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2006/1-La leggerezza.pdf

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1 Tariffa Assoc. Senza Fini di Lucro: Poste Italiane S.P.A - In A.P -D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/ 2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB/43/2004 - Arezzo - Anno X n° 1/2006
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trimestrale -Anno X - Numero 1 - Marzo 2006

REDAZIONElocalità Romena, 1 - 52015 Pratovecchio (AR)tel./fax 0575/582060

DIRETTORE RESPONSABILE:Massimo Orlandi

REDAZIONE e GRAFICA:Simone Pieri - Alessandro Bartolini - Massimo Schiavo

FOTO:Massimo Schiavo, Eliseo PieriCOPERTINA: Eliseo Pieri

HANNO COLLABORATO:Luigi Verdi, Pierluigi Ricci, Stefania Ermini, Maria Teresa Abignente, Giovanni Gnaldi.

Filiale E.P.I. 52100 ArezzoAut. N. 14 del 8/10/1996

Ogni fallimento è passeggero6

Festa di Pasqua24

Lo spirito di leggerezza 4

Vamos caminando 8

La gioia di stare al mondo 12

Primapagina3

18Quella fragile primavera

www.romena.ite-mail: [email protected]

15 anni di Romena 22

Pubblicazioni26

La scelta della sobrietà20

Il movimento della leggerezza14

La regola dell'amore10

SO

MM

AR

IO

27Graffi ti

25Avvisi

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PR

IMA

PAG

INA

Calpesto terra e respiro aria da molti anni ormai ma, per alcune cose, mi sento un eterno ripetente. Una preoccupazione mi ferma il respiro, un insuccesso mi sgonfi a. Accuso la spinta delle correnti contrarie e, senza volerlo, le incoraggio. Spesso mi giustifi co dicendo che questa è l’altra faccia della mia sensibilità. Può essere. Però è una catena, e stringe un po’ troppo.Leggerezza. Ne conosco il profumo, la annuso negli altri, la vivo, esplosiva, ma quando la vita mi sorride. Troppo facile.Un giorno a Romena, Alex Zanotelli disse che bisogna avere il coraggio di 'buttar via' la propria vita. Mi piacque tanto quell’espressione. Buttar via non come qualcosa che non serve, ma come qualcosa che non si ha bisogno di proteggere, perché è così, senza difese, che la vita sa esprimersi. Oggi abbiamo molto, molti oggetti, molte relazioni, molte opportunità, per questo orien-tiamo la nostra vita più a conservare che a sperimentare. Ma le casseforti delle nostre sicurezze, per quanto blindate, non sono mai inespugnabili: nessuno può garantirci dai rischi dell’amore, non ci sono antidoti per tutte la malattie, nulla che possa dare certezza ai nostri progetti. Così ci perdiamo in affanni inutili per difendere un tesoro che potrebbe arricchirci solo se, come dice Alex, fossimo capaci di buttarlo via. Penso a San Francesco che getta i suoi abiti, e con essi la sua vita. Ma la ritrova, nuova di zecca, un passo più avanti. È una vita durissima, a pensarci, ma leggera: perché è fi nalmente la sua, e può indossarla come si indosserebbe un alito di vento. Le persone che diffondono leggerezza intorno a sé non sono quelle che ‘non ci pensano’ e che galleggiano in superfi cie; al contrario sono quelle che più sono immerse nella vita, lo sono così tanto da aver accettato la sua legge fondamentale: che tutto muore per risorgere, che tutto si trasforma per consentirci di andare oltre. Per questo sono fl essibili al cambiamento e costantemente aperte al nuovo. Le persone leggere sono quelle che sanno vivere con lo stile dei viandanti: e come tutti i viandanti si lasciano riempire di stupore da tutto ciò che incontrano. Hanno metabolizzato il senso della vita come cammino: e capisci che sono ‘leggeri’ da come soffrono oltreché da come gioiscono, perché il loro dolore non si lascia amplifi care dalla paura. Conosco persone così. Spesso sono anziani, e non solo per l’esperienza dell’età: i nostri vecchi hanno avuto poche cose e quindi minor paura di separarsene. Molti di loro poi hanno conosciuto gli anni della guerra: una scuola terribile che ha insegnato loro il valore della vita e la relatività di tutto il resto.Stare con loro mi aiuta a respirare la leggerezza e a capire che essa ci offre l’unico modo per star bene al mondo. Non mi è ancora dato di viverla fi no in fondo. Segno che ho ancora zavorra da buttare, che tanta strada mi attende, prima di riuscire ad affi darmi alla vita. Ciascuno di noi è nato da parto di mamma. Ma, durante la vita, il ‘travaglio’ continua.Ognuno cerca di partorire se stesso. La leggerezza è il segno che si è nati di nuovo. Defi nitivamente, questa volta.

Massimo Orlandi

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Due forze regnano nell’universo, lo spirito di pesantezza e lo spirito di leggerezza.Oggi la poca felicità che otteniamo è una fuga dall’insoddisfazione più che l’incontro con la bellezza. Normalmente, l’esperienza che fac-ciamo è di pesantezza e lo resterà finché lascia-mo fuori dalla nostra porta ciò che invece do-vrebbe interessarci di più: la verità del cuore.Oggi diciamo di soffrire la pesantezza ma per-sistiamo su strade che generano pesantezza. Forse perché la pesantezza non è sempre evi-dente, si nasconde sotto una depressione stri-sciante, si mescola con la nostra superbia, con la nostra impazienza, col nostro accumulare parole, con la nostra naturale fatica a soppor-tare troppa realtà.È così che la pesantezza ci prende, come un veleno che ci intossica a poco a poco. Con lo stile di ogni tentatore viene di notte, agisce velocemen-te e poi sparisce. Così che, ogni mattina, ti svegli e ti trovi con meno pace e meno libertà.

Come un pellegrinoL’uomo è un angelo decadu-to. Ha perso leggerezza.La leggerezza è flessibilità di fronte alle contrarietà, è saper prendere la forma delle cose restando con la propria identità, è lasciare andare senza lasciarsi andare.La leggerezza è vedere il nocciolo della realtà oltre a quella che si trova sui giornali e nei di-scorsi vuoti e infiammati di uomini intimoriti o orgogliosi.Dobbiamo tornare leggeri come un pellegri-no. Un pellegrino non è un saggio, non è un santo. È un amico della saggezza, un amante della santità. Un pellegrino sa che la verità che cerca non sta al termine del suo cammino, sta dappertutto e per questo cerca di mettere i pie-di nei passi del suo pensiero e toccare ciò che

crede di conoscere.È necessario tornare leggeri tanto da far an-dare il giorno e lasciar venire la notte. Lenta-mente. E poi lasciare andare la notte e lasciare venire il giorno, con la stessa cautela e la stes-sa lentezza.Lentamente, con leggerezza fino a quando tut-te le nostre identità dietro cui ci nascondiamo (di prete, di cristiano, di credente, di ateo…) ci muoiono fra le mani. Solo chi è nudo è in grado di trovare la sua Icona (immagine) e ri-vestirsi della sua vera essenza.

La dimensione dell’amorePadre Giovanni Vannucci e Giorgio La Pira pensavano che la bellezza, la poesia e la con-templazione fossero l’apice della situazione umana, che fossero la visione di un qualche

cosa di gran lunga superiore a quello che abbiamo e ve-diamo intorno.Qualunque cercatore se-rio dell’infinito, negli ul-timi anni, sussurra o grida che a questo tempo manca la bellezza, la poesia e la contemplazione, uniche di-mensioni capaci di guarirci e permetterci di vedere con altri occhi.

Per i moralisti la vita umana è un complicato sistema di virtù e di vizi e l’amore è solo una delle virtù. Ma per il mistico, l’artista e il poeta non esi-ste questo sistema complicato, per loro tutte le virtù, tutti i vizi, tutta la non luce, sono dentro il fuoco trasformante dell'amore.Spesso pensiamo che l'amore e la leggerezza siano banali, deboli, poco realisti, incapaci di vedere quanto sia forte il male.No. L'amore e la leggerezza non sono ciechi, hanno gli occhi dell'Eterno.La leggerezza è la dolcezza struggente dei ge-sti amati.

Tante cose belle, tante cose

diffi cili mi hai dato da porta-

re, mio Dio. E quelle diffi cili

si sono trasformate in belle

ogni volta che ero disposta a

sopportarle.Etty Hillesum

LO SPIRITO DI LEGGEREZZAdi Luigi Verdi

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Ho scoperto il segreto del mare

meditandosu una goccia di

rugiada.Kahlil Gibran

Foto: Ueli Bula

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OGNI FALLIMENTO É PASSEGGERO

