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11.Note_-_Arcari_224-248-libre

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224 NOTE / NOTES SMSR 78 (1/2012) 224-248 NOTE / NOTES LUCA ARCARI Escatologia, letteratura apocalittica e messianismi nel giudaismo del secondo Tempio e nel cristiane- simo delle origini In margine a un recente volume * Nell’ampio panorama della ricerca recente sul giudaismo del secon- do Tempio, intenta a rivalutare la giudaicità di Gesù e del cristianesimo delle origini, Paolo Sacchi rappresenta uno studioso che, per l’analisi del fatto religioso antico, ha integrato storia e filologia nella prospettiva della storia delle idee 1 . Il volume che qui si presenta, una raccolta di studi apparsi in sedi diverse e quasi tutti successivi alla pubblicazione de L’apocalittica giudaica e la sua storia 2 , consta di quattro parti: 1. Riflessioni di metodo; 2. La formazione del giudaismo; 3. L’altra cultura ebraica del secondo Tempio: la letteratura segreta e di rivelazione; 4. Fra giudaismo e cristianesimo. Corredano il libro una bibliografia completa degli scritti di Paolo Sacchi dal 1953 fino al 2009 (pp. 325-334), gli indici delle opere e dei personaggi antichi, quelli degli autori moderni e quelli dei passi citati (pp. 341-363). Dopo una presentazione (pp. 5-9), il volume si apre con il saggio La storiografia ebraica (pp. 13-29) 3 , dedicato alle fonti impiegati dai libri dei Re, di Samuele e dei Giudici e al metodo storiografico soggiacente a tali narrazioni. Seguono lo studio Riflessioni metodologiche sulla critica * P. Sacchi, Tra giudaismo e cristianesimo. Riflessioni sul giudaismo antico e medio (Antico e Nuovo Testamento, 7), Morcelliana, Brescia 2010. 1 Cfr. A.O. Lovejoy, Reflections on the History of Ideas, in «Journal of the History of Ideas» 1/1 (1940), pp. 3-23; F.L. Baumer, Intellectual History and Its Problems, in «Journal of Modern History» 21 (1949), pp. 191-203; J. Higham, Intellectual History and Its Nighbours, in «Journal of the History of Ideas» 15 (1954), pp. 339-347; J.C. Greene, Objectives and Methods in Intellectual History, in «Mississippi Valley Historical Review» 44/1 (1957), pp. 58-74. Per ulteriore bibliograa, cfr. G. Boccaccini, Roots of Rabbinic Judaism. An Intellectual History, from Ezekiel to Daniel, Eerdmans, Grand Rapids 2002, pp. 15-25. 2 Brescia 1990 (Biblioteca di cultura religiosa, 55). 3 Precedentemente apparso in E. Gabba (ed.), Presentazione e scrittura della storia: storiografia, epigrafi, monumenti. Atti del convegno di Pontignano, Aprile 1996, Edizioni New Press, Como 1999, pp. 61-76. 11.Note - Arcari.indd 224 11.Note - Arcari.indd 224 08/05/2012 09:47:21 08/05/2012 09:47:21
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SMSR 78 (1/2012) 224-248

NOTE / NOTES

LUCA ARCARI

Escatologia, letteratura apocalittica e messianismi nel giudaismo del secondo Tempio e nel cristiane-simo delle originiIn margine a un recente volume*

Nell’ampio panorama della ricerca recente sul giudaismo del secon-do Tempio, intenta a rivalutare la giudaicità di Gesù e del cristianesimo delle origini, Paolo Sacchi rappresenta uno studioso che, per l’analisi del fatto religioso antico, ha integrato storia e filologia nella prospettiva della storia delle idee1. Il volume che qui si presenta, una raccolta di studi apparsi in sedi diverse e quasi tutti successivi alla pubblicazione de L’apocalittica giudaica e la sua storia2, consta di quattro parti: 1. Riflessioni di metodo; 2. La formazione del giudaismo; 3. L’altra cultura ebraica del secondo Tempio: la letteratura segreta e di rivelazione; 4. Fra giudaismo e cristianesimo. Corredano il libro una bibliografia completa degli scritti di Paolo Sacchi dal 1953 fino al 2009 (pp. 325-334), gli indici delle opere e dei personaggi antichi, quelli degli autori moderni e quelli dei passi citati (pp. 341-363).

Dopo una presentazione (pp. 5-9), il volume si apre con il saggio La storiografia ebraica (pp. 13-29)3, dedicato alle fonti impiegati dai libri dei Re, di Samuele e dei Giudici e al metodo storiografico soggiacente a tali narrazioni. Seguono lo studio Riflessioni metodologiche sulla critica

* P. Sacchi, Tra giudaismo e cristianesimo. Riflessioni sul giudaismo antico e medio (Antico e Nuovo Testamento, 7), Morcelliana, Brescia 2010.

1 Cfr. A.O. Lovejoy, Reflections on the History of Ideas, in «Journal of the History of Ideas» 1/1 (1940), pp. 3-23; F.L. Baumer, Intellectual History and Its Problems, in «Journal of Modern History» 21 (1949), pp. 191-203; J. Higham, Intellectual History and Its Nighbours, in «Journal of the History of Ideas» 15 (1954), pp. 339-347; J.C. Greene, Objectives and Methods in Intellectual History, in «Mississippi Valley Historical Review» 44/1 (1957), pp. 58-74. Per ulteriore bibliografia, cfr. G. Boccaccini, Roots of Rabbinic Judaism. An Intellectual History, from Ezekiel to Daniel, Eerdmans, Grand Rapids 2002, pp. 15-25.

2 Brescia 1990 (Biblioteca di cultura religiosa, 55).3 Precedentemente apparso in E. Gabba (ed.), Presentazione e scrittura della storia:

storiografia, epigrafi, monumenti. Atti del convegno di Pontignano, Aprile 1996, Edizioni New Press, Como 1999, pp. 61-76.

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biblica e soprattutto sul cosiddetto problema del Pentateuco, a proposito di un libro recente (pp. 31-36)4, recensione-saggio su E. Noort, Das Buch Josua: Forschungsgeschichte und Problemfelder (Erträge der Forschung, 292), Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1998, e l’articolo, derivato da un conferenza tenuta a Parigi, Le Pentateuque, le Deutérono-miste et Spinoza (pp. 37-48)5, in merito alla struttura generale della Bibbia sullo sfondo della storia ebraica, esempio assai indicativo dell’attenzione con cui Sacchi utilizza il metodo storico-filologico a discapito di quello che lui definisce storico-critico (dare «il primato alla macrostrutture di fronte alle microstrutture»: p. 7). Chiude la prima parte dedicata al meto-do l’ampio studio Metodi e problemi di filologia veterotestamentaria (pp. 49-77)6, articolo che preannuncia alcune delle acquisizioni poi sviluppate nella stessa conferenza di Parigi del 1992, e che possono essere ben sin-tetizzate nella seguente affermazione:

«A me sembra che si debba insistere, per fare l’edizione di un testo [nel caso spe-cifico, l’edizione del testo ebraico della Bibbia], sulla sua storia: storia di tutta la tradizione e non solo di quella ebraica farisaica. Ciò non significa che tutto debba essere posto sullo stesso piano. Ci sono varianti manifestamente interpretative, ma ce ne sono anche di quelle che tali non sono, e va deciso volta per volta. L’ac-cordo fra varianti non ebraiche e varianti ebraiche rispetto al T(extus)R(eceptus Hebraicus) mi pare che dovrebbe essere particolarmente valutato. Penso che que-sto attento esame di tutta la tradizione dovrebbe ridurre molto il numero delle congetture (p. 76)».

La seconda sezione del volume, più breve per numero di saggi, intito-lata «La formazione del giudaismo», dopo lo studio su La data della vit-toria di Ciro su Astiage (pp. 81-91)7, è composta dagli articoli Le origini del giudaismo. Tradizione e innovazione (pp. 93-125)8 e La trascendenza nella Bibbia (pp. 127-145)9, dedicati alla storia delle idee legate a quel giudaismo confluito nell’alveo cosiddetto “biblico”.

La terza parte del volume, di contro, sull’altra cultura ebraica del secondo Tempio, la letteratura segreta e di rivelazione, è contraddistinta, quasi interamente, da studi sulla letteratura enochica, tesi a scandagliare sia aspetti più propriamente ideologici inerenti alle sezioni più antiche

4 Già in «Henoch» 21 (1999), pp. 179-183.5 Apparso in J.A. Emerton (ed.), Congress Volume Paris 1992 (Supplements to Vetus

Testamentum, 61), Brill, Leiden - New York - Köln 1995, pp. 275-288.6 Apparso ne «La parola del passato» 151 (1973), pp. 237-270.7 Già pubblicato ne «La parola del passato» 102 (1965), pp. 223-233.8 Precedentemente apparso in J. Campos Santiago - V. Pastor Julian (eds.), Biblia.

Memoria histórica y encrucijada de culturas. Congreso internacional del ABE, Salamanca 9-11 sept. 2003, Universidad de Salamanca - ABE, Zamora 2004, pp. 24-48.

9 Già in «Religioni e Società» 19 (2004), pp. 7-21.

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confluite in quella tradizione (The Theology of Early Enochism and Apo-calyptic. The Problem of the Relation between Form and Content of the Apocalypses; the Worldview of the Apocalypses, pp. 149-15810; The Book of the Watchers as an Apocalyptic and Apocryphal Text, pp. 159-17711), senza trascurare alcuni sviluppi successivi (Un tratto della teologia eno-chica del Libro dei Sogni. Il peccato di aver rifiutato di guardare Dio, pp. 179-18812), sia problemi di ordine più generalmente storico, la data-zione del Libro delle Parabole (Qumran e la datazione del Libro delle parabole di Enoc, pp. 189-20713), sia questioni di stampo strettamente storico-religioso (Motivi di gnosi nella letteratura giudaica precristiana, pp. 209-22214). Le due sezioni richiamate vanno lette in modo speculare l’una rispetto all’altra: se quello che Sacchi chiama il «giudaismo uffi-ciale», quello del Tempio controllato dai sacerdoti sadociti, fu una realtà dotata di enorme peso autoritativo rispetto all’Israele dell’epoca, questo non significa che il giudaismo nel suo complesso fu una realtà unitaria. Accanto alla tradizione vicina al culto templare, anch’essa tutt’altro che univoca, si osserva il sorgere di tradizioni in molti casi concorrenziali, in altri spiccatamente polemiche, in altri ancora volutamente segrete o, meglio ancora, destinate a tradizione segreta (Sacchi le etichetta come tradizioni «apocrife» fin dal loro sorgere)15.

10 Precedentemente apparso in G. Boccaccini (ed.), The Origins of Enochic Judaism. Proceedings of the First Enoch Seminar, Silvio Zamorani, Torino 2002, pp. 77-86.

