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2012 POLO Dialogo Sopra i Massimi Sistemi. by Tatiana Polomochnykh

Date post: 15-Feb-2015
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A Russian immigrate in Italy dreams about Tommaso Landolfi
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1 Dialogo Dialogo Dialogo Dialogo sopra sopra sopra sopra i i i massimi sistemi massimi sistemi massimi sistemi massimi sistemi di Italiantania Traduzione dal Russo a cura del Nuovo Laboratorio di Ricerca Culturale Ed. Villa Paolozzi, Roma, 2013
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Dialogo Dialogo Dialogo Dialogo soprasoprasoprasopra iiii massimi sistemimassimi sistemimassimi sistemimassimi sistemi

di Italiantania

Traduzione dal Russo a cura del Nuovo Laboratorio di Ricerca Culturale

Ed. Villa Paolozzi, Roma, 2013

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Dialogo sopra

i massimi sistemi di Tatiana Polomochnykh

Traduzione dal Russo a cura del Nuovo Laboratorio di Ricerca Culturale

Si è sparsa la voce, la Russia sta riemergendo. Torno? – mi sono chiesta io, russa residente da molti anni in Italia. Ma presto, mentre il diluvio aumentava d’intensità, appresi la notizia, che a farla riemergere sono mucchi di cadaveri di annegati, soprattutto nelle grandi città. E mi sono detta: Galina, meno male che sei in Italia, dove l’Arca è prevista e anche pronta. Vai e salvati. Scusatemi se ho approfittato.

Oddio quanto era grande quell’Arca! Le TV dicevano che poteva trasportare tutti i cittadini insieme, tutti quanti, giovani e vecchi, uomini e

donne, giusti e peccatori. Com’è possibile, dicevo io. È proprio impossibile. Poi, vi ricordate, all’inizio, lo scandalo dell’appalto truccato? Eppure è uscita veramente una costruzione immane, chissà di quanti cubiti. Quando sono arrivata in Val Padana per imbarcarmi, sono rimasta senza fiato. Oltre che grandiosa, l’Arca sembrava un pezzo d’antiquariato, proprio prezioso, e tutta questa famosa tecnologia non si vedeva per niente. Tutto rivestito di cipresso, mamma mia. Ho letto sul Bollettino della Salvezza che l’impresa è stata finanziata con una tassa speciale sulla coltivazione del Cupressus funebris e nuove norme sui camposanti (vedi il servizio sul N 40, pp. 150 ss). Da lontano l’Arca pareva una torre, ma piuttosto in costruzione, direi come un cantiere abusivo bloccato dalle autorità soprannaturali. Non so se voi sareste d’accordo con questa mia impressione. Da vicino invece era chiaro che tutto si articolava in segmenti: il più grosso alla base raffigurava il Colosseo, dentro il quale s’innalzava la torre di Pisa, china sulla collina

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col caratteristico paesello con il suo lavatoio, cantina e caseificio alla base e madonnina in cima. Incredibile! Poi c’era uno dei canali di Venezia riprodotto con le gondole e la statua equestre di Noè e poi, certo, uno stadio, non si poteva farne a meno!, coperto con un enorme Cupolone romano-fiorentino. Intorno gli facevano concorrenza i trulli pugliesi, e cumuli di paninoteche e spogliatoi ne contraffacevano in sordina la forma a cupola. Io perlomeno ho avuto questa sensazione.

Dunque, arrivai lì. Il lungomare intorno all’Arca, tutto tendopoli per separare folla e pioggia interminabili, era circondato dalle forze delle Camicie Sbagliate che vigilavano per non far passare gli extracomunitari senza permesso di soggiorno. Io il mio per fortuna lo tengo, badante al servizio del vecchio signor Tommaso Landolfi, ma quel permesso era scaduto da tredici mesi, in attesa di rinnovo. Nel commissariato mi hanno rassicurato che oggi i tempi procedurali sono questi e perciò io, fiduciosa ma con un po’ di strizza di essere respinta mi recai sul teatro dell’azione, per così dire, e mi misi in fila insieme al mio datore di lavoro, in carrozzina teletrasportabile. A mio parere, l’organizzazione dell’imbarco era impeccabile, direi europea. Gli sportelli distavano appena tre metri uno dall’altro, ciascuno con la sua ordinata coda. Solo per noi extracomunitari la fila era unica e fino all’orizzonte, con il rischio d’annegamento per gli ultimi. Essendo io di statura bassa e non sapendo nuotare, parcheggiai il mio padrone a fare la fila, quella sotto Padre Pio, riservata ai cittadini, i quali probabilmente mi ricorderanno. Davanti a me, per intenderci, c’era un loquace frate italiano a capo di un gruppo di ragazze slave e africane, tutte clandestine e prostitute, ma in quanto pentite meritevoli del perdono e di ogni tipo di permesso. Vi siete ricordati? Ecco, io ero subito dopo di loro.