Per imparare la leggerezza non serve non avere pro-blemi, occorre imparare a non soffrirli. Molti pensano che sia il tempo a sanare le ferite, ma non c’è niente di più sbagliato. Il tempo sembra far dimenticare, ma in realtà crea zavorre, appesantisce e quando non te lo aspetti riporta tutto a galla. Imparare a non soffrire i problemi è un’altra cosa. È una strada di libertà, è la vera fonte della leggerezza. Non è facile da realizzare, anche perché chiede di andare contro ad un istinto naturale ed abitudinario per l’essere umano. Ognuno di noi, in certe occasioni, si tiene stretta la sua sofferenza come fosse un diritto inviolabile e non sopporta chi gli dice di cambiare atteggiamento.Un giorno incontrai un amico – è un fatto che raccon-to sempre ai corsi – a cui chiesi come stesse. Lui mi rispose che stava bene e sentii che non fi ngeva affatto. Poi continuando a parlare gli chiesi come andassero le sue cose e lui candidamente mi rispose che tutto andava abbastanza male. Questa risposta mi colpi tanto, anche perchè sentii di avere davanti a me un uomo libero veramente.Leggerezza è libertà dai risultati, è distanza dai giudi-zi, è attaccamento a sé anche nella giornata più nera.Vorrei però aggiungere qualcosa di pratico, anche perché non mi sembra divertente affermare un princi-pio così importante, lasciandolo nel limbo delle cose irrealizzabili.Per imparare a non soffrire i problemi la cosa più im-portante è quella di separare l’evento emotivo, che un insuccesso o un fatto negativo ci fa vivere, dall’idea che abbiamo di noi stessi.Quando qualcosa va storto è umano provare rabbia o dolore, sentirci frustrati o tremendamente angosciati. Ci si sente così confusi e disperati che sembra che tutto ci rotoli addosso. In realtà abbiamo tutti i di-ritti a provare ciò che si prova e sbaglia chi ci dice: “dai, non è niente”. Ma un attimo dopo si spalanca di fronte a noi un’ alternativa di fronte alla quale non possiamo sottrarci e che ci impone una scelta : da una parte potremo reagire e rialzarci, dall’altra possiamo decidere di rimanere passivi e schiacciati dall’evento. È un attimo decisivo, è un momento totalmente in mano nostra. Lì non decide la forza di volontà o la buona educazione, lì entra in gioco e lo fa in maniera veramente pervasiva, l’idea che abbiamo di noi, cioè la nostra immagine.Mentre le emozioni ci prendono è facile comincia-re ad accusarci, lo abbiamo sempre fatto, ce l’hanno

insegnato fi n da piccoli e quando non ci pare giusto, facciamo una cosa che sembra differente : accusia-mo gli altri. Ma differente non è perché si innesca lo stesso meccanismo, quello del giudizio. Allora cominciamo a dire che non valiamo niente, che non siamo all’altezza, che non ce la caveremo mai e che viviamo in un mondo di pazzi. E la nostra immagine va a pezzi, diventa piccola e contorta e l’unica voglia che abbiamo rimane quella del rifi uto. In realtà que-sta è la confusione che alimenta la sofferenza e la fa diventare pesante e passiva. La sconfi tta e il dolore di per sé non sono fallimenti. A volte diventano oppor-tunità, sono sempre esperienza. Non c’è mai niente di defi nitivo e non è vero che se anche avessimo sba-gliato, siamo delle persone sbagliate. Il fallimento del dolore è l’immagine di sé che si frantuma, è decidere di non credersi più, di togliersi valore.Quindi la prima regola importante è quella di sepa-rare i due momenti, quello dell’evento emotivo da quello del giudizio su di noi, non permettendo alla violenza del primo di attaccare il secondo.La seconda regola è che questa operazione non si può fare da soli. C’è davvero bisogno di qualcuno vicino che accolga il nostro dolore e ci aiuti a contenerlo, magari con un gesto, un sorriso, lasciando trasparire l’idea che non siamo sbagliati. E se questa accoglien-za diventa un po’ nostra si può anche continuare a soffrire per un pò, ma è un’altra cosa. Non so come descriverlo, ma diventa come soffrire senza soffrire.Vorrei aggiungere una terza regola : bisogna imparare a non essere permalosi. I momenti di dolore a volte hanno una grande funzione, quella di graffi are l’ego. Questa cosa ci purifi ca, ci riporta al vero, all’essen-ziale, ci toglie le maschere e, per quanto faccia male, tutto ciò ci ridà equilibrio e saggezza. La permalosi-tà è la difesa che attiviamo perché l’ego non venga graffi ato. Ci gonfi amo, ci raccontiamo mille bugie, pur di non accettare quest’opera purifi catrice. Ed è lì che sbagliamo perché l’io che costruiamo in quei momenti anche se più grosso, più gonfi o è in real-tà estremamente fragile, confuso ed esposto a mille dubbi.Non permettere a niente e a nessuno di mettere in crisi la tua grandezza, perché è questa che ti rende leggero. È un atto di fede in te per la bellezza e le risorse che hai, è fede verso quella Mano che ti guida e che desidera la tua maturità. Ogni fallimento è pas-seggero, il regno dei cieli invece è già qui.

di Pierluigi Ricci

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C'è una strada che va dagli occhi al cuore senza passare per l'intelletto.

Cesterton

Foto: Eliseo Pieri

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VAMOS CAMINANDO di Giovanni Gnaldi

Dall’alto l’Italia è un gioiello: un fazzoletto verde, un giardino.Dall’alto la visione della realtà che ci circonda é altra, più ampia. Anche Dio ci osserva, dall’alto… come ci vedrà? Anche dall’alto delle Ande si ha un “sentire” diverso, su tutto! Dall’alto tutto diventa più piccolo, più fami-liare, più relativo. Siamo fi gli di un punto! Su un punto si è sprigionata, si è espansa la nostra vita…Abbiamo imparato che dal sudore, dalla fatica, dalla lotta, dalle ceneri sempre è rinata la vita! In questo mo-mento, in solidarietà con i miei fratelli, mi permetto di dirigere un pensiero di memoria, di benedizione e di pace per i nostri genitori, Duilio e Rosina, che fanno parte di questa generazione che, a denti stretti, ha se-minato vita e speranza, prima di partire per le grandi vacanze…Dall’alto, non solo la natura è incantevole, non solo il paesaggio regala dolcezza, non solo risalta il fascino della nostra terra, ma, soprattutto, le persone diventano invisibili, scompaiono, sembrano non esistere più… eppure ci sono! Se scomparissero le “creste” ed emergessero le per-sone, forse, allora, impareremmo a convivere (vivere-con): vivere ed amare è l’arte più diffi cile e più urgente da imparare!Eppure, c’è proprio qualcosa che non va! Quanti messaggi e “messaggini” giungono (anche sen-za cellulare!) per avvertire che c’è proprio qualcosa che non va…. L’ invidualismo è micidiale: sicuramente un virus, una mosca tzè-tzè invisibile e presente, un mi-crobo contagiante e disgregante, capace non soltanto di intaccare, ma di avvelenare la mela!Si stanno avvelenando le relazioni!Che cos’è la relazione? Quanto costa uscire dall’io per incontrare l’altro, l’altra, gli altri!La grande sfi da, oggi, per vivere insieme è dettata dal-l’apertura all’altro, dalla relazione, dall’alterità.Il sistema dominante e vincente conosce bene tutto questo!Il dio del momento, il dio-mercato, freddo, vitreo e cal-colatore (il consumismo è suo fi glio!) vuole sostituirsi al Dio dei padri (Abramo, Isacco e Giacobbe) che è il Dio della Vita.Gli dei, gli idoli vogliono la loro nicchia in ogni casa, in ogni angolo, in ogni persona, in ogni istituzione.

Ennesime sofferenze. Sempre e comunque generate dalla incapacità a vivere, a stare, a lottare, ad amare, insieme.La parola d’ordine è emergere a tutti i costi, vincere, distruggere l’altro, apparire, competere. Solo i primi posti soddisfano e sono appetibili. Camminare insieme, invece, è un traguardo, una meta!Se imparassimo a viaggiare insieme, tutti nello stesso autobus, nello stesso camion, con persone, bambini, animali, galline, cani, verdura, pacchi, sacchi di patate, odori, colori, “profumi”…Meno look e più umanità…una grande lezione di vita!Il cammino coinvolge non solo i piedi e i passi delle persone, ma esige occhi ben aperti sulla realtà che ci circonda. Il cammino esige cuore attento all’altro: “Laverità dell’altro – scrive Gibran – non è in ciò che ti rivela, ma in ciò che non sa rivelarti. Perciò, se vuoi capirlo, non ascoltare ciò che ti dice, ma ciò che non ti dice.”Coloro che autenticano il cammino sono i poveri e gli impoveriti di oggi, nei cui passi vale la pena avventu-rarsi per dare autenticità alle parole, alla vita e al pro-prio credo.I campesinos sono costanti nel cammino, nonostante l’ignavia e la corruzione dei governi. I bambini metto-no le scarpe solo quando sono obbligati e per andare a scuola. Le mamme e le donne, su qualsiasi strada o sentiero, camminano scalze e con i piedi incalliti, caricando in spalla i propri fi gli e regalando sorrisi e saluti.Il mondo “civilizzato”, invece, corre! Corre veloce-mente, pazzamente, freneticamente, lussuosamente: con quale meta?L’imperatore del momento e i suoi gregari vogliono la fame e la guerra; i poveri vogliono solo pane e vita. Nel Sud del mondo siamo ancora “in tempore famis” (come è scolpito nella bella Pieve di Romena) e nel Nord… è la notte del troppo!Chissà se non sia nelle stelle di oggi, dove si manifesta il vero volto di Gesù di Nazaret, il Cristo! Quassù, sulle Ande, il Bambino Gesù nasce tutti i giorni e, ogni gior-no, è già sul campo a pascolare le pecore, gli alpacas, i lama.Come segno di speranza vi regalo i fi ori di questo perio-do (che rallegrano anche la mia vita): rose, margherite, ginestre, garofani, gerani… Un abbraccio, vi penso.

Una lettera inviata agli amici. Parte da un villaggio sperduto del Perù. La scrive un amico in missione sulle Ande da molti anni.

Pensieri a ruota libera da un luogo povero e semplice. Dove Gesù nasce ogni giorno.

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" Le religioni chericordano e testimoniano la presenza di Dionel cuore della condizione umana,

hanno il dovere essenziale e costitutivo di rimettersi in cammino non tanto per chiedere chi è "altro" per loro da convertire,

quanto per convertire incessantementese stesse alla dignità di tutti e alla verità di Dio che in tutti abita."