11 Già pubblicato in «Henoch» 30 (2008), pp. 9-26, pp. 66-79.12 Apparso in E. Bosetti - A. Colacrai (eds.), Apokalypsis. Percorsi nell’Apocalisse di

Giovanni in onore di Ugo Vanni, Cittadella Editrice, Assisi 2005, pp. 49-62.13 Pubblicato in «Henoch» 25 (2003), pp. 149-166.14 Testo riadattato della conferenza tenuta a Montserrat per «Biblia» il 5 giugno 2008.15 I conflitti osservabili nelle fonti giudaiche del secondo Tempio vengono oggi valutati

soprattutto alla luce delle dinamiche identitarie di auto-definizione e/o auto-delimitazione ris-petto ad “altri”. Se in passato il problema veniva soprattutto affrontato in chiave “tematica” o “idelogica” o di concrete prassi culturali e religiose (conflitti su questioni come la Legge, Dio, la teodicea, le pratiche di culto, il Tempio), oggi si tende ad analizzare i conflitti gruppali come dinamiche sociali interne e/o esterne, ravvisando nei temi che di volta in volta definiscono l’oggetto del contendere veri e propri demarcatori identitari di singoli gruppi sociali. Il prob-lema, in sostanza, è stato reimpostato a partire da ciò che nell’indagine sociologica è definibile “scontro tra ottiche discordanti”. La bibliografia sul tema è cresciuta in modo davvero consid-erevole negli ultimi anni; a titolo esemplificativo, soprattutto per quanto concerne il giudaismo del periodo ellenistico-romano e il cristianesimo delle origini, cfr. E. Regev, Sectarianism in Qumran: A Cross-Cultural Perspective, W. De Gruyter, Berlin - New York 2007; P.A. Har-land, Dynamics of Identity in the World of the Early Christians: Associations, Judeans, and Cultural Minorities, T.&T. Clark, London - New York 2009; J. Jokiranta, Sociology of Jewish Life in Light of the Dead Sea Scrolls: Seeking Steps Forward, in N. David - A. Lange - K. De Troyer - S. Tzoref (eds.), The Hebrew Bible in Light of the Dead Sea Scrolls (FRLANT 239), Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2012, pp. 379-401. Si veda anche la bibliografia citata e discussa in A.J. Blasi - J. Durhaime - P.-A. Turcotte (eds.), Handbook of Early Christianity. Social-Scientific Approaches, Alta Mira Press, Walnut Creek, CA 2002 e nella recente sezione monografica Jesus’ Followers and Their Identities / Le identità dei seguaci di Gesù, in «Annali di storia dell’esegesi» 27/2 (2010), pp. 9-182. Per la questione del Tempio, ad esempio, che

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L’ultima parte del volume si compone di saggi dedicati ad aspetti ideo-logici particolari di quel crogiolo storico-culturale che fu il giudaismo del secondo Tempio, utili a comprendere molte delle istanze presenti nei testi proto-cristiani16. La sezione, significativamente intitolata «Fra giudaismo

tanta parte ha avuto nella discussione, secondo molti oramai superata, inerente al Parting of the Ways tra giudaismo e cristianesimo, si veda la bibliografia citata e discussa in D. Garribba, Identità giudaica e tempio. Le reazioni giudaiche alla fine di un Identity Marker, in «Ricerche storico-bibliche» 21/2 (2009), pp. 165-182 (che vede, in un’ottica tutto sommato tradizionale, nella caduta del Tempio del 70 d.C. il fondamentale spartiacque per definire la separazione tra giudaismo e cristianesimo). Una tesi abbastanza retro si trova nel recente studio di M. Heestra, The Fiscus Iudaicus and the Parting of the Ways (WUNT 2.277), J.C.B. Mohr Siebeck, Tübin-gen 2010, che vede nell’inasprimento del fiscus sotto Domiziano e nella riforma dello stesso attuata da Nerva un momento fondamentale per definire la divisione tra giudaismo e cristianesi-mo. La posizione difesa da Sacchi in merito ai conflitti e alle dinamiche gruppali osservabili nel giudaismo del secondo Tempio rappresenta una sostanziale riproposizione degli approcci clas-sici, soprattutto di matrice tedesca, in chiave più espressamente storico-ideologica: per quanto concerne il Gesù storico, cfr. Gesù nel suo tempo: i concetti di peccato, espiazione e sacrificio, in «Archivio teologico torinese» 5 (1999), pp. 20-29; per il giudaismo del secondo Tempio, si veda il quadro esposto in Sacro/profano impuro/puro nella Bibbia e dintorni, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 121-234.

16 Gli studi di Sacchi si pongono, in sostanza, sulla scia delle indagini sul cosiddetto Parting of the Ways, tendenti soprattutto a sfumare i contorni della separazione tra giudaismo e cristianesimo (posticipandoli a una fase abbastanza inoltrata del II secolo d.C.). Le posizioni espresse dagli studiosi, soprattutto negli anni ’90, sono state piuttosto varie, certamente quasi unanimi nell’indicare lo spostamento in avanti della definita consapevolezza del cristianesimo come qualcosa di “diverso” dal giudaismo e della percezione, da parte dei gruppi giudaici del I-II secolo d.C., dei cristiani come “estranei”, ma anche divergenti nell’indicare cronologie e modalità precise di tale “strappo”. A titolo esemplificativo, cfr. J.D.G. Dunn (ed.), Jews and Christians. The Parting of the Ways, A.D. 70 to 135 (WUNT 66), J.C.B. Mohr Siebeck, Tübingen 1992 (al tema Dunn ha dedicato anche un’apposita monografia: The Parting of the Ways between Christianity and Judaism and their Significance for the Character of Christianity, SCM Press, London - Philadelphia 20062); S.G. Wilson, Related Strangers. Jews and Christians 70-170, Fortress Press, Minneapolis 20042; D. Marguerat (ed.), Le déchirement. Juifs et chrétiens au premier siècle, Labor et Fides, Genève 1996; J.N. Carleton Paget, Jewish Christianity, in The Cambridge History of Judaism, University Press, Cambridge 1999, III, pp. 743-746; P.J. Tomson - D. Lambers Petry (eds.), The Image of the Judaeo-Christians in Ancient Jewish and Christian Literature (WUNT 158), J.C.B. Mohr Siebeck, Tübingen 2003 e la discussione presente in G. Jossa, Giudei o cristiani ? I seguaci di Gesù in cerca di una propria identità (Studi Biblici 142), Paideia, Brescia 2004, pp. 9-27. Oggi il quadro storiografico appare decisamente mutato. Un fondamentale momento di passaggio rispetto alla prospettiva precedente, anche se ad essa inscindibilmente connesso, è rappresentato da A.H. Becker - A. Yosiko Reeds (eds.), The Ways that Never Parted: Jews and Christians in Late Antiquity and the Early Middle Ages (TSAJ 95), J.C.B. Mohr Siebeck, Tübingen 2003, a cui sono seguiti una serie di studi di notevole impegno: a titolo esemplificativo, per rimanere ai più recenti, cfr. G. Gardner - K.L. Osterloh (eds.), Antiquity in Antiquity. Jewish and Christian Pasts in the Greco-Roman World (TSAJ 123), J.C.B. Mohr Siebeck, Tübingen 2008; J. Carleton Paget, Jews, Christians, and Jewish Christians in Antiquity (WUNT 251), J.C.B. Mohr Siebeck, Tübingen 2010; E.K. Broadhead, Jewish Ways of Following Jesus. Redrawing the Religious Map of Antiquity (WUNT 266), J.C.B. Mohr Siebeck, Tübingen 2010; A.S. Jacobs, Christ Circumcised: A Study in Early Christian History and Difference, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2010. Secondo questi studi, in sostanza, non è possibile parlare di “un” solo Parting of the Ways, ma di differenti Partings of the Ways, a seconda dei vari documenti e dei differenti contesti

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e cristianesimo», presenta gli articoli Il perdono dei peccati nell’ebraismo da Amos al II secolo d.C. (pp. 225-250)17, La giustificazione prima di Pa-olo (pp. 251-270)18, Gesù di fronte all’impuro e alla Legge (pp. 271-294)19 e La gente chi dice che io sia? L’attesa messianica al tempo di Gesù (pp. 295-323)20. La sezione mostra come lo scorrere del pensiero ebraico con-tinui nelle teologie cristiane in un continuum che permette di considerare quest’ultime in continuità con le teologie ebraiche:

«I primi discepoli di Gesù erano ebrei e come tali non potevano interpretare il Maestro se non alla luce della loro spiritualità e formazione. Allo stato attuale della ricerca è fatto puramente intuitivo, al massimo un’ipotesi di lavoro, che dietro i Vangeli di Marco e di Matteo ci sono due modi diversi di essere ebrei. Mi pare un fatto ormai accettato, anche se non tutti ne traggono tutte le conseguenze, che il giudaismo del tempo di Gesù non era unitario. Che si dica giudaismi al plurale, come J. Neusner, o si preferisca parlare di teologie diverse producenti stili di vita e modi di essere diversi, ha poca importanza (p. 8)».

Ciò nonostante, il cristianesimo ha in seguito rifiutato la propria ra-dice ebraica, in particolare la sintesi portata avanti dai rabbini, coloro che, successivamente alla caduta del Tempio, si sono accollati l’onere di salvaguardare l’unità ebraica smarrita di fronte alla catastrofe:

«Il cristianesimo mi appare sempre più come religione sorta non come uno degli sviluppi possibili di teologie ebraiche preesistenti, ma come riflessione sulla vi-cenda di Gesù da parte di uomini formatisi nell’insegnamento o almeno nell’at-mosfera di teologie ebraiche diverse […]. Lo studio delle teologie giudaiche del tempo di Gesù può aiutare a capire il suo insegnamento, come l’ascolto delle sue parabole o delle sue dispute con farisei e sadducei, ma non spiega che cosa sia

protocristiani chiamati in causa: cfr. anche S. Spence, The Parting of the Ways. The Roman Church as a Case Study (Interdisciplinary Studies in Ancient Culture and Religion 5), Peeters, Leuven 2005 e M. Poorthuis - J. Schwartz - J. Turner (eds.), Interaction between Judaism and Christianity in History, Religion, Art, and Literature (Jewish and Christian Perspectives 17), E.J. Brill, Leiden 2009. Va sottolineato come l’approccio di Sacchi al cristianesimo delle origini, in particolare a Gesù, sia sempre e comunque il frutto di un’indagine dalla prospettiva giudaica, ovvero dall’ottica dello storico del giudaismo del secondo Tempio. Sacchi non appare interessato, almeno esplicitamente, a definire le modalità con cui i gruppi cristiani del II secolo si sono auto-definiti in dialettica/opposizione al giudaismo coevo (anzi, sembra che la scissione, per Sacchi, vada interamente addebitata agli scontri col giudaismo rabbinico, quindi in una fase successiva alla rivolta guidata da Bar Kokhba: cfr. infra). Per Sacchi Gesù è un giudeo che parlava, pensava e agiva come un giudeo della sua epoca, e le fonti giudaiche del periodo ellenistico-romano vengono utilizzate per meglio definire tale particolare giudaicità.

17 Precedentemente apparso in «Ricerche di storia e letteratura religiosa» 40 (2004), pp. 1-26.

18 Già edito in L. Mazzinghi - B. Rossi - S. Tarocchi (eds.), In memoria Verbi. Studi in onore di Mons. Benito Marconcini, in «Vivens Homo» 21 (2010), pp. 79-99.

19 Precedentemente apparso in «Ricerche storico-bibliche» 11 (1999), pp. 43-64.20 Conferenza tenuta nell’ambito del Convegno di Biblia, Ferrara 11-13 Marzo 2005, e

pubblicata nel volume Chi credete che io sia?, Gallio editori, Ferrara 2007, pp. 13-46.

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il cristianesimo. Questo ha la sua radice principale e vitale nella vicenda ultima di Gesù di Nazaret, nella sua morte e resurrezione. E scarsa importanza (per lo storico, non certamente per il credente) ha il fatto che la resurrezione di Gesù sia avvenimento reale o soltanto creduto. Quello che è certo è che nella storia agì proprio questa convinzione (pp. 8-9)»21.

Non è possibile richiamare i singoli saggi in modo puntuale, né fare riferimento a tutte le tesi in essi espresse o soltanto accennate come fu-ture prospettive di ricerca. Crediamo sia più utile, di contro, far emer-gere qualche spiraglio in merito al metodo adottato in gran parte degli articoli che compongono il volume, ai fini della (ennesima) valutazione delle complesse questioni ermeneutiche riguardanti il (non sempre facile) rapporto tra filologia e indagine del fatto religioso antico22, a cui Paolo Sacchi ha dato un contributo importante.

