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10 — focus on Il mistero del Male in «Giro di vite» C · ci Variazioni concluse da una...

Date post: 17-Feb-2019
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C on «giro di vite», nel significato prestatogli da Henry James, si deve intendere quel grado in più di effetto che si accompagna a un racconto già spaventoso in sé, quando si aggiungano elementi nar- rativi particolari, come il coinvolgimento nell’azione di bambini innocenti: è la sfida che Britten assume e vin- ce rappresentandola in un saggio altissimo di teatro mu- sicale senza sconvolgerne le strutture basilari. Nel 1954 quando la Biennale di Venezia commissiona a Benjamin Britten Il giro di vite per il Festival di musica contempora- nea, il nome del musicista inglese è da circa un decennio in prima linea nel campo del teatro musicale mo- derno: almeno dal succes- so clamoroso di Peter Gri- mes rappresentato nel 1945 per la riapertura del Sad- ler’s Wells dopo l’interru- zione della guerra; l’ambi- guo rapporto del marina- io Grimes con il suo moz- zo verrà individuato e svi- luppato nella nuova ope- ra sui temi dell’innocen- za e dell’adolescenza, ma i suoi precedenti formali più diretti sono nella con- cezione dell’opera «da ca- mera», maturata in Brit- ten nell’esperienza di di- rettore artistico dell’En- glish Opera Group: cam- po privilegiato sia per nuove creazioni (come Albert Herring del 1947), sia per riprese di antiche opere inglesi, come The Beggar’s Opera di Gay e Di- do and Aeneas di Purcell: proprio dall’intreccio di antico e moderno, di lontano e di quotidiano nasce la soluzione di questo frutto peculiare in tutta l’opera del Novecento. Rispetto alla fonte dell’opera, il racconto breve The Turn of the Screw di Henry James (1898), due sono le innovazio- ni principali del libretto di Myfanwy Piper: la centralità della figura dell’istitutrice (la cui psicologia James scan- daglia con crudele precisione) cede il primo piano ai due bambini, Miles e Flora; più di tutto, la presenza corpo- rea, la voce fisica dei due fantasmi, Quint e Jessel; nel rac- conto costoro, limitandosi alla pura apparizione, poteva- no sembrare una proiezione della mente dell’istitutrice; nell’opera invece parlano, non solo alle loro vittime, ma anche fra loro, in congiura, proponendosi (nella prima scena del secondo atto) un piano di conquista della citta- della del Bene che culmina in un verso di Secondo Avven- to di W.B.Yeats, «La cerimonia dell’innocenza è morta». Resta però fermo il centro di tutto, anzi nell’opera musi- cale reso ancora più penetrante e pervasivo: la presenza del Male, il suo mistero che è la sua presenza stessa, intes- suto di velate implicazioni sessuali che si spandono come un veleno; tuttavia un «Male molto inglese» come osser- vò Fedele d’Amico, quello evocato dalla coscienza puri- tana in un contrasto irrisolto fra angelismo e dannazione. Sul terreno propriamente musicale è ragione di conti- nua ammirazione il rigore formale esercitato dal musici- sta su una materia tanto rischiosa e sfuggente: tutta l’azio- ne è incanalata nella struttura di un Tema con quindi- ci Variazioni concluse da una magistrale ciaccona finale; ogni variazione inoltre sfocia direttamente in una scena corrispettiva alla quale fa da prologo strumentale, prepa- randone il materiale inventivo: in definitiva una rete che non lascia libera una sola maglia del tessuto. L’ossigenato ambiente marino del Grimes, in cui era implicito un senso di riscatto, è rimosso: un’aria di serra, viziata e soffocante grava sulla casa di Bly teatro di tutta l’azione; infine, colpo di genio che dà al Giro di vite il suo colore specifico, è quel- la di aver disciolto nell’invenzione tematica un tipo di vo- calità tipicamente inglese, con i suoi modelli nei madrigali elisabettiani e in Purcell; non mancano riflessi di uno sti- le vocale italiano, ad esempio nelle parti di Grose e di Jes- sel, e russo per Quint (nel senso delle acutezze stranian- ti dell’ Oedipus di Stravinsky); ma il tocco definitivo, tale da riassumere nel ricordo la «tinta» di tutta l’’opera, sono le voci bianche dei due adolescenti, le nursery rhymes e qua- si tutti i canti intonati dai due fanciulli; sopra tutto il de- solato canto di Miles «Malo, Malo, Malo, I would rather be», che torna alla fine dell’opera, come il suo sigillo pro- fondo quanto indecifrabile nella sua subdola dolcezza. Il mistero del Male in «Giro di vite» di Giorgio Pestelli The Turn of the Screw secondo Luca Ronconi al Teatro Regio di Parma. Da sinistra, Debora Beronesi (Mrs Grose), Fleur Todd (Flora), Gun-Brit Barkmin (L’istitutrice), in alto Patrizia Orciani (Miss Jessel) (foto di Roberto Ricci). 10 — focus on focus on
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Con «giro di vite», nel significato prestatogli da Henry James, si deve intendere quel grado in più di effetto che si accompagna a un racconto già

