livelli di produttività e di flessi-bilità. In tal modo è come se si formasse un sistema integrato, soprattuttouna struttura basata più sul prodotto che sull’impresa nel senso tradizio-nale (Zagnoli, 1996). Questa efficienza collettiva assicura al distretto unvantaggio competitivo che produce una serie di economie esterne all’im-presa (Schmitz, 1995). La forte concentrazione stimola, da un lato, una

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16 Sull’evoluzione dei distretti cfr. Brusco-Paba (1997).

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concorrenza di tipo schumpeteriano e, dall’altro, meccanismi di coopera-zione lungo la catena di produzione (Brusco, 1992). “Gli ispessimenti lo-calizzati di imprese determinano cioè economie di agglomerazione cheproducono un effetto diffusivo (spillover) in ordine alla trasmissione deifenomeni innovativi. Tali spillover scaturiscono dallo scambio di infor-mazioni all’interno dell’area considerata, che diventano patrimonio col-lettivo che si traduce in innovazioni di processo e di prodotto. Le retiinformative sono, spesso, il risultato di un processo storico di creazionedi una o più attività produttive e di un insieme di relazioni personalispesso fondate sulla fiducia (Sassu, 2001: 46).Nei distretti le informazioni si scambiano velocemente, anche se nonsempre esiste l’opportuna simmetria tra le cosiddette “informazioni dimercato” e le “informazioni tecniche” (Richardson, 1964: 37) in quantoalla conoscenza tecnica del fenomeno produttivo non necessariamente siassocia altrettanta conoscenza nei campi della commercializzazione edella distribuzione del prodotto. Ne consegue che solo l’informazionetecnica permette di irradiarsi rapidamente su tutti i soggetti imprendito-riali che compongono il distretto. Si viene così a configurare un’attivitàche attraverso una fitta rete di relazioni di cooperazione e di competizio-ne innovativa (learning by interacting) può accrescere la conoscenzacomplessiva del distretto mediante processi arrowiani di learning bydoing e learning by using. Si tratta di un modello di innovazione à la Ro-senberg (a piccoli passi), piuttosto che à la Schumpeter (a grandi passi).La letteratura (Asheim, 1997) distingue tra conoscenza codificata o espli-cita, che si esprime attraverso i laboratori di ricerca e sviluppo e circolaall’interno della rete globale, e conoscenza tacita (o contestuale), ovverola professionalità acquisita sul posto di lavoro (Becattini, 2000). Tra que-ste due tipologie di conoscenza esiste un processo di integrazione, nelsenso che la conoscenza contestuale subisce opportune forme di arricchi-mento grazie ai rapporti con la conoscenza esplicita e con le innovazionidel mercato internazionale. “Il processo di produzione di nuova cono-scenza non potrebbe riprodursi a livello locale se non esistesse un mecca-nismo che consente di sposare la conoscenza esplicita, codificata, checircola nella rete globale, con la tacita, contestuale del singolo sistemalocale. Questo meccanismo, che è poi l’applicazione del sapere scientifi-co e tecnologico alla risoluzione dei problemi della vita e dell’industria,ha un ruolo essenziale nella generazione dei vantaggi competitivi” (Be-cattini, 2000: 105). È diffuso convincimento che la conoscenza tacita,che scaturisce dalle relazioni di prossimità intessute all’interno del di-stretto, produca vantaggi competitivi superiori a quelli generati dalla co-noscenza codificata, in quanto ritenuti inimitabili. Ne consegue che il

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know-how tecnologico del distretto industriale nei settori tradizionali èfrutto del meccanismo prima descritto, vale a dire delle innovazioni in-crementali, dell’accumulazione dei saperi locali in termini di tecnologieproduttive e di combinazione dei fattori produttivi. Non si assiste, pertan-to, ad investimenti specifici in attività di ricerca e sviluppo ma i miglio-ramenti produttivi avvengono mediante competenze già esistenti ed ap-prendimenti per tentativi. Anche se l’idea del nuovo prodotto nasce all’e-sterno dell’area, esso viene realizzato nel distretto “attraverso la rivisita-zione degli elementi che compongono la cultura produttiva locale, la va-lorizzazione del know-how cumulato nel tempo... la compresenza di va-lenze cooperativo-competitive tra imprese” (Zagnoli, 1996: 43).