Emerge, anche a un primo sguardo, una forte compenetrazione tra filologia e storia, in aderenza e quasi in omaggio al metodo approntato da G. Pugliese Carratelli, l’incontro con il quale, per Sacchi – è lui stesso a ricordarlo nella presentazione alla raccolta (p. 6) –, è stato determinante. L’apertura verso mondi e culture apparentemente lontani dai terreni di elezione del classicista23, sempre in funzione di una compenetrazione to-tale tra storia e filologia, laddove filologia non va intesa solo come vaga attenzione alle ragioni delle fonti e del loro contenuto, ma come strenua analisi degli sviluppi cronologici dei testi, del loro stile, del loro linguag-gio, spesso della loro terminologia tecnica, senza ovviamente tralasciare

21 Alla figura di Gesù Sacchi ha anche dedicato il volume Gesù e la sua gente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, dove il metodo della contestualizzazione alla luce del giudaismo del secondo Tempio rappresenta l’ossatura fondamentale del lavoro nel suo complesso. Emblem-atiche ci sembrano le seguenti affermazioni: «La scoperta dei Rotoli del Mar Morto e degli apocrifi antichi mi fece vedere una massa di materiale di nuova acquisizione che era adatto a studiare la storia del pensiero ebraico. Frammenti di Apocrifi dell’Antico Testamento dissepolti nelle grotte di Qumran mi spinsero alla lettura sistematica dei testi apocrifi. Cominciai a vedere che nel giudaismo precristiano non c’era una sola teologia, sia pure in evoluzione. Era una miri-ade di idee e di movimenti, che cercavano Dio e lo afferravano da posizioni talvolta più opposte che diverse. Dio avrebbe ricompensato il giusto nel Grande Giudizio, ma non era chiaro né chi era il giusto degno di tale ricompensa, né quale fosse il rapporto fra la giustizia e la misericordia di Dio. Dio avrebbe salvato gli eletti? Dio avrebbe salvato chi osservava la Legge di Mosè? Nell’umanità di questi problemi, scendendo sempre più nel tempo, ho finito con l’incontrarmi con Gesù. Ma questa volta non era più il misterioso padrone della formichine, era un ebreo che parlava e agiva sullo sfondo di tutti i problemi che avevo colto nello scorrere dei secoli in mezzo alle vicende della Palestina dominata dai romani» (Gesù e la sua gente, pp. 12-13).

22 Si leggano le amare riflessioni di A. Brelich, Ad philologos, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» ( = «Religioni e civiltà») N.S. 1 (1972), pp. 621-629. In merito si vedano anche le acute osservazioni di C. Grottanelli, La prova del buon figlio, in V. Lanternari - M. Massenzio - D. Sabbatucci (eds.), Religioni e civiltà. Scritti in memoria di Angelo Brelich promossi dall’Istituto di studi storico-religiosi dell’Università degli studi di Roma, Edizioni Dedalo, Bari 1982, pp. 217-234.

23 Si veda il ricordo tracciato da C. Ghidini, In Memory of Giovanni Pugliese Carratelli, in «Antiquorum Philosophia» 4 (2010), pp. 203-210.

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questioni più strettamente ecdotiche e di critica testuale, unitamente ad un approccio teso a far emergere dai testi visioni del mondo, culture, ideolo-gie, religioni specifiche, analizzate nel loro sviluppo diacronico e reinse-rite negli sviluppi più generali propri di una specifica area culturale, sono elementi che hanno orientato e consolidato l’interesse di Sacchi verso la «ricerca affascinante del mistero religioso, tra ricerca umana e rivelazio-ne, tra apertura agli altri e chiusura, tra tolleranza e intransigenza» (p. 6).

La metodologia di Pugliese, saldamente impiantata in quello storici-smo di cui anche la cosiddetta «filologia totale» di un Marcello Gigante è stata potente espressione, e portata a una sintesi di una tale complessità e dialetticità interne da far cadere, finalmente e una volta per tutte, i pa-letti che separavano (e separano) le discipline antichistiche, ha permesso alla filologia praticata da uno studioso formatosi alla scuola di Giorgio Pasquali24 di non essere

«Fine a se stessa, limitarsi allo studio dell’opera letteraria e alla sua storia» (p. 6), ma di inserire, nel caso specifico degli ambiti di ricerca perseguiti da Sacchi, in «lo studio delle origini cristiane nel solco della storia del Secondo Tempio percorsa da esigenze e influssi molteplici nella sua unità posta fra Oriente e Occidente»25 (p. 6).

Un’affermazione tratta da Ad philologos di Angelo Brelich appare particolarmente calzante ai fini della messa in evidenza dell’importanza del metodo seguito anche da Sacchi per l’ambito più generale della(e) storia(e) religiosa(e) dell’antichità. Nella disamina dello studio di G.A. Privitera, Dioniso in Omero e nella poesia arcaica26, quando il filologo sembra imputare agli storici delle religioni una certa faciloneria nel so-vrapporre «un luogo di Omero o di Nonno» in quanto testimonianze di «Dioniso a pari titolo, come se il dio esistesse atemporalmente da qualche parte e non fosse ogni volta lì e allora secondo gli orientamenti culturali di quella determinata società»27, Brelich chiosa che l’affermazione non può certo valere

«Per noi storicisti – almeno se conosce i nostri lavori. […] Sono il primo – e chi mi legge o ascolta lo sa da decenni – a insistere sulla creatività religiosa e a vedere l’aspetto creativo nelle manifestazioni religiose di ogni epoca o periodo,

24 Al quale Sacchi deve la scelta del tema per la sua tesi di laurea, Alle origini del Nu-ovo Testamento. Saggio per la storia della tradizione e la critica del testo (Pubblicazioni dell’Università degli studi di Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia, IV/2), Le Monnier, Firenze 1956, presentata dopo la morte del Maestro.

25 Il tema dei confini fra Oriente e Occidente risente, nella formulazione appena richia-mata, del modo con cui Pugliese Carratelli ha affrontato lo studio dei rapporti tra religiosità greche e mondo cosiddetto “orientale”: si vedano, in merito, le osservazioni di A. Marcone, In ricordo di Giovanni Pugliese Carratelli (Napoli 1911-Roma 2010): http://www.inschibboleth.org/Pagina6.24_files/ARN2410.pdf.

26 Edizioni dell’Ateneo, Roma 1970.27 Privitera, Dioniso, p. 10.

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di ogni gruppo o strato sociale, di ogni personalità, uomo di stato, sacerdote, poeta o artista che sia. Ma attenzione: crede proprio Privitera che ogni poeta – o, diciamo anche, ogni periodo storico – inventi ex novo la propria religione? Crede proprio che non esista una tradizione che, pur in continua trasformazione, e perfi-no nelle contemporanee sfaccettature di varianti e livelli, permanga come sfondo su cui s’innestino le continue creazioni? Ora, la questione è di discernere: tra ciò che è di Nonno (come ciò che è di “Omero”) e della sua epoca, della sua cultura, e ciò che è tradizione. […] Ma come discernere? Ebbene, con metodo – con la comparazione, in primo luogo, all’interno della totalità dei fatti documentati da quella tradizione, e poi con la comparazione più vasta tra fatti religiosi di civiltà di vario tipo e livello, che permette di controllare ed eventualmente confermare l’autenticità e l’arcaicità di nuclei religiosi anche di tarda documentazione»28.

Il programma, una sorta di ripensamento ex-post (e/o sintesi) di gran parte di quella produzione che Brelich riconduce all’alveo dello storici-smo, pur non essendo privo di debiti nei confronti di quella “creatività religiosa” sorta per reazione all’evoluzionismo e, quindi, indirettamente influenzata dal dibattito contro quel particolare modo di pensare l’alte-rità, risulta utile in questa sede, soprattutto per illustrare alcuni risvolti impliciti nelle indagini di Paolo Sacchi in relazione a quel tema, così spinoso che è l’apocalittica giudaica.

Le ricerche di Sacchi si sono concentrate soprattutto sulla possibile definizione di una «tradizione storica apocalittica» o, per usare un’altra terminologia, sulla possibile esistenza di un vero e proprio «movimen-to» definibile come apocalittico, con una sua ideologia fondante, una sua identità di gruppo, delle pratiche condivise e un suo “testo” – in sintesi, un movimento dotato di una sua propria evoluzione storica. Le prime ri-cerche hanno chiarito la datazione, il Sitz im Leben e la storia redazionale del Libro dei Vigilanti, una delle più antiche sezioni di 1Enoc29, e uno dei primi documenti letterari provenienti dal giudaismo classificabile come apocalisse. Sacchi ha rilevato come questa sezione inclusa nel pentateuco enochico – tramite il racconto della caduta degli angeli vigilanti, nelle sue differenti varianti, e la relativa protologia che ne discende – sembri gettare quelle premesse ideologiche su cui si fonda il successivo svolgersi di una vera e propria tradizione, da lui definita, per l’appunto, “enochi-

28 Brelich, Ad philologos, pp. 622-623.29 Cfr. L’apocalittica giudaica e la sua storia, pp. 31-78; lo studio è giunto alle seguenti

conclusioni: il Libro dei Vigilanti è la più antica opera “apocalittica” conosciuta (può essere datata intorno al IV-III secolo a.C.). Essa appare legata al ritorno dall’esilio e alla conseguente ricostruzione del Tempio da parte del primo e secondo sadocitismo; il materiale in essa conflui-to appartiene all’ambiente di fronda che non condivide alcune scelte ideologiche e, quindi, so-ciali della ricostruzione sadocita. Tale opposizione appare evidente in una credenza protologica che vede il male come qualcosa di esterno all’uomo, di cui egli è in un certo qual modo vittima e da cui è stato “marchiato” sin dall’origine della storia. Questa visione del male sfocierà nel predeterminismo della comunità di Qumran (cfr. Tra giudaismo e cristianesimo, pp. 174-177).

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ca”. Partendo da simili acquisizioni, inoltre, Sacchi ha cercato di mettere in evidenzia i collegamenti tra il protos heuretes di questa tradizione e altri testi che, almeno apparentemente, non sembrano avere connessioni dirette o esplicite con quello. Attraverso un’analisi ideologica “olistica”, Sacchi ha notato che, a livello di sistema di pensiero, la protologia sottesa al Libro dei Vigilanti (il male è qualcosa che ha corrotto l’intera creazione ed è, in un certo senso, precedente ad essa; esso è il frutto di una trasgres-sione angelica che ha sovvertito l’intero cosmo; l’uomo, in questa ottica, non “compie” il male, ma è vittima di esso ed è, in certo qual modo, ine-vitabilmente spinto verso di esso30) viene condivisa da altri testi giudaici del secondo Tempio31.

Le indagini per sommi capi richiamate si inseriscono nel dibattito, assai vivo tra gli anni ’70 e ’90, in merito ai diversi movimenti del giu-daismo del periodo ellenistico-romano, le cui premesse affondano le loro basi nella “storia delle idee”32. Si è sottolineato, ad esempio, che due ope-re come il Libro dei Sogni (III tomo dell’attuale pentateuco enochico) e Daniele, nonostante la relativa reciproca contemporaneità (II secolo a.C.) e la comunione letteraria e di visione del mondo, non possano essere ri-tenute specchio di uno stesso movimento, ma vadano intesi come due scritti che polemizzano tra loro su aspetti ritenuti fondanti per i gruppi che li hanno prodotti e/o redatti. Problematiche come quelle del male,

30 Va ricordato come il “male” rappresenti uno dei temi portanti della riflessione storico-re-ligiosa condotta da Ugo Bianchi: cfr. Prometeo, Orfeo, Adamo. Tematiche religiose sul destino, il male, la salvezza, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1991 e i riferimenti in G. Casadio (ed.), Ugo Bianchi. Una vita per la storia delle religioni, Il Calamo, Roma 2002. Sacchi è stato tra i relatori del convegno di Roma, organizzato da Bianchi e da Cerutti, su apocalittica e gnosticismo: cfr. P. Sacchi, Impurità e male nel pensiero apocalittico, in M.V. Cerutti (ed.), Apocalittica e gnosticismo. Atti del colloquio internazionale (Roma, 18.19 giugno 1993), GEI, Roma 1995, pp. 45-58, 59-70 (discussione). Ma va altresì sottolineato come, nonostante alcuni elementi di convergenza tra i due studiosi, la discussione pubblicata a margine dell’articolo di Sacchi (secondo uno schema consolidato, altamente meritorio, nei convegni curati e/o editi da Bianchi) metta abbastanza bene in luce anche le divergenze su aspetti più generalmente metodologici e per quanto concerne l’approccio alle fonti antiche.