Faceva parecchio buio e umido, l’acqua tamburellava sul telo sopra le nostre teste. Il Conte mio padrone era sconcertato, non brontolava né mi rimproverava gli errori d’Italiano. Si lamentò per il caos del mondo messo in teorie per salvarsi, che “distrugge la banalità quotidiana e la noia indispensabili per poter fermentare il prezioso vino dal sapore d’altri tempi che scorre nella fontana della grande prosa”. Sapete, a lui piacciono le cose vecchie e non ha mai usato il computer, per dire.

A me invece non piace il vino, semmai preferisco un vodkino. E le opere del padrone non sono mai riuscita a leggerle. Dopo tre righe non capisco più niente e mi addormento. Però, è proprio il signor Landolfi che mi aveva insegnato quel poco d’Italiano che so. A volte mi costringeva ad imparare a memoria le frasi, mi faceva scrivere i dettati. Ed era stato sempre paziente come me.

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La fila procedeva con la lentezza di un ufficio postale; si cominciava a sbuffare ed indignarsi solo quando il funzionario spariva per qualche decina di minuti, ma appena tornava, di nuovo zitti-zitti. Il Maestro, infreddolito, si strinse sulle spalle un plaid da viaggio color fumo,

coprendosi quasi interamente anche il viso. Quel plaid era l’ombra di Gogol’, che lui portava sempre con sé. Un paio di volte, facendo pulizie, mi capitò di tenerla in mano e scoprii che era calda, vaporosa e al tocco trasmetteva un movimento di certe sue particelle che pulsavano, roteavano e scorrevano come liquido interno, senza staccarsi o bagnarti le dita. Che materiale impossibile, mai visto uno simile in vita mia. Raccontava in giro messer Tommaso, che gliel’aveva regalato Gogol’ in persona, ma mica è vero! Stavo già in servizio e so com’è successo. Allora. L’astro della letteratura russa viveva in Italia da un pezzo, quando Landolfi, già famoso

come traduttore dal Russo e altre lingue, lo incontrò a Firenze. Gogol’, che sapeva calcolare i suoi interessi in modo incredibile per un poeta, invitò il Conte poliglotta a venire a trovarlo a Roma. E Landolfi, per quanto odiasse stare in compagnia, prese a frequentare assiduamente le Stanze di Gogol’, conobbe anche la consorte dello scrittore, alla quale da galantuomo dedicò uno dei suoi migliori racconti, un gioiello come dicono. Lusingato, Nikolaj Vassilievic andò a visitarlo a Pico. Io facevo allora la sguattera sotto le dipendenze della cuoca Maria Giuseppa, buon’anima, che in questa occasione, mi ricordo, aveva cucinato una ventina di piatti prelibati e superò se stessa. Gogol’ mangiava tantissimo, ma dopo pranzo scese da noi in cucina e in presenza del padrone, che appuntava le sue ricette, cucinò da sé altre pietanze, stranissime direi, che si mise ugualmente a mangiare. Scherzava così, che non ci si reggeva in piedi dalle risate e si piangeva da pazzi.