- Connessione fra aspetto economico e aspetto non economico. L’enfasi èposta sul ruolo chiave svolto dal cosiddetto capitale sociale (Putnam etal., 1993). Civismo della popolazione, cultura basata sulla fiducia, che fa-cilita i rapporti economico-cooperativi, basso tasso di conflittualità, co-munità legate da comuni sistemi di valori, identità socio-culturali sono ifattori che formano il capitale sociale. L’ampia rete di relazioni che si vie-ne a costruire definisce il comportamento economico del distretto. Capita-le sociale che diventa una potente leva di sviluppo alla pari del più enfa-tizzato capitale fisico degli economisti classici. Inoltre all’interno del di-stretto operano strutture non economiche che sviluppano comportamentidi costruzione e di rafforzamento del processo integrativo, mentre al difuori del distretto gli stessi organismi assumono atteggiamenti antagonisti.L’esempio è volto ai sindacati ed alle associazioni di piccoli imprenditori,i quali, più che rappresentare rispettivamente gli interessi del lavoro e delcapitale, coordinano i rapporti tra comunità e piccole imprese. Le associa-zioni dei datori di lavoro possono dispiegare informazioni, possono aiuta-re le piccole imprese sui mercati nazionali ed internazionali, possono fa-vorire l’acquisto di materie prime o anche contribuire alla formazione delpersonale (Curran-Blackburn, 1994). Il sistema dei valori descritto che,come detto, si esprime in termini di civismo e di etica del lavoro, poggiasoprattutto sui legami familiari.17 La famiglia contribuisce a stimolare lospirito imprenditoriale ed a garantire e riprodurre il valore del lavoro, latrasmissione delle conoscenze e delle competenze professionali, fattoridecisivi per una struttura produttiva che poggia sulla flessibilità e sulla ca-pacità di adattamento (Diamanti, 1994). Nel contesto territoriale, l’impre-

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17 Sull’argomento si veda anche Porter (1991: 40).

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sa familiare costituisce il primo momento di specializzazione della produ-zione che attenua i rischi insiti nell’attività imprenditoriale (Signorini,2000: 8). È dunque il milieu locale che fornisce alle piccole imprese delterritorio tutti gli ingredienti necessari per sviluppare la produzione, comele componenti storiche, artigianali, culturali, informative.

Alla luce di queste considerazioni il concetto teorico di funzione diproduzione tende a spostarsi da problematiche legate ai soli inputs a questio-ni di natura più complessa, che coinvolgono le reti informative e le interrela-zioni tra ambiente e processo produttivo. In questa prospettiva i costi di tran-sazione assumono un certo rilievo. Dei Ottati (1987: 124) sviluppa il concet-to di “mercato comunitario”, ossia l’idea che nei distretti i costi di transazio-ne sono piuttosto bassi per il fatto che i comportamenti dei soggetti che ope-rano nel territorio, sviluppandosi su un sistema di valori comuni, riducono irischi derivanti dalla gestione delle transazioni. Il distretto può essere conce-pito a metà strada tra la comunità e il mercato. Inoltre la non elevatezza ditali costi, inclusi quelli di accesso alle informazioni, infittisce il distretto dinuove imprese, che incontrano basse barriere all’entrata, e fa sì che lo spiritocooperativo-competitivo delle piccole imprese rappresenti una fonte di van-taggio competitivo nei confronti della grande impresa.

In conclusione l’approccio teorico dello sviluppo prima descritto pog-gia su tre aspetti fondamentali:- la dimensione locale legata al saper fare delle comunità locali e al siste-

ma dei valori prima evidenziati;- la dimensione endogena, vale a dire il richiamo alla valorizzazione delle

risorse interne al territorio, quali le componenti umane, socio-culturali,familiari, istituzionali, infrastrutturali;

- l’innovazione concepita come punto di incontro tra conoscenza tacita ecodificata e come cooperazione e riduzione delle incertezze.

