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10 anni di Tecnologie Chimiche per l’Ambiente e per la gestione … · 6 La Strategia tematica...

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10 anni di Tecnologie Chimiche per l’Ambiente e per la gestione dei Rifiuti (Facoltà di Chimica Industriale) – Polo di Rimini Workshop STRATEGIE DI SVILUPPO INDUSTRIALE IN UNA PROSPETTIVA DI GREEN ECONOMY Lunedì 16 Aprile 2012 Con il Patrocinio di: Con il Supporto di: CdL Chimica e tecnologie per l'ambiente e per i materiali. Curriculum: Ambiente, Energia e Rifiuti
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10 anni di Tecnologie Chimiche per l’Ambiente e per la gestione dei Rifiuti

(Facoltà di Chimica Industriale) – Polo di Rimini

Workshop

STRATEGIE DI SVILUPPO INDUSTRIALE IN UNA PROSPETTIVA DI GREEN ECONOMY

Lunedì 16 Aprile 2012

Con il Patrocinio di: Con il Supporto di:

CdL Chimica e tecnologie per

l'ambiente e per i materiali.

Curriculum: Ambiente, Energia e

Rifiuti

2

INDICE

La gestione sostenibile delle risorse

Rosanna Laraia –ISPRA, Roma……………………………………………………………..

5

MFA dinamica per l’analisi dei flussi e delle riserve in uso di alluminio in Italia

Luca Ciacci, Fabrizio Passarini, Luciano Morselli, Ivano Vassura - Università di

Bologna, Facoltà di Chimica Industriale……………………...

19

Recupero dei metalli dalle scorie di incenerimento di rifiuti: future opportunità

in Italia

Gino Schiona - Consorzio Imballaggi Alluminio, Milano Mario Grosso, Lucia Rigamonti, Laura Biganzoli - DIIAR Sezione ambientale,

Politecnico di Milano…………………………………………………………………………

24

Trasformazione di glicerolo acomposti chimici: l’esempio della disidratazione

ossidativa catalitica ad acido acrilico

Alessandro Chieregato, Fabrizio Cavani, Francesco Basile - Dipartimento di

Chimica Industriale e dei Materiali, Università di Bologna - CIRI “Energia e

Ambiente”, Università di Bologna Stefania Guidetti, Cristian Trevisanut, Giuseppe Liosi - Dipartimento di Chimica

Industriale e dei Materiali, Università di Bologna Josè M. López Nieto,M. Dolores Sorian3, Patricia Concepción - Instituto de

Tecnología Química, UPV-CSIC, Valencia, Spain……………………………………….

31

Progetto di un sistema integrato di digestione anaerobica e compostaggio per la

frazione organica dei rifiuti solidi urbani (FORSU) per una piccola comunità:

sfide, benefici, problematiche

Stefania Marini - Alma Mater Studiorum, Università di Bologna - CSGI e

Dipartimento di progettazione e tecnologie, Università degli Studi di Bergamo Mario Berrettoni - Dipartimento di Chimica Fisica ed Inorganica, Facoltà di

Chimica Industriale, Alma Mater Studiorum,Università di Bologna Marco Villa - CSGI e Dipartimento di progettazione e tecnologie, Università degli

Studi di Bergamo Yohannes Kyros - KTH, Royal Institute of Technology, Department of Chemical

Engineering and Technology, Division of Chemical Technology, Stockholm…………

35

Simulazione delle prestazioni di un Gassificatore Downdraft attraverso

Chemcad

Michele Cavazzi, Laura Brighi - DICMA, Dipartimento di Ingegneria Chimica,

Alma Mater Studiorum, Università di Bologna - Klyma Srl, Rimini Alessandro Pagnianti - DICMA, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna Lucio Colla - Klyma Srl, Rimini…………………………………………………………….

41

Uso delle biomasse di tipo lignocellulosico nella filiera energetica per la

produzione di biogas e biochar

Cristian Torri, Vittoria Bandini, Diego Marazza, Alessandro Buscaroli, Serena

Righi, Daniele Fabbri, Andrea Contin - CIRI “Energia e Ambiente”, Alma Mater

Studiorum, Università di Bologna…………………………………………………………..

47

3

Pneumatici fuori uso, criticità e strategie; la pirolisi degli pneumatici

Chiara Leonardi, Loris Giorgini - Dipartimento di Chimica Industriale e dei

Materiali, Alma Mater Studiorum,Università di Bologna - CIRI “Meccanica

Avanzata e Materiali”, Alma Mater Studiorum, Università di

Bologna…………………………………………………………………………………….......

Termo-dynamic cracking technology applied to crumb tyres Alessandro Santini – Gruppo Fiori (BO)

Fabrizio Passarini, Ivano Vassura, Luca Ciacci, Luciano Morselli - Università di

Bologna, Polo di Rimini……………………………………………………………………... 58

Verso la sostenibilità del settore del riciclo dei veicoli a fine vita Alessandro Santini – Gruppo Fiori, Crespellano, Bologna…………………………….

62

La produzione distribuita di idrogeno e le sue prospettive: problematiche

economiche e tecniche Stefania Marini – Dipartimento di Chimica Fisoca ed Inorganica, Università di

Bologna - CSGI e Dipartimento di Progettazione e Tecnologie dell’Università di

Bergamo Paolo Salvi, Rachele Pesenti, Paolo Nelli, Marco Villa - CSGI e Dipartimento di

Progettazione e Tecnologie dell’Università di Bergamo Mario Berrettoni - Dipartimento di Chimica Fisoca ed Inorganica, Università di

Bologna Yohannes Kiros – Department of Chemical Engineering and Technology,

Stockholm, Sweden…………………………………………………………………………….

65

Resine poliestere insature dal riciclo dei polimeri termoplastici di

condensazione Tania Zanasi, Paolo Pozzi -Universitàdi Modena e Reggio Emilia

Giovanni Lucchetti, Luca Paterlini - Carlo Riccò &F.LLi S.p.A., Correggio…………

71

Sistemi di riscaldamento domestico a biomasse: applicazione della metodologia

LCA (Life Cycle Assessment)

Daniele Cespi, Fabrizio Passarini, Luciano Morselli, Ivano Vassura, Luca Ciacci –

Dipartimentodi Chimica Industriale e dei Materiali & CIRI “Energia e Ambiente”,

Università di Bologna…………………………………………………………………………

75

Analisi economica della biomassa secondo l’approccio del Life Cycle Costing

Stefano Bontempi, Alessandro Filisetti, Marco Setti - CIRI “Energia e Ambiente”,

Alma Mater Studiorum – Università di

Bologna………………………………………………………………………………………… 81

Environmental policies, public abatement spending and the timing of emission

reductions

Elettra Agliardi - Department of Economics, University of Bologna and Rimini

Center for Economic Analysis, Rimini Luigi Sereno - Department of Economics, University of Bologna, Bologna………….

86

Caratterizzazione di sedimenti da dragaggio: valutazione della mobilità di

inquinanti inorganici, e degli effetti del trattamento di Soil Washing

Claudio Corticelli, Ivano Vassura, Fabrizio Passarini, Luciano Morselli -

Università di Bologna………………………………………………………………………..

95

Caratterizzazione di miscele di suolo naturale e fanghi di cartiera mediante

tecniche a Risonanza Magnetica (NMR)

Marianna Vannini, Alessandra Bonoli, Villiam Bortolotti, Paolo Macini, Ezio

Mesini – CIRI “Energia e Ambiente”, Alma Mater Studiorum, Università di

53

4

Bologna………………………………………………………………………………………... 100

Titania modificata con Esacianometallati misti:caratterizzazione e prospettive

Mario Berrettoni, Riccardo Tarroni - Dipartimento di Chimica Fisica ed

Inorganica, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna - CIRI “Energia e

Ambiente”, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna Michela Ciabocco - Dipartimento di Chimica Fisica ed Inorganica, Alma Mater

Studiorum, Università di Bologna Stefania Marini - Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, Dipartimento di

progettazione e tecnologie, Università degli Studi di Bergamo e CSGI………………. 105

Sistema Integrato di Monitoraggio Ambientale nelle vicinanze di un

inceneritore di rifiuti solidi urbani Elisa Venturini, Ivano Vassura, Fabrizio Passarini, Laura Ferroni, Luciano

Morselli – Università di Bologna, Dipartimento di Chimica Industriale e dei

Materiali………………………………………………………………………………………..

110

I green jobs

Marco Gisotti, Modus Vivendi, Roma………………………………………………………

115

5

La gestione sostenibile delle risorse

Rosanna Laraia [email protected] – ISPRA, Roma

1. Introduzione: il quadro normativo europeo Tutti gli atti strategici e regolamentari dell’Unione Europea, a partire dal VI Programma di Azione per l’ambiente, pongono come obiettivo prioritario l’uso sostenibile delle risorse correlandolo alla gestione sostenibile dei rifiuti. L’obiettivo è quello di garantire che il consumo delle risorse rinnovabili e non rinnovabili e l’impatto che esso comporta non superi la capacità di carico dell’ambiente e di ottenere lo sganciamento dell’uso delle risorse dalla crescita economica mediante un significativo miglioramento dell’efficienza dell’uso delle stesse, attuata attraverso la “dematerializzazione” dell’economia e la prevenzione dei rifiuti. Gli interventi per prevenire la produzione di rifiuti sono innanzitutto interventi “alla fonte”; tale approccio comporta, da un lato, la ricerca di soluzioni per ampliare la durata di vita dei prodotti per utilizzare meno risorse e passare a processi di produzione più puliti e, dall’altro, la capacità di influenzare le scelte e la domanda dei consumatori perché si favoriscano prodotti e servizi che generino meno rifiuti. E’ necessario individuare le sostanze pericolose nei vari flussi di rifiuti e favorire la loro sostituzione con sostanze meno pericolose, ovvero progettare prodotti alternativi, ove ciò sia possibile e, ove non lo fosse, cercare di garantire l’esistenza di sistemi a ciclo chiuso, nei quali il produttore abbia la responsabilità di garantire la raccolta, il trattamento e il riciclaggio dei rifiuti secondo modalità che minimizzino i rischi e l’impatto sull’ambiente. E’ necessario, in altri termini, integrare gli obiettivi e le priorità di prevenzione dei rifiuti nella politica integrata dei prodotti (IPP), e nella strategia comunitaria sulle sostanze chimiche. Anche la Strategia tematica per la prevenzione e il riciclaggio dei rifiuti, che rappresenta una delle sette strategie tematiche di attuazione del VI Programma d’Azione Comunitario sull’Ambiente, indica una serie di misure da attuare per migliorare la gestione dei rifiuti, rafforzando l’approccio secondo il quale i rifiuti non sono più visti come una fonte di inquinamento, bensì come un’importante risorsa da gestire ed utilizzare adeguatamente. Le finalità della politica di gestione dei rifiuti, riprese dalla Strategia, rimangono la prevenzione dei rifiuti e la promozione del riutilizzo, del riciclaggio e del recupero, ma il nuovo obiettivo è quello di far sì che l’UE diventi “una società fondata sul riciclaggio, che

cerca di evitare la produzione di rifiuti ma che, in ogni caso, li utilizza come risorsa”. Per raggiungere questi obiettivi molte sono le misure da mettere in atto, tutte puntualmente individuate: - attuazione alla legislazione in vigore; - introduzione di standard prestazionali per gli impianti di riciclaggio e per i prodotti

riciclati, anche attraverso l’estensione della disciplina IPPC a tutti gli impianti di recupero;

- introduzione del concetto di “efficienza “ dell’operazione recupero soprattutto per quanto riguarda il recupero energetico negli impianti di incenerimento di rifiuti;

- introduzione del concetto del “ciclo di vita” nella politica in materia di rifiuti, al fine di individuare più facilmente le priorità e le politiche da adottare per ottenere il massimo beneficio ambientale;

- miglioramento della gestione dei rifiuti biodegradabili; - adozione di Piani di prevenzione dei rifiuti a livello nazionale, regionale o locale.

6

La Strategia tematica per l'uso sostenibile delle risorse naturali mira, invece, a ridurre le pressioni ambientali in ogni fase del ciclo di vita delle risorse (estrazione, raccolta, utilizzo e smaltimento finale), quindi richiama la necessità di integrare nelle politiche esistenti l'approccio basato sul ciclo di vita delle risorse. Il concetto del ciclo di vita è fondamentale anche nella direttiva sulla progettazione ecocompatibile, (direttiva 2009/125/CE) in cui viene applicato per elaborare specifiche per una progettazione sostenibile dei prodotti al fine di migliorarne le prestazioni ambientali, compresa la gestione nella fase post consumo. Più recentemente la Commissione europea è intervenuta per ribadire le priorità nella gestione dei rifiuti con due Comunicazioni al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni: la prima del 26 gennaio 2011 “Un'Europa efficiente nell'impiego delle risorse - Iniziativa faro nell'ambito della strategia

Europa 2020” e la seconda del 20 settembre 2011 “Tabella di marcia verso un’Europa

efficiente nell'impiego delle risorse”. Altrettanto significativa, in quanto volta ad individuare gli indirizzi e le priorità in materia di gestione di un importante flusso di rifiuti, è la Comunicazione della Commissione Europea al Consiglio e al Parlamento europeo del 18 maggio 2010 “relativa alle prossime misure in materia di gestione dei rifiuti organici

nell’Unione europea”.

In tutte queste Comunicazioni l’uso sostenibile dei rifiuti viene collocato nell’ambito della più ampia strategia di uso sostenibile delle risorse; tale approccio parte dalla modifica degli attuali modelli di crescita e di consumo per definire un quadro d’azione coerente che abbraccia diverse aree e settori e ha l’obiettivo di fornire una prospettiva stabile per trasformare l’economia. Nella Comunicazione del 26 gennaio 2011 la Commissione afferma che non è possibile proseguire con i nostri modelli attuali d'impiego delle risorse dal momento che negli ultimi decenni, l'impiego intensivo delle risorse mondiali, in particolare delle risorse non rinnovabili, esercita pressioni sul nostro pianeta e minaccia la sicurezza di approvvigionamento. Per reagire a tali mutamenti, l'impiego più efficiente delle risorse avrà una funzione cruciale per la crescita e l'occupazione in Europa, offrirà all'economia nuove grandi possibilità, migliorerà la produttività, ridurrà i costi e potenzierà la concorrenza. In tale ambito si colloca anche l’obiettivo di minimizzare la produzione di rifiuti migliorando la gestione delle risorse e modificando i modelli di consumo. In tal modo si contribuirà a stimolare l'innovazione tecnologica, a incrementare l'occupazione nel settore della "tecnologia verde", che è in rapido sviluppo, a sostenere il commercio UE, anche aprendo nuovi mercati per le esportazioni, e a offrire prodotti più sostenibili, a tutto vantaggio dei consumatori. Per giungere ad un’Europa efficiente nell’uso delle risorse sarà necessario utilizzare una combinazione di politiche ed attivare una serie di sinergie tra i diversi settori coinvolti. Ad esempio, per quanto riguarda i rifiuti, l’incremento del riciclaggio attenuerà la pressione sulla domanda di materie prime, indurrà a riutilizzare materiali di valore che altrimenti finirebbero come rifiuti e a ridurre il consumo di energia e le emissioni di gas a effetto serra nei processi di estrazione e di lavorazione. Inoltre, migliorando la progettazione dei prodotti si potrà da un lato ridurre la domanda di energia e di materie prime e rendere i prodotti più duraturi e più facili da riciclare, dall’altro stimolare anche l'innovazione, creando possibilità imprenditoriali e nuovi posti di lavoro. Molto importante per quanto attiene alla specifica politica in materia di rifiuti è la Comunicazione della Commissione “Tabella di marcia verso un’Europa efficiente

nell'impiego delle risorse”. Questo Atto strategico individua nel dettaglio le azioni ed i tempi necessari per arrivare concretamente, a livello europeo ma anche mondiale, ad un uso efficiente delle risorse.

7

Si parte dall’analisi del quadro dell’attuale situazione che appare davvero allarmante: oggi, nell’UE, ogni cittadino consuma ogni anno 16 tonnellate di materiali, 6 delle quali sono sprecate (la metà finisce in discarica). È però ormai evidente che l’epoca delle risorse abbondanti e a basso costo è finita, le imprese devono far fronte all’aumento dei prezzi di materie prime e minerali essenziali, la cui scarsità e instabilità sul fronte dei prezzi hanno ripercussioni negative sull’economia. Il nostro sistema economico continua ad incoraggiare un uso inefficiente delle risorse attribuendo ad alcune di queste prezzi inferiori al loro costo effettivo. In questo contesto appare essenziale trasformare i rifiuti in una risorsa. Bastano alcuni numeri per capire la necessità di azioni rapide e concrete necessarie a cambiare l’attuale sistema: ogni anno nell’Unione europea si producono 2,7 miliardi di tonnellate di rifiuti, di cui 98 milioni di tonnellate sono rifiuti pericolosi. In media solo il 40% dei rifiuti urbani viene riutilizzato o riciclato, il resto è smaltito in discarica o incenerito. Preoccupante è l’aumento di alcuni flussi di rifiuti quali quelli da costruzione e demolizione, i fanghi di depurazione, i rifiuti marini; per i rifiuti delle apparecchiature elettriche ed elettroniche si stima una crescita di circa l’11% tra il 2008 e il 2014. Non tutti gli Stati Membri mostrano un sistema di gestione efficiente: alcuni riciclano oltre l’80% dei rifiuti, a dimostrazione di come sia possibile utilizzarli come una risorsa, altri continuano a smaltire in discarica fino al 90% dei rifiuti prodotti. Il miglioramento della gestione dei rifiuti contribuisce senz’altro ad un miglior utilizzo delle risorse e può aprire nuovi mercati e creare posti di lavoro, favorendo una minore dipendenza dalle importazioni di materie prime e consentendo di ridurre gli impatti ambientali. Se i rifiuti sono destinati a diventare una risorsa da reintrodurre nell’economia come materia prima, occorre attribuire una priorità di gran lunga maggiore al riuso e al riciclaggio. Un mix di strumenti e di azioni devono essere attivati per far sì che i rifiuti, entro il 2020, siano gestiti come una risorsa; in tale ambito la Commissione intende:

� stimolare il mercato delle materie secondarie e la domanda di materie riciclate, attraverso incentivi economici e l’elaborazione di criteri per smettere di produrre rifiuti (2013/2014);

� riesaminare gli obiettivi esistenti in materia di prevenzione, riuso, riciclaggio, recupero e di alternative alla discarica per progredire verso un’economia basata sul riuso e il riciclaggio, con l’eliminazione quasi completa dei rifiuti residui (2014);

� valutare l’introduzione di quote minime di materie riciclate, di criteri di durabilità e riutilizzabilità ed estendendo la responsabilità del produttore per i prodotti principali (2012);

� valutare i settori in cui la legislazione sui vari flussi di rifiuti potrebbe essere allineata ai fini di una maggior coerenza (2013/2014);

� continuare a lavorare in seno all’UE e con i partner internazionali per eliminare le spedizioni illegali di rifiuti, in particolare dei rifiuti pericolosi;

� garantire che il finanziamento pubblico, proveniente del bilancio dell’Unione europea, dia priorità alle attività che si collocano ai livelli più alti della gerarchia dei rifiuti definiti nella direttiva quadro sui rifiuti (per esempio, ad impianti di riciclaggio) (2012/2013);

� agevolare lo scambio delle migliori pratiche in materia di raccolta e trattamento dei rifiuti tra gli Stati membri e elaborare misure per combattere più efficacemente le violazioni della normativa UE sui rifiuti (2013/2014).

A tal fine nella Comunicazione è previsto che gli Stati membri assicurino la piena attuazione dell’acquis dell’UE in materia di rifiuti, stabilendo inoltre obiettivi minimi attraverso le loro strategie nazionali di prevenzione e gestione dei rifiuti (impegno continuativo).

8

Fin qui gli Atti strategici dell’Unione Europea che dettano obiettivi a più lungo termine della politica di gestione dei rifiuti; sul piano prettamente regolamentare il riferimento è, invece, costituito dalla direttiva 2008/98/CE “relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive” che è intervenuta a modificare in maniera sostanziale il quadro giuridico in materia di rifiuti. La nuova disciplina introduce significative novità volte a rafforzare i principi della precauzione e prevenzione nella gestione dei rifiuti, a massimizzare il riciclaggio/recupero ed a garantire che tutte le operazioni di gestione, a partire dalla raccolta, avvengano nel rispetto di rigorosi standard ambientali. Particolare attenzione viene posta su un importante flusso di rifiuti rappresentato dai rifiuti biodegradabili. La direttiva assegna un ruolo centrale alla prevenzione quantitativa e qualitativa dei rifiuti; gli Stati membri dovranno, entro il 12 dicembre 2013, elaborare programmi di prevenzione integrandoli nei piani di gestione dei rifiuti o in altri programmi di politica ambientale. All’elaborazione dei piani di gestione dei rifiuti e dei programmi dovranno partecipare anche le parti interessate e il pubblico in generale e, una volta predisposti, dovranno essere accessibili a tutti i soggetti interessati attraverso la loro pubblicazione su un sito web pubblicamente accessibile. I piani ed i programmi dovranno essere valutati almeno ogni sei anni e, se opportuno, riesaminati. L’Agenzia europea per l’ambiente dovrà includere nella sua relazione annuale un riesame dei progressi compiuti nel completamento e nell’attuazione dei programmi di prevenzione; questi dovranno fissare specifici obiettivi, descrivere le misure da adottare, valutare l'utilità di quelle indicate nell'allegato IV alla direttiva o di altre misure adeguate. Gli obiettivi e le misure inserite nei programmi dovranno avere come obiettivo prioritario quello di dissociare la crescita economica dagli impatti ambientali connessi alla produzione dei rifiuti. Gli Stati membri sono chiamati a monitorare i progressi ottenuti in tema di prevenzione, individuando specifici traguardi e indicatori qualitativi o quantitativi delle misure adottate. La Commissione dovrà, invece, realizzare un sistema per lo scambio di informazioni sulle migliori pratiche in materia di prevenzione dei rifiuti ed elaborare orientamenti per assistere gli Stati membri nella preparazione dei programmi. A valle della prevenzione, la direttiva, in conformità agli indirizzi della Strategia tematica per la prevenzione ed il riciclo, individua le azioni che gli Stati membri dovranno attivare per far sì che l’Unione europea diventi una “società del riciclaggio”. L’articolo 11 disciplina che gli Stati membri adottino tutte le misure necessarie per promuovere il riutilizzo dei prodotti e la preparazione per il riutilizzo dei rifiuti. Tra le misure vengono indicate la costituzione ed il sostegno alle reti di riutilizzo e di riparazione, l’uso di strumenti economici, bandi di gara che includano criteri di preferibilità ambientale, la fissazione di obiettivi quantitativi di riutilizzo. Altro importante aspetto è la promozione del riciclaggio di alta qualità attraverso l’individuazione di criteri di efficienza in base ai quali poter considerare che le operazioni di recupero abbiano dato origine a un utile impiego dei rifiuti. La direttiva prevede, quindi, sistemi di raccolta differenziata, ove sia fattibile sul piano tecnico, ambientale ed economico, da istituirsi entro il 2015, almeno per i seguenti rifiuti: carta, metalli, plastica e vetro. Fissa, inoltre, specifici obiettivi di preparazione per il riutilizzo e di riciclaggio da raggiungere, entro il 2020. Quest’ultimi interessano sia le frazioni di rifiuti provenienti dai nuclei domestici (almeno carta, metalli, plastica e vetro) o di altra origine, nella misura in cui tali flussi di rifiuti siano simili a quelli domestici, sia i rifiuti da costruzione e demolizione non pericolosi, escluso il materiale allo stato naturale. Nello specifico, i primi dovranno essere riutilizzati/riciclati per almeno il 50% in peso, quelli da costruzione e demolizione per almeno il 70%.

9

La Commissione dovrà definire le modalità dettagliate di attuazione e di calcolo per la verifica del raggiungimento degli obiettivi, ed, inoltre, entro il 31 dicembre 2014, dovrà esaminare le misure e i target raggiunti con lo scopo, se necessario, di rafforzarli ed estenderli ad altri flussi di rifiuti. A tal fine, ogni tre anni, gli Stati membri dovranno riferire alla Commissione in merito ai risultati raggiunti ed, in caso di mancato conseguimento, i motivi e le azioni messe in campo per superare il problema. Con la decisione del 18 novembre 2011 (2011/753/UE) la Commissione ha individuato le metodologie per il calcolo del raggiungimento degli obiettivi di riciclaggio che gli Stati Membri dovranno utilizzare per rendicontare i target raggiunti. Significative per l’impatto sul mercato interno e per la promozione e realizzazione della “società del riciclaggio” sono le disposizioni che riguardano l’introduzione dei criteri per la qualifica dei sottoprodotti e di una procedura, per determinati flussi di rifiuti, per chiarire quando un rifiuto cessa di essere tale . La stessa Commissione sottolinea che “Un'interpretazione troppo ampia della definizione di

rifiuto impone alle aziende costi superflui, rendendo meno interessante un materiale che

avrebbe potuto invece rientrare nel circuito economico. Un'interpretazione poco ampia, al

contrario, può tradursi in danni ambientali e pregiudicare l'efficacia della legislazione e

delle norme comunitarie in materia di rifiuti.”

Nel considerandum 22 della direttiva si precisa che “non dovrebbe esserci confusione tra i vari aspetti della definizione di rifiuti e dovrebbero essere applicate procedure appropriate, se del caso, ai sottoprodotti che non sono rifiuti, da un lato, e ai rifiuti che cessano di essere tali, dall’altro”. Nell’articolo 5 la direttiva individua, quindi, le condizioni in presenza delle quali una sostanza od oggetto derivante da un processo di produzione, il cui scopo primario non è la produzione di tale articolo, possa non essere considerato rifiuto, bensì sottoprodotto. Le condizioni sono che la sostanza o l’oggetto:

a) sia certamente utilizzato b) possa essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla

normale pratica industriale c) sia prodotto come parte integrante di un processo di produzione e d) l’ulteriore utilizzo sia legale, ossia siano soddisfatti, per l'utilizzo specifico, tutti i

requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente. Inoltre, l’utilizzo non deve generare impatti complessivi negativi sulla salute umana e l’ambiente.

La direttiva prevede che la Commissione, assistita dal Comitato, possa adottare misure per stabilire criteri perché specifiche sostanze od oggetti siano qualificati come sottoprodotti. Dunque, la decisione che una sostanza non sia un rifiuto, bensì un sottoprodotto, può essere presa solo sulla base di un approccio coordinato, da aggiornare regolarmente, e ove ciò sia coerente con la protezione dell’ambiente e della salute umana. Per quanto riguarda la cessazione della qualifica di rifiuto, la direttiva stabilisce che la sostanza o l’oggetto cessino di essere rifiuto, qualora sottoposti a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio, soddisfino criteri e condizioni specifiche: a) siano comunemente utilizzati per scopi specifici b) esista un mercato o una domanda c) soddisfino i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispettino la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti d) l’utilizzo non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.

10

I criteri includono, se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente della sostanza o dell’oggetto; in ogni caso l’esclusione dal regime dei rifiuti dovrà garantire che l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto garantisca un elevato livello di protezione della salute umana e dell’ambiente e che il prodotto secondario soddisfi le condizioni necessarie per la sua immissione in commercio.

I criteri dovranno essere fissati, a livello europeo, ed i rifiuti considerati prioritari per la definizione dei criteri dell’end of the waste (EoW) sono: gli aggregati, i rifiuti di carta e di vetro, i metalli, gli pneumatici e i rifiuti tessili.

Qualora i criteri EoW non vengano stabiliti a livello comunitario, gli Stati membri potranno decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale, tenendo conto della giurisprudenza applicabile. Le decisioni assunte dovranno essere comunicate alla Commissione in conformità della direttiva 98/34/CE .

I criteri end of waste perseguono il miglioramento del funzionamento del mercato interno, l’incremento della potenzialità di riciclaggio, la rimozione degli oneri burocratici inutili, la promozione di una elevata qualità dei materiali secondari, il miglioramento della percezione del consumatore. Strumento cardine per il rafforzamento del riuso, della prevenzione, del riciclaggio e del recupero dei rifiuti, è la responsabilità estesa del produttore. Nel considerandum 27 della direttiva, viene specificato che: “L’introduzione della responsabilità estesa del produttore è

uno dei mezzi per sostenere una progettazione e una produzione dei beni che prendano

pienamente in considerazione e facilitino l’utilizzo efficiente delle risorse durante l’intero

ciclo di vita, comprendendone la riparazione, il riutilizzo, lo smontaggio e il riciclaggio senza

compromettere la libera circolazione delle merci nel mercato interno”

Gli Stati membri sono, pertanto, chiamati ad adottare misure legislative o non legislative volte ad assicurare che qualsiasi persona fisica o giuridica che professionalmente sviluppi, fabbrichi, trasformi, tratti, venda o importi prodotti sia responsabile dei propri prodotti. Le misure per attuare tale responsabilità del produttore possono comprendere l’obbligo di accettare i prodotti restituiti ed i rifiuti che derivano dall’utilizzo dei prodotti, di organizzare e/o finanziare la gestione dei rifiuti, condividendo eventualmente tale funzione con i distributori, di mettere a disposizione del pubblico informazioni relative alla riutilizzabilità e/o riciclabilità dei prodotti. Ma la responsabilità potrà anche esplicarsi attraverso la progettazione di prodotti in grado di ridurre l’impatto ambientale durante l’intero ciclo di vita (progettazione, realizzazione, distribuzione, consumo e post consumo), ovvero attraverso lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti adatti all’uso multiplo, tecnicamente durevoli e che, dopo essere diventati rifiuti, siano adatti a un recupero adeguato e sicuro e a uno smaltimento compatibile con l’ambiente. La direttiva chiarisce che, nell’applicare la responsabilità estesa del produttore, gli Stati membri devono, comunque, tenere conto della fattibilità tecnica e della praticabilità economica nonché degli impatti complessivi sociali, sanitari e ambientali, rispettando l’esigenza di assicurare il corretto funzionamento del mercato interno. Importanti sempre nell’ottica di promuovere una gestione sostenibile dei rifiuti sono le disposizioni riguardanti la pianificazione territoriale con particolare riferimento alla necessità di assicurare il raggiungimento degli obiettivi di riduzione dei rifiuti biodegradabili in discarica e prendendo in considerazione il tipo, i quantitativi, le fonti e i sistemi di raccolta dei rifiuti.

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Riguardo ai rifiuti biodegradabili, la direttiva quadro invita gli Stati membri ad adottare misure volte ad incoraggiare la raccolta separata dei rifiuti organici per sottoporli a compostaggio o trattamento e ad utilizzare i materiali ottenuti in maniera sicura per l’ambiente. La Commissione valuterà l’opportunità di definire requisiti minimi europei per la gestione dei rifiuti organici e criteri di qualità per il compost o il digestato derivato da tali rifiuti al fine di garantire un elevato livello di protezione per la salute umana e l’ambiente. Ulteriori Atti regolamentari europei delineano le priorità nella gestione dei rifiuti in coerenza con i principi e gli obiettivi fin qui illustrati; in questo contesto va citata la direttiva sui veicoli fuori uso (dir. 2000/53/CE) e, soprattutto, la revisione della direttiva 2002/96/CE sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche. Quest’ultima, dopo un lungo e travagliato iter, dovrebbe essere emanata in tempi brevi; le maggiori novità riguardano un elevato innalzamento degli obiettivi raccolta e di riciclaggio, compreso il reimpiego delle intere apparecchiature e, soprattutto, il miglioramento in termini ambientali dell’intera filiera di trattamento e recupero attraverso l’introduzione di standard tecnici per gli impianti basati sull’utilizzo delle migliori tecniche disponibili. Da ultimo, assume particolare rilievo nell’individuazione degli strumenti normativi volti a garantire l’ottimizzazione del ciclo dei rifiuti, la direttiva 2010/75/CE, relativa alle emissioni industriali che riunisce in un unico provvedimento ben sette direttive in materia (compresa la direttiva IPPC). Il provvedimento rende, infatti, maggiormente vincolante l’applicazione delle migliori tecniche disponibili (BAT), estende l’ambito di applicazione dell’autorizzazione integrata ambientale (AIA) a nuove tipologie di impianti, rafforza il sistema dei controlli sugli impianti industriali. Particolarmente importanti per il settore rifiuti sono l’ampliamento delle attività e degli impianti assoggettati alla disciplina (inclusione di molte operazioni di recupero prima escluse), l’integrazione della direttiva sull’incenerimento ed il coincenerimento, il rafforzamento del concetto di migliore tecniche disponibili (BAT), l’introduzione di nuovi requisiti per monitorare periodicamente suolo e acque superficiali sul sito degli impianti. In particolare, riguardo alle BAT la direttiva lascia meno flessibilità agli Stati membri nell’applicazione delle migliori tecniche, individuate nei documenti europei di riferimento (BREFs); i limiti di emissione (fissati nelle autorizzazioni) non potranno, infatti, discostarsi dal range di quelli associati alle BAT (BATAEL), a meno di giustificazioni basate su criteri ben definiti che dovranno essere sviluppati da un apposito Comitato europeo. 2. Relazione

2.1 Il d.lgs. n. 205/2010

La direttiva 2008/98/CE è stata recepita nell’ordinamento nazionale con il Decreto legislativo 3 dicembre 2010, n. 205“Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/Ce del

Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga

alcune direttive”.

Il decreto introduce significative novità alla parte quarta del d.lgs. n. 152/2006 che viene, in alcune parti, totalmente riscritto. In sintesi le principali novità introdotte dal d.lgs. n. 205/2010, sono: - Migliore definizione di “recupero” e “smaltimento”, introduzione della definizione di

“prevenzione”, “ riutilizzo”, “riciclaggio”, “preparazione per il riutilizzo”, e modifica di quella relativa alla ”raccolta differenziata”

- Riformulazione del concetto di gerarchia dei rifiuti - Introduzione dei criteri per la qualifica dei sottoprodotti

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- Introduzione, per determinati flussi di rifiuti, di una procedura per chiarire quando un rifiuto cessa di essere tale

- Rafforzamento del principio di prevenzione - Promozione del riutilizzo/riciclaggio e nuovi obiettivi di riciclaggio per specifiche

tipologie di rifiuti - Chiarimento sulle condizioni che consentono la miscelazione di rifiuti pericolosi

basate sul principio dell’adozione delle migliori tecniche disponibili - Tracciabilità dei rifiuti dalla produzione alla destinazione finale - Nuovi criteri e contenuti dei Piani di gestione dei Rifiuti - Programma nazionale di prevenzione dei rifiuti e relativi programmi regionali - Registri nazionali delle autorizzazioni/comunicazioni - Previsione di linee guida sui contenuti minimi delle autorizzazioni - Previsione di linee guida per una codifica omogenea per le operazioni di recupero e

smaltimento da inserire nei provvedimenti autorizzativi - Nuovi criteri di classificazione dei rifiuti.

Di seguito si commentano i punti più innovativi del d.lgs. n. 205/2010 atti a modificare l’attuale sistema di gestione. 2.1.1 La gerarchia dei rifiuti e la prevenzione

L’articolo 179 del d.lgs. n.152/2006, completamente riscritto dal d.lgs. n. 205/2010, dà attuazione a quanto disposto dall’art. 4 della direttiva 2008/98/CE relativo all’ordine di priorità della normativa e della politica in materia di prevenzione e gestione dei rifiuti. La prevenzione rimane la priorità assoluta, seguita dalla preparazione per il riutilizzo, dal riciclaggio, dal recupero di altro tipo, quale ad esempio il recupero di energia ed, infine, dallo smaltimento. E’ importante sottolineare che nell’applicare la gerarchia della gestione dei rifiuti, si devono adottare misure volte a incoraggiare le opzioni che diano il miglior risultato ambientale complessivo. Detto risultato viene raggiunto tenendo in debito conto, oltre ai principi generali di protezione dell’ambiente e della salute, anche fattori quali la fattibilità tecnica e la praticabilità economica e, più in generale, gli impatti sociali ed economici. Tale approccio, basato sull’analisi degli impatti complessivi generati durante l’intero ciclo di vita di un prodotto, potrà portare, in via eccezionale, ad uno scostamento dalla gerarchia di gestione per specifici flussi di rifiuti. Per facilitare l’applicazione della gerarchia del trattamento dei rifiuti, così come definita, le pubbliche amministrazioni sono chiamate a promuovere una serie di azioni quali: - lo sviluppo di tecnologie pulite, che permettano un uso più razionale e un maggiore

risparmio di risorse naturali; - la messa a punto tecnica e l'immissione sul mercato di prodotti concepiti in modo da

ridurre, durante l’intero ciclo di vita, la quantità o la nocività dei rifiuti e i rischi di inquinamento;

- lo sviluppo di tecniche appropriate per l'eliminazione di sostanze pericolose contenute nei rifiuti al fine di favorirne il recupero;

- condizioni di appalto che favoriscano il mercato di materiali riciclati; - l'impiego dei rifiuti per la produzione di combustibili e, più in generale, l'impiego dei

rifiuti come altro mezzo per produrre energia. Per garantire l’attuazione di politiche di prevenzione, considerate prioritarie nell’ambito della gerarchia di gestione, viene disposto che, entro il 12 dicembre 2013, il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare adotti, un Programma nazionale di

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prevenzione dei rifiuti ed elabori indicazioni affinché detto programma sia integrato nei piani regionali di gestione dei rifiuti. I programmi di prevenzione hanno come obiettivo quello di dissociare la crescita economica dagli impatti ambientali connessi alla produzione dei rifiuti. In conformità a quanto previsto dalla direttiva 2008/98/CE, sia il Programma Nazionale che i Programmi regionali, elaborati sulla base di quello nazionale, dovranno fissare obiettivi di prevenzione. Il Ministero dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare ha l’obbligo di descrive le misure di prevenzione esistenti, valutare l'utilità degli esempi di misure indicate nell'allegato L del d.lgs. n. 205/2010 o di altre misure adeguate, nonché assicurare la disponibilità di informazioni sulle migliori pratiche in materia di prevenzione dei rifiuti e, se del caso, elaborare linee guida per assistere le regioni nella preparazione dei programmi regionali. L’Allegato L riproduce esattamente l’Allegato IV della direttiva 2008/98/CE e contiene esempi di misure di prevenzioni operanti a diversi livelli:

1. sulle condizioni generali relative alla produzione dei rifiuti, ad esempio, misure di pianificazione o strumenti economici per l’uso efficiente delle risorse, promozione di ricerca e sviluppo di prodotti e tecnologie più pulite, elaborazione di indicatori associati alla produzione dei rifiuti;

2. sulla fase di progettazione, produzione e distribuzione, ad esempio, misure per la promozione della progettazione ecologica basata sull’analisi dell’intero ciclo di vita, diffusione di informazioni sulle tecniche di prevenzione, organizzazione di attività di formazione per le autorità competenti per l’inserimento delle prescrizioni di prevenzione nelle autorizzazioni, campagne di sensibilizzazione o interventi di sostegno alle imprese, soprattutto alle PMI, a livello finanziario, decisionale o in altro modo, introduzione di misure di prevenzione negli impianti non soggetti alla disciplina IPPC, accordi volontari tra imprese, istituzioni e consumatori per promuovere la prevenzione, promozione di sistemi ambientali affidabili - EMAS;

3. nella fase di consumo e dell’utilizzo di beni e servizi, ad esempio, strumenti economici come incentivi per acquisto di beni meno inquinanti, o imposizione ai consumatori di un pagamento obbligatorio per un determinato articolo o elemento dell’imballaggio, campagne di sensibilizzazione e informazione al pubblico sulla prevenzione, promozione di marchi di qualità ecologica, accordi con l’industria o con i rivenditori per garantire la disponibilità di informazioni sulla prevenzione dei rifiuti e su prodotti a minor impatto ambientale, integrazione dei criteri ambientali nei bandi di gara e nei contratti, promozione del riutilizzo e/o della riparazione anche attraverso il sostegno finanziario o la creazione di centri e reti accreditati di riparazione/riutilizzo di determinati prodotti.

