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Introduzione
Tra il marzo e il settembre 1943 a Fontanellato era in funzione un campo per
prigionieri di guerra alleati, identificato con la sigla P.G. 49.
Dopo gli incontri con il prof. Marco Minardi e la dott. Chiara Nizzoli, la lettura del
volume “L’orizzonte del campo” di Minardi e “Fuga in montagna” di Eric Newby, i
ragazzi hanno ricercato testimonianze e documenti, intervistato persone ancora in vita
che hanno vissuto quell’esperienza, tra cui gli ospiti della Casa protetta Peracchi,
scritto racconti secondo quanto la loro fantasia suggeriva.
Molti di loro hanno anche partecipato al corso pomeridiano di teatro, condotto
dall’esperto Carlo Ferrari, che ha avuto la sua conclusione la sera del 24 aprile 2013
con lo spettacolo “P.G. 49”.
Partendo da questa esperienza si realizzerà anche un video, che ha richiesto riprese,
scannerizzazioni, fotografie, invii di materiale. Si sono coinvolti genitori e conoscenti
nel reperimento di materiali, opportunamente visionati e studiati in classe..
Il campo era posto all’ingresso del paese, nell’edificio che ora si chiama Centro
Cardinal Ferrari. La costruzione di quello che doveva essere un orfanatrofio, era stata
avviata negli anni Venti con fondi raccolti dai fedeli che giungevano in pellegrinaggio
al Santuario della Madonna del Rosario ed era stata ultimata alla vigilia del conflitto.
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Campo PG-49
Com’era l’edificio:
Edificio a quattro piani, stile “pseudo-classicheggiante”
Area verde circostante.
Un corpo centrale utilizzato come spazio collettivo
Due strutture laterali.
I prigionieri:
Il 31 marzo erano 385 A metà maggio erano 536
Fine luglio erano 624
Inizio settembre erano 700
I prigionieri erano: capitani, tenenti, sottotenenti e soldati semplici di diversa
nazionalità.
Differenze di classe:
Ufficiali di estrazione proletaria (la maggioranza)
Ufficiali di borghesia inglese (pochi)
Ufficiali intellettuali; la vita di questi ultimi era molto difficile, uno di questi
sarebbe poi diventato uno dei capi più prestigiosi della Resistenza italiana, venne
anche giudicato come strambo e “bolscevico”.
La gestione del campo:
Da parte alleata
La gestione passò per mano di tre capitani:
Ufficiale Norman.
Tenente colonnello Tydell Bideal.
Tenente colonnello Hugo de Burgh che pretese sin dal primo giorno disciplina e
dignità.
Da parte italiana
La gestione passò per mano di un solo capitano con i suoi militari:
Tenente colonnello Eugenio Vicedomini.
Sei ufficiali.
Un sergente maggiore, che faceva da interprete. Sessanta militari circa.
Le regole:
L’accesso alle aree verdi interne al campo era limitato, due ore al mattino e altre
due al pomeriggio, con gruppi di 100 prigionieri alla volta.
Le “sgambate” settimanali: 140 prigionieri per gruppo, potevano camminare per la
campagna circostante, accompagnati dalle guardie, a patto che giurassero sul loro
onore di non scappare.
Era anche vietato sporgersi dalle finestre del salone che dava sulla via pubblica, le
sentinelle avevano l’ordine di sparare nel caso ci fosse qualcuno che si
affacciasse.
La vita sociale:
Enorme salone per le attività ricreative (carte, dadi, scommesse sul “boat racing”*,
bridge e teatro),.
Attività sportive: campionati di calcio e rugby a sette, tornei di pugilato ed
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atletica.
Biblioteca.
Bar.
La vita religiosa:
Cappella per gli ufficiali cattolici dove si celebrava la messa domenicale.
Due stanze per i riformati.
I servizi:
Per i prigionieri
Moderno impianto idraulico ogni piano possedeva due bagni, acqua calda SOLO
il martedì, lavandini, gabinetti.