31 Oltre agli studi raccolti nel volume L’apocalittica giudaica, cfr. Storia del secondo Tempio. Israele tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., SEI, Torino 20022, pp. 302-329 e Tra giudais-mo e cristianesimo, pp. 160-162, 172-177. Si veda anche la sintetica ma indicativa presentazi-one in L’apocalittica: ovvero storia di alcune idee del mediogiudaismo, in S. Dianich (ed.), Sempre Apocalisse. Un testo biblico e le sue risonanze storiche, Piemme, Casale Monferrato 1998, pp. 85-104.

32 Cfr. Sacchi, Tra giudaismo e cristianesimo, pp. 149-152 e G. Boccaccini, Jewish Apoca-lyptic Tradition: The Contribution of Italian Scholarship, in J.H. Charlesworth - J.J. Collins (eds.), Mysteries and Revelations: Apocalyptic Studies since the Uppsala Colloquium, Academ-ic Press, Sheffield 1991, pp. 33-50. Si veda anche Id., Il mediogiudaismo. Per una storia del pensiero giudaico tra il III secolo a.e.v. e il II secolo e.v., Marietti, Genova 1993, pp. 19, 34-36, 47-48, 51-86, 87-93; Roots of Rabbinic Judaism, pp. 8-41; Oltre l’ipotesi essenica. Lo scisma tra Qumran e il giudaismo enochico, Morcelliana, Brescia 2003 (orig. ingl. Eerdmans, Grand Rap-ids 1998), pp. 11-15, 37-53 (in particolare, si vedano le osservazioni alle pp. 48-50). Ulteriori osservazioni si possono leggere anche in Sacchi, Tra giudaismo e cristianesimo, pp. 152-158.

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della storia e dell’azione dell’uomo in essa assumono una luce del tutto particolare se ri-lette all’interno del contesto ideologico globale che sta dietro alle rispettive tradizioni33. Se il Libro dei Sogni sembra muoversi sulla faslariga dell’ideologia del Libro dei Vigilanti, concentrandosi sul peccato originario degli angeli vigilanti e sulla degenerazione di tutta la storia umana in seguito a questo evento protologico, evitando di mette-re l’accento sulla Legge data a Mosè sul Sinai (l’A., di fatto, al di là di un fugace cenno, non menziona il fatto: cfr. 1Enoc [ = Libro dei Sogni] 89,29)34, Daniele, nonostante un certo “determinismo” storico, collega le sciagure presenti del popolo di Israele al tentativo di sopprimere la Legge da parte di Antioco IV e di coloro che, come lui, hanno pensato di «mutare i tempi e la legge» (7,25; ma cfr. anche Dan 1,8-21)35. Allo stesso modo, tra la metà del I secolo a.C. e il I secolo d.C., se il Libro delle Parabole di Enoc continua la tradizione inaugurata dal Libro dei Vigilanti, 2Baruc sembra riconnettersi alla «teologia della Legge» di matrice sadocita36. Appare chiaro che, stando almeno alle tesi di Sacchi (ulteriormente scan-dagliate da Gabriele Boccaccini), il termine “apocalittica” non sia più del tutto calzante nel momento in cui dalla “letteratura” si passa ai gruppi che hanno prodotto una specifica opera letteraria37. Sulla base dell’ideologia dei testi letterariamente classificabili come “apocalittici” (= rivelativi) è possibile ricostruire, da un lato, quelli che sono stati prodotti da un gruppo “enochico” (soprattutto gli scritti entrati a far parte di 1Enoc e,

33 Cfr. Tra giudaismo e cristianesimo, pp. 179-188.34 Cfr. Sacchi, L’apocalittica giudaica, pp. 159-160, 283-284, Tra giudaismo e cristian-

esimo, p. 153 e Boccaccini, Il mediogiudaismo, pp. 93-95; Oltre l’ipotesi essenica, spec. pp. 157-161; Roots of Rabbinic Judaism, pp. 165-169.

35 Cfr. G. Boccaccini, È Daniele un testo apocalittico? Una (ri)definizione del pensiero del Libro di Daniele in rapporto al Libro dei Sogni e all’apocalittica, in «Henoch» 9 (1987), pp. 267-299; Il mediogiudaismo, pp. 87-121; Roots of Rabbinic Judaism, pp. 169-201 e Sacchi, Tra giudaismo e cristianesimo, pp. 153, 179-181. Una simile metodologia sottende anche a S.B. Reid, Enoch and Daniel: A Form Critical and Sociological Study of Historical Apocalypses, University Press, Berkeley 1989 e, più recentemente, a R.A. Argall, 1 Enoch and Sirach: A Comparative Literary and Conceptual Analysis of the Themes of Revelation, Creation, and Judgment, SBL Press, Atlanta 1995 (la vicinanza terminologica e, in un certo qual senso, con-tenutistica tra alcuni punti di 1Enoc e Ben Sira non può assolutamente farci dedurre una loro appartenenza ad un medesimo “movimento”; i due sembrano, di contro, in conflitto).

36 Cfr. anche G. Boccaccini, Esiste una letteratura farisaica del secondo Tempio?, in «Ri-cerche storico-bibliche» 11/2 (1999), pp. 23-41.

37 Per questo la critica che J.J. Collins ha mosso al “riduzionismo” di Sacchi non mi sembra pienamente giustificata (cfr. Seers, Sybils and Sages in Hellenistic-Roman Judaism [Supplements to the Journal for the Study of Judaism, 54], Brill, Leiden 1997, pp. 35-36); Sacchi non nega, almeno a livello di principio, l’esistenza di un “genere letterario apocalittico” (cfr. L’apocalittica giudaica, pp. 22-26, 39-42), ma i suoi studi hanno, per così dire, un’altra “mira”, quella di capire se dietro i “testi” apocalittici possa esserci “un” gruppo o se questi siano il prodotto di “più” gruppi. Successivamente, d’altronde, lo stesso Sacchi ha dichiarato che oggi non intitolerebbe più il suo volume L’apocalittica giudaica e la sua storia (cfr. La teologia dell’enochismo antico e l’apocalittica, in «Materia giudaica» 7/1 [2002], pp. 7-13 e Tra giudaismo e cristianesimo, pp. 154-158).

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dall’altro, quelli che – riprendendo Daniele – hanno cercato di ricondurre il “genere rivelativo” nell’alveo del giudaismo vicino alla Legge.

Le analisi di Sacchi per sommi capi richiamate si mostrano tese a derivare dalle vicende testuali dei documenti che compongono l’attuale 1Enoc, e degli altri testi riconducibili al medesimo sistema ideologico (sebbene non direttamente ascrivibili alla tradizione enochica propria-mente detta), le multiformi riproposizioni occorse all’interno di una tra-dizione diacronicamente sviluppatasi attorno a dei nuclei riconosciuti, nel suo stesso svolgimento, come fondanti. Esse rivelano quella dialettica tra continuità e innovazione, evocata anche da Brelich (ma io direi, più gene-ricamente, quella vera e propria tecnica rifunzionalizzante), quasi impli-cita nei processi “-emici” di costruzione di un’autorità nel passato su cui fondare l’azione culturale nell’oggi.

***

Quella di “apocalittica” non è definizione che si ritrova all’interno dei documenti riconosciuti come “apocalittici” dagli studiosi (fatto quasi ov-vio!). Ciò non sarebbe di per sé elemento realmente ostativo ai fini di un suo utilizzo in chiave storica, se non fosse che il termine sembra essersi imposto, nella storia degli studi teologici, prima, e poi storico-religiosi, soprattutto in seguito alla necessità di contestualizzare il testo dell’A-pocalisse di Giovanni38 all’interno di un quadro letterario e ideologico che giustificasse la dimensione intrinsecamente canonica dello scritto rispetto a un prius giudaico39. Si è imposta la necessità di considerare i

38 Uno dei pochi scritti “apocalittici” provenienti dal mondo giudaico-cristiano del sec-ondo Tempio a essere titolato, in maniera esplicita, con la parola apokalypsis (rivelazione, non necessariamente connessa agli eventi che segnano la fine dell’ordine mondano): cfr. 1,1. Sui rapporti Apocalisse di Giovanni-apocalittica giudaica, Sacchi ha icasticamente osserva-to: «il nome di “apocalittica” è puramente convenzionale e non ha nulla a che vedere con l’Apocalisse di Giovanni che è la matrice da cui è nato il termine»: Formazioni e linee portanti dell’apocalittica giudaica precristiana, in «Ricerche storico-bibliche» 7/2 (1995), p. 26.

39 L’utilizzo risale agli studiosi dell’800: si veda A. Hilgenfeld, Die jüdische Apokalyptik in ihrer geschchtlichen Entwicklung: ein Beitrag zur Vorgeschichte des Christentums nebst einem Anhange über das gnostische System des Basilides, s.e., Jena 1857 (rist. Rodopi, Am-sterdam 1966) e, prima ancora, F. Lücke, Versuch einer vollständingen Einleitung in die Of-fenbarung des Johannes oder Allgemeine Untersuchungen über die apokalyptische Litteratur überhaupt und die Apokalypse des Johannes insbesondere, Eduard Weber, Bonn 1852 (su cui cfr. recentemente A. Christophersen, Friedrich Lücke [1791 1855]. Teil 1: Neutestamentliche Hermeutik und Exegese im Zusammenhang mit seinem Leben und Werk; Teil 2: Documente und Briefe, Walter de Gruyter, Berlin 1999 e Die Begründung der apokalyptischen Forschung durch Friedrich Lücke. Zum Verhältnis von Eschatologie und Apokalyptik, in «Kerygma und Dogma» 47 [2001], pp. 158-179); per una disamina delle posizioni dei diversi studiosi tra ’800 e ’900 cfr. J.M. Schmidt, Die jüdische Apokalyptik: Die Geschichte ihrer Erforschung von den Anfängen bis zu den Textfunden von Qumran, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1969, pp. 127 ss. Si veda anche il mio articolo Apocalisse di Giovanni e apocalittica giudaica da

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testi apocalittici giudaici come testimonianze legate a uno stesso gruppo sociale, ancorchè vario, definito nel suo complesso come “apocalittico” e ricostruito attraverso una sorta di “selezione di massima” dei temi prin-cipali emergenti dai testi riconosciuti come afferenti al medesimo alveo letterario e ideologico. Donde l’idea che l’apocalittica fosse una vera e propria ideologia del giudaismo del secondo Tempio, legata a un partico-lare gruppo sociale, sorta per influsso del mondo iranico, prima, e greco, in seguito, e tutta improntata all’attesa escatologica e agli eventi degli ultimi tempi, connessa a un rifiuto dello statu quo e, soprattutto, delle dominazioni straniere.

Sacchi ha rilevato come il termine “apocalittica” vada inteso nel suo senso formale di apokalypsis, ovvero svelamento delle realtà ultramon-dane da parte di un mediatore che riceve l’incarico, da un essere afferente alla dimensione “altra”, di scrivere e comunicare quanto visto nel suo contatto con l’oltre-mondo40. Per Sacchi, il termine “apocalittica” indica una particolare modalità di accesso alla dimensione dell’alterità, uno stru-mento formale con cui particolari gruppi e ideologie esprimono la loro visione del mondo e il loro rapporto con l’oltre-mondo, ma non certo un gruppo sociale unitario da cui dedurre particolari istanze socio-politiche; per cui, sottolinea lo studioso, è impossibile rinvenire nella documenta-zione cosiddetta “apocalittica” del giudaismo del secondo Tempio quella linea di continuità o, peggio ancora, quella vera e propria essenza che gli studiosi del passato ritenevano di ravvisare in essa41. La stessa attesa escatologica affiora all’interno di particolari testi in particolari momenti storici, ma non risulta un dato realmente tipico di tutti in testi formalmen-te classificabili come apocalittici, e non si trova attestata nei documenti formalmente definibili come tali42. Non a caso, proprio il Libro dei Vigi-lanti testimonia di una sostanziale assenza di elementi legati all’attesa escatologica: il testo rivolge la propria attenzione soprattutto a fatti legati alla colpa antecedente degli angeli vigilanti, e alle ripercussioni successi-ve a tale evento sulle vicende umane.