Al fine di garantire il monitoraggio dei Programmi di prevenzione e valutare i progressi realizzati nell'attuazione delle misure, il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare dovrà individuare specifici parametri qualitativi o quantitativi per le misure di prevenzione e stabilire traguardi e indicatori. Altre misure per promuovere la prevenzione sono individuate all’articolo 180-bis che stabilisce che le pubbliche amministrazioni promuovano specifiche iniziative dirette a favorire il riutilizzo dei prodotti e la preparazione per il riutilizzo dei rifiuti quali, ad esempio, l’adozione di strumenti economici, di misure educative, di accordi di programma. Sempre in tale ambito si colloca la previsione dell’adozione, da parte delle stesse Pubbliche Amministrazioni, di criteri di valutazione per l’affidamento di contratti pubblici basati sulle caratteristiche ambientali ed il contenimento dei consumi energetici; a tal fine, entro sei mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo il Ministero dell’Ambiente dovrà stabilire, in

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attuazione della Finanziaria 2007, gli obiettivi di sostenibilità ambientale negli acquisti da parte della P.A. Con uno o più decreti del Ministero dell’ambiente, da emanarsi entro sei mesi, dovranno essere, anche, definite le modalità operative per la costituzione e il sostegno di centri e reti accreditati, compresa la definizione di procedure autorizzative semplificate ed un catalogo esemplificativo di prodotti e rifiuti di prodotti che possono essere sottoposti, rispettivamente, a riutilizzo o a preparazione per il riutilizzo. 2.1.2 I sottoprodotti e la cessazione della qualifica dei rifiuti

Conformi alla direttiva 2008/98/CE sono le disposizioni del d.lgs. n. 205/2010 che riguardano l’introduzione dei criteri per la qualifica dei sottoprodotti (articolo 184 - bis ) e di una procedura, per determinati flussi di rifiuti, per chiarire quando un rifiuto cessa di essere tale (articolo 184 - ter). La nuova disciplina sui sottoprodotti si adegua ai dettami comunitari, fornendo una chiara definizione di sottoprodotto che non sono rifiuti bensì sostanze o oggetti che soddisfano le seguenti condizioni:

a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;

b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;

c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;

d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.

Il decreto prevede, inoltre, la possibilità di declinare, attraverso decreti attuativi, la norma sui sottoprodotti maggiormente nel dettaglio, stabilendo criteri quali/quantitativi da soddisfare perché alcune tipologie di oggetti o sostanze possano essere considerati sottoprodotti. Un esempio è rappresentato dai materiali da estrazione e lavorazione di marmi e lapidei. Altrettanto importanti per dare attuazione alla “gerarchia dei rifiuti” sono le disposizioni relative alla cessazione dello status di rifiuto per quei materiali ed oggetti che, a seguito di un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, possono essere reintrodotti nel ciclo economico, riducendo il consumo di materie prime vergini e la quantità di rifiuti da destinare allo smaltimento. I nuovi criteri si inseriscono nel quadro delle azioni volte ad incoraggiare la produzione di materie prime secondarie di elevata qualità ed a realizzare una società del riciclo e del recupero, attraverso la creazione della certezza legale e l’alleggerimento degli oneri burocratici per quei materiali che, rispondendo a specifici standard di qualità, possono agevolmente essere reintrodotti nei cicli produttivi in sostituzione delle materie prime vergini. Le condizioni fissate dal decreto, in conformità a quanto disciplinato dall’articolo 6 della direttiva 2008/98/CE, per certificare la cessazione della qualifica di rifiuto per la sostanza o l’oggetto derivante da operazione di recupero sono che:

a) essi vengano comunemente utilizzati per scopi specifici; b) esista un mercato o una domanda; c) soddisfino i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispettino la normativa e gli

standard esistenti applicabili ai prodotti;

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d) il loro utilizzo non comporti impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.

Il decreto legislativo precisa anche che l’operazione di recupero possa consistere semplicemente nel controllare i rifiuti per verificare se essi soddisfino i criteri elaborati conformemente alle predette condizioni. Il Ministero dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare dovrà adottare, in conformità alla disciplina comunitaria, i criteri che le sostanze e gli oggetti dovranno soddisfare per non essere più qualificati come rifiuti; in mancanza di riferimenti comunitari si rinvia ad uno o più decreti dello stesso Ministero dell’ambiente la fissazione, caso per caso, di specifici criteri. Riguardo allo sviluppo in sede europea della disciplina dei materiali secondari, si segnala che la Commissione Europea ha avviato, da tempo, prima dell’approvazione della stessa direttiva quadro, il progetto relativo allo sviluppo dei criteri “End of Waste”, assegnandolo al Joint Research Centre. I criteri “End of Waste”, da sviluppare per ciascun flusso di rifiuti, riguardano : - rifiuti in ingresso (caratteristiche qualitative) - processi e tecniche di recupero - qualità del prodotto (rispetto di standard o di specifiche tecniche dell’industria di

utilizzo, inclusi standard di natura ambientale, quali la presenza ammessa di contaminanti)

- procedure di controllo della qualità dell’intero ciclo dalla produzione all’utilizzo - informazioni da fornire con il prodotto.

I primi flussi di rifiuti oggetto di esame sono stati i rottami d’alluminio ed i rottami ferrosi per i quali è stato emanato il regolamento UE 333/2011. Sono in fase di elaborazione i criteri per i rifiuti di carta, vetro, plastica e rottami di rame. 2.1.3 Le misure per promuovere la “società del riciclaggio”

Al fine di favorire lo sviluppo di un’autentica industria della gestione dei rifiuti e, soprattutto, di dare piena attuazione alle indicazioni dell’Unione europea riguardo alla creazione della “società del riciclaggio”, il decreto legislativo introduce nuove definizioni, precisa le nozioni di recupero e smaltimento, fissa obiettivi di riciclaggio e recupero, ed individua specifiche misure per realizzarli. Le misure più importanti per aiutare l’Italia ad avvicinarsi a una “società del riciclaggio”, cercando di evitare la produzione dei rifiuti e di utilizzarli come risorse sono indicate all’articolo 181. In coerenza con il dettato europeo e con lo scopo di promuovere il riciclaggio di qualità, i comuni, sulla base dei criteri stabiliti dal MATTM e dalle regioni, dovranno realizzare, entro il 2015, la raccolta differenziata almeno di carta, metalli, plastica e vetro, e ove possibile, del legno, Viene, quindi, riconosciuto alla raccolta differenziata il ruolo di strumento essenziale per garantire il riciclaggio di qualità delle diverse frazioni merceologiche contenute nei rifiuti urbani; va rilevato che il legno non compare tra le frazioni indicate dall’articolo 11 della direttiva, ma in analogia a quanto disposto dall’allegato E del d.lgs. n. 152/2006 sugli obiettivi di riciclaggio e recupero degli imballaggi, viene inserito nella norma stante il ruolo importante che l’industria del riciclo del legno riveste nel nostro Paese. La raccolta differenziata, attuata in conformità a quanto disposto dall’articolo 205 del citato d.lgs. n.152/2006, ed ulteriori misure adottate dai comuni sono funzionali al raggiungimento di specifici obiettivi di preparazione per il riutilizzo e di riciclaggio da raggiungere, entro il 2020.

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I target sono riferiti sia ai rifiuti provenienti dai nuclei domestici (almeno carta, metalli, plastica e vetro) o di altra origine, nella misura in cui tali flussi di rifiuti siano simili a quelli domestici, sia ai rifiuti da costruzione e demolizione non pericolosi, escluso il materiale allo stato naturale. I rifiuti urbani dovranno essere preparati per il riutilizzo ovvero riciclati per almeno il 50% in peso, quelli da costruzione e demolizione per almeno il 70%. Per facilitare o migliorare il recupero, i rifiuti sono raccolti separatamente, laddove ciò sia realizzabile dal punto di vista tecnico, economico e ambientale, e non sono miscelati con altri rifiuti o altri materiali aventi proprietà diverse. Al fine di favorire l’educazione ambientale e contribuire alla raccolta differenziata dei rifiuti, i sistemi di raccolta differenziata di carta e plastica negli istituti scolastici sono esentati dall’obbligo di autorizzazione. 2.1.4 L’efficienza dell’operazione recupero

In conformità a quanto disposto dall’Allegato II alla direttiva 2008/98/CE con l’obiettivo di introdurre criteri di “efficienza” dell’operazione di recupero, l’allegato C del decreto, che sostituisce integralmente quello del d.lgs. n. 152/2006, nell’elencare le operazioni di recupero, qualifica come attività di recupero energetico (R1), piuttosto che di smaltimento D10 (incenerimento), l’operazione di incenerimento effettuata in un impianto dedicato per rifiuti urbani (escludendo quindi il coincenerimento) nel quale sia garantito il raggiungimento di una determinata soglia di efficienza energetica. La soglia, fissata prendendo come riferimento le migliori tecniche disponibili (BAT) indicate nel BREF, prevede, in particolare, che gli impianti di incenerimento di rifiuti urbani raggiungano un’efficienza energetica: - uguale o superiore a 0,60 per impianti operativi e autorizzati secondo la legislazione

comunitaria prima del 1° gennaio 2009; - uguale o superiore a 0,65 per impianti autorizzati dopo il 31 dicembre 2008.

L’efficienza energetica (η), viene definita rapportando l’energia annuale contenuta nei rifiuti trattati con l’energia annuale prodotta dall’impianto come elettricità o calore, al netto dei consumi di energia fornita da altri combustibili. 2.1.5 I rifiuti organici

La Strategia tematica europea per la prevenzione ed il riciclo riserva ampio spazio alle problematiche connesse ad una gestione corretta dei rifiuti biodegradabili; l’obiettivo prioritario da conseguire è il loro allontanamento dalla discarica che produce metano, un gas serra 21 volte più potente del biossido di carbonio. La direttiva 1999/31/CE relativa alle discariche stabilisce per questo specifici obiettivi di riduzione, il cui raggiungimento andrà attentamente monitorato per garantire che anche i Paesi che non hanno ancora attivato specifici interventi siano in grado di attuare le disposizioni legislative. Secondo la Commissione europea, in linea con quanto già indicato nella direttiva discariche, non esiste un’unica soluzione ottimale dal punto di vista ambientale per gestire i rifiuti biodegradabili; le alternative più corrette alla discarica vanno valutate nei singoli contesti territoriali, tenendo conto dei numerosi fattori locali, tra i quali, i sistemi di raccolta, la composizione e la qualità dei rifiuti, le condizioni climatiche, l’impatto sui cambiamenti climatici, la possibilità di utilizzare il compost nella lotta contro il degrado del suolo. L’approccio corretto va, quindi, basato sull’analisi del ciclo di vita. La direttiva 2008/98/CE, come evidenziato, dedica un intero articolo ai rifiuti organici che contiene l’indicazione delle misure da adottare per una loro corretta gestione. In conformità a quanto disciplinato dalla direttiva, il decreto legislativo definisce all’articolo 183 come rifiuto organico: rifiuti biodegradabili di giardini e parchi, rifiuti alimentari e di

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cucina prodotti da nuclei domestici, ristoranti, servizi di ristorazione e punti vendita al

dettaglio e rifiuti simili prodotti dall’industria alimentare raccolti in modo differenziato. L’articolo 182 - ter stabilisce che la raccolta separata dei rifiuti organici debba essere effettuata con contenitori a svuotamento riutilizzabili o con sacchetti compostabili certificati a norma UNI EN 13432-2002. Le Regioni e le Province autonome, i Comuni e gli ATO, ciascuno per le proprie competenze e nell’ambito delle risorse disponibili allo scopo a legislazione vigente, dovranno adottare, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, misure volte a incoraggiare: a) la raccolta separata dei rifiuti organici; b) il trattamento dei rifiuti organici in modo da realizzare un livello elevato di protezione ambientale; c) l’utilizzo di materiali sicuri per l’ambiente ottenuti dai rifiuti organici, ciò al fine di proteggere la salute umana e l’ambiente. 2.1.6 Responsabilità estesa del produttore

Sempre con il medesimo obiettivo di rendere residuale lo smaltimento dei rifiuti a vantaggio di tutte le forme di prevenzione, riciclaggio e recupero, viene introdotto, in conformità alla direttiva 2008/98/CE, il principio della responsabilità del produttore. La responsabilità individuale del produttore costituisce, come evidenziato, uno stimolo notevole a modificare le caratteristiche progettuali dei prodotti per promuoverne la riciclabilità o ridurre la produzione dei rifiuti. Inoltre, imponendo ai produttori di sostenere il costo del riciclo dei prodotti al termine del ciclo di vita, si fa leva sul loro ruolo specifico nella catena produttori - consumatori - gestori dei rifiuti per finanziare il riciclo e incorporarne i costi di gestione nel prezzo del prodotto. In questo modo si mira anche ad incentivare i produttori a ridurre il costo del riutilizzo e del riciclo dei loro prodotti, ad esempio scegliendo soluzioni progettuali o materiali pensati per il riciclo. Per alcuni flussi di rifiuti la responsabilità del produttore è chiaramente prevista dalle direttive europee e dalla legislazione nazionale (veicoli fuori uso, apparecchiature elettriche ed elettroniche, pile e batterie); in altre direttive, come quella sugli imballaggi, tale principio non è presente, anche se nel recepimento da parte degli Stati membri (compresa l’Italia) è stata introdotta qualche forma di responsabilità del produttore. Il decreto, nel recepire l’articolo 8 della direttiva, introduce in termini generali, all’articolo 178 - bis, il principio della responsabilità estesa del produttore; in particolare, prevede che al fine di rafforzare la prevenzione e facilitare l’utilizzo efficiente delle risorse durante l’intero ciclo di vita, comprese le fasi di riutilizzo, riciclaggio e recupero dei rifiuti, possano essere adottati uno o più decreti del Ministro dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare per disciplinare le modalità e i criteri di introduzione della responsabilità estesa del produttore del prodotto. Il provvedimento rinvia, dunque, ad ulteriori decreti del Ministro dell’ambiente la definizione di modalità ed i criteri : - di gestione dei rifiuti e della relativa responsabilità finanziaria dei produttori del

prodotto; - di pubblicizzazione delle informazioni sulla riutilizzabilità e riciclabilità dei prodotti; - di progettazione dei prodotti volta a ridurre i loro impatti ambientali, diminuire o

eliminare i rifiuti durante la produzione e il loro successivo utilizzo; - di sviluppo, produzione e commercializzazione di prodotti adatti all’uso multiplo,

tecnicamente durevoli, e che, dopo essere diventati rifiuti, siano adatti ad un recupero adeguato e sicuro e a uno smaltimento compatibile con l’ambiente.

I decreti potranno prevedere anche che i costi della gestione dei rifiuti siano sostenuti parzialmente o interamente dal produttore del prodotto che genera i rifiuti. Nel caso il

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produttore partecipi parzialmente, il distributore del prodotto potrà concorrere per la differenza fino all’intera copertura dei costi. Quanto detto evidenzia come il decreto non individui al momento alcuna azione concreta per garantire la reale applicazione della responsabilità estesa del produttore, limitandosi ad enunciare i principi e le azioni indicate nell’articolo 8 della direttiva. L’implementazione dei principi viene, infatti, rinviata ad eventuali decreti attuativi, per la cui adozione non sono previste scadenze. Considerato, tuttavia, l’apporto che il produttore di un prodotto può offrire ai fini della riduzione della produzione di un rifiuto e dell’attuabilità della gerarchia di gestione, basata in primo luogo sul riciclo e recupero, sarà importante dare piena attuazione al principio della responsabilità estesa del produttore.

Bibliografia

[1] Comunicazione della Commissione “Portare avanti l’utilizzo sostenibile delle risorse: una strategia tematica per la prevenzione ed il riciclaggio dei rifiuti” - COM (2005)6676 definitivo [2] Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo relativa alle prossime misure in materia di gestione dei rifiuti organici nell’Unione europea - COM (2010)235 definitivo [3] Comunicazione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni “Un'Europa efficiente nell'impiego delle risorse - Iniziativa faro nell'ambito della strategia Europa 2020” - COM (2011) 21 definitivo [4] Comunicazione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni “Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell'impiego delle risorse” - COM (2011) 571 definitivo [5] Direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 “relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive” [6] Decreto legislativo 3 dicembre 2010, n. 205 “Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive” [7] Rosanna Laraia, “Il decreto legislativo n. 205/2010: sottoprodotti, cessazione della qualifica di rifiuto, società del riciclaggio”, Atti Giornata di studio su ADR 2011 e rifiuti, Edizione EGAF - Bologna, dicembre 2010

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MFA dinamica per l’analisi dei flussi e delle riserve in uso di alluminio in

Italia

Luca Ciacci [email protected], Fabrizio Passarini, Luciano Morselli, Ivano Vassura -

Università di Bologna, Facoltà di Chimica Industriale

Riassunto Un modello di MFA dinamica è stato applicato per l’identificazione e la quantificazione dei flussi e delle riserve in uso di alluminio in Italia. L’analisi include un bilancio di massa effettuato per gli anni 1947-2009, che estende l’analisi ai flussi storici del metallo per consentire la stima cumulativa delle riserve urbane di alluminio e supportare strategie a lungo termine orientate allo sfruttamento di risorse secondarie e alla realizzazione di economie circolari. La stima di circa 20 Mt di alluminio in circolo nella società italiana e l’analisi dei flussi del metallo evidenziano rilevanti potenzialità di riciclo per il paese, con la possibilità di ridurre l’importazione di forme primarie di alluminio a fronte di un quantitativo recupero dei rifiuti e materiali obsoleti contenenti il metallo. Lo studio evidenzia il ruolo ricoperto dall’MFA in fase decisionale per strategie di controllo di inquinanti e gestione delle risorse.

1. Introduzione Lo sfruttamento su larga scala di miniere e giacimenti naturali determina la trasformazione di molte risorse naturali in risorse antropogeniche. Questo significa che la crescita di riserve/depositidi materiali nell’antroposfera diventerà di grande attualità e importanza nei prossimi anni. La Material Flow Analysis (MFA) è una metodologia utile a identificare l’accumulazione dei materiali negli ambienti naturali e antropogenici. Le sorgenti, i percorsi, i depositi temporanei o permanenti sono messi in relazione mediante il principio di conservazione della massa. I risultati, che rendono questa metodologia così di interesse, sono fruibili come strumento decisionale nella gestione delle risorse, nella gestione dei rifiuti e in quella delle problematiche ambientali. Solitamente, gli input di materiale in economie emergenti sono maggiori degli output, la diretta conseguenza di ciò è che la maggior parte delle regioni accumulano depositi di materiale all’interno dei loro confini. Fanno eccezione le aree che sfruttano e/o esportano su larga scala carbone, minerali, sabbie, ghiaia e rocce. Il tempo di residenza di un materiale nei depositi può essere anche dell’ordine di centinaia di anni. Questo significa che una voltache il materiale è immesso nel deposito, non sarà disponibile immediatamente come risorsa attraverso una corretta gestione dei rifiuti [1]. L’MFA permette di determinare i processi più importanti nell’arco del ciclo di vita di un prodotto/processo, con particolare attenzione ai depositi rilevanti in un’economia come nell’ecosistema, alle perdite dissipative di materiale nell’ambiente e a quelle fruibili per un riciclo interno.Per la gestione delle risorse e dell’ambiente, i depositi urbani in uso sono importanti per diverse ragioni: sono una riserva in aumento di risorse sfruttabili e possiedono un elevato potenziale di riciclabilità in futuro, costituiscono una fonte prevalentemente sconosciuta il cui impatto non è chiaro, che richiede una valutazione opportuna in termini di significatività economica ed ambientale, sono una potenziale fonte di emissioni di inquinanti per l’ambiente. Attraverso l’applicazione di metodologie come l’MFA, il consumo o l’accumulo di una sostanza nell’ambiente può essere determinato tempestivamente e allo stesso modo permettere l’adozione di contromisure per limitare o prevenire gli effetti negativi, soprattutto nel caso in cui i piccolo cambiamenti che risultano essere troppo limitati da rivelare nel breve termine

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possono lentamente diventare significativi nel lungo periodo solo quando gli impatti sono ormai evidenti. Riassumendo le potenzialità dell’analisi MFA possono essere così distinte [1]:

• Tempestiva e puntuale determinazione di carichi ambientali; • Collegamento tra emissioni e fonti e viceversa; • Indicazione delle priorità per le misure di gestione; • Progettazione di nuovi processi, beni e sistemi confacenti i vincoli ambientali.

Nello studio, un modello di MFA dinamico è stato applicato per la quantificazione dei flussi di alluminio e la stima delle riserve in uso del metallo. L’approccio dinamico ha interessato l’evoluzione cumulativa di flussi e riserve dal 1947 al 2009. La scelta dell’alluminio come caso di interesse risiede nell’importanza che questo ricopre nella società contemporanea: l’enorme necessità di alluminio ha determinato uno sfruttamento intensivo dell’ambiente per l’estrazione delle materie prime e un conseguente problema di carichi ambientali derivanti dalle emissioni e dall’ingente consumo energetico. In questo senso, la possibilità di sfruttare i depositi urbani in uso del metallo ricopre un ruolo fondamentale per ridurre il fabbisogno di materie prime. La possibilità di sfruttare le riserve urbane di alluminio parte dalla quantificazione delle stesse, che richiede uno sguardo quanto più ampio possibile sui flussi storici del metallo. 2. Relazione

2.1 MFA e alluminio: lo stato della ricerca

L’alluminio è il terzo elemento in ordine di abbondanza dopo ossigeno e silicio, costituendo circa l’8% della crosta terrestre [2]. Storicamente, l’industria dell’alluminio è relativamente giovane se confrontata con gli altri metalli non ferrosi come rame, zinco, piombo, stagno, la cui conoscenza ed impiego sono noti fin dall’antichità. Ciò nonostante, l’industria dell’alluminio ha subito un rapidosviluppo fin dalla prima produzione su larga scala agli inizi del 1900 [3], incrementando di quattromila volte fino agli anni 2000, mentre cromo e nickel, che seguono nella classifica di uso dei metalli, si fermano “solo” a quota trecento e cento volte rispettivamente [4].Le ragioni di questa rapida diffusione risiedono sia nelle proprietà dell’alluminio, sia nella sua riciclabilità: leggerezza, flessibilità e resistenza rendono questo materiale un metallo molto versatile. Non sorprende quindi che gli impieghi e le applicazioni dell’alluminio coprano numerosi e diversi settori: dall’industria dei trasporti, alle costruzioni, dai macchinari elettrici ed elettronici all’imballaggio e ai beni di consumo.Questa enorme necessità di alluminio ha determinato uno sfruttamento intensivo dell’ambiente per l’estrazione delle materie prime e un conseguente problema di carichi ambientali derivanti dalle emissioni e dall’ingente consumo energetico. La diffusione dell’alluminio nelle società urbane è quindi un tema strettamente legato alla possibilità di sfruttare i depositi urbani in uso del metallo: l’MFA in questo senso può ricoprire un ruolo di primo piano nell’aiutare a mappare i flussi e le riserve nell’antroposfera. In letteratura sono presenti diversi casi di applicazione della Material Flow Analysis all’alluminio: di seguito sono descritti alcuni dei principali studi con un breve riferimento agli aspetti innovativi considerati nell’ambito degli stessi.Nel lavoro presentato da Melo (1999) sono stati comparati diversi modelli per stimare la durata del tempo di vita o lifetime dei prodotti contenenti alluminio, alla fine del quale il metallo può essere recuperato per il riciclo. Le distribuzioni Normale, Weibull e Beta sono state applicate per quantificare il potenziale degli scrap di alluminio in Germania [5]. Martcheck (2006) nel suo studio ha stimato i flussi globali di alluminio dall’attuale situazione agli scenari futuri, fornendo un focus sui benefici derivanti dal riciclo dell’alluminio in termini di diminuzione delle emissioni climalteranti e di riduzione del fabbisogno di energia [6]. Boin e Bertram (2005) hanno quantificato in dettaglio

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il bilancio di massa dell’alluminio in Europa dalle fasi dismelting e refining, con particolare attenzione alle perdite di metallo da ciascun processo [7]. Nakajima et al. (2007) hanno applicato l’analisi MFA alla produzione di scrap dalla fase di remelting in Giappone. I risultati ottenuti dalla Material Flow Analysis sono stati impiegati per valutare innovativi sistemi di riciclo dei rottami metallici mediante Life CycleAssessment (LCA) [8]. Un’applicazione dinamica di MFA dei flussi di alluminio con previsione fino all’anno 2050 è stata condotta da Hatayama et al. (2007): in tale lavoro è evidenziata l’importanza di includere gli elementi leganti nel calcolo dell’ammontare totale di alluminio disponibile dai rottamidal momento che un’eccessiva presenza di tali leganti richiederebbe una diluizione attraverso l’aggiunta di alluminio primario durante il riciclo. Gli autori hanno inoltre calcolato in dettaglio la composizione delle principali leghe di alluminio [9]; nello studio successivo una stima del deposito di alluminio in uso in Giappone, USA, Europa e Cina è stata calcolata attraverso una MFA dinamica; l’estrapolazione per gli anni futuri è stata condotta mediante integrazione dell’evoluzione demografica e del Prodotto Interno Lordo (PIL) [10]. Dahlstrom and Ekins (2007) hanno proposto nel loro studio un’integrazione dell’MFA con la Value Chain Analysis (VCA) al fine di considerare la dimensione economica del recupero di alluminio in Gran Bretagna [11]. Chen et al. (2010) hanno applicato l’MFA per analizzare i cambiamenti nei flussi e nei depositi di alluminio in Cina in tre anni rappresentativi; tutti gli stadi del ciclo di vita del metallo nell’antroposfera sono stati considerati sul modello sviluppato dal Center for

Industrial Ecology(Yale University) e una dettagliata descrizione e classificazione delle perdite di allumino è stata descritta. Inoltre, il metodo di quantificazione del bilancio di massa dell’alluminio è stato puntualmente descritto e messo in relazione con I cambiamenti strutturali nel mercato cinese, conseguentemente alla sua esplosione nel sistema economico mondiale [2]. Per quanto riguarda l’Italia, pochissimi studi in letteratura trattano di unaapplicazione dell’MFA e una sola pubblicazione relativa all’alluminio è stata condotta da Amicarelli e al. (2004) [12]: lo studio propone un riepilogo dei flussi di alluminio in Italia, tuttavia, non sono forniti dettagli sui depositi in uso del metallo e l’assenza di dati sulle perdite da ciascun ciclo di vita affliggono una generale ed esaustiva prospettiva sul caso studio.

2.2Analisi dei flussi e delle riserve in uso di alluminio in Italia

L’MFA consiste in una sistematica valutazione di flussi e depositi di materiali all’interno di un sistema a spazio e tempo definiti. Il punto di partenza per la determinazione di queste sostanze è il bilancio di massa: per ciascun flusso di sostanza in un sistema deve essere noto il bene in cui è contenuto. Questo aspetto risulta essere significativo dal momento che il flusso dei beni è spesso meglio controllabile delle sostanze stesse. Quindi è importante la conoscenzadella concentrazione di una sostanza in un bene. Infine, stabilire il bilancio di massa per beni e sostanze consente di determinare fonti di errori che altrimenti potrebbero non essere evidenti con il solo bilancio di massa di beni e sostanze presi singolarmente.La struttura concettuale di una MFA comprende la definizione di scopi ed obiettivi, la selezione di confini di sistema, sostanze, beni e processi; flussi di massa dei beni e concentrazione delle sostanze negli stessi; calcolo di depositi, flussi e incertezze; presentazione dei risultati. Le procedure sono ottimizzate iterativamente.Il Center for Industrial Ecology dell’Università di Yale ha sviluppato una struttura metodologica per l’applicazione dell’MFA denominata “Stocks and Flows Project” (STAF), che consta di quattro fasi principali: Produzione (Production, P), Fabbricazione e Lavorazione (Fabrication and Manufaturing, F&M), Utilizzo (Use, U), Gestione del rifiuto e Riciclo (Waste Management &Recycling, WM&R). Ciascuna fase è suddivisa al suo interno nei singoli sottoprocessi che compongono il ciclo di vita del materiale, o sostanza, di interesse. Il modello STAF è stato applicato per la stima delle riserve

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in uso di alluminio in Italia, mediante un approccio dinamico dal 1947 al 2009.

Fig. 1– Principali stage e flussi del ciclo di vita considerati per l’analisi dei depositi in uso

urbani, secondo il modello sviluppato dal Center for Industrial Ecology, Yale University.

L’analisi di inventario ha interessato le quattro fasi principali e i relativi sottoprocessi del modello STAF ed è iniziata con l’ottenimento dei dati di import-export dei semilavorati e dei prodotti finiti (end-use products) di alluminio in Italia, in accordo con la classificazione dello United Nations Commodity TradeStatistics Database. Tale classificazione include il commercio di semilavorati di alluminio per classi in numero 77 e di prodotti finiti per classi in numero 130.Si è proceduto quindi all’ottenimento dei dati storici di produzione italiana dell’alluminio, per ciascuno stadio del ciclo di vita, e di stime del contenuto del metallo in ogni classe di prodotto. Queste ultime, insieme alle stime sulle percentuali di recupero e perdita dell’alluminio da ciascun processo, sono caratterizzate dalle maggiori difficoltà di reperimento dei dati e, in ogni caso, anche la maggiore fonte di incertezza dello studio, che solo un continuo confronto con le associazioni di categoria e gli esperti di settore permette di migliorare. I dati raccolti sono stati impiegati per la costruzione del modello di analisi MFA per l’Italia e quindi elaborati per la stima delle riserve in uso: ovvero, il contenuto della sostanza per prodotto è combinato con le informazioni statistiche di diffusione e consumi dello stesso. A questo fine è stata necessaria la stima dei flussi di rifiuti scartati e dimessi ogni anno per ciascuna tipologia di prodotto, ed entranti nella fase di gestione e riciclo (WM&R). La procedura adottata è definita “Top-down”: l’analisi inizia con l’inventario dei diversi prodotti finali al consumo, come ad esempio veicoli, imballaggi, costruzioni e macchinari, che contengono la sostanza di interesse. Il contenuto della sostanza per prodotto è combinato con le informazioni statistiche di diffusione e consumi dello stesso prodotto in una determinata area geografica al fine di stimare il deposito in uso della sostanza. Le tipologie di prodotto sono state distinte nei seguenti settori: Transport, Building & Construction, MechanicalEngineering, ElectricalEngineering, Consumer Durables, Containers & Packaging, Others (che comprende tutte le applicazioni dei prodotti finiti non inclusi in precedenza). Per la stima dei flussi di rifiuti scartati e dimessi si è impiegato un modello di distribuzione statistica che permettesse di quantificare i rifiuti contenenti alluminio emessi ogni anno in funzione del tempo di vita (lifetime) di ciascuna tipologia di settore; per il modello è stata assunta una distribuzione normale con lifetime rispettivamente di 15, 60 20, 20, 12 e 10 anni. Fa eccezione il settore Containers & Packaging, il cui tempo di vita è solitamente inferiore ad un anno: in questo caso si è assunto che il prodotto diventa rifiuto l’anno successivo all’immissione sul mercato (fase di utilizzo, U). I risultati mostrano un rapido incremento nella produzione di alluminio, così come nell’importazione netta e nel suo consumo, che causa un’accumulazione continua del metallo nelle riserve in uso. L’ammontare cumulativo dell’alluminio totale in Italia dal 1947 al 2009 è stato quantificato in circa 20 Mt, con più di 320 kg di alluminio pro capite. L’analisi dei flussi

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mostra che l’Italia ha inviato a riciclo circa 17Mt e che lo sfruttamento delle riserve in uso permetterebbe al paese di ridurre l’importazione di forme primarie di alluminio. Le maggiori perdite del metallo si registrano in fase di produzione (nel processo di raffinazione dell’allumina) e nella fase di raccolta dei rifiuti e materiali obsoleti: iniziative di miglioramento dell’efficienza di recupero nella raccolta dedicata porterebberoad una diminuzione dei flussi dissipati e depositati nell’ambiente. 3. Conclusioni Metodologie come l’MFA consentono un approccio ai cicli di materia orientato a strategie a lungo termine che mirano alla chiusura dei cicli produttivi e alla realizzazione di economie circolari. L’adozione di analisi from cradle to cradlein fase decisionale in industria, governance e politica ricopre un ruolo strategico in iniziative di riduzione dell’inquinamento e di gestione delle risorse. Bibliografia [1] Brunner P.H., Rechberger H., “PracticalHandbook of Material Flow Analysis”, Lewis Publishers, 2004. [5] Melo M.T., “Statistical analysis of metal scrap generation: the case of aluminium in Germany”, Resources, Conservation and Recycling 26 (1999) 91–113 [2] Chen et al., “Substance flow analysis of aluminium in mainland China for 2001, 2004 and 2007: Exploringitsinitialsources, eventualsinks and the pathwayslinkingthem”, Resources, Conservation and Recycling 54 (2010) 557–570 [3]International AluminumInstitute – IAI, http://www.world-aluminium.org/AccessedSept 2011. [4] Johnson, J., Harper, E.M., Lifset, R., Graedel , T.E., 2007. “Diningat the periodictable: metalsconcentrationsasthey relate to recycling” Environ Sci Technol 41, pp. 1759-1765 [6] Martcheck K.J., “Modelling More Sustainable Aluminium: Case Study” Int J LCA 11 (1) online first (2006):4 [7] Boin U.M.J, Bertram M., “Melting Standardized Aluminum Scrap: A Mass Balance” Model for Europe, JOM, August 2005 [8] Nakajima et al., “Material Flow Analysis of Aluminum Dross and Environmental Assessment for Its Recycling Process, Materials Transactions”, Vol. 48, No. 8 (2007) pp. 2219 to 2224 [9] Hatayama et al., “DynamicSubstance Flow Analysis of Aluminum and Its Alloying Elements, Materials Transactions”, Vol. 48, No. 9 (2007) pp. 2518 to 2524 [10] Hatayama et al., Assessment of the RecyclingPotential of Aluminum in Japan, the UnitedStates, Europe and China, MaterialsTransactions 157 / MRA2008337 / Total page 7 [11] Dahlstrom K. and Ekin P., “Combinin geconomic and environmental dimensions: Value chain analysis of UK aluminium flows”, Resources, Conservation and Recycling 51 (2007) 541–560 [12] Amicarelli et al., “Aluminum industrial metabolism, a commodity science contribution”, Forum Ware International 1 2004.

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Recupero dei metalli dalle scorie di incenerimento di rifiuti: future

opportunità in Italia

Gino Schiona [email protected] - Consorzio Imballaggi Alluminio, Milano

Mario Grosso, Lucia Rigamonti, Laura Biganzoli - DIIAR Sezione ambientale, Politecnico di

Milano, Milano

Riassunto Per molto tempo le ceneri pesanti (o scorie) prodotte dagli impianti di termovalorizzazione sono state smaltite in discarica in quasi tutti gli stati europei ed extra europei. Negli ultimi anni la crescita del costo di smaltimento in discarica dei residui e la scarsità di aree disponibili ha reso maggiormente interessante anche dal punto di vista economico il recupero delle scorie. L’articolo si focalizza sul recupero dei materiali dalle ceneri pesanti, con una particolare attenzione rivolta all’alluminio del quale sono stati stimati i quantitativi recuperabili in Italia al 2015 e al 2020, risultati compresi rispettivamente negli intervalli 18.000-21.300 t e 22.200-28.500 t. Sono stati inoltre valutati mediante l’Analisi del Ciclo di Vita (LCA) i benefici ambientali associati al recupero dei metalli e della frazione inerte dalle scorie. È risultato che se si considerano anche gli impatti evitati dello smaltimento in discarica, il risparmio ottenibile è pari a 3.249 MJeq. e 198 kgCO2eq per t di scorie.

1. Introduzione Nell’ambito di una gestione integrata dei rifiuti urbani, il ricorso all’incenerimento è una tappa quasi obbligata in quanto permette di recuperare l’energia contenuta nelle frazioni non riciclabili del rifiuto e ridurre gli impatti ambientali causati dal suo smaltimento in discarica. Tuttavia l’incenerimento produce residui che devono essere trattati prima di poter essere recuperati o smaltiti. Le scorie, o ceneri pesanti, rappresentano il principale di questi residui essendo circa il 15-25% in massa del rifiuto incenerito. Le loro proprietà tecniche le rendono adatte ad essere recuperate come materiale da costruzione (sottofondi stradali, produzione di calcestruzzo o cemento), tuttavia sono necessari alcuni pretrattamenti finalizzati a ridurre il contenuto di metalli pesanti e agenti inquinanti, recuperare i rottami metallici riciclabili nonché migliorare le proprietà geotecniche della frazione inerte. I trattamenti utilizzati sono di tipo fisico, chimico o termico e includono sempre una fase di separazione dei rottami metallici, ferrosi e non ferrosi, essenziale sia per i vantaggi ambientali legati al loro successivo riciclo sia per ridurre gli effetti negativi che tali metalli possono avere in fase di recupero della frazione inerte. In particolare, l’alluminio può dar luogo a fenomeni di fessurazione ed espansione durante il recupero della frazione inerte a causa dello svilupparsi di idrogeno [1] [2]. Lo scopo di questo lavoro è quantificare il recupero potenziale di metalli non ferrosi, specialmente alluminio, dalle scorie di incenerimento a medio termine in Italia (nel 2015 e nel 2020). A questa valutazione è stata affiancata l’analisi dei benefici ambientali associati al recupero delle scorie, effettuata con la metodologia dell’LCA (Life Cycle Assessment – analisi del ciclo di vita). 2. Relazione

2.1 Stima dei quantitativi di alluminio recuperabile dalle scorie

2.1.1 Definizione del modello e degli scenari

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La quantità di alluminio recuperabile dalle ceneri pesanti è stata valutata mediante un modello elaborato dagli Autori basato sulle grandezze riportate in Tab. 1. Tab. 1 – Lista delle variabili del modello e descrizione degli scenari I

D Variabile Descrizione degli scenari

A

Imballaggi1 in alluminio

immessi sul mercato

Scenario di crescita moderata: assume un tasso di crescita annuo costante e pari all’1% dell’immesso al consumo di alluminio e rappresenta una situazione economica di crescita lenta e consumi moderati. Scenario di crescita elevata: proietta i dati relativi alla quantità di imballaggi in alluminio immessi sul mercato disponibili dal 2000 al 2007 adottando una curva interpolante di tipo logaritmico. Considera sia l’incremento della richiesta di imballaggi, sia la riduzione del loro peso nonché la possibilità che il contributo ambientale sia esteso a quei prodotti che ancora non ne sono soggetti, quali il foglio in alluminio.

B

Produzione di rifiuti urbani

(RU) =popolazione residente*

produzione pro-capite RU

Scenario di crescita moderata: interpola i dati relativi alla produzione pro-capite di rifiuti dal 2000 al 2007 con una funzione esponenziale a tre parametri:

)exp1(*)(Pr )( 0yyk

capiteRUpro Ayoduzione −−− −= , dove y è il tempo, A è

il valore asintotico (fissato pari a 560 kg anno-1 considerando che molti paesi europei hanno già stabilizzato la loro produzione di rifiuti attorno a valori di 500-550 kg anno-1 pro capite), k è il parametro di curvatura e y0 quello di traslazione. Considera gli effetti delle politiche europee volte alla riduzione o almeno stabilizzazione della produzione dei rifiuti. Scenario di crescita elevata: assume un tasso di crescita della produzione pro-capite di rifiuti costante e pari all’1%.

C Tasso di raccolta differenziata

Interpolazione dei dati disponibili dal 2000 al 2007 con una curva esponenziale a tre parametri con asintoto orizzontale fissato al 100%.

D

Imballaggi in alluminio nella

raccolta differenziata

Interpolazione lineare dei dati storici disponibili dal 2002 al 2007.

E Alluminio nel

CDR Assume un valore costante pari allo 0,6%, media di 34 dati valutati su impianti alla scala reale italiani.

F Alluminio non imballaggio nel rifiuto residuo

Sulla base dei risultati di tre analisi merceologiche effettuate dagli Autori sul rifiuto residuo alimentato ad un inceneritore del nord Italia nel 2009, si assume che l’alluminio non imballaggio sia il 25% dell’alluminio complessivo.

1 La categoria imballaggi non include solamente i “veri” imballaggi ma considera anche tutti quei prodotti che svolgono il ruolo di imballaggio ma che non sono soggetti al contributo ambientale, come il foglio domestico.

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G1e G2

Rifiuto residuo alimentato agli impianti di

incenerimento e gassificazione

La capacità degli impianti di incenerimento e gassificazione nel 2015 e nel 2020 viene stimata sulla base delle indicazioni dei piani regionali e provinciali. Per semplicità gli impianti termici vengono classificati in due gruppi: quelli che trattano prevalentemente rifiuto urbano residuo e quelli che smaltiscono prevalentemente CDR. E’ prevista entro il 2020 la realizzazione di tre nuovi inceneritori in Piemonte, uno in Lombardia, due in Emilia Romagna, uno in Liguria, due in Toscana, uno in Lazio, tre in Campania, due in Puglia, uno in Calabria, quattro in Sicilia e due in Sardegna. E’ prevista, inoltre, la realizzazione di una nuova linea presso l’inceneritore di Poggibonsi in Toscana e il raddoppiamento dell’impianto di Rufina, sempre in Toscana. Infine si prevede entro il 2015 la costruzione di due nuovi impianti di gassificazione, uno in Lombardia e uno in Lazio.

