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Date post: 13-Mar-2020
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PARTE PRIMA COME È STATA COSTRUITA ENGINEERING: LA STANZA DEGLI ARNESI di Sergio De Vio La stanza degli arnesi Introduzione: si propone la materia di cui deve trattarsi. Questo scritto è composto di tre parti: la prima parte tratta aspetti che riguardano la costituzione organizzativa e il funzionamento di Engineering; la seconda parte è un tentativo di interpretazione della filosofia politica dei soci fondatori, dei loro valori e del modo di presentarsi come imprenditori. È su queste basi, con questo materiale e con questi strumenti, che è stata costruita Engineering. Questa interpretazione cerca di cogliere le caratteristiche della vita quotidiana di Engineering, del suo modus operandi nelle piccole e nelle grandi cose. Naturalmente, un corpo sociale che ha superato abbondantemente le migliaia di persone non può comportarsi in modo omogeneo in tutte le sue parti, e sarebbe irreale aspettarselo. Mi riferisco, invece, al comportamento medio del suo gruppo dirigente fortemente influenzato dal modo di comportarsi e di ragionare dei soci fondatori. La terza e ultima parte, infine, svolge il tema di Engineering come impresa italiana, che opera nel contesto italiano Il lettore troverà un testo lardellato di citazioni più o meno lunghe. La giustificazione è riconoscere la fonte delle idee utilizzate e non riformulare con parole proprie ciò che è stato già ben detto da altri. Costituzione e funzionamento Ho scelto il termine "costituzione" perché è più denso e significativo di "organizzazione". Il termine "organizzazione" rinvia
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PARTE PRIMA COME È STATA COSTRUITA ENGINEERING: LA STANZA DEGLI ARNESI di Sergio De Vio

La stanza degli arnesi Introduzione: si propone la materia di cui deve trattarsi. Questo scritto è composto di tre parti: la prima parte tratta aspetti che riguardano la costituzione organizzativa e il funzionamento di Engineering; la seconda parte è un tentativo di interpretazione della filosofia politica dei soci fondatori, dei loro valori e del modo di presentarsi come imprenditori. È su queste basi, con questo materiale e con questi strumenti, che è stata costruita Engineering. Questa interpretazione cerca di cogliere le caratteristiche della vita quotidiana di Engineering, del suo modus operandi nelle piccole e nelle grandi cose. Naturalmente, un corpo sociale che ha superato abbondantemente le migliaia di persone non può comportarsi in modo omogeneo in tutte le sue parti, e sarebbe irreale aspettarselo. Mi riferisco, invece, al comportamento medio del suo gruppo dirigente fortemente influenzato dal modo di comportarsi e di ragionare dei soci fondatori. La terza e ultima parte, infine, svolge il tema di Engineering come impresa italiana, che opera nel contesto italiano Il lettore troverà un testo lardellato di citazioni più o meno lunghe. La giustificazione è riconoscere la fonte delle idee utilizzate e non riformulare con parole proprie ciò che è stato già ben detto da altri. Costituzione e funzionamento Ho scelto il termine "costituzione" perché è più denso e significativo di "organizzazione". Il termine "organizzazione" rinvia

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ad organigrammi, a schemi di funzionamento, a cose di questo genere; mentre "costituzione" è vocabolo molto più complesso; si riferisce, infatti, all’insieme di elementi e di caratteristiche di un qualche cosa, alla conformazione di un ente, all’insieme di norme che stabiliscono l’ordinamento di una qualche entità sociale e sanciscono diritti e doveri e così via. Alcuni osservatori si meravigliano che un’impresa dalle caratteristiche di Engineering possa funzionare e funzionare con successo; le mancherebbero, infatti, caratteristiche ed elementi organizzativi e di funzionamento comunemente riscontrabili in altre imprese. Quasi che Engineering fosse uno strano animale che non potesse sopravvivere, come il famoso calabrone che per le leggi aerodinamiche non dovrebbe potere volare. In realtà, il calabrone vola benissimo. Recentemente è uscito un libro sulla storia economica e sociale dell’Italia degli ultimi cinquant’anni intitolato appunto Il volo del calabrone, proprio per dimostrare che, nonostante abbia i difetti del calabrone, l’Italia si è alzata in volo e continua a volare ad alte o basse quote secondo i momenti della storia. Engineering sembrerebbe dunque essere una specie di calabrone. Secondo certi manuali di organizzazione o di teoria dell’organizzazione, c’è qualche cosa che manca, che dovrebbe esserci ma che non c’è. Per esempio, in Engineering, il termine strategia è bandito, non ci sono dichiarazioni strategiche, non c’è un luogo, un momento organizzativo dedicato all’elaborazione della strategia aziendale. Il termine “marketing” non “circola”, anzi c’è una sorta di ostracismo rispetto a tutto ciò che sa di marketing o di marketing strategico. C’è dunque uno ostracismo ferreo per questi due termini: ostracismo nei fatti, non dichiarato ufficialmente. Ciononostante, Engineering funziona e continuerà a funzionare egregiamente anche dopo avere celebrato il ventesimo anno di vita. Occorre dunque cercare qualche schema di riferimento che aiuti a comprendere e spiegare la costituzione e il funzionamento di Engineering al di fuori del filone tradizionale degli studi organizzativi. Quanto ho scritto qui di seguito è il frutto di osservazioni e riflessioni personali svolte, in particolare, in questi ultimi tre anni (luglio 1997 - settembre 2000) durante i quali mi sono occupato della direzione del personale della società. Dico in particolare perché per lungo tempo ho partecipato agli affari e allo sviluppo di Engineering come membro del consiglio di amministrazione. Il consiglio di amministrazione è il luogo istituzionale delle decisioni finali, dei consuntivi, dell’elaborazione dei punti di riferimento generali. Da questo punto di osservazione non si colgono pienamente il funzionamento di un’impresa e, soprattutto, le sue

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caratteristiche culturali. (Si deve tenere presente che i membri di un consiglio di amministrazione sono scelti prevalentemente fuori dell’immediato contesto aziendale.) Una delle prime cose che ho potuto osservare è che, effettivamente, quasi tutte le funzioni, compresa la direzione del personale, acquistano in Engineering una configurazione diversa dal normale, intendo dire diversa da quello che potevo aspettarmi in base a una pluriennale esperienza in altre aziende. Sono rimasto molto perplesso e sconcertato nei primissimi giorni osservando e partecipando alla gestione del personale. Anche le altre funzioni aziendali hanno configurazioni originali; a eccezione della funzione amministrativa dove le ferree leggi della partita doppia, del dare e avere, non consentono varietà di funzionamento: ci sono binari fissi e rigidi che obbligano a determinati comportamenti. Tutto il resto ha una configurazione particolare, diversa da quella che ci si aspetterebbe di trovare in altre aziende. Le mie riflessioni sulla costituzione e sul funzionamento di Engineering toccheranno fondamentalmente quattro punti.

Il primo punto consiste in riflessioni sulla natura dell’imprenditorialità all’esterno e all’interno dell’azienda (la cosiddetta “intraprenditorialità”).

Il secondo ha per tema la costituzione, o per meglio dire, i principi costitutivi di Engineering e il suo funzionamento.

Il terzo punto è dedicato alla questione della strategia, ovvero quale modalità assume in Engineering il pensiero strategico.

Il quarto e ultimo punto ha a che fare con un principio che ritengo fondamentale, fino a oggi, nella gestione delle risorse umane all’interno di Engineering, ovvero il riconoscimento delle competenze e dei meriti.

Imprenditorialità Occorre partire dalla distinzione tra politico, imprenditore, leader, manager. Ci sono tante definizioni del politico. I dizionari di filosofia e i trattati di politica registrano varie definizioni di politica e di politico. Una definizione che mi ha particolarmente colpito e che ho trovato utilizzabile per le mie riflessioni è di Ortega y Gasset. Questo filosofo ha scritto un piccolo saggio intitolato Il politico, che ho letto qualche anno fa e non sono più riuscito a trovare nella mia piccola biblioteca domestica né altrove. La sua sintesi è questa, se ben

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ricordo: il politico è colui che crea possibilità di azione per altri, spazio di agibilità per altri presenti o futuri. Mi sembra una definizione abbastanza straordinaria e, se riflettiamo sulla nostra esperienza storica, su ciò che abbiamo potuto vedere e osservare, constateremo, ne sono sicuro, che i politici che ci hanno più colpito sono proprio coloro i quali hanno creato possibilità di azione, spazi di agibilità per comunità intere, per singole persone, per sistemi imprenditoriali e così via. Ciò richiede grande idealità, ampia visione del futuro e piena disponibilità che altri possano esercitare progettualità e libertà di azione negli spazi creati. Questa è l’essenza della politica. Pensiamo, per esempio, al grande spazio di azione che hanno saputo creare i grandi politici europeisti dei primi anni cinquanta, Adenauer, De Gasperi, Schumann, Monnet; entro questo spazio decenni dopo è nato l’euro. Il politico condivide questa caratteristica fondamentale con l’imprenditore, nel quale essa assume, ovviamente, connotazioni diverse. Per definizione l’imprenditore è colui il quale crea qualcosa con l’impresa, offre possibilità di azioni e di comportamenti nuovi, di progettualità innovativa per sé e per altri, siano essi utenti o collaboratori a vario titolo. Se riflettiamo sull’altra figura cui ho accennato, cioè quella del leader, osserviamo che il leader è colui il quale, nell’ambito della libertà di azione creata dal politico o dall’imprenditore, spinge l’azione propria e di altri verso la realizzazione concreta dei progetti. (Naturalmente, politico e imprenditore sono, frequentemente, leader). C’è, infine, la figura del manager, il più vicino all’esecutività; colui che si immedesima nella realizzazione. Se cominciamo il percorso dal basso verso l’alto, andiamo dalla realizzazione concreta e pratica verso la possibilità di creare condizioni di agibilità, condizioni di progettualità per tutti. (È superfluo precisare che non esistono in realtà le quattro figure allo stato puro; ognuna di esse ha elementi delle altre tre; cambia tuttavia la combinazione di base). Ora, mi sembra che una delle caratteristiche dominanti della costituzione e del funzionamento di Engineering sia l’esaltazione delle possibilità di azione per tutti, di apertura di campi di agibilità di volta in volta individuati dalle strutture imprenditoriali e dirigenziali, e indicati per la successiva azione di conquista, di sfruttamento o di consolidamento. È difficile riscontrare pronunciamenti costrittivi che definiscano a priori ciò che può essere fatto e ciò che non deve essere fatto. In effetti, coloro i quali riescono a emergere, in un modo o nell’altro, all’interno del contesto sociale di Engineering, sono coloro i quali si avvicinano il più possibile alla figura del leader e dell’imprenditore. Conseguentemente, le persone che si cercano all’interno di

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Engineering, o per Engineering dall’esterno, sono persone che possano diventare leader, imprenditori nel loro ambito, piccolo o grande che sia. Organizzazione e funzionamento. Il secondo punto tratta dei criteri sui quali poggiano l’organizzazione e il funzionamento di Engineering. Gli schemi classici della teoria dell’organizzazione mi sono sembrati poco utilizzabili per capire la costituzione e la dinamica organizzativa di Engineering. Sono ricorso a una teoria abbastanza marginale rispetto al filone prevalente e più frequentato. Si tratta della teoria organizzativa di Stafford Beer1. In breve, i principi di base di questa teoria sono tre:

- vitalità; - autonomia; - ricorsività.

“Vitale” è la traduzione, non del tutto felice, di viable in inglese o viable in francese. Vitale è un sistema che ha la capacità di vivere dal punto di vista della funzionalità organica, di mantenere un’esistenza separata, di sopravvivere in un dato ambiente in modo autonomo; ha cioè la capacità di agire, di controllarsi, di motivarsi dal proprio interno, di cambiare direzione di movimento in un determinato spazio. In Engineering si tende a creare unità organizzative, unità di business che abbiano tutte le condizioni di vitalità rispetto a un determinato ambiente.