Un altro elemento che emerge dalle indagini di Sacchi va messo in evidenza. Alcuni gruppi di credenti in Cristo delle origini hanno certa-mente ripreso e rielaborato immagini o segmenti di immagini, o veri e propri nuclei ideologici ugualmente attestati nei testi cosiddetti apocalit-

Bousset alle più recenti acquisizioni sulla cosiddetta ‘apocalittica giudaica’, in D. Garribba - S. Tanzarella (eds.), Giudei o cristiani? Quando nasce il cristinesimo?, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2005, pp. 147-156.

40 Si veda Tra giudaismo e cristianesimo, pp. 159-161.209-222. 41 Emblematico, in tal senso, è lo studio L’«attesa» come essenza dell’apocalittica?, in

«Rivista Biblica» 45 (1997), pp. 71-78.42 Si leggano le osservazioni di Sacchi in L’escatologia negli scritti giudaici apocrifi tra

IV secolo a.C. e I secolo d.C., in Dizionario di spiritualità biblico-patristica XVI, Borla, Roma 1997, pp. 62-83.

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tici del secondo Tempio. Ma tale ripresa sembra essere avvenuta sempre e comunque in stretta connessione con uno degli assi portanti attorno a cui ruotavano le differenti credenze protocristiane, l’attesa del ritorno di Gesù in quanto agente escatologico di salvezza. Ne deriva che l’escato-logia va ritenuta elemento proprio dello sviluppo del protocristianesimo, che riutilizza, in una fase peraltro abbastanza avanzata, la tradizione giu-daica (o una parte di essa43) in chiave sostanzialmente “ancillare”, per meglio avallare il proprio specifico ideologico in continuità (o in discon-tinuità) con una traditio ritenuta autorevole da taluni. L’unico alveo “apo-calittico”, che utilizza lo strumento formale apocalittico per esprimere la propria visione del mondo e la propria ideologia, ritenuto da Sacchi espressione di una tradizione che si riconosce come unitaria, o meglio ruotante attorno a dei protoi heuretai ritenuti fondativi, è proprio quello cosiddetto “enochico”, il cui nucleo ideologico fondamentale, chiamato in causa grosso modo in tutti, o quasi tutti, i documenti entrati a far parte della medesima tradizione (o comunque ad essa connessi), risulta legato all’idea che il male è qualcosa che ha fatto il suo ingresso nel mondo in seguito a un sovvertimento dell’ordine istaurato da Dio, per cui l’uomo ne è vittima. Il dispiegarsi (diacronico) di una vera e propria traditio è sostanzialmente legato, almeno in linea di massima, alla figura di Enoc, riconosciuto, nella quasi totalità dei documenti che concorrono a compor-la, come una sorta di mitico fondatore e protos heuretes della medesima.

La riconsiderazione dei documenti su basi strettamente storico-filologiche e storico-ideologiche, portata avanti da Sacchi, e la relativa riformulazione di concetti e categorie legate a dibattiti fioriti in ambiti soprattutto ideologici e/o confessionali-teologici, oggi dovrebbe indurre

43 L’idea classica secondo cui le varie cristologie protocristiane rappresentino una sorta di sviluppo dei vari messianismi giudaici del secondo Tempio presenta ancora oggi una sua va-lidità, ma va epurata di alcuni suoi eccessi cristianocentrici, come se il messianismo giudaico, storicamente, dovesse necessariamente risolversi nella successiva cristologia. Oggi si tende a considerare le varie attese messianiche osservabili nel giudaismo del secondo Tempio come espressioni particolari di singoli gruppi sociali, non certo come un blocco ideologico pervasivo o totalizzante all’interno del complesso della società giudaica del secondo Tempio. Addirit-tura c’è chi è arrivato a ritenere impossibile documentare l’attesa di un messianismo davidico all’interno del giudaismo del secondo Tempio: cfr. K.E. Pomykala, The Davidic Dynasty Tra-dition in Early Judaism. Its History and Significance for Messianism, Scholars Press, Atlanta 1995. Sulle varie attese cosiddette “messianiche” presenti nel giudaismo del secondo Tempio, cfr. J.J. Collins, The Scepter and the Star. The Messiahs of the Dead Sea Scrolls and Other Ancient Literature, Doubleday, New York 1995; G.S. Oegema, The Anointed and his People. Messianic Expectations from the Maccabees to Bar Kochba (Supplements to the Journal for the Study of Pseudepigrapha, 27), Academic Press, Sheffield 1998; G.G. Xeravits, King, Priest, Prophet. Positive Eschatological Protagonists of the Qumran Library (Studies on the Texts of the Desert of Judah, 47), Brill, Leiden 2003; A. Guida - M. Vitelli, Gesù e i Messia di Israele. Il messianismo giudaico e gli inizi della cristologia, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2006; L. Monti, Una comunità alla fine della storia. Messia e messianismo a Qumran (Studi Biblici, 149), Paideia, Brescia 2006. Si vedano anche le osservazioni di Sacchi in Tra giudaismo e cristianesimo, pp. 295-323.

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a estrema cautela nell’utilizzo della dizione di “apocalittica” rispetto ad ambiti diversi da quello (proto-)cristiano44. Se gli studi di Sacchi hanno messo in luce la sostanziale inadeguatezza (a livello storico e ideologico) della categoria per lo studio del giudaismo antecedente e/o coevo al sor-gere dei vari movimenti cristiani delle origini, questo dovrebbe spingere a riconsiderare l’effettiva utilità di una sua estensione ad ambiti abba-stanza lontani da quella linearizzazione della storia in chiave cristologi-ca che rappresenta uno dei portati più tipici della riflessione cristiana45.

44 Certamente l’affermazione potrebbe indurre il sospetto che il nostro sia un vano tenta-tivo di sostegno a un decostruzionismo “inconcludente”, che, programmaticamente, non tiene conto dell’impostazione teorica sull’argomento messa in campo a partire dalla prima metà del ’900, almeno da Max Weber in poi (senza trascurare i debiti nei confronti di indagini e rifles-sioni precedenti: cfr. K. Surin, Liberation, in M.C. Taylor [ed.], Critical Terms for Religious Studies, The University of Chicago Press, Chicago - London 1998, pp. 175-185). Se è vero che temi, concetti e categorie provenienti dalle tradizioni religiose e dalle varie teorie delle reli-gioni sono confluite nel linguaggio più propriamente culturale e politico, va altresì segnalato che gli studi di Sacchi rappresentano un importante tassello nel tentativo odierno di ridefinire quelle stesse categorie alla luce della distinzione “-emico”/ “-etico”, una delle più importanti conquiste delle scienze umane in seguito all’impatto dello strutturalismo. Se Sacchi ha più volte rivendicato che il suo è un approccio rigorosamente storico al fatto apocalittico giudaico, è innegabile che i tentativi successivi (ma anche coevi) di ridefinire l’apocalittica siano partiti da premesse più o meno analoghe per quanto concerne l’analisi dei testi giudaici cosiddetti “apocalittici”. Sulla questione terminologica nella storia degli studi e nella ricerca più recente, si veda l’esaustivo quadro approntato da L. DiTommaso, Apocalypses and Apocalypticism in Antiquity I-II , in «Currents in Biblical Research» 5/2-3 (2007), pp. 235-286, 367-432.

45 Il tema della cosiddetta apocalittica (e delle dizioni ad essa ritenute inscindibilmente connesse: messianismo, profetismo, catarsi e/o liberazione escatologica, ecc.) entra nella storia delle religioni italiana con Vittorio Lanternari, docente di etnologia e allievo di Raffaele Pettaz-zoni, che pubblica, nel 1960, un importante volume in cui si analizzano le connessioni tra attesa millenaristico-apocalittica, messianismo e la cosiddetta decolonizzazione (cfr. Movimenti reli-giosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Feltrinelli, Milano 1960 [opera recentemente riedita per gli Editori riuniti, Roma 2003]). Nella nuova edizione il sottotitolo appare legger-mente modificato: scompare la specificazione dal tenore etnologico dei popoli oppressi, proprio in virtù del fatto che l’idea, negli anni ’60 particolarmente in voga, di una connessione quasi strutturale tra attesa millenaristica e/o apocalittica e società di interesse etnologico è caduta di fronte al proliferare di movimenti considerati “analoghi” all’interno della nostra stessa cul-tura occidentale). Più o meno in contemporanea alla pubblicazione dell’indagine di Lanternari (peraltro quasi del tutto ignorata negli appunti che oggi compongono l’opera postuma di de Martino, se si esclude il richiamo all’opera del ’60 in due punti de La fine del mondo, brani 205 e 221; sui rapporti, peraltro assai frequenti, tra Lanternari e de Martino, cfr. Cesare Pavese - Ernesto de Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, a cura di Pietro Angelini, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 203 e V. Lanternari, La mia alleanza con Ernesto de Martino e al-tri saggi post-demartiniani, Liguori, Napoli 1997), anche Ernesto de Martino incomincia a pro-gettare un’opera sul tema, forse in concomitanza con la pubblicazione de La terra del rimorso, edito nel 1961. Nel 1964, de Martino pubblica un articolo, che possiamo definire realmente preparatorio all’opus magnum, dal titolo Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche (in «Nuovi Argomenti» 69-71 [1964], pp. 105-141), una sorta di anticipazione, per altro di grande organicità, di quei temi che successivamente sarebbero dovuti confluire nel volume definitivo (come si sa, la ricerca si interrompe nel 1965, per via dell’aggravarsi della malattia, cui soprag-giungerà in quello stesso anno la morte; in una lettera del 1967 a Guido Bollati, Angelo Brelich presenta un progetto per la pubblicazione degli inediti demartiniani [per il testo, parziale, della

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Un’affermazione di Sacchi relativa a Paolo assume, in questa sede, valore emblematico rispetto alla rifunzionalizzazione che il cristianesimo antico ha dovuto necessariamente mettere in campo rispetto a concetti e/o idee sussunte dal giudaismo:

«Le teologie cristiane hanno assorbito molte forme di pensiero giudaico fra di loro diverse, che trovano la loro unità solo nel Cristo che muore per stabilire il patto con Dio (p. 270)».