H1e H2

CDR alimentato agli impianti di incenerimento e gassificazione

I1

Efficienza di recupero

dell’alluminio dalle scorie di incenerimento

Scenario tecnologico convenzionale: ipotizza un recupero del 30% dell’alluminio alimentato al forno [3] [4] [5]

Scenario tecnologico avanzato: ipotizza un recupero del 70% dell’alluminio alimentato al forno. Si basa sull’esperienza dell’impianto pilota di Amsterdam [5] e sulle tecnologie avanzate descritte da Manders [6].

I2

Efficienza di recupero

dell’alluminio dalle scorie di gassificazione

Scenario tecnologico convenzionale: ipotizza un recupero del 40% dell’alluminio alimentato al forno. Considera che l’estrazione dei metalli è più efficiente se effettuata sulle scorie proveniente da gassificazione piuttosto che da incenerimento, grazie alla minore ossidazione del metallo [7].

Scenario tecnologico avanzato: ipotizza un recupero dell’80% dell’alluminio alimentato al forno.

2.1.2 Risultati del modello e discussione

In Tab. 2 sono riassunti i valori predetti per le variabili del modello al 2015 e al 2020 ed i risultati ottenuti. Facendo riferimento alle sole tecnologie convenzionali, si prevede che possano essere recuperati quantitativi compresi tra 16.500 e 21.000 t di alluminio nel 2015 e tra 19.000 e 28.500 t nel 2020, mentre se si diffondesse l’utilizzo di tecnologie avanzate tali intervalli potrebbero aumentare a 38.000-49.000 t nel 2015 e 43.500-66.000 nel 2020. Per entrambi gli scenari (convenzionale ed avanzato), il limite superiore dell’intervallo corrisponde ad una situazione di crescita moderata della produzione dei rifiuti e di crescita elevata degli imballaggi in alluminio immessi sul mercato, mentre il limite inferiore dell’intervallo corrisponde alla situazione opposta, ossia crescita elevata della produzione dei rifiuti e crescita moderata del consumo di imballaggi in alluminio. Considerando l’attuale situazione italiana è difficile poter pensare ad una rapida diffusione delle tecnologie più avanzate nei prossimi anni, tanto più se si pensa che elevate efficienze di estrazione dei metalli dalle scorie sono state raggiunte solamente in impianti pilota o in situazioni molto specifiche. Perciò gli scenari che fanno riferimento alle tecnologie di estrazione dei metalli più avanzate sono da ritenersi poco probabili. Tra le sole tecnologie convenzionali, lo scenario più probabile sembra essere quello di crescita moderata dei rifiuti e crescita elevata dell’immesso al consumo di alluminio, in

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quanto descrive la naturale evoluzione dei dati storici. I due scenari che presentano lo stesso tasso di crescita (elevato o moderato) sia per il rifiuto che per l’alluminio commercializzato hanno una discreta probabilità di realizzarsi, mentre lo scenario che considera una crescita elevata della produzione di rifiuti ed una moderata del consumo di alluminio è da considerarsi poco probabile in quanto descrive una situazione in cui il consumo totale di imballaggi cresce più rapidamente di quello dei soli imballaggi in alluminio mentre, negli ultimi anni, l’alluminio ha conquistato una fetta rilevante del mercato, grazie alle sue proprietà tecniche. Sulla base di queste considerazioni, si prevede che, con buona probabilità, possano venire recuperate dalle scorie circa 18.000-21.300 t di alluminio nel 2015 e circa 22.200-28.500 t nel 2020. Tab. 2 – Valori predetti per le variabili del modello (per le abbreviazioni delle variabili

vedere Tab. 1). ID Scenario u.d.m. 2007 2015 2020

A crescita moderata t anno-1 11.700 128.535 135.092 crescita elevata t anno-1 118.700 145.526 162.358

B crescita moderata 106 t anno-1 32,55 34,11 34,47 crescita elevata 106 t anno-1 32,55 36,44 38,61

C - % 27,5 39,8 46,3 D - % 0,43 0,39 0,37 E - % 0,6 0,6 0,6 F - %* 32,8 32,8 32,8 G1 - 103 t anno-1 3.905 9.491 10.405 G2 - 103 t anno-1 240 240 240 H1 - 103 t anno-1 575 1.209 1.726 H2 - 103 t anno-1 92 572 572

I1 tecnologia convenzionale %** 30 30 30

tecnologia avanzata %** 70 70 70

I2 tecnologia convenzioanle %** 40 40 40

tecnologia avanzata %** 80 80 80

Alluminio

recuperabile

tecnologia

convenzionale t anno

-1 421***

16.411-

21.208

18.795-

28.427

tecnologia avanzata t anno-1 421***

37.692-48.833

43.253-65.632

* percentuale riferita agli imballaggi in alluminio presenti nel rifiuto residuo ** percentuale riferita all’alluminio alimentato al forno *** quantità effettivamente recuperata

2.2 LCA del recupero di materiali dalle scorie: impostazione e risultati

L’analisi del ciclo di vita, svolta seguendo gli standard ISO 14040 e 14044, ha valutato i benefici energetici ed ambientali associati al recupero dei materiali dalle scorie, adottando come unità funzionale (UF) una tonnellata di ceneri pesanti. Il sistema analizzato comprende le seguenti sotto-unità: trattamento delle scorie, riciclo dei rottami metallici ferrosi, riciclo dei rottami metallici non ferrosi, riuso della frazione inerte recuperata (sono previsti tre scenari: produzione di cemento, di calcestruzzo e realizzazione di sottofondi stradali) e smaltimento dei residui. I confini del sistema sono inoltre stati allargati di modo da includere le attività che possono venire evitate grazie alla produzione dei nuovi materiali utili che il sistema stesso realizza. Le principali assunzioni alla base dell’analisi sono riportate in Tab. 3.

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Gli impatti calcolati sono la richiesta complessiva di energia e il riscaldamento globale. I metodi di caratterizzazione utilizzati sono rispettivamente il Cumulative Energy Demand [8] e l’IPCC 2007, nel quale sono inclusi i più recenti potenziali di riscaldamento globale GWP100 [9]. Tab. 3 – Assunzioni alla base dell’LCA Sotto-unità Assunzioni

Trattamento delle scorie

Il processo implica una perdita di 70 kg di acqua per evaporazione/lisciviazione ed un consumo di elettricità di 4 kWh per UF.

Riciclo dei metalli

Si prevede il recupero di 78,1 kg di rottami ferrosi e 13,3 kg di non ferrosi per UF. Si assume che l’efficienza del forno di fusione secondario sia pari al 90,5% e al 78% per la produzione rispettivamente di acciaio e di alluminio. Per la modellizzazione del processo di riciclo sono stati utilizzati i moduli del database Ecoinvent [11] opportunamente modificati [12].

Recupero dei materiali

inerti

Gli inerti recuperati sono 751 kg/UF e possono essere utilizzati in tre modi differenti: produzione di farina cruda: un kg di inerte sostituisce 3,2 kg di marna ma richiede l’aggiunta di 2,2 kg di calcare per mantenere inalterate le caratteristiche del clinker; produzione di calcestruzzo: il materiale inerte sostituisce per il 60% la sabbia e per il 40% la ghiaia; sottofondi stradali: l’inerte sostituisce la ghiaia ma richiede alcuni pretrattamenti (con addizione di additivi chimici) per limitare la lisciviazione di sali e metalli pesanti. Sono stati considerati, sulla base delle esperienze presenti in Italia, due diversi pretrattamenti.

Smaltimento dei residui

I residui, costituiti principalmente dalla frazione grossolana delle scorie, sono 87,6 kg/UF e vengono smaltiti in una discarica controllata per materiali inerti.

Dall’analisi emerge che il trattamento delle scorie è vantaggioso sia in termini di energia risparmiata (in media circa 2.926 MJeq./UF), sia in termini di emissioni di gas serra evitati (in media circa 186 kgCO2eq./UF). Questi benefici sono associati principalmente al riciclo dei metalli, mentre il recupero della frazione inerte gioca un ruolo minore (Fig. 1). Tra i tre possibili utilizzi della frazione inerte recuperata, il riuso nella produzione della farina cruda per cemento e quello nella produzione di calcestruzzo sono risultati essere i più vantaggiosi, mentre il recupero come sottofondo stradale è penalizzato dall’aggiunta di additivi. Se si considerano anche gli impatti evitati associati allo smaltimento in discarica di un’intera tonnellata di scorie, il risparmio sale a 3.249 MJeq./UF e 198 kgCO2eq/UF.

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-200

-150

-100

-50

0

50

cementificio calcestruzzo sottofondi 1 sottofondi 2

kg CO2 eq. / 1 t di scorie

recupero metalli ferrosi recupero metalli non ferrosi recupero inerte

smaltimento residui trattamento scorie

Fig. 1 – Contributo di ciascun processo all’indicatore di riscaldamento globale (GWP100)

calcolato per il trattamento di una tonnellata di scorie.

3. Conclusioni Lo studio ha permesso di stimare i quantitativi di metalli non ferrosi, ed alluminio in particolare, recuperabili dalle scorie di combustione dei rifiuti urbani e di valutare i benefici ambientali associati alla pratica di recupero di materiali (metalli ed inerti) da tali residui. Considerando la crescita della produzione dei rifiuti urbani, dell’alluminio immesso al consumo, della raccolta differenziata e della potenzialità degli impianti di incenerimento e gassificazione previsti in Italia, è stata stimata una quantità di alluminio potenzialmente recuperabile dalle scorie compresa con buona probabilità tra 18.000 t e 21.300 t nel 2015 e tra 22.200 t e 28.500 t nel 2020, ipotizzando di fare ricorso a tecnologie convenzionali di recupero. Poiché l’alluminio rappresenta all’incirca il 60% dei metalli non ferrosi recuperabili dalle ceneri pesanti, la quantità di non ferrosi recuperabili sarà compresa tra 30.000 t e 35.500 t nel 2015 e 37.000 t e 47.500 t nel 2020. Considerando una quantità di scorie prodotte durante i processi di incenerimento e gassificazione pari al 20% e al 3,5% rispettivamente della massa di rifiuti e CDR alimentati al forno, si stima una produzione di ceneri nel 2015 e nel 2020 di circa 2 milioni di tonnellate. Se tutte queste scorie venissero trattate per il recupero di materiali (metalli ferrosi e non ferrosi e inerti) anziché smaltite in discarica, si potrebbero risparmiare annualmente circa 6.500 milioni di MJeq e si eviterebbe l’emissione di circa 400.000 t di CO2eq. Dall’analisi del ciclo di vita è risultato infatti che il trattamento delle scorie finalizzato al recupero dei materiali presenta dei benefici sia energetici che ambientali, associati principalmente al recupero dei metalli (in particolar modo alluminio). Il trattamento dell’intero quantitativo di scorie richiederà però la realizzazione di nuovi impianti sul territorio nazionale, in quanto la potenzialità di quelli attualmente installati è circa la metà di quella necessaria. Bibliografia

[1] Pecqueur G., Crignon C., Quénée B. (2001) “Behaviour of cement-treated MSWI bottom ash” Waste management 21, pp. 229-233;

[2] Muller U., Rubner K. (2006) “The microstructure of concrete made with municipal waste incinerator bottom ash as an aggregate component” Cement and Concrete Research 36, pp. 1434-1443;

[3] Association of Incinerators NL (2006) Speech at EAA Packaging Group Seminar. 28-29 September 2006, Krakow;

30

[4] France Aluminium Recyclage (2006) Speech at EAA Packaging Group Seminar. 28-29 September 2006, Krakow;

[5] Muchova L., Rem P. (2007) “Wet or dry separation” Waste Management World, December 2007

[6] Manders J.L.C. (2008) “The renewable Energy contribution of Waste to Energy across Europe”. CEWEP, 2008 [7] Viganò F., Consonni S., Grosso M., Rigamonti L. (2010) “Material and energy recovery from Automotive Shredded Residues (ASR) via sequential gasification and combustion” Waste Management, 30, 145-153

[8] Jungbluth N., Frischknecht R. (2004) “Implementation of Life Cycle Impact Assessment Methods. Ecoinvent report n. 3”; www.ecoinvent.ch

[9] IPCC (2007) Climate Change 2007: Fourth Assessment Report. The Physical Science Basis. http://www.ipcc.ch/ipccreports/ar4-wg1.htm [10] Pennington D., Suh S. (2009) “Recent developments in Life Cycle assessment” Journal of Environmental Management, 91 (1), 1-21 [11] Swiss Centre for Life Cycle Inventories (2007) Ecoinvent: The Life Cycle Inventory Data, Version 2.0. [12] Rigamonti L., Grosso M. (2009) “Riciclo dei rifiuti – Analisi del ciclo di vita dei materiali da imballaggio”; 286 pp; edito da Dario Flaccovio, Palermo, settembre 2009. ISBN 978-88-7758-897-5

31

Trasformazione di glicerolo acomposti chimici: l’esempio della

disidratazione ossidativa catalitica ad acido acrilico

Alessandro Chieregato [email protected], Fabrizio Cavani, Francesco Basile

-

Dipartimento di Chimica Industriale e dei Materiali, Alma Mater Studiorum – Università di

Bologna - CIRI “Energia e Ambiente”, Università di Bologna

Stefania Guidetti, Cristian Trevisanut, Giuseppe Liosi - Dipartimento di Chimica Industriale

e dei Materiali, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

Josè M. López Nieto3,M. Dolores Soriano

3, Patricia Concepción

- Instituto de Tecnología

Química, UPV-CSIC, Valencia, Spain

Riassunto La crescita esponenziale della produzione di biodiesel tramite transesterificazione di oli vegetali è accompagnata inevitabilmente alla formazione di glicerolo, co-prodotto della sintesi. L’attuale domanda di questo composto è rimasta tuttavia invariata rispetto agli anni passati [1].Si rende quindi necessaria la creazione di nuovi processi di trasformazione del glicerolo,utili a rendere economicamente sostenibile l’intero processo di produzione del biofuel e a mettere realmente in atto il concetto di bioraffineria integrata. Tra i processi più studiati la conversione del glicerolo ad acroleina occupa un ruolo predominante[2-3], mentre poca attenzione è stata riservata alla trasformazione diretta ad acido acrilico [4], molecola ampiamente utilizzata per la produzione di adesivi, vernici, plastiche e gomme sintetiche. Viene qui riportato lo studio di catalizzatori bifunzionali a base di W-V-O per la trasformazione one-pot di glicerolo ad acido acrilico. 1. Introduzione L’esaurimento dei combustibili fossili provenienti da fonti non rinnovabili è un evento ormai conclamato e previsto per gli anni a venire. Per non farsi trovare impreparati a tale circostanza, negli ultimi dieci anni la produzione di combustibili diesel provenienti da fonti rinnovabili quali oli e grassi (biodiesel) ha conosciuto una crescita esponenziale (figura 1) ed il trend mondiale è tutt’ora in costante ascesa.

Fig. 1 - Produzione del biodiesel in Europa

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Nondimeno, tale incremento è accompagnato inevitabilmente alla formazione di glicerolo, co-prodotto nella sintesi del biodiesel.La produzione e la vendita di glicerolo prevede tuttavia una relazione inversa tra costi di produzione del biodiesel ed il prezzo del glicerolo stesso. Devono quindi essere sviluppate nuove vie di sfruttamento del bio-alcol, utili ad aumentarne la domanda e di conseguenza, il prezzo. Solo l’integrazione di tutti i processi legati alla trasformazione dei trigliceridi potrà infatti rendere economicamente sostenibile tutto il settore biodiesel. Anche da un punto di vista energetico, la nascita di processi utili alla trasformazione del glicerolo è estremamente importante: oggigiorno il glicerolo che il mercato non riesce (o non può) assorbire viene infatti bruciato, creando un enorme sperpero di energia e di materiale rinnovabile potenzialmente molto interessante. Tra i diversi composti chimici che possono essere teoricamente prodotti dal glicerolo, l’acroleina ne rappresenta uno dei più interessanti. Risulta tuttavia sorprendente come nella letteratura sia stata riservata pochissima attenzione alla trasformazione diretta di glicerolo ad acido acrilico (con acroleina come intermedio) (figura 2), soprattutto considerando che la maggior parte della acroleina prodotta su scala industriale viene successivamente trasformata proprio ad acido acrilico. Catalizzatori per la sintesi diretta di acido acrilico da glicerolo richiedono caratteristiche bi-funzionali: (a) siti acidi, per la disidratazione del glicerolo ad acroleina e (b) proprietà redox, per l’ossidazione dell’acroleina ad acido acrilico. Viene di seguito riportato lo studio di sistemi monofasici W-V-O (con vari rapporti atomici W/V ed una struttura esagonale del tungsteno -hexagonaltungstenbronze, HTB-), con l’obiettivo di comprendere quali sono le caratteristiche chimico-fisiche del catalizzatore necessarie per la trasformazione diretta di glicerolo ad acido acrilico.

Fig. 2 - Steps principali della trasformazione del glicerolo ad acido acrilico.

2. Relazione Nella letteratura recente [5] è stato riportato che potenziali catalizzatori per la sintesi diretta di acido acrilico da glicerolo sono costituiti da ossidi misti quali Mo–V–O,Mo–V–Nb–Te–O, W–V–O. Questi sistemi furono scelti perché catalizzatori Mo-V-O sono noti per essere attivi e selettivi nell’ossidazione parziale dell’acroleina ad acido acrilico [6-7]. WO3, V2O5 e MoO3 sono ossidi altresì conosciuti per le loro proprietà acide di forza medio-alta (di tipo Brønstede Lewis). 2.1 Catalizzatori W-V-O

Il semplice ossido di tungsteno (WO3) è attivo nella disidratazione del glicerolo in presenza di ossigeno ma produce solo tracce di acido acrilico (selettività inferiore al 2%). Nell’intervallo di temperatura 270-310 °C i prodotti principali riscontrati sono acroleina, acetaldeide e composti pesanti, a conversione totale del glicerolo. D’altro canto, contrariamente a quanto osservato con altri catalizzatori acidi, sono stati registrati un numero molto limitato di sottoprodotti ossigenati quali idrossiacetone, acetone, alcol allilico, acido acetico, propionaldeide ed acido propionico. Con l’introduzione del vanadio nella struttura dei catalizzatori è stata notata una forte dipendenza della selettività ad acido acrilico rispetto il rapporto W/V (Tabella 1).

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Tab. 1 - Comportamento catalitico dei bronzi monofasici W-V-O

Campioni Selmax acroleina (%)

Selmaxacido acrilico (%)

Sel COx (%)

(T < 310°C)

Sel composti pesanti (%) (T < 310°C)

WV-0 67 1 12 14

WV-2 29 18 39 < 5

WV-3 11 26 47 7

WV-4 8 18 54 5

WV-5 4 22 63 < 5

L’incorporazione di quantità crescentidi V nella struttura del HTB, con la formazione di composti monofasici, consente la consecutiva ossidazione dell’acroleina ad acido acrilico. Tests catalitici condotti a diversi tempi di contatto hanno consentito di delineare uno schema di reazione completo. I prodotti primari sono acroleina, acetaldeide e CO; acroleina ed acetaldeide subiscono trasformazioni successive ai prodotti secondari acido acrilico ed acido acetico, rispettivamente. Non è stata osservata nessuna combustione diretta del glicerolo, dato che la formazione di CO2 è stata registrata solo quale trasformazione consecutiva dei prodotti di reazione. Composti pesanti si formano principalmente attraverso oligomerizzazioni parallele del glicerolo, con un contributo minoritario delle reazioni consecutive di acetaldeide e acroleina tramite auto- o inter-condensazione aldolica. Un rapporto atomico ottimale tra W e V pari a V/(W+V)=0.12-0.21 rende possibile ottenere una resa in acido acrilico del 26% (con resa in acroleina residua dell’11%). Tuttavia, durante la reazione con co-alimentazione di ossigeno, parte del V4+ sembra essere modificato a V5+, causando un progressivo calo di selettività ad acido acrilico ed un concomitante incremento di COx. Ad ogni modo, la struttura esagonale dei bronzi si è mantenuta stabile durante tutto il tempo di vita del catalizzatore. D’altro canto, in assenza di ossigeno i catalizzatori vengono velocemente disattivati, con il conseguente calo della selettività ad acroleina. 3. Conclusioni La necessità di sostituire i combustibili fossili tradizionali con altri provenienti da fonti rinnovabili ha causato negli ultimi anni un aumento esponenziale della disponibilità di glicerolo (co-prodotto del biodiesel), nonostante la sua domanda sul mercato sia rimasta invariata rispetto agli anni passati. Tra i vari processi produttivi in grado di trasformare il glicerolo, la sintesi dell’acido acrilico per via diretta può rappresentare una interessante opzione. A tal fine sono stati investigati diversi catalizzatori a base di ossidi misti quali Mo–V–O,Mo–V–Nb–Te–O, W–V–O. Alla luce dei risultati ottenuti, la ossodeidratazione del glicerolo può essere eseguita impiegando ossidi misti W-V con struttura esagonale (bronzi di tungsteno), con V4+ incorporato dentro al reticolo del WO3. Il rapporto ottimale tra i due elementi corrisponde ad un rapporto atomico uguale a V/(W+V)=0.12-0.21; questo consente di combinare in modo ottimale le proprietà acide dell’ossido di tungsteno e le proprietà ossidanti degli ioni vanadio. La migliore selettività ad acido acrilico registrata è pari al 25%. Tuttavia, nel corso della reazione si assiste ad una progressiva generazione di ioni V5+ che portano ad un calo della selettività ad acido acrilico ed un concomitante aumento della formazione degli ossidi di carbonio.

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4. Ringraziamenti Si ringrazia il “CIRI-Energia e Ambiente” per l’assegno di ricerca conferito ad A. Chieregato per l’esecuzione del progetto “Nuovi processi catalitici per la produzione di composti chimici da biomasse”.

Bibliografia

[1] T. Sooknoi et al., Applied Catalysis A: General 413– 414 (2012) 109– 116 [2] F.Dumeignil, ChemSusChem2009, 2, 719 – 730 [3] F. Cavani et al., Appl. Catal. B 100 (2010) 197 [4] F. Cavani et al., Green Chem., 2011, 13, 2954–2962 [5] W. Ueda et al., Catal. Today , 2010, 157 , 351 [6] J. M. M. Millet et al., Appl. Catal., A, 2003, 244 , 359 [7] W. Ueda et al.,Catal. Today, 2004, 91–92 , 237

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Progetto di un sistema integrato di digestione anaerobica e compostaggio

per la frazione organica dei rifiuti solidi urbani (FORSU) per una piccola

comunità: sfide, benefici, problematiche

Stefania Marini [email protected] [email protected] - Alma Mater

Studiorum, Università di Bologna - CSGI e Dipartimento di progettazione e tecnologie,

Università degli Studi di Bergamo

Mario Berrettoni - Dipartimento di Chimica Fisica ed Inorganica, Facoltà di Chimica

Industriale, Alma Mater Studiorum,Università di Bologna

Marco Villa - CSGI e Dipartimento di progettazione e tecnologie, Università degli Studi di

Bergamo

Yohannes Kiros - KTH, Royal Institute of Technology, Department of Chemical Engineering

and Technology, Division of Chemical Technology, Stockholm, Sweden

Riassunto La produzione di biogas è inquadrata all’interno delle problematiche di sostenibilità e di adeguamento alle normative nazionali e internazionali. Si argomenta a favore di impianti di piccola taglia che trattano le frazione organica dei rifiuti solidi urbani e scarti agro-forestali senza ricorrere a colture dedicate. Si presenta uno schema di massima per un tale impianto con indicazione dei previsti flussi di materia-energia. 1. Introduzione La Commissione Europea stima che per ridurre le emissioni di gas serra del 90% entro il 2050 occorra usare in modo molto più efficiente una energia che provenga per i due terzi da fonti rinnovabili [1]. Anche le più illuminate politiche incentivanti non porteranno a tale obbiettivo se tra i cittadini non si diffonderà un senso di urgenza e di responsabilità accompagnato da una presa di coscienza delle vulnerabilità dell’ambiente in cui viviamo e degli strumenti che la natura ci mette a disposizione per affrontare il problema. In questo quadro stanno assumendo sempre più rilevanza gli utilizzi in chiave moderna delle filiere basate su biomasse che comprendono sia prodotti sia sottoprodotti (scarti) di agricoltura, silvicoltura, zootecnia. In assenza d’aria, la materia organica si decompone parzialmente attraverso un processo batterico naturale, messo a punto dall’evoluzione miliardi di anni fa, la “digestione anaerobica”. I prodotti della digestione sono una miscela di metano (≈ 60% in volume) e anidride carbonica (≈ 40% in volume) chiamata biogas (resa: circa 500 Nm3 per tonnellata di materia organica) e un fango, chiamato digestato, che solitamente è mantenuto in vasche sino al momento dello spandimento sulle colture. Una grande opportunità in relazione alle esigenze di smaltimento e produzione di energia da fonti rinnovabili è la frazione organica dei rifiuti solidi urbani (FORSU), che è fermentescibile e idonea per l'avvio a digestione anaerobica con rese elevate in biogas soprattutto se integrata con altri tipi di biomasse (fanghi da impianti di depurazione, letame, sottoprodotti agricoli).

2. Relazione Il gas prodotto dalla digestione della sostanza organica ad opera di microrganismi (batteri ed archeobatteri) in condizioni anaerobiche (assenza di ossigeno) prende il nome di “biogas; oltre a CH4 e CO2 , può contenere piccole quantità di solfuro di idrogeno (H2S) e ammoniaca (NH3) con tracce di idrogeno (H2), azoto (N2), monossido di carbonio (CO), composti alogenati. Il tutto è saturato con vapore acqueo e silossani (combinazioni di silicio, ossigeno e alcani).

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2.1 Utilizzi dal biogas

Il biogas può essere utilizzato: A. per combustione diretta in caldaia, con produzione di sola energia termica. Per

questo utilizzo il biogas non deve essere di qualità eccellente. Si richiede che la concentrazione di H2S sia inferiore a 1000 ppm, il che consente di mantenere il punto di rugiada intorno ai 150°C in quanto l’acido solfidrico può risultare altamente corrosivo. È anche necessario condensare il vapore acqueo perché questo risulterebbe corrosivo per gli ugelli. La rimozione del vapore acqueo porta anche ad una riduzione di H2S;

B. per combustione in motori azionanti gruppi elettrogeni per la produzione di energia elettrica;

C. per combustione in cogeneratori per la produzione combinata di energia elettrica e di energia termica (CHP = Combined Heat and Power). Con 1 m3 di biogas è possibile produrre mediamente 1,8÷2 kWh di energia elettrica e 2÷3 kWh di energia termica; questo utilizzo del biogas è attualmente il più sviluppato e il più incentivato (con 0.28 €/kWh per l’energia elettrica conferita in rete). Attualmente, l’Italia sta adeguandosi alle direttive europee in materia di cogenerazione tramite modifiche al DM 5/09/2011 che definisce il regime di sostegno alla CAR (certificati bianchi per la Cogenerazione ad Alto Rendimento).

D. per autotrazione. Il biogas va trattato rimuovendo CO2, H2S, NH3, vapore acqueo e giungendo a un tenore di metano compreso tra il 95 e il 98% in volume;

E. per la distribuzione in rete come biometano (dopo purificazione), privilegiata secondo leggi recenti (DLgs 28/2011) che attendono però le disposizioni attuative.

2.2 La situazione del biogas in Italia ed Europa

Nell’ultimo decennio, la produzione di biogas da matrici agricolo-zootecniche in Europa è cresciuta in modo esponenziale. In Italia a fine 2011 vi erano circa 400 impianti in funzione con altri 300 in fase di completamento. Agli impianti che entreranno in funzione dopo il 2012 non si dovrebbe più applicare la tariffa incentivante, valida per 15 anni, di 0.28€/kWh per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili quali biogas e syngas (prodotto per combustione parziale di composti cellulosici). In Germania gli impianti sono oltre 7000 e raddoppieranno in pochi anni grazie a una stabile politica di incentivi, contribuendo in modo decisivo a fare della Germania un leader nelle energie rinnovabili. Tuttavia, in Germania la produzione di biogas mira esclusivamente all’aumento della percentuale di “energia rinnovabile”, senza preoccuparsi degli aspetti di “sostenibilità”. I problemi di questo sviluppo “drogato” dagli incentivi (quelli italiani e tedeschi sono al momento comparabili) sono i seguenti:

a. la maggior parte degli impianti hanno una taglia prossima al MWel e occupano vaste superfici agricole lontane da un’utenza in grado di assorbire il surplus termico dell’impianto (che non prevede solitamente il compostaggio accelerato ad alta temperatura);

b. quasi tutti gli impianti, sia italiani sia tedeschi, utilizzano in misura circa uguale reflui zootecnici e biomassa da colture dedicate (principalmente insilato di mais). Questo mette in competizione le esigenze alimentari e quelle agro-energetiche nell’accaparramento di risorse sempre più scarse (di terreni, acqua) o costose/inquinanti (fertilizzanti) in un momento in cui, a livello mondiale, la produttività agricola media per ettaro si è arrestata dopo i grandi progressi degli anni ’90;

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c. nonostante la convenienza logistica, gli impianti di biogas di piccola taglia (potenza inferiore a 300kW) sono quasi inesistenti in Europa [2]. Per questi impianti l’energy

return potrebbe essere molto superiore all’energy investment ma la loro diffusione è scoraggiata da considerazioni economiche: i sistemi di pre e post trattamento delle matrici, di abbattimento di zolfo-ammoniaca e quello per la cogenerazione sono componenti, presenti nei reattori europei, dove le economie di scala sono particolarmente importanti. D’altra parte, nelle comunità rurali di India e Cina vi sono milioni di bioreattori di piccolissima taglia destinati a produrre un combustibile non raffinato per usi domestici in sostituzione del legno;

d. regole farraginose, normative contraddittorie, paure immotivate e invidie a volte non permettono in Italia di completare il processo di autorizzazione dei bioreattori, particolarmente se prossimi ad aree urbanizzate; a Casnigo in Val Gandino (BG) è stato bloccato il progetto di un bioreattore per letame su terreni offerti dal comune e parzialmente finanziato dalla Regione Lombardia (con oltre 600k€).

2.3 Vantaggi della digestione anaerobica: il problema dell’azoto, il problema dell’effetto

serra, il recupero energetico, la valorizzazione dei rifiuti, la sostenibilità.

Il processo di digestione anaerobica permette di chiudere in modo ottimale alcune filiere di biomassa contribuendo sia alla produzione di energia da fonti rinnovabili sia alla soluzione del problema dell’azoto. Mentre i flussi antropici di carbonio sono ancora modesti rispetto a quelli naturali (7Gt C/anno vs 120 Gt C/anno), l’azoto attivo (ossia diverso da N2, azoto atmosferico) immesso dall’uomo nell’ambiente è aumentato in modo esponenziale dopo la scoperta della sintesi dell’ammoniaca e ora supera l’output dei processi naturali. Accanto agli indubbi benefici (maggior produttività agricola nel breve periodo) si registrano sostanziali effetti negativi (inquinamento da nitrati della falda, desertificazione di terreni agricoli, immissione di gas serra in atmosfera…). In particolare, il trasferimento al terreno di composti azotati da reflui di allevamento e concimi naturali o chimici non viene di fatto limitato al periodo della crescita vegetativa durante il quale gran parte dell’azoto attivo è assorbito dalle colture: purtroppo, tutto ciò che non viene assorbito dalle colture conferisce nitrati alla falda acquifera, e diventa una fonte perniciosa di composti organici facilmente decomponibili che rilasciano ammoniaca e ossidi di azoto in atmosfera.

Mediante la digestione anaerobica si raccolgono e in parte neutralizzano i composti azotati volatili ottenendo un digestato stabile che, raccolto in vasche opportune, emette verso l’atmosfera e l’acquifero solo una frazione del suo contenuto di azoto. Facendo seguire allo stadio anaerobico uno stadio ossidativo di compostaggio, si riduce a N2 circa il 50% dell’azoto attivo presente (stadio di denitrificazione). In alternativa, se le condizioni del digestato rendono il processo conveniente, si può neutralizzare l’ammoniaca con acido solforico ottenendo per via naturale un fertilizzante pregiato, il solfato di ammonio. In ambedue i casi il prodotto finale è un “compost“ stabile ad alto valore, utilizzabile come concime-fertilizzante-ammendante, ottenuto mediante processi naturali anziché mediante sintesi industriale ad alte pressioni e temperature dall’elevato costo energetico. L’aspetto fondamentale del processo è il controllo delle emissioni di azoto attivo in atmosfera e verso il suolo.

Il protocollo di Kyōto è un trattato internazionale in materia ambientale riguardante il riscaldamento globale sottoscritto nel 1997 da più di 160 nazioni ed entrato in vigore nel 2005. Il trattato prevede l'obbligo per i paesi industrializzati firmatari di ridurre entro il 2012 le emissioni dei principali gas serra - CO2, CH4, SF6, idrofluorocarburi (HFCs) e perfluorocarburi(PFCs) - almeno del 5% rispetto alle emissioni registrate del 1990. Con molta probabilità il nostro Paese non riuscirà ad adeguarsi considerando che nel 2004 le emissioni di gas serra erano aumentate del 9% rispetto al 1990.

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Un impianto di digestione anaerobica e compostaggio per trattamento della FORSU presenta numerosi vantaggi, sia a livello di sostenibilità, sia a livello di opportunità di adeguamento alle regole nazionali-internazionali:

1. L’impianto serve per smaltire la frazione organica dei rifiuti solidi urbani che costituisce mediamente circa il 30% in peso del rifiuto. Esso riveste quindi un ruolo di fondamentale importanza nella filiera del ciclo industriale dei rifiuti. La normativa prevede che le Pubbliche Amministrazioni adottino misure e azioni intese a ottenere dai rifiuti urbani materie prime, materie secondarie ed energia.

2. Dall’impianto si ottiene un prodotto stabile (digestato e/o compostato) con contenuto di azoto ottimale che può essere sparso quando le colture sono in grado di assorbire i nutrienti, riducendo così il ricorso ai fertilizzanti di sintesi e contribuendo alla salvaguardia dei terreni e della falda acquifera.

3. Parte dell’energia chimica immagazzinata nel materiale d’ingresso si ritrova nel biogas che è utilizzabile direttamente in motori/bruciatori per (co)generazione di energia elettrica/termica.

4. Dal biogas si estrae facilmente sia metano puro, potenzialmente adatto per l’immissione nella rete gas, sia anidride carbonica [3] che potrebbe essere sequestrata nella forma di (bi)carbonati o utilizzata per produrre composti utili all’industria chimica (es. acido acetico) [4] contribuendo al raggiungimento degli obbiettivi di Kyoto.

5. Rispetto al processo di decomposizione spontanea della materia organica, si hanno ridotte emissioni in atmosfera di metano, di composti a base di zolfo (responsabili delle piogge acide), di ossidi-idruri di azoto (efficientissimi gas serra e altamente dannosi per la salute), di odori-miasmi.

6. Rispetto al processo di decomposizione spontanea della materia organica, gli agenti patogeni vengono soppressi molto più efficientemente.

2.4 Progetto di sistema integrato per trattamento della FORSU e compostaggio del digestato

per una piccola comunità.

La dimensione minima di un digestore è quella per cui il calore estraibile dai processi biologici e biochimici che vi avvengono serva per mantenere l’omeostasi termica del reattore stesso. La scelta di un impianto di trattamento FORSU per una piccola comunità va fatta in base a criteri e parametri molteplici, che prendano in primis in considerazione le potenzialità del prodotto in condizioni di mercato variabili nel tempo, di incentivi (più o meno aleatori), di “side benefits” rispetto alla situazione di partenza. Per fissare le idee, faremo riferimento a una comunità residenziale di 10000 abitanti, con raccolta differenziata e produzione di “umido” in ragione di 250 g/abitante – die che consente di conseguire il pareggio termico. Si dovrebbe prevedere anche il conferimento di residui organici agro-industriali, deiezioni zootecniche, reflui e residui agricoli di piccoli allevatori o agricoltori geograficamente “contigui” al reattore, che qui conferiscono direttamente gli scarti in modo da non comportare, rispetto ai trattamenti in atto, costi aggiuntivi di trasporto. Queste matrici aggiuntive non verranno però al momento prese in considerazione.

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Fig. 1 – Schema a blocchi del reattore

Come università di Bergamo, siamo partner - assieme a un gruppo di industriali - in un progetto da 800k€ per realizzare il prototipo di questo reattore con un cofinanziamento di 400k€ della Regione Lombardia. In caso di successo, la produzione in piccola e media serie del reattore per piccole comunità potrà essere avviata generando un giro d’ “affari” (formazione, occupazione, guadagni economici, benefici energetici, sostenibilità come concetto multifattoriale) per la sola provincia di Bergamo, dell’ordine di alcune decine di milioni di euro.

3. Conclusioni La produzione di biogas e fertilizzanti naturali da residui organici è una scelta obbligata per una società consapevole delle problematiche ambientali d eticamente obbligata a contribuire alla sostenibilità sia su scala locale sia su scala planetaria (Protocollo di Kyoto). Con un gruppo di industriali stiamo sviluppando un prototipo di bioreattore di piccola taglia per rifiuti organici a basso impatto ambientale, per soddisfare le esigenze di smaltimento di aree geograficamente ristrette, anche densamente popolate, con costi logistici ridotti al minimo. I risvolti socio- economici del progetto sono in sintesi:

i. possibilità, per i “Comuni del distretto”- ed auspicabilmente limitrofi - di smaltire la frazione organica dei rifiuti solidi urbani a costi inferiori rispetto a quelli attualmente sostenuti per conferimento all’inceneritore, considerando anche la notevole incidenza attuale di raccolta-trasporto a carico del comune.

ii. facilità/utilità di smaltimento dei fanghi da depurazione (da immettere nel bioreattore) e dei residui vegetali da potatura (da triturare e mandare al compostore) con produzione di energia, materiale utile e abbattimento delle tariffe di conferimento a discarica-inceneritore;

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iii. produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile, con risparmio di combustibile fossile e riduzioni delle emissioni di gas serra in atmosfera;

iv. incremento dell’occupazione in un’area (la bergamasca) dove il tasso di disoccupazione è in crescita dopo decenni di permanenza sotto il livello fisiologico;

v. produzione di concime/ammendante organico prezioso per produzioni agricole, fruibile in loco o commerciabile sul mercato, con possibilità di impiego nelle filiere dell’agricoltura biologica.

Bibliografia

[1] European Commission, Energy Roadmap 2050, Luxemburg 2012, doi:10.2833/10759) [2] H. Insam, I. Franke-Whittle, M. Goberna eds. “Microbes at Work” Springer- Berlin, 2010. [3] S. Baccaro, C. Amelio, E. Ghisolfi, “Analisi dello stato dei processi di rimozione della CO2 dal biogas” Report ENEA RdS 2011/97. [4] Y. Kiros, G. Zangari, M. Berrettoni, S. Marini, P. Nelli, R. Pesenti, P. Salvi e M.

Villa, “Electrochemical processes to mitigate the effects of CO2 emissions” Contributo orale ed extended abstract al 220th Meeting della Electrochemical Society, Boston (MA), Oct 9-14, 2011.

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Simulazione delle prestazioni di un Gassificatore Downdraft attraverso

Chemcad

Michele Cavazzi [email protected], Laura Brighi - DICMA, Dipartimento di Ingegneria

Chimica, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna - Klyma Srl, Rimini

Alessandro Pagnianti - DICMA, Dipartimento di Ingegneria Chimica, Alma Mater

Studiorum, Università di Bologna

Lucio Colla - Klyma Srl, Rimini

Riassunto La gassificazione su piccola scala (50-500 kWe) di biomasse vegetali può rappresentare una soluzione per il conseguimento di una fonte di energia rinnovabile, economica e sostenibile; tuttavia questa tecnologia non ha raggiunto ancora un’adeguata industrializzazione a causa della non completa comprensione dei molteplici fenomeni che la contraddistinguono (problema termodinamico con trasporto simultaneo di materia, calore e quantità di moto in un ambiente con reazioni chimiche in fase eterogenea). In questo lavoro si sviluppa, attraverso un simulatore commerciale di processo, una simulazione delle performance di un reattore di gassificazione Downdraft di biomasse legnose al variare di alcune condizioni operative. I risultati della simulazione sono confrontati con dati da letteratura[1][2] mostrando buona corrispondenza.