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Nondimeno il suo viaggio finì in modo pauroso: al ritorno la sua carrozza fu fermata dai Ciociari, popolo ostile ai Landolfi; i briganti sotto la canna della pistola gli estorsero il portafoglio, lo denudarono e volevano scuoiarlo, ma Gogol’, da solito strabiliante prestigiatore dei concetti, burlò i suoi predoni: spacciò per pelle la sua ombra, la lasciò a loro ed ebbe salva la vita. L’episodio ispirò poi una scena nel secondo volume di Anime morte, ve lo confermeranno tutte le enciclopedie, bruciato dall’autore stesso nel camino. Quando Landolfi apprese la notizia della rapina ai danni del suo ospite, fece una spietata rappresaglia letteraria sui Ciociari e partì a caccia dell’ombra derubata del collega, promettendo un grosso riscatto a chi gliela consegnasse. Ma passavano mesi e mesi, e dell’ombra neanche traccia. Finché un giorno gli si presentarono a palazzo certi individui, con i quali come di consueto egli si rifugiò nei suoi appartamenti per giocare. E che sorpresa: anziché soldi gli ospiti all’improvviso tirarono come posta di gioco l’ombra di Gogol’! Quella volta messer Tommaso, per quanto gli dispiacesse, fu costretto a vincere. Uscì all’alba barcollante e naturalmente subito corse a Roma dall’amico per restituirgli il maltolto. Solo che questi, ahimè, era già partito per la Russia. Landolfi allora si precipitò al nostro consolato per procurarsi il visto che, come sappiamo, si ottiene facendo la fila dalle quattro del mattino per parecchi giorni, oppure prendendo un aiutino di qualche società convenzionata e onorata. Fatica risultata vana: a metà della procedura apprendemmo la tragica notizia, che il genio russo all’improvviso era morto a soli 43 anni. Come ha fatto il sacerdote ortodosso a dare l’estrema unzione, confessione e comunione ad una persona così, diciamo, disombrata, non saprei. Tutta la Russia piangeva e quando si è emozionati, si è distratti. D’altronde, neanche in Italia si sono accorti che un grande scrittore nazionale come Landolfi getta due ombre. Certo, c’era da aspettarselo da lui, che giostrava pubblicamente con ombre di vario tipo, consistenza, proprietà curative e d’ispirazione, le allungava con le pinze o le accorciava con le forbici a secondo del suo stato d’animo o della stagione. Ma era fuorviante il fatto che collezionava anche delle aureole. Quando s’incontrava al tavolo da gioco con Pushkin, per esempio, o con Lermontov non perdeva l’occasione di staccare loro dalla raggiera qualche pezzo luminoso per schiarire i propri contorni. Esagerava, insomma. Invece da Anna Akhmatova, della quale, diceva, “adoro la mitica ingenuità e il candido vigore”, portava ogni volta un po’ di άκμη…

Oh scusate, toccava finalmente a noi. Al prete andò liscia e tutta la ghirlanda delle peccatrici pentite scivolò verso la liberazione. Quel simpaticone del giovane impiegato scrutava ora i nostri documenti. Lentamente gli si spense il sorriso e s’incupì il riflesso che inverdiva le

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sue pupille in minutissimi cocomeri. Il nome di Tommaso Landolfi non gli diceva niente e non batté ciglio mentre lui attraversava con sicurezza il posto di blocco, dopo avermi detto “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”; furono le mie, di carte, a ingarbugliare la situazione. Lo sapevo. È facile a dire: passa. Il piombo di una semplice domanda e un’affermazione:

- Come mai fai questa fila? Devi farne un’altra, - mi inchiodò.

Quando riacquistai dopo qualche istante la favella, riuscii piuttosto a chiocciare che dire una frase tipo:

- Non c’è più spazio in coda per lo sportello degli stranieri, ho visto i cadaveri delle vittime galleggiare nell’acqua intorno.

Che bello, mi ha capito! Mi guardò come un uovo schiacciato da un elefante e replicò:

- E’ giusto così, signora, voi stranieri siete davvero troppi e l’Italia non può accogliervi tutti. Mica è colpa mia se loro annegano? Mi dispiace, non posso esserLe utile in quanto non sono addetto all’ingresso degli stranieri.

O-ops! Mentiva. E le ragazze prima di me!? Certo, una vecchia bacucca come me non può avere sconti. Comunque, cominciai a supplicarlo di farmi passare.

- Pagherò tutte le tasse, - gli giuravo, - sarò fedele alla Repubblica e osserverò la Costituzione e le leggi dello Stato.

Il funzionario cominciava a perdere la pazienza.