Ora, vitalità implica necessariamente il concetto di autonomia. Autonomia vuol dire la capacità di sapersi regolare senza costrizioni dall’esterno, di saper rispettare certi parametri di autorità facendoli propri consensualmente. Per il disegno delle strutture organizzative è importante il terzo concetto, quello di ricorsività. Ricorsività è un concetto molto generale; si riferisce all’annidarsi di cose dentro cose, alla parentesi dentro una parentesi, a un racconto all’interno di un altro racconto, a una scatola dentro una più grande. Per ricorsività intendo riferirmi a quel procedimento che consiste nell’applicazione ripetuta di un’operazione o serie di operazioni con l’utilizzo, a ogni applicazione, del risultato dell’operazione procedente come base di partenza.

1 S.Beer, Diagnosi e progettazione organizzative - Principi cibernetici, ISEDI, Torino1991; e R.Espeyo e R.Harnden The Viable System Model, J.Wiley, London 1989.

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In una struttura organizzativa ricorsiva ogni sistema vitale contiene altri sistemi vitali, ed è contenuto da un sistema vitale. In tale struttura, il livello successivo di ricorsività contiene tutti i livelli di ricorsività inferiori a esso. I componenti di un sistema vitale sono anch’essi sistemi vitali e, in quanto tali, identici strutturalmente al sistema vitale che li contiene. In altri termini, i sistemi vitali sono uno dentro l’altro in modo ricorsivo, e a ogni livello di ricorsività si ritrovano le stesse caratteristiche costitutive.

Abbiamo dunque l’impresa, l’azienda Engineering vitale, cioè autonoma, capace di sopravvivere, capace di svilupparsi. All’interno di Engineering ci sono varie unità a loro volta vitali, capaci cioè di mantenere un’esistenza separata e di svilupparsi; all’interno di queste macro unità vi sono poi altre unità, unità di progetto, gruppi di lavoro ecc.; all’interno delle unità di progetto troviamo infine le persone, la singola persona che dovrebbe essere, anzi è, vitale per definizione perché se non fosse vitale non sarebbe una persona autonoma, ma un automa regolato dall’esterno. Ci possono essere eccezioni a questi principi organizzativi di ricorsività e vitalità, ma mi sembra di potere affermare che la tendenza organizzativa di Engineering è di creare ricorsivamente unità autonome vitali, capaci di sopravvivere, vivere e svilupparsi autonomamente.

Questo è il primo insieme di criteri che formano la costruzione organizzativa di Engineering. Ora. questi princìpi enunciati non sono consueti. In molte aziende vigono altri princìpi costitutivi che non includono il criterio di vitalità, di autonomia e di ricorsività. Basti pensare a quanto ha influito il taylorismo organizzativo nella costruzione dei sistemi di produzione e di amministrazione di moltissime aziende, nelle quali la vitalità e l’autonomia dei sottosistemi si perdono progressivamente fino all’ultimo livello dell’organizzazione aziendale dove l’autonomia e la vitalità sono del tutto scomparse.

Per quanto riguarda il funzionamento bisogna ricorrere al principio di sussidiarietà. Si potrebbe certo pensare che ci siano caratteristiche di federalismo nell’organizzazione di Engineering; in effetti esistono tante isole autonome che potrebbero essere considerate come stati membri di una federazione. Tuttavia, avrei qualche difficoltà ad applicare la metafora politica del federalismo. Trovo, invece, più calzante l’applicazione del principio di sussidiarietà.

Il principio di sussidiarietà può essere espresso in questo modo: ciò che può fare un’entità organizzativa di livello inferiore, non deve farlo un’altra di livello superiore. Il livello superiore gerarchico non interviene se il livello inferiore è in grado di fare le cose che deve e può fare. In effetti, la parola stessa “sussidiarietà” allude al fatto che

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il livello superiore interviene come in aiuto, in sussidio del livello inferiore.

Questo principio di sussidiarietà, da un punto di vista di dottrina della politica, deriva da quelle filosofie politiche che ammettono la pluralità di individui, istituzioni, comunità all’interno di una società o di uno Stato e che non identificano il soggetto politico agente solo e soltanto nello Stato. Sono le filosofie politiche di ispirazione liberale e di ispirazioni cattolica. In effetti, il principio di sussidiarietà è uno dei cardini della dottrina sociale cattolica contro lo statalismo, contro il predominio di tutte le forme stataliste in favore delle cosiddette formazioni intermedie. È stato proposto per la prima volta da Pio XI nell’enciclica Quadragesimo Anno del 15 maggio 1931 con una formulazione considerata ancora oggi classica, che merita di essere citata testualmente: <<Siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare>>.

Questo principio di sussidiarietà è stato recepito anche nella costituzione dell’Europa, precisamente nel trattato di Maastricht.

Nell’articolo 3b è enunciato il principio di sussidiarietà: <<... la Comunità interviene secondo il principio di sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati a livello comunitario>>.

Nella formulazione dell’articolo 3b è da rilevarsi l’importante riferimento alle “dimensioni degli effetti dell’azione“ come eventuale giustificazione dell’intervento del livello superiore su quello inferiore.

In altri termini, il principio di sussidiarietà sancisce che il livello superiore interviene sull’autonomia del livello inferiore solo se il livello inferiore ha bisogno di un aiuto, e solo se gli effetti e le conseguenze dell’azione del livello inferiore potrebbero essere tali da investire tutta la comunità.

In termini più analitici, questo principio implica che:

- l’unità organizzativa superiore deve mettere le unità inferiori in condizione di realizzare da sé tutto ciò che possono;

- l’unità maggiore deve intervenire solo in quelle situazioni che superano le capacità delle unità inferiori;

- la persona, la singola persona è, in ultima analisi, il centro e il motore di ogni attività

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A me pare che il principio di sussidiarietà ispiri e regga il comportamento organizzativo di Engineering e che la tecnica della ricorsività si associ perfettamente a esso. Non sono molte le aziende che applicano come criterio regolatore del funzionamento organizzativo il principio di sussidiarietà. Non tutto e sempre ciò che accade in azienda è in sintonia con questo principio; si verificano certamente casi in cui c’è stato un intervento che non doveva esserci perché invadente e non rispettoso del principio di sussidiarietà. Tuttavia, mi sembra che questo sia l’orientamento di fondo.

Un recentissimo evento può chiarire la dinamica dell’applicazione dei principi di sussidiarietà e di autonomia.

Il 24 luglio 2000, presso la sede della Corte dei Conti in Roma, si è svolta la procedura di dichiarazione del vincitore della gara per la <<attività di sviluppo, manutenzione, assistenza, call center, addestramento, conduzione tecnico-sistemistica, assistenza tecnico-operativa del sistema informativo delle sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti”: Engineering - Ingegneria Informatica si è aggiudicata questa importante gara. La partecipazione a questa gara era stata vivamente sconsigliata dal direttore generale, Paolo Pandozy, e dall’amministratore delegato della società, Rosario Amodeo, perchè ritenevano che si andasse incontro a un quasi certo spreco di risorse e di tempo data l’oggettiva situazione presso il cliente: si trattava di scalzare da una posizione acquisita e consolidata in anni di lavoro un fornitore forte e di grandi dimensioni, che aveva a suo tempo disegnato e parzialmente realizzato il sistema informativo oggetto della gara e quindi in grado di fornire informazioni utili per la formulazione del bando di gara

Il responsabile della Direzione vendite amministrazione centrale, Stefano Ranaldi, era di opinione contraria, ritenendo che ci fossero margini di manovra e possibilità di recupero se si fosse puntato sulla qualità del progetto e su un accorto lavoro di raccolta di informazioni presso il cliente, informazioni che avrebbero consentito di cogliere appieno le aspettative e di dimensionare correttamente le specifiche progettuali. Il lavoro per la preparazione dell’offerta fu avviato nonostante le resistenze dei massimi dirigenti citati, i quali non posero veti, anzi contribuirono, ognuno a suo modo, alla preparazione dell’offerta.

L’offerta tecnica fu consegnata il 25 maggio. Due mesi dopo, con sollecitudine e tempismo inusitati, la Corte dei Conti assegnava la gara.

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Il giorno stesso il direttore generale fece pervenire a Stefano Ranaldi la seguente lettera, che cito per esteso perché fortemente significativa:

Caro Stefano, quando mi proponesti di partecipare alla gara della Corte dei Conti ti invitai a pensare ad altro. La situazione oggettiva, la griglia di valutazione e le alleanze in campo sembravano non lasciare scampo. Tu insistesti a lungo ed alla fine mi lasciai convincere pensando, onestamente, che avremmo perso tempo. Oggi celebriamo una grande vittoria, che è la vittoria di tutti quelli che hanno partecipato alla stesura dell’offerta, ma è soprattutto la vittoria della tua determinazione. Bravo!

Sembra una favola a lieto fine; i casi esemplari e positivi hanno tutti questo svolgimento; pur tuttavia possono essere veri.

L’applicazione sistematica di questo principio di sussidiarietà ha implicazioni profonde. Tutto ciò che riguarda l’assunzione di rischi e di responsabilità, la valutazione dei meriti, delle colpe e così via, alla luce del principio di sussidiarietà acquista una forma particolare. Per esempio, ci vuole una notevole dose di tolleranza dell’errore e di capacità di assunzione di rischio da parte dei livelli gerarchici superiori nei confronti del comportamento di quelli inferiori. Il principio di sussidiarietà è l’esatto contrario dei principi organizzativi tayloristici. Si possono certo notare manchevolezze, scostamenti dai principi enunciati nella realtà quotidiana di Engineering. I comportamenti richiesti dalla filosofia organizzativa dei sistemi vitali e dall’applicazione del criterio di sussidiarietà sono, infatti, impegnativi e la loro assimilazione e pratica richiedono tempo, costanza e coraggio.

Prima di passare a esaminare l’argomento successivo, vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che la scelta della teoria dei sistemi vitali (vitalità, autonomia, ricorsività) e l’applicazione del principio di sussidiarietà come base per costruire un’organizzazione, sono, implicitamente ed evidentemente, anche una scelta politica ed etica.

Ho esposto quelli che mi paiono essere i principi di base della costituzione organizzativa di Engineering. Non vorrei, tuttavia, dare l’impressione che l’organizzazione di Engineering sia nata subito completa in tutte le sue parti come Minerva che uscì splendente e completa dalla testa di Giove. Non è così, ovviamente.

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Engineering è un prodotto storico che festeggia i venti anni di vita. Essa ha le attuali caratteristiche perché gli eventi, i successi e gli insuccessi di questi anni così l’hanno plasmata intorno alle cellule germinali iniziali, cellule che hanno dato impulso e orientamento alla sua crescita e alla sua evoluzione. La costituzione e il funzionamento di Engineering non sono, cioè, il risultato della realizzazione di un piano come Brasilia, nata dal nulla secondo il piano redatto sul tavolo da disegno dagli urbanisti-architetti Costa e Niemeyer, o come Chandigarh progettata in Francia da Le Corbusier e costruita in India.