Per gli ufficiali
Per gli ufficiali vi era una doccia con spogliatoio, per permettere un po’di privacy,
invece per gli alti ufficiali vi erano sei docce e rispettivi spogliatoi.
Per entrambi
Ambulatorio medico e dentistico gestito da un ufficiale medico italiano.
Un barbiere.
La mensa:
Gestita da un ufficiale belga che aveva contatti con produttori locali, quindi con
l’esterno.
I prigionieri affermano che il cibo era di buona qualità, ma le porzioni non erano
molto abbondanti.
Con i pacchi dalla CRI arrivava del cibo:
biscotti, marmellata, carne e verdura in scatola, margarina, carote o pomodori,
pancetta, meat roll, passato di pesce, tè, zucchero, cioccolata, latte, sapone e a
volte pancake, caramelle e pudding. Queste cose permettevano agli ufficiali dei
“party memorabili” e “ buone bevute”, ma erano anche vendute al mercato nero.
Le impressioni sul campo:
Nel complesso: buone impressioni sia da parte dei prigionieri che degli estranei (il
14/05/1943 visita della Legazione Svizzera).
Criticità: alcuni parlavano di sovraffollamento e tutti di mancanza di privacy.
Testimonianze:
P. Kinderley: Era il Ritz hotel dei campi di prigionia.
T. Davis: Un luogo finalmente libero.
D. Davvie: Vi era un sovraffollamento che non mi permetteva di studiare.
L’esterno:
Da fuori a dentro ….
“Il 30 marzo, l’edificio era pronto, ma ancora vuoto. Il mattino dopo arrivarono 650
ufficiali e soldati di lingua inglese. Tutti, giovani e anziani, me compresa non
avevamo mai visto un inglese”. Cit. Wanda Skof.
“ Io abitavo al Torchio. I prigionieri passavano tutti di lì. Io avevo 14 anni, andammo
sulla riva del fiume che c’e’ lì. Mi ricordo gli scozzesi in gonna ….Poi mi ricordo tutti
i pacchi che passavano davanti a noi“. Cit. Bruna Chiappini.
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Loro cosa vedevano:
I prigionieri conoscevano Fontanellato (sapevano che vi era una Rocca, un
monumento ai caduti della Prima Guerra Mondiale ed osservavano il paesaggio
circostante; l'edificio si trovava molto vicino al cimitero e tutte le domeniche quando
passavano le donne i prigionieri guardavano, pur non potendo, alla finestra).
Vedevano la Rocca al centro del paese che era alla portata visiva.
Di fronte al castello: palazzetti e portici profondi immersi nella penombra, con botteghe e caffè ove il sabato vi era il mercato.
Fotografie della campagna:
Strade piatte e polverose.
Campi di frumento, di pomodori, di barbabietole da zucchero.
Argini verdeggianti.
Case coloniche “col cortile gremito di mucche, maiali e forme di formaggio nella
penombra del portico”.
Bigliettini nelle lenzuola:
Dal Santuario:
“Di tanto in tanto ci accadeva di scoprire un bigliettino avvolto nelle lenzuola o
infilati nelle camicie nel quale si diceva come coloro che le avevano lavate pregassero
per noi..”
Dal Campo:
I soldati davano in cambio cioccolata e sapone, presi dai pacchi della Croce Rossa,
nascosti nella biancheria.
Sguardi:
Regola: era VIETATO guardare dalla finestra del bar.
Conseguenza: le guardie avevano l’ordine di sparare.
Nella prassi: “Neppure l’intero esercito italiano al massimo della sua aggressività
sarebbe stato in grado d’impedirci di guardare le ragazze di Fontanellato e che loro
guardassero noi ….”
Tentativi di fuga:
“escape comittee”.
Diversi furono i piani di fuga, alcuni furono fausti, altri perfino comici, solo uno fu
quello serio, quello di Tony Roncoroni.
Davis: “Egli era consapevole che era dovere di ogni prigioniero di guerra tentare la
fuga, ma era dovere, anche, dei militari impedire ai prigionieri la fuga …”.