1. Introduzione Negli ultimi 20 anni la Gassificazione di biomasse ha ricevuto, in seguito ad una sempre maggiore richiesta energetica, un’attenzione crescente in quanto potenzialmente capace di produrre combustibili gassosi “puliti”, attraverso una conversione termochimica della biomassa stessa. Il concetto basilare della gassificazione consiste in un’ossidazione substechiometrica della biomassa, nel senso che si fornisce meno agente ossidante di quello normalmente richiesto per la combustione stechiometrica del combustibile solido. Le reazioni chimiche che si sviluppano producono come risultato una miscela di CO, CO2, CH4, H2, H2O, N2 e Tars. I Tars sono una vastissima famiglia di idrocarburi aromatici policiclici, la cui formazione è altamente indesiderata in quanto rappresenta una perdita di efficienza del sistema ed un conseguente aumento dei costi di investimento e di esercizio delle apparecchiature necessarie per separare e/o abbattere queste molecole dal gas prodotto [3].

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Fig. 1 - Schema di processo del gassificatore

Il valore energetico della miscela del gas prodotto si aggira tipicamente intorno al 75-80% del vettore energetico del solido combustibile alimentato; il grosso vantaggio di questa trasformazione consiste nel fatto che il gas prodotto può essere maneggiato e trasportato con maggiore facilità e minore costi rispetto ad una biomassa solida. Il processo di gassificazione è suddiviso in tre stadi intimamente correlati tra loro: la pirolisi (chiamata anche devolatilizzazione, decomposizione termica o carbonizzazione), l’ossidazione parziale e la gassificazione (stadio di riduzione). Di Blasi et Al. [4] combinano gli stadi di gassificazione e di ossidazione, descrivendo così il processo di gassificazione attraverso due soli stadi, la pirolisi del solido e la conversione del char (ossidazione e gassificazione). Tra le molteplici tipologie di gassificatori (Downdraft, Updraft, a letto fluido ecc), Basu [5] sostiene che la soluzione economicamente ottimale per realtà rurali sia la tipologia Downdraft (un gassificatore a letto fisso, in cui la corrente di gas che si produce fluisce verso il basso) in quanto capace di produrre bassissime quantità di Tars (0.015-0.5 g/Nm3). In questo lavoro si è sviluppata una simulazione di un gassificatore Downdraft al fine di studiarne le performance al variare di alcune condizioni operative quali: il rapporto di equivalenza, l’umidità entrante, temperatura e pressioni di esercizio. 2. Relazione 2.1 Modello Chemcad

Le ipotesi fatte per la simulazione di processo sono: 1) Condizioni stazionarie. 2) L’umidità della biomassa pari al 10% del totale in massa 3) Modello zero-dimensionale, isotermo e adiabatico. 4) Non ci sono considerate dissipazioni di calore. 5) Il reattore di gassificazione è simulato come un reattore di Gibbs (Nella Figura1 è

identificato come R Gibbs2) in cui si raggiunge l’equilibrio chimico. 6) Si sono trascurate le percentuali di Cl e S presenti nella composizione della biomassa. 7) Gli unici prodotti in uscita dal reattore sono: CO, CO2, CH4, H2, H2O, N2 . La composizione della biomassa implementata nel simulatore (legno di palma) è definita attraverso la proximate e l’ultimate analysis [6] (Tabella1):

Tab. 1 - composizione della biomassa implementata nel simulatore

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Nella Figura1 si è rappresentato lo schema di processo della simulazione. Dato che la biomassa è definita dal simulatore come una sostanza “non convenzionale”, non può essere processata direttamente, ma deve essere prima modificata in una forma opportuna. La soluzione consiste nel trasformare la biomassa della corrente 6 nei rispettivi elementi che la costituiscono (N2, O2, H2 e C solido) lasciando inalterato il contenuto energetico della corrente stessa. Nello schema di processo questo procedimento è rappresentato all’interno della zona tratteggiata: nell’apparecchiatura R Stechio si trasforma la biomassa nei sui elementi costituenti fornendo calore che viene poi sottratto dal sistema nell’apparecchiatura R

Gibbs1. In questa maniera la corrente 6 e la corrente 2 di alimentazione al reattore di gassificazione “trasportano” la stessa quantità massica di specie atomiche e la stessa energia. Per il simulatore sono esattamente la stessa cosa. I dati in input per la simulazione sono: portata massica di biomassa 20 kg/h con umidità al 10%, pressione di esercizio 1.05 bar, temperatura di biomassa e dell’aria in ingresso pari a 25°C. 2.2 Analisi di sensibilità

Il modello descritto è stato utilizzato per sviluppare un’analisi di sensibilità; si è investigato l’effetto del rapporto di equivalenza (ER), dell’umidità della biomassa, della temperatura di reazione sulla composizione dei gas prodotti. In questa relazione si sono riportati solo i dati relativi all’influenza di ER sulla composizione dei gas prodotti. 2.2.1 Risultati

I grafici in Figura 2 riportano l’influenza del rapporto di equivalenza sulla composizione dei gas prodotti:

44

45

Fig. 2 - Influenza del rapporto di equivalenza sulla composizione dei gas prodotti

Si osserva come il modello rappresenta con ottima affidabilità i valori dell’articolo; gli errori percentuali maggiori riguardano CO e CO2 e aumentano al diminuire del rapporto di equivalenza.Analizzando i grafici si potrebbe erroneamente sostenere che, poiché le % di CO e H2 (le molecole che più caratterizzano la qualità del gas combustibile) aumentano al diminuire del rapporto di equivalenza, si debba lavorare con un ER più basso possibile. Con le ipotesi fatte minore è ER e minore sarà la temperatura di reazione. Il problema è che non si è considerata la termodinamica delle reazioni (non riportata in questa relazione) secondo cui, per spostare le reazioni verso i prodotti desiderati, si deve operare a temperatura maggiore di 800 °C. Con le ipotesi fatte, il regime termico del reattore è definito esclusivamente dal rapporto di equivalenza; ne deriva che risulta interessante determinare il rapporto di equivalenza minimo che soddisfa il problema termodinamico.

Nel grafico in Figura 3 si è rappresentato l’andamento della temperatura del reattore al variare del rapporto di equivalenza in condizioni adiabatiche. Si osserva che il valore minino di ER che permette al reattore di raggiungere gli 800 °C è pari a circa 0.24. .

. Nel grafico in figura 4 si riporta l’andamento delle frazioni molari dei prodotti al variare del rapporto di equivalenza.

Fig. 3 - Temperatura del reattore al variare del

rapporto di equivalenza in condizioni adiabatiche

Fig. 4 - Andamento delle frazioni

molari dei prodotti al variare del

rapporto di equivalenza

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3. Conclusioni In questo lavoro si è sviluppato, attraverso un simulatore di processo, un modello di gassificazione Downdraft che assume il raggiungimento dell’equilibrio termodinamico. Questo modello permette lo studio della variazione della composizione del gas prodotto al variare di vari parametri operativi: la temperatura di reazione, il rapporto aria/combustibile, il contenuto di umidità in ingresso e la pressione. In questa relazione si è riportata solo l’influenza del rapporto di equivalenza sulla composizione del gas prodotto; si è trovato che le frazioni massiche dei componenti che maggiormente influenzano la qualità del gas (CO e H2) aumentano al diminuire del regime termico del reattore. D’altra parte è noto da teoria che per spostare l’andamento delle reazioni verso i prodotti voluti si deve operare a temperature sopra gli 800°C. Si è quindi determinato che, fissata la biomassa e le condizioni in ingresso, il rapporto di equivalenza minimo con cui si deve operare è circa il 24%. Una soluzione alternativa per alzare il livello termico del reattore, ma senza utilizzare un rapporto di equivalenza troppo elevato (si immetterebbe nel sistema troppo azoto che farebbe abbassare la qualità del gas), potrebbe essere il preriscaldamento dell’aria in ingresso al reattore. In uno studio futuro si integrerà il modello presentato con l’influenza della temperatura dell’aria alimentata.

Bibliografia

[1] Atnaw S, Sulaiman S, Yusup S: “A simulation study of a Downdraft gasification of Oil-palm fronds using ASPEN”, Journal of applied sciences 11: 19136-1920, 2011. [2] Atnaw S, Sulaiman S: “Modeling and Simulation Study of Downdraft Gasifier Using Oil-Palm Fronds”, Proceedings of ICEE 2009 3rd International Conference on Energy and Environment, 7-8 December 2009. [3] Doherty W, Reynolds A, Kennedy D: “The effect of air preheating in a biomass CFB gasifier using ASPEN Plus simulation”, Biomass and Bioenergy 33 (2009) 1158-1167. [4] Di Blasi C, Signorelli G, Di Russo C, Rea G: “Product distribution from pyrolysis of wood and agricultural residues”, Industrial and Engineering Chemistry Research 1999;38;2216-24. [5] Basu P: “Biomass gasification and pyrolysis “, 2010. [6] Trangkaprasith K, Chavalparit O: “Heating Value Enhancement of Fuel Pellets from Frond of Oil Palm “, 2010 International Conference on Biology, Environment and Chemistry, IPCBEE vol.1 (2011) © (2011) IACSIT Press, Singapore.

47

Uso delle biomasse di tipo lignocellulosico nella filiera energetica per la

produzione di biogas e biochar

Cristian Torri [email protected], Vittoria Bandini, Diego Marazza, Alessandro

Buscaroli, Serena Righi, Daniele Fabbri, Andrea Contin - CIRI “Energia e Ambiente”, Alma

Mater Studiorum, Università di Bologna

Riassunto In questo lavoro vengono illustrati i risultati preliminari relativi ad una sperimentazione condotta su scala di laboratorio al fine d'integrare la frazione lignocellulosica di biomassa nella filiera di produzione del biogas. Lo studio mostra come l'utilizzo combinato di tecniche termochimiche e biochimiche sia in grado di estendere la gamma delle biomasse originarie da cui ottenere biogas, con maggiori rese, una diversificazione di prodotto e altri numerosi vantaggi per l'industria delle agro-energie e l'ambiente. In particolare viene presentato un procedimento di trasformazione di stocchi di mais che prevede un pretrattamento di tipo pirolitico mirato alla creazione di un substrato biodigeribile e successiva produzione di biogas. I risultati preliminari mostrano un rapporto tra energia consumata ed energia prodotta compreso tra 2 nel caso peggiore e 3 nel caso migliore. I risultati mostrano anche come il pretrattamento pirolitico renda disponibile per il processo di biometanazione una quantità di carbonio pari ad almeno 2,5 volte quella ottenibile da un processo privo del pretrattamento. Il processo sperimentato permette di diversificare i sottoprodotti attraverso la produzione di biochar. Il biochar ottenuto è oggetto di un particolare approfondimento che mostra la capacità di riduzione delle emissioni di gas serra e il potenziale uso come ammendante in agricoltura.

1. Introduzione Un ruolo molto rilevante e strategico nella green economy è affidato alle energie rinnovabili e tra queste, lo sviluppo della filiera delle biomasse appare di notevole interesse. In particolare la filiera del biogas presenta capacità d'impatto dal punto di vista economico sia nel settore agroalimentare, sia nel settore energetico e dei trasporti [1] [2]. Il settore sta conoscendo uno sviluppo molto importante, con un tasso medio di crescita della produzione di volumi di biogas ed energia elettrica distribuita di circa il 15% all'anno nell'Europa a 25 [3]. Il contributo maggiore a questa crescita della produzione deriva da impianti di digestione anaerobica che funzionano con colture dedicate, c.d. energy crops. La volatilità dei prezzi delle commodities alimentari da una parte, la necessità e l'opportunità di approvvigionarsi di sottoprodotti agro-industriali e gli obiettivi di sostenibilità dall'altra, stanno determinando problemi legati alla gestione delle forniture della filiera e stanno spingendo gli operatori di tutta Europa verso nuove soluzioni orientate ad estendere le rotte di conversione per la produzione di biogas, a ottimizzare rese e produzione di valore, a migliorare la distribuzione anche attraverso la purificazione per la produzione di biometano [4]. La ricerca che viene qui presentata s'inserisce nel filone delle ricerche che mirano a rendere disponibili colture erbacee annuali e altre biomasse di tipo lignocellulosico per la produzione di biogas. In particolare il procedimento presentato prevede una rotta di conversione ibrida di tipo termochimico e biologico (Py-DA). 2. Relazione Qui di seguito sono presentati i risultati preliminari relativi ad alcune prove di laboratorio e alle conseguenti valutazioni di bilanci di materia ed energia. I risultati preliminari presentano un procedimento di trasformazione di stocchi di mais Py-DA articolato in tre parti (fig. 2):

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(1) essiccazione degli stocchi di mais (2) pirolisi (Py) degli stocchi e produzione di bio-olio, gas e biochar (3) digestione anaerobica (DA) del bio-olio e gas con produzione di metano, anidride

carbonica e digestato. 2.1 Studio preliminare di accoppiamento tra pirolisi e digestione anaerobica (Py-DA)

La verifica delle potenzialità della digestione anaerobica della miscela gas/olio di pirolisi è stata effettuata attraverso uno studio preliminare di digestione del gas e dell’olio ottenuti da un processo pirolitico. Per l’ottenimento dei campioni per la digestione anaerobica gli stocchi di mais sono stati sottoposti a processo di pirolisi tramite un reattore pirolitico a letto fisso [5], a una temperatura di circa 400 °C. Le pirolisi sono state condotte su 10 g, con l’ottenimento di 4.5 g di biochar, 4.9 g di bio-olio e 0.6 g di gas che sono stati sottoposti a digestione anaerobica. L’olio si separa spontaneamente in due fasi, la prima solubile in acqua (83% in peso), la seconda insolubile in acqua (costituita prevalentemente da lignina pirolitica) che costituisce il 17% in peso del liquido. La fase acquosa è stata caratterizzata in modo dettagliato attraverso diverse tecniche, precedentemente descritte [6] ed è risultata essere costituita da 55% di acqua, 30% zuccheri e oligosaccaridi e 15% di sostanze volatili, costituite in larga misura da acido acetico, idrossiacetaldeide, idrossiacetone e fenoli a basso peso molecolare. Il gas è risultato costituito principalmente di biossido di carbonio monossido di carbonio (52% e 47% rispettivamente) con un basso contenuto (0.2%) di metano. Aliquote di bio-olio e gas di pirolisi sono state incubate separatamente in vials sigillati della capacità di 10 ml a in condizioni di mesofilia (40 °C). L’olio e il gas sono stati messi a contatto con un inoculo misto ed è stata valutata la produzione e la conversione dei gas nello spazio di testa del vial dal quale è stato periodicamente estratta una quantità di gas per l’analisi. La digestione del gas è risultata fortemente regolata dalla velocità di trasferimento tra gas e liquido (che risulta il passaggio limitante della conversione). Per il bio-olio sono state testate due metodologie per l’attenuazione della tossicità: correzione del pH (con Na2CO3 per mitigare l’acidità dell’olio) e utilizzo del biochar co-prodotto dalla pirolisi nel reattore. La fig. 1 mostra i risultati preliminari ottenuti. Il confronto dei diversi metodi di detossificazione mostra come l’aggiunta di Na2CO3 determina un forte decremento delle rese mentre, in fase iniziale, il controllo (bio-olio+inoculo) e le miscele di bio-olio+biochar mostrano buoni rendimenti di conversione (prossimi alla resa teorica di metano). In fase più avanzata e con carichi di bio-olio più rilevanti, il controllo ha mostrato segni di intossicazione laddove il sistema contenente biochar è risultato in grado di tollerare senza problemi un quantitativo progressivamente maggiore di olio con rendimenti di conversione prossimi al 90% del potenziale teorico di metano.

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0.0

50.0

100.0

150.0

200.0

250.0

300.0

350.0

0 200 400 600 800 1000 1200 1400 1600 1800 2000

Metano (ml)

tempo (h)

Digestione dell'olio di pirolisi

B1

B2

A1

A2

C1

Quantità di olio (ml CH4 teorici)

Fig. 1 - Produzione di metano da digestione anaerobica semi-continua di olio di pirolisi

(aggiunte progressive, simbolo giallo). B1 e B2 (inoculo+biochar +bio-olio), A1 e A2

(inoculo+ carbonato di sodio +bio-olio) e C1 (inoculo+bio-olio)

L’aspetto principale della digestione dell’olio è risultato essere la grande velocità di degradazione di questa matrice, che (estrapolando i dati mostrati in fig. 1) può essere stimata attorno a 2-5% h-1 con una concentrazione di 10-20 kg/m3 di bio-olio nel digestore, fornendo una via molto più rapida per la digestione di sostanze caratterizzate da lenta digestione. 2.2 Risultati relativi alla valutazione dei bilanci di massa ed energia

Rese e velocità di processo sono state estrapolate al fine di fornire i dati per la successiva analisi di massima del sistema. Le quantità ottenute sono descritte nella fig. 2.

(A)

50

(B)

Fig. 2 – Schematizzazione del flusso di carbonio espresso in chilogrammi (A) per il

procedimento considerato e (B) per un processo basato sulla sola digestione anaerobica.

I risultati ottenuti attraverso il procedimento sopra descritto sono stati valutati dal punto di vista del bilancio di massa, espresso in massa di carbonio in entrata e in uscita ai processi (fig. 2A) e il rapporto tra energia ottenuta ed energia consumata attraverso il bilancio energetico (fig. 3). Infine per comprendere meglio i vantaggi offerti da questa tecnica i risultati sono stati comparati alla produzione di biogas ottenuta dalla digestione anaerobica degli stocchi di mais (fig. 2B), applicando la resa media di un digestore reale alimentato con un mix di biomasse. Dalla fig. 2 è possibile osservare che il processo pirolitico rende disponibile una quantità di carbonio per la biometanazione pari a 2,3 volte quella del processo di digestione convenzionale. Per i calcoli sono stati utilizzati in parte i risultati sperimentali e in parte dati presenti in letteratura. Le assunzioni effettuate seguono un approccio di tipo conservativo. In particolare il rapporto in peso tra stocchi di mais che entrano nel processo di pirolisi bio-olio ottenuto sperimentalmente è pari al 51%. Questo risultato è dovuto alle condizioni sperimentali sopra descritte e al tipo di pirolizzatore utilizzato; i dati di letteratura attestano rese industriali controllate pari al 75%. E' importante notare che agli stocchi di mais in entrata al processo è stata attribuito un valore di energia consumata per la loro produzione pari a zero, in quanto si tratta di residui che vengono comunque generati. Nel calcolo si è tenuto conto dell'energia immessa per il funzionamento del pirolizzatore. Il calore ottenuto dal pirolizzatore nell'esperimento è utilizzato anche per il processo di essiccazione. Questa situazione è riprodotta anche negli impianti a scala reale [7].

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(A)

Fig. 3 – Schematizzazione del flusso di energia per il procedimento considerato.

Il rapporto tra energia ottenuta ed energia consumata è pari a 2,7. Tenendo conto dei risultati ottenuti nel corso della sperimentazione e dei dai di letteratura riferiti a impianti in scala reale, si ottiene una resa pari a 2 per il caso peggiore e a 3 per il caso migliore. 2.3 Uso del biochar nel processo e come ammendante in agricoltura e sostituzione del

carbonio

Un aspetto interessante del procedimento è l’utilizzo del biochar (intrinsecamente prodotto dalla pirolisi) nel digestore anaerobico. Questo accorgimento permette, da un lato, di mitigare la tossicità nel digestore e, dall’altro, di produrre un materiale nuovo “attivato” con proprietà attese simili al compost ma con caratteristiche di stabilità molto più elevate, che ne permettono l'uso come modalità di stoccaggio permanente di carbonio [8]. Diversi studi testimoniano gli effetti positivi legati all’applicazione di biochar ai suoli [9] [10]. Tra questi, in generale, si segnala: aumento di produzione primaria, aumento del pH, aumento di carbonio organico, aumento dell’azoto, aumento CSC e cationi scambiabili, effetti positivi sulla porosità dei suoli, biodisponibilità di N e P, priming effect. D’altra parte, le sperimentazioni fino ad ora condotte presentano un carattere locale, con risultati di validità ristretta alla zona d’applicazione ed ai materiali impiegati e di difficile esportazione in altri contesti [11]. Al fine di verificare le proprietà agronomiche del biochar, sono in corso di predisposizione e realizzazione test di germinazione in piastre Petri per valutare l’eventuale fitotossicità del biochar nei confronti di Lepidium sativum. Inoltre, si stanno predisponendo prove di accrescimento della medesima pianta erbacea in risposta a dosi diverse di biochar miscelato con substrato di coltivazione costituito da sabbia e torba bionda. 3. Conclusioni I risultati preliminari scaturiti dalle attività di laboratorio evidenziano alcuni vantaggi che sono sintetizzati di seguito. 1) Il rapporto tra energia ottenuta ed energia consumata risulta maggiore di uno, in diverse condizioni testate indicando la convenienza del sistema dal punto di vista energetico. Mediamente la resa energetica appare superiore a quella ottenuta da altri processi di conversione delle biomasse. 2) Il processo rende disponibile una maggiore

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quantità di carbonio per la biometanazione e riduce la quantità di digestato con la produzione di un nuovo sottoprodotto solido, il biochar, che permette di ridurre la tossicità nel digestore e può trovare impiego come ammendante in agricoltura unitamente al digestato ottenuto. In ultima analisi il processo sembra vantaggioso sotto il profilo del bilancio di gas serra, proprio grazie alla produzione biochar che permette d'immagazzinare nei suoli una parte consistente della CO2 prodotta durante il processo di pirolisi. L'applicazione a livello industriale può portare allo sviluppo di un dispositivo accoppiabile a digestori già esistenti o alla creazione di una nuova configurazione che ben s'innesta nel contesto di mercato e nei circuiti applicativi diffusi nell'agrozootecnia. Queste considerazioni invitano decisamente a ricercare una conferma dei risultati attraverso nuovi test e sperimentazioni a scala più ampia dei processi considerati.

Bibliografia

[1] Fabbri C., Shams-Eddin S., Bondi F., Piccinini S. “Efficienza e problematiche di un impianto di digestione anaerobica a colture dedicate”. Ingegneria Ambientale, 40,1 pp. 29-40, 2011. [2] European Biomass Association “A Biogas Road Map for Europe”, Aebiom, Brussels 2011. [3] EurObserv’ER “The State of Renewable Energies in Europe”, Bruxelles, 2009. [4] European Biofuels Technology Platform “Strategic Research Agenda Update”, 2010. [5] Fabbri D., Torri C., Mancini I. “Pyrolysis of cellulose catalysed by nanopowder metal oxides: production and characterisation of a chiral hydroxylactone and its role as building block”, Green Chemistry, 9, pp. 1374-1379, 2007. [6] Busetto L., Fabbri D., Mazzoni R., Salmi M., Torri C., Zanotti V., “Application of the Shvo catalyst in homogeneous hydrogenation of bio-oil obtained from pyrolysis of white poplar: new mild upgrading conditions”, Fuel, 90, pp. 1197-1207, 2011. [7] Roberts K. G., Gloy B. A., Joseph S., Scott N. R., Lehmann J. “Life Cycle Assessment of Biochar Systems: Estimating the Energetic, Economic, and Climate Change Potential”. Environ. Sci. Technol. 44 (2), 827–833; 2010. [8] Fabbri D., Torri C., Spokas K.. “Analytical pyrolysis of synthetic chars derived from biomass with potential agronomic application (biochar). Relationships with impacts on microbial carbon dioxide production”. Journal of Analytical and Applied Pyrolysis 2011. [9] Singh B., Pal Singh B., and Cowie A. “Characterisation and evaluation of biochars for their application as a soil amendment”. Australian Journal of Soil Research, 48, 516–525, 2010. [10] Lehmann J. “Terra Preta de Indio”, Encyclopedia of Soil Science, 1: 1, 1 — 4, 2009. [11] Verheijen F., Jeffery S., Bastos A.C., van der Velde M., Diafas I. “Biochar Application to Soils - A Critical Scientific Review of Effects on Soil Properties, Processes and Functions”. EUR 24099 EN, Office for the Official Publications of the European Communities, Luxembourg, 149pp, 2009.

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Pneumatici fuori uso, criticità e strategie; la pirolisi degli pneumatici

Chiara Leonardi [email protected], Loris Giorgini - Dipartimento di Chimica

Industriale e dei Materiali, Alma Mater Studiorum,Università di Bologna - CIRI “Meccanica

Avanzata e Materiali”, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna

Riassunto Gli pneumatici fuori uso (PFU) rappresentano una piccola percentuale in peso dei rifiuti, tuttavia, lunghi periodi di una gestione inappropriata, finanche criminale, sono stati causa di ingenti danni ambientali ed economici. Ad oggi è possibile un alto grado di recupero di questo tipo di rifiuto: l’applicazione di tecnologie già collaudate e lo studio di sistemi innovativi ne permettono il riuso con funzione originaria o il recupero di materia o energia. Tra questi processi tecnologici, la pirolisi appare particolarmente versatile poiché consente una regolazione dei parametri di processo in funzione dei prodotti desiderati, che possono poi essere utilizzati sia come fonte di materia prima che come combustibile, con conseguente recupero energetico. Inoltre, la pirolisi degli PFU come singolo flusso in alimentazione, particolarmente favorito dalle recenti modifiche normative, permette di ridurre l’emissione di sostanze inquinanti, principale motivo di osteggiamento delle tecniche di termovalorizzazione da parte dell’opinione pubblica. 1. Introduzione Ogni anno, in Italia, vengono generate 426mila tonnellate di pneumatici usati e non più reimpiegabili tal quali. Di queste, l’11% è destinato a percorsi di ricostruzione del battistrada che ne consentono un reimpiego con funzione originaria [1]. Gli “pneumatici, rimossi dal loro impiego a qualunque punto della loro vita, dei quali il detentore si disfi, abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi e che non sono fatti oggetto di ricostruzione o di successivo riutilizzo” sono definiti pneumatici fuori uso (PFU) [2] e diventano così un rifiuto, classificato con codice CER 16 01 03. Annualmente vengono generate in Italia oltre 380mila tonnellate di PFU, ¼ delle quali si disperdono attraverso mercati illegali generando così danni ambientali ed economici, di cui solo i secondi sono quantificabili: fino a 675 milioni di euro, dal 2005 ad oggi, è la perdita economica stimata suddivisa in perdite economiche per lo Stato per il mancato pagamento dell’IVA, mancati ricavi per gli impianti di trattamento costretti a regimi ridotti e costi di bonifica delle discariche abusive [3]. 2. Relazione

2.1 Gerarchia di gestione degli pneumatici fuori uso

Lo smaltimento degli PFU in discarica è particolarmente problematico: la caratteristica forma cava degli pneumatici impartisce bassa densità (130-160 kg/m3) [4,5] ai rifiuti non triturati comportando alti volumi occupati e tendenza a galleggiare sugli altri rifiuti rendendone difficile la compattazione; sono inoltre infiammabili e soggetti a ristagni d’acqua che favoriscono la proliferazione d’insetti. Per questi ed altri motivi, il D.Lgs 36/2003, in recepimento della direttiva 1991/31/CE, vieta il conferimento in discarica degli PFU sia interi che triturati, ad esclusione di particolari categorie. Questo provvedimento anticipa il D.Lgs 152/2006 e successive modifiche che, recepita la direttiva 98/2008/CE, istituisce una gerarchia nella gestione dei rifiuti tesa all’ottimizzazione delle risorse disponibili, massimizzando il recupero sia materiale che energetico e riducendo così al minimo il conferimento di rifiuti in discarica (Fig.1).

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Fig. 1 - Gerarchia di gestione dei rifiuti

Applicando tale gerarchia alla filiera degli pneumatici si delineano le seguenti priorità:

• Prevenzione: riutilizzo degli pneumatici usati che, nonostante l’usura, mantengono caratteristiche di idoneità all’uso, in particolare riguardo all’altezza delle scanalature del battistrada che si riduce durante l’utilizzo.

• Preparazione per il riutilizzo: ricostruzione degli PFU. Tale processo, applicabile a pneumatici che mantengono integre le proprietà strutturali e regolamentato da specifiche normative, prevede un primo stadio di asportazione del battistrada residuo (raspatura) ed una preparazione della superficie per gli stadi successivi. Viene quindi steso un primer che favorisce l’ancoraggio del materiale d’apporto, il quale può avvenire attraverso tecniche “a freddo”: utilizzando un battistrada pre-stampato e già vulcanizzato, o “a caldo”: applicando uno strato polimerico che viene poi inserito in una pressa con il disegno del battistrada e successivamente vulcanizzato [6]. Rispetto alla produzione di un nuovo pneumatico, la ricostruzione permette di impiegare il 30% di polimeri nuovi ed il 70% di energia di processo in meno.

• Riciclaggio: recupero di materia da PFU, utilizzando sia gli pneumatici interi in barriere con funzioni strutturali, insonorizzanti e/o anti-erosione, sia frantumati a seguito di processi a temperatura ambiente o in azoto liquido. Il prodotto di frantumazione degli PFU viene utilizzato dalle acciaierie in parziale sostituzione di antracite e coke, usati come agenti riducenti degli ossidi metallici. La frantumazione permette inoltre la successiva separazione del polverino di gomma dai residui metallici e tessili, inviando ciascun componente al più adatto percorso di riciclo: il polverino di gomma trova oggi impiego come componente di asfalti o di superfici con particolari caratteristiche antitrauma; tal quale o de-vulcanizzato (rigenerato) viene impiegato nella produzione di mescole per pneumatici nuovi; se legato con resine poliuretaniche viene utilizzato per la produzione di materiali per l’isolamento, per l’arredo urbano e per la pacciamatura.

• Recupero di altro tipo: recupero di energia da PFU. Ciò che rende interessante l’utilizzo degli PFU in processi di recupero energetico è la facilità di combustione, l’elevato potere calorifico e le emissioni di CO2, paragonabili a quelle dei comuni combustibili utilizzati industrialmente (Tabella 1). Gli PFU vengono utilizzati, come flusso singolo o misto (Combustibile da Rifiuti - CDR), in cementifici, centrali termoelettriche o impianti di pirolisi/gassificazione.

• Smaltimento: conferimento in discarica di PFU (solo per PFU ø > 1400mm) [1].

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Tab. 1 - Potere calorifico dei combustibili più comuni [7]

Combustibile Potere calorifico (GJ/ton) Emissioni (kgCO2/GJ)

PFU 32,0 85

Carbone 27,0 90

Petcoke 32,4 100

Gasolio 46,0 70

Gas Naturale 39,0 51

Legno 10,2 110

2.2 Pirolisi di pneumatici

La pirolisi degli PFU è una tecnologia ormai profondamente studiata ma che stenta a prendere piede nonostante gli innumerevoli vantaggi che apporta rispetto ad altre tecniche di recupero. Consiste in un trattamento termico, a temperature relativamente basse (circa 500 °C) ed in assenza di ossigeno, che comporta il cracking delle catene polimeriche. L’alimentazione al processo di un flusso singolo di PFU genera prodotti in diversi stati fisici: una frazione solida costituita da una parte metallica, successivamente recuperabile attraverso apposite filiere, ed un residuo carbonioso, utilizzabile tal quale come combustibile dato l’elevato potere calorifico (>30 GJ/ton), o come riempitivo di laterizi a seguito di processi di inertizzazione; una frazione liquida composta da una complessa miscela idrocarburica ed una frazione gassosa contenente idrogeno, acido solfidrico ed idrocarburi incondensabili a basso peso molecolare. Anche la componente fluida può essere utilizzata come combustibile o come fonte di materia prima. Si evince quindi come la pirolisi degli PFU possa essere considerata un trattamento finalizzato al recupero sia di materia che di energia. Inoltre, modulando opportunamente i parametri di processo è possibile modificare le percentuali relative delle frazioni ottenibili, delineando una duplice flessibilità di processo, fondamentale nell’adattamento alle esigenze di mercato. In nessuno dei prodotti di pirolisi degli PFU è possibile riscontrare la presenza di metalli pesanti poiché assenti nel materiale alimentato, inoltre, l’assenza di ossigeno caratteristica del processo, inibisce la formazione diossine, monossido e biossido di carbonio eliminando così parte dei problemi caratteristici degli impianti classici di termovalorizzazione e permettendo di ridurre i sistemi “end of pipe” di abbattimento degli inquinanti. Infine, come in ogni processo di recupero, sia questo di materia o di energia, la qualità dei prodotti e la sostenibilità dello stesso è fortemente correlata alle caratteristiche del rifiuto in ingresso per cui è desiderabile un elevato grado di differenziazione. In quest’ottica, la pirolisi degli PFU come flusso di rifiuti singolo pare particolarmente favorito dalle vigenti normative [2] che prevedono la “producer responsibility” alla quale è sotteso un sistema esclusivo di recupero e gestione degli PFU. 2.3 Panoramica degli impianti attualmente in uso in Italia

La pirolisi è un processo oramai profondamente studiato che ha portato, in Italia, alla nascita di alcuni impianti di trattamento dei rifiuti, tra questi: presso Terni è installato, dall’inizio degli anni 2000, un impianto con potenza nominale netta di 3,8 MWe che utilizza la tecnologia della pirolisi accoppiata ad un ciclo combinato turbogas/turbina a vapore per la produzione di energia elettrica [8]. L’impianto nasce a seguito di lunghe indagini conoscitive

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e di paragone tra le varie tecnologie di termovalorizzazione disponibili allora sul mercato: oltre a specifici vantaggi impiantistici offerti dal pirolizzatore installato, la tecnologia della pirolisi combinata ha comportato costi d’investimento nettamente inferiori rispetto a incenerimento e gassificazione (1,89 €Mln/MWe contro, rispettivamente, i 3,61 e 2,89 €Mln/MWe degli altri due processi) e costi di gestione comparabili (1,81 €Mln/anno contro 1,77 e 1,54 €Mln/anno di incenerimento e gassificazione) [9]. Più recentemente, nel 2009, terminato l’iter autorizzativo, ha preso il via una sperimentazione con un impianto di pirolisi sito nel comune di Peccioli (PI). L’impianto in questione (Fig.2) è stato progettato per il trattamento di differenti tipi di rifiuti e con lo scopo di produrre combustibile gassoso destinato alla produzione di energia elettrica e termica. I primi risultati acquisiti da questa sperimentazione appaiono incoraggianti dal punto di vista delle emissioni di inquinanti in atmosfera e contemporaneamente sottolineano la necessità di strategie gestionali tese al miglioramento delle rese energetiche [10].

Fig. 2 – Impianto di pirolisi, Peccioli (PI)[10]

Entrando nello specifico, si registra, ad oggi, l’intenzione di alcune aziende di avviare le richieste delle necessarie autorizzazioni per il trattamento dei rifiuti non pericolosi come gli PFU, ma si deve sottolineare come sia raro trovare la tecnologia della pirolisi applicata unicamente a questo flusso di rifiuti. Un caso è quello di un impianto che ha operato in provincia di Imperia dal 2007 al 2010 ma che ha poi subito un destino di dismissione a causa cambiamenti nelle strategie aziendali [11]. 3. Conclusioni Le recenti modifiche all’impianto normativo che regola il recupero e la gestione degli pneumatici fuori uso, favoriscono il trattamento degli stessi come flusso singolo ed in questo caso, con una tecnica quale la pirolisi, si possono ottenere prodotti in uscita esenti da metalli pesanti e che possono essere utilizzati come fonte di materia prima o per il recupero energetico. Le caratteristiche del processo di pirolisi, accoppiate a un flusso omogeneo di rifiuti quali i PFU, permettono di modificare i prodotti ottenuti in funzione delle richieste di mercato e contemporaneamente assicurano la diminuzione delle emissioni d’inquinanti, principale causa della contrarietà dell’opinione pubblica nei confronti dei processi di termovalorizzazione in genere.

Bibliografia [1] Fonte: Ecopneus. [2] Decreto Ministeriale 11 aprile 2011, n.82. [3] Dossier “Copertone Selvaggio 2011”, Ecopneus-Legambiente.

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[4] http://www.energyjustice.net. [5] http://www.lauciellopneumatici.it. [6] http://gestione-rifiuti.it/smaltimento-pneumatici-ricostruzione. [7] Rapporto e documenti del convegno “L’Italia del riciclo 2011”. Roma, 1 dicembre 2011. [8] Printer S.r.l, Dichiarazione Ambientale, rev.4, settembre 2008. [9] IV Convegno Nazionale “Utilizzazione termica dei rifiuti”. Abano Terme, 12-13 giugno 2003. [10] Belvedere S.p.A, Dichiarazione Ambientale, rev.1, giugno 2010. [11] http://www.romanamacericentroitalia.it.

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Termo-dynamic cracking technology applied to crumb tyres

Alessandro Santini [email protected] – Gruppo Fiori (BO)

Fabrizio Passarini, Ivano Vassura, Luca Ciacci, Luciano Morselli - Università di Bologna,

Polo di Rimini

Summary This paper reports a research performed by the University of Bologna and Cracking Energy Machines Ltd. aimed at optimizing the Thermodynamic Cracking Technology developed by Mr. Giorgio Pecci. The research involved the understanding and the analysis of the chemical and physical properties of shredded or pelletized crumb end-of-life tyre feedstock intended for processing in the thermodynamic cracking.

1. Introduction In general, PTF systems produce three outputs: natural gas, the liquid fuel product and char. The gaseous hydrocarbons can be rerouted into the system to account for a part of the system’s energy needs, or it can be flared by means of a torch. The majority of the systems do capture the energy from this gas, however this will vary by system. In terms of main fuel product, the output of these systems can be quite different. Some of the systems under development produce a gasoline-diesel fuel blend that needs further refining. Some generate a product similar to sweet crude oil that needs to be refined, but it can become a variety of products and other PTF systems produce diesel fuel ready for use in vehicles or in power generators. Most of the technology manufacturers that have pilot-scale facilities in place, and offering systems that have fuel outputs which require further refining or blending by a third party have had their products tested and processed to ensure that the output is indeed a usable product that will be in demand (4R, 2011). Char is the solid residue material remaining once the pyrolytic process is complete and the fuel and gases recovered. Char contains the additives and contaminants entering the system as part of the feedstock. The char can be a powdery residue or substance that is more like sludge with a heavy oil component. Glass, metal, calcium carbonate, clay and carbon black are just a few of the contaminants and additives that will remain after the conversion process is complete and that become part of the char. In many cases, technology manufacturers said the char was a benign material that could be landfilled. In some cases, technology manufacturers are exploring applications for the char. Some of those exploratory applications include road, active carbon, carpet and roofing material. PTF technology manufacturers most often cited additional energy recovery as the management option for the char. Because there is a carbon component in the char, this material can be sent to an incinerator, into a coal-fired power plant, or burned on site for additional energy recovery. These alternative uses for the char make the conversion process potentially a zero-landfill management option for non-recycled scrap plastics (4R, 2011). Common features of these systems include:

1. Pretreatment –this could be as minor as size reduction or as involved as cleaning and moisture removal.

2. Conversion – pyrolysis is used to convert the plastic to a gas. 3. Distillation – the gas is cooled to liquid form. At this step, by some kind of cheap

fractional distillatory, the hydrocarbon mixture could be further separated in gasoline-like and diesel-like compound.

4. Acid removal process – removal of acids that form in the breakdown of some scrap plastics (mainly PVC or sulphur contained in vulcanized rubber). These acids require

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removal because they can be corrosive to the PTF systems as well as the engines that will consume the fuel.

5. Separation/refining/final blending - the final steps required to make this product consumer ready can either be done on site or by a third party, depending on the system design.

Fig. 1 reports the process flow diagram of Cynar Plc, an Irish company which developed a pyrolysis technology for treating mixed plastics waste.

Fig. 1 – Cynar Technology - Process Flow Diagram

(source: http://www.cynarplc.com/cynar_technology.asp)

Particular attention was given to chemical and physical properties of the end products produced by the thermodynamic cracking process (currently envisaged to be diesel fuel, liquid petroleum gas and carbon black). The understanding of the functional and mechanical chemical-physical processes performed by the thermodynamic cracking process and the recommendations for improvements to enhance the reliability, functionality and performance of the thermodynamic cracking process itself. This process falls into the “plastics to fuel” technologies, PTF (cf 4R, 2011). 2. Report

2.1 Main text

2.1.1 System operation

The material is firstly loaded up into a hopper and subsequently sucked into two feed tanks. Such procedure enables both the transport and monitoring of materials that may not be complying with the requirements or be potentially dangerous for the reactor, e.g. spring steel contained in tyres. By means of a auger at an adjustable speed, the rubber is sent to the reactor in which thermal decomposition takes place.