Roberto Mancini

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LA REGOLA DELL'AMOREdi Maria Teresa Marra Abignente

L’allodola è un uccello dalle abitudini insolite: vola alto, più in alto degli altri piccoli uccelli comuni, ma fa il nido fra l’erba in buche scavate per terra. E can-ta solo quando è in volo. “Le allodole”, così si chiamano le sorelle dell’eremo di Campello, nate da un desiderio, dal sogno di una donna originale e libera che, nei primi anni del No-vecento, diede vita a una realtà in cui il silenzio e l’ascolto, il sacro e il terreno diventano conciliabili, unifi cati nella libertà dei fi gli di Dio. Forse è proprio vero che la nostra vocazione, quella speciale speranza che Dio ha per noi, corrisponde al-la nostalgia più profonda che nascondiamo in cuore: per sorella Maria è stato così.Arrivai all’eremo di Campello dopo quasi due mesi dalla morte di Giovanni: avevo bisogno di silenzio e di stare sola con me stessa per mettere ordine nella mia vita e nel mio dolore. Non conoscevo nulla del-l’eremo, né di sorella Maria, né delle sorelle che mi avrebbero accolta; mi ero fi data di Gigi che mi aveva suggerito un breve periodo all’eremo e così, dopo essermi persa svariate volte per la strada che doveva portarmi fi n lassù, suonai al cancello. Mi rispose la campana che annunciava la festa del mio arrivo e po-co dopo vidi arrivare Brigitte. Il ramoscello d’ulivo sul cuscino del letto nella mia cella, il mazzolino di fi ori sul piccolo scrittoio, qualche libro, che poi ho saputo essere stato accuratamente scelto, poggiato lì, quasi per caso… Mi sentii subito come a casa. “La nostra sola regola è l’amore” diceva sorella Maria. Non vuole costrizioni l’amore, perché è libe-ro e restituisce la libertà a chi ama. Per questo sorella Maria non volle mai far nascere dal suo sogno un ordine religioso, non chiese mai riconoscimenti uf-fi ciali a quel che sentiva essere solo una sua piccola strada per raggiungere Dio. E lo sguardo innamorato non sente il peso della fatica né la noia dell’abitudine, anzi rende tutto luminoso.Non è facile descrivere la leggerezza, non bastano le parole per dire l’impercettibile delicatezza di cui vive l’eremo. Le dita sulla tastiera del pianoforte devono avere un tocco leggero per poter esprimere l’intensi-tà della musica, altrimenti la sciupano. E all’eremo tutto sembra musica, tutto sembra armoniosamente accordato nella pienezza e nella semplicità. La leggerezza sta nel rispetto con cui viene accolto l’ospite che porta i suoi dubbi e la sua fatica di vive-

re: nulla gli viene chiesto, nulla gli si deve insegnare e di lui nulla si pretende di cambiare. Chi arriva è sentito come colui che pur nel suo smarrimento è custode e partecipe di un mistero.“Verrà il giorno. La fede è un dono del cielo, un raggio fuggevole nel mistero del tutto. Non ti preoc-cupare. Sappi aspettare con cuore di bambina. Chi ci ama ottiene per noi.” Furono queste le prime pa-role di sorella Maria che lessi in quel primo giorno all’eremo.E il suo cuore di bambina, sorella Maria seppe con-servarlo sempre e trasmetterlo alle sue compagne. Lo si sente battere nel silenzio discreto, nelle preghiere lievi e carezzevoli che sembrano quasi un abbraccio all’universo; lo si percepisce nell’incanto verso una natura che viene sentita sacra. Sacro è tutto il tempo che si vive all’eremo, quello della preghiera e quello del riposo come quello dell’ occupazione manuale. Tutto viene vissuto nel sacrum facere, nella consa-pevolezza profonda cioè che la realtà in cui viviamo è una realtà innestata nel divino, collegata al cielo e all’eternità. In questa relazione continua non c’è strappo, non c’è separazione, non c’è un ambito spi-rituale e uno materiale, ma una sola grande armo-nia. E pensare che per noi questo “sacrum facere” è diventato il “sacrifi cio”, tinto di cupa tristezza o di dolente privazione… “Siamo insieme, abbiamo attorno la vita. Che c’è di più sacro?” Dall’eremo non si torna più dotti o più buoni, ma si torna più leggeri; perché vivere con leggerezza signifi ca abituarsi a sentire la presenza di Dio che impercettibilmente sostiene il cammino, come l’aria sostiene le ali dell’allodola e la fa cantare. La terra è lì ad offrire il chicco che sfama, a nutrire i piccoli che attendono e a scaldare la notte: nella libertà del volo il canto nasce grato per la bellezza, per la bontà del pane, per la tenerezza della condivisione, per la presenza amorosa di un Creatore.”Cosa resterà di noi? L’eco di un canto di allodola nel cuore di chi l’ha ascoltato” : questa vuol essere solo una piccola eco.

Eremo Francescano

di Campello sul Clitumno

Tel. 0743 - 521045

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Sorella Maria di Campello

Foto: Eliseo Pieri

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LA GIOIA DI STARE AL MONDOConversazione con Arturo Paoli

A cosa si deve, Arturo, questa sensazione di leg-gerezza, di gioia, che ti accompagna sempre?La mia gioia è quella di star bene al mondo. Sto bene al mondo, anche ora che sono vecchio. Anzi, per me la vecchiaia è il periodo più bello della vita, perché libera l’amore. A questa età, infatti, tutte quelle pulsioni, quei desideri, quei bisogni che ti agitano nella vita si trasformano in tenerezza. Sen-ti come se si rompessero delle barriere, dei limiti, e ti resta tutta questa tenerezza da dare. La vecchiaia per me coincide con la libertà.

Se guardi la tua vita dall’alto, che cosa nel suo percorso l’ha aiutata a raggiungere questa leg-gerezza?Quello che rende lieve la vita è il non portare far-delli. Non ti posso dire che la mia vita sia stata tutta buona, no, però ti posso dire che la mia vita è stata bella: anche gli aspetti negativi, anche le «bische-rate» che ho fatto sono state importanti, perché mi hanno aiutato ad avanzare, a vedere di più, a libe-rarmi da tante pesantezze”.

Ci sono stati dei momenti, delle situazioni che hanno spinto in questa direzione?Mi ha aiutato molto l’esperienza del deserto. Nel deserto sei costretto a lasciare tutti i paletti su cui ti sei appoggiato nel corso della tua vita. Non hai altro da pensare, altro da fare che cercare Dio. Inizial-mente, e per molti mesi, ho pensato che insistendo, battendo alla porta, Lui aprisse. E invece quella porta si apre quando vuole Lui. E lì ho sentito che non siamo noi che amiamo Dio, ma è Dio che ama noi. E quando scopri Dio scopri che tutta la vita, anche gli aspetti negativi, anche gli errori che hai fatto, proprio tutto concorre a questo incontro.

Quindi anche il peccato, che spesso è motivo di pesantezza, in realtà ci aiuta a incontrare Dio?Lo dice anche San Paolo, Dio ama «Ea qui non sunt» le cose che non sono. Bisogna arrivare ad accogliere profondamente quello che è negativo, quello che tu in quel momento consideri una pal-

la al piede, lo devi valorizzare come bisogno della grazia, come inferiorità che ha bisogno di essere aiutata. Perché in fondo la fede in Dio cos’è? È sen-tire il bisogno di lui, il desiderio di Lui. E allora per sentire Dio, devi sentirne profondamente il bisogno. E così la sofferenza, le delusioni, le umiliazioni che ricevi a un certo punto li benedici perché sono quel-li che ti portano a questa intimità.

Nella tua lunga vita a fi anco dei poveri ci puoi raccontare un episodio capace di rappresentare questa leggerezza del vivere, questo saper stare al mondo?Posso raccontarti di Domingo. Domingo fa l’ache-ros, taglia gli alberi con l’ascia, un lavoro duris-simo, una vita da schiavo. Una sera sono passato davanti alla sua casa. Lui era sulla porta. Ci siamo salutati. Poi mi ha chiesto: ‘Fratello perché non re-sti a cena con noi’? E la moglie dal di dentro gli ha detto, ‘Domingo ma non abbiamo nulla da mangia-re, come facciamo?’ Ma lui ha insistito lo stesso. E allora sono entrato, e hanno messo sulla tavola un po’ di pane, forse un po’ di formaggio. Una cena povera. Eppure Domingo aveva la luce negli occhi. Alla fi ne ha detto queste parole alla moglie: ‘Vedi, noi ci vogliamo bene, abbiamo dei fi gli molto belli, siamo felici, e stasera la benedizione di Dio è entra-ta nella nostra casa. Che cosa vogliamo di più?’Ho sentito queste parole come un canto di lode, co-me una sinfonia.

Parliamo della morte. Senti nel tuo quotidiano la pesantezza della morte?No, è l’unica cosa con cui non ho nulla a che fare. So che arriverà e basta. Se potessi dirti una cosa che forse è diffi cile spiegare, direi che penso la morte ma non la sento: di fatto non è tua, non è dentro i tuoi sensi, è qualcosa che viene di fuori, allora perché ci devo pensare? L’idea del prepararsi, che vuol dire? Dovrei uscire dalla mia forma abituale di pensare, di sentire, di vivere, per prepararmi alla morte? Sarebbe un assurdo. Perché sacrifi care la vita alla morte?

Ha 94 anni. Ma sono lievi, come il suo sorriso. Arturo Paoli, piccolo fratello di Charles de Foucauld, una vita spesa per i poveri, una voglia infi nita di giustizia.