spaventoso in sé, quando si aggiungano elementi nar-rativi particolari, come il coinvolgimento nell’azione di bambini innocenti: è la sfida che Britten assume e vin-ce rappresentandola in un saggio altissimo di teatro mu-sicale senza sconvolgerne le strutture basilari. Nel 1954 quando la Biennale di Venezia commissiona a Benjamin Britten Il giro di vite per il Festival di musica contempora-nea, il nome del musicista inglese è da circa un decennio in prima linea nel campo del teatro musicale mo-derno: almeno dal succes-so clamoroso di Peter Gri-mes rappresentato nel 1945 per la riapertura del Sad-ler’s Wells dopo l’interru-zione della guerra; l’ambi-guo rapporto del marina-io Grimes con il suo moz-zo verrà individuato e svi-luppato nella nuova ope-ra sui temi dell’innocen-za e dell’adolescenza, ma i suoi precedenti formali più diretti sono nella con-cezione dell’opera «da ca-mera», maturata in Brit-ten nell’esperienza di di-rettore artistico dell’En-glish Opera Group: cam-po privilegiato sia per nuove creazioni (come Albert Herring del 1947), sia per riprese di antiche opere inglesi, come The Beggar’s Opera di Gay e Di-do and Aeneas di Purcell: proprio dall’intreccio di antico e moderno, di lontano e di quotidiano nasce la soluzione di questo frutto peculiare in tutta l’opera del Novecento.

Rispetto alla fonte dell’opera, il racconto breve The Turn of the Screw di Henry James (1898), due sono le innovazio-ni principali del libretto di Myfanwy Piper: la centralità della figura dell’istitutrice (la cui psicologia James scan-daglia con crudele precisione) cede il primo piano ai due bambini, Miles e Flora; più di tutto, la presenza corpo-rea, la voce fisica dei due fantasmi, Quint e Jessel; nel rac-conto costoro, limitandosi alla pura apparizione, poteva-no sembrare una proiezione della mente dell’istitutrice; nell’opera invece parlano, non solo alle loro vittime, ma anche fra loro, in congiura, proponendosi (nella prima scena del secondo atto) un piano di conquista della citta-della del Bene che culmina in un verso di Secondo Avven-to di W.B.Yeats, «La cerimonia dell’innocenza è morta». Resta però fermo il centro di tutto, anzi nell’opera musi-cale reso ancora più penetrante e pervasivo: la presenza

del Male, il suo mistero che è la sua presenza stessa, intes-suto di velate implicazioni sessuali che si spandono come un veleno; tuttavia un «Male molto inglese» come osser-vò Fedele d’Amico, quello evocato dalla coscienza puri-tana in un contrasto irrisolto fra angelismo e dannazione.

Sul terreno propriamente musicale è ragione di conti-nua ammirazione il rigore formale esercitato dal musici-sta su una materia tanto rischiosa e sfuggente: tutta l’azio-ne è incanalata nella struttura di un Tema con quindi-ci Variazioni concluse da una magistrale ciaccona finale; ogni variazione inoltre sfocia direttamente in una scena corrispettiva alla quale fa da prologo strumentale, prepa-randone il materiale inventivo: in definitiva una rete che non lascia libera una sola maglia del tessuto. L’ossigenato ambiente marino del Grimes, in cui era implicito un senso di riscatto, è rimosso: un’aria di serra, viziata e soffocante grava sulla casa di Bly teatro di tutta l’azione; infine, colpo di genio che dà al Giro di vite il suo colore specifico, è quel-