- Benissimo, brava signora, ma io non sono autorizzato…

Incalzai:

- Anche Lei è una gran brava persona, perché non mi fa passare? Perché non accogliete noi extracomunitari? - e non ci pensavo più al mio parlare balbuziente. – L’Italiano non raccoglie pomodori, non piglia pesci e non ci sta più con la mamma anziana. Per caso, vivrete a digiuno e orfani? Se sperate che una volta arrivati alla destinazione, non ci saranno i campi da lavorare, oppure che troverete gli indigeni sul posto …

A questo punto mi interruppe lui, seccato davvero. Disse:

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- Non si preoccupi signora, staremo solo meglio, diventeremo più meccanizzati e robotizzati, con gli ospizi e asili di adeguata qualità e quantità. E senza le porcherie che combinate voi, stranieri: a parte che siete una bomba demografica, quel vostro flebo nel sangue della Nazione ne porta un sacco di virus, come droga, pedofilia, terrorismo islamico e banditismo di ogni sorta.

Non ha detto “prostituzione”, notai. Parlava tuttavia con scioltezza divina e l’imperfetto congiuntivo a braccetto con il condizionale passato, che gli venivano così spontanei e automatici, risuonavano nelle mie orecchie con mesta armonia. Inutile, - pensai con angoscia, - che il mio Maestro sprechi tempo a insegnarmi l’Italiano. In ogni caso, non smobilitai.

- Scusi, bel capro espiatorio che avete trovato! È invece la vostra vernacola criminalità organizzata, celebre in tutto il mondo, a provocare questo casino. E quando i poveracci clandestini non finiscono nelle grinfie della mafia, diventano pasto di tutti quanti voi, furbetti, allergici al fisco e alla legalità.

Chissà come l’ho detto e dove ho sbagliato, ma il mio interlocutore cominciò a ridere. Se fosse stato Russo, avrei potuto evitare questo strazio di reazione, ma discutere in lingua straniera con uno di madrelingua è causa persa. È proprio impossibile. Non ve lo auguro.

- Appunto, - ribatteva intanto il giovane impiegato, rallegrato e alzandosi anche lui in piedi. - Ci provocate. Provenite dai Paesi di terzo mondo, dove il Diritto non è di tipo occidentale, ma di tipo orientale, oppure transitorio come quello russo, per esempio. I diritti dell’uomo, l’uguaglianza nella libertà per voi non sono mica i valori primari. Così voi diluite ed annacquate la coscienza civica democratica della popolazione italiana, causando l’erosione dell’intero nostro ordinamento politico e giuridico, oltre che sociale; arrivano al governo e nel Parlamento dei criminali pluricondannati, ladri e sfruttatori, che promuovono le leggi inique. Tutto per colpa vostra. È proprio ora che avremo quest’ottima occasione di spezzare il circolo vizioso, signora, e dunque per piacere si metta da parte e avanti il prossimo!

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- Ma come, - urlai io a questo punto, e un volatile del mio istinto di sopravvivenza dal nativo Triassico mi trascinò per la collottola a galla, verso la rampa illuminata dell’antico circo e mi costrinse a inscenare il ruolo dell’Immigrator nel mio ultimo spettacolo. – E la cultura!? Non volete mica isolarla tra le quattro mura domestiche? Quanto aveva beneficiato la civiltà italiana per esempio, da quella russa, ormai morta, - e qui mi tremò la voce, - e quanto importante è stata per voi la presenza degli emigranti come Gogol’? - e qui mi gettai mentalmente ai piedi del mio Vate, che vedevo ombreggiare poco lontano. E splasc! splasc! – immaginavo sbattere le mie ali, e clack! clack! – fare con il becco adunco.

Il funzionario non sapeva più che fare con me. Essendo egli un tipo corretto, fece chiamare il consulente, addetto al mio caso. Così scese da noi una signora, nella quale riconobbi la Dottoressa N., russista e noto professore universitario, autore di alcuni saggi sulla cultura russa. Mentre si avvicinava, da lontano cominciò a gridare:

- Mi io non la conosco! Perché m’avete chiamato? Cosa posso dire, se non la conosco?