I distretti industriali assumono dunque nel sistema produttivo italianoun ruolo rilevante in termini di diffusione territoriale e di contributo al com-plesso delle esportazioni, contributo che ha consentito al paese di compensa-re le spese per le importazioni di prodotti energetici ed alimentari (Becattini,1999). Diversamente dalle grandi imprese produttrici di beni a tecnologiacomplessa i distretti industriali hanno saputo costruire sulle svalutazioni unvantaggio competitivo che si è trasformato in molti casi in posizioni domi-nanti inattaccabili nei mercati mondiali di nicchia (Becattini et al., 2000). Losviluppo dei distretti è stato continuo nel corso degli ultimi decenni ed è sta-to favorito dalla plasticità culturale che ne ha sostenuto l’evoluzione e la ca-pacità di risposta ai mutamenti dell’economia internazionale. Tuttavia talecrescita non poteva non risentire delle difficoltà connesse all’ingresso sui

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Pur tra lentezza e difficoltà, si intravedono nuovi percorsi evolutivi,con lo spostamento verso beni strumentali e la riduzione del peso delle pro-duzioni che hanno accompagnato la nascita e la diffusione dei distretti. Que-sti risultati si realizzano in condizioni estremamente difficili per i distretti, amotivo della situazione di incertezza e di stagnazione che grava sui mercatimondiali, ma anche come conseguenza delle guerre che hanno coinvolto va-sti territori del terzo e del quarto mondo. In queste condizioni gli effetti de-

mercati mondiali di nuovi competitori e delle politiche difensive delle gran-di imprese italiane.

La diffusione territoriale di questo modello è continua e intensa (Be-cattini-Dei Ottati, 2004). Dal 1951 al 1991 le province distrettuali18 aumen-tano costantemente e dal 1981 l’occupazione manifatturiera supera quelladelle province di grande impresa che declina nettamente. La forbice si allar-ga notevolmente nel decennio 1981-1991 (Fig. 5). Nel decennio successivo(1991-2001) i distretti si confermano un importante modello di coesione so-ciale, ma evidenziano una perdita di slancio.

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18 Fino al 1991 si veda Becattini-Coltorti (2003). Cfr. inoltre, Becattini-Dei Ottati (2004). Que-st’ultimo lavoro costituisce il completamento del precedente. Il confronto fra il modello di gran-de impresa e i modelli di piccola impresa viene realizzato in ambito provinciale. Ciò consente dirisalire fino al 1951. I dati sono stati costruiti sui Sistemi locali del lavoro del 1991, in attesa diquelli aggiornati al 2001 dall’ Istat. Per l’aspetto metodologico relativo alla costruzione delleprovince distrettuali, di grande impresa, miste e residue, si veda (Becattini-Coltorti, 2003).

Fonte: Becattini-Coltorti (2004) FIG. 5. ADDETTI MANIFATTURIERI PER TIPO DI

PROVINCIA

0

500000

1000000

1500000

2000000

2500000

1951 1961 1971 1981 1991

Province distrettuali Province di GI

Altre Province Province di Gi bassa ind.ne

FIG. 5. ADDETTI MANIFATTURIERI PER TIPO DIPROVINCIA

Fonte: Becattini Coltorti (2004).

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Con riferimento alla competizione con l’estero, i saldi commercialidell’Italia con l’estero sono sempre positivi per i beni distrettuali e semprenegativi, e divergenti rispetto ai primi, per i beni dell’industria pesante. Sequesto risultato viene considerato congiuntamente a quello delle importazio-ni manifatturiere per tipo di produzione, che vede un andamento elevato ecrescente delle importazioni dell’industria pesante (soprattutto a partire dal1996), si può affermare che il made in Italy, anche negli anni novanta, pur in

pressivi si irradiano ad ampio raggio ed i beni voluttuari, ad alto contenutomoda (il made in Italy), sono quelli che risultano maggiormente vulnerabili.