Per capire di più del prodotto storico Engineering bisogna indagare sulle cellule germinali e comprendere entro quali riferimenti culturali si sono mosse e di quali valori erano, e sono, portatrici. Con il termine cellule germinali intendo riferirmi alle persone che hanno inventato l’impresa Engineering. Questa indagine sarà l’oggetto della seconda parte di questo scritto. La questione strategica Esaminiamo ora la questione della strategia, argomento assai intricato e controverso. ”Strategia” è una parola strana. Nell’introduzione all’edizione tascabile del trattato sulla guerra di Clausewitz il generale Carlo Jean, direttore del Centro studi strategici della Difesa e - a suo tempo - consigliere militare del Presidente Cossiga, scrive:

Il concetto di strategia è relativamente recente, almeno come l’intendiamo ai nostri giorni. La strategia non esiste in natura, ma solo in letteratura. Prima della fine del Settecento era assorbito in quello di politica. Era la "ragione di Stato" a includere la "ragione militare". In seguito, con l’aumento della complessità dell’arte della guerra e soprattutto con il sorgere dei corpi professionali, in particolare degli stati maggiori di modello prussiano, la strategia fu intesa come un’entità indipendente e separabile dalla politica. Il termine "strategia "si affermò soprattutto per delimitare il campo di azione e di responsabilità dei militari nei confronti dei politici... La strategia, che non è suscettibile di un entity in itself approach, costituisce un attrattore e un catalizzatore di conoscenze provenienti da campi disciplinari diversi. Gli studi strategici... mirano a fornire ai responsabili delle decisioni strategiche valutazioni e strumenti concettuali non solo per la conoscenza,

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ma anche per la comprensione dei fattori in gioco e della loro evoluzione...2

Sarebbe interessante commentare per esteso quanto scrive Carlo Jean. Mi limito, in questa sede, a rimarcare l’affermazione che la strategia non esiste in natura ma solo in letteratura, e che l’elaborazione di questo concetto è servita a dare contenuto riconoscibile alla professione di un corpo sociale specializzato. Sembra, inoltre, che il concetto di strategia sia stato inventato per distinguere l’azione sul terreno di guerra dalla politica, cioè per definire il complesso di azioni e accadimenti che si svolgono sul terreno di guerra: c’è la politica nelle alte sfere e c’è la strategia sui campi di battaglia, ossia un complesso di azioni e reazioni, spesso confuse e che solo gli storici comporranno in schemi ben ordinati.

Dunque, strategia è qualcosa che, sorprendentemente, c’è e non c’è; è un metodo di studio, sono riflessioni che attribuiscono, retrospettivamente, senso o significato a un complesso di accadimenti.

Tuttavia, possiamo constatare che in qualsiasi manuale di gestione aziendale vi sono capitoli e capitoli dedicati alla strategia, e i libri dedicati alla strategia occupano molti scaffali. In questi capitoli e in questi i libri la strategia è trattata come un’entità reale con risultati spesso sconcertanti.

Se provassimo a leggere, infatti, un qualche manuale di strategia troveremmo osservazioni e raccomandazioni abbastanza ovvie, banali. Uno dei libri più famosi di strategia, Strategy del colonnello B.Liddell Hart, elenca otto aforismi che costituirebbero la struttura portante di una strategia militare. L’ottavo principio, o assioma, dice: do not renew an attack along the same line (or the same form) after it has once failed, e potrebbe essere tradotto sommariamente così: “non ripetere due volte lo stesso errore, cioè non attaccare due volte là dove si è fallito”. Aforisma che qualche generale ha sicuramente dimenticato, come la storia dimostra, ma un po’ deludente. Gli altri sette aforismi hanno la stessa forza.

C’è qualcosa che non funziona. L’ovvietà e la banalità apparenti delle formule strategiche nascondono qualche nodo teorico irrisolto. Sappiamo per esperienza che l’esigenza di avere o di conoscere la strategia che segue il proprio gruppo di appartenenza o la propria azienda è molto sentita. Qual è la strategia di Engineering? È una domanda ricorrente. La risposta non è semplice; richiede la messa a fuoco di alcuni concetti.

Nel manifesto celebrativo dei 35 maggiori clienti di Engineering stampato nel 1987 si contano 20 clienti del settore industriale e 15

2 C.Jean, “Introduzione”, in Karl von Clausewitz, Della guerra, Oscar Mondadori, Milano 1998.

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del settore bancario e finanziario. Oggi circa il 50% del fatturato proviene da banche e istituti finanziari e la presenza di Engineering nel settore industriale si è ridotta, anche se attualmente è in espansione. Si sarebbe portati a concludere legittimamente che c’è stata una profonda trasformazione nella presenza di Engineering sul mercato, trasformazione guidata da una strategia che aveva per base l’intuizione che, offrendo il settore industriale, in quel dato momento congiunturale, minori possibilità del campo finanziario, tutta l’armata Engineering dovesse marciare in direzione del settore bancario e finanziario.

Non mi risulta che vi sia stata una consapevole strategia di questo tipo. Mi sembra, invece, che la presenza di Engineering sul mercato si sia evoluta spontaneamente, progressivamente. Essa si trova nella situazione attuale senza che ci sia stata una dichiarazione esplicita di strategia, almeno così come essa è intesa dai manuali.

La domanda che mi sono fatto e che tutti gli osservatori possono, legittimamente, formulare è: come è stato possibile? come è possibile che Engineering si sviluppi senza strategia?

La risposta che mi sono dato è la seguente. Bisogna, innanzi tutto, intendersi sul concetto di strategia. L’uso del sostantivo e dell’aggettivo “strategico” sono inflazionati. L’aggettivo “strategico” è infatti adoperato il più delle volte come sinonimo di importante, decisivo, essenziale e così via. Svolgerò dunque alcune riflessioni sul concetto di strategia per meglio cogliere e comprendere l’approccio di Engineering.

Mi sembra che alla base della concezione più diffusa di strategia ci siano due errori concettuali.

Tali errori concettuali fanno sì che la “strategia” prenda generalmente una configurazione talmente astratta da indurre il generale Eisenhower, alla vigilia dello sbarco in Normandia, a enunciare un significativo aforisma a uso delle innumerevoli persone che lo pressavano per avere chiarimenti sul comportamento strategico da adottare una volta arrivati sulle spiagge francesi: <<I piani strategici sono tutto prima della battaglia, ma del tutto inutili quando è cominciata>>.

Questo aforisma del comandante supremo delle Forze Alleate si accompagna bene alla risposta che diede il generale Roosevelt sbarcato proprio sulle spiagge di Normandia. Al suo aiutante di campo che gli urlava: <<Generale, siamo sbarcati in un punto sbagliato; le mappe indicano che dovevamo essere più a sinistra>>, il generale rispose: <<Colonnello, qui siamo sbarcati e qui cominciamo la battaglia>>.

Le storture concettuali sono due: una è una cattiva interpretazione di Platone e l’altra una cattiva interpretazione di Aristotele. Platone, come è noto, ha sviluppato la teoria delle idee

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secondo la quale l’idea è l’unità visibile nella molteplicità degli oggetti. L’idea appare a Platone come l’esemplare delle cose naturali, le quali somigliano a essa e ne sono immagine. Le idee esistono separatamente dalle altre cose, e cioè dalla molteplicità delle cose stesse. Forzando l’interpretazione, possiamo dire che da una parte ci sono le realtà terrestri e dall’altra il mondo delle idee. L’idea è un qualche cosa di lontano e di astratto, astratto letteralmente dalla realtà. Ecco l’errore "platonico" dei teorici della strategia: costruirsi un modello ideale di comportamento; definire, cioè, un obiettivo ideale e individuare tutti i passi che devono essere percorsi per conseguirlo.

Questo modello di comportamento deve essere poi conculcato con forza di volontà sulla realtà. Questo è lo schema generale strategico. Appare chiaro il nodo irrisolto tra teoria e pratica. L’aforisma del generale Eisenhower manifesta proprio questo nodo: i piani strategici servono prima della battaglia perché la realtà sul campo sarà sempre altra cosa rispetto a quella prevista.

La strategia è una teoria che appartiene al mondo delle idee, lontano dalle realtà terrestri. Questo è il primo errore: partire da un punto terminale di arrivo per poi risalire all’indietro e definire i passi necessari per arrivare a quel punto terminale, punto ideale ovviamente molto lontano dalla realtà.

Clausewitz ha introdotto il concetto di attrito per spiegare la differenza che corre tra le operazioni che si progettano sulla carta e quelle che realmente si attuano sul terreno e che hanno come esecutori uomini, ciascuno dei quali vi apporta un suo proprio e molteplice attrito. <<Il rendimento - egli scrive - si riduce in guerra sotto l’influenza di piccole cause innumerevoli che è impossibile apprezzare convenientemente a tavolino; e in conseguenza si resta molto al di sotto del risultato previsto... l’idea dell’attrito è la sola che abbia sufficiente analogia genuina con quanto distingue la guerra reale dalla guerra a tavolino>>.

Allora si potrebbe dire che i bravi strateghi sono quelli che hanno un ideale strategico che si avvicina molto alla realtà; sì, ma più l’ideale strategico si avvicina alla realtà, inglobando cioè il maggior numero possibile di occasioni di attrito, meno rimane di strategia nel senso proprio del termine.

Forse ci soccorre per chiarire questo punto quanto scrive Benedetto Croce in una sua nota sul vom Kriege di Clausewitz:

…quel che Clausewitz viene determinando circa il rapporto di

teoria e pratica rispetto alla guerra è il medesimo di quello che accade per ogni altro oggetto...Oltre l’aporia circa la loro utilità o inutilità, le trattazioni di carattere tecnico, ossia che si propongono in modo più prossimo di servire alla pratica (più

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prossimo, perché ogni verità è sempre praticamente efficace e giovevole), e perciò accostano e avvicendano concetti speculativi con concetti e leggi empiriche, presentano per se stesse una speciale difficoltà, o piuttosto sono esposte a un duplice pericolo. Da una parte, si delinea la tendenza a trattarle con metodo esclusivamente filosofico, con che, eliminando le proposizioni di esperienza, si cade nella più perfetta vacuità, ovvero, innalzando queste a proposizioni speculative e assolute, si cade nell’arbitrio; dall’altra parte, si ha l’opposta tendenza a trattarle con metodo tutto empirico, abbassando a empiriche le stesse proposizioni speculative, e, per così dire, mollificando e liquefacendo l’ossatura e il sostegno della trattazione stessa.3

La strategia è un insieme di dichiarazioni, di descrizioni di intenti e di situazioni desiderate da raggiungere, cioè letteratura, come scrive appunto Carlo Jean; ovvero, seguendo più recenti correnti di pensiero, un insieme di azioni che acquistano progressivamente significato. Il significato muove a ritroso, come se l’ultima azione gettasse luce, senso su quelle già compiute. Gli studiosi parlano ora, infatti, più che di strategia, di emergent strategy o, addirittura, di emergent strategizing (per esempio H. Mintzberg: <<emergent strategy means, litterally, unintended order>>). Con il che la strategia si è definitivamente liquefatta.

L’altra stortura concettuale risulta da un’interpretazione impropria di Aristotele, il quale distingueva due campi di azione, quello della poiesis e quello della prassi. La poiesis è tutto ciò che afferisce alla fabbricazione, al fabbricare, al fare cose, produrre oggetti; prassi è invece la condotta degli uomini. La poiesis (fabbricazione) ha determinate regole e sono regole scientifiche, proprie dei vari rami dello scibile scientifico e tecnologico (ingegneria, chimica, fisica ecc.). La fabbrica è proprio il massimo esempio di poiesis. Il fabbricare è analizzabile scientificamente, standardizzabile, codificabile. La prassi è tutta un’altra cosa: non è assolutamente standardizzabile, codificabile. Alla prassi, al comportamento delle persone non è applicabile il metodo scientifico.

La realtà dimostra che la strategia non è affatto suscettibile di regole scientifiche; non può essere il risultato di un processo scientifico. Bisogna lasciare la strategia nel cassetto del comportamento con le proprie dinamiche basate su criteri affatto diversi da quelli del canone scientifico.

Opportunamente il generale Jean, già citato, scrive che Clausewitz dimostra la fatuità di ogni teoria strategica concepita

3 B.Croce, Ultimi Saggi, Laterza, Bari 1935, pp.272-285.

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come arte meccanica e, come rifiutava la sufficienza scientista degli strateghi della scuola geometrica del suo tempo, si prenderebbe gioco oggi delle schematizzazioni arbitrarie. Secondo Clausewitz, infatti, <<le forze intellettuali hanno un valore preponderante per chi dirige la guerra. La guerra è il campo dell’incerto. I tre quarti delle cose su cui ci si basa per agire sono immerse nella nebbia dell’incertezza. Perciò è necessario per prima cosa un’intelligenza molto penetrante per giungere all’intuizione della verità mediante il proprio raziocinio>>.