VERSO LA “VERA” FUGA
..… VERSO L’8 SETTEMBRE 1943.…. Testa Valentina
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“Non più prigionieri, non ancora liberi”
Settembre 1943, in questo periodo si registrano i maggiori problemi.
8 settembre: l'Armistizio. Il generale Badoglio, subentrato al governo al posto di
Mussolini nel luglio del 1943, annuncia alla radio la firma del documento e ordina di
cessare ogni forma di violenza contro gli angloamericani. Badoglio e re Vittorio
Emanuele III si rifugiano al Sud, dagli alleati, lasciando nella confusione più totale un
Paese già in bilico tra le diverse correnti ideologiche.
Nel campo di Fontanellato i prigionieri, accanto alle radio accese, ascoltano stupiti la
notizia e in loro questo suscita tre reazioni principali:
gioia: sono tutti felici e festeggiano nelle camerate con del buon vino, il vermouth;
illusione: i prigionieri credono che sia finita la guerra e che pochi giorni dopo sarebbero potuti tornare in patria dalle loro famiglie;
timore: la paura che in profondità non sia realmente accaduto nulla di significante.
Nel campo si respirava un’aria lievemente più leggera: crolla la censura e le sentinelle
non sparano più contro chi si affaccia alla finestra.
Ora il problema erano i tedeschi che occupavano parte dell' Italia e volevano
deportare i prigionieri nei campi di concentramento in Germania, quindi l'unica
soluzione era la fuga.
Le sentinelle si appostarono per controllare se arrivavano i tedeschi e il 9 settembre il
trombettiere italiano suonò tre volte l'adunata: i soldati e gli ufficiali inglesi uscirono
inquadrati, in modo tale da sembrare soldati in marcia, con i malati a bordo di asini e
per molti fu strano penetrare nel paesaggio. Il rifugio stabilito si trovava nel tipico
paesaggio parmense: tutti avevano l'ordine di restare fermi e in silenzio fino al calare
del sole per quella notte e il giorno seguente.
Intanto nel campo la popolazione saccheggiava ogni tipo di bene o oggetto trovato, come i pacchi della C.R.I. in cui a volte vi era il tabacco, che gli italiani confondevano
con il tè.
Quel giorno, circa due ore dopo la fuga, pare siano arrivati non più di trenta soldati
tedeschi che, trovando solo Vicedomini e quaranta militari, li incolparono
dell'accaduto e li arrestarono.
In questa contorta vicenda, la popolazione dimostrò grande solidarietà nei confronti
degli inglesi, ospitandoli nelle loro dimore e procurandogli viveri e vestiti; in queste
operazioni erano utili anche le donne, che non davano nell'occhio.
Ovviamente bisognava trovare un luogo molto sicuro dove rifugiarsi e le opzioni
considerate erano tre:
la montagna, con i partigiani, quindi la Resistenza: il Comitato Liberazione Nazionale (CLN) controllava le bande di partigiani sparse sul territorio, cercando di
raccogliere il maggior numero di armi, sfuggire ai tedeschi, trovare nascondigli sicuri
e orientare la popolazione a loro favore. Verso l'Appennino vi era una zona libera, la
città di Bardi, una forte presenza per salvare gli inglesi;
a Nord in Svizzera: quello del fronte svizzero era il percorso più breve e veloce, ma presentava diversi ostacoli tra cui la lingua, la necessità di ripari sicuri, di
cibo e abiti borghesi per scampare al pericolo della vicina Repubblica di Salò;
a Sud con gli alleati. Lori Federica
6
Campo 49 Fontanellato showing escape route from sports
field to barbed wire. Two officers escaped this way after
hiding in a hole during exercise period.
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List of POW camps in Italy
Un campo per prigionieri di guerra inglesi esisteva presso Caoria - Canal San Bovo
(Trento). Fu dismesso all'indomani dell'8 settembre 1943. Si deve fare attenzione poi,
fra i campi di lavoro e i campi di prigionia veri e propri come Sforzacosta, Monte
Urano, ecc... ''Part of Lists of Prisoner-of-War Camps section in the Prisoner-of-war
camp article.'' The following list is an attempt to create the most complete record of
Italian POW Camps during World War II.