Per quanto riguarda l’occupazione manifatturiera, gli addetti si riduco-no nel periodo di rilevazione del -6% nell’insieme delle province, ma le pro-vince distrettuali (-1,2%) e quelle miste (distretti e grande impresa PGI/DI +3,6%), sono quelle che mostrano le performance migliori, se raffrontate aquelle di grande impresa (- 13,3%) che perdono in valore assoluto 269.904addetti (Tab. 6). Le province distrettuali crescono per gli addetti ai servizi(91%) allo stesso ritmo di quelle di grande impresa, una crescita significativase si pensa che le province di grande impresa includono le grandi città.19

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19 Cresce il nanismo dimensionale delle imprese italiane. La dimensione media delle unità lo-cali nelle province di grande impresa si riduce da 9,8 a 8,2 nel 2001. E’ l’effetto dello sgreto-lamento della grande impresa, piuttosto che delle imprese distrettuali. La dimensione mediadelle unità locali nelle province distrettuali passa da 8,9 a 9,2 nel 2001

TAB. 6. - ADDETTI MANIFATTURIERI PER TIPO DI PROVINCIA(anni 1991, 1996, 2001).

Provincia 1991 1996 2001 variazione 1991-2001v.a %

Provincedi grandeimpresa 2.015.863 1.796.128 1.745.959 -269.904 -13,3Provincedistrettuali 2.079.585 2.018.765 2.054.686 -24.899 -1,2ProvincemistePGI/DI 108.347 110.998 112.307 3.960 3,6Provinceresidue 1.006.692 929.869 982.617 -24.075 -2,3TOTALE 5.210.487 4.855.760 4.895.569 -314.918 -6

Fonte: ns. elaborazione su dati ISTAT (Censimenti dell'Industria e dei Servizi).

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condizioni difficili e di riduzione della quota italiana delle esportazionimondiali, continua a pagare la bolletta energetica e alimentare del paese.20

Proprio in relazione alle esportazioni, nel corso della seconda metàdegli anni novanta, il contributo dei distretti industriali alle esportazioni ita-liane diminuisce a seguito della riduzione del peso del made in Italy sulcomplesso delle esportazioni italiane di manufatti. Una attenta lettura del fe-nomeno consente di separare la performance dei distretti da quella dei sem-plici sistemi produttivi locali e pone in evidenza che la riduzione avviene so-prattutto a scapito dei sistemi produttivi non distrettuali (Iapadre, 2003).Queste tendenze accompagnano la prima metà degli anni novanta e si accen-tuano nella seconda metà successiva.

Tra le varie ipotesi che sono alla base delle difficoltà del modello dispecializzazione internazionale dell’economia italiana, il contributo dei paesiemergenti alle modificazioni della domanda mondiale e alcune trasformazio-ni nei gusti e nelle preferenze dei consumatori sembrano costituire i principa-li motivi (Ciocca, 2003; Iapadre, 2003). Relativamente al primo punto i paesiemergenti, come Cina e India, allo stato attuale del loro sviluppo esportanoprodotti tradizionali a bassissimo costo e importano beni finali e strumentalinei quali il nostro paese è relativamente despecializzato o ha rinunciato alpresidio produttivo. Ciò penalizza il nostro sistema produttivo sia nella com-ponente tradizionale che in quella avanzata. Questo fenomeno viene accen-tuato dal fatto che le classi medie di questi paesi non hanno raggiunto unaestensione tale da sostenere con forza il made in Italy. Peraltro, passando alsecondo punto, le classi emergenti di questi paesi potrebbero non seguire ilsentiero di sviluppo delle economie industrializzate e passare “dai consumi disussistenza alle meraviglie dell’informatica” (Iapadre, 2003). A questo ri-guardo è vero che tale ipotesi poggia sull’evidenza di una domanda semprepiù diffusa di beni “d’intrattenimento”, ma è pur vero che questi beni nonsembrano evidenziare una modificazione della filosofia del consumo. Si vuo-le dire che è difficile ipotizzare che si stia affermando una nuova tipologia diconsumatore che non sia attratto e non valorizzi i prodotti innovativi e ad altocontenuto moda del made in Italy, soprattutto se si pensa che ci si riferiscecomunque a paesi che nel corso dei secoli sono stati al centro di scambi diprodotti ad elevato contenuto moda e i cui ceti dominanti si sono distinti per

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20 La competitività delle produzioni distrettuali è elevata. Dal 1993 in poi il valore delleesportazioni delle province distrettuali supera quelle di grande impresa e rimane tale anchenei periodi successivi; inoltre il valore delle esportazioni pro capite delle province distrettualidimostra l’elevata competitività delle produzioni. Cfr. Becattini-Dei Ottati (2004).