A proposito del rapporto fra teoria e pratica, Benedetto Croce, nel saggio citato poc’anzi, scrive usando le parole stesse di Clausewitz: la teoria non vuol essere un dettame del fare, ma una contemplazione. Egli scrive: <<un’indagine analitica dell’oggetto, che lo fa conoscere con esattezza, e, applicata all’esperienza, ossia, in questo caso, alla storia della guerra, conduce alla familiarità con l’oggetto stesso; e in quanto più consegue questo fine, tanto più trapassa dalla forma oggettiva di un sapere a quella soggettiva di un potere, e tanto più si proverà efficace anche dove la natura delle cose non permette altra risoluzione che quella del talento>>. Da questo punto di vista la strategia è divenuta una disposizione mentale, una caratteristica dell’intelligenza del politico e dell’imprenditore.

Sono convinto che il gruppo imprenditoriale e dirigente di Engineering abbia evitato l’astratta modellizzazione e la ricerca di regole scientifiche di comportamento. Il suo pragmatismo, per non dire il suo positivismo, ha mantenuto la conduzione dell’azienda a stretto contatto con la realtà effettuale; il che non ha impedito coraggiose iniziative imprenditoriali, spesso positivamente sancite dalla prova del mercato.

L’aderenza alla realtà fattuale costringe a porre attenzione non al punto terminale di arrivo, ma al punto iniziale di partenza; a non puntare a un ipotetico ideale obiettivo lontano nel tempo e nello spazio, bensì alla situazione, o, per essere più preciso, alla configurazione della situazione in cui ci si trova e a individuarne le potenzialità. L’effetto del proprio agire, o non agire, deve derivare dalla situazione. E questo è possibile solo se si conosce intimamente la configurazione della situazione, e cioè quali sono le forze in campo, come agiscono e interagiscono e così via, e si sia quindi pronti a raccogliere l’occasione4.

Ecco, penso che, se dovessi sintetizzare l’approccio strategico di Engineering, direi che è quello di badare allo stato iniziale delle cose per cogliere le opportunità, gli spazi di azione, piuttosto che puntare verso l’obiettivo finale da raggiungere seguendo un percorso del

4 F.Jullien, Traité de l’efficacité, B. Grasset, Paris 1996, p.79 e ss.

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tutto teoretico. Da qui ha origine una sorta di ostracismo alle parole strategia, marketing, marketing strategico. Se consideriamo bene l’evoluzione di Engineering, ci accorgiamo che la sua forza nel rimanere vitale e svilupparsi poggia sulla capacità di essere costantemente vicina al punto di maturazione di significativi eventi di mercato. Probabilmente 10 anni fa, epoca del manifesto nel quale sono rappresentati i 20 clienti nel settore industria e i 15 nel settore finanza, c’erano segni premonitori che indicavano che forse la direzione da prendere era verso il settore finanza per una serie di ragioni, alcune occasionali, altre di lunga portata. La strategia in Engineering c’è, ma ha regole abbastanza originali, che fanno parte della cultura diffusa. Dunque, attenzione al punto di partenza e alla configurazione della situazione iniziale. Quest’ultima osservazione conclude la riflessione sul tema "strategia". Riconoscimento e gestione del personale La direzione del personale all’interno di Engineering ha un particolare modus operandi. In quasi tutte le società che ho conosciuto e frequentato, la direzione del personale interviene con una responsabilità diretta, anche se condivisa, nella gestione del super minimo, e cioè di tutto ciò che è sopra la linea contrattuale definita economicamente dai contratti collettivi nazionali. In Engineering la gestione del super minimo, che, secondo gli ultimi dati, ammonta oggi a un terzo del monte delle retribuzioni, è quasi esclusivamente affidata alla linea. Il che mi sembra corretto date le sue caratteristiche organizzative. Analogamente, è la linea che si assume la responsabilità della scelta delle persone da assumere o da premiare.

Ho citato questi due aspetti della gestione per ricollegarmi a quanto detto a proposito di costituzione e funzionamento di Engineering, e cioè all’autonomia delle unità operative, e per rimarcare il fatto che la responsabilità della qualità del rapporto di lavoro, che lega il singolo dipendente a Engineering, è di pertinenza della linea a tutti i livelli.

Alla ricerca di qualche cosa che caratterizzi la gestione del personale all’interno della Engineering, mi è parso di riconoscerlo in un criterio che ho trovato splendidamente espresso da Adam Smith. Questo grande economista è ricordato generalmente per aver scritto Il trattato sulla ricchezza delle nazioni. Raramente per avere scritto un altro bellissimo libro, La teoria dei sentimenti morali.

Il punto è il seguente: qual è lo scopo che perseguiamo in vita? In che consiste il miglioramento della nostra condizione alla quale tutti

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aspiriamo? La risposta di Adam Smith è: <<Essere osservati, ricevere attenzione, essere considerati con simpatia, compiacimento, e approvazione. Essere considerati è, allo stesso tempo, la più grande speranza e il più ardente desiderio della natura umana>>.

Questa è la risposta del grande filosofo del capitalismo e devo dire che questo principio del riconoscimento mi sembra essere uno dei punti forti della gestione del personale, soprattutto di quella non dichiarata. Riconoscere il merito, riconoscere dove c’è manifestazione di autonomia, di senso dell’iniziativa è un principio fondamentale della costituzione non scritta di Engineering. Il riconoscimento della qualità dell’azione degli altri è segno di attenzione, è il frutto dell’attenzione. Se non fossimo attenti al nostro prossimo, non potremmo individuare e riconoscere i meriti. Penso che il riconoscimento sia, o tenti di essere, uno dei cardini, o il cardine più importante, della politica del personale di Engineering.

Naturalmente, vi sono state e vi saranno eccezioni nell’applicazione di questo principio, momenti in cui esso non è stato rispettato. Tuttavia, ritengo che avere evidenziato il principio del riconoscimento sia corretto e non sia manifestazione di wishful thinking. Debbo onestamente aggiungere che l’applicazione estesa del principio del riconoscimento richiederà nei prossimi anni, col crescere delle dimensioni aziendali, un più forte impegno a definire adeguate procedure operative e a formare quadri dirigenti.

Intermezzo

Con il principio del riconoscimento si conclude questa prima parte. Sono partito col distinguere quattro figure presenti nell’arena sociale: il politico, l’imprenditore, il leader, il manager; e dal constatare che il politico e l’imprenditore sono coloro che creano spazi di libertà per gli altri; sono passato attraverso l’organizzazione, costruita in modo tale che ogni singola persona sia tendenzialmente autonoma, e attraverso un concetto di strategia intesa come abito mentale e culturale per arrivare al moto di simpatia verso il prossimo, riconoscimento dell’esistenza e dell’autonomia dell’altro. Filosofia, politica e valori

Indagine indiziaria

Questa seconda parte è dedicata all’indagine culturale delle cellule germinali dell’impresa Engineering. Le cellule germinali - è chiaro - sono i soci fondatori.

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È certamente un tentativo ardito, forse temerario o velleitario, procedere in questa indagine culturale. Tuttavia, sono sicuro che quanto esporrò ha sufficienti elementi di validità. Si potrà obbiettare sulla disinvoltura metodologica con la quale è condotta l’indagine, ma circa la questione metodologica dirò qualcosa nelle pagine che seguono. Ciò che chiedo al lettore è, in ultima analisi, un atto di fiducia in chi scrive nel senso di accettare la dichiarazione che quanto viene esposto è frutto di una consuetudine di vita e di lavoro dispiegata per molti anni, di una osservazione partecipe protrattasi per molto tempo e in innumerevoli circostanze che mi ha consentito di prendere mentalmente nota di eventi, espressioni linguistiche, affermazioni, decisioni, esclamazioni estemporanee, ragionamenti, interpretazioni di fatti - piccoli o grandi - accaduti in azienda o nel mondo, lacerti di comportamento. Tutto ciò si è composto, lentamente, in un quadro interpretativo che mi sembra coerente e convincente.

Naturalmente, l’esposizione della filosofia politica e della visione del mondo dei due protagonisti della storia non è completa perché la mia attenzione è rivolta esclusivamente al mondo del lavoro nell’ambito dell’impresa Engineering; tutto il resto rimane escluso.

Ho parlato di due protagonisti. In realtà sarebbe corretto parlare di tre protagonisti, almeno per i primi sette anni della vita della società Engineering. Anche per il terzo protagonista (Arrigo Abati) si dovrebbe sviluppare l’analisi della sua visione del mondo riferita ai rapporti di lavoro e al funzionamento della società, perché grande è stato il suo contributo. Tuttavia, mi limiterò a presentare i risultati della mia indagine sui due attuali soci di riferimento (Michele Cinaglia e Rosario Amodeo) perché la messe di osservazioni che ho a disposizione su di essi è incomparabilmente più ricca e aggiornata. Offro dunque al lettore un’interpretazione. Mi permetto di richiamare l’attenzione del lettore a ciò che Max Weber ha scritto in proposito:

…ogni interpretazione tende a conseguire l’evidenza - come qualsiasi disciplina scientifica in generale. L’evidenza dell’intendere può rivestire carattere razionale oppure avere carattere di penetrazione simpatetica... Evidente alla penetrazione simpatetica è, nell’agire, ciò che viene rivissuto pienamente nella sua immediata connessione di sentimento... possiamo, nei in casi in cui non siamo in grado di intendere con piena evidenza, in determinate circostanze cogliere intellettualmente parecchi ”scopi” e “valori” ultimi in vista dei quali può essere orientato l’agire di un uomo... D’altra parte, quanto più radicale è la loro

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distanza dai nostri valori ultimi, tanto più difficile ci risulta comprenderli rivivendoli mediante l’opera di penetrazione simpatetica. A seconda dei casi dobbiamo allora accontentarci di interpretarli soltanto intellettualmente, o - quando anche ciò non riesca - dobbiamo addirittura assumerli come dati di fatto, per potere comprendere il corso dell’agire da essi motivato in base ai loro punti di orientamento, interpretati intellettualmente oppure vissuti per quanto possibile in virtù di una penetrazione simpatetica.5

Per corroborare questa penetrazione simpatetica ho lavorato su indizi, dettagli, anche piccoli, dando la stessa importanza a questi e alla relazione fra questi, e quando la relazione non era evidente ho imbastito, come si vedrà, una “teoria” che aiutasse a completare il quadro interpretativo.

Il compito dell’interprete è, quindi, di penetrare al di sotto della superficie delle cose, per intuire o rendersi conto del significato sottostante. Si vedranno allora i fatti - forse frammentari - come parti collegate fra di loro e appartenenti a quella totalità nella quale soltanto essi potranno acquisire il loro significato. È come il lavoro del detective, il quale prendendo le azioni come indizi da seguire, si sforza di scoprire la natura del piano dal quale esse deriveranno il loro significato. Egli ricostruisce la sequenza degli eventi e delle cose invertendo la normale direzione del procedere e cioè tornando indietro per risalire dai risultati ai loro presupposti: <<È una gran cosa saper ragionare all’indietro (anche nello scavo si procede dal dopo al prima)>>.6

Farò soltanto alcuni esempi dei materiali che ho utilizzato per costruire la mia interpretazione, indizi raccolti in contesti e situazioni dei quali ero osservatore e partecipe.