Camp Location
P.G. 5 Serravalle
P.G.
10 Acquapendente
P.G.
12 Candeli
P.G.
17 Rezzanello (near Piacenza)
P.G.
19 Bologna
P.G.
21 Chieti
P.G.
29
Veano (1943). In Eboli there was a big POW camp where a lot of Yugoslavian
prisoners and their families were stationed from 1945 until 1947, when some
of them were brought to Germany. Also the British army sent back thousands
of them to Yugoslavia into death. On the internet, there is hardly any
information to find on this topic, although to my knowledge there were about
20 000 to 40 000 people in the Eboli camp.
P.G.
35 Padula
P.G.
41 Montalbo
P.G.
38 Poppi
P.G. Modena
8
47
P.G.
49 Fontanellato (near Parma). Reggio nell’ Emilia
P.G.
52 Chiavari
P.G.
53 Sforzacosta http://www.riggwelter.co.uk/RogerCollinson.html#F
P.G.
54 Fara-in-Sabina (Rome)
P.G.
55 Busseto (Piacenza)
P.G.
57 Gruppignano
P.G.
59 Servigliano http://www.casadellamemoria.org/
P.G.
62 Grumilina
P.G.
60 Colle Compito Lucca
P.G.
63 Aversa
P.G.
65 Gravina
P.G.
66 Capua
PG 70 Monturano
P.G.
73 Carpi (Modena)
P.G.
75 Bari
P.G.
77 Pissignano (Foligno)
9
P.G.
78 Sulmona (Fonte d'amore)
P.G.
78/1 Aquafredda
P.G.
82 Arezzo
P.G.
85 Tuturano http://www.tuturano.com/modules.php?name=Il_Campo_PG85
PG 87 Stalia 6000 in camp
P.G.
91 Avezzano
P.G.
98 San Giuseppe Jato (Sicilia)
P.G.
102 Nr. Aquila
P.G.
103 Monigo
P.G.
106 Vercelli
P.G.
107 Tor Viscosa
P.G.
113 Avio (Trento)
P.G.
115 Marciano
P.G.
118 Prato Isarco
P.G.
120 Chiesanuova (Padova)
P.G.
122 Cinecittà (ROMA)
P.G.
129 Montelupone (Macerata)
10
P.G.
133 Novara
P.G.
136 Bologna
P.G.
145 Montorio al Vomano (Teramo)
P.G.
146 Mortara (PAVIA)
P.G.
148
Campo di lavoro con 250 prigionieri, principalmente neozelandesi, ma anche
inglesi, scozzesi, egiziani, sud africani ed era a Pol di Bussolengo (prov. di
Verona, oggi totalmente distrutto dall'Enel sul cui terreno sorgeva negli anni
80, rimane solo la casa comando tutt'ora abitata) ed era comandato dal
Maggiore Aldo Castelli, che aveva alle sue dipendenze 14 campi di lavoro
satelliti. Work camp with 250 british POW, (neozelander, english, scotlands,
south africans...) today there is only the headquarter house. Major Aldo
Castelli was the chief of the camp. Pol di Bussolengo camp had 14 satellities:
Isola della Scala (4 ancora tutti visibili), Lazise (visibile),Mozzecane,Vigasio
(località san Bernardino, quasi totalmente intatto), Montecchia di Crosara
(visibile), Legnago, Zevio (presso Villa da Lisca, visibile), San Martino Buon
Albergo, Bonavigo, Oppeano, Angiari, (dati ricavati da uno studio del regista
veronese Mauro Quattrina elaborati visionando l'Archivio del Comune di
Bussolengo, durante la realizzazione di un documentario per la Rai
Radiotelevisione italiana).
P.G.
339 Pisa
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Campi Prigionieri di Guerra in Italia durante la Seconda Guerra
Mondiale
lista incompleta
Campo Posizione Note
Tedesco
Dulag226 Pissiguano Chiamato anche "CC 77". Vedi PG 77 di seguito.