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l’elevata raffinatezza nell’arte e nei gusti. Si può tuttavia concordare sul fattoche il carattere recente del fenomeno necessita di approfondimenti.

Se l’attenzione dal confronto tra sistemi si sposta ai soli distretti indu-striali spiccano non solo i punti di forza di questo modello,21 tra cui quello ri-chiamato dal contributo positivo all’occupazione manifatturiera,22 ma anchelo stato di sofferenza in cui versano attualmente molti distretti (FondazioneEdison, 2004). Si conferma anche all’interno di questo modello il ruolo diprotagonista che ha assunto l’impresa medio grande. Nel decennio 1991-2001 l’occupazione manifatturiera (escluso il settore agro-alimentare) crescedell’1,3% e supera in volume quella del resto del paese, che viceversa dimi-nuisce del – 14,5% (Tab. 7).

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21 La ricerca riguarda i 199 distretti industriali ufficiali dell’Istat a cui ne sono stati aggiuntialtri 24, caratterizzati da una maggiore presenza di grandi imprese. Si veda Fondazione Edi-son (2004).22 Il peso globale dei distretti nell’occupazione manifatturiera italiana sale in 10 anni dal47,6% al 51,8%.

TAB. 7. - ADDETTI DELLE IMPRESE NEI DISTRETTI INDUSTRIALI ITALIANI E NELRESTO DEL PAESE.

Censimenti Var %1991 1996 2001 1996-91 2001-1996 2001-1991

199 Sistemi localidel Lavoro -Distretti ISTAT 2.175.129 2.142.852 2.173.248 -1,5 1,4 -0,1

24 "Altri Distretti" (*) 327.282 330.422 361.811 1 9,5 10,6

Totale 223Distretti 2.502.411 2.473.274 2.535.059 -1,2 2,5 1,3

Resto dell'Industriamanifatturiera (°) 2.760.144 2.414.290 2.359.737 -12,5 -2,3 -14,5

Totale addettimanifatturieriin Italia 5.262.555 4.887.564 4.894.796 -7,1 0,1 -7

Peso % delTotale Distretti 47,6 50,6 51,8

(*) Sistemi Locali del Lavoro di: Borgosesia, Varallo, Alba, Alessandria, Casale Monferrato. Sesto Ca-lende, Albino, Legnago, Valdagno, Agordo, Belluno, Pordenone, Imola, Cesena, Fabriano, Carrara, Mas-sa, Aversa, Caserta, San Giuseppe Vesuviano, Bari, Casarano, Tricase, Masera, Tempio Pausania.(°) Restanti 561 Sistemi Locali del Lavoro non distrettuali.

Fonte: Elaborazione Fondazione Edison su dati ISTAT, Censimento 2001.

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Restringendo l’osservazione alla seconda parte degli anni novanta23 èpiù evidente il sentiero evolutivo intrapreso dai distretti. Si nota una forte ri-duzione dell’occupazione manifatturiera24 nei settori originari del sistemamoda (-8,6%), incalzati dalla concorrenza dei paesi terzi, che viene recupe-rata, ma solo parzialmente, dal sistema arredo-casa (+2,7%) e dalla meccani-ca, dagli articoli in gomma, dalla plastica e da altri settori (+3,6%). Il pesodelle imprese medio-grandi sull’occupazione distrettuale aumenta dal 37%al 39,8% e questo vuol dire che in un mercato che si allarga e in cui le filieresi allungano le imprese distrettuali maggiori possiedono una maggiore forzacompetitiva e possono generare esternalità positive per il territorio in cui so-no immerse, che risultano invece costose per le imprese minori. Sembranocioè più attrezzate a realizzare strategie di competizione offensive e a svol-gere funzioni direzionali per il territorio al quale restano saldamente legate.25