E, insieme, la capacità di cogliere, ogni giorno, la bellezza della vita.

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«Solo la parola maturatain anni di silenzio è capace di spegnere gli incendi»

D. M. Turoldo

Foto: Masimo Schiavo

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La lettera è scritta con inchiostro blu, vivace, in una calligrafi a giocosa. In poche righe Julia salu-ta, racconta le sue ultime novità, si scusa per non aver potuto inviare anche una cassetta audio: il re-gistratore non funzionava. Poi chiede a Wolfgang: “pensi ancora di venire qui nel Lesotho? Non vedo l’ora di vederti ancora”. “Però vieni presto – ag-giunge – prima che muoia”.Seguono saluti, abbracci, affettuosità. “Vieni, prima che muoia”. Accidenti al mio in-glese, devo aver tradotto male. Vista così quella frase suona come un inciso, come se dicesse “mi raccomando avvisami, non vorrei essere fuori quel giorno”. Leggerezza. Non dovevamo parlare di quello?

«Vai in pace»Quorle, la piccola casa di Wolfgang Fasser ha la concretezza della campagna del Casentino e il sa-pore fanciullo di una favola. Come in una favola qui avvengono di continuo piccoli prodigi. Quello più frequente è di entrare pesanti e di uscire legge-ri. Capiterà anche oggi. “Quando vivevo in Africa– racconta – Julia mi è stata maestra. Mi ha inse-gnato la lingua del suo Paese e mille altre cose. Ha una famiglia numerosa, tanti bambini. E l’Aids”. Julia non ha paura di morire, questo si capisce da quella danza di parole che neppure si soffermano sul verbo «to die», ma ci giocano insieme, lo pren-

dono per mano. Mentre guardo ancora la lettera, capisco che Wolfgang l’ha scelta per farmi toccare con mano il tema su cui l’ho interpellato. A me fa venire in mente anche il giorno in cui lo conobbi. Era il 1991. Un amico mi aveva invitato a una con-ferenza al castello di Poppi. Wolfgang raccontava i suoi tre anni di missione in quel minuscolo Paese africano, il Lesotho. Parlava, illustrava diapositi-ve, ogni tanto si fermava e alleggeriva l’ascolto muovendo delicatamente l’acqua di una bacinella. Solo più tardi appresi che non ci vedeva, lì per lì mi toccò profondamente quel sapore d’Africa del-le immagini e dei suoni. “Sono stato tre volte in quel Paese, in un caso anche per tre anni – ricorda – formavo i fi sioterapisti negli ospedali e andavo nei villaggi a curare i disabili. È un Paese povero, ma la gente è buona e accogliente. Sento ancora l’aria fresca dell’altopiano, la sabbia del deserto sotto i piedi, il canto dei bambini che mi accom-pagnavano per ore mentre mi muovevo con il mio cane di allora, Quasko. La gente, nella sua pover-tà, è dignitosa e ha una bellezza speciale". "Sempre a proposito di leggerezza – aggiunge – ti ho detto di Julia, vorrei parlarti anche di un’altra ragazza, Ausi Mantsei. Una volta mi ha accom-pagnato a un villaggio che si trovava a 12 ore di distanza. Viaggiava con un sacco in testa e le scar-pe in mano: le avrebbe messe solo all’ingresso del villaggio, per non sciuparle. Per tutto il viaggio

Parte dal fondo della nostra anima. Scandisce il nostro quotidianorendendolo aperto alla sorpresa della vita. È il movimento della leggerezza.

Ce lo racconta (e ce lo mostra) Wolfgang Fasser,musicoterapeuta, fi sioterapista e, soprattutto, «esperto dell’invisibile»

il movimento della leggerezza

di Massimo Orlandi

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sia di andata che di ritorno ha camminato con me senza dire una parola ma facendomi avvertire, con delicatezza, la sua presenza. Dopo 12 ore, quando siamo arrivati, allora ha parlato.«Zamaya han-tle», ha detto, «Vai in pace». Era il suo saluto”.

In ascolto del lupoNon c’è bisogno di andare così lontano per incon-trare la leggerezza. Il Lesotho è una metafora di ciò che abbiamo sotto gli occhi e non riusciamo a vedere; è la capacità di affidarsi al vento della vita, ovunque esso conduca: “La leggerezza – sin-tetizza Wolfgang – è quel movimento interiore che ti permette di guardare oltre, di credere nell’ina-spettato, di sentire che Dio ci sogna, e ci invita a realizzare quel sogno”. Esser leggeri non vuol dire allora navigare in superficie ma, al contrario, viag-giare nella profondità di noi stessi, trasformando costantemente gli eventi della vita in occasioni di stupore. “In effetti – sottolinea Wolfgang – la leggerezza è im-portante soprattutto nei momenti di difficoltà. Perché quando vedi tutto nero, la tentazione è quel-la di bloccarsi, di ristagnare sul proprio dolore, ma questo non fa altro che aggiungere pesantez-za a pesantezza. La leggerezza consiste nel rendersi flessibili al cambiamento, nell’abbandonar-si fiduciosi all’oltre che ogni giorno ci attende. Le difficoltà allora diventano più accettabili, perché sai che servono a realizzare quel sogno, ad aprire una nuova pagina nel mio mondo interiore”.Parole belle, ma non basta pronunciarle. Bisogna attaccarle alla vita. Nell’ultimo anno Wolfgang mi racconta di aver perso ben sette persone a lui care, in ultimo il babbo. Recentemente ha avuto anche problemi all’udito, senso fondamentale per lui. Eppure…“l’altro giorno ho fatto una passeggiata di ascolto del paesaggio notturno. Credevo, con questi problemi di non riuscire a riconoscere più gli animali notturni come prima. E invece dopo venti minuti ho sentito ululare il lupo. È un evento in foresta. E l’ho sentito bene!”. “La gente – spie-ga – sente il peso dei problemi ma non l’invito che essi contengono; sente la fatica, ma non l’arric-chimento personale che arriverà dal superarli. Tutto questo non è innato, si può anche imparare, è una mentalità, e occorre lavorare su se stessi, autoeducarsi a un nuovo stile di vita. Vedi, noi ab-

biamo solo la certezza che si nasce e che si muore, ma dentro questi due eventi ci sono continue sor-prese, e leggerezza è proprio questa disponibilità ad accoglierle”.

La Bibbia della vitaSe si prende il libro della vita, leggerezza è quella sensazione che a una pagina ne seguirà un’altra, è la certezza che qualcosa permetterà di sfogliare un capitolo nero e di aprirne uno completamente diverso. Ma tutto questo non assomiglia alla fede? Eppure, nelle forme ‘istituzionali’che noi cono-sciamo, spesso la fede si alimenta di dottrine, dog-mi, regole, ammonimenti morali che aumentano il peso della vita, invece di diminuirlo. “Quando andavo alle elementari – racconta Wolfgang – miinsegnava religione un vecchio prete; insegnava bene, ma quando non facevamo le cose come lui voleva, ci picchiava con un bastone sulle mani.

Ci insegnava l’amore di Dio con le botte! Alle medie, l’esempio opposto. Studiavamo da frati cappuccini che erano sempre riservati, discreti e ci trasmet-tevamo il significato di ciò che ci insegnavano portandoci a camminare nella natura. Ricor-do un padre, gran scalatore, che davanti ai ghiacciai si inginoc-chiava per la meraviglia e si fa-

ceva il segno della croce. Questi due esempi così opposti, mi hanno insegnato che il Cristianesimo e l’istituzione sono due cose diverse. Così non mi impressiona l’autorità della chiesa, mentre mi me-raviglia la carità di Dio”.Ma Wolfgang, nella sua storia di viandante, come ha incontrato Dio? “L’ho incontrato nella vita. Vedi, la Bibbia in braille sono tredici volumi, un’opera enorme. E così ho finito per non leggerla. La Bibbia per me si è manifestata nella vita. Le storie della Bibbia, quelle che ho conosciuto dalle letture in chiesa, le ho incontrate nelle storie che sono capitate a me. Ho sentito strada facendo che Dio mi ha voluto, che mi sta continuamente accanto”.Nella casetta di Wolfgang ora sta entrando il buio. Il suo mondo “invisibile” mi si fa ancora più vici-no. Ma i raggi della notte sono meno misteriosi di sempre. Il mio amico insegna che si può comuni-care. Che si può guardare oltre. Con leggerezza.

La leggerezza consiste

nel rendersi flessibili

al cambiamento,

nell'abbandonarsi fiduciosi

all'oltre, che ogni giorno

ci attende

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Foto: Eliseo Pieri

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Se non ci sono statii fruttiè valsa la bellezza

Se non ci sono stati

è valsa l'ombra

Se non ci sono statele foglieè valsa l'intenzione

Henfi l

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Sono attratto dalla forza fragile della gioventù.I giovani sono dei provocatori, indecisi e inquieti, al centro della tempesta, infasti-diti dall’incertezza di noi adulti. I giovani hanno un mondo davanti a loro che non gli piace: per questo lo subiscono, lo ri-petono, ma non lo amano.Occorre offrire una proposta di cammino per coloro che vivono la fase della vita più ricca di conflitti, di sogni, di passioni, di scelte di vita.A questi “figli prodighi” Gesù propone un percorso per poter ritrovare amore a se stessi, alla vita e a Dio. Un cammino che passa dal rientrare in se stessi, per poi far pace con Dio e ritrovare un luogo che li faccia sentire a casa.