Dulag
339 Mantova Precedentemente 337
Stalag
339 Trieste
Italiano
PG 5 Gavi -Serravalle
Scrivia Piemonte . Circa 32 km a nord di Genova
PG 10 Acquapendente Viterbo
PG 12 Candeli /Vincigliata
Castello del XIII secolo vicino a Firenze . (circa 25
prigionieri alla volta). Furono imprigionati diversi
generali britannici compreso il generale Sir Adrian
Carton de Wiart Maresciallo Owen Tudor Boyd , il
tenente generale Richard O'Connor , tenente generale
Philip Neame , e il neozelandese brigadiere Reginald
Miles e James Hargest . Vi furono diversi tentativi di
fuga con successo, 6 ufficiali attraverso un tunnel, 4
sono stati catturati poco dopo, Briga. Miles e Hargest
fuggirono in Svizzera e Hargest proseguì per
Inghilterra attraverso la Spagna. Dopo l'armistizio
dell’8 settembre 1943, 11 agenti e 14 ufficiali
fuggirono con altri italiani aiutati da partigiani. Molti
sottufficiali e soldati furono circondati dai tedeschi e
internati in Germania.
PG 17 Rezzanello Vicino a Piacenza
PG 19 Bologna
PG 21 Chieti
Vecchio Convento adibito a Campo Ufficiali. Dopo
l'armistizio furono catturati dai tedeschi e trasferiti al
PG78 nei pressi di Sulmona e successivamente
internati in Germania.
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PG 23 Vestone vicino a
Brescia
PG 26 Cortemaggiore Piacenza
PG 27 San Romano Pisa
PG 29 Veano Piacenza
PG 32
Bogliaco lago di
Garda vicino a Salò
, Brescia
PG 35 Certosa di Padula Monastero, vicino a Salerno
PG 38 Poppi Monastero vicino Arezzo
PG 41 Montalbo
PG 43 Garessio Cuneo
PG 47 Modena Ufficiali, principalmente neo-zelandesi
PG 49 Fontanellato
Orfanotrofio vicino a Parma . Dopo l'armistizio
600 prigionieri furono custoditi da repubblichini e
successivamente dai tedeschi.
PG 50
Caserna Genova
Cavalleria - centro
di stoccaggio -
Roma
PG 51 Altamura Villa
Serena Bari – Campo di transito
PG 52 Chiavari
PG 53 Sforzacosta Liguria . Più di 10.000 prigionieri
PG 54 Passo Corese ,Fara
in Sabina
Dislocato a 35 km da Roma . 4.000 inglesi,
sudafricani e Ghurka, provenienti dalla resa di Tobruk
, composto da tendopoli e pessime condizioni per la
carenza di cibo. Molti prigionieri dopo l’8 settembre
fuggirono rifugiandosi sulle montagne appenniniche.
Questo campo è stato completamente evacuato nel
gennaio 1944.
1.100 inglesi, sudafricani e prigionieri di guerra
americani furono fatti salire sul treno per essere
trasferiti e internati in Germania. Il 28 gennaio 1944,
il treno attraversando la ferrovia Orvieto fu
bombardato da aerei USA inconsapevoli del carico. I
13
tedeschi abbandonarono i prigionieri chiusi nei vagoni
e fuggirono. Furono circa 500 i prigionieri uccisi.
PG 55 Busseto Vicino a Piacenza . 4 campi satelliti del lavoro.
PG 57 Grupignano Dislocato a Cividale del Friuli . Ufficiali, soprattutto
Australia e Nuova Zelanda.
PG 59 Servigliano Ascoli Piceno Fino a 5.000 alla volta (greci, maltesi,
ciprioti, inglesi, americani, francesi, slavi)
PG 60 Colle di Compito Lucca
PG 62 Grumello del Piano
Vicino a Bergamo . Per lo più indiani e ciprioti. Sette
campi di lavoro satellitari, tra cui Gamba, Cremona e Torbole.