Le medie imprese hanno rappresentato “un motore dell’economia ita-liana” nella seconda metà degli anni novanta e la composizione del valoreaggiunto ripartita per settore produttivo e distribuzione territoriale ci dice chepossono essere pensate per i distretti. Lo conferma il fatto che 1392 medieimprese (su un totale di 3667), appartenenti ai distretti industriali e ai sistemiproduttivi locali, rappresentano il 36% del valore aggiunto complessivo (Col-torti, 2004). Le performance sono di tutto rilievo. Le medie imprese tendonoa crescere e producono un valore aggiunto elevato, sono flessibili, richiedonopoco capitale e mostrano una vischiosità al crescere della dimensione. Sonoorientate, con posizioni di rilievo, nei mercati di nicchia e presentano, diver-samente dalle imprese maggiori, una struttura finanziaria solida e rendimentielevati. Sembra che le difficoltà della grande impresa favoriscano lo sposta-mento (o adeguamento) del sistema verso una dimensione più contenuta,orientata a produzioni di nicchia e con forti legami con il territorio, soprattut-to distrettuale, che consente di sfruttare una filiera fatta di specializzazione evocazione produttiva, difficilmente replicabile in altri territori.

Tra il 1998 e il 2000 le medie imprese italiane aumentano di poco piùdel 10% e la variazione percentuale del valore aggiunto è superiore di circail doppio di quella delle grandi imprese manifatturiere. Sono il soggettoprincipale sul quale poggia il buon risultato della meccanica distrettuale, conun ROI pari al 18,5% contro, ad esempio, il 7,4% del settore alimentare. La

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23 L’analisi, ancora provvisoria, è stata condotta su un campione rappresentativo dei distrettiindustriali italiani. Cfr. Fondazione Edison (2004).24 In questo caso il riferimento è quello dei soli settori produttivi di specializzazione dei distretti.25 Come conferma una recente indagine della Fondazione Nord Est. Si veda Marini (2004).

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struttura finanziaria è solida, a differenza delle multinazionali che per finan-ziare il capitale hanno dovuto fare molti debiti a media e lunga scadenza.

Alcune osservazioni prevalenti scaturiscono dalla lettura dell’insiemedei dati che sono stati presentati. In primo luogo il sistema delle impresemaggiori, polarizzato, più orientato ai mercati domestici protetti e a produ-zioni che si sovrappongono a quelle dei distretti industriali (pur se non man-cano casi di eccellenza come Ferrari, Alenia, ST Microelectronics ed altri) èin difficoltà.26 La propensione non elevata di apertura alla concorrenza nonaiuta il sistema stesso e si riflette sulle piccole imprese. È evidente che oc-corra un riposizionamento della grande impresa italiana più rapido e intenso(con azioni della proprietà e del management e politiche industriali coerentie differenziate) per far fronte allo spostamento dei concorrenti verso le atti-vità a elevato contenuto tecnologico e ad elevato valore aggiunto27 (Bianchi,2003). Grandi imprese solide e tecnologicamente avanzate potrebbero inve-ce fare da traino per le PMI e rendere stabile lo sviluppo locale. D’altra parteè illusorio pensare ad uno sviluppo locale fuori dal contesto generale, inquanto il perdurare delle difficoltà dell’impresa nazionale lo renderebbe in-stabile. Così come è altrettanto illusorio pensare a una transizione versoun’economia di servizi senza industria (Gallino, 2003).

In secondo luogo l’aumento dell’occupazione manifatturiera e ancor piùquella nei servizi (processo di terziarizzazione), la competitività delle produ-zioni (il valore aggiunto industriale pro capite, superiore nel 1991 e nel 2001),la persistenza di elevati valori relativi al tasso di attività, alla disoccupazionegiovanile e femminile, al livello di reddito e di benessere e la presenza di saldimigratori sempre positivi dal 1992 al 1999 (Becattini-Dei Ottati, 2004) testi-moniano certamente il relativo consolidamento delle imprese delle provincedistrettuali rispetto a quelle di grande impresa. Anche in prospettiva. Infatti neiterritori “misti” dove sono presenti insieme grandi imprese e distretti industria-li i risultati sono migliori. Le imprese maggiori sembrano più capaci in questafase di sviluppo di offrire una “rete” utile alle imprese minori.