Utilizzerò di frequente l’aggettivo “astratto” per squalificare drasticamente proposte o interpretazioni non condivise o ritenute inaccettabili. ”Astratto” non significa, in questo contesto, incongruo rispetto ai mezzi economici disponibili, o per qualche motivo non realizzabile; si riferisce a qualcosa di più pregnante. Nelle pagine che seguono conto di chiarire il significato di questo aggettivo, la sua importanza nel quadro interpretativo, e il perché della sua connotazione fortemente negativa nella cultura di Engineering.

Ho fatto notare nella prima parte la forte avversione per la parola stessa “strategia”, e dunque per tutti i discorsi o le istanze strategiche. Della stessa condanna all’ostracismo dall’azienda

5 M.Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano 1961, p.69. 6 A.Carandini, “Procedere all’indietro”, in Storie della terra – Manuale di scavo archeologico, Einaudi, Torino 1991, p.255.

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hanno, infatti, sofferto i termini e i concetti connessi in qualche modo al “marketing”, alla “comunicazione” verso l’esterno e l’interno. Discorsi e proposte circa l’immagine aziendale hanno sempre avuto scarsa o nessuna udienza, per non dire che sono quasi sempre caduti in un laghetto di irridente scetticismo.

Strategia, marketing, comunicazione, immagine sono tutti concetti che portano il marchio del peccato originale di astrattezza, sufficiente per condannarli senza appello.

Sono raramente organizzati in Engineering momenti collettivi di riflessione (incontri di valutazione dei risultati ottenuti, analisi di situazioni ecc.). Sono rarissimi, infatti, in Engineering gli incontri o le riunioni appositamente convocati per esaminare e discutere collegialmente qualche argomento di rilevanza generale. Questi argomenti sono affrontati nel corso della normale attività.

San Bernardo di Chiaravalle, grande santo, filosofo, politico e, oserei dire, imprenditore, in uno dei suoi sermoni a commento del Cantico dei Cantici dice, usando una metafora di ingegneria idraulica, che le comunità sono costruite con vasche e canali. I canali servono per fare scorrere l’acqua, e le vasche servono per fare decantare, purificare le acque. Fuori di metafora, i canali sono le azioni, i comportamenti di cui è fatta la vita quotidiana; le vasche sono i momenti di quiete, di raccoglimento durante i quali si medita, si riflette su quanto fatto per poi riprendere l’azione con lena rinnovata.

Ecco, Engineering è fatta di canali entro i quali l’acqua scorre con flusso forzato, veloce, senza soste. L’acqua non si ferma nelle vasche di decantazione. I momenti di sosta sono rari. La riflessione e il consuntivo critico appaiono costantemente svalutati dalla spinta pragmatica. Il dato culturale è la preminenza dell’azione in tutte le sue forme.

Sarebbe un errore concludere che in Engineering vi sia carenza di pensiero pensante essendo tutti in continuo movimento. Per correttamente comprendere situazioni del genere è utile richiamare la distinzione proposta da alcuni filosofi francesi (Blondel, Bergson). Essi invitavano a distinguere due fondamentali modalità conoscitive: la conoscenza “diretta”, legata al movimento della vita, nel cui flusso è inserita per anticipare e guidare quanto deve essere fatto, e la conoscenza “inversa”, operante una certa sospensione del flusso vitale sulla quale si ripiega, donde il nome di riflessione.

In Engineering è dominante la prima modalità di conoscenza, forse per l’inconsapevole timore di essere paralizzati dallo sguardo interiore dell’attenzione riflessiva che immobilizza e scompone il suo oggetto.

Ritroviamo questa distinzione, espressa in un contesto culturale assai diverso, in un recente saggio di Silvia Gherardi, la quale

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formula importanti osservazioni a proposito della seconda modalità conoscivita: <<… la riflessività è il portato della necessità di rendere il mondo comprensibile per sé e per gli altri membri di una collettività. La riflessività costituisce il processo attraverso il quale il sapere pratico è tradotto in sapere esplicito che può essere trasmesso e venire codificato sotto forma di standard operating procedure, e costituisce una base di conoscenza per l’innovazione. L’apprendimento organizzativo non è pensabile senza riferimento alla riflessività. La riflessività attribuisce maggiore spazio all’intenzionalità organizzativa>>.7

Ecco un altro punto nel quale le accresciute dimensioni richiederanno al management di Engineering una modifica dei propri comportamenti. Penso che vi sarà maggiore presenza del secondo tipo di modalità conoscitiva, e cioè di riflessività, perché la dinamica del mercato e della tecnologia, il necessario sviluppo organizzativo, i rapporti con gli stakeholders richiederanno interventi meno contingenti e circostanziali.

Continuo nella segnalazione degli indizi su cui poggia la mia interpretazione presentandone un altro assai importante: costante sottovalutazione del momento organizzativo inteso come impegno a definire in via preliminare struttura formale, ruoli, linee di riporto ecc.. Questo indizio manifesta la convinzione che l’organizzazione non nasce da un progetto, ma è la risultante di un campo di forze, di fatti o di azioni concomitanti, e che l’aspetto formale emergerà quando e se necessario. Ecco perché nella prima parte ho osservato che la struttura organizzativa di Engineering è stata fino adesso il prodotto di sedimentazione storica; la risultante di una specie di darwinismo organizzativo.

Il ruolo attribuito alla formazione è un altro indizio molto interessante perché ha radice in convinzioni profonde che riguardano non tanto l’utilità aziendale di questa attività (da questo punto di vista i convincimenti che ho potuto riscontrare nel corso degli anni sono contingenti e spesso contraddittori), ma, in ultima analisi, la modificabilità dei comportamenti umani e il ruolo dell’esperienza nell’acquisizione della conoscenza. La formazione, in particolare quella manageriale, è ritenuta accessoria, facoltativa. Essa non è un’attività che genera valore, ma attività che consuma risorse e appartiene, eventualmente, alla categoria delle “remunerazioni sociologiche” che si aggiungono a quelle economiche per il personale, manager e dirigenti compresi.

Altro indizio assai importante è il ruolo che ha sempre avuto la funzione commerciale nel corso dello sviluppo di Engineering, e

7 S. Gherardi, “La pratica quale concetto fondante di un rinnovamento nello studio dell’apprendimento organizzativo”, Studi Organizzativi, 1/2000, pp.55-71.

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della sua netta e forte preminenza sulle altre funzioni aziendali. Questa constatazione indiziaria merita un trattamento particolare.

Un’azienda come Engineering si regge sulla capacità di realizzare progetti a vari livelli di complessità tecnologica e applicativa con professionisti di elevate competenze. Questa è una constatazione valida; tuttavia, un osservatore non potrebbe non notare la preminenza data alla funzione commerciale. Chi occupa una posizione commerciale, per piccola che sia, assorbe più attenzione da parte dei vertici aziendali rispetto a qualsiasi altra persona, tecnica o amministrativa. Questa situazione potrebbe sembrare l’applicazione dell’adagio primum vivere, deinde philosophari che qualcuno attribuisce a Hobbes, nel senso che senza l’acquisizione di commesse e contratti qualsiasi altra attività non avrebbe ragione d’essere.

La preminenza che la funzione commerciale ha avuto nel settore dell’informatica, in particolare in alcune grandi aziende (IBM, Olivetti, Sperry Univac, Honywell ecc.) è un dato di fatto.

La preminenza della funzione commerciale è un fatto osservabile anche in altri settori industriali. Sarebbe interessante seguire gli alti e bassi delle varie funzioni aziendali nel tempo e correlare questo andamento con le variabili macroeconomiche, con l’evoluzione della congiuntura economica, e con la struttura del mercato di riferimento.

Bisognerebbe distinguere i vari momenti storici dello sviluppo economico e sociale e riferirsi ai singoli settori merceologici. Ciò che è successo nell’industria automobilistica è diverso da ciò che è successo nell’industria chimica e nell’industria informatica. Mi sembra evidente, per esempio, che presso la Fiat la funzione di produzione abbia sempre avuto il predominio incontrastato sulle altre funzioni.

Non è questa la sede per ripercorrere l’evoluzione di queste funzioni aziendali registrando i loro momenti di relativa preminenza; mi limiterò a fare alcune osservazioni nell’ambito del settore informatico.

Non è un caso, per esempio, che il fondatore dell’Ibm, T. Watson sr., fosse un venditore, anzi il migliore venditore della National Cash Register, e che sue figlio, T. Watson jr., che gli succedette, avesse cominciato la sua carriera e completato la sua preparazione professionale nel settore commerciale. Tutti i Ceo dell’Ibm, a eccezione di un brevissimo periodo di tre anni dal 1970 al 1973, sono stati di provenienza commerciale fino all’attuale Ceo. L. Gerstner, paracadutato in Ibm dall’esterno con la missione di salvare il colosso dal naufragio nel 1993.

Il caso Olivetti è interessante anche perché molte persone di valore sono partite da questa azienda per occupare posizioni di

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rilievo in altre aziende disseminando così la “cultura Olivetti”. Le attività commerciali erano particolarmente curate in questa azienda. Non so se si possa parlare di preminenza della funzione commerciale perché altri elementi, politici e ideologici, hanno messo in risalto anche altre funzioni. La scuola Villa degli Ulivi di Firenze, da dove dovevano passare per un lungo periodo di addestramento tutti i venditori, è certamente un segno dell’importanza della funzione commerciale ed è stata un’esperienza unica nel panorama italiano. (Purtroppo, si raccolgono solo racconti orali dell’esperienza commerciale presso l’Olivetti degli anni Cinquanta e Sessanta; forse il racconto autobiografico del funzionario commerciale Zargani8 è il solo disponibile.)

Non bisogna dimenticare che le più importanti aziende informatiche in Italia hanno avuto impianti di produzione e di assemblaggio. Molte di esse conservano ancora, anche se le condizioni sono cambiate, il contratto del settore metalmeccanico.

La preminenza in termini economici e funzionali dell’hardware sul software, solo recentemente superata, ha impresso sull’azione commerciale delle aziende informatiche particolari forme e mentalità. Per esempio, la netta separazione, operativa e culturale, tra mondo delle vendite e mondo delle realizzazioni sistemistiche, separazione difficile da comprendere oggi per coloro che non hanno mai sentito il peso diretto dell’hardware. La preminenza della funzione commerciale in Engineering trova, oltre la tradizione e la prassi costante del settore informatico, anche un’altra spiegazione, forse più convincente, nella filosofia dei rapporti sociali di coloro che hanno fondato e governato la società.

Concluderei questa campionatura di indizi accennando a un aspetto propriamente culturale dei soci fondatori.

Il gusto per la storia, storia politica, è uno dei dati più evidenti della loro formazione culturale. La storia intesa come narrazione e descrizione dei rapporti conflittuali di persone, gruppi, popoli che cercano di fare prevalere le loro idee e i loro interessi gli uni sugli altri. Le idee prevalgono su altre idee quando sono sostenute dalla forza necessaria; altrimenti soccombono con i loro sostenitori.

Potrei continuare in questa elencazione di indizi; quelli individuati mi sembrano, per ora, sufficienti per dare un’idea del materiale sul quale ho lavorato. Mi riservo di indicare e fare ricorso nel seguito a indizi di diversa natura. Realismo in azienda

8 A. Zargani, Certe promesse d’amore, Il Mulino, Bologna 1997.

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Gli indizi che ho segnalato si compongono in una visione del mondo che potrei definire realista. Ed è proprio nello schema del realismo politico con le sue valenze filosofiche e psicologiche che si possono ricondurre e interpretare i comportamenti verbali e non verbali dei due soci di riferimento, i quali su questo schema hanno formato il gruppo dirigente di Engineering.

Per tratteggiare questo modo di vedere il mondo mi avvarrò come guida del brillante saggio di Pier Paolo Portinaro9, di alcuni scritti di Isaiah Berlin e di alcuni altri riferimenti.

Realismo è in prima approssimazione facoltà istintiva di adattarsi alle circostanze, accettazione pressoché automatica delle necessità dell’azione; facilità e alacrità nell’esercizio del potere e non solo capacità di apprezzare esattamente una realtà estrinseca.