PG 63 MarinaroAversa Vicino Arezzo . Per lo più indiani.
PG 65 Gravina -Altamura Bari
PG 66 Capua Campo di transito.
PG 68 Vetralla
PG 70 Monteurano Vicino a Fermo, Ascoli Piceno
PG 71 Aversa Vicino a Napoli
PG 73 Fossoli di Carpi Vicino a Modena .
PG 75
Torre
Tresca
Bari Campo di transito. Un lavoro di campo.
PG 77 Pissignano
,Campello ? Tenda camp - Foligno
PG 78 Sulmona
Dislocato a Sulmona servito come un campo di
prigionia in entrambe le guerre mondiali. Durante la
Prima Guerra Mondiale, ospitò prigionieri austriaci
catturati durante le battaglie dell'Isonzo e nelle
campagne del Trentino.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, fu sede di ben
3.000 ufficiali britannici e del Commonwealth e
soldati catturati in Nord Africa. Dopo l’8 settembre
1943, i detenuti di Sulmona sentirono voci di
imminente evacuazione ed iniziarono la fuga. Il 14
settembre arrivarono le truppe tedesche e la maggior
parte dei prigionieri furono trasferiti e internati in
14
Germania, ma non prima che centinaia di loro
scapparono sulle colline. Un evaso era l'autore
sudafricano, Uys Krige , che ha descritto la sua
esperienza in un libro dal titolo “La via d'uscita”
(1946).
La vicina Villa Orsini fu utilizzata da alti ufficiali
britannici e del Commonwealth, tra cui il Generale Sir
Adrian Carton de Wiart, Tenente Generale Sir Philip
Neame, Maresciallo dell'Aria Boyd, il generale Sir
Richard Nugent O'Connor, brigadiere Reginald Miles,
il Brigadiere James Hargest
PG 78 / 1 Aquafredda Campo di lavoro neozelandesi
PG 80 Villa Marina Vicino a Roma
PG 82 Laterina Dislocato vicino ad Arezzo, 8.000 prigionieri.
PG 83 Fiume
PG 85 Tuturano Campo di transito
PG 87 Stalia 6.000 prigionieri
PG 89 Gonars Udine
PG 91 Avezzano
PG 97 Renicci Anghiari Arezzo
PG 98 San Giuseppe Jato Sicilia
PG 102 Vicino aL'Aquila Campo di transito
PG 103 Monigo Treviso
PG 103 /
6 Ampezzo Udine
PG 103 /
7 La Maina Dislocato a Sauris vicino ad Ampezzo
PG 106 Vercelli 25 campi di lavoro, per lo più australiani e
neozelandesi
PG
106/20 Arro Salussola
PG 107 Torviscosa
Udine - Cinque campi di lavoro, tra Prati, San Donà di
Piave, Torre di Confine, La Salute. Principalmente
neozelandesi e sudafricani
15
PG 107 /
2 Prati
PG 107 /
4 San Donà di Piave
PG 107 /
5 Torre di Confine
PG 107 /
6 ?
PG 107 /
7
La Salute di
Livenza
PG 110 Carbonia
PG 112 Torino
PG 113 Avio Vicino a Marsciano , Rovereto
PG 115 Marciano Vicino a Perugia
PG 118 Prato all'Isarco Vicino a Bolzano
PG 120 Chiesanuova Padova - campi di lavoro alle fattorie Bianco, Cetona,
Abano, Fogolana.
PG 120 /
4 ?
PG 120 /
5 Abano
PG 120 /
8 Fogolana
PG 122 Cinecittà Vicino a Roma - diversi campi di lavoro
PG 127 Locano Canavese Aosta
PG 129 Montelupone Macerata
PG 132 Foggia
PG 133 Novara
PG 136
CURA Bologna
PG 145 Campotosto (Provincia di Teramo )
16
,Montorio al
Vomano
PG 146 Mortara Pavia
PG 148 Bussolengo
Vicino a Verona . Campo di lavoro per 250 detenuti,
in gran parte neozelandesi , ma anche inglesi,
scozzesi, egiziani, sudafricani, americani, indiani. 14
campi di lavoro satelliti a Isola della Scala, Lazise,
Mozzecane, Vigasio a San Bernardino, Montecchia di
Crosara nel Basalti cave di pietra, fattoria Legnago /
Vangadizza a Rosta, Zevio a Villa da Lisca, San
Martino Buon Albergo, Bonavigo, Oppeano nel
Mazzantica Village, vicino alla chiesa di Mozzecane,
Angiari. Chiuso dopo insurrezione di massa dei
prigionieri nei giorni dopo l'8 settembre 1943.