la di aver disciolto nell’invenzione tematica un tipo di vo-calità tipicamente inglese, con i suoi modelli nei madrigali elisabettiani e in Purcell; non mancano riflessi di uno sti-le vocale italiano, ad esempio nelle parti di Grose e di Jes-sel, e russo per Quint (nel senso delle acutezze stranian-ti dell’Oedipus di Stravinsky); ma il tocco definitivo, tale da riassumere nel ricordo la «tinta» di tutta l’’opera, sono le voci bianche dei due adolescenti, le nursery rhymes e qua-si tutti i canti intonati dai due fanciulli; sopra tutto il de-solato canto di Miles «Malo, Malo, Malo, I would rather be», che torna alla fine dell’opera, come il suo sigillo pro-fondo quanto indecifrabile nella sua subdola dolcezza. ◼

Il mistero del Male in «Giro di vite»

di Giorgio Pestelli

The Turn of the Screw secondo Luca Ronconial Teatro Regio di Parma.

Da sinistra, Debora Beronesi (Mrs Grose),Fleur Todd (Flora), Gun-Brit Barkmin (L’istitutrice),

in alto Patrizia Orciani (Miss Jessel) ( foto di Roberto Ricci).

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Per un direttore d’orchestra affrontare The Turn of the Screw è sempre una sfida intrigante: il fascino stra-ordinario di questo lavoro, nel quale Benjamin Britten è ri-

uscito a rendere – grazie a una scrittura di rigoroso eclettismo – le inquiete atmosfere delle pagine di Henry James, è infatti per qua-lunque bacchetta un momento di confronto diretto con l’originalità del compositore.

Non stupisce quindi che a dirigere il nuovo allestimento venezia-no dell’opera sia stato chiamato un artista di indiscutibile sensibili-tà come Jeffrey Tate, che abbiamo raggiunto telefonicamente a Pari-gi, da dove ci risponde con la consueta finezza e capacità di inqua-drare al meglio il discorso.

È per me un grande onore diri-gere The Turn of the Screw proprio a Venezia, nello stesso teatro in cui si tenne la prima rappresen-tazione di quest’opera. A questo va aggiunto un altro dato, cioè il particolare rapporto persona-le che mi lega al lavoro di Brit-ten, il primo che ho conosciuto comprandone una versione di-scografica quando ero ragazzo. Fa parte di quel trittico di capo-

lavori assoluti del Novecento che comprende anche Peter Grimes e Billy Budd, ma sono convinto che The Turn of the Screw sia la più perfetta dei tre.

Che cosa in particolare la colpisce di questa partitura così originale?

Mi affascina incredibilmente la costruzione, questo sus-seguirsi di variazioni del tema iniziale basato sui dodici semitoni della scala, quasi che ogni variazione costituisca un «giro di vite» ulteriore. È poi intrigante il modo in cui Britten utilizza un’orchestra così ridotta, riuscendo a ot-tenere da un tale organico un così grande numero di ef-fetti e di suggestioni sonore.

Questa particolarità della strumentazione mette in difficoltà il di-rettore, che non ha più a disposizione il pieno orchestrale, oppure no?

Devo dire che in questo senso Britten è un composito-re che agevola molto i direttori e The Turn of the Screw è, per quanto mi riguarda, una partitura abbastanza agevole. Le difficoltà ce le ha piuttosto l’orchestra, sulle cui spal-

le c’è un lavo-ro molto inten-so e, ovviamen-te, le voci, an-che se mi sem-bra che Britten scriva magnifi-camente per le voci, rendendo le loro parti rela-tivamente facili da cantare.

Ci sono altre ope-re del Novecen-to di cui tiene con-to quando affronta The Turn of the Screw?

I r ifer imen-ti più immedia-ti e ovvi sono a Stravinskij, che tra l’altro sem-pre a Venezia aveva debuttato tre anni prima di Britten con The Rake’s Pro-gress, e ad Alban

Berg, specialmente al Wozzeck, con cui condivide la strut-tura a variazioni e che Britten stesso ammirava molto.

Nel nuovo allestimento avrà come regista Pier Luigi Pizzi: vi siete già sentiti per capire come lavorare all’opera di Britten?