Osserva Adolfo Omodeo in un saggio dedicato al realismo di Cavour che questo è un concetto che, di volta in volta, assume toni e sfumature diversissime, e scrive:

Non basta stabilire la visione del reale in una determinata

persona… Non mancano infatti forme di realismo passivo e svariatissime forme del realismo attivo. Il realismo di Cavour non è il realismo di un avventuriero, che, come un Casanova, sfrutti a suo vantaggio senza alcuna meta tutte le debolezze altrui, e non è neppure il realismo di un Bismarck, l’ostetrico dai polsi robusti dell’unità germanica. Il momento realistico di Cavour rientra in un organismo spirituale più vasto; e da esso si spiega anche ciò che differenzia il Cavour da un Bismarck: l’ascendente morale… L’alacrità spirituale di Cavour ha la sua radice nella sua vita morale, nella tempra del gentiluomo, nella fede incrollabile del liberale10. Realismo: un orientamento di fondo volto a privilegiare la

descrizione rispetto alla scelta di ideali e finalità etiche. In opposizione a chi antepone la prescrizione alla descrizione, il realista si preoccupa innanzi tutto di stabilire i dati di fatto e di interrogarsi sulle loro connessioni dinamiche.

Come nel discorso filosofico “realtà” sta a indicare il modo di essere delle cose in quanto esistono fuori dalla mente umana o indipendentemente da essa, così nel lessico politico con questo concetto si fa appello al modo di essere dei rapporti di potere considerati indipendentemente dai desideri e dalle preferenze di attori e di spettatori.

9P. P. Portinaro, Il realismo politico, Laterza, Bari 1999. 10 A. Omodeo, Difesa del Risorgimento, Einaudi, Torino 1951, p.269.

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A differenza delle concezioni filosofiche della politica, che muovono dalla teoria per imporre modelli alla prassi, il realismo è fondamentalmente una “prasseologia”, una dottrina che interpreta situazioni, elabora massime e precetti per l’azione e formula previsioni sulla base dell’esperienza: impresa che corre il rischio di invilupparsi nelle infinite contraddizioni del reale e di perdersi nei labirinti della oggettività.

Il realismo può essere considerato un parente assai prossimo del positivismo.

Il realismo ha come oggetto non le ideologie, ma i fatti di potere e come risorsa fondamentale cui fare ricorso il potere inteso come possibilità di fare valere entro una relazione sociale la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità. Sono le analisi di psicologia politica sui meccanismi quotidiani del potere a consentire di comprendere la vita degli attori sociali.

I fatti del potere non sono, infatti, immediatamente evidenti, ma coperti, dissimulati. La prima domanda che il realista si pone è: quale realtà si cela al di sotto dell’apparenza? Mentre l’utopista ricerca la perfezione politica in un mondo di astrazioni e l’ideologo trasfigura come “apparenze ingannevoli” le realtà del potere, il realista cerca il vero volto della politica al di sotto del mondo delle idee e dietro le maschere legittimanti, rifiutando i sogni dell’utopia e le contraffazioni dell’ideologia.

Nel discorso dei realisti affiora la presunzione di una superiore attitudine scientifica nel senso della maggiore obiettività, della depurazione di fattori emotivi e preferenze personali. E vi è in questo orientamento un naturale conservatorismo, evidente nell’assunzione preanalitica dell’immutabilità della natura umana.

Il realista tende a essere nel fondo della sua anima pessimista e a non avere un’esaltante opinione degli altri membri del genere umano. Un grande realista pessimista (Lord Salisbury, primo ministro inglese nell’ultimo decennio del 1800) una volta osservò che <<qualsiasi cosa accade, peggiora la situazione; è nostro interesse dunque che accada il meno possibile>>. Ma è proprio il realista che intuisce l’esistenza di passaggi e di terre da conquistare, e trova l’energia necessaria.

Isaiah Berlin ha individuato il segreto del successo dei grandi statisti delle democrazie liberali nella capacità di comprendere il carattere di un particolare movimento, di un particolare individuo, di una congiuntura unica, di una qualche combinazione di fattori economici, politici, personali.

In termini generali, il realismo è diagnostica delle situazioni conflittuali ed educazione al giudizio in quelle situazioni. Data la volubilità della fortuna, l’instabilità dei rapporti, esso attinge forza

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dall’essere “sapere delle circostanze”, un sapere nel quale persone particolari deliberano su casi particolari. È capacità di giudizio, astuzia situazionale che coglie le occasioni che la fortuna presenta e che deve essere accompagnata, se deve tradursi in azione efficace, da fermezza decisionale, risolutezza. Ricordo che Bismark è stato definito “genio del presente”.

Nella sfera dell’ingegneria è possibile formulare alcune leggi. Anche se non ho bisogno di tenerle costantemente presenti alla mente. Nel campo dell’azione politica, invece, praticamente non ci sono affatto leggi. Le capacità sono tutto. Ciò che fa il successo di uno statista, come fa la bravura di un guidatore, è che non pensa in termini generali; ossia non comincia col domandarsi sotto quale aspetto una data situazione assomiglia o differisce da un'altra situazione nella lunga vicenda della storia umana... La loro abilità consiste nel cogliere la combinazione unica di caratteristiche che costituisce questa particolare situazione - questa e nessun’altra. Diciamo che proprio questo sanno fare: comprendere il carattere di un particolare movimento, di un particolare individuo, di una congiuntura unica o di un’atmosfera altrettanto unica, di una qualche particolare combinazione di fattori economici, politici, personali; e non è facile convincersi che questa capacità possa essere insegnata11.

Il realismo è perpetuamente in bilico tra strategia di conservazione, che rischia spesso di risultare debole in un mondo in continuo movimento e nel quale per mantenersi occorre crescere, e strategia di affermazione, intrinsecamente destabilizzante, ma necessaria se si vuole svilupparsi.

Il realismo usa come strumento conoscitivo un tipo di giudizio che si apprende dalla storia. Restituisce il giusto posto alla logica del concreto rispetto a quella dell’astratto, alle ragioni degli uomini rispetto a quelle delle leggi, alla riflessione sulla condotta e la capacità di decisione di uomini concreti in situazioni particolari rispetto alla elaborazione di teorie generali.

Per riassumere, ecco i punti salienti dello schema di riferimento dei realisti:

− dietro ogni norma c’è un potere, quindi una concreta volontà

umana; ogni norma è oggetto d’interpretazione e di riconoscimento

11 I.Berlin, “Il giudizio politico”, in Il senso della realtà, Adelphi, Milano1998, pp.92-93.

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da parte di soggetti concreti, dai quali in definitiva dipendono la sua legittimità e la sua efficacia;

− l’interesse primario è l’efficacia dell’azione. L’essenziale è reperire i mezzi adeguati per ottenere nel caso concreto un risultato tangibile; la preferenza del realista va dunque verso quei poteri che hanno natura esecutiva;

− la costituzione di un Paese non è il risultato di un progetto razionale quanto piuttosto il risultato di un processo che si svolge nel tempo attraverso lotte e agitazioni, lungo un percorso spesso contraddittorio nel quale il caso ha larga parte e la ragione degli attori procede per prove ed errori. Queste caratteristiche contribuiscono a spiegare perché il realista non attribuisca eccessivo rilievo alle differenze giuridiche tra forme di governo; al di là delle forme istituzionali, ciò che conta è la dinamica del potere. Tutto ciò è vero, mutatis mutandis, anche per quanto riguarda l’assetto organizzativo delle imprese;

− ogni pensiero politico deve incominciare dal principio dell’ineguaglianza originaria degli uomini: nella proprietà, nel potere e nel sapere. Gli uomini sono diseguali per dotazione naturale. L’eguaglianza giuridica degli individui, come quello fra gli Stati, non è un presupposto naturale ma un prodotto storico dello sviluppo dell’umanità;

− in uno stato moderno, come in un’impresa o ente pubblico il potere reale si esercita nell’esercizio quotidiano dell’amministrazione, e dunque è necessariamente e inevitabilmente nelle mani della burocrazia;

− la nozione di bene comune è priva di senso quando pretende di determinare un punto di oggettiva sintesi degli interessi di tutti.

Giunto a questo punto sono sicuro che il lettore troverà facile

incastrare gli indizi indicati nello schema del realismo politico: l’avversione a tutto ciò che sembra astratto, cioè lontano dalla concretezza dei fatti, l’ostracismo verso qualsiasi approccio strategico perché la strategia è una teoria sulla quale si vorrebbe modellare la realtà, la ritrosia ad avventurarsi in riflessioni su comportamenti passati o in tentativi di interpretare circostanze ancora lontane o ipotetiche, il sostanziale disinteresse per le forme organizzative perché non sono che il rivestimento della dinamica dei comportamenti e dell’effettivo esercizio del potere.

La preminenza dell’azione commerciale in Engineering, oltre alle altre indicate, trova la spiegazione più convincente nello schema del realismo perché è proprio l’azione commerciale che deve fare i conti con i fatti del potere, che incontra e si scontra con la struttura del potere e che deve conoscerne la dinamica vera e non quella apparente o puramente formale, se vuole avere successo. Mentre la produzione e

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l’amministrazione sono attività scientifiche o quasi scientifiche nell’ambito delle quali vigono regole, leggi, norme, l’azione commerciale è invece, essenzialmente, gioco di potere e di influenzamento; un gioco politico che avvolge elementi economici e tecnici. Ecco perché il realista è attratto dall’azione commerciale e concede a essa tutta la sua attenzione.

Nel caso di acquisizione di un nuovo cliente, di un’importante commessa, il realista si complimenterà, innanzi tutto, con il funzionario commerciale: i tecnici hanno fatto il loro dovere. Ricordiamoci, tuttavia, dell’esito vittorioso della gara indetta dalla Corte dei Conti sopra citata, gara nella quale la qualità tecnica del progetto ha avuto un ruolo essenziale.

Per gestire un progetto software o un reparto di macchine utensili a controllo numerico occorrono conoscenze scientifiche e tecniche; per condurre una trattativa commerciale occorre avere sensibilità politica: le conoscenze scientifiche e tecniche, a volte indispensabili, possono essere anche delegate.

Il realismo politico è una grande scuola commerciale. Per quanto riguarda la traccia indiziaria dell’atteggiamento verso la

formazione, penso che questo piccolo brano di Isaiah Berlin riconduca brillantemente anche questo atteggiamento nell’alveo del realismo politico.

Devono gli statisti essere scientifici?... potremmo egualmente domandarci: devono essere scientifici i giardinieri, o i cuochi? La botanica aiuta i giardinieri, le leggi della dietetica possono aiutare i cuochi, ma un eccessivo assegnamento su queste scienze li condannerà (e condannerà i loro clienti) alla rovina. Ancor oggi, l’eccellenza di cuochi e giardinieri dipende soprattutto dalle loro qualità artistiche e, come nel caso dei politici, dalla loro capacità di improvvisare. La diffidenza verso gli intellettuali in politica nasce in massima parte dalla convinzione, non del tutto falsa, che a causa di un forte desiderio di vedere la vita in una maniera semplice e simmetrica essi ripongono una fiducia eccessiva nei risultati benefici di una diretta applicazione alla vita medesima di conclusioni ricavate da operazioni in una qualche sfera teoretica... Si racconta - non so quanto la storia sia vera - che quando fu chiesto un giorno al primo ministro lord Salisbury sulla base di quale principio decideva di fare o no la guerra, egli rispose che per decidere se prendere o no l’ombrello dava un’occhiata al cielo12.