PG 201 Bergamo ospedale in un ospizio
PG 202 Lucca ospedale in un monastero
PG 203 Bologna ospedale di Castel S Pietro
PG 204 Altamura ospedale in una scuola
PG 206 Nocera ospedale vicino a Rovello
PG 207 Milano Ospedale
PG 339 Pisa
PG 454 Brindisi Principalmente indiani
17
Daniele Camilli
LE PAROLE E LE COSE, DAL CONCENTRAMENTO ALLO STERMINIO
I Campi
Un Campo di concentramento è una struttura carceraria per la detenzione di
civili e/o militari. È solitamente provvisoria, atta a detenere grandi quantità di
persone, e spesso usata per prigionieri di guerra, destinati ad essere scambiati o
rilasciati alla fine del conflitto. Un Campo di concentramento è formato da file di
baracche o container disposti ordinatamente, contenenti dormitori, refettori,
uffici e altre strutture necessarie, e circondate da reticolati di filo spinato o altri
tipi di barriere. Il perimetro del campo è sorvegliato da ronde di guardie armate.
I metodi e le finalità di sistematica eliminazione dei prigionieri, attuati in queste
strutture nel XX secolo, soprattutto nella Germania Nazista e nell'Unione Sovietica,
ha fatto sì che nel linguaggio comune Campo di concentramento venisse spesso
assimilato a Campo di sterminio, che ne è invece un sottotipo. Il trattamento di
prigionieri civili e militari nei campi di internamento in tempo di guerra è regolato
dalla III e IV Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949. I campi d'internamento
sono tuttora usati da unità politiche in guerra, regimi illiberali o come soluzione
estrema nella regolazione dei flussi migratori verso alcuni paesi.
Fu il presidente Lincoln ad emanare le prime regole moderne per il trattamento dei
prigionieri, nel corso della guerra di secessione. E nel 1864, durante lo svolgimento di
quel conflitto, venne aperto ad Andersonville, in Georgia, quello che da molti viene
considerato il ‘primo campo di concentramento della storia’. Una struttura nella quale
vi furono connessioni molto strette tra l’internamento dei soldati e quello dei civili.
I campi vennero messi in opera anche dal Regno Unito durante la seconda Guerra
Boera (1900-1902), quando il comandante britannico Horatio Kitchener li utilizzò per
avere ragione della guerriglia. Anche nella Russia rivoluzionaria di Lenin (1918)
vennero ristrutturate le attrezzature di detenzione, riadattando i precedenti campi di
lavoro forzato della Russia Imperiale. Questi vennero riutilizzati per internare
dissidenti, nemici e persone politicamente non affidabili. Ed è con le purghe staliniste
degli anni '30 che dei campi fu fatto un uso intenso organizzandoli nel sistema Gulag.
Nel corso della prima Guerra Mondiale, in seguito alla disfatta di Caporetto, circa
300.000 soldati italiani furono fatti prigionieri dagli eserciti degli Imperi centrali e
avviati con una marcia nei Campi di concentramento austro-ungarici e tedeschi.