Non ancora, ma lo faremo presto. Conoscendo la gran-de visionarietà di Pizzi e sapen-do quale visionarietà richie-de quest’opera, sono davve-ro contento e curioso di inizia-re a lavorarci. Anche il cast mi sembra molto interessante e il suo peso è davvero essenzia-le per la riuscita del lavoro. ◼

Jeffrey Tate dirige«The Turn of the Screw»Un nuovo allestimento veneziano per l’operadi Britten

di Enrico Bettinello

Venezia – Teatro La Fenice25, 29 giugno e 1 luglio, ore 19.00

27 giugno, 3 luglio, ore 15.30The Turn of the Screw (Il giro di vite) di Benjamin Britten

opera in un prologo e due atti op.54libretto di Myfanwy Piper

dal racconto omonimo di Henry Jamesmaestro concertatore e direttore Jeffrey Tate

Orchestra del Teatro La Feniceregia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi

nuovo allestimento Fondazione Teatro La FeniceSopra e a pagina 15, bozzetti di scena

di Pier Luigi Pizzi.

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Con il raCConto lungo The Turn of the Screw (1898), di Henry James, ci troviamo davanti ad uno dei testi più famosi, più discussi, ma anche più ap-

prezzati del grande scrittore americano, fin dal momen-to in cui comparve, prima a puntate su «Collier’s Weekly» (gennaio-aprile 1898), poi nel volume The Two Magics, con Covering End, nell’ottobre 1898, e infine, in edizione rive-duta, per la New York Edition nel 1908.

Le recensioni colsero immediatamente il tema alla ba-se del racconto, la presenza, ma soprattutto gli effetti del male sull’innocenza, e la straordinaria capacità di James di trasmettere al lettore questo tema senza (quasi) nes-sun orpello esterno appartenente ai canoni del realismo o della tradizione «gotica». Sulla esistenza, o meno, dei «fantasmi» in questo racconto – sono loro i portatori del male o è chi li vede o immagina il vero corruttore? –, so-no stati scritti molti saggi, a partire dall’interpretazione freudiana di Edna Kenton (1924), all’assai più noto sag-gio di Edmund Wilson (1934), dove tutto viene ricondot-to alle «allucinazioni» della istitutrice-narratrice.

Come è noto, The Turn of the Screw è preceduto da un pro-logo, di taglio tradizionale, in cui alcune persone, alla vi-gilia di Natale, davanti a un camino acceso, in una vec-chia casa, raccontano storie di fantasmi, tra le quali quella di un’apparizione ad un bambino: è a questa storia che re-agisce il padrone di casa, Douglas, promettendone un’al-tra, scritta in un diario da una donna, morta ormai da vent’anni, dove non solo c’è un bambino, ad aggiungere «un giro di vite» al terrore della storia, ma ve ne sono due. «Se il bambino offre un giro di vite all’effetto, che ne dite di due bambini...?» Il manoscritto viene recuperato, Dou-glas accenna ad alcuni fatti che riguardano la donna che lo ha scritto. È una ragazza di campagna, che si presen-ta ad un ricco signore di Harley Street come isti-tutrice per i suoi due nipoti, rimasti orfani. La ragazza lo vede «all in a glow of high fashion, of good looks, of expensive habits, of char-ming ways with women» («in uno splendo-re di moda, di bellezza, di abitudini costo-se, di modi che affascinano le donne»), sente il suo fascino e accetta le condizioni imposte: non dovrà mai, mai, consultarlo su nulla riguardo ai bambini che le saranno affi-dati in una casa nell’Essex, non do-vrà mai mettersi in contatto con lui. Douglas fornisce solo al-cuni dettagli, tutti tesi a te-nere desta l’attenzione e la curiosità degli ascoltatori, ma insieme utili al letto-re per l’interpretazione della storia. Il diario, in prima persona, costitu-

isce il vero racconto.Il racconto dell’istitutrice inizia con il suo arrivo a Bly,