12 I.Berlin, op.cit., pp.102 e ss.

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Fermiamo un momento la nostra attenzione sulla risposta di lord Salisbury. Egli fu uomo pieno di interessi intellettuali, religiosi e scientifici; un aristocratico per natura e per educazione. Benché lo servisse una dose di astuzia nelle cose che gli parevano pratiche e facesse raramente appello a motivi ideali, poteva essere considerato campione della coerenza, dei principi e della tradizione. Riteneva che il puro schivare la guerra fosse la migliore garanzia di fronte alla rivoluzione come di fronte ad altri mali. La grande opera di lord Salisbury fu la divisione dell’Africa con la Germania, la Francia e le altre nazioni senza fare ricorso alle armi. La sua gravità era alleviata da uno spirito epigrammatico pungente e da una più che regale indifferenza per gli effetti delle parole che gli cadevano dalle labbra.

Ora, la battuta di lord Salisbury sull’uso dell’ombrello sembra un’affermazione guidata esclusivamente dai fatti secondo la migliore metodologia empirica e realista. In verità, è una microscopica esercitazione di teoria applicata dell’induzione oppure un’intuizione, la quale altro non è, a ben vedere, che un ragionamento estremamente compresso nel tempo. Anche gli empiristi e i realisti puri, dunque, hanno comportamenti che si fondano su qualche teoria.

Un esempio di questo tipo di comportamento lo segnalo volentieri data la sua importanza, importanza che si è rivelata in tutta la sua evidenza non immediatamente ma nel corso del tempo. Alludo alla ricerca di investimenti agevolati e concessi dall’Imi a particolari condizioni. Gli investimenti furono cercati con determinazione da Michele Cinaglia e accolti dagli altri soci non senza titubanze e contrasti. Era l’anno 1986 ed Engineering fatturava alcune decine di miliardi; gli investimenti Imi avrebbero consentito di lanciarsi in un programma di ricerca e sviluppo su problematiche teoriche e applicative del software e costituire il laboratorio di ricerche e sviluppo con sede a Pomezia (Roma). Imboccare questa strada fu comportamento fondato esclusivamente sull’intuizione e dunque su un complesso ragionamento che in questo caso non si potrebbe nemmeno classificare come induttivo, perché aziende delle dimensioni di Engineering di allora che avessero un laboratorio di ricerca e sviluppo ve ne erano assai poche, ammesso che ve ne fossero in Italia.

Il laboratorio di ricerca e sviluppo ebbe rapporti non sempre facili con il resto dell’azienda. Dovettero trascorrere diversi anni perché si registrassero le prime ricadute sulla struttura tecnica aziendale; tuttavia, esso costituì elemento catalizzatore e di stimolo a profonde modifiche nell’organizzazione del lavoro in generale e nella conduzione dei progetti in particolare.

Nel 1989 fu costituita la Direzione metodologie e fu attuato un intenso programma di formazione dei tecnici sulle metodologie di pianificazione e controllo dei progetti (tempi, costi e qualità), formazione che si rivelerà la piattaforma sulla quale poggia la capacità

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progettuale e realizzativa di Engineering. Oggi, il laboratorio di ricerca e sviluppo è parte integrante e integrata della struttura tecnica e molti dei suoi esperti saranno l’ossatura di Engiweb, società costituita per affrontare in modo determinato e specialistico il mondo delle applicazioni Web, Internet et similia.

Engineering è stata ed è una grande scuola di realismo politico perché convinti ne sono stati i principali protagonisti. C’è da chiedersi se le dimensioni accresciute e l’inevitabile allargamento del gruppo dirigente non introducano nella cultura dell’impresa eccessivi elementi di opportunismo o cinismo, che sarebbero segni di decadenza del realismo sul quale è costruito il successo di venti anni di vita di Engineering.

Si aprirebbe qui il grande capitolo della transizione: in che misura i principi di sussidiarietà, di autonomia e di ricorsività dei sistemi vitali reggeranno all’urto delle dimensioni? Engineering si avvia a essere un’impresa che presto conterà circa 2000 dipendenti: reggeranno i principi enunciati? Quali risorse dovranno essere dedicate per mantenerli in vigore? Quali integrazioni dovranno essere introdotte? Per esempio, i principi enunciati hanno valenza verticale e scarsa rilevanza per i rapporti orizzontali tra le diverse unità organizzative e tra le unità e i servizi centrali.

È sicuramente questo un campo di lavoro per i dirigenti della società nel prossimo futuro.

Valori e orientamento imprenditoriale

Prima di concludere questa parte vorrei trattare un altro gruppo di indizi di natura diversa da quelli che ho segnalato e commentato. Sono indizi di natura etica, indicano valori che indirizzano i comportamenti. Ho frequentemente sentito dai protagonisti di questa storia affermazioni che rivelavano una propensione per un impegno di rilevanza pubblica; o, detto altrimenti, un impegno di lavoro imprenditoriale che potesse avere anche un significato per l’intera comunità civile. Lo storia della Cerved dalla sua fondazione nel 1975 fino al 1984, per come è stata vissuta dai suoi protagonisti, è la dimostrazione che accanto all’impegno imprenditoriale c’era la consapevolezza e il desiderio di creare qualcosa non a beneficio di pochi privati, ma della collettività. L’orgoglio di lavorare per il Paese è sempre stato forte e manifesto: il tricolore è sempre stato presente nella sala riservata alle riunioni del consiglio di amministrazione e dell’assemblea societaria. In molti anni di frequentazione non ho mai rilevato nei protagonisti di questa storia motivazione di arricchimento personale fine a se stesso, ma la sua accettazione come piacevole conseguenza, qualora ci fosse stato.

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Secondo Schumpeter l’imprenditore è spinto da tre principali moventi: <<In primo luogo, vi è il sogno e la volontà di fondare un impero personale e in genere, seppure non necessariamente, anche una dinastia....C’è poi la volontà di vincere. Volontà di lottare, da una parte, dall’altra volontà di ottenere il successo in quanto tale piuttosto che i frutti del successo... Una terza famiglia di moventi è costituita infine dalla gioia di creare, che compare sì anche altrove, ma solo in questo caso assume il carattere di fattore indipendente di comportamento>>13.

È evidente nei ragionamenti e nei comportamenti di Michele Cinaglia e Rosario Amodeo la presenza dei tre moventi indicati da Schumpeter. Richiamo l’attenzione del lettore sul secondo movente: ottenere il successo in quanto tale piuttosto che i frutti del successo. Proposizione densa di significato; concretamente significa disponibilità a investire e a reinvestire gli utili per alimentare la crescita dell’impresa. Da questa disponibilità deriva l’accettazione senza indugio da parte di Michele Cinaglia delle condizioni per ottenere il finanziamento Imi, condizioni che prevedevano la non distribuzione del dividendo per la durata pluriennale del finanziamento.

L’essenziale non è dunque incassare dividendi, cioè il frutto della gioia di creare, quanto la possibilità di lanciare un programma di ricerca e sviluppo che avrebbe aumentato la capacità di crescita dell’azienda, e cioè ottenere il successo in quanto tale.

Questo è un punto decisivo per comprendere l’affermazione di Engineering sul mercato e il suo impetuoso sviluppo. Da una parte significa accettare il principio che la migliore ricompensa del lavoro ben fatto è il lavoro stesso; dall’altra parte significa concretamente privilegiare alcune fonti di finanziamento rispetto ad altre.

Ancora una volta possiamo riferirci a Schumpeter: <<… se potessimo condurre un’inchiesta tra i business leader, sono sicuro che potremmo stabilire che, secondo loro, è l’autofinanziamento basato sui propri guadagni il metodo migliore per fornire i mezzi con cui portare un’azienda alle sue maggiori dimensioni>>14.

Penso che Schumpeter si riferisse a un’inclinazione psicologica dell’imprenditore a preferire, ove possibile, l’autofinanziamento ad altre forme di finanziamento. Molti imprenditori non superano questa inclinazione e scelgono consapevolmente di non sviluppare l’impresa e proseguono sul sentiero della crescita endogena, evitando di assumere capacità manageriali dall’esterno per coordinare e controllare le risorse impegnate in azienda. <<In questi casi l’impresa si modella sulla persona e sulla famiglia

13 J.A.Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, La Nuova Italia, Firenze 1971, pp.102-103. 14 J.A.Schumpeter, “Teoria economica e storia imprenditoriale”, in A.Salsano (a cura di) L’imprenditore e la storia dell’impresa - Scritti 1927-1949, , Bollati Boringhieri, Torino 1933, p.140.

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dell’imprenditore proprietario e ne segue e ne preforma prepotentemente i destini>>15.

In altri casi, assai meno frequenti, l’imprenditore imbocca coraggiosamente il sentiero della crescita esogena e si apre, appena le condizioni lo consentono, verso l’esterno per acquisire i mezzi, finanziari e di altra natura, necessari allo sviluppo della sua impresa.

L’impresa Engineering è nata, in un certo senso, già grande. I soci fondatori non sono partiti e non hanno agito in un ambito familiare e la loro azione imprenditoriale è stata caratterizzata fin dall’inizio dalla cultura di dirigenti che provenivano da grandi aziende multinazionali.

Segno di questa cultura è la forte attenzione rivolta allo sviluppo delle procedure di controllo di gestione, di conduzione di progetti. Inoltre, nel capitale sociale di Engineering entrarono, già nei primi anni di attività, soci di grande rilevanza imprenditoriale e finanziaria (Ibm, Paribas e altri). La richiesta di quotazione in Borsa è dunque il proseguimento di un percorso iniziato venti anni fa. Il contesto italiano Toccherò ora un argomento che può gettare ulteriore luce sulla costituzione culturale di Engineering. L’“italianità” dell’impresa Engineering, in un settore dominato dalla presenza di imprese straniere, è rivendicata con insistenza da soci fondatori e dai diretti collaboratori. In questa rivendicazione vi sono tracce di orgoglio nazionale e la convinzione dei soci fondatori, di essere portatori di una qualche specificità culturale. Lo svolgimento di questo tema può risultare dunque utile a delineare l’humus culturale dal quale cresce la singolare pianta della cultura e delle caratteristiche dello stile di gestione dell’impresa Engineering.

In questi ultimi anni la questione dell’identità italiana è stata dibattuta da storici, letterari e politici. Basti citare Lanaro, Galli della Loggia, Bollati, Schiavone, Cerroni e cosi via. Sarebbe fuori luogo riportare le varie tesi.

Mi limiterò a toccare soltanto tre aspetti della questione dell’italianità della cultura di Engineering. Secondo il primo aspetto la cultura di Engineering è in sintonia con il contesto italiano in quanto ne manifesta alcuni tra gli elementi più significativi, mentre è decisamente controcorrente secondo gli altri aspetti.

15 G.Sapelli, Perché esistono le imprese e come sono fatte, Mondadori, Milano 1999, p.71.

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Italianità dello stile di gestione

La questione dell’italianità dello stile di gestione ne richiama un’altra che sorge in un campo assai diverso, ma che in verità, a ben riflettere, comprende la prima: la questione, cioè, se sia possibile parlare di nazionalità di una filosofia.

Per non appesantire il discorso, seguirò il ragionamento in proposito svolto da Garin nell’introduzione alla sua storia della filosofia italiana16. Garin presenta la posizione negativa di Spaventa sulla questione della nazionalità della filosofia: <<Tutte le nazioni hanno i loro rappresentanti; ciascuna contribuisce con la sua vita alla vita comune del pensiero; ciascuna pone un elemento della soluzione del problema, e non già l’intera soluzione. Specialmente dopo il Rinascimento, quelle che appariscono come filosofie nazionali, il cartesianesimo in Francia, il lockismo in Inghilterra e cosi via, non sono che tante stazioni per le quali passa il pensiero nel suo corso immortale. La filosofia moderna non è dunque né inglese, né francese, né italiana, né alemanna solamente, ma europea>>.