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The reactor is composed of two longitudinal rotors, supported in the upper part in order to ensure mechanical strength. In their first part, the axes of rotors have an helical profile to feed, heat and speed up the material towards the decomposition chamber. A thermal insulated cover separates the rotors from outside. Such cover is heated with a temperature gradient ranging from 350°C -at the output of the auger- to 400°C -in the decomposition chamber -. The tolerance of the cover is extremely precise and therefore it correctly adjusts the fiction of the material against walls and rotors. The profile of the axes of rotors changes in the decomposition chamber , thus favouring the friction of the material, now viscous, with moving mechanical parts. The difference with a traditional pyrolysis process is that this system allows the cracking of the material at lower temperatures and a higher heat transmission. Friction turns kinetic energy into thermal energy which spreads in the material by means of direct conduction instead of irradiation from outside the reactor. Hence, it allows a considerably rapid heading (flash) which favours the production of unsaturated liquid molecules at room temperature, namely the cracking oil. Once the transformation process is terminated, products move through a distiller provided with two self-cleaning twin augers which remove carbon, allowing gas to go into two condensers located one after the other. The liquid products that are collected in the condensers and the gases are stocked in special tanks, ready to be used for the production of electric energy. The carbon is cooled down with water jets and dried up on a rotating drum. The vapour produced during this passage is conveyed in a washing tower and the water is reused in a closed circuit. 2.1.2 Mass balance

At the stationary state, solid and liquid samples have been recollected during one operating hour. Gas mass was calculated by difference. Results are reported in the following table: Tab.1 – Resoults obtained Product % (by weight)

Oil 50-55

Gas 20-30

Carbon 20-25

Conversion rate is about 80%, and it is in line with other plastic to fuel (PTF) technologies results. In terms of yield, the share of products indicates that Thermodynamic Cracking is very efficient in breaking down polymeric chains because the gaseous fraction is very high compared to a pyrolysis process operating at the same temperature. This result is even more satisfying when considering that no catalyst neither inert gas (such as Nitrogen) are used in this process . The main difference between this technology and other PTF is the oil and gas production rate. Usually, at 400°C, tyres oil production rate is lower in standard pyrolysis processes and char share is higher, meaning that cracking is not completed. With this technology it is possible to obtain roughly 50% oil ready to be used into a power generator. This is mainly due to the kinetic energy that this technology transmits to the softened rubber that, in addition to the external heat, enables cracking to happen at lower temperature. 3. Conclusions The cooperation between University of Bologna and CEML established a testing protocol useful to give reliability and order to the experimental data collected during plant operation. In this perspective, preliminary data obtained before the beginning of this research were collected and studied to give indications for new experimental design and procedures.

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Results of this trial showed that it is possible to obtain about 50% cracking oil ready to be burnt into a power diesel generator blended with 40% commercial diesel. Another product obtained during the test has been a gaseous fraction accounting for about 30%, suitable for energy recovery, similarly to the natural gas. Moreover, the process produced a solid carbon powder which could be used as carbon black or for energy recovery. With this plant, by burning the oil in power generator, it is possible to obtain about 1.39 MW*h of net electric energy output for each hour of operation.

Bibliography

[1] 4R Sustainability (2011), Conversion technology: A complement to plastic recycling, 4R Sustainability, Inc. Portland, OR 97203 http://plastics.americanchemistry.com/Plastics-to-Oil

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Verso la sostenibilità del settore del riciclo dei veicoli a fine vita

Alessandro Santini [email protected] – Gruppo Fiori, Crespellano, Bologna

Riassunto La filiera del recupero dei veicoli a fine vita, o end-of-life vehicels (ELVs), ha come principale criticità la gestione e la valorizzazione del residuo di frantumazione auto. In questo breve saggio si riportano la realtà europea e le tecnologie più innovative di riciclo di materia e recupero di energia dal car fluff.

1. Introduzione I veicoli a fine vita (End-of-Life Vehicles, ELV) generano ogni anno circa 10 milioni di tonnellate di rifiuti in Europa, di cui circa 1,3 milioni in Italia, con un trend crescente [1]. Attualmente, una frazione pari al 75-80% in peso di un ELV è riciclata [2], grazie al recupero di materiali durante le fasi della filiera di trattamento delle automobili a fine vita, distinte in: 1) bonifica: operazione di depurazione dell’ELV, finalizzata a rimuovere e separare le componenti più pericolose del veicolo (pari a circa il 3%), come ad esempio le batterie, gli oli esausti, i fluidi refrigeranti e i carburanti; 2) demolizione (o smantellamento): azione di smontaggio e rimozione delle componenti commercializzabili o destinate a riciclo (un ulteriore 30% dell’input), come i vetri e gli pneumatici; 3) rottamazione: le automobili che giungono dai precedenti trattamenti sono sottoposte alla riduzione volumetrica mediante pressatura per l’ottenimento di pacchi di forma cubica. Infine, segue la 4) frantumazione: fase finale di riduzione della carcassa in frammenti tali da essere sottoposti a trattamenti volti al recupero della componente metallica ferromagnetica, pari a circa il 75% in peso dell’automobile a fine vita. Il materiale residuo ammontante al 20-25% in uscita dalla fase di frantumazione è denominato Automotive Shredder Residue (ASR). Il raggiungimento degli obiettivi di riciclo e recupero energetico previsti dalla Direttiva 2000/53/EC, rispettivamente 85% e 95% in massa, è possibile solo intervenendo quantitativamente sulle frazioni a maggior valore aggiunto contenute nell’ASR, i metalli non ferrosi, soprattutto rame e alluminio. I trattamenti di concentrazione dell’ASR volti ad un recupero di materia, sfruttano in genere le diverse proprietà dei materiali: fisiche, magnetiche, chimiche ed elettriche. Mentre per la frazione metallica le tecnologie che consentono quali- e quantitativamente un loro recupero sono ormai consolidate ed economicamente sostenibili, per la componente polimerica i problemi maggiori derivano dalla possibilità (frequente) di overlapping tra le proprietà di plastiche diverse, conseguentemente alla presenza di riempitivi (fillers), agenti modificatori (modifiers), additivi (additives) e plasticizzanti (plasticizers) aggiunti durante la formulazione dei singoli materiali. Come conseguenza, i processi di separazione delle specifiche classi polimeriche sono di difficile controllo e pongono limiti sulla purezza del materiale che viene recuperato. Sia per il recupero di materia, sia per quello di energia, risulta comunque necessario eliminare dall’ASR, a monte dei trattamenti di separazione, la componente indesiderata, non combustibile e inquinante la qualità del materiale da trattare, come i frammenti di vetro, sabbie e polveri e i metalli residui. 2. Relazione È stata svolta una ricerca industriale applicata al miglioramento del recupero dei metalli dal residuo di frantumazione auto (car flufff o ASR), prodotto dall’impianto Italmetalli di

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Crespellano appartenente al Gruppo Fiori (vedi Fig. 1). L’impianto ha una produzione annua di circa 30’000 ton di fluff leggero, pari a un flusso di circa 20 ton/h.

Fig. 1 – Lay out generale impianto frantumazione

In generale, le tecnologie post frantumazione (PST) sono progettate per operare dopo le fasi di bonifica, demolizione e frantumazione, quindi su un fluff “bonificato” e pari a circa il 20% del peso iniziale di un ELV. Si dividono principalmente in due categorie: 1 - basate su separazione meccanica dei rifiuti in diverse frazioni che possono essere poi riciclate e vendute; 2- basate su trattamenti termici per generare feedstock per la valorizzazione energetica. Nel caso della separazione meccanica, i prodotti principali sono il granulato plastico (per il riciclo in prodotti plastici), fibre (da usare come dewatering nei trattamenti delle acque reflue), sabbie (utilizzabili nell’edilizia) e rifiuti, che devono comunque essere smaltiti in discarica o mediante termovalorizzazione. I trattamenti termici generano feedstock per la produzione di energia (ad esempio syngas), o energia direttamente dalla produzione di calore, ed anch’esse producono residui inerti che posso essere utilizzati in edilizia o devono essere successivamente smaltiti. In generale, i trattamenti termici risultano più costosi (100 - 200 euro/ton di rifiuto trattato) dei trattamenti meccanici (20 – 100 euro/ton di rifiuto trattato), ma entrambi risentono dell’economia di scala, ovvero costi più alti associati a impianti piccoli [3]. Quasi tutte le tecnologie post frantumazione prese in considerazione dalla Comunità Europea sono a livello pilota o al massimo di un impianto a scala industriale ma garantiscono il raggiungimento dei target fissati al 2015 dalla Direttiva ELV. Ad esempio, in seguito a diversi test sperimentali è stata implementata una nuova linea per il recupero di ferro ed alluminio dal car fluff leggero. Partendo da un’analisi di pezzatura, si è riscontrato che circa il 70% dell’alluminio presente in questa frazione è di pezzatura inferiore ai 50mm. Di conseguenza è stato testato un vaglio a dischi per la separazione granulometrica del residuo al fine di concentrare il metallo recuperabile nella frazione fine, riducendo al

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tempo stesso la portata del materiale da trattare e quindi il dimensionamento del nuovo impianto. A seguito del vaglio è stata posta una macchina a correnti parassite per la separare l’alluminio dalla parte sterile. Da quando è entrato in funzione, questo impianto sperimentale permette il recupero di 50 kg/h di alluminio, pari a uno 0,4% del flusso totale di car fluff leggero. Al di là dell’importante risvolto economico, la produzione di alluminio primario è un processo estremamente energivoro, mentre il riciclo di alluminio da rottame permette il risparmio del 95% di energia e CO2 per unità di massa. E’ stata svolta una analisi semplificata del ciclo di vita (LCA) per valutare gli impatti evitati: in un anno di produzione si stima il recupero di circa 100 ton di materiale, evitando così la produzione di circa 1200 ton CO2. 3. Conclusioni Le tecnologie post frantumazione sono la chiave per raggiungere gli obiettivi di riciclo e recupero posti dalla “Direttiva ELV” al 2015. Queste tecnologie sono ancora costose e in via di sviluppo ma alcuni fattori, ad esempio la compatibilità con i rifiuti provenienti da apparecchiature elettriche ed elettroniche e l’aumento della sensibilità ambientale degli stakeholder europei, potrebbero portare a maggiori investimenti e risultati nella separazione e nel recupero di materiali dal car fluff. Presso il Gruppo Fiori è in atto una sperimentazione che mira a recuperare i metalli non ferrosi dal fluff leggero. Infine, in attesa che l’applicazione dell’Ecodesign sui nuovi veicoli permetta di chiudere in maniera ottimale il ciclo produttivo, risulta importante lo studio delle tecnologie post-frantumazione (PST) in chiave tecnologica, economica ed ambientale [4,5].

Bibliografia

[1] Morselli, L., Santini, A., Passarini, F., Vassura, I., “Automotive shredder residue (ASR) characterization for a valuable management”, Waste Management, 2010, 30, pp. 2228 - 2234 [2] Santini, A., Morselli, L., Passarini, F., Vassura, I., Di Carlo, S., Bonino F., “End-of-Life Vehicles management: Italian material and energy recovery efficiency”, Waste Management, 2011, 31, pp. 489 – 494 [3] A report submitted by GHK/BIOIS (2006), “Costs and Benefits of the ELV Directive – Final Report” [4] Ciacci, L., Morselli, L., Santini, A., Passarini, F., Vassura, I., “A comparison among different automotive shredder residue treatment processes”, Int J Life Cycle Assess 2010, vol. 15, no9, pp. 896-906 [5] Passarini, F., Ciacci, L., Santini, A., Vassura, I., Morselli, L., “Auto shredder residue LCA: implications of ASR composition evolution” , Journal of Cleaner Production, Volume 23, Issue 1, March 2012, Pages 28-36

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La produzione distribuita di idrogeno e le sue prospettive: problematiche

economiche e tecniche

Stefania Marini [email protected] – Dipartimento di Chimica Fisoca ed Inorganica,

Università di Bologna - CSGI e Dipartimento di Progettazione e Tecnologie dell’Università

di Bergamo

Paolo Salvi, Rachele Pesenti, Paolo Nelli, Marco Villa - CSGI e Dipartimento di

Progettazione e Tecnologie dell’Università di Bergamo

Mario Berrettoni - Dipartimento di Chimica Fisoca ed Inorganica, Università di Bologna

Yohannes Kiros – Department of Chemical Engineering and Technology, Stockholm, Sweden

Riassunto La produzione distribuita di idrogeno è un elemento fondamentale per realizzare le promesse di una “Economia dell’Idrogeno” (Rifkin) dove l’auto a idrogeno sostituisce quella a combustibile fossile. Mentre i tempi di realizzazione di questa visione si stanno allungando indefinitamente emergono nuove applicazioni del vettore idrogeno e si raffinano i modi di produzione distribuita di H2. Qui si prende in considerazione la combinazione dell’idrogeno con altro combustibile fossile per ottenere in situ carburanti con rese superiori e ridotto potenziale inquinante. Si discutono quindi vantaggi e svantaggi di diversi modelli di produzione dell’idrogeno (per via elettrochimica e per decomposizione di sostanza organica) e si forniscono risultati preliminari di un prototipo di dispositivo elettrochimico da noi sviluppato per arricchire con idrogeno il combustibile di veicoli con motori a combustione interna convenzionali.

1. Introduzione Nel suo libro “economia dell’Idrogeno” Jeremy Rifkin [1] preconizzava un aumento praticamente senza limiti del mercato dell’energia grazie al “vettore idrogeno”, prodotto in modo distribuito da fonti rinnovabili e utilizzato, in particolare, su efficienti auto elettriche mosse da celle a combustibile che consumano H2. La eliminazione dei combustibili fossili dal trasporto su gomma era e rimane il passaggio cruciale nella de-carbonizzazione della società. Sembra tuttavia improbabile che possa avvenire come preconizzato da Rifkin. Disponiamo oggi di celle che ossidano elettrochimicamente l’idrogeno con buona efficienza (oltre il 50%, rapporto tra voltaggio della cella e 1.23V, potenziale di decomposizione dell’acqua) e con requisiti di densità di potenza e affidabilità compatibili con le applicazioni veicolari. Purtroppo queste prestazioni si possono oggi ottenere solo con catalizzatori del gruppo del platino e occorrono circa 100g di Pt per la cella a combustibile di un’auto media. Con riserve mondiali stimate in 5000 t di platino, si potrebbero idealmente avere 50 milioni di auto a idrogeno, un numero comparabile alla produzione annua prevista nel prossimo futuro per le sole India e Cina. Di simile entità sono i problemi dello stoccaggio dell’idrogeno e della messa in posa dell’infrastruttura per la distribuzione di H2. Gli obbiettivi del Department of Energy degli USA (DoE) per lo sviluppo di serbatoi veicolari di idrogeno sono da anni regolarmente disattesi [2]; in pratica, non si ha niente di lontanamente comparabile a una tanica di benzina per densità di energia, semplicità e costo. Il ricorso all’idrogeno liquido è scoraggiato da problemi di sicurezza e dai costi energetici della liquefazione. Mentre esiste una “dorsale idrogeno” che in Nord america collega i grandi impianti di reforming (H2 da metano o carbone) con le raffinerie di petrolio (oggi i maggiori consumatori di H2) non si vede come si possano realizzare economicamente reti simili per alimentare distributori capillarmente diffusi su un vasto territorio. Per questo, si è a più riprese considerata la possibilità di produzione distribuita per via elettrolitica di idrogeno per autotrazione,

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scaricando sulla rete elettrica il problema di come generare e distribuire cospicue quantità di energia elettrica da fonti rinnovabili. Con l’evolversi delle batterie ricaricabili a ioni litio e aria-metallo, le celle a combustibile a idrogeno per autotrazione sembrano destinate a occupare al più un mercato di nicchia per il trasporto pubblico nelle aree metropolitane. Tuttavia, si stanno scoprendo, o riscoprendo, molteplici usi dell’idrogeno, usi che non erano stati presi in considerazione per problemi di economia e sicurezza nella produzione distribuita di H2. Sembra in particolare interessante l’utilizzo dell’idrogeno come additivo di un combustibile convenzionale (gasolio, benzina e metano) per migliorarne le prestazioni (per una rassegna vedi [3]). Miscele di idrogeno (fino al 30%) e metano sono chiamate idrano o idrometano; sono un combustibile superiore al metano nei bruciatori a fiamma (es. caldaie domestiche) dove l’idrogeno, oltre ad abbattere l’emissione di CO2, favorisce una combustione completa e la pulizia degli ugelli. Nei motori a combustione interna l’idrometano ha prestazioni di gran lunga superiori al metano sia nella resa (grazie soprattutto a una ignizione più rapida e temperature più elevate) sia per quanto riguarda le emissioni di ossidi d’azoto e di CO. Varie iniziative pilota si propongono di diffondere l’uso dell’idrometano per autotrazione mediante distributori dove il metano della rete gas viene miscelato con idrogeno prodotto localmente [3]. Da decenni è noto [3] che l’aggiunta di idrogeno a benzina e gasolio nella fase di carburazione migliora il numero di ottani, aumenta potenza e resa del motore, riduce le emissioni di gas serra (CO, CO2, NOx) e di particolato, contrasta la formazione di depositi carboniosi nei cilindri e condotti di scarico che portano all’invecchiamento del motore. L’idrogeno può essere prodotto per elettrolisi dell’acqua sul veicolo stesso (mediante energia elettrica da batteria-alternatore) e immediatamente consumato. Non vi è bisogno in questo caso di separare idrogeno e ossigeno in quanto la miscela di H2, O2 può essere immessa direttamente nel carburatore ed è presente sempre in piccole quantità che non pongono problemi di sicurezza. 2. Relazione La scomposizione elettrochimica dell’acqua in ossigeno e idrogeno molecolare è un processo apparentemente semplice ma ancora studiato intensamente sia nei suoi aspetti fondamentali sia nei suoi aspetti tecnologici [4]. I suoi vantaggi sono la flessibilità, scalabilità, affidabilità; gli svantaggi vengono dal costo dell’energia elettrica in ingresso e, in casi che analizzeremo, dai costi legati a investimento e gestione dell’impianto. Una alternativa futura alla produzione elettrolitica di idrogeno su scale anche modeste viene da speciali impianti di fermentazione di una matrice organica in ingresso con uno stadio iniziale idrogenico seguito da uno stadio metanogenico [3]. Questi reattori hanno la potenzialità di diventare le sorgenti di una futura rete di idrometano rinnovabile con impatto molto positivo sull’abbattimento dei gas serra, ma sono al momento allo stadio sperimentale. I vantaggi ambientali di questi impianti, come quelli dei tradizionali impianti per biogas, sono indiscutibili: i residui organici di ingresso vengono convertiti in combustibile convenzionale e in fertilizzanti riducendo o eliminando le emissioni nocive che accompagnerebbero la fermentazione spontanea ed i costi di produzione dei fertilizzanti. Sul versante negativo, questi impianti richiedono elevate quantità di biomassa (spesso in soluzione acquosa diluita al 10%); da una tonnellata di glucosio si possono ottenere, oltre ad anidride carbonica, circa 15 kg di H2 (180 Nm3) e 230 kg di CH4 (380 Nm3). I tempi di reazione sono dell’ordine di giorni o settimane, e questo si traduce in reattori di grande volume e impatto ambientale. Se biomassa o fertilizzanti non sono disponibili o consumabili localmente, l’incidenza dei costi di trasporto può diventare proibitiva. In pratica, il bioidrogeno e biometano diventano convenienti e proponibili solo in presenza di particolari condizioni al contorno.

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2.1 Economia della produzione distribuita di idrogeno per autotrazione

Nell’ultimo decennio sono apparse molte analisi di fattibilità per reti di distributori di idrogeno per autotrazione prodotto localmente mediante elettrolisi. In condizioni speciali, come in un villaggio subsahariano o una campagna militare in località sperdute, si potrebbe immaginare un’unità operativa energeticamente autonoma che trasformi l’output di pannelli fotovoltaici in idrogeno con cui muovere veicoli e alimentare luci e motori elettrici. In queste condizioni la disponibilità di energia elettrica “a comando” (anziché intermittente) mediante celle a combustibile ad H2 non avrebbe praticamente prezzo. Invece, in un’area sviluppata occorre raffrontare i costi di produzione dell’idrogeno da energia elettrica e acqua (disponibili sul posto) con i costi di combustibili funzionalmente equivalenti, pure disponibili localmente. Un’analisi di questo tipo è stata fatta da Johanna Ivy [5] per il DoE nel 2004; i suoi risultati sono ancora attuali [6]. Si analizzano costi per la produzione elettrolitica di idrogeno nei più grandi impianti del Nordamerica per determinare quali potranno essere i prezzi dell’H2 prodotto in stazioni di rifornimento di grandi, medie e piccole dimensioni: forecourt (500 Nm3 H2/h), small forecourt (100 Nm3 H2/h ) e small neighborhood (10 Nm3 H2/h ). Il rapporto tra costi di capitale e costi di energia (a 0.05$/kWh) è stimato essere 44% per le grandi stazioni, 240% per le medie e 440% per le piccole. Da questa analisi sembrerebbe che i guadagni in efficienza siano inessenziali per i piccoli elettrolizzatori dove conviene aumentare la densità di corrente, anche a scapito dell’efficienza, per ridurre dimensione e costo dell’impianto. La tecnologia presa in considerazione dalla Ivy è quella, apparentemente matura, dell’elettrolisi alcalina. Una tecnologia alternativa è quella dell’elettrolisi mediante le Proton Exchange Membrane (PEM) che permette di raggiungere, a parità di efficienza, densità di energia e potenze molte più elevate ma che richiede, come per le celle a combustibile a PEM, catalizzatori del gruppo del platino (Pt, Ir, Ru). La tecnologia PEM trova impieghi in sistemi per laboratorio e sistemi industriali di piccola taglia [4]. Nel comparare le differenti tecnologie occorre tener presente le seguenti grandezze:

• la densità di corrente massima o tipica, J a cui può operare la cella • il voltaggio di cella, Vcell, alla densità di corrente massima o tipica; l’efficienza di cella

è definibile come rapporto tra 1.23V e Vcell • l’energia Eu (in kWh) richiesta dal processo per un Nm3di H2; il rapporto tra l’energia

richiesta dal processo ideale (3.0 kWh/Nm3 di H2) ed Eu dà l’efficienza del sistema • il tempo di vita tipico o atteso dell’impianto • il costo del sistema diviso i kW di potenza elettrica nominale di ingresso.

Il raffronto tra gli elettrolizzatori alcalini tradizionali, quelli PEM e gli elettrolizzatori alcalini avanzati che sono oggetto della nostra ricerca è mostrato in tabella 1 (i dati in $ sono stati convertiti mediante 1€=1.3USD).

Tab. 1 - Confronto tra elettrolizzatori Alcalini

tradizionali PEM Alcalini

avanzati Vcell (efficienza cella) ~1.9V (65%) ~1.8 V (68%) <1.8 V (68%) J – A/cm2 >0.100 >1 >0.5 Eu – kWh/Nm3 H2 (efficienza sistema) ∼5 (60%) 4.35* (69%) 4.4 (68%) Tempo di vita (anni) >10 ∼5 >10 Costo – €/kW >540 [6] 310* 200 * obbiettivo 2012 del DoE. Hydrogen Posture plan (2006) [7]; improbabile

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Con tempi di vita e operazione continua che, in alcuni casi, si estendono anche oltre i 20 anni, gli elettrolizzatori tradizionali hanno il primato dell’affidabilità; la loro efficienza è tuttavia relativamente modesta e ancor più importante è il divario con le densità di corrente delle tecnologie concorrenti. Per rispetto di dati industriali confidenziali, il rapporto della Ivy [5], pur effettuando analisi finanziarie dettagliate sotto ipotesi ben definite, non fornisce esplicitamente dati su costi degli impianti. Per questo, il costo di un impianto tradizionale in tabella 1 si riferisce a un caso studio ideale [6] dove è stata applicata una formula approssimata per la stima dell’incidenza del capitale (CI capitale investimento) sul costo della produzione unitaria (Nm3 di H2): 0.29 CI/produzione-annua 8in Nm3 H2). Stimando con questa formula il costo del più grande impianto analizzato dalla Ivy si otterrebbe per questo un ragionevole valore di 550€/kW. I dati della colonna PEM sono in parte tratti da una “roadmap” 2006 del DoE [7] dove si auspica che il costo dei più grandi elettrolizzatori PEM scenda sotto 440USD/kW entro il 2012. Questo sembra del tutto improbabile a fronte di costi molto più elevati rispetto alla tecnologia alcalina (meno cara) e a nostre ricerche di mercato che danno valori maggiori di circa un ordine di grandezza – o di quasi due ordini nel caso dei piccoli sistemi PEM da laboratorio. D’altro canto, i sistemi PEM descritti in letteratura superano spesso le specifiche di efficienza e densità di corrente della tabella [8], anche in considerazione del fatto che la cella PEM produce e sopporta sovrapressioni nel comparto idrogeno dell’ordine delle decine di bar, semplificando il processo di de-umidificazione e spesso eliminando lo stadio di compressione [9]. In pratica, si deve raggiungere un compromesso tra prestazioni, costi e tempo di vita; una temperatura di esercizio maggiore aumenta le prestazioni ma diminuisce il tempo di vita, mentre un carico di catalizzatori nobili più elevato aumenta il tempo di vita a spese di un costo maggiore. 2.2 Elettrolisi alcalina avanzata

Negli ultimi anni abbiamo adattato alla elettrolisi dell’acqua una tecnologia sviluppata per le celle a combustibile alcaline al Royal institute of Technology di stockholm (KTH). Utilizziamo elettrodi a diffusione di gas (GDL, gas diffusion electrode) costituiti da una matrice porosa idrofoba (gas diffusion layer, comprendente PTFE e materiale conduttore) da un collettore di corrente (retino di Ni) e da uno strato attivo dove polveri di catalizzatori e sostanza conduttrici sono legate da PTFE. La scelta dell’ambiente alcalino è dettata da una serie di ragioni, prima tra queste il fatto che tra i migliori catalizzatori per riduzione dell’idrogeno e ossidazione dell’ossigeno figurano Fig. 1 - Strato attivo di un anodo

elementi convenienti e abbondanti come il Ni. La figura qui sopra (Fig.1) presenta un’immagine SEM dello strato attivo di un anodo dove il grano principale è una “spugna2” di Ni (Raney-Ni) drogato con ferro avente circa metà del volume occupato da pori nanometrici: le sferette sono Fe-carbonyl, gli elementi dendritici sono polveri sinterizzate e macinate di Ni (Ni-255), il PTFE evapora sotto il fascio elettronico ma resta parzialmente visibile come copertura gommosa nella parte in alto a

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destra. Le prestazioni tipiche di elettrolizzatori alcalini avanzati costruiti con questa tecnologia, e operanti tra 60°C e 80°C, sono quelle della tabella 1. Prove preliminari hanno mostrato stabilità (o miglioramento) di queste prestazioni per operazioni intermittenti sull’arco di sei mesi. Questo fa ritenere che l’obbiettivo di un tempo di vita di 10 anni per questi dispositivi sia ragionevole. Va tenuto presente che una considerevole parte delle perdite di efficienza è dovuta alla resistenza ohmica del separatore (membrana-strato idrofilico impervio ai gas) che impedisce ai gas evolventesi al catodo (H2) e all’anodo (O2) di mescolarsi. In effetti, potenziali di cella prossimi a 1.7V e a 0.5 A/cm2 sono stati ottenuti con elettrodi senza gas diffusion layer separati da retino di plastica operante a 60°C. Una cella di questo tipo di 10cm2 di superficie attiva termicamente isolata con 1 cm di armaflex ha operato per mesi a 1.75V passando da una corrente iniziale di 0.12 A/cm2 a 25°C a una corrente media 0.3 A/cm2 per una temperatura, stabile e auto-mantenuta, di 40°C. Questo dato permette un prima grossolana progettazione di un sistema per idrogeno autoveicolare basato su elettrolizzatore alcalino avanzato. La cella opera a 1,75V (14V:8, voltaggio alternatore diviso numero di celle – 8- nello stack) con una corrente iniziale di 0.12 A/cm2 che a regime (60÷70°C) diventa di ∼0.5 A/cm2. In queste condizioni, uno stack di otto celle da 144 cm2 (12x12cm) assorbe un kW e rilascia circa 140w di energia termica utilizzati per mantenere la cella a 60÷70°C e compensare le perdite di evaporazione dell’elettrolita (soluzione con 30% in peso di KOH). Il sistema produce 0.25 Nm3 H2/ora e necessita di un serbatoio di acqua distillata di un litro per cinque ore di funzionamento a pieno regime. Si suppone che il veicolo consumi 10 litri/ora di benzina o gasolio, corrispondenti a una potenza di 120kW, ed eroghi normalmente una potenza meccanica di 36kW (efficienza lorda del 30%). Se con l’input di idrogeno l’efficienza passa al 35% si hanno a disposizione, rispetto al motore normale, 5kW di potenza meccanica in più quando si sconta il kW utilizzato dall’elettrolizzatore e il veicolo consuma circa il 14% in meno di combustibile. Il peso totale di serbatoio di acqua (autonomia di 1000km) ed elettrolizzatore (volume lordo di ∼2500 cc) è di circa 5 kg. Il componente più costoso (per unità di massa) è il catalizzatore a base di Raney-Ni; con un carico tipo di 50mg/cm2 per questa cella da un kW occorrono 120 g di Raney-Ni per un costo di circa 10€. Assumendo costi di produzione e distribuzione cinque volte superiori a quelli dei materiali impiegati, questo compatto elettrolizzatore veicolare potrebbe costare attorno ai 200 €, che verrebbero ammortati dai risparmi di combustibile in meno di 10000km. 3. Conclusioni Il sogno della transizione a veicoli a idrogeno sta tramontando non solo perché non si dispone di abbastanza platino per una produzione di massa delle celle a combustibile e i serbatoi di idrogeno sono troppo pesanti/voluminosi/costosi, ma anche perché la produzione distribuita di idrogeno non è conveniente con l’elettrolisi convenzionale. L’elettrolisi alcalina avanzata potrebbe però permettere di produrre localmente idrogeno per migliorare l’efficienza di caldaie e motori a combustione interna. Ringraziamenti Ricerca da un progetto PRIN 2009 e dalla fondazione CARIPLO (grant 2010-0545). Bibliografia

[1] J. Rifkin, “Economia all’idrogeno”, Mondadori (Milano 2002) [2] C. Weidenthaler, M. Felderhoff. “Solid-state hydrogen storage for mobile applications: Quo Vadis?”,Energy Environ. Sci., , 4, 2495-2502, 2011

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[3] A. Schievano, C. ledda e F. adani, “Tecnologie innovative nel settore del biogas, in biomassa ed Energia”, pp. 321-339 in S. Castelli ed.”Biomassa ed energia: produzione, gestione e processi di trasformazione” Maggioli- Santarcagangelo di Romagna, 2011 [4] S. Marini, P. Salvi, P. Nelli, R. Pesenti, M. Villa, M. Berrettoni, G. Zangari, Y. Kiros, “Advanced alkaline water electrolysis without noble metal catalysts”, In corso di pubblicazione su Electrochimica acta [5,] J. Ivy, “Summary of Electrolytic Hydrogen Production, Milestone Completion Report”, NREL/MP-560-36734 (2004), http://www.nrel.gov/hydrogen/pdfs/36734.pdfd1 [6] http://www1.eere.energy.gov/hydrogenandfuelcells/mypp/pdfs/production.pdf. [7] (http://www.hydrogen.energy.gov/pdfs/hydrogen_posture_plan_dec06.pdf [8] W.Xu, K. Scott, “The effects of ionomer content on PEM water electrolyser membrane electrode assembly performance”, Int. J. Hydrogen Energy 35, 12029-12037, 2010 [9] P. Millet, D. Dragoe, S. Grigoriev, V. Fateev, C. Etievant, “GenHyPEM: a research program on PEM water electrolysis supported by the European Commission”, Int. J. Hydrogen Energy 34, 4974-4982, 2009.

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Resine poliestere insature dal riciclo dei polimeri termoplastici di

condensazione

Tania Zanasi [email protected], Paolo Pozzi -Universitàdi Modena e Reggio Emilia,

Modena

Giovanni Lucchetti, Luca Paterlini - Carlo Riccò &F.LLi S.p.A., Correggio, Reggio Emilia

Riassunto In questo lavoro si è studiata la possibilità ed il modo di realizzare resine poliestere insature bisfenoliche e tereftaliche con componenti derivati da materiali di riciclo (Policarbonato derivante da CD/DVD o PET da bottiglie), scarti di lavorazione (PC da sfridi o PETG da lavorazioni biomedicali) o da sottoprodotti di processi chimici come la Glicerina da produzione di biodisel. In particolare si sono messe a punto delle formulazioni per la realizzazione e l’industrializzazione di resine bisfenoliche ottenute da policarbonato di riciclo, resine con alto valore aggiunto e buone proprietà di resistenza chimica e meccanica 1.Introduzione La scarsità e quindi l’aumento del costo delle materie prime e in particolare dei derivati del petrolio stanno spingendo sempre più l’industria legata ai materiali polimerici alla ricerca nel riciclo di materie prime seconde o nell’utilizzo di materie prime alternative. Nel primo caso un ruolo importante è rappresentato dalla depolimerizzazione di polimeri da riciclo [1] che permette di recuperare oligomeri di base da utilizzare nella produzione di nuovi materiali, nel secondo caso l’interesse è focalizzato all’utilizzo di sostanze di origine vegetale tipo oli e glicerine. Come risultato è nato un crescente interesse nella promessarappresentata dallo sviluppo e dall’ ingegnerizzazione dellanuova generazione delle “Polimeri Verdi”, i cui precursorisono appunto derivati interamente o in parte da materie primenaturali oriciclate, e polimerizzati con i metodi chimicitradizionali. Questa nuova generazione di materiali è prestodiventata uno dei principali obiettivi realizzativi dell’industria dei polimeri,che ha sempre più la doverosa necessità di distribuire sulmercato prodotti con un basso impatto ambientale, per contribuire alla risoluzione degli aspetti ambientali legati alla produzione e recupero dei materiali polimerici . In questo quadro le resine termoindurenti a base di unità monomeriche di bisfenolo A sono caratterizzate da una buona resistenza chimica,questo tipo di resine sono quindi materiali di alto valore aggiunto e sono ampiamente utilizzate nel settore dei rivestimenti anticorrosione, dei rivestimenti protettivi idrofobi e per la produzione di manufatti, ad esempio vasche, lavandini, rivestimenti, solidsurfaces o marmi tecnici, tubazioni, serbatoi. La richiesta di resine a base bisfenolica, visti gli innumerevoli campi di applicazione, sta rapidamente crescendo; parallelamente il prezzo del bisfenolo A e dei suoi derivati sono in netto rialzo in quanto direttamente correlati alla fluttuazione del petrolio. Per questo motivo, si stanno incentivando fonti alternative per il reperimento di tali materiali, quali ad esempio il riciclo di materie plastiche a base bisfenolica. Il policarbonato è un polimero che presenta bisfenolo A come monomero ricorrente e, grazie alle sue notevoli proprietà chimiche, viene impiegato in svariati settori, ad esempio fanaleria, lenti, supporti ottici, oggetti d’arredo, pertanto previa opportuna depolimerizzazione, è una potenziale fonte di bisfenolo A,composto particolarmente ricercato sul mercato mondiale. Lo ricerca condotta si è basata sulla realizzazione di procedimenti onepot per la sintesi di resine a unità bisfenoliche variamente funzionalizzate, a partire dalla depolimerizzazione del

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policarbonato impiegato come starter material o da altre matrici derivanti da riciclo, scarti di lavorazione o sottoprodotti di procedimenti chimici. Negli anni sono stati sviluppati diversi metodi per il riciclo/recupero del policarbonato, tra questi, il riciclo chimico si è ampiamente diffuso e consiste nel sottoporre il policarbonato ad una reazione di depolimerizzazione chimica, al termine della quale si ottengono monomeri di bisfenolo A, a loro volta riutilizzabili completamente tal quali o tramite ulteriori passaggi di funzionalizzazione. Un altro punto in esame in questa ricerca è la realizzazione di resine Poliestere Insature Tereftaliche a partire da PET derivante le bottiglie o da PETG e PBT derivante da sfridi di lavorazione dell’industria biomedicale. Sempre nel campo delle resine termoindurenti bis fenoliche sono in via di realizzazione resine da Oli come l’olio di ricino o grassi di origine vegetale come la glicerina. Le principali applicazioni delle resine Poliestere Insature Tereftaliche sono per il settore edile la realizzazione di tegole, canaline di scolo, gocciolatoi, coprimuri, lastre per pavimenti e rivestimenti, nel settore dei sanitarivengono utilizzate per realizzare: lavelli, top, oggettistica da bagno, vasche da bagno ed idromassaggio ed in fine il loro impiego nel settore dei mobili è principalmente orientato verso i rivestimenti di pannelli in legno ed altri materiali, vernici, componenti vari come laminati: piani ed ondulati. 2.Relazione

Gli obiettivi principali dello studio sono stati quelli di ottenere Resine Poliestere Insature Bisfenolica e Tereftaliche partendo da materia prima di riciclo o di origine vegetale,con proprietà comparabili aresine commerciali attualmente in produzione presso la Carlo Riccò & F.lli, di Correggioe di realizzare prodotti innovativi con proprietà migliorate rispetto ai prodotti attualmente in commercio. Un altro obbiettivo ma non meno importante è stato quello di ridurre i costi di produzione utilizzando al posto delle materie prime materiali di riciclo. Per raggiungere gli obiettivi prefissati si è concentrata l’attenzione sull’utilizzo di policarbonato di recupero come fonte di bisfenolo A, partendo da PC recuperato da supporti ottici, sia da scarti e sfridi di lavorazione. Un altro approccio è stato quello di utilizzare diversi reagenti di sintesi, in alternativa a quelli previsti nella formulazione originale, per modificare le proprietà meccaniche e chimiche nella direzione voluta e per utilizzare materiali di origine naturale. 2.1Produzione di resine

bisfenoliche

Sono state sintetizzate diverse resine poliestere insature di tipo bis fenolico,come detto tali resine sono state ottenute utilizzando policarbonato di riciclo come fonte di bisfenolo A. Ai fini della ricerca sono stati modificati i reagenti e le condizioni di reazione della esterificazione, per valutare l’effetto della composizione chimica sulle proprietà meccaniche finali del prodotto.[2,3] In particolare sono stati utilizzati due diversi glicoli, tra cui anche la glicerina dagl’impianti di biodisel, che prendono parte alla reazione di esterificazione, consentono di ottenere diverse strutturechimice del poliestere e diverso comportamento meccanico della resina. Successivamente sono state modificate le condizioni di reazione delle sintesi, come numero di step di reazione e catalizzatore utilizzato. Le sintesi sono state effettuate nel laboratorio dell’azienda “Carlo Ricco & F.lli.”. In Tab. 1 si riportano i risultati delle proprietà di resistenza chimica delle resine ottenute.

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Tab. 1 - Proprietà di resistenza chimica delle resine ottenute

R90.15 R90_1° R90_5

Sforzo (%) Modulo (%) Allung (%) Sforzo (%)

Modulo (%) Allung(%) Sforzo (%)

Modulo (%)

Allung (%)

T.Q. 100 100 100 100 100 100 100 100 100

Ac.

Acetico40% 221,3 92,9 375,5

162,9 77,4 225,5 101,5 89,2 139,2

Acetone 10% 179,1 78,2 277,3 100,2 65,5 160,4 62,1 60,3 126,3

H2O 60°C 119,4 95,5 123,9 89,6 85,5 106,7 61,1 81,6 64,2

H2SO4 60°C 156,9 99,1 158,9 84,5 89,9 96,0 91,5 104,6 72,9

HNO3 25% 122,5 98,6 125,8 84,5 84,9 100,0 86,0 95,0 77,3

Ipoclorito-Na 139,5 95,8 149,7 95,4 81,7 118,1 78,4 98,1 66,8

Metanolo 82,2 36,1 792,6 73,9 33,3 416,8 8,4 5,6 457,2

NaOH 50% 124,2 98,7 127,0 91,3 86,4 106,0 112,6 102,3 100,0

NH4OH 30% 70,8 80,6 88,3 28,2 63,9 45,6 51,6 54,1 183,0

Toluene 25,0 24,7 102,5 56,6 55,2 105,4 0,0 0,0 0,0

2.2 Produzione di resine tereftaliche

Si sono fatte prove di sintesi di resine terftaaliche partendo da PET da bottiglie o da PETG e PBT da scarti/sfridi di lavorazione dell’industria biomedicale. Lo studio effettuato ha portato alla formulazione di alcuni prodotti grazie alla messa a punto della formulazione mediante lo studio accurato delle condizioni di reazione e della scelta più idonea dei componenti quali glicoli e catalizzatori e dall’aggiunta o meno del “diciclopentadiene”.[4,5] 2.3 Produzione di resine poliestere insature da oli

Sono state fatte prove preliminari per realizzare resine a partire da oli vegetali [6,7] come l’olio di ricino per l’ottenimento di bioresine, l’interesse per l’utilizzo di oli vegetali risiede nel fatto che risultano contenere composti chimici altrimenti derivabili solo dal petrolio, e di essere una materia prima rinnovabile e producibile nel nostro territorio. Queste prove sono ancora in fase di sviluppo ma i risultati preliminari sono soddisfacenti. 3.Conclusioni In conclusione si può affermare che dopo diversi studi per la messa a punto di un prodotto commerciale, il policarbonato di recupero può essere una valida soluzione per la produzione di resine poliestere insature a base bisfenolica, consentendo di combinare buone proprietà meccaniche e di resistenza chimica ad un risparmio economico non trascurabile, e che l’utilizzo delle glicerine e degli oli può essere sicuramente una buona alternativa all’utilizzo dei derivati del petrolio.