una vecchia casa di campagna, inizialmente presentata come un luogo paradisiaco, anche se già vi sono presen-ti segni negativi, e con il suo incontro con i due bambi-ni, Flora e Miles, con la governante, Mrs. Grose, e con la graduale scoperta di una serie di misteri: l’espulsione di Miles da scuola, la morte della istitutrice che la ha prece-duta, Miss Jessel, le apparizioni del fantasma di Miss Jes-sel e di Peter Quint, un tempo a servizio a Bly, anche lui morto in circostanze misteriose e in ogni modo tragiche. In un crescendo di tensione il racconto sviluppa il tema dell’innocenza e del male, che si incontrano nei due bel-lissimi bambini, trascinati al male dai «fantasmi» dei cor-rotti Miss Jessel e Quint, o dalle allucinazioni della istitu-trice-narratrice, fino al dénouement tragico della vicenda, la morte di Miles. Il male è penetrato nell’apparente para-diso di Bly (nome che rimanda all’aggettivo «blithe», che indica una felicità paradisiaca).

La straordinaria qualità del racconto è legata alla ambi-guità della presentazione dei fatti, tutti narrati dal pun-to di vista – «unreliable» (inattendilibile) – dell’istitutri-ce. James almeno due volte definì The Turn of the Screw un «pot-boiler», racconto scritto per soldi, ma si smentì lui stesso ampiamente quando nella Prefazione alla edizione di New York definì il racconto «un’incursione nel caos», costruita con «pura e semplice ingegnosità, freddo calco-lo artistico», poiché si trattava di trovare il modo di co-municare «quel senso di sinistra profondità senza la qua-le la mia favola sarebbe penosamente crollata», di espri-mere «il male portentoso», il male assoluto.

Se anche James ebbe interesse per il genere della «ghost story» (storie di fantasmi), e se il «germe» di questo rac-conto fu in effetti una storia di fantasmi (e di bambini e di servi corrotti) narratagli accanto a un camino dall’Ar-civescovo di Canterbury nel 1895, i suoi fantasmi, come scrisse Virginia Woolf nel 1921, «non hanno nulla in co-mune con i vecchi fantasmi violenti—capitani da ma-re insanguinati, cavalli bianchi, donne con la testa moz-za su viottoli oscuri o prati spazzati dal vento. Essi han-no la loro origine dentro di noi». Nemmeno James trova i fantasmi della tradizione interessanti: «I fantasmi buo-ni, dal punto di vista narrativo sono argomenti di scar-so rilievo, e mi fu chiaro, fin dall’inizio, che queste mie

presenze, in agguato, incombenti, portatori di morte, la mia coppia di agenti anormali, avrebbero dovuto

violare decisamente le regole. Sarebbero diventa-ti, di fatto, agenti: a loro sarebbe stato imposto il dovere ingrato di creare una situazione con l’aria satura dell’odore del Male».

Sono questi «agenti» del male che il lettore af-fronta, terrorizzato non «dall’uomo dai capelli

rossi e dal volto pallido» (Quint) che com-pare in cima alla torre, ma, come scrive

ancora Virginia Woolf, da «qualcosa di innominato, da qualcosa, che,

forse, è dentro di noi».Il racconto appartiene agli anni della maturi-tà in cui James pubblicò alcuni dei suoi racconti più inquietanti, quali The Altar of the Dead e The Fi-gure in the Carpet (1895), o

di Rosella Mamoli Zorzi

Fantasmi in scena:«The Turn of the Screw»da Henry Jamesa Benjamin Britten

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il romanzo What Maisie Knew (1897), dove una bambina con i genitori divorziati percepisce con intuito quasi da adulta le situazioni in cui i genitori si trovano con i nuo-vi rispettivi partners; dopo il fallimento di Guy Domville (1895) sulle scene, James utilizza la sua esperienza teatra-le del «metodo scenico», che si aggiunge alle sperimenta-zioni del punto di vista circoscritto o di un narratore inaf-fidabile, per arrivare, agli inizi del Novecento ai grandi, complessi e magnifici romanzi dell’ultimo periodo, The Ambassadors (1900), The Wings of the Dove (1902), The Gol-den Bowl (1904).

The Turn of the Screw ha generato pittura, film, musica. Il pittore americano Charles Demuth (1883-1935) tra il 1917 e il 1918 dipinse cinque acquerelli (conservati al Mo-MA e al Philadelphia Museum of Art), in parte pubbli-cati nel 1924, che rendono magnificamente in una mo-dalità pittorica onirica alcune scene del racconto. Ne fu tratto un famoso film, The Innocents (1961), con la regia di Jack Clayton e con Deborah Kerr nella parte dell’istitu-trice. Tra le produzioni di «Masterpiece Theatre» vi fu una versione con Caroline Pegg, Johdy May e Colin Firth nel 2000.