Garin prosegue esponendo il pensiero di Giovanni Gentile in proposito, il quale pur accogliendo con Spaventa l’affermazione del valore universale della filosofia, ne giustificava diversamente i caratteri peculiari, nazionali, personali. Nella prolusione del gennaio 1918 all’Università di Roma su Il carattere della filosofia italiana osservava che <<né la filosofia, né l’arte, né la religione hanno a rigore un aspetto nazionale>>. Come non vi è una matematica che nella sua verità sia cinese e abbia a fronte una verità matematica indiana, così la filosofia, come forma più concentrata e rigorosa, non si può sottrarre a questa legge; e può ben dirsi perciò che essa è universale e internazionale in quanto è filosofia, e che filosofia non è in quanto nazionale. Questo, tuttavia, non esclude che ogni problema filosofico sorga da un aspetto particolare del mondo e si impianti su un particolare ritmo di coscienza e si svolga da un nostro singolo stato d’animo.

Alla domanda, se esistono nella nostra filosofia caratteri veramente unitari che ne caratterizzano gli indirizzi salienti, Garin risponde:

Quasi sempre, alle grandi costruzioni sistematiche si preferisce una scienza dell’uomo e delle sue attività, una filosofia mondana e terrena, che lascia alla religione il compito di risolvere i massimi sistemi. La ricchezza della produzione artistico-letteraria da un lato, dall’altro i vivi problemi derivanti dalla presenza della Chiesa

16 E.Garin, Storia della filosofia italiana, Vallardi, Milano 1942.

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e dalle crisi politiche, hanno costituito i due tipi fondamentali d’esperienza sui cui si è venuta esercitando la riflessione filosofica italiana: filologia in senso vichiano, come scienza della comunicazione umana; politica e morale, come urgenza del problema dello Stato e della Chiesa-Stato. Esempio tipo Galileo, la cui visione del mondo poggia tutta sulla validità di una fede nel Dio che ha creato il mondo numero, pondere et mensura17. .

Recentemente l’argomento dell’identità filosofica italiana è stato ripreso con risultati, tutto sommato, convergenti con le conclusioni alle quali è pervenuto Garin da Tolomio18, e dagli autori dell’opera collettanea Figures Italiennes de la Rationalité19. Prenderò soltanto qualche spunto da queste due opere.

Ecco quanto scrive lo storico della filosofia Tolomio: L’identità filosofica italiana viene principalmente riconosciuta dalla nostra storiografia nell’adesione a quell’idea di esperienza che nella ricerca della verità si pone tra il senso e la ragione... All’alba dell’età moderna, questo atteggiamento si profila come idea comune ai pensatori d’Europa. In Italia, però, questo modo di sentire diventa così familiare e così partecipato da informare tutta le nostra cultura in maniera profonda, particolarmente quella della storiografia filosofica. È ricorrente, in quest’ultima, l’appello all’esperienza come via preferenziale, se non decisiva, nella scoperta del vero. Né razionalismo intellettualistico, né mero empirismo, bensì concorso di diversi elementi tutti vagliati dall’esperienza, che - per quanto possa anch’essa essere fallace - può condurre, tramite diverse prove, al raggiungimento della verità. Si tratta di una convinzione che percorrerà tutta la storiografia filosofica italiana dell’età moderna... Esperienza è qui sinonimo di sapere positivo, aderente alla realtà; è sinonimo ancora di concretezza, di accettazione della conoscenza proveniente dai sensi, di realismo contro ogni forma di astrattezza e di apriorismo intellettualistico20.

Del contributo di R.Bodei al volume collettaneo prima citato, che conclude il libro sulle figure italiane della razionalità, mi sembra utile prendere un pensiero sullo storicismo italiano:

17 E. Garin, op.cit. 18 I. Tolomio, Italorum sapientia - L’idea di esperienza nella storiografia filosofica italiana dell’età moderna, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999, pag.18-20. 19 Editions Kimé, Parigi 1994. 20 I.Tolomio, op.cit. pag.17 e ss

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La storia serve da contrappeso alle astrazioni stratosferiche del pensiero utopico o dell’impazienza rivoluzionaria (i giacobini napoletani, osservò Vincenzo Cuoco, avevano i piedi a Napoli e la testa a Parigi), mentre l’utopia dà alla storia il suo scopo e la sua energia accelerandone il ritmo, altrimenti troppo lento... Contro tutte le astrazioni giacobine, lo storicismo ha messo in evidenza gli ostacoli, i vincoli, la specificità e la concretezza di qualsiasi situazione storica e la necessità di calibrare il pensiero... Lo storicismo italiano si è ispirato più a Cuoco che a Marx, ha tratto insegnamento dalla riflessione su una rivoluzione mancata piuttosto che dalla preparazione di un’insurrezione o di una svolta radicale nel dominio della conoscenza21.

A me sembra che l’identità filosofica italiana riconosciuta nell’adesione all’idea di esperienza e nella riflessione sulla rivoluzione mancata o impossibile piuttosto che sulla preparazione (strategica) di un rivolgimento giacobino, sia il substrato che alimenta il realismo politico e i valori di fondo impressi nella cultura Engineering dai soci fondatori che ho presentato nelle pagine precedenti mettendone in evidenza luci e ombre. Dal piccolo al grande L’altro aspetto della italianità imprenditorialie riguarda la capacità e la volontà di superare i confini, mentali e operativi, del proprio orizzonte operativo, e le dimensioni della capacità di realizzare idee e progetti.

Il sistema imprenditoriale italiano è costituito da miriadi di piccole aziende che non superano le poche unità o decine di addetti. Sono rari i casi di aziende che in pochi anni abbiano raggiunto grandi dimensioni e superato il numero di 500 addetti. Vi è qualcosa di specificamente italiano che spiega questo fenomeno?

L’economista Marcello De Cecco, scrivendo a proposito dei limiti del modello italiano basato su piccole imprese, ha avanzato un’ipotesi assai interessante: <<Il sistema produttivo italiano... sembra definitivamente collocato in una dimensione, più che industriale, fondiaria. I nostri imprenditori sembrano proprietari terrieri che certo non considerano una buona annata motivo sufficiente per comprare nuova terra ed espandere la produzione. Solo una radicale trasformazione della produzione può portarli ad espandere la capacità produttiva, specie se devono tenere conto del

21 R.Bodei, Figures Italiennes de la rationalité, Editions Kimé, Paris 1994, pp.625-626.

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fatto che basta un aumento della domanda per determinare effettive scarsità di manodopera>>22.

Engineering ha superato, rara avis, questo atteggiamento “fondiario” o da piccolo artigiano e ha sempre corso il rischio di investire per espandere la capacità produttiva. Ha superato dunque un condizionamento culturale italiano23. Tra il dire e il fare… Il terzo aspetto riguarda l’organizzazione, o per meglio dire, la capacità di realizzare, di passare dal dire al fare. Da questo punto di vista la cultura italiana presenta una vistosa lacuna. Il mare che separa il dire dal fare è superato con grande difficoltà. Sembra che con il crescere delle dimensioni dell’impresa o del progetto aumentino esponenzialmente le difficoltà.

Non mancano le grandi imprese o le grandi realizzazioni, ma sono poche, anzi pochissime. La constatazione più frequente è che di fronte alle grandi imprese di pace e di guerra la cultura italiana annaspi tra velleitarismo e impotenza, tra entusiasmo e scoraggiamento.

Improvvisazione e incapacità di organizzarsi e di procacciarsi gli strumenti indispensabili in tempo utile: ecco alcune costanti dell’agire italiano su larga scala. Ovviamente, vi sono state manifestazioni di capacità di realizzare grandi imprese, ma sono eccezioni che confermano la regola. Il pensiero non può non andare alle condizioni di ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale e alle successive fasi, per restare in campo militare. Curioso fenomeno che meriterebbe una riflessione approfondita24.

Mi limito ad accennare a un fatto che mi ha molto colpito e che trovo esemplare dell’atteggiamento italiano di fronte alle grandi imprese, significativo ed emblematico perché ricorrente lungo la storia italiana degli ultimi 150 anni.

Più di una volta, forse sempre, i generali italiani preposti alla conduzione di una battaglia decisiva (o di una guerra) non avevano a loro disposizione le carte geografiche dei luoghi nei quali si sarebbe svolta la battaglia decisiva. Porto soltanto due esempi.

Il campo di Adua, geograficamente pochissimo conosciuto prima della battaglia (ma non si comprende come il comando, in occasione di ben tre successive occupazioni della zona, non

22 M. De Cecco, “Condannati a crescere poco”, in “Affari e Finanza”, supplemento de La Repubblica, 27 novembre 1995. 23 Su questo argomento si veda il paragrafo “Valori e orientamento imprenditoriale”. 24 Chi è interessato a questo tema può leggere G. Negri, L’Italia del non fare, Ponte alle Grazie, Firenze 1999.

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avesse fatto eseguire un doveroso rilievo), rimase tale anche poi: anzi la sua conoscenza, se così si può dire, peggiorò, perché ognuno dei suoi rilievi venne ad acquistare le dimensioni, il colore, l’atmosfera che più convenivano ai ricordi di questo o di quello... una volta emersi gli errori sui cui avevano fondato i loro apprezzamenti, guardarono al paesaggio come ad un vero rebus nel quale non riuscirono più ad orizzontarsi né prima né dopo quando tentarono di ricostruirlo nella loro memoria. A tanto si giunse: che il comando possedeva, pare accertato, una carta possibilmente esatta della zona. Quella del D’Abbadie, che l’aveva pubblicata nel 1873 nella sua Géodésie d’Ethiope , ma essa era stata dimenticata a Massaua25.

Ecco l’altro esempio:

Nessuno si era poi preoccupato di studiare la topografia lombarda, la conformazione del territorio, le caratteristiche del sistema fluviale... Come non prevedere che le principali strade di accesso sarebbero state intasate dai trasporti militari, dai treni di artiglieria, dalle ambulanze, dall’incessante transito delle colonne dei soldati? Sarebbe stato inevitabile appoggiarsi sul sistema stradale secondario, sulla ragnatela di vie intercomunali e interpoderali, per farvi defluire la cavalleria di copertura, i reparti di appoggio, gli indispensabili portaordini, le ambulanze. Per farlo tutti i comandanti avrebbero dovuto disporre di carte tipografiche del Lombardo-Veneto. Ma il Ministero della Guerra - al quale, evidentemente, la scienza cartografica pur vecchia di secoli continuava a sembrare inutile - non le aveva predisposte. Di carte geografiche si era già fatto a meno nel 1848-1849, come anche ora nel 1859; ci si sarebbe comportati allo stesso modo nel 1860 e nelle campagne successive26.

Questa fatto della sistematica assenza di carte geografiche è impressionante.

Torniamo però dalla storia d’Italia alla storia di un’impresa italiana. Da questo punto di vista, dalla capacità cioè di realizzare i progetti, di passare con efficacia dal dire al fare, Engineering presenta caratteristiche controcorrente rispetto al dato culturale di fondo e la volontà di superare i limiti imposti da alcuni aspetti dell’italianità maturati, sembra, negli ultimi 200 anni (improvvisazione velleitaria, incapacità organizzativa,

25 F.Bandini, Gli Italiani in Africa, Longanesi, Milano 1971, pp.160-161. 26 R.Martucci, L’invenzione dell’Italia unita. 185 -1864, Sansoni, Firenze 2000, pp.59-60.

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scoraggiamento - caratteristiche che non escludono improvvisi exploit di grande rilievo ). Finale

Ho presentato con obbiettività l’impresa Engineering

focalizzando l’attenzione sul comportamento, sul modo di pensare e sulla cultura dei suoi imprenditori. Ne ho evidenziato pregi e limiti da superare in funzione dell’ampliarsi delle dimensioni aziendali.

L’incessante crescita della società, che spinge i soci fondatori sempre più lontano dalla prima linea, e l’allargamento del gruppo dirigente attenuano progressivamente l’influenza dell’originaria matrice culturale. È in gioco l’identità culturale di Engineering, la sua “anima”: la sua salvaguardia nel progresso è la sfida imminente.


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