Rientrare in se stessiSono anni che ai giovani si cerca di ucci-dere l’intelligenza, togliendo loro la ca-pacità di leggere dentro se stessi e dentro gli avvenimenti. È stato loro appesantito il cuore con dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita. Quello che mi stupisce

è che, nonostante tutto, la qualità dei loro sentimenti resta viva: amano, odiano, si emozionano, si indignano, hanno tene-rezza e profondità.Bisogna ricordarci che il male è banale, nasce dalla monotonia e dalla routine, dal ripetere la vita come un rito, ma che la perla preziosa è dentro l’acqua e che lo spirito vi soffierà, prima o poi, per farla riemergere.Per questo quando li avviciniamo dobbia-mo andare oltre i problemi se vogliamo incontrarli, dobbiamo apprendere il loro linguaggio, diventare uno di loro e capire che prima di gettare il seme occorre dis-sodare il terreno, che più che aggiungere messaggi e idee occorre togliere le ma-schere e la paura. La civiltà dell’immagine ha affossato quella della parola, le immagini si su-biscono e basta, i ragazzi si esprimono con frasi slegate, con parolacce e risatine, senza saper spiegare cosa provano davve-ro o da che parte stanno. Per questo verso di loro non servono interventi straordinari ma una strategia dell’attenzione.

I giovani di oggi, le loro crisi, le speranze che portano in sè. Su questo tema "Luigi" è stato chiamato ad intervenire al convegno nazionale della Cei,

tenutosi a Lignano Sabbiadoro il 9 febbraio. Questo, in sintesi, il suo intervento.

Quella fragilePrimavera

di Luigi Verdi

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Innamorarsi di DioI giovani vivono una rivoluzione spiri-tuale silenziosa, hanno sete di qualcosa di diverso, sono in cerca di una speranza e di un ideale di vita, di una spiritualità fondata su qualcuno.È una generazione in transizione che ten-ta di passare dall’aver timore e soggezio-ne di Dio all’esserne innamorati.Dio è semplicità. Il loro non essere ipo-criti, il non sprecare parole, l’avere il cuore dov’è il loro tesoro li rende sem-plici e più vicini a Dio di quanto pensino loro o possiamo pensare noi.L’uomo oggi disperde il miracolo della vita in ogni modo e credo che la genera-le insoddisfazione dei giovani nasca dal fatto che vivono a caso, disattenti, senza un senso.Occorre creare le condizioni perché pos-sano incontrare ‘davvero’ se stessi e gli altri, e attraverso questa ritrovata auten-ticità incontrare Dio che, meglio di noi, gli fa percepire il “senso” per cui sono al mondo, li fa sentire “unici” e non un numero.

Luoghi che li facciano sentire a casaPrima di rimproverarli bisogna amarli: il dono più prezioso che possiamo offrire a chi si ama è la nostra felicità e la nostra vera presenza.

La casa che cercano i giovani è un luogo dove gli altri non giudicano, non chie-dono troppo, in cui si è se stessi, in cui Dio entra come un soffio di amicizia e di libertà.Le città, le immagini e le idee oggi si tra-sformano più rapidamente del cuore dei giovani, per questo credo che quello che può cambiare i giovani sono gli incon-tri, non le idee, sono luoghi sinceri, che li facciano sentire a casa, non spazi da attivisti e intellettuali. I ragazzi non possono sopportare troppa realtà ma neppure troppi sogni, hanno bi-sogno di una “realtà vivente”, nella qua-le i sogni si realizzano a patto che siano forgiati da un desiderio autentico, a patto che sappiano respirare di concretezza.

Le foglie dell’albero in autunno muoiono perché incalzate dalla vita, perché spinte in avanti dalla legge di una nuova nascita, della primavera che verrà. I giovani di oggi sentono la fragilità delle foglie, soffrono la caducità quotidiana dei loro ideali, delle loro speranze, eppure la vita in loro spinge, il nuovo germoglia, il futuro chiama.Che la nostra fatica di compagni di viag-gio dei giovani sappia cogliere la bellezza di una primavera che non si lascia svela-re. Ma solo intuire.

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F rancesco mi indica la strada per telefono: “Esci a Pisa Nord e segui per Vecchiano. Il nostro Centro resta un pò fuori mano”. Mi

suggerisce qualche svolta, prima a destra, poi a si-nistra. Infi ne precisa: “Fatti trasportare dall’istinto. Vedrai delle colline davanti a te. Vieni avanti fi no a sbatterci!”.Sorrido. Ci diamo appuntamento per un lunedì. “Ci sbatterò!” mi dico tra me e me.Prima a destra, poi a sinistra. Infi ne, trasportati dal-l’istinto sbattiamo sulle colline ricamate a balze e raggiungiamo il Centro Nuovo Modello di Sviluppo, di cui Francesco Gesualdi, allievo di don Milani, è coordinatore.Una corona bianca di capelli si affaccia incuriosita da una delle fi nestre della casa restaurata ad arte. “Mi scusi, Francesco Gesualdi?” le urlo dal viottolo di ghiaia che accoglie i visitatori. “Chi Franchino?” risponde lei con la bocca spalancata a dare il benve-nuto. “Sarà sicuramente in biblioteca” riprende e indica una piccola porta a vetri “entrate da li”.Si trova li, Francesco. Avvolto nel crepuscolo della stanza, nel vespro del suo studio. Si avvicina, ci fa accomodare su un divano marrone come gli alberi che circondano la casa. Gli racconto per cinque minuti di Romena. Mi ascolta in silenzio e poi mi chiede: “Che posso fare per te?”“Facciamo due chiacchiere” gli suggerisco “rac-contami del “tuo” Centro”.Annuisce, si sistema sul divano e vi sprofonda co-me a voler ritornare agli anni ’70 carezzato dalle origini, dalla nascita del Centro Nuovo Modello di

Sviluppo.“Il Centro nasce alla fi ne degli anni ‘70 da un in-contro di amici già impegnati sul fronte sociale e politico che intuiscono che se avessero potuto vivere nella stessa casa, in cui condividere spazi, proget-ti e momenti comuni, avrebbero potuto fare di più. Così ci mettemmo in cerca di un casale capace di accogliere tre o quattro nuclei familiari. Questa ca-sa l’abbiamo trovata qui, a Vecchiano, nei pressi di Pisa, e dopo cinque anni di lavoro di restauro, abbiamo dato avvio al nostro progetto”.Francesco trasmette appassionato il principio che muove le “sue famiglie” a vivere insieme sotto lo stesso tetto condividendo energie e medesimi valori. “L’idea di fondo che ci univa” riprende “era que-sta: la famiglia doveva essere il fulcro dell’impe-gno verso l’esterno. Volevamo così tentare di eli-minare la frattura tra l’impegno personale e quello familiare”. “In cosa siete impegnati precisamente in questo momento?” gli chiedo. “Ci muoviamo ormai da tempo sia sul fronte socia-le tramite l’affi do familiare, che sul fronte politico tramite l’attività sindacale, la cooperazione interna-zionale e il volontariato".Le parole scorrono sui progetti conclusi, quelli da poco iniziati, sui libri scritti, sulle ricerche. France-sco contagia con le sue espressioni accalorate, con i valori che spingono il Centro ad analizzare le cause profonde dell’emarginazione. Fa sapere del bisogno di defi nire nuove strategie a difesa dei diritti degli ultimi e della necessità di ricercare nuove formule

INTE

RVIS

TA

LA SCELTA DELLA

SOBRIETÀ

Incontro conFrancesco Gesualdi

di Stefania Ermini

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economiche capaci di garantire a tutti la soddisfa-zione dei bisogni fondamentali. Giro rapidamente le pagine del quaderno su cui scri-vo e trattengo il respiro come ad aver paura di non riuscire ad appuntare, arrestare per poi cedere tutto quello che Francesco narra. Poiché in particolare questo Centro si fa portavoce, promotore di una campagna senza frontiere per il consumo critico, gli chiedo di soffermarsi su questo tema. “Come è nato l’interesse per il consumo critico?” “Nasce dall’attenzione ad un gesto familiare, ad un gesto che ripetiamo tutte le mattine quando ci svegliamo. Noi ci alziamo, andiamo in cucina e met-tiamo la caffetteria sul fuoco. È in quel momento che noi entriamo in relazione con un contadino del Brasile o della Costa d’Avorio”.Dunque, una mattina, quel gesto familiare, ordina-rio, istintivo ha assunto una nuova forma, un nuovo senso, una nuo-va vita. Da qui un nuovo modo di pensare il consumo del caffè che fa spostare poi l’attenzione anche sulla fi liera di altri prodotti; fi liera che va pensata, osservata, studia-ta, rifi utata o accolta. Insomma, la sfi da è quella di creare una nuova storia socio-ambientale dei prodotti e del comporta-mento delle imprese produttrici.“Il Centro, con i suoi studi” riprende Francesco “vuole far rifl ettere sul fatto che il consumo non è un gesto privato, ma una scelta con gravi ripercus-sioni sociali e ambientali. Ci sono prodotti ottenuti nel rispetto dei lavoratori altri nello sfruttamento. Altri prodotti sono ottenuti nella noncuranza del-l’ambiente e altri ancora nel suo completo riguar-do. Noi possiamo scegliere questi prodotti e divenire responsabili nei confronti dei diritti degli uomini e del nostro pianeta. Ecco quello che possiamo fare!”,prorompe Francesco. Questo casolare è stato quindi adibito ad un osserva-torio sui comportamenti dei consumatori indotti dal-le multinazionali. Un osservatorio che poi trasmette alla stampa analisi di mercato, informazioni che in-dirizzano chi lavora, guadagna e consuma in una di-mensione dell’acquisto che passa per la cultura del-l’attenzione sia del lavoratore, che dell’ambiente. Francesco continua a raccontare che l’impegno e gli studi del Centro lo hanno condotto alla realizzazione del suo ultimo libro dal nome “Sobrietà. Dallo spre-