Teneva a guinzaglio un bulldog nano, che appena vicino a noi esplose in

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un assordante latrato, tanto che la sua padrona fu costretta a prenderlo in braccio, dicendo con dolcezza: No, Fiffi, tu zitta cara!, - accarezzando la cagnolina. L’attenzione generale fu attirata dalla bizzarra bestiolina, che aveva la testa enorme attaccata direttamente al corpo cortissimo retto sulle zampe incredibilmente ridotte. Dopo aver soltanto sceso le scale, l’animale rantolava pesantemente. Partirono da tutte le parti i commenti.

- Che simpatica, angioletta! – diceva uno schioccando le labbra.

- Non sta bene, - osservava un altro, - ha problemi di respirazione, caso tipico della razza esasperata.

E mentre il terzo notava qualcosa sul prognatismo abnorme, il funzionario riferiva alla Professoressa:

- Vede, qui c’è una cittadina russa, di attività occupazionale badante…

- Macché badante! – esclamò la scienziata indignandosi dopo aver dato una rapida occhiata ai miei documenti. – Fa finta! e rivolgendosi a me:

- Chi Le ha dato questo permesso di soggiorno? Lei deve fare la badante a qualcuno che veramente ne ha bisogno. Ci sono lavori seri per stranieri: cameriera, operaia, cassiera.

- Ho fatto tutti questi lavori, Professoressa, ma ormai la salute non mi permette… Sarò forse utile a qualcuno per le conversazioni, sono di madrelingua di una lingua ormai estinta.

- Ah, vuole fare la grande intellettuale? Bella presunzione è la sua, mica basta essere russi perché ti si aprono tutte le porte. E noi allora che faremo?

- Non intendevo questo, Dottoressa. M’aiuti a passare!

- Ma se Lei non è neanche laureata!?

- Mi sono diplomata. Ho partecipato ad una spedizione che studiava l’influenza delle maree sulle capacità linguistiche dei vampiri alati in Siberia occidentale. Magari potrei essere utile…

- Per carità! – sobbalzò la Professoressa e la sua esclamazione fu accompagnata dall’aggressivo ruggito e lancio verso di me della cagnolina, per fortuna trattenuta col guinzaglio. - Nel mio trattato De fluxu et refluxu maris l’argomento dell’influenza delle maree sui dialetti di tutta la popolazione siberiana compresi vampiri, cannibali, alieni e matrioske è stato scientificamente trattato in modo esauriente.

E rivolgendosi alla cagnolina la chiamò alla russa:

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- Che dice la dottoressa Fifilova?, – dimostrando quanto entrambe fossero legate alle nostre realtà linguistiche e culturali.

- Potrei raccontare le nostre fiabe, cantare le canzoncine - proposi allora disperatamente. – Alcune le compongo da me, vuole dare un’occhiata? – e le tirai fuori dalla borsa qualche foglio.

- A leggere, mi serviranno tre o quattro mesi.

- Ma qui sono solo tre canzoncine e una fiaba!

- Sono molto impegnata, non ho neanche il tempo di lavarmi i capelli…

E di nuovo alla cagnolina:

- Vero, Natalia?

Accidenti, la sua pupilla aveva anche un nome proprio russo. Dopo un po’ di esitazione la Professoressa ebbe pietà, prese i miei fogli e cominciò a scorrere tra le righe.

- Ci sono degli errori, - disse trionfante. – Anziché “il zar” in Italiano si dice “lo zar”. Come pensa che sia capace di scrivere? E qui invece la traslitterazione sbagliata: si scrive Golitsyn e non Galitzine. Le do un consiglio: lasci fare a qualcuno che conosce l’Italiano meglio di Lei.

Era esattamente ciò che mi diceva messer Tommaso. Mi ricordo quasi a memoria le sue parole, che la lingua imparata in modo imperfetto non costituisce alcun vantaggio all’autore, non aiuta, per esempio, ad evitare parole tecniche o luoghi comuni. Per creare un messaggio artistico si deve disporre di mezzi espressivi ricchi e vari, mi diceva. Dunque, mi conviene di scrivere in Russo, come infatti ora sto facendo.

La mia totale disfatta fu avallata dall’ultimo attacco d’ira di madama Fifilova, che prima di essere condotta via dalla proprietaria, mi guardò con gli occhi arrossati e all’improvviso disse con voce umana in purissimo Russo:

- Abbiamo fretta e voi ci avete fatto perdere molto tempo.