lettera, cfr. E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini, Introduzione di Clara Gallini e Marcello Massenzio, Einaudi, Torino 2002, p. VIII], ma questa verrà completata solo dieci anni dopo, ad opera di Clara Gallini, alla morte dello stesso Brelich. Per le vicende legate all’edizione dell’incompiuta opera di de Martino cfr. La fine del mondo, pp. XXVII-XXXIII). Il filone di ricerca inaugurato in Italia da Lanternari e de Martino trova il suo continuatore soprattutto in Marcello Massenzio (allievo di Angelo Brelich); quest’ultimo consegna alle stampe una serie di ricerche che cercano di ap-profondire ulteriormente, alla luce dei guadagni emersi dalle indagini di Lanternari, le tracce di un discorso, quello demartiniano, che sembrava essersi interrotto troppo prematuramente (sulla linea de Martino - Lanternari - Massenzio, si veda E. Monaco, I movimenti millenaristici, in «Studi storici» 22 [1981], pp. 199-203. Cfr. anche M. Massenzio, Progetto mitico ed opera umana. Contributo all’analisi storico-religiosa dei millenarismi, Liguori editore, Napoli 1980, pp. 19-20). Filo rosso che tiene insieme questi studi è, anzitutto, l’associazione tra apocalittica, millenarismo, catarsi escatologica, messianismo e fenomeni religiosi di interesse etnologico, in aderenza ad alcuni studi che negli stessi anni si conducevano in ambito internazionale (a titolo esemplificativo, si veda la rassegna curata da V. Lanternari, Riconsiderando i movimenti social-religiosi nel quadro dei processi di acculturazione, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» [ = «Religioni e civiltà»] N.S. 1 [1972], pp. 31-68), cercando di riportare il dis-corso nell’alveo del metodo approntato dalla scuola romana, e di rivalutare, quindi, l’apporto storicistico ai fini dell’indagine storico-religiosa strettamente etnografica. Già questo dovrebbe portare a rivalutare criticamente, soprattutto nell’oggi, la possibilità di un’applicazione dei ter-mini apocalittica e connessi (millenarismo, catarsi, messianismo, ecc.) a fatti religiosi afferenti all’ambito cosiddetto etnologico e a verificare, di conseguenza, la bontà di una identificazione totale tra fatto religioso apocalittico e contesti sociali allora definiti «subalterni». Enorme peso hanno certamente avuto, in una simile associazione, la categoria, così come teorizzata da A. Gramsci, di «egemonia», unitamente a quella di «dominio», nella sua declinazione soprattutto weberiana e, prima ancora, marxiana. Sul tema si veda il recente contributo di V. Severino, Ernesto de Martino nel PCI degli anni cinquanta tra religione e politica culturale, in «Studi storici» 44 (2003), pp. 527-553. Bisognerebbe concedere maggiore attenzione anche al rap-porto tra contesti cosiddetti “subalterni” e la diffusione dei cristianesimi, per lo meno a partire dall’età moderna, tema sterminato e di notevole complessità su cui oggi esiste una vastissima bibliografia. Non va neanche dimenticato il peso che la cultura politica degli studiosi degli anni ’60-’70 ha avuto nelle loro rispettive riflessioni storiografiche e teoriche. Un ruolo dirimente è inoltre ravvisabile nella critica marxista e post-marxista, sul cui terreno – ma bisognerebbe dire, con maggiore precisione, sulle cui macerie – hanno trovato terreno fertile molte delle istanze solitamente ricondotte a quella sorta di ologramma che è la “teologia della liberazione”. Per un quadro generale, si veda J. Rieger (ed.), For the Margins. Postmodernity and Libera-tion in Christian Theology, University Press, Oxford 2003. Sull’impatto che lo studio del NT, soprattutto dell’Apocalisse di Giovanni, secondo la prospettiva delle teologie della liberazione, ha avuto nel più ampio quadro delle scienze umane tra anni ’50 e ’70, cfr. l’importante volume di S.D. Moore, Empire and Apocalypse. Postcolonialism and the New Testament (Bible in the Modern World 12), Sheffield Phoenix Press, Sheffield 2006.

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Si potrebbe dire, per estensione, che i risvolti cosiddetti escatologici di talune riflessioni attestate nel giudaismo del secondo Tempio siano sta-ti ripiegati per meglio aderire all’attesa della salvezza portata da Gesù alla fine dei tempi (a prescindere da una sua imminente venuta), innescando, a volte in nuce, a volte esplicitamente, altre volte in modo sostanzialmente implicito, il meccanismo che sta alla base della creazione stessa del con-cetto di “apocalittica”, inteso come rivelazione anticipante e anticipata degli sconvolgimenti che segneranno la fine dell’ordine mondano e su cui stagliare la potente venuta liberante di Gesù quale agente di salvezza positivo per coloro che hanno creduto in lui46.

46 Ernesto De Martino ha icasticamente osservato: «La tradizione giudaico-cristiana las-cia entrare nella stessa coscienza mitico-rituale la coscienza storica del divenire irreversibile: l’accento si sposta dalla esemplarità delle origini alla esemplarità del centro del divenire, dal divino al divino incarnato (il Cristo), dalla ripetizione delle origini alla ripetizione del centro (la morte e le resurrezione di Cristo), dalla ciclicità delle catastrofi all’attesa di un termine a direzione unica (il Regno). Alla ripetizione delle origini divine della storia segue ora la rip-etizione del centro divino-umano della storia col problema della salvezza individuale nel ter-mine unico annunziato» (La fine del mondo, brano 110, p. 221). In merito si veda anche il mio articolo L’apocalittica giudaica e proto-cristiana tra «crisi della presenza» e «crisi percepita», in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» 76/2 (2010), pp. 480-533. La necessità di fornire un orizzonte euristico storicizzante a complessi mitico-culturali sottovalutati e/o ridimensionati – perché studiati in chiave sostanzialmente etnocentrica – ha portato alcuni studiosi della co-siddetta “scuola romana” di storia delle religioni ad utilizzare la dizione di “apocalittica” (et similia!) in chiave comparativa per cercare di chiarire le dinamiche di costruzione di alcuni discorsi mitico-rituali legati alla distruzione dell’ordine attuale e alla relativa riproposizione di un ordine “altro”, sostanzialmente oppositivo rispetto al precedente e comunque connesso al rifiuto di uno stato di dominazione vissuto come realmente invasivo, se non realmente distrut-tivo, a fronte di ordini culturali tradizionalmente consolidati (cfr. M. Massenzio, Cargo Cults: dall’evasione mitica all’impegno emancipatorio, in V. Lanternari, Festa, carisma, apocalisse, SE, Palermo 1983, pp. 305-348). L’operazione, legata a un panorama internazionale di studi all’epoca piuttosto florido (un libro che ebbe un grosso impatto in tal senso fu quello di P. Worsley, La tromba suonerà. I culti millenaristici della Melanesia, Einaudi, Torino 1977 [orig. ingl. 1968]. Si vedano le osservazioni dedicate al volume in C. Tullio-Altan - M. Massenzio, Religioni, simboli, società. Sul fondamento umano dell’esperienza religiosa, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 264-273, 299-317) e, non secondariamente, influenzata dalla volontà, si potrebbe dire politico-ideologica, di affrancare da pesanti derive fenomenologiche dispositivi mitico-religio-si che andavano necessariamente reinseriti nella loro propria storicità e riabilitati in un discorso più ampiamente storico-religioso ed etnologico, ha offerto un contributo notevole per quanto concerne l’analisi di popolazioni ove l’influsso dei conquistatori e/o colonizzatori (il più delle volte programmaticamente legato a presupposti teologici di marca cristiana) ha condotto alla formulazione di impianti culturali in cui la coabitazione, certamente forzata, non ha mancato di lasciare la sua cosciente e voluta traccia. Ciò che però a livello di principio va sottolineato, soprattutto nell’oggi, è che un’estensione, in chiave storico-comparativa, del termine “apocalit-tica” a culture non direttamente ascrivibili all’influsso (anche tangenziale) del cristianesimo, e in questo contesto va inserito il giudaismo del secondo Tempio, è non solo pericoloso – pro-prio per il rischio della sovrapposizione etnocentrica – ma realmente legato, per ragioni intrin-seche allo sviluppo storico del termine, a una visione ancillare dell’alterum, piegato per meglio aderire alla definizione del proprium. Si rischierebbe di riproporre, ancora una volta e per l’ennesima volta, un’analisi dell’apocalittica giudaica alla luce delle successive (e differenti) riflessioni cristiane, visto che, in molti casi, le c.d. “apocalittiche” melanesiana (cfr. Massenzio, Progetto mitico e opera umana), e australiana (cfr. Id., Kurangara. Un’apocalisse australiana,

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In un contributo di oramai qualche anno fa, J.C. VanderKam ha ripre-so l’annosa questione dei rapporti tra apocalittica e messianismo47. Lo studioso iniziava col notare come il termine משיח, nella Bibbia, si trovi connesso ai seguenti ambiti: I. l’unzione dei re d’Israele (cfr. 1Sam 12,3.5,

Bulzoni, Roma 1976), oppure quelle rinvenibili presso talune popolazioni della Nuova Guinea (cfr. Id., Gesù-Manup: Cristo nella Nuova Guinea, in Tullio-Altan - Id., Religioni, simboli, società, pp. 274-285. Nello stesso volume si veda anche il saggio, sempre a firma di Massenzio, Il futuro e il tempo dell’attesa, pp. 286-298) o presso gli indiani d’America (cfr. Lanternari, Movimenti religiosi di libertà), sono il frutto di operazioni ideologiche compiute da talune élites, o da gruppi particolari, in risposta a e/o per influsso (a volte diretto, altre volte indiretto) di coabitazioni culturali in cui il cristianesimo, o una particolare declinazione di esso, ha as-sunto un ruolo inglobante/orientativo sempre più rilevante. E non è un caso che il recente studio di A.E. Portier-Young, Apocalypse against Empire. Theologies of Resistance in Early Judaism, Eerdmans, Grand Rapids 2011, per leggere alcune delle apocalissi del giudaismo del periodo ellenistico-romano come espressioni di differenti «teologie della resistenza», debba necessaria-mente ripensare i concetti di «impero» e «resistenza» secondo le categorie concettuali proprie del contesto oggetto del suo studio, nel più ampio panorama del mondo antico, osservando come i due termini siano sostanzialmente due facce della stessa medaglia. L’opposizione nei confronti di un potere avvertito come realmente distruttivo di un ordine culturale consolidato non solo deve fare i conti con quella che si può definire una vera e propria «crisi percepita», ovvero una crisi tipica di particolari contesti sociali all’interno di un più ampio macrosistema, pensata non allo stesso modo da tutti gli attori che lo compongono, ma deve inoltre tenere presente che l’opposizione implica – almeno in certi ambiti – l’appropriazione di strumenti culturali tipici del sistema che si intende combattere, per meglio definire il proprium rispetto all’alterum da cui prendere le distanze.

47 Cfr. Messianism and Apocalypticism, in J.J. Collins - B. McGinn - S.J. Stein (eds.), The Encyclopedia of Apocalypticism 1. The Origins of Apocalypticism in Judaism and Chris-tianity, Continuum, New York 1998, pp. 193-228. È necessaria una chiarificazione: l’impiego del termine messianismo è, a mio avviso, piuttosto ambiguo, perchè sembra sovrapporre cose piuttosto eterogenee. In tempi recenti si è imposto l’uso del plurale “messianismi”, operazione senz’altro legittima, ma che non sembra spostare di troppo i termini del problema. È noto che il termine messia è una traslitterazione del termine ebraico corrispondente che, in un particolare contesto, aveva una valenza ben determinata, ed è altrettanto ovvio che l’applicazione teologica di questo termine a Gesù abbia portato a definire un “messianismo” giudaico che, sebbene non strettamente legato al termine tecnico, è stato comunque interpretato come tale (sempre e co-munque in modo da contestualizzare il “messianismo” gesuano). Credo che questo sia un caso in cui la terminologia non possa comunque eludere un certo grado di ambiguità: è indubbio che – oltre al messianismo in senso stretto (quello connesso all’impiego del termine tecnico unto) – l’ebraismo del periodo ellenistico-romano conoscesse una serie di agenti escatologici non strettamente connessi al messia regale o sacerdotale unto, ma questi sembrano comunque rappresentare una sorta di sfondo in cui inserire le riletture gesuane e cristiane dell’azione es-catologica di un inviato di Dio. Ma fino a che punto simili valutazioni erano considerate “mes-sianiche” da tutti i giudei dell’epoca? Connesso a questi problemi è, a mio avviso, il tentativo di delineare un tipo di messianismo già nell’Israele più antico. Questo è argomento su cui non è possibile, francamente, neanche fornire elementi di base in questa sede: ma credo che ogni discorso storico debba cercare di prescindere, il più possibile, da problemi teologici (almeno secondo le diverse teologie moderne e contemporanee). Certamente ritenere che un particolare tipo di messianismo fosse già presente nell’Israele più antico darebbe maggiore consistenza storica ad una lettura in chiave cristologica di numerosi luoghi del cosiddetto Antico Testa-mento. Ma questa è un’operazione storicamente legittima? Sul problema di un’origine del mes-sianismo già a partire dall’VII secolo, si veda l’interpretazione, e la relativa datazione, che E. Cortese fornisce del Sal 72 (Che Messia? Per quali poveri?, in «Lateranum» 41 [1991], pp. 41-

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16,6, 24,7.11); II. l’unzione dei sommi sacerdoti di Israele (Lev 4,3.5.16, 6,15, Sal 84,10); III. Ciro di Persia è definito tale in Is 45,1; IV. un futuro principe è definito tale in Dan 9,25.26; V. i patriarchi sono definiti tali in Sal 105,15 = 1Cr 16,22. La domanda centrale per VanderKam era la seguente: è possibile usare il termine per riferirsi a qualsiasi «leader of the end-time and the thought patterns that include such characters?». O sarebbe meglio restringere il campo alla menzione “esplicita” del termine in un contesto escatologico e apocalittico? VanderKam optava per la pri-ma possibilità, portando come esempio i testi profetici, dove è possibile osservare un proliferare di figure messianiche (ovvero di agenti escato-logici di salvezza), pur nell’assenza del termine specifico (ad esempio, cfr. Is 11,1.2-16, Ger 23,5-6, 2Sam 7,12-14a.1648). Nella stessa prospet-tiva si è mosso J.J. Collins, sottolineando che «a messiah is an eschato-logical figure who sometimes, but not necessarily always, is designated as a משיח in the ancient sources»49.