co di pochi ai diritti per tutti”.“Cosa signifi ca proporre come scelta quella di uno stile di vita caratterizzato dalla sobrietà?” interrom-po il suo racconto, trattenendo questa parola che con leggerezza mi viene offerta.“La sobrietà è uno stile di vita, individuale e so-ciale: moderato, lento, pulito, rispettoso dei tempi scanditi dalla natura” così la defi nisce Francesco “La sobrietà è un modo di essere, è uno stile di vita che sa distinguere tra i bisogni reali e quelli indot-ti da questa società che, per rimanere al passo, ti chiede di “avere” più che di essere. Essere sobri e vivere in sobrietà signifi ca impostare la società per assicurare alla collettività la possibilità di soddisfa-re i bisogni primari con il minor consumo di risorse e la più bassa produzione di rifi uti possibile”. Francesco resta nella penombra della biblioteca, sprofondato in quel divano degli anni’70 così so-

brio perché riusato, riciclato, for-se riparato. È così che Francesco trasmette il bisogno di portare la sobrietà nei gesti quotidiani, per-ché la sobrietà passa attraverso piccole scelte come quella di uti-lizzare più biciclette, più prodotti locali, più panini fatti in casa…Ci sono alcune parole che Fran-

cesco utilizza con trasporto, con cura, raccontando della sobrietà:pensare, scegliere, consumare critico, riutilizzare, riparare, riciclare, rallentare, ridurre, condividere, recuperare.Anche questo incontro è stato così sobrio: lento, pensato, leggero, consumato tra le balze ricamate di queste colline, rallentato, fermato, sprofondato in quella biblioteca che trasuda di ricerca per in-formare, far conoscere, testimoniare e interrogare sul perché un mondo così ricco produce così tanta povertà.“Se davvero crediamo nel Vangelo” termina Fran-cesco prima di stringerci in un abbraccio che invita al ritorno “dovremmo cercare di portare questa so-brietà in ogni gesto quotidiano e farne davvero il nostro stile di vita”.

"La sobrietà è uno stile di vita,

individuale e sociale: moderato, lento, pulito,

rispettoso dei tempi scanditi dalla natura".

Centro Nuovo Modello di Sviluppovia della Barra,32 - Vecchiano (Pisa)Tel. 050 - 826354. Fax: 050 - 827165

w w w. c n m s . i t

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15 anni di Romena19911991-2006. Neanche a noi pare possibile, eppure sono quindici anni. È questa l’età della nostra fraternità. L’età di un adolescen-te. 15 anni non ci servono per confezionare una torta speciale. Sono piuttosto un’occasione per rimetterci in gioco, per guardare quello che si muove nel pro-fondo del nostro cammino, per dare spazio all’intuizione, e farci guidare da lei. Sono preziosi questi momenti di bilancio, e di rilancio: servono a dissodare il terreno per renderlo più fertile. Cinque anni fa, per il nostro de-cennale, ci regalammo un anno sabbatico all’interno del quale ci dedicammo all’incontro con tan-ti testimoni del nostro tempo. Questa volta le nostre attività proseguiranno regolarmente, ma saranno affi ancate, vitalizza-te, da un percorso che si svilup-perà dalla primavera all’estate, culminando in un grande mo-mento di festa a fi ne luglio. “Dovete essere il cambiamento che volete vedere nel mondo”:questa frase di Gandhi sarà la bussola di questo cammino. È una frase che abbraccia il cambiamento interiore con il bisogno di dare nuova qualità al mondo che ci circonda, una frase che ci chiama all’azione, ma un’azione consapevole, che si muova davvero dal profondo di noi stessi.

2006

"Dovete essereil cambiamento

che volete vederenel mondo"

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I NOSTRI INCONTRIDOMENICA 30 APRILE

ORE 15

IL CORAGGIO DI GUARDARSI DENTROcon Angela e Folco Terzani

moglie e figlio del grande giornalista, autore di un bellissimo viaggio sul senso della vita raccontato nel libro ‘Un altro giro di giostra’. In occasione di questo incontro, ci porteranno l’ultimo libro, dettato da Tiziano negli ultimi giorni di vita: ‘La mia fine è il mio inizio’.

DOMENICA 28 MAGGIO

ORE 15

CON ALTRI OCCHIcon Achille Rossi

Un sacerdote che si impegna da anni in una preziosa attività di di-vulgazione sulle dinamiche economiche che rendono questa società profondamente ingiusta.

DOMENICA 11 GIUGNO

ORE 15

CUSTODIRE E COLTIVAREcon Antonietta Potente

Teologa domenicana che vive a Cochabamba in Bolivia. Spiritualmente da tanti anni presente a Romena con i suoi stimoli, le sue intuizioni.

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LUGLIO

tre-giorni insieme per parlare, confrontarci, far festa. Stiamo definendo il programma in questi giorni, ma possiamo già dirvi che saranno con noi Luigi Ciotti, Arturo Paoli e Andrea Gallo.Nel prossimo numero del giornalino avrete il programma completo. Per ora, preparatevi a venire…

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PROGRAMMA

Festa di Pasqua

al giovedì santo sino al lunedì vi aspet-tiamo per vivere insieme momenti di preghiera, di rifl essione, di incontro, ma anche di creatività e di gioia.

Si comincia il giovedì santo ricordando la lavanda dei piedi, il venerdì è il giorno della veglia della passione di Gesù, il sabato della Messa per la sua resurrezione.Anche quest’anno, divideremo la domenica in tre momenti, il pane, la luce, la gioia, quelli che scan-discono la nostra preghiera comune. All’insegna del 'pane' sarà la cena collegiale, la 'luce' arriverà dalle intuizioni, dalla saggezza e anche dall’ironia di Luigi Bettazzi, (ore 21), 'la gioia' dalla musica e dai canti che concluderanno la giornata.Infi ne il lunedì. Al mattino la messa del vescovo di Fiesole (ore 11), al pomeriggio no stop di esi-bizioni, cabaret, musica, spettacoli di arte varia per tutti con uno spazio ad hoc per i più piccoli e tante sorprese a cura della Compagnia delle Arti di Romena. Tutti voi potete partecipare a ogni momento, in pie-na libertà, ma attenzione: se vorrete soggiornare a Romena o dintorni nei giorni della festa, siete pregati di avvertirci per telefono (0575-582060):la prenotazione è indispensabile per sistemarvi nel miglior modo possibile. Allora, a presto!

D Giovedì 13 - ore 21

Venerdì 14 - ore 21

Sabato 15 - ore 22,30 Messa di Pasqua

Veglia al 'Crocifi sso'

Lavanda dei piedi

Domenica 16

Lunedì 17

ore 17 Messa

ore 19 FESTA DEL PANE

ore 21 FESTA DELLA LUCEIncontro con

LUIGI BETTAZZI

ore 22,30 FESTA DELLA GIOIA

ore 11 Messa col Vescovo

ore 13 Pranzo

ore15 Spettacoli, musica, incontri

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AVVIS

I

Un nuovo spazio della fraternità, tranquillo e raccolto.Per ritrovarci dopo i primi corsi.Per gli incontri mensili.Per momenti di rifl essione.Una nuova opportunitàtutta da assaporare.

i gruppi

RoveretoValdarnoArezzo

Veglia di RomenaMontichiello (Pienza)Pieve SS. Leonardo e Cristoforo

Giovedì 24 Aprile - ore 21

La casa di Quorle

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Le pubblicazioni della Fraternità di Romena

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27 GRA

FFIT

I

a leggerezza…Se penso a cosa possa significare per me questa parola, mi viene in mente uno degli episodi del Vangelo che più mi colpisco-no e fanno pensare: è l’incontro, di notte, fra il vecchio Nicodemo e

Gesù.Nicodemo con tutta la sua sapienza, la sua conoscenza della legge e della tradi-zione del suo tempo, la sua esperienza, non capisce come si possa conquistare il cielo rinascendo una seconda volta… qualcosa sfugge.La risposta di Gesù è questa: “Dovete rinascere dallo Spirito. Il vento soffia dove vuole, non sai da dove viene e dove vada, eppure tu senti la sua voce”.Cosa c’è di più leggero e forte del vento? Il vento non lo possiamo toccare, non lo possiamo prendere o fermare, eppure sostiene gli uccelli, le farfalle, i profumi, il vento agita il mare e spoglia gli alberi, spazza via le nuvole ed apre il cielo, sparge polline e vita…Gesù ci suggerisce di abbandonarci al vento dello Spirito. Ma cosa significa fidarsi di questo vento?Credo che fidarsi del vento significhi abbandonare se stessi, essere un po’ come le foglie. E questa è la cosa che ci fa più fatica perché non siamo capaci di ri-nunciare a noi stessi, a farci piccoli, deboli, ignoranti, nudi, disarmati e leggeri. È il peccato dell’orgoglio. Affiora in tutto quello che facciamo e in tutte le cose che pensiamo e così diventiamo tutti istintivamente nemici del Presepe e del Calvario…La nudità della culla di Gesù, l’umiltà nell’umiliazione del Tabor ci ripugnano in fondo. Svegliano tutta la nostra resistenza. Ed è ancora peggio quando, in buona fede, convinti di realizzare il progetto di Dio su di noi, realizziamo il nostro progetto, le nostre idee perché ascoltiamo solo noi stessi e viviamo sempre nell’ansia di fare qualcosa, di essere in qualche modo protagonisti del tempo che ci è dato. Nessuno è capace di annullarsi per affidarsi a Lui.Questa è la realtà che ci inchioda a terra: il nostro io è il nostro fardello più pesante, ci ingabbia silenziosamente. Eppure ognuno di noi sente dentro che l’uomo più si appoggia in se stesso è più si scontra con i propri limiti, e da qui il senso di delusione e di amarezza, di inadeguatezza e di impotenza.L’augurio per me stessa è allora quello di abbandonare i bagagli inutili e pesanti e di mettermi nell’ascolto e nelle ali del vento…