Britten sentì una drammatizzazione radiofonica nel 1932 quando aveva diciotto anni, e annotò nel diario la sua impressione: «an incredible masterpiece» («un capo-lavoro incredibile»). Forse fu da quel momento che ger-minò in lui la futura opera, del 1954, commissionatagli dalla Biennale per la Fenice, con il libretto scritto da My-fawny Piper (1911-1997), consorte dell’artista John Piper. Nell’opera furono incorporate due «nursery rhymes» as-sai note, Tom, Tom, The Piper’s Son e Lavender’s Blue, oltre ad alcuni versi da The Second Coming di W.B.Yeats, pubblica-to nel 1921, «The Ceremony of Innocence is Drowned», e parole latine (Atto I, Scena VI), che sembra siano state tratte dalla grammatica di B.H.Kennedy, usata da Britten

stesso, quasi tutte allusive al sesso maschile e all’omoses-sualità, anche se mascherate nel significato nella gram-matica stessa. Latina è anche la parola «Malo» nella can-zone che Miles non ha imparato da nessuno ma dichiara di aver «trovato», parola interpretata nei diversi significati di «desidero», «albero di mele», ablativo di «malum» (ma-le). La Piper, pur in un libretto che deve ridurre di molto il testo, utilizzò il testo a volte molto da vicino: ad esem-pio il «Prologo», che appare in scena come personaggio, dichiara di avere «a curious story. I have it written/in fa-ded ink», parole usate nel Prologo a proposito del mano-

scritto, o ancora, quando il «Prologo» descrive la rea-zione della ragazza davan-ti al ricco signore: «...she was carried away» («fu tra-volta»), le parole stesse che usa l’istitutrice nel primo capitolo del manoscrit-to, nel primo dialogo con Mrs. Grose, la governante di Bly. La massima diffe-renza, al di là della neces-saria riduzione del mate-riale e la forma a dialogo imposta dal libretto, con-siste nel fatto che i fanta-smi di Miss Jessel e di Pe-ter Quint non hanno mai parola o voce nel raccon-to, mentre a partire dalla scena VIII del primo atto, notturna, prendono la pa-rola. Quint sulla torre chi-ama «Miles! Miles! Miles! » tre volte, presentandosi come «the Hero-highway-man plundering the land./ I am king Midas with gold in his hand», con l’imma-

gine di un eroe-bandito e del re Mida che tutto uccide con la sua capacità di trasformare tutto in oro. Miss Jes-sel chiama Flora, entrambi nel tentativo di portare dalla loro parte, di possedere, i bambini. Nella scena seguen-te (Atto II, scena I), sono Miss Jessel e Quint a dialogare nel loro canto, mentre Miss Jessel ritorna in scena (III), a comunicare la sua tragedia trascorsa e il suo desiderio di vendetta («Here my tragedy began,/ here revenge be-gins»; «Qui iniziò la mia tragedia/ qui inizia la vendetta»). Quint ritorna e canta («unseen», non visto) nelle scene IV, V, VIII, esortando Miles a distruggere la lettera che Miss Jessel ha scritto allo zio dei bambini e poi a non dire la verità, e vi rimane fino al momento in cui Miles muore.

La «voce bianca» di Miles sottolinea mirabilmente il te-ma dell’innocenza corrotta centrale nel racconto di Ja-mes. La tensione del racconto è esaltata magnificamente dalla musica di Britten. ◼

Nella pagina a fianco: Henry James.Sopra: Miles and the Governess, acquerello di Charles Demuth (Philadelphia Museum of Art). (Cortesia del Dipartimentodi Americanistica dell'Università di Ca' Foscari).

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il giro di vite fa parte di un disegno che fonda le sue radici nelle due ultime opere che ho realizzato per la Fenice, cioè un altro Britten, Morte a Venezia, e Die to-

te Stadt di Erich Wolfgang Korngold. Quest’ultima, per il modo in cui ho risolto la messinscena, sembrava infat-ti l’ideale continuazione di Morte a Venezia, perché vi si in-contrava lo stesso clima e lo stesso segno stilistico. E an-che questo nuovo lavoro non nasce per caso, è la prosecu-zione di quel progetto, e dun-que l’approccerò con il mede-simo stile.