Bibliografia [1] P.A. Tarantili, A.N. Mitsakaki, M.A. Petoussi: “Processing and properties of engineering plastics recycled from wasteelectrical and electronic equipment (WEEE)” Polymer Degradation and Stability 95 (2010) 405e410; [2] Lian-Chun Hu Akira Okua, EtsuYamadaa: “Alkali-catalyzed methanolysis of polycarbonate. A study on recycling of bisphenol A and dimethyl carbonate” Polymer (1998) 39(16):3841-3845;

74

[3] A. Oku, S. Tanaka, S. Hata: “Chemical conversion of poly(carbonate) to bis(hydroxyethyl) ether ofbisphenol A. An approach to the chemical recycling of plastic wastes asmonomers” Polymer 41 (2000) 6749–6753; [4] Utpal R. Vaidya, Vikas M. Nadkarni: “Unsaturated polyester resins from poly(ethylene terephthalate) waste. 1. Synthesis and characterization” Ind. Eng. Chem. Res.,1987,26(2), pp 194–198; [5] S Aslan, B Immirzi, P Laurienzo, M Malinconico, E Martuscelli, M. G Volpe, M

Pelino and L Savini:“Unsaturated polyester resins from glycolysedwaste polyethyleneterephthalate: synthesisand comparison of properties and performancewith virgin resin” Journal of Materials Science 32 (1997) 2329 D 2336; [6] Dejan D. Andjelkovic, Ashland, Darcy A. Culkin, Ashland, Roman Loza, Ashland,: “Unsaturated Polyester Resins Derived from Renewable Resources” Composites &Polycon 2009 American Composites Manufacturers Association January 15-17, 2009; [7]N. Dutta, N. Karak, S.K. Dolui: “Synthesis and characterization of polyester resinsbased on Nahar seed oil” Progress in Organic Coatings 49 (2004) 146–152.

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Sistemi di riscaldamento domestico a biomasse: applicazione della

metodologia LCA (Life Cycle Assessment)

Daniele Cespi [email protected], Fabrizio Passarini, Luciano Morselli, Ivano Vassura,

Luca Ciacci – Dipartimentodi Chimica Industriale e dei Materiali & CIRI “Energia e

Ambiente”, Università di Bologna

Riassunto Questo studio nasce per verificare la sostenibilità di sistemi di riscaldamento domestico a biomassa legnosa, nell’ambito di un progetto PRIN 2008 in collaborazione con l’Università di Milano – Bicocca. A tale scopo è stata eseguita un’analisi di valutazione del ciclo di vita, LCA (Life Cycle Assessment), di due apparecchiature alimentate con diversi combustibili (legna e pellet) con lo scopo di verificare le criticità ambientali di tali tecnologie, in termini di impatti su diverse categorie di danno: tossicità umana, formazione di materiale particolato, cambiamento climatico, occupazione di suolo e consumo di risorse. Inoltre, per avere un quadro di riferimento più ampio, il comportamento dei due sistemi a biocombustibili è stato confrontato con tecnologie di riscaldamento domestico alternative (boiler a gas, pannello solare termico e pompa di calore).

1. Introduzione Lo studio è stato condotto con l’intenzione di offrire una valutazione di screening degli impatti ambientali e sulla salute umana associati ai processi di riscaldamento domestico a biomasse, attraverso una prospettiva di ciclo di vita. Questa ricerca nasce nell’ambito degli obiettivi definiti nel progetto “L.EN.S.” (Legno Energia Salute),il quale si prefigge di comprendere e valutare l’impatto sull'ambiente e gli effetti sulla salute umana generati dal materiale particolato e dai composti potenzialmente tossici sprigionati da sistemi di riscaldamento domestico a biomasse legnose durante la fase di combustione. L’effettiva sostenibilità di tali combustibili è stata messarecentemente in discussione anche a livello locale con l’emanazione, da parte della Regione Lombardia, della Legge Regionale 11 Dicembre 2006, n.24, che vietal’utilizzo di apparecchi per il riscaldamento domestico a biomassa legnosa, laddove siano presenti altri impianti di riscaldamento alimentati con combustibili ammessi. Pertanto, considerando che la direttiva 2009/28/CE individua le biomasse come possibile fonte alternativa ai normali combustibili fossili sia per la produzione di energia elettrica che di calore, è stato eseguito uno studio in grado di individuare le criticità ambientali associate all’utilizzo di tecnologie a biomasse impiegate nel settore riscaldamento domestico, categoria che rappresenta più del 50% dei consumi energetici domestici registrati ogni annoin Europa (Figura 1).

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Fig. 1 - Consumi energetici domestici in Europa: distribuzione percepita dai cittadini

(sinistra) e quella effettiva (destra)(fonte dei dati: Eurobarometer 2007)

L’approccio scientifico per la quantificazione e la caratterizzazione degli impatti sull’ambiente, suddivisi negli effetti relativi a salute umana, qualità dell’ecosistema e consumo delle risorse, è il risultato dell’applicazione della metodologia di Valutazione del Ciclo di Vita, o Life Cycle Assessment (LCA). Tale studio ha permesso di ottenere un valido strumento di integrazione alle indagini eseguite mediante monitoraggio ambientale, potenzialmente utile sia in ambito interpretativo e di supporto ai decisori politici, sia, alla cittadinanza, per incrementare la sensibilizzazione verso tali problematiche. Per comprendere meglio gli impatti del riscaldamento a biomasse, è statoindagato il comportamento ambientale di due tecnologie alimentate abiocombustibili differenti: la legna ed un suo derivato, il pellet. Infine, per ottenere un quadro informativo completo sul settore riscaldamento domestico, sono stati confrontati i due scenari a biomassa con sistemi di riscaldamento alternativi come: boiler a gas, pannello solare termico e pompa di calore elettrica. 2. Relazione La sigla LCA è l’acronimo di Life Cycle Assessment (Valutazione del Ciclo di Vita), una metodologia di indagine che consente un’analisi oggettiva di valutazione dei carichi ambientali derivanti da ciascuna fase dell’intero ciclo di vita di un prodotto, processo o servizio, fornendo una fotografia del sistema, utile a programmare miglioramenti futuri.Le norme internazionali ISO 14040 e 14044 definiscono quattro fasi in cui articolare la struttura concettuale di un’analisi LCA, rispettivamente: Definizione degli obiettivi e degli scopi dello studio (Goal and scope definition); Analisi di inventario (Life Cycle Inventory); Valutazione degli impatti(Life Cycle Impact Assessment); e Interpretazione dei risultati(Interpretation), schematicamente illustrate in Figura 2.

Fig. 2 - Struttura concettuale di una LCA

2.1 Confini di sistema ed unità funzionale

All’interno della definizione degli obiettivi e degli scopi è necessario individuare,in conformità ai principi previsti nella ISO 14040,i confini di sistema dello studio e l’unità funzionale alla quale riferire tutti i dati e le informazioni dell’analisi. Il presente studio è stato concepito come un’analisi LCA su modello from cradle to grave(dalla culla alla tomba), condotta cioè sull’intero ciclo di vita del processo di produzione di calore per il riscaldamento domestico. I confini del sistema sono stati individuati in modo da poter suddividere lo studio in due livelli (Fig.3): un primo stadio, più dettagliato ed alla base del lavoro, che si riferisce ai metodi di riscaldamento domestico alimentati a biocombustibili; un secondo livello, considerato un’estensione dei confini, che consiste in un confronto con scenari alternativi di riscaldamento delle abitazioni. Lo studio prevede che per ogni scenario vengano analizzati tutti i processi e i flussi di materiali ed energia, in entrata ed uscita, necessari alla produzione del combustibile e delle rispettive tecnologie di riscaldamento, per le qualivengono inclusi i relativi processi di smaltimento.

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Fig. 3 - Schema di lavoro

L’unità funzionalescelta è stato 1MJ di energia termica prodotta da ogni sistema di riscaldamento, così da svincolare lo studio dalla massa di combustibile consumato e garantire un confronto con le tecnologie di riscaldamento domestico alternative.

2.2 Analisi di Inventario e qualità dei dati

La fase di Analisi di Inventario consiste nella costruzione di un modello delsistema, in grado di rappresentarne, il più realisticamente possibile, tutti i flussi in entrata ed uscita. L’obiettivo è quello di fornire dati oggettivi, che in seguito saranno elaborati e commentati con lo scopo di trarre valutazioni e indicazioni utili a livello gestionale. Pertanto i dati impiegati, le scelte ed assunzioni adoperate nella fase di modellazione influiranno necessariamente sulla qualità dei risultati prodotti dallo studio, in termini di riproducibilità ed accuratezza.

2.2.1 Analisi di Inventario scenari a biomassa

Per la fase di modellazione degli scenari di riscaldamento domestico a biomassa l’attenzione è stata focalizzata su stufe per legna e per pellet, individuando tra esse le tipologie tecnologicamente più innovative disponibili attualmente sul mercato italiano, le cosiddette BAT (Best Available Techniques). Pertanto, dopo una lunga verifica dei sistemi disponibili, la scelta per i due scenari è ricaduta sulla stufa innovativa a legna e sulla stufa a pellet (European Commission, 2009), strumenti che assieme rappresentano il 10% di tutti gli apparecchi a biomassa legnosa istallati nelle abitazioni lombarde(Pastorello & Dilara, 2008). Tale percentuale,sebbene attualmente esigua,è destinata ad aumentare nel tempo, a scapitodelle apparecchiature tradizionali,grazie agli incentivi di un mercato sempre più rivolto verso i requisiti di sostenibilità ambientale.Inoltre, in accordo con il principio dell’unità funzionale, è stato necessario individuare l’ammontare di combustibile, legna e pellet, necessario a generare un’energia termica di 1MJ, sulla base dei parametri chimico-fisici del combustibile (potere calorifico inferiore e densità) ed efficienza di combustione della stufa. Di seguito (Tab.1) vengono riportate i passaggi fondamentali utili alla comprensione della fase di modellazione di ciascuno scenario a biomassa.

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Tab. 2 - Fase di modellazione dei due scenari di riscaldamento a biomassa

Efficienza di combustione

media1 Potenza stufa

Umidità Filiera del

combustibile2 Ciclo di vita

della tecnologia

Tipologia di legname

Inquinanti atmosferici

fase di combustione3

Percentuale ceneri4

Stufa innovativa a legna

60% 15kW 20%

Legname da foreste

nazionali ed in parte importato

Costruzione e

smaltimento

50:50 hardwood: softwood

Tipologia di inquinante da

database 3%

Stufa a pellet

64% 15kW 10%

Pellet prodotto da scarti di

lavorazioni legnose

Costruzione e

smaltimento

30:70 hardwood: softwood

Tipologia di inquinante da

database 2%

1Mediata sull’intero arco dell’anno, considerando fasi di impiego e di fermo. 2Comprensiva delle seguenti fasi: 1) legna: taglio, esbosco e trasporto al consumatore, 2)pellet: fase di pellettizzazione e trasporto al consumatore. 3Il quantitativo di ogni inquinante è stato modellato sulla base dell’efficienza di combustione. 4Per quanto riguarda lo smaltimento delle ceneri di combustione si è ipotizzato che il 50% venga trattato mediante incenerimento, mentre il restante 50% sparso su suolo agricolo, impiegandolo come fertilizzante.

2.2.2 Analisi di Inventario scenari alternativi

Anche per la fase di modellazione degli scenari di riscaldamento domestico alternativi si è fatto riferimento alle BAT, indagando le tecnologieattualmente più diffuse in Italia.In questo caso, diversamente dagli scenari a biomassa, per eseguire la fase di modellazione sono stati presi in considerazione processi già esistenti in database, verificando la corrispondenza tra le tecnologie considerate nella banca dati e le BAT maggiormente impiegate nelle abitazioni italiane. Le informazioni più significative vengono riportate in Tabella 2.

Tab. 3 - Fase di modellazione dei due scenari di riscaldamento alternativi

Apparecchiatura Alimentazione Altre caratteristiche Ciclo di vita della

tecnologia Emissioni

Caldaia a condensazione

Gas metano Riferimento ad EPD

per la fase di costruzione

Costruzione e smaltimento

Tipologia di inquinante da

database Pannello solare termico vetrato, a circolazione vetrata

Energia elettrica (alimentazione della pompa)

Integrazione con boiler a gas

Costruzione e smaltimento

Tipologia di inquinante da

database

Pompa di calore elettrica

Energia elettrica (alimentazione del

compressore) Tecnologia aria-acqua

Costruzione e smaltimento

Tipologia di inquinante da

database

2.3 Valutazione degli Impatti ed Interpretazione dei Risultati

La fase di valutazione degli impatti consiste nella stima e caratterizzazione degli effetti dei carichi ambientali associati ad ogni scenario, dovuti alla modellazione nella fase di inventario.L’analisi di LCA è stataeseguita mediante il software SimaPro, versione PhD 7.2.4, sviluppato dalla Pré Consultants, valutando gli impatti attraverso il metodo ReCiPe 2008, in grado di classificare i dati di inventario in categorie di impatto intermedio (o midpoint), come tossicità umana, formazione di materiale particolato, cambiamento climatico, occupazione suolo agricolo e consumo di risorse, oppure è possibile raggrupparle categorie di impatto finale (o endpoint): danno alla salute umana, consumo di risorse e qualità

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dell’ecosistema(Goedkoop et al., 2009). Di seguito vengono mostrati, sotto forma di barre di indicatore di istogramma, i risultati della fase di valutazione degli impatti emersi dal confronto tra i due scenari a biomassa (Fig.4) e tra gli scenari alternativi (Fig.5).

Dalla Figura 4, si evince come lo scenario di riscaldamento domestico mediante stufa a legna abbia carichi più rilevanti per categorie di impatto con danno più circoscritto in ambito locale, come formazione di materiale particolato, tossicità umana e occupazione del suolo agricolo, mentre lo scenario di riscaldamento mediante pellet mostraun’incidenza maggiore in categorie di impatto con danno esteso a livello globale, come cambiamento climatico e consumo di combustibili fossili.Tali andamenti sono dovuti in parte alle caratteristiche chimico-fisiche e di produzione dei due combustibili. Di fatti è logico immaginare che la legna, combustibile con scarsa densità energetica, forma irregolare e quantitativo di umidità elevato(AIEL, 2011), produca durante la fase di combustione un quantitativo di particolato atmosferico,inteso principalmente come particolato fine (PM 2.5), e di sostanze dannose per la salute umanatale da innalzare gli impatti per queste due categorie al disopra di quelli relativi al pellet. Parallelamente, l’elevato consumo di combustibili fossili necessari al processo di pellettizzazione, caratterizzato da fasi che richiedono un ingente fabbisogno energetico (come la fase di essiccazione), fa sì che gli impatti nelle categorie consumo di combustibili fossili e cambiamento climatico siano superiori a quelli relativi allo scenario a legna. La categoria di impatto occupazione suolo agricolo si riferisce al danno dovuto alla sottrazione di suolo per eventuali fini agricoli a causa della crescita di legname. Pertanto, in riferimento alla Tab.1, è facile intuire come gli impatti siano molto più elevati per lo scenario a legna piuttosto che per quello a pellet, il quale prevede una filiera di produzione del combustibile partendo esclusivamente da scarti di lavorazione e non da colture dedicate.La Figura 5 mostra il confronto con gli scenari alternativi, questi ultimi presentano impatti maggiori nelle categorie intermedie di cambiamento climatico e consumo di combustibili fossili,dovuti principalmente all’impiego di elettricità e gas naturale come fonti di energia; inoltre si evince che il processo di riscaldamento domestico a legna presenta un impatto globale confrontabile con quello delboiler a gas, tecnologia più diffusa nella realtà italiana. Parallelamente gli impatti globali del processo pannello solare termico e pompa di calore sono confrontabili tra loro ed inferiori rispetto ai due precedenti, ma al tempo stesso superiori al punteggio singolo dello scenario stufa a pellet, che in definitiva risulta il processo a minore impatto globale.

Fig. 4 - Confronto tra i due scenari di

riscaldamento domestico a biomassa

Fig. 5 - Confronto tra i cinque scenari

di riscaldamento domestico alternativi

80

3. Conclusioni Lo studio, valutando l’intero ciclo di vita di strumenti alimentati a biocombustibili solidi, quali legno e pellet, ha dimostrato come la combustione di tali sostanze provochi carichi non trascurabili in categorie di impatto più locali, e perciò più rilevanti ai fini di decisioni per il contenimento dell’inquinamento su scala territoriale. Tuttavia dal confronto con scenari alternativi si evince come il sistema di riscaldamento mediante stufa a pellet risulti, a livello globale, il processo più sostenibile, mentre lo scenario a legna presenta impatti paragonabili al processo di riscaldamento mediante caldaia a metano.Ciò nonostante è bene essere prudenti nel trarre conclusioni definitive, soprattutto per i margini di incertezza dovuti all’impiego di dati secondari e terziari, provenienti da letteratura e database, per la fase di modellazione degli scenari. Pertanto per ottenere risultati più attendibili è opportuno affiancare il presente lavoro con ulteriori campagne di monitoraggio, in grado di fornire dati primari per l’analisi LCA, e parallelamente verificare i possibili danni causati dalle emissioni di sostanze nocive attraverso delle analisi epidemiologiche, così come previsto nell’ambito del progetto nazionale in cui questo studio si inserisce. Solo seguendo un simile iter sarà possibile avere un quadro di informazioni più dettagliato e completo, necessario per individuare il ruolo che dovrà essere associato all’utilizzo di biomasse per garantire il conseguimento degli obiettivi di qualità ambientale previsti dalla direttiva 2009/28/CE del Parlamento Europeo.

Bibliografia

[1] AIEL (2011), “La combustione del legno- fattori di emissione e quadro normativo”. [2] Caserini S., Livio S., Giugliano M., Grosso M., Rigamonti L. (2010), “LCA of domestic and centralized biomass combustion: The case of Lombardy (Italy)”, ELSEVIER, 474-482. [3] European Commission DG TREN (2009), “Preparatory Studies for Eco-design Requirements of EuPs(II), Lot 15- Solid fuel small combustions installations”. [4] Goedkoop M, Heijungs, Huijbregts M, De Schryver A, Struijs J, van Zelm R (2009) ReCiPe 2008, “A life cycle impact assessment method which comprises harmonised category indicators at the midpoint and the endpoint level”, First edition. Ministry of Housing, Spatial Planning and the Environment (VROM), Netherlands. [5] Pastorello C., Dilara P. (2008), “Estimation of residential wood combustion in the Lombardy Region”, redatto per European Commission-JRC (Joint Research Centre). [6] Regione Lombardia, l.r. 11 Dicembre 2006, n. 24. [7] Vivarelli F., Ghezzi L. (Pelletsatlas 2009), “Development and promotion of a transparent European Pellets Market Creation of a European real-time Pellets Atlas”.

81

Analisi economica della biomassa secondo l’approccio del Life Cycle

Costing

Stefano Bontempi [email protected], Alessandro Filisetti, Marco Setti - CIRI

“Energia e Ambiente”, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

Riassunto La trasformazione di un rifiuto in risorsa equivale, in termini economici, alla conversione di un costo in beneficio. L’impiego della biomassa nelle filiere produttive si muove proprio in questa direzione, dando enfasi alla crucialità e al ruolo che le fonti rinnovabili ricoprono nell’economia attuale. L’applicazione dell’approccio del ciclo di vita consente di monitorare in modo efficace ciascuna fase della catena del valore, incrementando così la performance del “sistema prodotto” tanto in termini ambientali quanto sotto il profilo economico. Nella presente ricerca si evidenzia come il Life Cycle Costing (LCC), correlato al Life Cycle Assessment (LCA) ma da esso strutturalmente indipendente, consenta di identificare le inefficienze ambientali nelle diverse fasi del pathway, individuandone nel contempo le opportunità di profitto. 1. Introduzione L’adozione del Life Cycle Thinking (LCT) come approccio di riferimento per l’analisi di un prodotto consente ai soggetti economici coinvolti nella filiera di monitorare ciascuna fase del ciclo di vita del prodotto stesso [1]. Ciò risulta essere propedeutico all’attuazione di un processo sistemico mediante il quale incrementare l’efficienza della performance tanto dal punto di vista ambientale quanto sotto l’aspetto economico. A maggior ragione quando il prodotto indagato è una risorsa energetica – la biomassa nel caso qui analizzato - si rende necessaria l’implementazione di un’attività di monitoraggio e di valutazione che tenga conto del comportamento fisico-economico della risorsa oggetto di studio lungo l’intero ciclo di vita, dalla fase di produzione forestale ed agricola sino alla trasformazione in energia elettrica e trasmissione tramite la rete di distribuzione. Bisogna tenere in considerazione innanzitutto che non sempre la risorsa “biomassa” coincide con lo sfruttamento di un bene residuale a fine vita e, quindi, è da considerarsi un rifiuto: la produzione di biomasse a scopo energetico può anche essere frutto di colture dedicate e perciò alternative alla destinazione alimentare. In questo secondo caso, la definizione dei relativi costi e benefici è di difficile misurazione ed interpretazione, dovendo infatti adottare una visione sistemica che integri nell’analisi economico-sociale complessiva la mancata produzione agro-zootecnica. Per quanto concerne in particolare l’analisi economica della biomassa attraverso l’approccio del Life Cycle Costing (LCC), fare proprio il punto di vista del ciclo di vita significa esaminarne la fattibilità tenendo conto dell’intera filiera produttiva, senza limitarsi alla mera valutazione dei costi di realizzazione e di gestione dell’impianto di trasformazione della biomassa in energia. Un’analisi del ciclo di vita consente infatti al produttore di individuare con maggiore facilità le opportunità di profitto, nonché di minimizzare il rischio imprenditoriale, ed alla supply

chain di considerare l’output di una fase (ad es. il rifiuto) un input per la fase successiva.

2. Relazione

2.1 La valutazione economica della biomassa

82

La biomassa di origine forestale ed agricola rappresenta circa il 60% delle fonti di energia rinnovabile sul territorio europeo. In particolare, l’80% di questa è costituita da legname a scopo combustivo. Tuttavia, negli ultimi anni si è registrato un incremento del contributo fornito dalle colture dedicate – le quali evitano qualunque forma di conflitto con la produzione dedicata all’alimentazione - dai residui e dai sotto-prodotti agroalimentari per la trasformazione della biomassa in prodotto da combustione ed in biofuel. Da questi dati emerge la necessità di implementare la metodologia per la misurazione della performance ambientale ed economica della biomassa in ciascuna fase della filiera, verificandone l’efficacia e l’efficienza secondo un approccio sistemico che tenga conto dei costi e dei benefici complessivi registrati lungo il ciclo di vita. Se il metodo LCA analizza l’efficienza tecnico-fisica del ciclo di vita della biomassa, analogamente il LCC ne estende la valutazione alla dimensione economica. Ed il primo esprime la sua più elevata efficacia nel caso in cui sia sviluppato contestualmente al secondo. Per tale motivo l’analisi economica dei costi interni che si realizzano lungo l’intero ciclo di vita della biomassa (produzione, trasporto, trasformazione) necessita di essere implementata e successivamente condivisa con il mondo scientifico. 2.2 L’approccio del Life Cycle Costing: stato dell’arte

Considerato più un criterio di valutazione che uno strumento di contabilità [2], il Life Cycle Costing è ad oggi orfano di una metodologia consolidata, o di un qualsivoglia standard o linee guida formali. In letteratura sono presenti numerosi casi di studio [3], pur trattandosi prevalentemente di applicazioni ad hoc, anche se negli anni passati si sono registrati i primi tentativi di uniformazione della metodologia [4]. Ad ogni modo, è pensiero condiviso il fatto secondo cui il Life Cycle Costing sia un approccio attraverso il quale sono considerati non solo i costi di investimento, ma tutti i costi che si registrano lungo il ciclo di vita del prodotto [5]. Nonostante la valutazione economica tramite LCC possa essere condotta indipendentemente dall’analisi degli impatti ambientali (LCA), è tuttavia spesso affiancata a questa [6]. Per di più, numerosi studi coprono solamente alcune fasi del ciclo di vita, escludendo quelle non direttamente imputabili al principale soggetto economico coinvolto (e di cui si tende ad assumere il punto di vista), rendendo perciò l’analisi incompleta ed ambigua [7]. Inoltre, il LCC è tuttora considerato come un modello statico, nonostante negli anni recenti alcuni casi di studio sul ciclo di vita dinamico siano stati abbozzati e proposti in letteratura [8]. Un forte limite presente in questi primi tentativi è la presenza di un ambiente statico che non è per sua natura in grado di registrare variazioni nelle politiche economiche e/o l’introduzione di innovazioni tecnologiche che possono aver luogo nel corso della vita del prodotto sotto osservazione (nel presente caso di studio, la biomassa). L’applicazione dell’approccio del ciclo di vita (produzione legnosa dal patrimonio forestale e colture agricole dedicate, trasporto dal luogo di produzione a quello di trasformazione, trasformazione della biomassa in energia elettrica in impianto) consente di monitorare ciascuna fase della supply chain e di incrementarne la performance dal punto di vista ambientale ed economico. Ad oggi, il mondo scientifico ha sviluppato poche ricerche sull’analisi economica del ciclo di vita della biomassa tramite LCC - specialmente riguardo la produzione di bioetanolo [9], rendendo ancor più evidente l’attuale carenza della valutazione economica dei costi della biomassa lungo il suo ciclo di vita (LCC) tanto nel contesto nazionale quanto in quello europeo. 2.3 L’analisi economica della biomassa: principali punti critici

83

L’analisi del ciclo di vita della biomassa dal punto di vista economico necessita innanzitutto di una uniformità metodologica e di una validità scientifica che tengano in considerazione diversi aspetti, tra cui: - la tipologia di biomassa indagata e la finalità a cui questa è destinata: la biomassa deriva dal legname forestale, dal settore agro-alimentare (dalle colture dedicate in modo particolare) e dagli scarti e sottoprodotti che si manifestano nelle diverse fasi della filiera; - la logistica: dal punto di vista economico (ed ambientale), la distribuzione spaziale del bacino rurale per l’approvvigionamento della biomassa e degli impianti di trasformazione, nonché la distanza tra questi, incide notevolmente sui costi di gestione e di trasporto, sulla sostenibilità della filiera, sul risultato finale e sulla efficienza economica della risorsa; - l’impianto di trasformazione: la dimensione e la potenza dell’impianto da installare, il tempo di funzionamento annuo per ogni KW installato, il quantitativo di energia elettrica impiegata nel processo sono variabili di cui tenere conto nel computo sistemico dell’analisi; - le politiche economiche e fiscali: la fiscalità vigente, l’eventuale premium price riconosciuto in ogni step della supply chain e gli incentivi governativi modellano la convenienza economica della risorsa biomassa ed il risultato dell’analisi. Per ciò che concerne gli ultimi, è da considerarsi elevato il rischio secondo cui, una volta terminati, il vantaggio economico della trasformazione delle biomasse in energia rispetto alle fonti di origine fossile potrebbe ridursi notevolmente o, all’estremo, invertire di segno [10]. La filiera della biomassa coinvolge numerosi soggetti economici, ciascuno dei quali impegnati in e responsabili di ciascuna singola fase della supply chain. Per tale motivo, il punto di vista da cui viene effettuata la valutazione economica riveste un ruolo fondamentale nell’analisi, e rappresenta altresì uno degli aspetti di maggior discrepanza metodologica e concettuale presenti in letteratura: in generale, l’analisi economica misura tutti i costi lungo il ciclo di vita, pur riconoscendo che ciascuno di questi grava su diversi attori, la cui percezione dei costi può variare sensibilmente. Adottare la visuale di (ciascun) singolo soggetto economico coinvolto o sposare una prospettiva sistemica che tenga conto di tutti i costi e di tutti i benefici registrati “dalla culla alla culla” [11] (allocati poi nella specifica fase del ciclo di vita con l’ausilio di metodologie come il c.d. “Activity- Based Model” [12]) rappresenta una scelta dicotomica di notevole rilievo. I soggetti economici coinvolti lungo la supply chain spesso si trovano a dover sostenere ingenti costi di transazione per la presenza di asimmetrie informative dovute alla mancanza di un’opportuna conoscenza delle tecnologie disponibili e del funzionamento del mercato. Per tale motivo l’individuazione del break even point, ovvero il momento in cui la propria attività genera ricavi pari ai costi sostenuti, riveste un ruolo cruciale nell’attività stessa. Una volta conosciuto il punto di soglia, si fissa un corretto posizionamento sul mercato e, di conseguenza, si definiscono il prezzo e la quantità ottimali [10]. Un ulteriore strumento è il calcolo della curva di isocosto, mediante la quale si indicano tutte le combinazioni possibili tra livello della produzione e prezzo necessarie per perseguire il break even point: attraverso tale curva, infatti, si è in grado di definire il prezzo ottimale data

la produzione o di fissare la produzione dato il prezzo di vendita [10]. Ma come si può perseguire un ricavo, ovvero un beneficio, che “più che compensi” il costo sostenuto da parte dei soggetti coinvolti nella filiera biomassa? Non solo la presenza degli incentivi è di fondamentale importanza perché si possa parlare di convenienza economica dell’impiego delle biomasse a scopo energetico, e non solo l’impianto deve essere adeguatamente dimensionato in base alla disponibilità della biomassa, o il ROI vada perseguito entro il periodo in cui vengono percepiti gli incentivi. Da ciò emerge come l’imprenditore debba essere direttamente impegnato tanto nella fase agronomica di lavorazione e fornitura della materia prima (fase a monte), quanto nello stadio di

84

trasformazione della biomassa in energia (fase a valle), gestendo personalmente l’intera supply chain in un’ottica del ciclo di vita. Solo in questo caso il rifiuto diventa risorsa, l’output un nuovo input, il costo un ricavo. Viceversa, l’imprenditore che si limita alla fase a monte rischia di dover sostenere costi di produzione colturale troppo elevati rispetto ai ricavi generati dalla vendita della materia prima destinata al processo di trasformazione in energia. E l’imprenditore concentrato unicamente nella fase energetica si trova a dover pagare prezzi elevati (spesso maggiorati del premium

price) per acquisire la biomassa dall’imprenditore agricolo. 3. Conclusioni Il Life Cycle Thinking è l’approccio concettuale attraverso il quale si rende possibile misurare gli impatti ambientali ed economici di un prodotto lungo l’intero ciclo di vita. Nel presente studio sono stati analizzati gli strumenti di analisi LCA ed LCC applicati alla risorsa “biomassa”, la quale da scarto dei processi produttivi diventa input energetico (combustione, biofuel). Nonostante la disomogeneità metodologica che caratterizza il Life Cycle Costing a livello teorico ed applicato (Ciò non riguarda invece l’analisi fisica degli impatti ambientali tramite il Life Cycle Assessment, approccio più maturo e regolamentato dalle norme della serie ISO 14040) , è stata dimostrata la potenzialità dell’approccio, strettamente correlato al LCA ma da esso indipendente, mediante il quale si identificano e si misurano i costi che si manifestano lungo l’intera filiera del prodotto (la biomassa in questo caso). Elevare l’analisi tecnico-fisica del ciclo di vita della biomassa alla dimensione economica permette non solo di individuarne i costi, ma anche di imputarli alle specifiche fasi della filiera e, di conseguenza, di attribuirli ai direttiresponsabili mediante il c.d. “Activity-Based Model” [12,13]. L’introduzione delle variabili “tempo” e “spazio” nelle metodologie LCA ed LCC rappresenta una prossima sfida nella ricerca: la possibilità di superare la staticità del modello introducendo variabili dinamiche permette di prendere in considerazione l’evoluzione dell’attorno sia in termini di introduzione di innovazioni tecnologiche che di nuove politiche economiche ed ambientali (ad es. un incentivo o una tassa) che possono manifestarsi nel corso del ciclo di vita della biomassa, influenzando così il risultato finale dell’analisi. Un’ulteriore sfida futura riguarda l’introduzione nell’analisi di fattori economici quale il livello di occupazione diretta, indiretta e indotta generato dall’attività produttiva e di trasformazione lungo l’intera filiera, da calcolare al netto della contrazione di posti di lavoro in altri settori per lo spostamento verso il nuovo ambito. Infine, affinché i risultati derivanti dall’analisi ambientale ed economica siano tra loro confrontabili, è possibile contemplare l’applicazione di opportune metodologie di conversione in moneta degli impatti espressi in termini fisici (ad es.: Choice Experiments, Contingent Valuation), in modo tale da uniformare sotto la medesima unità di misura le grandezze misurate. Affiancare ai costi e ai ricavi tradizionali i costi e i benefici esterni significa completare l’analisi del ciclo di vita secondo una visione sistemica. In questo caso, però, il rischio di double counting si fa concreto, contabilizzando gli impatti ambientali sia nell’analisi fisica che in quella economica. La ragione per cui è tuttora preferibile mantenere i due aspetti correlati ma tra loro separati risiede proprio nell’evitare questo errore metodologico. In conclusione, il settore della biomassa è - e deve restare - locale e strettamente legato al territorio di appartenenza. E il processo produttivo da lineare deve diventare circolare: secondo l’ottica del ciclo di vita, un rifiuto, ovvero un output di una fase del processo, può strategicamente trasformarsi in input della fase successiva. Solamente tramite una misurazione puntuale (fisica, LCA, ed economica, LCC) l’impatto ambientale ed i costi

85

interni possono essere ridotti lungo l’intero ciclo di vita, ed uno scarto può davvero diventare una nuova risorsa. Bibliografia [1] UNEP, SETAC. 2009. “Life Cycle Management: How business uses it to decrease footprint, create opportunities and make value chains more sustainable”. [2] Swarr, Thomas E. et al. 2011. “Environmental life-cycle costing: a code of practice.” The International Journal of Life Cycle Assessment 16(5): 389-391. [3] Korpi, Eric, and Timo Ala-Risku. 2008. “Life cycle costing: a review of published case studies.” Managerial Auditing Journal 23(3): 240-261. [4] Asiedu, Y., Gu, P. 2010. “Product life cycle cost analysis : State of the art review.” International Journal of Production Research (September 2011): 37-41. [5] Rebitzer, Gerald, and David Hunkeler. 2003. “Discussing a Framework.” International Journal 8(Wced 1987): 253 - 256. [6] Ciroth, Andreas, Juliane Franze, and Greendeltatc, Berlin. 2009. “Life Cycle Costing in SimaPro.” (August): 1-10. [7] Rebitzer, Gerald, and Stefan Seuring. 2003. “Methodology and application of Life Cycle costing.” The International Journal of Life Cycle Assessment 8(2): 110-111. [8] Levasseur, Annie et al. 2008. “The Basics of Dynamic LCA Development.” Structure: 1-4. [9] Luo, Lin, Ester van der Voet, and Gjalt Huppes. 2009. “Life cycle assessment and life cycle costing of bioethanol from sugarcane in Brazil.” Renewable and Sustainable Energy Reviews 13(6-7): 1613-1619. [10] Ragazzoni Alessandro. 2011. “Biogas – Normative e biomasse: le condizioni per fare reddito”. Ed. L’Informatore Agrario. [11] McDonough, William, Braungart, Michael. 2002, “Cradle To Cradle – Remaking the Way We Make Things”, North Point Press. [12] Rivero, Edilberto J. Rodríguez, and Jan Emblemsvåg. 2007. “Activity-based life-cycle costing in long-range planning.” Review of Accounting and Finance 6(4): 370-390. [13] Emblemsvåg, Jan. 2003. “Property Management Life cycle costing”. John Wiley & Sons, Inc., Hoboken, New Jersey.

86

Environmental policies, public abatement spending and the timing of

emission reductions

Elettra Agliardi [email protected] - Department of Economics, University of Bologna

and Rimini Center for Economic Analysis, Rimini

Luigi Sereno - Department of Economics, University of Bologna, Bologna

Summary The effects of four environmental policy options for the reduction of pollution emissions, i.e. taxes, emission standards, auctioned permits and freely allocated permits, are analyzed. The setup is a real option model where the amount of emissions is determined by solving the firm's profit maximization problem under each policy instrument. The regulator solves an optimal stopping problem in order to find the critical threshold for policy adoptions taking into account revenues from taxes and auctioned permits and government abatement spending. In this framework we find the ranking of the alternative policy options in terms of their adoption lag and social welfare. We show that when the output demand is elastic emission standards are preferred to freely allocated permits. Taxes and auctioned permits are equivalent in terms of their adoption lag and social welfare, however, through simulations we show that these are less preferred than emission standards and freely allocated permits in such a framework. 1. Introduction Policy instruments to promote environmental protection can take various forms and include official restrictions and positive incentives designed to control activities that may be harmful to the quality of environment. Taxes and subsidies can be effective to encourage compliance with environmental policy. Tradable emission permits allow the government to give companies licenses to pollute as much as they wish to the extent that they pay the price. Thus, companies can buy, sell and exchange these permits in a market. Other environmental policy instruments include legislations enacted to prohibit the use of certain harmful substances, set limits on emissions, enforce certain technical standards, limit some activities in special areas such as nature reserves or car-free areas in cities and control land use planning. All the listed environmental policies are usually welfare distorting and thus it becomes relevant to rank alternative policy options and assess their relative desirability in terms of environmental quality and social welfare. In this paper the effects of four environmental policy options for the reduction of pollution emissions, i.e. taxes, emission standards, auctioned permits and freely allocated permits, are analyzed. The setup is a real option model where the adoption timing of each policy instrument is analyzed. Our work endogenously takes into account the level of emissions before and after the adoption of the new environmental policy. The level of emissions is determined for each policy instrument by solving the profit maximization problem of a duopolistic firm under Cournot competition. The policy variables are kept fixed over time, in order to compare the implementation timing of the alternative policy options. The regulator solves an optimal stopping problem in order to find the critical threshold for policy adoptions taking into account revenues from taxes and auctioned permits and government spending. In our model, the government revenues generated by pollution taxes and auctioned permits are used to finance pollution abatement activities. Our paper improves on the current literature in several dimensions. To the best of our knowledge, this is the first paper where public abatement spending is embedded in a real option framework about the timing of emission reductions. Moreover, in our model the

87

regulator's objective function differs from the usual Pindyck (2000 [1], 2002 [2]) social damage, because it takes into account both the firms' profits, the consumers' surplus and the social damage from pollution allowing us to discuss the implications of the above policy interventions (i.e., taxes, emission standards, auctioned permits and freely allocated permits) from the point of view of social welfare. Our paper extends and generalize previous works on uncertainty affecting the policies to control pollution (i.e., Saphores and Carr, 2000 [3]; Nishide and Ohyama. 2009 [4]; Xepapadeas, 2001 [5]; Van Soest, 2005 [6]; Wirl, 2006 [7]; Agliardi, 2011[8] and Agliardi and Sereno, 2011 [9]) by considering an industry where firms compete à la Cournot, while the above-mentioned papers have been concerned with a purely decision theoretic framework. Since our analysis compares four policy instruments, it is also more exhaustive than most of them.

2. Report We consider a market consisting of two profit-maximizing firms that produce a homogeneous product. The linear inverse demand function is ,0,,)( >−= babQaQp Where p is the output market price, 21 qqQ += is the aggregate output and iq denotes the level of production of firm .i Output production generates pollution and this damages the quality of the environment. Let

ie denote the discharges of the i th firm. To manage this emission, each firm installs an abatement technology. Following Coria (2009 [10]) and Montero (2002 a [11],b [12]), we assume that the total abatement cost for each firm can be described as 2

iirc , where ic is an index of cost and ir is the quantity of emissions that firm i reduces, that is ).( eqr ii −= There are no further production costs. Firms are assumed to compete à la Cournot in the output market.