Partendo da simili premesse, si è osservato che certamente l’escatologia rappresenta un elemento centrale nella definizione di un particolare messianismo, ma che esistono figure messianiche non neces-sariamente definibili nei termini di “giudice escatologico” (il caso del messianismo davidico), così come sono documentati agenti di salvezza di matrice sacerdotale e addirittura la venuta di entrambi i personaggi in contemporanea (il caso di alcuni scritti qumranici), correlata all’attesa di un profeta che comunque sembra avere caratteristiche messianiche50. Ma se la connessione escatologia/messia è dato comunque abbastanza certo (sebbene Flavio Giuseppe ricordi il proliferare di figure cosiddette mes-sianiche che preannunciano l’imminente rivolgimento escatologico della

60; Come sbloccare l’attuale esegesi messianica, in «Lateranum» 46 [1996], pp. 33-45, contro soprattutto J.-M. Auwers, Les Psaumes 70-72. Essai de lecture canonique, in «Revue Biblique» 101 [1994], pp. 242-257; ulteriore bibliografia sul problema è in E. Cortese, Formazione, re-dazione e teologia dei “Salmi di Davide” [RivBibl.S 43], EDB, Bologna 2004, pp. 142-143). La cosa è certamente possibile (oggi quasi tutto appare possibile!). Ma rimane anche la validità dell’interrogativo: è storicamente legittima? O è solo un tentativo di giustificare una lettura teo-logica, per quanto autorevole, sfruttando argomentazioni che pretendono di essere storiche? Un tentativo storicamente più equilibrato di rinvenimento di concezioni messianiche nell’Israele più antico (sebbene non si arrivi, come Cortese, al VII secolo!) è quello condotto da A. Laato, A Star Is Rising: The Historical Development of the Old Testament Royal Ideology and the Rise of Jewish Messianic Expectations, Scholars Press, Atlanta 1997, sebbene molte delle sue letture di luoghi profetici rimangano piuttosto ipotetiche.

48 Laato definisce questo passo «the backbone of the messianic expectation in the early preexilic period», comparando la profezia di Natan con testi dell’Oriente e dell’Egitto antichi (cfr. A Star Is Rising, p. 36).

49 The Scepter and the Star, p. 12; cfr. anche ‘He shall not Judge by what his Eyes See’: Messianic Authority in the Dead Sea Scrolls, in «Dead Sea Discoveries» 2 (1995), pp. 145-164 (specialmente p. 146).

50 Per un quadro preciso e puntuale sulle diverse attese messianiche del giudaismo, cfr. C.E. Evans, Messiahs, in Collins - McGinn - Stein (eds.), The Encyclopedia of Apocalypticism 1, pp. 537-542.

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storia: cfr. Bell. Jud. 2,262-263 e 433-448; 6,312-313, 7,26-36; Ant. Jud. 18,63, 85-87, 20,97-99, 169-172 e 200)51, meno certe sono le connessioni apocalittica/escatologia e messianismo/apocalittica. Vista l’inconsistenza storica dell’uso del termine “apocalittica” per la definizione di uno specif-ico e ben definito movimento del giudaismo del periodo ellenistico-roma-no, e visto che non in tutti gli scritti dal carattere apocalittico l’attesa es-catologica è così preponderante, non deve stupirci il fatto che in numerose apocalissi quello che si suole identificare come messianismo non sia affat-to presente (i casi del Libro dei Vigilanti, dell’Apocalisse delle Settimane o dell’Apocalisse degli Animali52). Mentre in Giubilei l’attesa non appare connessa a una escatologia in senso stretto (cfr. Giub. 31,11-17.18-20 e 30,18, dove si parla di due figure, una sacerdotale ed una messianica [Levi e Giuda]53), in altri testi essa emerge come il frutto di un lavoro redazio-nale stratificato e complesso, per cui non è sempre facile stabilire la sua reale portata ai fini di una definizione del quadro delle attese messianiche del giudaismo precedente alla nascita del protocristianesimo54.

I testi messi insieme sotto la paternità enochica (1Enoc) rappresentano certamente un corpus apocalittico, nel senso che i documenti inclusi nella raccolta appaiono classificabili, sotto un profilo formale, come testi vision-ari e/o apocalittici. Questi appaiono poco interessati a speculazioni messi-aniche, e solo il Libro delle Parabole di Enoc (secondo tomo dell’attuale 1Enoc etiopico) sembra rappresentare un’importante eccezione in questo senso. La figura messianica ivi descritta, il figlio dell’/d’uomo, ha cer-tamente caratteristiche escatologiche e funzioni giudicanti55, ma resta il fatto che essa, in quanto tale, rappresenta un unicum nell’ambito della tra-dizione enochica e non appare, al di là di alcune tradizioni protocristiane,

51 Cfr. D. Garribba, Pretendenti messianici al tempo di Gesù? La testimonianza di Flavio Giuseppe, in Guida-Vitelli (eds.), Gesù e i Messia di Israele, pp. 93-106 (con ampia discussione e bibliografia).

52 Anche se per quanto concerne l’Apocalisse degli Animali c’è discussione tra gli studiosi sul significato di alcuni passaggi: ad esempio, cfr. 1Enoc 90,14.31.37, dove si parla di un toro bianco che, secondo P.A. Tiller, sarebbe il simbolo di un messia celeste (cfr. A Commentary on the Animal Apocalypse of I Enoch, Scholars Press, Atlanta 1993, p. 384).

53 Cfr. VanderKam, Messianism and Apocalypticism, p. 203.54 Il caso di Test. Levi 2-5. Nel capitolo 5, Levi viene definito sacerdote di Dio (5,1-2),

sebbene non sia un sacerdote escatologico; solo Gesù, predetto nel passo in questione, viene designato con un titolo messianico (Figlio di Dio).

55 Si veda la bibliografia e le discussioni raccolte in G. Boccaccini (ed.), Enoch and the Messiah Son of Man. Revisiting the Book of Parables, Eerdmans, Grand Rapids 2007. Per esaurienti status quaestionis, si vedano anche i recenti M.P. Casey, The Solution to the Son of Man, T&T Clark, London - New York 2007; M. Mogens, The Expression ‘Son of Man’ and the Development of Christology. A History of Interpretation, Equinox Publishing, London - Oakville 2008 e B.E. Reynolds, The Apocalyptic Son of Man in the Gospel of John (WUNT 249), Mohr Siebeck, Tübingen 2008. Cfr. anche L.W. Hurtado - P.L. Owen (eds.), Who is the Son of Man? The Latest Scholarship on a Puzzling Expression of the Historical Jesus, T&T Clark, London - New York 2011 (con tesi a mio avviso non sempre condivisibili).

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con le medesime funzioni e con la stessa simbologia in altri documenti del giudaismo del periodo ellenistico-romano (gli studiosi sono piuttosto divisi solo per quanto concerne il 4Ezra, ma sembra oramai chiaro che il termine utilizzato dall’A. dello scritto sia semplicemente uomo e non figlio dell’/d’uomo. Potrebbe certamente essere una variazione sul tema, ma questo confermerebbe ulteriormente il fatto che il Libro delle Parabo-le rappresenta sostanzialmente un unicum nell’ambito del giudaismo del periodo ellenistico-romano. Anche Qumran non sembra offrire elementi per dimostrare una presenza di tradizioni legate al figlio dell’/d’uomo nel giudaismo del secondo Tempio). Ancora oggi gli studiosi partono spesso dalla definizione di un movimento apocalittico per cercare di ricostru-ire i filoni legati all’immagine del figlio dell’/d’uomo, come se questa fosse una concezione nota e condivisa nel giudaismo del secondo Tem-pio. Dato che Gesù utilizzava l’immagine senza spiegarla, si dice che i suoi uditori dovevano necessariamente capirla e, quindi, conoscerla56. Ma davvero è ipotizzabile che tutti i giudei (o molti di essi) conoscessero le tradizioni enochiche confluite nel Libro delle Parabole? O che questi fossero al corrente di non meglio specificate “tradizioni apocalittiche” sul figlio dell’/d’uomo danielico, riletto in chiave individuale, come un vero e proprio agente escatologico (che quindi fossero al corrente dei dibattiti esegetici che si consumavano attorno al testo di Daniele)? Secondo noi, qui è ravvisabile una delle questioni più importanti, ma oggi anche meno condivisibile, che emerge dalle indagini di Sacchi57. Proprio perché Sac-chi mette da parte una generica definizione ideologica di “apocalittica”, ne consegue che non è più possibile conservare neanche il concetto di “tradizioni apocalittiche messianiche” sul figlio dell’/d’uomo. Visto che la stessa tradizione enochica nella sua interezza non sembra essere inter-essata al messianismo superumano legato a questa figura – sembra sug-gerire Sacchi – va da sé che il Libro delle Parabole rappresenta l’unica, o la più importante, attestazione di questa particolare attesa messianica (che non può che apparire dunque piuttosto isolata nel quadro del giudaismo del secondo Tempio!). Il dibattito sorto nel protocristianesimo si sarebbe consumato proprio in riferimento all’attesa messianica documentata da quella specifica fase del movimento enochico. Da parte nostra, riteniamo che il problema del rapporto tra cristianesimo antico e cristologie pro-tocristiane non vada impostato in termini di contrasto e/o di analogia risp-etto a precostuite ideologie messianiche del giudaismo del secondo Tem-pio. Ritenere la forma messianica del Libro delle Parabole, che presenta

56 Ad esempio, cfr. P. Sacchi, Qumran e Gesù, in «Ricerche storico-bibliche» 9/2 (1997), pp. 99-115 (specialmente pp. 109-113) e Gesù e la sua gente, pp. 79-85 e 105-108.

57 Si veda anche la rassegna curata da P. Bertalotto, Il Gesù storico. Guida alla ricerca contemporanea, Carocci, Roma 2010, pp. 117-154 (con ampia ripresa delle tesi di Sacchi, ma con posizioni in molti casi difficilmente sostenibili).