Tuttavia il modello dei distretti perde slancio rispetto al passato e latransizione è lenta. Compensa a ritmi meno intensi il processo di ristruttura-zione della grande impresa, a causa della forte competizione dei paesi terzi edelle economie emergenti dell’estremo oriente, di un mercato che si allarga

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26 Sono quasi sparite le aziende operanti nei settori ad alta tecnologia come nel caso della chimi-ca di base, dell’elettronica, dell’informatica o quelle la cui proprietà è ormai detenuta da soggettistranieri.27 Nel complesso, il sistema delle grandi imprese e quello dei distretti industriali si trasforma-no pur tra limiti e contraddizioni.

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ed è più difficile da presidiare. Il forte calo dell’occupazione nei settori origi-nari delle produzioni distrettuali, pur in presenza della parziale compensazio-ne degli altri macrosettori, deve essere attribuito anche a scelte individuali ea “tensioni” interne al sistema. Molti imprenditori hanno scelto negli ultimianni strategie di delocalizzazione orientate alla competitività di prezzo e allaproduzione standardizzata, producendo effetti negativi che, se non controlla-ti, possono nel lungo periodo esaurire le risorse materiali e immateriali sullequali si sono fondati i distretti.28 Oggi fattori locali (la saturazione di alcunifattori interni ai distretti) e sovranazionali (la globalizzazione dei mercati)producono incertezza e favoriscono comportamenti statici. La paura del cam-biamento e l’attendismo incoraggiano il ricorso ad organizzazioni produttivee finanziarie gerarchiche e di controllo commerciale (a scapito di quelle pro-duttive), che sono più redditizie e meno rischiose nell’immediato. Il pericoloè quello di generare un abbassamento delle relazioni distrettuali e la progres-siva concentrazione industriale, un corto circuito nel funzionamento del mec-canismo distrettuale, che interrompe le interrelazioni tra le imprese locali,ostacola la diffusione delle conoscenze e riduce la varietà e la diversificazio-ne, con ciò la capacità progettuale diffusa nel suo complesso. Le imprese difase potrebbero uscire dal meccanismo di rete per entrare in quello governatodal vincolo gerarchico, orientato al prezzo e alla produzione di elevate quan-tità di beni standardizzati, nel quale l’impresa maggiore e l’impresa terzistadella grande impresa sono più avvantaggiate (Garofoli, 2003).29

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28 Garofoli evidenzia che questo fenomeno si è già presentato in passato e ha prodotto effettinegativi. “Tra le due guerre mondiali e nell’altro periodo di integrazione economica interna-zionale (anni ‘50-’60), come quello attuale, i distretti industriali del Nord Europa sono entratiin crisi perché hanno scelto strategie incoerenti di servizio alla grande impresa che li hannovincolati a produzioni standardizzate e alla competitività di prezzo, indebolendo cosi’ la pro-pria autonomia e vocazione produttiva”. I distretti industriali, prendendo spunto dalla loro ge-nesi, che non e’ di servizio alla grande impresa, non è competizione di prezzo e di imitazionedi modelli altrui, devono evitare di scegliere percorsi di sviluppo che si sono dimostrati falli-mentari in passato. Gli attori dello sviluppo locale devono privilegiare azioni e nuovi orizzon-ti di lungo periodo che producono vantaggi competitivi dinamici. Queste azioni in passatohanno favorito la capacità di progettazione, di relazionarsi con le altre imprese, con il sistemadei servizi e delle conoscenze tecnologiche, hanno prodotto varietà, qualità e una continua in-troduzione di nuovi prodotti. Si veda Garofoli (2003).29 Il decentramento internazionale di fase e gli investimenti diretti all’estero che molte impre-se distrettuali hanno realizzato in questi anni non devono indebolire le relazioni di scambioall’interno dei distretti industriali, i meccanismi di formazione e riproduzione di conoscenzespecifiche e strategiche radicate sul territorio. Un’eccessiva formazione di gruppi di impreseall’interno dei distretti potrebbe determinare il passaggio verso una organizzazione gerarchicache ne impoverisce la varietà e le caratteristiche tipiche. Cfr. Garofoli (2003). Per un approc-cio differente su questo argomento cfr. Trigilia-Burroni (2004).


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