2.1 The Pollution Process

Let tM be a state variable that summarizes the stock of pollution, i.e., the average concentration of CO2 in the atmosphere or the acidity level of a lake, and let tE be the aggregate level of emissions, ttt eeE ,2,1 += , that controls tM . The evolution of tM over time

is assumed to follow the same differential equation in Pindyck (2000):

MMdtMEdM ttt =−= 0,)( δ (1)

where 10 <≤ δ is the rate of natural decay of the pollutant stock over time, i.e., a fraction δ of the pollutant in the atmosphere diffuses into the ocean, forests and soil. We consider environmental policies which involve a one-time reduction in tE . Specifically, we denote by τ the unknown adoption time of the new environmental policy and assume that the dynamics of tM changes after :τ

≥−

<≤−=

τδτδ

tdtME

tdtMEdM

tA

tN

t

for)(

0for)( (2)

The superscripts N and A indicate the state of no-adoption and adoption of the new environmental policy, respectively. That means that until a policy is adopted tE stays at the constant initial level E

N while policy adoption implies a one-time reduction to a new permanent level ,AE with NA EE <≤0 . Hence, AE quantifies the reduction of pollution growth induced by the abatement activities of the whole industry. Under this assumption, the speed of pollution accumulation is reduced by AN EE − , affecting positively the quality of the

88

environment. In the next section we endogenously determine NE and AE by solving the firm's profit maximization problem under each policy instrument.

2.2 The firm's profit maximization problem

At any time, the firm i has to decide about the optimal levels of emission ie and output iq to maximize the instantaneous operating profit iπ . In the absence of any environmental regulation, the operating profit of firm i at time t equals revenue minus the total abatement cost:

2,1,)()( 2 =−−= ieqcqQp iiiii forπ (3)

The optimal levels of emission and output for each firm is given by the first order conditions (FOCs) for ie and iq :

0)(2 =− iii eqc (4) 0)(2)()( =−−′+ iiii eqcqQpQp

Equation (3) says that, in the absence of any environmental regulation, production leads to iq units of emissions (i.e., ii qe = ). Therefore, firm i will not abate any pollution. Thus:

b

a

b

ae

b

aq N

iNi

Ni 9

and3

,3

2

=== π . The profit maximization problem allows us to determine the

level of emissions tE before the adoption of the new environmental policy, that is,

.21NNN eeE += (5)

We assume that the regulatory goal is to limit the quantity of industry emissions at some level AE by means of one of the following four environmental policy instruments: emissions taxes,

standards, freely allocated tradable permits and auctioned permits. To make instruments directly comparable we assume that, in the initial situation, the level of emissions is the same under all four regimes. We assume that the environmental regulator has determined the Pigouvian tax )(ζ that equates the marginal benefits and costs of pollution. The emission

target AE is then assumed to be equal to the amount of emissions that the firms will produce, given this tax rate. Hence, the objective of the environmental regulator is to cap the aggregate level of emissions at AE either by establishing standards for firms or by issuing tradable permits to be distributed gratis or auctioned off. Under emission standards, firms' emissions are limited to 1e and 2e respectively, such that .21

AEee =+ Under a permits system, a total

number of AE permits are either distributed freely, or auctioned off. 2.3 Taxes

In this section we compute the firm's operating profit under taxes and determine the level of emissions AE which serves as a benchmark for the reduction of emissions. Under tax regulation and Cournot competition, each firm looks for the output and the mix of abatement plus tax payment that maximizes profits. If the environmental regulator has decided to charge a per unit fee equal to ζ , then firm i will maximize the following profit function:

2,1},2)()({

,max)( =−−−= iieieiqiciqQp

iq

ie

TaxesA

iforζπ (6)

The optimal level of emissions and output for each firm is given by the FOCs for ie and iq :

,)(2 ζ=− iii eqc (7) .0)(2)()( =−−′+ iiii eqcqQpQp

89

(4) indicates that at the optimum, each firm faces a marginal abatement cost equal to the

emission tax ζ . The optimal level of output of the two firms is ,3b

aq A

i

ζ−= where it is

assumed that ζ>a in order for equilibrium quantities to be positive. Moreover, each individual firm's optimal level of emission under taxes, is:

,6

232

ibc

icb

iacA

ieζζ −−

= (8)

where ζζ

3)(2 −< acib is required, for equilibrium emissions to be positive. Notice that N

iAi ee <

for any level of .ζ Substituting ( ,Aiq A

ie ) into the profit under taxes, we obtain firm i 's profit:

.36

2)49(824)(

ibc

icb

iac

icaTaxesA

i

ζζπ

++−=

The aggregate level of emissions tE which serves as a benchmark for reduction of emissions is:

.21AAA eeE += (9)

2.4 Emission standards

Under emission standards regulation and Cournot competition, the firms will maximize the following profit function:

},)()({max)(2

iiii

A

ieqcqQp

iq

Standards−−=π (10)

subject to ii ee ≤ where ie is the emission standard established for firm i . Setting ii ee = we assume that the emission standard is equal to the amount of emission that the firm produces under taxes )( A

ie . Computing the optimal level of output and the operating profit we find:

,3b

aq A

i

ζ−= and .

36

2)89(424)(

ibc

icb

iac

icaStandardsA

i

ζζπ

+−+=

Observe that StandardsTaxes A

i

A

i)()( ππ < for any level of ζ .

2.5 Permits

Under tradable permits regulation, each firm looks for the output and the mix of abatement plus emission permits that maximize profits. Following Montero (2002 a,b) and Coria (2009), freely allocated permits and auctioned permits can be analyzed within a unique framework. Denote by )0(>iε the quantity of permits received by firm i and by β the market-clearing

price of permits after a total of AE permits have been distributed gratis by the regulator. If instead the AE permits are auctioned off 0=iε , and both firms become buyers of permits. Under permits regulation, the firms will maximize the following function:

)}.()()({,

max)(2

iiiiii

A

ieeqcqQp

iq

ie

Permitsεβπ −−−−= (11)

The optimal level of emissions and production for each firm is given by the FOCs for ie and

iq :

,)(2 β=− iii eqc (12) .0)(2)()( =−−′+ iiii eqcqQpQp

The permits demand for each firm is obtained from (12):

.2

2

ic

iq

ic

ie

β−= (13)

2.6 The regulator’s problem

In this section we analyze the behavior of the regulator and the optimal stopping problem under each instrument.

90

2.6.1 The optimal stopping problem under each policy instrument

Using v ( FrPSTv ,,= and AuP ) to denote the policy regime (i.e., taxes, emission standards, freely allocated tradable permits and auctioned permits, respectively), in each period the regulator is supposed to decide whether to adopt the new environmental policy v or to postpone it to the next period. Like Pindyck (2000), we assume that the flow of social costs (i.e. damages) associated with the stock variable tM is measured by the linear function ,),( tttt MMD θθ = where tθ is a variable that stochastically shifts over time to reflect the damage due to the pollutant and is assumed to follow a geometric Brownian motion:

θθσθαθθ =+= 0, tttt dzdtd (16)

for constants 0, >< σα r , tdz is the increment of a standard Wiener process and r denotes the risk-free rate of interest. The process tθ is assumed to capture economic uncertainty over future costs and benefits of policy adoptions. For example, changes in tθ might reflect the innovation of technologies that would reduce the damage from a pollutant, or a change in the society environmental sensitivity that would increase the social cost of tM . The linearity of

),( tt MD θ is convenient because it makes the optimal policy independent of the stock .tM Let ),( tt MB θ denote the net benefit from emissions, i.e. the sum of consumer surplus )(CS plus the total profits earned by the firms )(Π minus the environmental damage due to firms' production, D . If the regulator adopts the policy v , the net benefit, is:

AuP

FrPSTvtMt

ADv

ACStMt

AvB

A and for ,,),,()(),( =−Π+= θθ

where vvvAAA)()()( 21 ππ +=Π is the aggregated profit under each policy instrument. Given the

demand curve, the consumer surplus ACS is equal to 2)(

2A

QbA

CS = , where AAA qqQ 21 += is the

aggregate quantity in the presence of intervention. On the other hand, if the regulator never adopts the policy ,v the net benefit is ,),(),( tt

NNNtt

N MDCSMB θθ −Π+=

where NNN21 ππ +=Π is the aggregated profit with no intervention, 2

2 )( NbN QCS = is the

consumer surplus and NNN qqQ 21 += is the aggregate quantity in the absence of intervention. Both an emission tax and a system of auctioned permits generate government revenues (which equal the tax rate times the determined emission target under taxes), while emission standards and freely allocated permits do not generate any government revenue. The revenue from taxes and auctioned permits can be used to used to finance pollution abatement activities, e.g. abatement of water pollution, air pollution, and, more generally, policies that protect the natural resources. Such policies are costly and a major conviction is that public finance should play a role in meeting such requirements (see also European Commission Reports, 2009, 2010). 2.6.2 Budget constraint

Pollution taxes generate AEζ revenues. Suppose that the government decides to use these revenues to finance pollution abatement activities. Assuming a balanced budget, we have AEGS ζ= where GS denotes government spending. Under emission standard regulation, firms' emissions are limited to the quantity of emissions that the firms will produce under taxes. Hence, in this situation there are neither public revenues nor pollution abatement activities, i.e. .0=GS Finally, under tradable permits system, a total number of AE permits are either distributed freely or auctioned off. Hence, the government spending is equal to

AEGS ζ= if permits are auctioned off and is equal to 0=GS if permits are distributed freely.

91

2.6.3 The pollution process and the regulator's problem with public abatement expenditures

It is reasonable to modify the pollution dynamics in the adoption region in the following way: τδξδ ≥−=−−= tdtMdtMGSEdM t

At

At for ,)()(

Under this assumption, the speed of pollution accumulation is reduced by a factor GS which measures the environmental benefits associated with the government spending on pollution abatement activities. It is helpful to rewrite (2) as follows

,,)(

0)(

≥−

<≤−=

for

for

vtdtMl

vtdtME

tdM

tA

tN

τδ

τδ

where:

.

,

,

=

==FrPSvAE

AuPTvAA

lif

if ξ

with AAA EGSE )1( ζξ −=−≡ . In such a framework there is more abatement with taxes and auctioned permits than with emission standards or freely allocated permits for 10 << ζ .

Let )( AN lEK − be the (sunk) cost of permanently reducing the emission flows, which is

given by )()()( 21ANANAN lEhlEhlEK −+−=− with ,1h ,02 ≥h and AAl ξ= if Tv = , AuP and

AA El = if Sv = , FrP . Here the cost of permanently reducing emission flows is larger under taxes and auctioned permits than under emission standards and freely allocated tradable permits. It is also in keeping with some empirical evidence, where emission standards and freely allocated permits are easier to be implemented and require smaller organizational and administrative costs. The objective of the regulator is to choose the optimal timing of adopting policy v that would reduce emissions to Al such that the expected net present value function (using the discount rate r ) of the difference between the net benefit ),( tt MB θ and the cost of policy adoption

)( AN lEK − is maximized:

,)(),(0

sup),(

−−−∫∞

∈=

tv

relEKdtMBrte

v

MvW ANtt F

T

τθ

τθ E

subject to Eq. (1) for the evolution of tM and Eq. (16) for the evolution of tθ . Here, T is the class of admissible implementation times conditional to the filtration generated by the stochastic process .tθ As usual, it is assumed that αδ >+r for the integrability of the net benefit function ),( tt MB θ Applying the Dixit and Pindyck (1994 [13]) methodology, we can derive the optimal timing for the four environmental policies and the values to reduce emissions under the four environmental policies. In particular, we can compute the critical threshold vθ

~ , FrPSTv ,,=

and AuP such that it is optimal to adopt policy v for vθθ~

> , with:

,)()())()((2)1()(

211~ 22

1

−+Π−Π+−−−

=

AN

vANAN

ANlErKQQ

b

lErv φ

κκφθ where AAl ξ= if Tv = ,

AuP , AA El = if Sv = , FrP ,

ακ −= r1 , αδκ −+= r2 and 1φ is the positive solution to the standard characteristic

equation. From a comparison between the thresholds Tθ~ and AuP

θ~ and between the welfare

functions TW and ,AuPW we can get the following main results:

Proposition 1 Assuming that the collected revenues are used to finance pollution abatement

activities: (i) the optimal adoption threshold under taxes is the same as the optimal adoption

threshold under auctioned permits; (ii) the value of the welfare function W under taxes is

the same as the value of the welfare function W under auctioned permits.

92

For the following, let )2))21(22(1(3

)(214

ζζεε

ζ

ccc

accb

+++

−=

∗ be the critical value of the slope of market demand

b that makes the regulator indifferent between adopting emission standards and freely allocated permits. From a comparison between the thresholds Sθ

~ and FrP

θ~ and between the

welfare functions TW and ,AuPW we can get the following main results:

Proposition 2 Assuming that the collected revenues are used to finance pollution abatement

activities: (i) the optimal adoption threshold under freely allocated permits is larger than the

adoption threshold emission standards for ;0 ∗<< bb (ii) the optimal adoption threshold

under emission standards is larger than the adoption threshold under freely allocated permits

for .∗> bb

Proposition 3 Assuming that the collected revenues are used to finance pollution abatement

activities: (i) the value of the welfare function W under freely allocated permits is smaller

than the value of the welfare function W under emission standards for ∗<< bb0 ; (ii) the

value of the welfare function W under emission standards is smaller than the value of the

welfare function W under freely allocated permits for .∗> bb

Propositions 1,2, and 3 are a straightforward consequence of the following facts: (i) the (aggregated) profit under auctioned permits is equal to the profit under taxes, and (ii) the (aggregated) profit under emission standards is larger than the operating profit under freely allocated permits for ∗<< bb0 , while for ∗> bb the operating profits under freely allocated permit is larger than the operating profits under emission standards. The comparison between emission standards and freely allocated permits depends ultimately on the market price elasticity. If the output demand is more elastic (b smaller), then freely allocated permits offer smaller incentives than emission standards; alternatively, if it is more inelastic (b larger), then the reverse is true. Thus, Propositions 2, 3 provide us with a ranking between emission standards and freely allocated permits in this setting, in a non equivocal way. It is found that emission standards are more conducive to early adoption than freely allocated tradable permits for ∗<< bb0 . Regulators may care about early adoption: in this case, emission standards outperform freely allocated permits, i.e. they should be the preferred policy instrument. Contrarily, for ∗> bb freely allocated permits are more conducive to early adoption than emission standards. Unfortunately, we cannot compare the critical threshold under taxes and auctioned permits with the critical thresholds under emission standards and freely allocated permits, in our theoretical model. The reason is that there is more abatement with taxes and auctioned permits than with emission standards or freely allocated permits and hence the levels of emissions are different under the different policy instruments. However, numerical simulations allow us to compare the critical thresholds under taxes, emission standards and permits. This will help us to shed light on the possible rankings of the policy instruments under different specifications of the parameter values.

3. Conclusions: numerical simulations We assume that in the base case: α=0.01 (drift-rate of economic uncertainty), r=0.04 (risk-free interest rate), σ=0.2 (volatility of economic uncertainty), δ=0.02 (natural rate of dispersion of pollution), h₁=100 (proportional cost), h₂=100 (adjustment cost), a=5 (average market size), b=1 (slope of the market demand), c₁=4 (index of cost for firm 1), c₂=3 (index of cost for firm 2), ε₁=3 (quantity of emissions permits received by firm 1), ε₂=2 (quantity of emissions permits received by firm 2), ζ=0.2 (emission tax). The case b=1 corresponds to an inelastic demand case.

93

Figure 1 shows the relation between the critical threshold vθ~, v=T,S,P

Fr and PAu and the volatility σ. The dashed curve refers to the critical threshold under taxes, the solid curve to emission standards and the dotted curve to freely allocated tradable permits. We recall that the critical threshold under taxes coincides with the critical threshold under auctioned permits. We consider values of the volatility σ ranging from 0 to 1. As in Pindyck (2000), the critical thresholds are upward sloping with respect to σ. The reason is that an increase of economic uncertainty over future payoffs from reduced emissions increases the value of waiting and raises the critical threshold vθ

~. The simulation provides us with a ranking between taxes,

emission standards, freely allocated tradable permits and auctioned permits (in terms of their adoption lag) when σ increases. We observe that the critical threshold under taxes and auctioned permits is larger than the critical thresholds under emissions standards and auctioned permits; moreover, it is found that the critical threshold under freely allocated permits is lower than the critical thresholds under emissions standards, taxes and auctioned permits. That means that freely allocated permits are more conducive to early adoption than emission taxes, emission standards and auctioned permits in this base case. Figure 2 shows the relation between the critical threshold vθ

~, v=T,S,P

Fr and PAu and the slope of the market demand b. The dashed curve refers to the critical threshold under taxes and auctioned permits, the solid curve to emission standards and the dotted curve to freely allocated tradable permits. We consider values of b ranging from 0.1 (elastic output demand case) to 2 (inelastic output demand case). The critical thresholds are downward sloping with respect to b. The reason is that a higher b would reduce the level of emission flow and reduce the social cost of environmental damage and thus necessitates a lower θ for the investment in reduced emissions to take place. The numerical simulation provides us with a ranking between taxes, emission standards, freely allocated tradable permits and auctioned permits, in terms of their adoption lag, when b increases. It is found that (i) the critical threshold under taxes and auctioned permits is larger than the critical thresholds under emissions standards and freely allocated permits; (ii) the critical threshold under freely allocated permits is larger than the critical threshold under emission standards for values of b ranging between 0.1 and about 0.63, while the critical threshold under emission standards is larger than the critical threshold under freely allocated permits for values of b greater than about 0.63. Thus, the regulator is indifferent between adopting emission standards and freely allocated permits when b≅0.63. The regulator will prefer emission standards to freely allocated permits when the value of b ranges between 0.1 and (about) 0.63. And finally the regulator will prefer freely allocated permits to emission standards when the value of b is greater than (about) 0.63.

0.0 0.2 0.4 0.6 0.8 1.00

1

2

3

4

5

6

VOLATILITY OF ECONOMIC UNCERTAINTY

CRIT

ICALTHRESH

OLDS

Fig.1 - Relation between the critical threshold Tθ~ and Au

Pθ~ and the volatility of

economic uncertainty σ (dashed curve). Relation between the critical thresholds

Sθ~ and the volatility of economic uncertainty σ (solid curve). Relation between the

critical thresholds FrPθ~ and the volatility of economic uncertainty σ (dotted curve).

94

0.5 1.0 1.5 2.00.0

0.2

0.4

0.6

0.8

1.0

1.2

1.4

SLOPE OF THE MARKET DEMAND

CRIT

ICALTHRESH

OLDS

Fig.2 - Relation between the critical threshold Tθ~ and Au

Pθ~ and the slope of market

demand b (dashed curve). Relation between the critical thresholds Sθ~ and slope of

market demand b (solid curve). Relation between the critical thresholds FrPθ~ and

slope of market demand b (dotted curve).

References [1] Pindyck R.S., 2000. “Irreversibilities and the timing of environmental policy”. Resource and Energy Economics 22, 223-259. [2] Pindyck R.S., 2002. “Optimal timing problems in environmental economics”. Journal of Economic Dynamics and Control 26, 1677-1697. [3] Saphores J.D.M., Carr P., 2000. “Real options and the timing of implementation of emission limits under ecological uncertainty”. In: Brennan, M.J., Trigeorgis, L. (Eds.), Project Flexibility, Agency and Competition. New Developments in the Theory and Applications of Real Options. pp. 254-271. [4] Nishide K., Ohyama A., 2009. “Using real options theory to a country's environmental policy: considering the economic size and growth”. Operational Research: An International Journal 9, 229-250. [5] Xepapadeas A., 2001. “Environmental Policy and Firm Behavior: Abatement Investment and Location Decisions under Uncertainty and Irreversibility” in: Behavioral and Distributional Effects of Environmental Policy. [6] Van Soest D., 2005. “The impact of environmental policy instruments on the timing of adoption of energy-saving technologies”. Resource and Energy Economics 27, 235-247. [7] Wirl F., 2006. “Consequences of irreversibilities on optimal intertemporal CO2 emission Policies Under Uncertainty”. Resource and Energy Economics 28, 105--123. [8] Agliardi E., 2011. “Sustainability in uncertain economies”. Environmental and Resource Economics 48, 71-82. [9] Agliardi E., Sereno L., 2011. “The effects of environmental taxes and quotas on the optimal timing of emission reductions under Choquet-Brownian uncertainty”, Economic Modelling 28, 2793-2802. [10] Coria J., 2009. “Taxes, Permits and the diffusion of a new technology”. Resource and Energy Economics 31, 249-271. [11] Montero J.P., 2002a. Market structure and environmental innovation. Journal of Applied Economics 5, 293-325. [12] Montero J.P., 2002b. Permits, standards, and technology innovation. Journal of Environmental Economics and Management 44, 23-44. [13] Dixit A.K., Pindyck R.S., 1994. Investment Under Uncertainty. Princeton University Press, Princeton.

95

Caratterizzazione di sedimenti da dragaggio: valutazione della mobilità di

inquinanti inorganici, e degli effetti del trattamento di Soil Washing

Claudio Corticelli [email protected], Ivano Vassura, Fabrizio Passarini, Luciano

Morselli - Università di Bologna, Polo di Rimini

Riassunto Nell’ambito della caratterizzazione di fanghi da dragaggio portuali, ci si è occupati di valutare la mobilità degli inquinanti inorganici presenti. Si è lavorato su sedimenti reali e sui prodotti in uscita dal trattamento di Soil Washing. Si è operato tramite test di cessione, a pH controllato ed a percolazione, per valutare la lisciviabilità delle componenti inorganiche in processi analoghi a quelli che subiscono i sedimenti una volta stoccati nell’ambiente. Si è inteso valutare l’effetto del trattamento sulla mobilità degli inquinanti. Questo permette di valutare la pericolosità dei materiali, passando dall’inquadramento nelle normative per gli inquinanti nei suoli a quelle per gli eluati per l’ammissibilità in discarica dei rifiuti inerti o non pericolosi. 1 Introduzione Il problema della ricollocazione dei sedimenti da dragaggio dei porti è sempre più pressante, poiché i materiali di risulta sono volumetricamente consistenti, e le normative riguardanti il loro smaltimento sempre più vincolanti, a causa delle maggiori attenzioni riguardanti l’ambiente e la sua conservazione [1]. I sedimenti dragati sono spesso contaminati da inquinanti di diverso tipo, distinguibili in due grandi macroaree: metalli pesanti, e idrocarburi, derivanti da attività industriali nelle aree portuali e dal transito di natanti. Diversi trattamenti sono possibili per migliorare le caratteristiche dei materiali o recuperarne, almeno una parte, come materia prima secondaria, ci si è occupati quindi di valutare gli effetti, in tal senso, del trattamento di Soil Washing. In questo lavoro ci si è occupati della caratterizzazione di campioni di fanghi da dragaggio soffermandosi in particolare sulla mobilità (lisciviabilità) degli inquinanti inorganici presenti, e su come questa si presenta modificata dopo il Soil Washing. E’ importante comprendere, oltre al carico di contaminanti, la loro natura e la loro biodisponibilità, che varia a seconda dello scenario di ricollocazione. A tal fine sono stati effettuati test di cessione, seguendo le specifiche tecniche UNI CEN/TS 14997 [2] e UNI CEN/TS 14405 [3]. 2 Relazione

2.1 Test di lisciviazione

Il test UNI CEN TS 14997, si prefigge di valutare l’influenza del pH sul rilascio degli analiti esaminati. Per ogni campione vengono realizzate 6 prove a pH differente compreso tra 2 e 12, con intervalli di 2 unità di pH. Come lisciviante è stata utilizzata acqua ultra pura in rapporto compreso tra 9 e 10 rispetto alla massa secca di campione. Tale miscela solido liquido è messa in sospensione mediante agitazione magnetica per 48 ore, le aggiunte di acido o base sono effettuate periodicamente in funzione del pH, allo scopo di stabilizzarne il valore intorno a quello di set-point. Per ogni eluato, dopo filtrazione con membrana 0,45 µm, vengono realizzate misure di conducibilità e l’analisi dei metalli presenti mediante A.A.S.. Il secondo test UNI CEN/TS 14405 si pone l’obiettivo di valutare l’eluviazione dei contaminanti a pH naturale, quando una colonna di materiale è attraversata dall’acqua, per

96

simulare quello che avviene in caso di percolazione di pioggia attraverso il sedimento depositato sul territorio, in discarica o in cassa di colmata. Si raccolgono diverse frazioni di eluato secondo un preciso rapporto liquido/solido; in totali le frazioni sono 7, da una prima frazione caratterizzata da L/S pari a 0,1 fino all’ultima frazione dove tale rapporto è 5. In totale avremo un'eluviazione cumulativa fino a L/S pari a 10, nel corso di un tempo medio di prova di 28 giorni. Per ogni frazione vengono monitorati diversi parametri quali pH, conducibilità, residuo fisso a 180°C, e valutate le concentrazioni in metalli di interesse mediante A.A.S. e concentrazioni degli ioni presenti mediante cromatografia ionica. In assenza di apparecchiature in commercio, la colonna di eluizione è stata realizzata secondo le specifiche richieste dalla metodica in uso. L’apparecchiatura utilizzata per il test è mostrata nella seguente figura 1.

Fig. 1 - Apparecchiatura per test di cessione: 1 direzione del flusso, 2 trappola per CO2 , 3

raccolta eluato, 4 colonna riempita di campione, 5 pompa, 6 agente lisciviante; realizzata

secondo le specifiche UNI CEN/TS 14405

2.2 Soil Washing

Il Soil Washing è un trattamento basato sulla separazione granulometrica abbinata a lavaggio, che consente di separare una frazione sabbiosa “pulita”, che può essere riutilizzata, ed una a granulometria più fine, che contiene la maggior parte degli inquinanti e deve quindi essere stoccata in discarica, uno schema del processo è mostrato in figura 2. 2.3 Campioni e scelte operative

I sedimenti oggetto di analisi sono 3 e sono stati raccolti e inquadrati in tre diverse categorie differentemente contaminate, e denominate Rossa (R), Gialla (G) e Verde (V). La discriminazione viene realizzata sulla base della concentrazione degli inquinanti nel campione. Il campione V risulta conforme ai limiti di legge senza sforamenti rispetto ai limiti designati dal D.Lgs. 152/06 tabella 1 colonna A, i sedimenti gialli hanno concentrazioni

Fig. 2 - Schema trattamento di Soil Washing

97

comprese tra i limiti di colonna A (siti ad uso verde pubblico, privato e residenziale) e colonna B (siti ad uso commerciale e industriale) [4]. I sedimenti R presentano sforamenti nelle concentrazioni di inquinanti rispetto alla colonna B. Sono stati scelti per le analisi successive al trattamento di Soil Washing i pannelli fini dei sedimenti G ed R, e le sabbie del sedimento G. La scelta degli analiti si è basata sui dati dei materiali tal-quale, ed ha permesso di restringere il campo d’indagine ai seguenti metalli: As, Cr, Cd, Pb, Ni, Fe, Hg, Cu, Zn; ed ai seguenti ioni: fluoruri, cloruri, nitriti, nitrati, bromuri, solfati, sodio, calcio, potassio, magnesio e ammonio.

2.4 Risultati ottenuti

I dati ottenuti hanno permesso la realizzazione di curve di rilascio, è mostrata a tal proposito quella in funzione del pH in figura 2. E’ Possibile da tali grafici avere informazioni in merito alla mobilità del metallo nella matrice reale in funzione di quelle che sono le condizioni a contorno. Da un raffronto con le curve di rilascio ideali o teoriche si è potuto notare differenze significative, ad esempio un ritardo nel rilascio di alcuni componenti nel test a percolazione, e lo spostamento verso pH più estremi dei picchi di rilascio, a causa di un effetto “immobilizzante” dovuto alla matrice, attraverso uno studio sui sedimenti si possono ottenere curve reali, che presentano differenze legate alla diversa matrice ed allo stato chimico in cui gli analiti sono presenti tra campioni ideali e reali. Inoltre, tramite il test a percolazione, è possibile individuare quale sia il meccanismo che controlla il rilascio, se sia prevalente il dilavamento, oppure la solubilità. In figura 2 sono riportate le curve di rilascio del Cromo per i diversi materiali.

Fig. 2 - Rilascio Cr in funzione del pH, V, G ed R sedimenti tal quali, FG ed FR frazione fine

in uscita dal Soil Washing Il confronto con i valori previsti dalle normative sugli eluati permette di valutari qual’ è l’intervallo di pH in cui il rilascio rimane entro i limiti, come mostrato a titolo esemplificativo nella seguente figura 3, in cui è mostrato l’istogramma relativo al Rame.

98

Fig. 3 – Concentrazioni di Cu negli eluati pHstat e confronto con le normative

2.4.1 Valutazione Soil Washing

I dati più significativi messi in luce da questo studio riguardano l’efficacia del trattamento di SW nel spostare la contaminazione alla frazione più fine, tanto maggiore quanto più è contaminato il sedimento (R>G>V), ed anche una maggiore efficacia nel trasferimento dei contaminanti organici rispetto a quelli inorganici, si mostra il grafico di ripartizione per il sedimento R in figura 4.

Fig. 4 –Ripartizione inquinanti dopo SW sedimento R

Si evidenzia un aumento della mobilità degli inquinanti nella frazione fine, rispetto a quella riscontrata nei sedimenti tal quali, per il Nichel questo è evidenziato dal grafico in figura 5, anche per: Zn, Ni, Cd, Pb e SO4

2- si sono riscontrati fenomeni analoghi.

99

Fig. 5 – Rilascio Nichel: test a percolazione sedimento G e fini da Soil Washing (FG)

3. Conclusioni Nella ricerca delle possibili destinazioni finali dei materiali l’importanza dei test di lisciviazione è fondamentale, in quanto non si limitano ad indagare la quantità di inquinante presente nel campione ma si soffermano sulla mobilità della stessa, parametro più interessante e ambientalmente significativo. In questo lavoro si è valutata la lisciviabilità degli inquinanti inorganici, considerando l’importanza del pH, che comporta ordini di grandezza di differenza nelle quantità disciolte. Si ritiene quindi che nella caratterizzazione dei rifiuti l’adozione di questo tipo di test permette di avere informazioni più esaustive sui rilasci che potrà avere un determinato materiale, quindi sul suo impatto ambientale, e quindi sulla possibilità, o meno, di scegliere determinate destinazioni di stoccaggio, e, in particolare, valutare attentamente le opzioni più adeguate per il riutilizzo. Il trattamento di Soil Washing è efficace quando applicato a matrici molto contaminate, in quanto riduce il volume di sedimenti da stoccare in discarica, mentre risulta inutile per i sedimenti più puliti. Inoltre l’incrementata lisciviabilità di alcune componenti nella frazione fine è un aspetto da indagare per individuarne dettagliatamente le cause.

Bibliografia [1] Apat Icram, Manuale per la movimentazione di sedimenti marini, 2006. [2] UNI CEN TS 14997, "Caratterizzazione dei rifiuti Prove di comportamento alla lisciviazione Influenza del pH sulla lisciviazione con controllo continuo del pH”, 2007. [3] UNI CEN TS 14405, "Caratterizzazione dei rifiuti Prove di comportamento alla lisciviazione Prova di percolazione a flusso ascendente (nelle condizioni specificate)", 2004. [4] "Decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale" Gazzetta Ufficiale, no. 88, Aprile 2006. [5] "Decreto 3 agosto 2005, Definizione dei criteri di ammissibilità dei rifiuti in discarica", Gazzetta Ufficiale, no. 201, Agosto 2005. [6] "Decreto 5 aprile 2006, Individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero", Gazzetta Ufficiale, no. 115, Aprile 2006.

100

Caratterizzazione di miscele di suolo naturale e fanghi di cartiera mediante

tecniche a Risonanza Magnetica (NMR)

Marianna Vannini [email protected], Alessandra Bonoli, Villiam Bortolotti, Paolo

Macini, Ezio Mesini – CIRI “Energia e Ambiente”, Alma Mater Studiorum, Università di

Bologna

Riassunto L’applicazione delle tecniche a Risonanza Magnetica Nucleare (NMR), in particolare la Rilassometria NMR (MRR) rappresentano un nuovo terreno di ricerca nell’ambito delle scienze ambientali, in particolare come strumento di caratterizzazione non invasiva. Con queste metodologie ci si propone di caratterizzare campioni di suolo naturale miscelati con fanghi di cartiera. Come ampiamente mostrato in altri ambiti, dove viene da tempo utilizzata, questa tecnica fornisce informazioni dettagliate sulla struttura dei campioni e sulle interazioni delle sue fasi. In questa ricerca i parametri MRR (distribuzione dei tempi di rilassamento) hanno permesso la determinazione di alcune caratteristiche petrofisiche fondamentali (quali la distribuzione delle classi di pori e l’acqua irriducibile) di queste miscele, tenendo conto delle notevoli difficoltà, date dalla complessa composizione chimica, che questa tipologia di campioni presenta.

1. Introduzione La caratterizzazione dei mezzi porosi e dei fluidi in essi contenuti mediante le tecniche a Risonanza Magnetica Nucleare (Nuclear Magnetic Resonance – NMR) si è recentemente sviluppata anche nell’ambito delle scienze del suolo e ambientali, grazie al fatto di essere non invasive e non distruttive [1]. Tra le tecniche NMR più utilizzate in questo settore ricordiamo la Spettroscopia NMR, metodo ormai diffuso per la caratterizzazione chimica dei suoli, che permette di ottenere informazioni dettagliate sulla struttura molecolare dei composti in esame e sui loro legami chimici. La Rilassometria 1H NMR (Magnetic Resonance Relaxometry – MRR) invece è un consolidato strumento di indagine della struttura dei mezzi porosi, della loro interazione con l’acqua o con altri liquidi idrogenati (aventi atomi di idrogeno, ad esempio gli oli) e dell’interazione delle molecole organiche in soluzione che, a differenza della ben nota Magnetic Resonance Imaging (MRI), fornisce informazioni spazialmente non risolte. Da decenni risulta essere una delle metodologie più utilizzate nelle ambito delle scienze petrofisiche, ma solo di recente si occupa delle problematiche relative alle scienze ambientali. Questa ricerca, vede l’applicazione della MRR alla caratterizzazione di suoli e materiali di varia natura, spesso fortemente eterogenei (rifiuti inerti, fanghi e terre utilizzati per recuperi ambientali), con particolare attenzione ai fanghi di cartiera, collocandosi quindi in un terreno di ricerca pressoché inesplorato. Nel lavoro i parametri NMR hanno permesso di ottenere informazioni, in modo non distruttivo, sulla struttura porosa delle miscele di suolo naturale e fanghi di cartiera, sui processi di interazione tra la matrice della miscela e i liquidi presenti in essa, tenendo conto delle difficoltà date da questa tipologia di campioni, principalmente causate dalla presenza di un elevato quantitativo di materia organica e di sostanze paramagnetiche[1]. 2. Relazione

2.1 I fanghi di cartiera nei ripristini ambientali

101

Gli interventi di recupero ambientale, ad esempio di ex aree di cava o ex discariche, è definito ai sensi del Decreto Ministeriale 5 Febbraio 1998, e successivo DM 152/2006 Testo Unico Ambientale n°152, “Norme in materia ambientale”, come attività che consistono nella restituzione di aree degradate ad usi produttivi o sociali. Infatti, all’articolo 240 del titolo V, parte IV del DM 152/2006, Testo Unico Ambientale, vengono definiti come ripristino e ripristino ambientale “gli interventi di riqualificazione ambientale e paesaggistica, anche costituenti complemento degli interventi di bonifica o messa in sicurezza permanente, che consentono di recuperare il sito alla effettiva e definitiva fruibilità per la destinazione d’uso conforme agli strumenti urbanistici”. Tali ripristini possono essere realizzati anche utilizzando rifiuti, per riempimenti e modellazione, purché questi ricadano nella categoria dei “rifiuti speciali non pericolosi”. Ai sensi del DM 5 febbraio 1998 il recupero R10 (Spandimento sul suolo a beneficio dell’agricoltura e dell’ecologia) riguarda molte tipologie di rifiuti non pericolosi, fra cui i fanghi dell’industria cartaria (Codice CER: [030305] [030309] [030310]). Questi risultano particolarmente interessanti, e sono stati ampiamente utilizzati negli ultimi anni, proprio per realizzare riempimenti di ex aree di cava e per ripristini ambientali più in generale, grazie alla loro stabilità in condizioni aerobiche; tuttavia essi costituiscono una biomassa ad elevato contenuto organico, essendo formati soprattutto da materiali cellulosici e fibre di legno. Di recente [2] è stato rilevato che non c'è corrispondenza tra la loro stabilità in condizioni aerobiche ed anaerobiche. Tali fanghi sono infatti notoriamente molto stabili rispetto ad una degradazione aerobica, ma, al tempo stesso, sono facilmente degradabili per via anaerobica portando, nel tempo, alla produzione di metano e anidride carbonica [3]. I ripristini ambientali possono utilizzare fanghi provenienti da industria cartaria, purché miscelati con terreno inerte in opportune percentuali, per evitare fenomeni di degradazione anaerobica con conseguente pericolo di formazione di sacche nel sottosuolo o di fenomeni di migrazione di biogas verso zone esterne. Diventa quindi indispensabile un controllo sui materiali stoccati, non solo in termini di quantità ma soprattutto di modalità di stoccaggio, verificando se il vero e proprio pre-trattamento di miscelazione dei fanghi e terreno naturale è stato realizzato correttamente così da prevenire e escludere la produzione di biogas. La caratterizzazione dei fanghi di cartiera, e la qualità della miscelazione, vengono effettuate normalmente attraverso la determinazione dei seguenti parametri: Carbonio Organico Totale (TOC o C), Azoto totale (N), il rapporto TOC/N, umidità e ceneri. Dal punto di vista del processo di degradazione, valori iniziali di C/N attorno a 15-35 sono ottimali per la biostabilizzazione aerobica e per il compostaggio; valori di C/N superiori a 40 rallentano la degradazione aerobica per mancanza di azoto, fino a fermare l’attività microbica [4]. In condizioni anaerobiche la bassa concentrazione di N inibisce la formazione di ammoniaca in modo tale da bloccare il processo anaerobico[5]. Considerando la possibilità che nel sito soggetto a ripristino ambientale, siano presenti altri rifiuti oltre ai fanghi di cartiera, il valore di soglia è stato fissato per valori di C/N > 25. Dalla valutazione di tutti i parametri si può dunque avere un’informazione sul grado di miscelazione fango/terreno. 2.2 La caratterizzazione NMR dei fanghi di cartiera

Le analisi NMR sono state effettuate presso il laboratorio di Risonanza Magnetica del Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e dei Materiali, il quale è dotato di un Rilassometro Full Size (dimensionato secondo le misure standard delle carote dell’industria petrolifera ≈ 12cm di diametro), composto da una Console Stelar (Stelar Srl, Mede, Italy) e da un magnete permanente con campo magnetico pari a 0.2T che corrisponde a 8MHz per i

102

protoni, parte di un tomografo MRI Artoscan (ESAOTE S.p.A.) presente nel medesimo laboratorio. Il caso in studio riguarda carote di terreni interessati da ripristino ambientale attraverso lo spandimento di fanghi di cartiera (Paper Mill Sludge – PMS) e la miscelazione con essi. I residui della produzione della carta mostrano le complessità strutturali tipiche di un materiale eterogeneo. Gli studi di Spettroscopia hanno evidenziato la complessità chimica di queste sostanze spesso legata alla presenza di fibre di legno nelle quali sono avvenuti mutamenti chimici generalmente associati ai contaminanti utilizzati sia per la manifattura, che per il tipo di processo di trattamento dei rifiuti adottato [6][7]. Serve perciò poter studiare il campione nella sua eterogeneità. In questa ricerca è stato in primo luogo necessario stabilire le condizioni strumentali più adeguate. Tra queste l’utilizzo di una bobina ricetrasmittente dedicata ha reso possibile ospitare provette di diametro pari a circa 3 cm, dimensioni significative per il tipo di grani presenti nei campioni e, al contempo, favorire il posizionamento all’interno del magnete in una zona di campo magnetico omogeneo. Inoltre, particolare cura è stata rivolta al set up delle misure per ottimizzare il rapporto S/N e all’individuazione di un opportuno protocollo di preparazione dei campioni per rendere comparabili i risultati di una stessa tipologia di misura effettuate su campioni diversi. Le analisi MRR restituiscono le distribuzioni dei tempi rilassamento trasversale e longitudinale (T2 e T1 rispettivamente), che mediante opportuni modelli interpretativi possono essere estremamente indicativi della struttura porosa del materiale e delle interazioni tra la superficie del mezzo poroso e i fluidi endogeni. In questo lavoro si riportano le indagini MRR eseguite su un campione di miscela suolo-fango di cartiera (denominato PMS C4) con lo scopo di indagarne le principali proprietà della matrice porosa. Il campione è stato preparato idratando un determinato quantitativo di miscela secca con un quantitativo di acqua pari al 40% in peso della sostanza secca e mescolando il tutto fino ad ottenere una miscela omogenea. Le misure NMR, per ottenere le distribuzioni dei tempi di rilassamento, sono state eseguite con il Rilassometro NMR sopra citato. La sequenza denominata CPMG, generalmente utilizzata nelle scienze del suolo per ricavare il T2, è stata eseguita con 128 accumuli, tempo di eco pari a 100 µs, 1024 echi e tempo di ripetizione pari a 300 ms. L’inversione dei set di dati sperimentali per ottenere le distribuzioni nei tempi di rilassamento è stata realizzata mediante l’algoritmo UPEN (Uniform Penality) implementato nel software UpenWin (sviluppato e distribuito dall’Università di Bologna)[8]. Al fine di ottenere informazioni sul contenuto di acqua irriducibile, parametro petrofisico di grande rilevanza per l’identificazione della microporosità, il campione è stato successivamente desaturato con ripetuti cicli di centrifuga realizzati per tempi diversi e a velocità crescenti, fino al raggiungimento di una massa pressoché costante. Il campione PMS C4 è stato misurato immediatamente dopo la sua preparazione e dopo ogni processo di centrifuga, per seguire l’evoluzione temporale del T2 in relazione al contenuto d’acqua, via via in diminuzione [Fig.1]. La prima misura, ricordiamo eseguita anteriormente al processo di centrifuga, si presenta come una distribuzione monomodale con una coda a tempi lunghi, temporalmente distribuita tra 0.2 e 200 ms. L’area sottesa dalla distribuzione è associabile, tramite modelli interpretativi, alla distribuzione della classe dei pori, ma per una tale corrispondenza sono necessarie ulteriori misure NMR (lavoro in via di sviluppo). Le misure effettuate in seguito ai diversi cicli di centrifugazione forniscono distribuzioni in T2 con una graduale diminuzione del segnale NMR associato alla diminuzione del contenuto d’acqua, e con un progressivo spostamento verso tempi corti. Si noti come l’ultima misura (Fig. 1 – linea continua rossa) sia distribuita tra 0.2 e 10 ms e rappresenti l’acqua irriducibile, ovvero l’acqua immobilizzata nei micropori. Questo parametro, ampiamente trattato in ambito

103

petrofisico, risulta di fondamentale importanza anche per suoli ad alto contenuto organico. Si pensa infatti che il carbonio organico tenda a concentrarsi nei micropori e quindi, un contenuto inferiore di acqua irriducibile è correlabile ad un maggiore contenuto di carbonio organico, dato di fondamentale importanza per la valutazione della miscela suolo-fango di cartiera. L’accentuazione che la distribuzione presenta a tempi corti è da valutare anche nell’ottica di una possibile ridisitribuzione delle classi di pori – trattandosi di materiale non consolidato – con una predominanza di micropori.