L

Laura

S

Paola

tasera le stelle brillano e nell’aria cosi pungente e fredda un odore di infinito.Dipendo, dipendo sempre e ancora da questa strana malattia,che non

permette autonomia ma i miei “fantasiosi” passi mi portano all’ingresso della Pieve: c’è buio intorno, fa freddo ma l’infinito che vi respiro mi supporta, mi accompagna. La porta socchiusa della chiesa, una debole luce dentro mi atten-de… Entro, mi guardo intorno non c’è nessuno. Sono sola, ma tanta pienezza mi raggiunge, forse gioia…vorrei pregare ma non so: il mio cuore non recita le preghiere conosciute, non ama ciò che da secoli è strutturato preparato, non ama le “chiese, i preti e quel parlare così lontano dalla gente dalla realtà viva e vera del vivere”, e invece ama questo momento, ama questa chiesa, lo speciale che ha saputo darle a dispetto di tante aridità e conformismi da sempre rifiutati.Mi guardo ancora intorno, provo a sedermi ma il mio bisogno di pregare passa dal toccare, sentire il freddo delle panche, vedere l’altare con l’icona di Gesù, e ringraziare, ringraziare di poterci ancora essere, sapendo che non so quando..ma ci sarò e la porta sarà aperta , ed io non avrò paura della gente che entra, perché io sarò fra la gente, e la gente sarà accanto a me.Questa la mia pace, questa la mia preghiera.Un augurio a voi tutti.

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L

Elena

eggerezza. È strano come una parola così lieve sia in realtà la chiave che apre le porte di una vita serena. Io soffro di disturbi dell’alimen-

tazione e così mi porto dietro un corpo oggettivamente pesante, eppure sono molto più leggera di qualche anno fa, quando ero ancora presa dalle diete e dalle abbuffate, quando ancora scappavo da tutto e la vita che vivevo non mi sembrava neanche mia. Pesavo 63 chili, ma in realtà ero una balena appesantita dalla negatività che mi portavo addosso. Essere leggera per me oggi, vuol dire poter vivere, avere voglia di vivere, anche di sbagliare. Vuol dire lasciare andare ciò che non mi serve, prendere le cose che mi fanno bene, le cose essenziali e metterle al primo posto ogni mattina, quando ringrazio Dio per tutte le cose che ha messo nel mio cammino. Ringrazio anche per la mia malattia perché attraverso di essa ho intrapreso un cam-mino di crescita che mi ha fatto regalato amore, persone da amare e da abbracciare. Leggerezza è prendersi un po’ in giro, ridere di gusto mentre guardo mio marito giocare con i bambini. È guar-dare al sole come un dono prezioso, chiudere gli occhi e sentire che intorno a me non c’è solo aria da respirare, ma anche amore da poter vivere. La leggerezza mi consente di vivere un giorno alla volta, dare tutto ciò che posso e poi lasciare andare tutto il resto. Quando sono travolta da mille impegni, pensieri o paure ripeto una preghiera semplice ma bellissima: Signore, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quelle che posso e la saggezza di conoscerne la differenza. Sembra così facile eppure è un dono che non tutti i giorni sono disposta a cogliere. Fra le cose che più mi fanno vivere la leggerezza c’è proprio Romena. Sembra che nel cammino verso questo posto tutti ci spo-gliamo di qualcosa, ci lasciamo dietro le cose più pesanti che ci impediscono di incontrare veramente gli altri. Gli abbracci che ho ricevuto in questo luogo sono ancora così presenti da farmi mettere a piangere, da aprirmi il cuore e l’anima anche se sono passati quasi due anni da quando ho fatto il primo corso. Vi voglio bene

na bella sfida la leggerezza. Per chi fa i conti tutti i giorni con la propria indole egoista e terrena, ad alto peso specifico, la leggerezza

è un’aspirazione. Solo a pronunciarla, questa parola, si allarga il cuore, si riempiono i polmoni di un’aria ine-briante. E già così sembra – trattenendola negli alveoli - di appartenere un po’ di più al mondo “di sopra” e meno a quello di “sotto”.Da bambino pensavo che nulla potesse essere più leg-gero delle montagne e, con il naso all’insù, osservavo le cime che sfioravano il cielo sorrette da bianche nuvole e cristalli di neve, solo il silenzioso volteggiare del falco reale distraeva per qualche istante il mio pensiero, ma

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poi, allungavo le mani per toccare il “sogno”.Molto tempo dopo ho capito che il mondo è governato dalla pesantezza del vivere. Quindi la leggerezza appar-tiene altrove che non è di questo mondo.La leggerezza - dicono - è il dono di un breve distacco dalle cose, ma appena appena, come un camminare lieve sulle punte: solo quei dieci centimetri in più che danno tutta un’altra prospettiva. C’è chi nasce con questo dono. Però con consapevolezza e un po’ di ironia si può anche imparare. Ogni tanto capita che qualcuno ti sfiori, ormai librato nell’aria, felice: stacca l’ombra da terra, ha trovato la sua dimensione in qualche nuova religione, in qualche nuovo amore.È diventato un uccello, un angelo, un folle (magari solo temporaneamente): attorno a sé muove una brezza gentile come una carezza. Perché chi ha il dono della leggerez-za lo regala a quelli “di sotto”, che lo guardano un po’ ammirati un po’ invidiosi, col naso all’insù.Il fatto è che ce n’è sono pochi in giro. È che a noi, del mondo “di sotto” piacerebbe averne intorno di più. Po-tremmo andarli a trovare ogni tanto e tornare a casa col cuore leggero e il cappotto pieno di piume. Ma qualche volta se stiamo attenti può succedere un flash, un’intui-zione. Ci si trova un attimo sulla soglia tra il mondo “di sopra” e quello “di sotto”, si riesce a percepire che “di là” le stesse cose cambiano colore e consistenza.Perché la leggerezza ha una sua fisionomia, ma è mor-bida e si lascia attraversare. Così c’è chi la cerca fra le nuvole, dentro un respiro,chi pensa sia un’illusione, chi invece “libertà”.Ha scritto Tagore: “Se non riserviamo spazi di riposo e di silenzio, diventeremo aridi come ciottoli di un greto dissecato al sole di agosto. Difendiamoci dall’ansia del risolvere e del soffrire”.

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a scorsa estate mi trovavo in vacanza in Ma-remma, in un casolare allietato da decine di rondini che avevano fatto i loro nidi fra il tetto

e il loggiato. Ogni sera, al tramonto, mi incantavo a vederle volare, leggere e leggiadre, il loro verso gioioso mi apriva il cuore e pensavo: “vorrei essere leggera come una rondine, libera di volare…”Poco più in là c’era una grande quercia e una mattina di una giornata nuvolosa ero appoggiata al suo tronco a leg-gere un libro, c’era vento e la sentivo fremere lievissima-mente; anche quel fremito mi trasmetteva una sensazione di leggerezza: la leggerezza di chi ha acquisito una forza tale da riuscire a vivere appieno la propria esistenza in ogni stagione, indipendentemente dai fattori esterni. Si, la quercia con la sua solidità, la sua forza mi suggerisce l’idea della leggerezza; la quercia che non si fa trascinare via dai venti contrari della vita ma che, invece, fa di ogni stagione un momento di crescita o di fioritura, di dono di sè al mondo….eppure questa leggerezza non contrasta con quella della rondine pronta a spiccare il volo, ogni giorno, con gioia, nel cielo della vita.Entrambe vivono semplicemente, rispettando la loro natura di quercia e di rondine, senza il pesante fardello di voler essere ciò che non sono e che mai potranno essere!

isogna non farsi prendere dalla paura di perdere le cose e gli affetti, ogni giorno chiedersi “Io sono come vorrei che fossi?”

Invidia, competizione, paura di non essere abbastanza considerata, accolta, valutata, queste paure non ti fanno essere vera, ti inducono a comportamenti errati, ti accorgi che non sei tu che agisci, ma è la reazione alla paura che agisce per te.Leggerezza è…non farsi imprigionare dalle paure!

er me la leggerezza viene associata a quella condizione dell’essere con poco peso, senza legami che ti tengono a terra, condizione ideale

per tentare di volare. Ma la leggerezza dell’aquilone o il morire di una foglia quando si stacca dal ramo, sono condizioni di leggerezza fisica, mentre per la leggerezza dell’anima occorre avere una sensibilità non comune.Poche volte ho provato tale sensazione fra queste non posso dimenticare la prima volta che ho conosciuto Gigi, e la stretta di mano di Elena.Con Gigi sono state solo poche parole, dopo la messa a Romena io e mia moglie con la nostra storia di pesante angoscia per la fuga di nostra figlia, fuga dagli studi, fuga da casa a soli 18 anni. Gigi ci accoglie con un

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sorriso leggero di com-prensione dicendoci: “A tutti i bischeri gli riesce di volere bene a figli bravi, ubbidienti e preci-sini!” Da quelle semplici parole abbiamo capito il lungo cammino che dovremmo fare come genitori, aprendoci gli occhi a vedere che la vita dei nostri figli non può essere programmata a nostro piacimento.La stretta di mano di Elena risale all’inverno 2001 quando dopo tanti indugi mi sono fermato sul marciapiede della Stazione di Firenze. Elena era distesa sul marciapiede pronta a passare la notte; dopo avere parlato un po’ dal suo sacco a pelo mi ha ringraziato della visita dandomi la mano; mi aspet-tavo una mano striminzita dal freddo, ma il suo sorriso ha accompagnato quella stretta di mano con una calda leggerezza, facendomi dimenticare quel suo letto fatto di cartoni e quel marciapiede.Quando sono a corto di leggerezza vado a rileggermi qualche passo del Vangelo, è una buona scorta. Mi viene spontaneo pensare al “figliol prodigo”, alla leggerezza del padre nel correre incontro al figlio ritornato, oppure alla “Fiducia nella provvidenza”: "Guardate come fanno i gigli dl campo…". Forse per chi crede sono considera-zioni scontate, come scontate per me sono le sensazioni di leggerezza provate entrando nella pieve, partecipando alla Messa, ascoltando le canzoni di Antonio. Ma al di fuori di ogni riflessione, religione, condizione sociale, riuscire a perdonare con il sorriso di un bambino è una sensazione di leggerezza che riesce a risarcire le ferite più profonde del nostro cuore.