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un personaggio intronizzato e assurto al ruolo di giudice escatologico (si discute ancora se sia lo stesso Enoc, così come dibattuta è la relativa pre-sunta unità compositiva dello scritto, soprattutto in riferimento ai capitoli che lo concludono, dove Enoc è esplicitamente identificato con il figlio dell’/d’uomo [70-71])58, l’unico elemento attraverso cui spiegare lo svi-luppo di alcune cristologie protocristiane risulta piuttosto problematico. Se è impossibile dire che l’immagine utilizzata nel cristianesimo antico derivi da Gesù stesso, in quanto rilettura di Daniele in chiave individ-uale e celeste, non è ugualmente possibile escludere, almeno a livello di principio, che alcune successive riflessioni protocristiane abbiano ulteri-ormente allargato il senso di una riflessione ritenuta tipicamente gesuana in dialettica con particolari riletture della tradizione enochica (si pensi a 2Enoc, che ancora risente dei dibattiti intorno a figure celesti assimilabili al Figlio dell’uomo del Libro delle Parabole). Ciò nonostante, il Libro delle Parabole, più che testimonianza di un’ideologia messianica, da cui far discendere una figura messianica istituzionalmente ritenuta tale nel giudaismo del secondo Tempio, sembra di contro rappresentare una delle molteplici interpretazioni della tradizione giudaica radicate in contesti vi-sionari, dove la tradizione viene conscientemente e sapientemente usata per meglio fornire autorità a resoconti di contatto non ordinario con il mondo altro. È possibile ritenere che la figura descritta nel Libro delle Parabole sia stata successivamente interpretata come espressione di una condivisa ideologia messianica nel giudaismo? Sembra che nell’ottica di Sacchi ogni cristologia presupponga un messianismo; per questo, ne deriva che il figlio dell’/d’uomo debba necessariamente presupporre un particolare messianismo di matrice giudaica, sebbene riletto in una pros-pettiva affatto diversa. È invece più probabile, secondo il nostro punto di vista, che emergano tratti visionari nell’utilizzo dell’immagine così come si presenta in alcuni luoghi dei Vangeli (forse proprio in aderenza al significato primario connesso all’espressione ebraica e/o aramaica figlio dell’/d’uomo, l’essere umano in quanto tale), riletti e rifunzionalizzati per meglio definire un agente escatologico di salvezza, non meglio identifi-cato, che verrà nell’era escatologica. Ma tale associazione non è sem-pre ugualmente sottolineata nelle varie tradizioni protocristiane che la riprendono; ci sono anche casi in cui l’espressione allude semplicemente all’essere umano in quanto tale.

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58 Sulla questione mi sia permesso rimandare a L. Arcari, Il Libro delle Parabole di Enoch. Alcuni problemi filologici e letterari, in Guida - Vitelli (eds.), Gesù e i messia di Israele, pp. 81-92 (specialmente pp. 88-90).

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Per una ulteriore messa in evidenza della complessità del dibattito recente connesso alle tematiche affrontate da Sacchi, vale la pena, in sede conclusiva, richiamare, quasi come in uno specchio rispetto al volume dello studioso italiano, un recente studio in cui si affrontano questioni più o meno affini a quelle cui abbiamo fatto cenno, proprio per far emergere con maggiore chiarezza i guadagni e le aporie che ancora permangono in un settore di studio ampiamente (per usare un eufemismo!) scandagliato eppure, almeno a mio avviso, ancora non del tutto compreso nella sua reale portata storica e storico-religiosa (soprattutto alla luce del rinnovato quadro di studi sul giudaismo del periodo ellenistico-romano e, al suo interno, del protocristianesimo). Di recente, A.L.A. Hogeterp59 ha impie-gato i termini di escatologia, apocalittica e messianismo sulla scorta di una convenzione abbastanza consolidata tra gli studiosi (almeno tra alcu-ni!), anche talora facendo riferimento al dibattito, spinosissimo, svoltosi o ancora in corso tra diverse scuole di pensiero60. Per quanto concerne il termine “escatologia”, Hogeterp rileva come esso sia «an observer’s category from the perspective of phenomenology of religion» (p. 2)61. Nonostante la sua coniazione sia riconducibile al XIX secolo, nel conte-sto del dibattito occorso all’interno della teologia sistematica, Hogeterp ritiene – in virtù della derivazione etimologica della dizione dal greco t o; e[scat on, donde l’espressione ejpÆ ejscavt wn t w'n hJmer w'n, uno dei modi con cui viene indicato il tempo della fine nei LXX, nel giudaismo post-biblico e nel greco del N.T. – che l’etichetta possa essere conservata in un’analisi storico-ideologica, a patto di una sua riformulazione (che tenga conto della varietà interna al giudaismo del secondo Tempio visto come quadro sistemico complesso). Non credo che la precisazione sia suffi-ciente a sgombrare il campo da una serie di pre-comprensioni implicite nella dizione stessa di “escatologia”, come le tesi di Sacchi ampiamente lasciano intendere (o sottintendere). Hogeterp ci tiene a specificare che

«Apart from eschatology as beliefs about the endtime, the afterlife is also con-sidered a part of eschatology. In this respect, a distinction is made between in-dividual and the collective dimensions are not artificially contrasted. There are

59 Cfr. A.L.A. Hogeterp, Expectations of the End. A Comparative Traditio-Historical Study of Eschatological, Apocalyptic and Messianic Ideas in the Dead Sea Scrolls and the New Testament (STDJ 83), Brill, Leiden - Boston 2009.

60 Cfr. pp. 2-6: «Definition of Eschatology and Problems of Comparative Study»; pp. 335-342: questioni generali sull’apocalittica qurmanica, rapporti tra apocalittica e sapienza e apocalittica ed escatologia, presenza o meno di tradizioni apocalittiche nel cristianesimo nascente nel più ampio contesto del giudaismo del secondo Tempio; pp. 423-434: questioni metodologiche sul messianismo giudaico, la terminologia messianica, selezione di testi qum-ranici dal tenore messianico sulla base della pubblicazione dei nuovi frammenti provenienti dalla grotta IV di Qumran.

61 Citazione da L. Albinus, The House of Hades. Studies in Ancient Greek Eschatology (SR 2), Aarhus University Press, Aarhus 2000, p. 9.

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strong indications in early Jewish and Christian traditions that the ultimate point of belief in the individual afterlife, bodily resurrection, is set in the endtime and related to God’s judgment of humankind at large […]. Eschatology may thus be defined as beliefs about the fate of humanity beyond death in the final age»62.

Ma ciò che più sembra problematico, nell’affermazione, è la tenden-za – implicita nella dizione stessa di escatologia – a ideologizzare (per non dire teologizzare!), in una sorta di propedeutica al cristianesimo delle origini (almeno secondo una particolare ottica, legata all’uso esclusivo delle sole fonti successivamente accolte nel canone neotestamentario), testimonianze e/o costrutti ideologici tutt’altro che organici e/o uniformi, spesso specchio a singole scuole o gruppi sociali e difficilmente inte-grabili in una quadro generale (ammessa l’utilità storica di una simile operazione!).

Allo stesso modo, la dizione di apocalittica viene impiegata da Ho-geterp non soltanto in senso letterario e/o formale (la definizione di J.J. Collins), ma nel senso di

«A historical phenomenon of developing tradition. Composite early Jewish apo-calyptic texts can be taken as a lead for traditio-historical study of development. In this regard, 1 Enoch has been taken as primary example for stages of deve-lopment in apocalyptic tradition»63.

L’affermazione ha di per sé una sua validità euristica, ma Hogeterp non sembra voler andare oltre nello scandaglio di una simile possibilità interpretativa (si veda il fugace cenno alla prospettiva di indagine inau-gurata da P. Sacchi nella n. 3, p. 335, peraltro senza alcun riferimento bibliografico!). L’impasse è evidente, a mio avviso, nel momento in cui la ricostruzione di una presunta ideologia apocalittica, sostanzialmente coincidente con un prevalente interesse nei confronti del giudizio finale, unitamente alla predestinazione e alla periodizzazione della storia, al dua-lismo cosmico e alla guerra escatologica, viene fatta derivare da una sorta di livellamento di massima di alcune delle tematiche emergenti da testi assai diversi tra loro per forma e contenuto, oltre che per contesto storico-sociale64. Non si comprende come si possa definire Giovanni Battista una figura apocalittica (il solo focus sul giudizio non credo sia sufficiente; perché non definirlo, allora, più semplicemente come un profeta escatolo-gico?) dato che quella di apocalittica sembra, nell’indagine di Hogeterp,

62 Hogeterp, Expectations of the End, pp. 2-3.63 Ibi, p. 335.64 Nel Libro dei Vigilanti l’autore usa la forma apocalittica, o della rivelazione, solo a

partire dal capitolo 12, prima no; la caduta degli angeli nella prima sezione dello scritto è solo raccontata. Credo fosse un modo per poter dire con lingua di carne idee che vanno al di là dell’esperienza. Vedere in cielo o ascoltare da un angelo e/o dire per metafore ciò che non si può raccontare per esperienza storica.

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una dizione legata principalmente a gruppi di testi, da cui derivare una visione del mondo, e non a un fronte ideologico unitario. Hogeterp mo-stra di conoscere molto bene il dibattito occorso tra gli studiosi sull’apo-calittica intesa come resoconto rivelativo interno a particolari scuole e/o gruppi del giudaismo del secondo Tempio65, ma non riesce ad andare al di là di una critica abbastanza superficiale, conciliando, per così dire, la definizione di Collins con un’analisi ancora legata a un’immagine sinte-tica della cosiddetta apocalittica – una selezione di massima di alcuni dei temi ritenuti una costante delle opere classificate come apocalissi, che si trovano ad assumere valore tassonomico quasi onnicomprensivo.

Per quanto concerne il messianismo, Hogeterp è ugualmente al cor-rente delle numerose questioni poste dai diversi studiosi. Le premesse da cui lo studioso muove nella sua indagine sono le seguenti:

«In the study of late Second Temple Judaism, messianism frequently serves as umbrella term for ideas about a divinely commissioned redemeer figure who plays a crucial role in acting on behalf of Israel’s eschatological deliverance. The heterogeneous and pluriform character of the evidence resists a comprehensive definition of the term messianism. The ancient body of literature does not attest to a uniform expectation of the Messiah but to several eschatological protago-nists whose messianic role and identity is a matter of debate»66.

Oltre Hogeterp è ancora più esplicito:

«The use of the very term messiah and messianic have recently been challen-ged by J. Maier who argued that they entail more confusion through theologi-cal presuppositions and Christian projections into Jewish sources than analyti-cal precision. According to Maier, the broadened use of the terms messiah and messianic makes the study of early Jewish messianism hardly distinguishable from the study of eschatology67. G.G. Xeravits further argued that messianism reflects a particular concept of Christian theology and is thereby anachronistic68. Of course, cautions are due against unreflective broadening of terms, but the long known evidence of sectarian Qumran texts about «messiahs of Aaron and Israel» precludes that the labels messiahs or messianic, rendering and related epithets, by definition entail eisegesis of Christian theology»69.

Credo che soprattutto l’ultima parte dell’affermazione non colga nel segno. Un’interpretazione in chiave esclusivamente singola e/o indivi-duale di molte delle raffigurazioni dell’agente escatologico di salvezza

65 Lo studioso richiama le indagini di M.E. Stone e C. Rowland: cfr. Expectations of the End, p. 336.

66 Ibi, p. 424.67 Il riferimento è allo studio di J. Maier, Messias oder Gesalbter? Zu einem Übersetzungs-

und Deutungsproblem in den Qumrantexten, in «Revue de Qumrân» 17 (1996), pp. 585-612.68 Qui Hogeterp riprende Xeravits, King, Priest, Prophet, pp. 8-9.69 Hogeterp, Expectations of the End, p. 430.

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attestate a Qumran, che inevitabilmente lascia in ombra o in secondo pia-no le fondamentali connessioni di queste figure con la comunità degli eletti, o la lettura di alcuni testi in chiave esclusivamente personale, in riferimento a un agente escatologico concreto (sia esso un re, un profeta, un angelo, un sacerdote, un essere superumano), nonostante la difficoltà, per non dire impossibilità, di un’interpretazione così univoca di alcuni manoscritti70, in alcuni punti dell’indagine sembrano prestare il fianco alla necessità di contestualizzare alcune delle valutazioni cristologiche presenti nei vari gruppi proto-cristiani del I secolo alla luce di un prius che ne giustifichi e fondi la storicità.

70 Penso soprattutto a 11QMelch e a 4Q246. Il primo testo è stato inteso da taluni in riferimento a una sorta di ipostasi divina, cfr. J.T. Milik, Milkî-edeq et Milkî-reša’ dans les anciens écrits juifs et chrétiens (I), in «Journal of Jewish Studies» 23 (1972), pp. 95-144, una specie di rappresentazione dello stesso YHWH come re giusto; il secondo è stato interpretato come un’allusione a una sorta di messianismo collettivo, in riferimento ai figli della luce: cfr. M. Hengel, Der Sohn Gottes. Die Entstehung der Christologie und die jüdisch-hellenistische Religionsgeschichte, Mohr Siebeck, Tübingen 1975, pp. 71-76.

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