T2 (ms)

0.1 1 10 100

Signa

l Den

sity (a.u.)

0

5000

10000

15000

20000

25000

30000

35000

40000PMS C4

Legend

Before Centrifugation

After six centrifugation runs

Fig. 1 - Distribuzione in tempi di rilassamento trasversali (T2) del campione PMS C4

immediatamente dopo la saturazione della sostanza secca e in seguito a svariati cicli di

centrifuga. In evidenza (linea continua) la prima e l’ultima misura; le misure intermedie

(linee tratteggiate) evidenziano le stato progressivo di desaturazione del campione.

È necessario sottolineare che le misure in T2 eseguite con CPMG su questa tipologia di campioni possono essere soggette a difficoltà strumentali date dalla presenza di sostanze para- e ferromagnetiche. Infatti i gradienti di campo interni, che nascono dalla suscettività magnetica tra la superficie dei grani il fluido endogeno, rendono difficile l’eliminazione degli artefatti dovuti agli effetti di diffusione. Nonostante ciò i risultati sono stati riprodotti su più campioni, avvalorando la robustezza del metodo. 3. Conclusioni

Molti interventi di ripristino ambientale sono oggigiorno realizzati utilizzando rifiuti, per riempimenti e modellazione, purché questi ricadano nella categoria dei “rifiuti speciali non pericolosi”. I fanghi dell’industria cartaria si prestano ottimamente a questo tipo di bonifica, ma è indispensabile un controllo sulla miscelazione dei fanghi con terreno naturale, così da prevenire ed escludere la produzione di biogas. In questa ricerca la caratterizzazione dei fanghi normalmente fatta in termini di parametri come il TOC/N, umidità e ceneri, è stata effettuata anche attraverso metodi NMR. Le osservazioni confermano che le indagini rilassometriche NMR, forniscono un valore aggiunto alle tradizionali analisi chimiche e spettroscopiche correntemente utilizzate. Allo stato attuale la valutazione dell’acqua irriducibile, associata ai tempi rilassometrici trasversali corti e quindi alla microporosità dei campioni, rappresenta un dato utile correlabile al contenuto di carbonio organico com’è risultato dalle indagini chimiche, anche tenendo conto

104

degli effetti dovuti ad una probabile presenza di ioni paramagnetici e delle eventuali interazioni tra le componenti organiche presenti e la matrice microporosa. Perciò la tecnica MRR permette una più attenta caratterizzazione del materiale, al fine di valutarne più approfonditamente l’impatto ambientale, e prevenire l’insorgenza di problematiche inquinanti legate ad una scorretta miscelazione suolo-fango di cartiera. Bibliografia [1] Julia V. Bayer, Fabian Jaeger, Gabriele E. Schaumann “Proton Nuclear Magnetic Resonance (NMR) Relaxometry in Soil Science Applications” The Open Magnetic Resonance Journal, (2010), 3: 15-26. [2] Bonoli A., Ruffilli C., Dall’Ara A., Rappoli N (2010). “Il monitoraggio e la messa in sicurezza di un’ex-area di cava utilizzata per il recupero di fanghi di cartiera SICON” SiCon 2010 Workshop sui Siti Contaminati. Roma, 11-12 Febbraio 2010 [3] Y. Lin, D. Wang, Q. Li and M. Xiao (2011). “Mesophilic batch anaerobic co-digestion of pulp & paper sludge and monosodium glutamate waste liquor for methane production in a bench-scale digester” Bioresource Technology 102 (4) 3673-3678 [4] Adani F. (2004) “I processi aerobici per il trattamento di rifiuti urbani ” Quaderni di Ingegneria Ambientale. Cipa Srl, Milano (Italy). [5]Dall’Ara A., Ferri F., Marroni V., Billi L. and Bonoli A. (2009). “Low impact bioremediation technology: application in a restoration site” 12th Int. waste Management and Landfill symposium. Sardinia 2009. [6] Mark J. Jackson, Martin A. Line, “Organic composition of pulp and paper mill sludge determined by FTIR, 13C CP MAS NMR, and chemical extraction techniques” Journal of Agricultural and Food Chemistry, (1997), 45:2354-2358. [7] T. Marche, M. Schnitzer, H. Dinel, T. Paré, P. Champagne, H.-R. Schulten, G. Facey, “Chemical changes during composting of paper mill sludge-hardwood sawdust mixture” Geoderma, (2003), 116:345-356. [8] Borgia G.C., Brown R.J.S., Fantazzini P., “Uniform Penality inversion of multiexponential decay data” Journal of Magnetic Resonance, (1998), 132: 65-77.

105

Titania modificata con Esacianometallati misti: caratterizzazione e

prospettive

Mario Berrettoni [email protected], Riccardo Tarroni

- Dipartimento di Chimica

Fisica ed Inorganica, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna - CIRI “Energia e

Ambiente”, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna

Michela Ciabocco - Dipartimento di Chimica Fisica ed Inorganica, Alma Mater Studiorum,

Università di Bologna

Stefania Marini - Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, Dipartimento di

progettazione e tecnologie, Università degli Studi di Bergamo e CSGI

Riassunto Il Biossido di Titanio, grazie alle sue caratteristiche chimico-fisiche, è ampiamente utilizzato in applicazione energetiche ed ambientali. In particolare in celle fotovoltaiche e come materiale attivo nelle superficie autopulenti. In questo lavoro viene presentata la possibilità di migliorare le prestazione fotovoltaiche e fotocatalitiche mediante modificazione della Titania con esacianometallati misti.

1. Introduzione Il biossido di Titanio, Titania, è il materiale base per le cosiddette celle fotovoltaiche di Graetzel e per i materiali autopulenti. Quello che rende la Titania così studiata è la capacità di promuovere un elettrone dalla banda di valenza alla banda di conduzione mediante assorbimento di luce, caratteristica che ne fa il componente base di tutti i sistemi sintetici analoghi del processo naturale di sintesi clorofilliana. La possibilità di generare, mediante assorbimento della radiazione elettromagnetica nella lunghezza d’onda dell’ultravioletto, un elettrone con un surplus di energia è la base per tutta una serie di possibile applicazioni che sono state ampiamente riviste da Chen et al.[1] e possono essere raggruppate in 5 grandi settori

1. Applicazioni fotovoltaiche 2. Dissociazione foto catalitica dell’acqua 3. Immagazzinamento dell’idrogeno 4. Display elettrocromici 5. Fotocatalisi.

In particolare nell’ultima categoria rientrano anche quelle applicazioni di carattere ambientale che vanno dalle superfici autopulenti alla purificazione dell’aria e dell’acqua alle superfici auto sterilizzanti[2]. La performance della Titania in tutte le applicazioni dipende da numerosi fattori quali: forma cristallina, morfologia ed eventuale funzionalizzazione e/o derivatizzazione. Tutti questi fattori influenzano sia la capacità di assorbire la luce in maniera efficiente, per la creazione della coppia buca elettrone e sia l’eventuale loro ricombinazione che è il maggior fenomeno parassita in tutte le applicazioni. I maggiori sforzi sono stati diretti nella sintesi della Titania in nano particelle, nano tubi e nella successiva modificazione della superficie con opportune molecole capaci di aumentarne l’efficienza. Questa titania modificata è l’elemento base delle celle fotovoltaiche cosiddette di Graetzel, o più propriamente Dye Sensitized Solar Cells - DSSC, dove per colorante si intende una molecola organica capace di aumentare la conversione dell’energia fotovoltaica. I dye devono possedere livelli energetici elettronici tali che il primo orbitale vuoto (LUMO) si trova ad energia più alta della banda di conduzione della Titania. La promozione dell’elettrone eccitato del dye al livello LUMO avviene per assorbimento, in generale, nella regione del visibile, cioè ad un’energia inferiore

106

di quella necessaria a promuovere un elettrone della Titania nella banda di conduzione. Questo effetto può essere sinergico con una eventuale diminuzione della band gap della Titania causata dalla funzionalizzazione della superficie. In questo lavoro si riportano i risultati preliminari ottenuti drogando la Titania con esacinometallati misti. 2. Relazione

2.1 Modellizzazione teorica E’ stato dimostrato in letteratura che il drogaggio della Titania con esacianoferrato porta ad una riduzione della band gap[3]. In via preliminare sono stati effettuati studi di modellazione teorica sull’influenza del drogaggio con vari esaciaometallati ed esacianometallati misti. I calcoli sono stati effettuati per mezzo del programma ADF (Amsterdam Density Functional) utilizzando una base atomica di tipo TZ2P e un funzionale di tipo B-LYP. In fig. 1 sono riportati alcuni risultati preliminari.

Fig. 1 - Simulazione degli spettri UV-Vis di modelli di clusters di (TiO2)8 sensibilizzata con

esacianometallati di metalli di transizione in diversi stati di valenza.

E’ evidente l’estrema variabilità degli spettri ottenuti, il che mostra la possibilità di modificare in maniera rilevante le proprietà della Titania scegliendo opportunamente il metallo legato.

2.2 Sintesi di TiO2 modificata

La Titania (aldrich) drogata con esacianoferrato di Cobalto CoHCFe ed esacianocobaltato di Ferro FeHCCo è stata sintetizzata mediante un processo a più stadi. illustrato in Fig.2. Ad una sospensione acquosa di TiO2 vengono aggiunte in sequenza il K3Fe(CN)6 e il CoCl2. Successivamente l’acqua viene fatta evaporare ed il precipitato lavato ripetutamente per eliminare KCl ed eventuali composti iniziali che non hanno reagito. Allo steso modo è stata preparata la Titania con FeHCCo aggiungendo, sempre in sequenza, K3Co(CN)6 e FeCl2. La Fig. 2 riporta le varie procedure operative e i differenti valori di drogaggio e della Titania

107

Fig. 2 – Sintesi della TiO2 drogata con esacianometallati misti (i numeri tra parentesi

identificano i campioni nella successiva Fig.4).

2.3 Caratterizzazione della TiO2 modificata Tutti i composti elencati in fig. 2 sono stati caratterizzati mediante spettroscopia IR, UV-Vis, TEM, TGA e voltammetria ciclica. L’analisi elementare, rapporto Fe/Co, è stata eseguita mediante fluorescenza raggi X. Per brevità di esposizione ci limitiamo a riportare i dati relativi alla Titania drogata con CoHCFe. La tabella 1 riporta la composizione stechiometrica dei vari campioni.

TiO2/CoHCF Co/Fe Molecole di

H2O TiO

2/FeHCCo Co/Fe Molecole di

H2O

1/1 1.09/1 2.95 1/1 1.12/1 5.72

10/1 1.22/1 6.54 10/1 1.56/1 2.82

100/1 1.39/1 7.78 100/1 1,80/1 8.76

Tab. 1 – Risultati analisi elementare e TGA L’avvenuta formazione del CoHCFe è confermata dall’analisi morfologica ed elementare puntuale e dalle voltammetrie cicliche. Lo studio, tramite HR-TEM, della Titania drogata superficialmente con particelle di esacianoferrato mostra che le caratteristiche dei cluster TiO2/CoHCFe dipendono significativamente dal rapporto TiO2/CoHCFe. Risultati analoghi sono stati ottenuti per il sistema TiO2/FeHCCo.

108

2.4 Proprietà fotocatalitiche della TiO2 modificata Si è verificato la prestazione foto catalitica di un film di Titania drogato con K3Co(CN)6.nel processo di decolorazione del blu di metilene e del rosso metile. Il blu di metilene viene utilizzato nella metodica ufficiale per la determinazione attività fotocatalitica di ceramiche autopulenti[4]. La fig. 3 mostra la degradazione di due macchie di coloranti per esposizione ad una sorgente con λ=365 nm. Nella successiva fig. 4 è riportata il confronto semi empirico della velocità di degradazione delle stesse macchie in TiO2 pura e drogata.

109

Fig. 3 – Attività foto catalitica della TiO2 drogata con K3Co(CN)6

Fig. 4 – Confronto dell’attività fotocatalitica della TiO2 pura e drogata con K3Co(CN)6.

3. Conclusioni Sulla base di considerazioni fondate su calcoli teorici, si è drogata una Titania commerciale con esacianometallati misti, CoHCFe e FeHCCo. I prodotti ottenuti sono stati caratterizzati mediante numerose tecniche che hanno confermato l’avvenuta formazione degli esacianometallati misti. Le proprietà chimico fisiche dipendono dalla quantità di drogante introdotto. Il drogaggio causa anche una diminuzione della band gap della Titania, valutata negli spettri UV-Vis ed anche un effetto positivo sull’attività foto catalitica. Bibliografia

[1] X. Chen, L. Ciacci, S. S. Mao: “Titanium dioxide Nanomaterials: Synthesis, Properties, Modifications, and Applications”, Chem. Rev. 107, 2891–2959, 2007. [2] A. Fujishima, X. Zhang, D. A. Tryk: “TiO2 catalysis and related surface phenomena”, Surface Science Report 63, 515-582, 2008. [3] M.Khoudiakov, A.R. Parise, B.S. Brunshwing, J. Am. Chem. Soc. 125, 4637-4642, 2003 [4] Norma ISO 10678

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Sistema Integrato di Monitoraggio Ambientale nelle vicinanze di un

inceneritore di rifiuti solidi urbani

Elisa Venturini [email protected], Ivano Vassura, Fabrizio Passarini, Laura Ferroni,

Luciano Morselli – Università di Bologna, Dipartimento di Chimica Industriale e dei

Materiali

Riassunto Lo scopo di questo studio è stimare il contributo relativo di un inceneritore per RSU al carico di inquinanti dell’area circostante. Per prima cosa si è voluto mettere a punto un percorso procedurale che possa diventare un approccio metodologico di riferimento per quel che riguarda le procedure analitiche, la strumentazione e l’elaborazione di dati, applicabile in generale ad attività produttive che possono presentare a livello locale problematiche di impatto ambientale. Gli Indicatori Ambientali utilizzati sono gli IPA, i metalli pesanti e le PCDD/Fs mentre le matrici ambientali studiate sono il PM, le deposizioni atmosferiche e il suolo. La rete di monitoraggio è stata disegnata sulla base di una mappa di dispersione e i siti di campionamento sono stati localizzati in zone influenzate da una diversa ricaduta delle emissioni dell’impianto. I flussi determinati sono stati elaborati con analisi statistiche di base ed avanzate analisi multivariate (PMF). Grazie a questo studio è stato possibile verificare che il contributo relativo dell’inceneritore al carico totale di inquinanti sembra essere trascurabile comparato all’alta concentrazione del background, che potrebbe probabilmente essere dovuta alla vicina area urbana.

1. Introduzione L’impatto sull’ambiente di un impianto industriale può essere valutato a partire dallo studio delle emissioni di inquinanti, in relazione ai materiali in ingresso, alle tecnologie ed alle condizioni di esercizio applicate, considerando poi le ricadute degli stessi sull’ambiente circostante. In prima analisi è necessaria quindi la valutazione del processo, la misura delle concentrazioni al camino, il calcolo dei flussi di massa e dei fattori di emissione relativi. I limiti che però si riscontrano sono associati alla difficoltà di misurare in continuo i microinquinanti organici, organo clorurati e i metalli pesanti, che rappresentano gli Indicatori Ambientali privilegiati ai fini delle misure di impatto, oltre che all’impossibilità di prevedere la formazione di polveri fini di origine secondaria (es. nitrato di ammonio). Inoltre, anche se questi parametri fossero noti con esattezza, non si potrebbe prevedere con certezza il loro impatto sul territorio circostante, che può essere più o meno sensibile alle immissioni, anche in relazione allo stato di qualità ambientale dei vari comparti considerati. D’altro canto il solo studio della qualità dell’ambiente non sempre è in grado di discriminare le diverse sorgenti emissive. Una valutazione esaustiva degli impatti di un impianto industriale deve prendere in considerazione perciò entrambi gli approcci. Lo scopo di questo lavoro consiste nell’utilizzare sistemi innovativi con i quali cercare di discriminare l’incidenza che l’impianto ha sulla zona circostante ed il contributo che ogni singola sorgente dà alla qualità dell’aria. Il caso studio preso in esame è l’inceneritore di rifiuti solidi urbani di Coriano (Rimini). Attivo dai primi anni ’90, smaltisce rifiuti solidi urbani, rifiuti ospedalieri, farmaci scaduti e rifiuti speciali cimiteriali per un totale di circa 120.000 tonnellate all’anno. Negli ultimi anni è stato soggetto ad un processo di ristrutturazione che ha migliorato i processi di abbattimento degli inquinanti. 2. Relazione

111

2.1 Sistema Integrato di Monitoraggio Ambientale (SIMA)

Il percorso procedurale che si è messo a punto può essere sintetizzato in un approccio metodologico di riferimento per quel che riguarda le procedure analitiche, la strumentazione e l’elaborazione di dati, applicabile in generale ad attività produttive che possono presentare a livello locale problematiche di impatto ambientale. Da un punto di vista operativo il SIMA si struttura secondo le seguenti fasi:

- Caratterizzazione della fonte d’inquinamento in relazione ai materiali in ingresso, alle condizioni tecnologiche e di esercizio, alle emissioni di inquinanti

- Scelta degli indicatori ambientali, cioè quei parametri quali e quantitativi strettamente correlati alla fonte di emissione.

- Localizzazione delle aree interessate alla ricaduta d’inquinanti, determinate tramite un modello matematico di dispersione.

- Individuazione dei corpi recettori, campionamento ed analisi. - Elaborazione dei dati e ricerca delle correlazioni.

2.1.1 Gli indicatori ambientali

Gli indicatori ambientali utilizzati sono molteplici e sono caratteristici, oltre che del processo dì incenerimento, di altre sorgenti - Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA): si formano in tutti i processi di combustione

incompleta di materia organica e sono emessi, tra l’altro, dal traffico auto veicolare, dagli inceneritori e dalle utenze domestiche. La distribuzione relativa e la concentrazione delle diverse specie analizzate sono però funzione della sorgente emissiva e quindi possono fornire informazioni specifiche sulle fonti [1,2].

- I metalli pesanti: sebbene difficilmente siano sorgente-specifici, è possibile individuare il contributo delle diverse fonti emissive tramite le differenze relative di concentrazione [3].

- Policloro dibenzo diossine (PCDDD) e policloro dibenzo furani (PCDF): si formano generalmente come sottoprodotti indesiderati in tutti i processi termici quando sono presenti cloro, ossigeno, idrogeno e carbonio. Le fonti principali sono i processi di combustione che avvengono negli inceneritori, nelle industrie metallurgiche, nelle automobili e in altre attività industriali [4]

- 2.1.2 Localizzazione delle aree interessate alla ricaduta d’inquinanti

L’inceneritore monitorato è collocato in un’area suburbana, a pochi chilometri dalla costa adriatica e dall’autostrada A14. L’identificazione dei siti di campionamento è stata effettuata con il supporto di dati teorici sull’incidenza delle emissioni dell’impianto nel territorio circostante, tramite simulazioni modellistiche effettuate utilizzando il modello diffusionale non stazionario a puff multistrato CALPUFF. Tre siti sono stati individuati in aree di massima ricaduta; il sito 1 è stato localizzato in area rurale a 1.2 km dall’impianto. Il sito 2 si trova in un’area rurale a circa 5 km dalla area urbana costiera mentre il sito 3 si trova in un’area suburbana a meno di 2 km dalla costa. Un quarto sito (sito 4) è stato collocato nella direzione di minima influenza delle emissioni dell’impianto a poco più di 2 km dall’area urbana costiera. (Fig 1)

112

Fig. 1 - Area di studio e siti di campionamento.

2.1.3 Matrici ambientali analizzate

Atmosfera, suolo, ambiente acquatico e vegetazione rappresentano il destino finale di diffusione degli inquinanti, pertanto il monitoraggio dovrà individuare tra tutte queste possibili matrici quelle migliori per valutare le emissioni dell’impianto. In questo studio si è scelto di analizzare le seguenti matrici ambientali: - Particolato atmosferico (PM): non è un singolo inquinante bensì una miscela molto

complessa di sostanze chimicamente e fisicamente differenti che esistono in forma di particelle discrete (gocce liquide o solidi) su un ampio intervallo di grandezza. La tossicità del particolato è legata soprattutto alla qualità chimica dello stesso ed in particolare alla capacità di assorbire sulla sua superficie sostanze tossiche, quali metalli pesanti, idrocarburi policiclici aromatici, ecc. Questo fenomeno di assorbimento interessa soprattutto il particolato fine.

- Deposizione atmosferiche: sono definite come i flussi di massa dall’atmosfera verso il suolo dei solidi sospesi o degli aerosol presenti nell’aria. Dal momento che sono direttamente o indirettamente correlate al carico di contaminazione della colonna d’aria sovrastante, la determinazione dei flussi di deposizioni permette una valutazione indiretta delle immissioni di contaminanti in una determinata area

- Suolo corticale: in assenza di altre perturbazioni, fornisce dati mediati nel tempo dei fenomeni di deposizione dei contaminanti dall’atmosfera. Per questo l’analisi in questa matrice può fornire un’indicazione della pressione ambientale dell’impianto su lunghi periodi.

2.1.4 Elaborazione dei dati

La determinazione di specifici inquinanti nelle matrici ambientali non è che il primo passo in uno studio di monitoraggio ambientale. Numerosi step sono necessari e tra questi l’interpretazione dei dati è un passaggio cruciale che premette di passare da una semplice informazione ambientale alla conoscenza di diversi fenomeni che investono l’area. L’elaborazione di studi ambientali con avanzati metodi di analisi statistica (sia univariata, sia multivariate) permette di rendere lo studio più esauriente, individuando relazioni di causa–effetto tra la concentrazione degli inquinanti nelle emissioni e nelle matrici ambientali analizzate. A tale scopo, in questo studio si è scelto di applicare la positive matrix factorization (PMF), un nuovo approccio all’analisi fattoriale.

Area di massima ricaduta

1

3

4

2

Area di massima ricaduta

113

2.2 Risultati

Dal 2001 ad oggi nei diversi campioni di deposizioni atmosferiche la composizione relativa delle diossine e dei furani si è mantenuta sempre la stessa (Fig. 2). I congeneri più abbondanti sono gli epta e gli octa sostituiti. Tale profilo è associabile a diverse fonti emissive oltre all’incenerimento di rifiuti urbani e speciali quali traffico auto veicolare e industrie di vario genere. In questo studio le diossine apportano sempre il contributo maggiore (dal 55 al 81%) rispetto ai furani.

Fig. 2 – Composizione media relativa di diossine e furani espressa in pg/m

2gg

L’analisi degli IPA nel PM ha rivelato che tutti i composti, ad eccezione del fluorantene, mostrano elevati coefficienti di correlazione; ciò significa che l’inquinamento presente nell’area è riconducibile ad un fondo regionale diffuso. A conclusione analoga si può giungere anche dalla analisi delle componenti principali, da cui emerge che la prima componente principale, che porta l’89,5% dell’informazione, presenta alti loading per tutti i composti, escluso il fluorantene che invece è altamente rappresentato dalla seconda componente principale (varianza spiegata del 7%) che mostra un loading alto anche per il pirene. Secondo i risultati dell’analisi PMF, l’area di studio è influenzata da sei sorgenti. I profili delle fonti sono riportati nelle figura 3a e 3b.

0.00

1.00

2.00

3.00

4.00

5.00

6.00

7.00

8.00

9.00

10.00

Factor 1 Factor 2 Factor 3 Factor 4 Factor 5 Factor 6

De

po

siti

on

flo

w (

mg m

-2 d

-1)

Na+ NH4+ K+

Ca2+ Mg2+ H+

SO42- NO3- Cl-

F- NO2- Al

As Cd Cu

Cr Fe Mn

Ni Pb Zn

Fig 3a - Profili delle sorgenti espresso in concentrazione in massa

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0.00

0.01

0.01

0.02

0.02

0.03

0.03

0.04

Factor 1 Factor 2 Factor 3 Factor 4 Factor 5 Factor 6

De

po

siti

on

flo

w (

mg m

-2 d

-1) Zn

Pb

Ni

Mn

Cr

Cu

Cd

As

Fig 3b -Profili delle sorgenti espresso in concentrazione in massa per i metalli pesanti

Il primo fattore rappresenta gli apporti di spray marino. Il profilo in massa ottenuto è simile infatti alla composizione dell’acqua di mare [5]. Il secondo fattore rappresenta la polvere del suolo risospesa. Il profilo in massa è stato confrontato con i risultati ottenuti dall’analisi dei suoli ed i valori ottenuti sono alquanto simili. K+ è rappresentato specialmente dal fattore 3, mentre H+ dal fattore 4 ed è quasi l’unico composto ad essere rappresentato da questo fattore. Si può concludere che il fattore 3 potrebbe rappresentare una fonte di combustione, mentre il fattore 4 il pH, che ha un comportamento indipendente dalle altre variabili. Il fattore 5 rappresenta una sorgente caratterizzata da NH4

+, NO3-, SO4

2-, Cl-, per questo è presumibilmente un fattore antropogenico. Potrebbe essere particolato atmosferico secondario. Il fattore 6 rappresenta una sorgente caratterizzata da metalli pesanti, NO3

-, SO42-, and Ca+.

Anche questo fattore sembra rappresentare una fonte antropogenica, forse l’inceneritore. 3. Conclusioni Il presente studio mette in evidenza che l’inceneritore di rifiuti solidi urbani monitorato non è la principale fonte emissiva e l’area monitorata è caratterizzata da una bassa contaminazione diffusa ed omogenea. Questo è difficilmente spiegabile considerando solo il modello di dispersione degli inquinanti emessi dall’impianto e suggerisce che più sorgenti sono presenti nell’area. Questo è confermato dall’analisi PMF che riporta che sei sorgenti influenzano l’area e alcune di esse rappresentano un contributo di origine naturale.

Bibliografia

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I green jobs

Marco Gisotti [email protected] – Modus Vivendi, Roma

1. Introduzione Green economy is our only future, ovvero “l’economia verde è il nostro solo futuro”, è il titolo della Dichiarazione di Bandung adottata alla fine della Conferenza di Tunza, svoltasi in Indonesia dal 27 settembre al I ottobre 2011. 1.400 fra bambini e ragazzi, tutti fra i 10 e i 24 anni, provenienti da 120 paesi di tutto il mondo si sono incontrati sotto l’egida dell’UNEP e di altre importanti sigle internazionali (Ilo, Unicef, Unfpa, Fao, Wmo, Unesco e Un/Desa) in vista della Conferenza mondiale sull’ambiente che si svolgerà a Rio de Janeiro nel giugno del 2012, vent’anni dopo quella storica del 1992. «Come bambini – spiega Adeline Tiffanie Suwana, 14 anni, indonesiana –, siamo in grado di piantare alberi, pulire fiumi e spiagge, ma non possiamo impedire alle industrie di inquinare i nostri fiumi, non possiamo costringerle ad adottare un’economia verde. Vogliamo che politiche e leggi che rendano le industrie sostenibili». La dichiarazione di Bandung identifica l’accesso ai lavori verdi come cruciale per una transizione sostenibile verso la green economy: «Nei prossimi dieci anni – si legge nel documento – la popolazione mondiale supererà i 7 miliardi e avremo bisogno di dare lavoro a oltre un miliardo di giovani: lavori che consentano di vivere una vita produttiva e che valga la pena di essere vissuta ma anche che contribuiscano a raggiungere una piena economia verde». Se si considera che circa il 40 per cento dei non occupati del Pianeta, quasi 80 milioni di persone, ha un’età compresa proprio fra i 14 e i 24 anni, si comprende perché il Programma per l’ambiente delle Nazioni unite abbia dato nei giorni passati molta enfasi a questa Conferenza, che per altro si inserisce in un piano ben più ampio, che è quello della “Tunza Youth Strategy”, adottata nel 2003 come strategia a lungo termine per coinvolgere i giovani in attività ambientali e lavorative e dove la parola “tunza”, in swahili, vuol dire “trattare con cura o affetto”. D’altronde è stato lo stesso Sha Zukang, segretario generale della Conferenza Onu sullo sviluppo sostenibile, ad aver messo appaiati al primo punto dell’agenda degli impegni di Rio+20 il lavoro verde e l’inclusione sociale: «Rio +20 sarà un vertice sulla vita delle persone e sui loro mezzi di sostentamento – ha spiegato in una nota ufficiale –. Si tratta di un vertice sulle misure necessarie per creare più posti di lavoro, migliori e verdi. A Rio, i governi avranno bisogno di condividere lezioni su quali politiche relative alla green economy potranno essere d’aiuto alla creazione di lavori verdi». 2. Relazione

2.1 Cosa sono i green jobs

Lo abbiamo chiamato “lavoro verde”, “eco lavoro” e, all’inglese, “green job”, ma nel lessico italiano queste espressioni sono rimaste neglette fino al 4 novembre 2008 quando il neo eletto presidente degli Stati uniti d’America, Barak Obama, ha citato “green economy” e “green job”. Da allora anche i grandi quotidiani di questo Paese hanno cominciato ad occuparsene. Non c’è periodico o rotocalco che non se ne sia occupato, che si sia trattato di parlare dell’ecoparrucchiere, dell’ingegnere ambientale, dell’energy manager o del chimico verde. Secondo il Rapporto “Green Jobs: Towards decent work in a sustainable, low-carbon world” dell’Unep si definiscono lavori verdi quelle «attività lavorative nel settore agricolo, manifatturiero, amministrativo, dei servizi e nelle attività di ricerca e sviluppo che contribuiscono sostanzialmente nell’opera di salvaguardia o ripristino della qualità

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ambientale. Questi includono attività che aiutano a tutelare e proteggere gli ecosistemi e la biodiversità; a ridurre il consumo di energia, risorse e acqua tramite il ricorso a strategie ad alta efficienza; a minimizzare o evitare la creazione di qualsiasi forma di spreco o inquinamento. (…) Non è sempre facile identificare i lavori verdi perché se alcuni settori, come quello delle energie rinnovabili, sono ben riconoscibili, i cambiamenti che avvengono nelle industrie tradizionali non sono sempre facilmente individuabili. (…) Come ogni altro settore, quello degli investimenti in campo ambientale genera sia un certo numero di posti di lavoro diretti (progettazione, costruzione, mantenimento) che indiretti (nelle industrie che forniscono i componenti). Alcuni impieghi sono facilmente identificabili come lavori verdi, per esempio l’installazione di un pannello solare o la manutenzione di una pala eolica, mentre un componente di acciaio di una pala eolica può venire da un’acciaieria senza neanche che ne questa ne sia a conoscenza». 2.1.1 In Italia

In Italia il dibattito sui “green job” è stato finora limitato alla creazione di posti di lavoro da parte delle imprese del settore delle energie rinnovabili, presso le quali si stima che siano circa 150.000 le persone a vario titolo impiegate, con possibilità secondo uno studio IRES di crescita fino a 250.00 entro la fine del decennio. Secondo l’Isfol complessivamente i lavoratori verdi nel nostro Paese supererebbero appena le 300.000 unità complessivamente, ma il numero potrebbe essere molto più alto soprattutto se analizzassimo i dati forniti delle associazioni di categoria e di quelle datoriali. Si scopre così che non c’è comparto che non sia attraversato, sia pure in tempi di crisi, da una riconversione sostenibile, con numeri decisamente importanti sotto il profilo occupazionale: 116.000 nel trasporto pubblico, 410.000 nel settore delle foreste, 103.000 nei rifiuti e 76.000 nel riciclaggio, 80.000 nelle aree protette, 13.000 nella chimica verde, 130.000 nell’agricoltura biologica, 27.000 nel settore delle bonifiche ambientali, 50.000 nell’ecoturismo. Complessivamente, ma i dati sono fra loro disomogenei quindi è virtualmente impossibile una perfetta somma aritmetica, si stima che siano operativi oggi in Italia fra gli 800.000 e i 950.000 lavoratori verdi, con prospettive di crescita nei prossimi anni. Secondo uno studio di Unioncamere e Fondazione Symbola, “GreenItaly”, il 39,5 per cento di tutte le professioni censite dall’Istat sono oggi oggetto di una riconversione verde e il 90 per cento delle imprese italiane ritiene urgente o necessaria l’assunzione di lavoratori con competenze ambientali. In termini numerici, nel 2011, si è trattato di 227.000 nuove assunzioni verdi sul mercato del lavoro nazionale, con un trend che conferma e anzi risulta in aumento rispetto alle 200.000 del 2010 e del 2009. Il fatto, inoltre, che l’anno scorso siano mancati all’appello 110.00 diplomati (su una domanda di 236.000 sono trovati solo 126.000 giovani) significa che un pari numero di posti di lavoro, in posizioni tecnico-specialistice, sono rimasti vacanti. In un Paese dove ogni giorno ci viene detto che la disoccupazione è in aumento e i giovani non sanno dove sbattere la testa. Anche perché quei 110mila sono la punta di un iceberg di professioni introvabili (come le definisce Unioncamere che ha svolto la più grande indagine sulla forza lavoro in Italia attraverso il Programma Excelsior: http://excelsior.unioncamere.net). Ed entro marzo 2011 le previsioni di Unioncamere indicavano che ci sarebbero state 152.000 assunzioni delle quali una su tre indirizzata a un giovane sotto i 30 anni. Esiste, cioè, una Paese che si muove ad un livello più sconosciuto, quasi clandestino, rispetto a quello mediatico. Certo la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, esiste e in Italia è molto più accentuata che in altri Paesi. Ma è anche vero che spesso si fa confusione e, per esempio, si spacciano per disoccupati giovani e giovanissimi che ancora studiano o che hanno appena finito il percorso di studi. Che dire poi dei servizi televisivi che invece di entrare dentro quelle aziende dove l’età media è di 28 anni (e ce ne sono!), si limita a intervistare il

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primo ragazzo per strada chiedendogli se è vero che c’è la disoccupazione (nella domanda è già contenuta la risposta, ovviamente). Si spacciano semplici interviste per indagini demoscopiche e queste ultime per dati statistici. Per cui alla fine né i decisori politici, né gli stake holder di ogni livello e grado sono più in grado di distinguere la finzione dalla realtà, il vero dal falso. Come quell’altra notizia, emersa all’inizio dell’anno, per cui ci sarebbe crisi anche nei “green jobs”, soprattutto nel settore energetico. Vera, ma solo in parte. L’anno scorso, e lo ricordiamo tutti bene, il governo a giocato rimpiattino con i contributi per le rinnovabili, mettendo in allarme investitori e imprenditori, mettendone un po’ in fuga. Contrazione dei contratti, delle forniture e dei nuovi posti di lavoro. In un settore che però rimane solido e con ottime prospettive per il futuro e con un fatturato in aumento. Se di lavoro si deve parlare, insomma, è per dire che non c’è. Mai per dire dov’è e come lo si ottiene. Il più grande buco nero del nostro sistema lavorativo (per la verità il problema è globale, anche se da noi più accentuato) è il disallineamento fra domanda e offerta. Aziende che cercano, giovani che si offrono, nessun luogo capace di farli incontrare. I centri per l’impiego, per esempio, funzionano bene solo in alcune realtà molto avanzate, ma in generale rimangono enti distribuiti sul territorio incapaci di dialogare con le imprese, laddove cioè si genera occupazione. Ci sono poi quegli “introvabili” che lo sono perché il sistema formativo non è orientato in maniera utile: la diseguaglianza fra lauree tecnico-scientifiche e umanistiche ne è la prova, così come il pregiudizio contro la formazione tecnico specialistica a favore di quella universitaria permane nel mondo dell’istruzione superiore e in quella di molti orientatori. La scarsa diffusione degli Istituti tecnici superiori (sono appena 59 in tutta Italia) e la scarsa conoscenza degli stessi sono una ulteriore prova del ritardo in cui versa il nostro sistema formativo. Questi elementi sono una delle cause del ritardo con il quale si sta sviluppando la green economy nel nostro Paese, e quindi lo sviluppo delle nuove professioni verdi. La rivoluzione che sta coinvolgendo l’intero mondo industriale e dell’artigianato è d’altronde dimostrata anche dagli studi di Confindustria, per la quale il solo efficientamento energetico richiederà una innovazione delle tecnologie e dei processi che richiederà una forza lavoro solo nel nostro paese di 3 milioni di persone. Che bisognerà formare e impiegare. O anche, in molti casi, aggiornare nelle competenze e ri-occupare. 2.2 Ritorno a Bandung

A Bandung, 61 anni fa, ebbe luogo la prima conferenza dei Paesi non allineati, quelle 29 nazioni cioè che non facevano capo né all’Urss né agli Usa ma che rappresentavano un miliardo e mezzo di persone. Fu la prima volta che il terzo mondo fece sentire forte la sua voce al resto del Pianeta. Il I ottobre 2011, 1400 giovani e giovanissimi, nello stesso luogo, hanno rivendicato il loro diritto ad un futuro sostenibile. Il 4 giugno 2012 consegneranno la loro Dichiarazione ai delegati di Rio+20. «Troppi dei nostri giovani hanno un senso di impotenza e frustrazione davanti al “come vanno le cose” – ha dichiarato Achim Steiner, sottosegretario generale e direttore esecutivo dell’Unep in chiusura dei lavori di Bandung –. I governanti devono ascoltarli con più attenzione e maggiore cura e garantire che la loro volontà di partecipazione sia supportata. Non solo i giovani hanno gli ideali, le soluzioni e l’energia, ma spesso sono liberi dall’aver indici accusatori rivolti loro, o dalle astuzie della politica o da passati interessi che possano deviare il futuro. I giovani riuniti a Bandung sono il miglior antidoto a un mondo che continua a giustificare la disoccupazione di massa, la povertà e la distruzione dell’ambiente nel nome del progresso economico. E sono anche la parte migliore attraverso cui sperare che Rio+20 sia un evento di trasformazione».

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«Perché l’economia verde decolli – ha detto uno dei giovani partecipanti alla Conferenza di Tunza, Danier Isfer Zardo, brasiliano di 24 anni – dobbiamo guardare la nostra società, il nostro ambiente e renderci conto che non possiamo ridurre la povertà e proteggere l’ambiente senza avere lavori verdi, soprattutto per i giovani». Ed ecco perché questo è il “solo nostro futuro”.


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