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Ho voglia di provare ad esprimere tutto quello che in questo momento mi avvolge, e che a vo-ce non riesce ad uscire.Scrivo a Romena perchè sono sicura che la mia voce, lì da qualche parte, può trovare ascolto.Scrivo a Romena perchè è lì che sono stata quest’estate con un gruppo di ragazzi. E lì, arrivati come in un’oasi in mezzo al deserto, abbiamo fatto esperienza di noi stessi e della semplicità di donarsi senza veli. E tra quel gruppo di ragazzi c’era anche Fabio, con i suoi 17 anni di spontaneità e spensieratezza. Scrivo oggi, nel giorno del suo funerale: Fabio é mor-to in seguito ad un incidente col suo motorino mentre andava a scuola.In questi giorni ho sperimentato la leggerezza della vita unita indissolubilmente alla pesan-tezza della morte. La mia testa si è subito riem-pita di domande, quelle domande a cui non sai dare risposta, ma adesso gli interrogativi han-no lasciato spazio ad un’impietrita passività. Provo dentro di me l’assoluta impotenza di chi non riesce nemmeno a pensare, e non riesce soprattutto ad agire. Sono qui a chiedermi co-me posso fare ad alleviare le lacrime di tanti

“Quello che desidero per ora è che tutto questo possa continuare, voglio ancora ad andare a letto sereno senza preoccupazioni e risvegliarmi allo stesso modo: portare quello che ho imparato qui (a Romena) e farlo diventare un tutt’uno con la Mia vita di ogni giorno, voglio riuscire ad amare veramente una persona, a rispettare i sintimenti degli altri indipendentemente dal fatto che io stesso li provi, voglio conoscere tante persone con storie diverse da raccontare, voglio vedere luoghi diversi, voglio riuscire a non giudicare le persone, ad essere leggero come una piuma che resta sollevata da terra, voglio riuscire a capire che probabilmente c’è qualcosa di più grande di noi e al quale fare riferimento, voglio guardare le stelle e pensare che qualcuno mi pensa”

ragazzi assiepati in una chiesa che mai come ora è sembrata tanto piccola. Mi chiedo perchè non riesco a guardare negli occhi quelle lacri-me, perchè non riesco a perdermi in un abbrac-cio. Perchè? Come spiegare loro che l’amore è l’unica speranza, che solo con la speranza le tenebre si diradano, che la vita vale la pena di essere vissuta.Vorrei saper donare un abbraccio e non sentir-mi così inutile da non riuscire a dire una pa-rola, e vorrei un abbraccio per poter sciogliere questo strano dolore che riesco a controllare ma che dentro di me non riesco a contenere.Eppure in questo momento io una luce l’ho vista, un piccolo segno di resurrezione l’ho in-contrato. L’ho sentito forte dentro di me quan-do un ragazzo in lacrime mi ha detto “… e pensare che qualche mese fa volevo farla finita … guarda quanta gente avrei fatto soffrire”.È per questo che ci credo nella vita, ci credo ancora di più!Vorrei ricordare Fabio seduto sul prato di Ro-mena mentre si giocava a carte. Vorrei ritro-varlo lì ogni volta che ci tornerò, lì, dove niente lo farà dimenticare. Lucia

Ricordo di FabioFabio ci ha lasciato domenica 12 febbraio 2006

Queste sono le parole che Fabioha scritto a Romena nell’estate del 2005

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La nostra associazione è giuridicamente rico-nosciuta come ONLUS (Organizzazione Non Lucrativa d’Utilità Sociale), per questo chi vuole dare un contributo può benefi ciare delle age-volazioni fi scali previste contenute nel decreto legislativo 460 /1997.Il versamento può essere effettuato tramite:- C/C Postale n. conto 38366340 intestato a: Fraternità di Romena Via Romena 1 52015 Pratovecchio - Arezzo - Bonifi co bancario su C/C n. 3260 c/o Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio (BPEL) Filiale di Pratovecchio codice ABI 5390 CAB 71590 intestato a Fraternità di Romena Via Romena 1 52015 Pratovecchio - Arezzo, specifi cando nella causale “Offerta Progetto Romena”

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PROSSIMO NUMERO: il giornale in uscita a MAGGIO approfondirà il tema: “LA TRASPARENZA”. Inviateci lettere, idee, articoli, foto (termine ultimo: 15 Aprile 2006), preferibilmente alla nostra e-mail: [email protected] CONTRIBUTO: se volete darci una mano a realizzare il giornalino e a sostenere le spese potete inoltrare il vostro contributo sul c.c.p allegato.CASSA COMUNE: è composta dai vostri c.c.p. più offerte libere. La cassa sarà utiliz-zata per continuare a realizzare il giornale e ampliarne la diffusione (in carceri, istituti, as-sociazioni, gruppi, ecc.)PASSAPAROLA: se sai di qualcuno a cui non è arrivato il giornale o ha cambiato indi-rizzo, o se desideri farlo avere a qualche altra persona, informaci.SEGRETERIA: l’orario per le iscrizioni ai corsi è preferibilmente dal mercoledì al venerdì dalle 18 alle 20, sabato e domenica quando vuoi.

a leggerezza è un’accusa che ti fai? Solleva le parole, le tue braccia in una danza, solleva i capelli, apre il respiro. Dormire tutta una notte senza svegliarsi nella paura e risvegliarsi al suono dei propri passi lungo l’aria libera, leggera.

La leggerezza è quel che ti manca? O non ti giri mai a cercarla. Voce conosciuta e amata solleva le parole, ti abbraccia con presenza, carezza i capelli, ne senti il respiro. Giocare tutto un giorno senza svegliarsi dalla magia e ritrovarsi al colore dei propri occhi aperti, socchiusi, complici, vicini. La leggerezza ti passa vicino, la leggerezza non ti chiama mai, leggerezza sono due occhi chiari, leggerezza è rimanere in silenzio. E io mi sorprendo a credere che domani forse anche per me crescerà un sole alto in cielo e che domani forse anche per te.La leggerezza è un respiro che cerchi? O è un passo che sai danzare. Suono di vento sull’erba solleva i sogni, con le braccia li stringi, carezza le mani, tu guardi avanti. Amare tutta una vita senza svegliarsi nel deserto e contemplare il silenzio della propria voce sottile, che canta viva, leggera…

Nella vita, questo dono grande che ci è dato, vi sono tempi belli, brutti, periodi difficili, momenti luminosi, di gioia, situazioni di ricchezza interiore, freddezza. Per me, ora, è un tempo ricco di tanto, con aspettative, speranze, sogni, paure incertezze. Non è facile fare chiarezza, è difficile pregare, nei momenti di silenzio non riesco neppure ad…”ascoltare”! Allora la mia mente, più che il mio cuore, corre al programmare (cosa fare? Come sistemare?) ed il tempo mi diventa faticoso, incerto…sento tutta l’impotenza di me.Poi, pian piano, per un dono d’Amore, senti il coraggio di mettere tutto nelle mani dell’Amico più vero, sciogliere le vele della speranza al vento del suo amore, lasciarsi portare senza programmare la rotta….il tempo è Suo e nel Suo tempo c’è un progetto d’amore per me, per noi, per tutti. Parole vecchie e sempre nuove…realtà da vivere in pienezza. Però non viene spontaneo e naturale tutto ciò: credere, vivere dentro, ascoltare nel cuore, ogni giorno questa sensazione nuova che ti prende e ti trasforma la vita…È un atto profondo l’affidarsi sapendo che i tuoi problemi sono soprattutto i Suoi e che l’amore e la gioia per cui siamo creati, quelli veri, sono già in quel progetto che si realizzerà! Questa è la leggerezza che ho scoperto, intravisto, gustato come pace grande del cuore. Ma, come è difficile restare leggeri, affidarsi con gioia, lasciarsi andare vivere un’intimità di cuore e di mente occupati solo dalla certezza d’Amore in cui sono immersi.È questa leggerezza che io cerco, questa apertura dell’anima che è anche fortezza per restare unita ogni giorno al progetto, ed è trasparenza del cuore per vivere in semplicità e grazia.

Gioia

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Leggerezza é un atto di fedein colui che non consegna nessuna delle tue cose al caso.

Leggerezza é un atto di amore,é permettere a qualun altro di amarti.

Leggerezza é un atto di speranza,quando non sei definito dagli errori del passato né dai problemi del presente né dal futuro che ti aspetti.

Pierluigi Ricci

Foto: Masimo Schiavo


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