Sono tutte opere che scava-no a fondo la psicologia dei personaggi e ricreano atmo-sfere particolari, che sconfi-nano nella patologia. Giro di vite non l’avevo mai affrontata prima, la mia frequentazione con Britten infatti inizia con la citata Morte a Venezia, al-lestita a Genova e in seguito in laguna, e prosegue con A Midsummer Night’s Dream per il Teatro Real di Madrid. E an-che dopo questa nuova espe-rienza mi piacerebbe conti-nuare nello studio di questo compositore, perché lo sen-to molto affine, a partire dal-le tematiche che tratta, come quella – centrale – legata a una giovinezza non serena, turba-ta. Il discorso sull’amore, sulla solitudine, le tante que-stioni che entrano in gioco nelle sue opere mi stimolano in modo particolare. Senza necessariamente riconoscer-mi in questi problemi, in questi turbamenti, in quest’as-senza di risposte, mi sento in totale sintonia con lo spirito che li evoca. Prima di mettere in scena un’opera ci si tro-va a interrogarla, a cercare di comprendere cosa contiene al di là della vicenda narrata, anche per trovare degli an-tidoti al proprio travaglio spirituale e alla propria solitu-dine. E Britten, come anche Korngold, sono autori che forniscono delle risposte. È questa la ragione per cui og-gi preferisco questo tipo di musica, che mi coinvolge in prima persona e mi appassiona, al repertorio che ho fat-to durante tutta la mia vita.

La lettura del racconto di James, anche se a un primo esame può sembrare relativamente utile al futuro lavo-ro scenico, dato che la storia è svolta magnificamen-te nell’opera, dà dei suggerimenti fondamentali sull’am-bientazione, perché racconta in modo poetico ed estre-mamente preciso il luogo in cui si svolgono gli eventi. La-vorare su una materia come questa è assai complesso, e le difficoltà nascono dalla necessità di catturare quello che

è imprendibile, che appartiene alla psiche dei personag-gi: per ciascuno di loro bisogna svolgere un’analisi mol-to approfondita. La stessa protagonista è una figura sfac-cettata, arriva lì da un altro universo, un mondo ordina-to e limpido, e subisce, in un certo modo, la seduzione, lo charme dello zio che la incoraggia ad assumere il suo incarico di governante. Quindi sono già presenti molte-plici implicazioni, e la vicenda comincia già con dei cam-panelli d’ allarme. L’idea poi che tutto parta dalla psico-logia dei bambini è straordinaria: essi sono assolutamen-te consapevoli e perversi, e questo lo scopriamo mano a mano, perché all’inizio sembrano due modelli di serenità e perfetta letizia. Poi invece ci rendiamo conto progressi-vamente che sono posseduti dalle presenze demoniache che li dominano. Quanto a questi fantasmi, bisogna fare i conti con la stessa opera, che – contrariamente alla no-

vella – li colloca in scena in carne e ossa, e li fa cantare. Questo li rende estremamente vivi e concreti, presenti in tutto e per tutto. Però noi sappiamo che sono delle crea-zioni mentali. Allora come si manifestano? La mia idea – anche se magari fra un mese sarò smentito, perché il tea-tro si fa sul palcoscenico e non a tavolino, e in questo mo-mento posso soltanto suggerire delle ipotesi, che avranno bisogno di un’accurata verifica sulla scena – è che, essen-do loro stati conosciuti dai bambini, si dovrebbero pale-sare esattamente come sono stati da vivi, con il loro ve-stito, la loro uniforme di istruttore e istitutrice, perfetta-mente intatti, non intaccati dal disastro della decompo-sizione. Appartengono alla memoria dei bambini, e an-che alla governante si presentano come sono stati in vita. Credo che questa sia la soluzione più logica.

Quanto infine al cast artistico, so che il direttore sarà Jeffrey Tate e questo mi rassicura moltissimo: veramente non avrei potuto desiderare di meglio. Non conosco inve-ce nessuno del cast, a parte Marlin Miller, che è stato per me un perfetto Aschenbach e che ritrovo con sollievo. ◼

Le inquietudinie i fantasmidel «Giro di vite»

di Pier Luigi Pizzi

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