Rimasi di stucco. Oltre che sempre fuori la sbarra. Che terrore! E l’ora Zero si avvicinava. Vidi le persone che prima stavano dietro di me superare velocemente il controllo e salire su, fino all’ultimo.

Poi successe una cosa terribile. Arrivò altra acqua e la compatta folla multietnica si gettò all’arrembaggio dell’Arca. Io rimasi prigioniera del denso impasto dei corpi, come sporcizia dentro la resina di cipresso, colante però dal basso in su, all’interno dell’unico antro dell’Arca. Tutte le bocche urlavano e la mia altrettanto. Mi sembrava di aver già vissuto

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questa strana situazione e di aver già udito quell’urlo. Pareva che nell’aria risuonassero le grida di morte di tutti i condannati di tutti i tempi, dei primi cristiani lacerati dalle belve, degli eretici sui roghi, degli schiavi torturati, degli ebrei nelle camere a gas. Che incubo! Eravamo invece quasi tutti sani e salvi. A bordo gente semplice ci accoglieva a braccia aperte. Provai una gioia ineffabile. Ero salva!

All’improvviso sento: Polina! Polina! – era il mio Maestro, che preferiva sempre chiamarmi con questo nome russo antiquato, secondo lui analogo al mio, ma con un po’ più di classe. Aveva assistito alla scena della nostra irruzione muto dall’agitazione. Corsi ad abbracciarlo e all’inizio andammo a fare un giro di perlustrazione per la struttura, quando lui notò il Casinò e si fece condurre direttamente lì, congedandomi per qualche ora. Ancora emozionata, proseguii da sola. Scoprii che la vita degli Italiani a bordo scorreva del tutto normalmente, cioè nello sconquasso più totale. Il frastuono assordante della discoteca copriva il rumore del mare e della pioggia e solo vicino al ristorante, dove tutti sono andati a mangiare il pesce, regnava il tranquillo ronzio dei commensali. La radio annunciava i saldi della moltitudine di boutique delle migliori marche italiane e invitava al concorso Miss Italia, esplodevano le laceranti urla di trionfo dallo stadio, dove si giocava lo Scudetto, risuonavano le voci dei passanti che parlavano forte tra di loro o al cellulare. In cerca di silenzio, andai a visitare l’Hotel degli animali mondi e poi quello degli immondi, dopo di che ripiegai verso il borgo, dove vidi una coppia di ciuchi portare i bambini su e giù per la viuzza in ciottoli porticata, pavesata a festa e pattugliata dalle ragazze che avevo

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conosciuto prima. Poi vidi Noè. Grazie ad un certo marchingegno la statua aveva la facoltà di spostarsi, per dare uguaglianza a tutte le comunità quanto alla sua presenza; a volte sbucava improvvisamente da dietro qualche colonna con l’allegra esclamazione Cucù!; e se qualche comitiva si radunava davanti per fare la foto di gruppo, accadeva sovente che la mano destra del Cavaliere si allungasse a dismisura per fare le corna a qualche ignaro partecipante.

Verso l’ora del tramonto all’orizzonte si profilò la zattera della Germania, piccola, silenziosa e buia per risparmiare. Al centro faceva una bella mostra di sé il grandioso impianto di smaltimento dei rifiuti, adatto a riciclare anche le particelle cosmiche vaganti; sulla cima, come un cocuzzolo di roccia, s’impennava un monumento: un armadio con dentro un set di tazze, con sopra

scritto: Wir haben alle Tassen in Schrank! Il melodioso suono delle tazze arrivava fino a noi e riconobbi il concerto brandeburghese in Do minore di Bach. Il principale evento ludico presso di loro, se non sbaglio, era il concorso Forza, brutti! - Italien, Italien! acclamavano i Tedeschi con l’entusiasmo. Come sempre, su di loro diluviava di brutto, mentre sull’Italia stranamente si aprì un generoso squarcio di mistica luce.

La sera apparve la luna a forma di freccia. Indicava, come il mouse sullo schermo, la direzione da prendere verso la resurrezione dell’opera di Dio.


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