Stessa cosa avveniva in Italia dove i prigionieri dei nemici furono smaltiti in campi
situati principalmente in Sardegna, Alessandria, Asti, Bracciano, Cuneo, Voghera,
Avezzano, ed altri. Ed è proprio durante la Grande Guerra che l’espressione “campo
di concentramento” entra a far parte del vocabolario dei paesi occidentali. Fu essa,
infatti, “a diffondere per il mondo il fenomeno concentrazionario (…) I campi per
civili e per prigionieri di guerra si moltiplicarono sempre più, tanto che nel 1916 se ne
contavano centinaia, non solo in Europa ma anche in Africa, India, Australia, Canada
e persino in Giappone. I campi di concentramento della Prima guerra mondiale –
prodotto imprevisto della ‘guerra totale’ – seppure non paragonabili ai Lager e ai
Gulag (che saranno concepiti con una precisa strategia di disumanizzazione e di
annientamento), ne furono, in buona misura, il laboratorio, costituendo una tappa
importante del percorso che condusse l’Europa dalle prigioni dell’Ottocento ai sistemi
concentrazionari dei paesi totalitari del Novecento. Il totalitarismo, ‘male nuovo’ e
tratto più caratteristico della storia del XX secolo, ha potuto dominare su buona parte
del mondo soprattutto attraverso l’utilizzazione sistematica dei campi di
concentramento che, non a caso, sono stati definiti ‘il maggior marchio d’infamia del
18
Novecento’.
Il governo fascista, fra il 1930 e il 1934, deportò oltre 80.000 libici in campi di
concentramento lungo la costa desertica della Sirte, in condizioni di sovraffollamento,
sottoalimentazione e mancanza di igiene. Numerosi campi vennero poi istituiti
durante la Seconda guerra mondiale sul territorio italiano e quello jugoslavo. Stessa
cosa fecero gli Alleati subito dopo la fine delle ostilità. Ad esempio il Campo di
concentramento di Coltano, vicino Pisa, vide la reclusione di circa 35.000 ex militari
della Repubblica di Salò.
Campi di concentramento si ritrovano anche nella Cina Popolare come pure negli
Stati Uniti di Franklin Delano Roosevelt. Tant’è vero che, a seguito dell'attacco
giapponese a Pearl Harbor, il Presidente U.S.A. autorizzò l'internamento in campi
dedicati degli individui di origine giapponese residenti nella zona militare del
Pacifico, indipendentemente dalla cittadinanza.
Fu tuttavia la Germania nazista a fare uso su vasta scala del “concentramento”
soprattutto come Campi per lo sterminio di ebrei, Testimoni di Geova, rom, uomini e
donne omosessuali, disabili e dissidenti politici. Per la prima volta nella storia e per
agevolare la “Soluzione Finale” con l’obiettivo di creare un’efficiente macchina per
l’omicidio di massa. Tra questi, Chelmno fu il primo a essere realizzato e divenne
operativo già nel dicembre del 1941. Qui, ebrei e rom venivano uccisi con il gas di
scarico, all'interno di furgoni appositamente modificati. Nel 1942, i nazisti misero in
funzione i campi di sterminio di Belzec, Sobibor e Treblinka per eliminare
sistematicamente gli ebrei. I nazisti costruirono poi le camere a gas per realizzare lo
sterminio in modo efficiente e per rendere il processo il più impersonale possibile per
coloro che dovevano materialmente portarlo a termine. Nell’ambito del complesso dei
campi di Auschwitz, il sottocampo di sterminio di Birkenau era dotato di quattro
camere a gas: fino a 6000 ebrei al giorno vi vennero assassinati durante il periodo in
cui le deportazioni raggiunsero la maggiore intensità.
Una realtà, quella dei Campi di concentramento, presente dunque prima ancora del
Secondo conflitto mondiale e affatto statica. “Con lo svilupparsi del regime nazista
nel corso degli anni – ha sottolineato Raul Hilberg, uno dei più importanti studiosi
dello sterminio degli ebrei – l'intera struttura decisionale subì dei cambiamenti.
All'inizio esistevano delle leggi. Poi si applicarono sempre meno. Poi le leggi si
facevano dicendo ‘non dovrebbero esserci leggi’. Poi ordini e direttive venivano
scritti, e ancora pubblicati nelle gazzette ministeriali. Poi ci fu il governo per
proclami, e gli ordini apparivano sui giornali. Poi ci furono gli ordini taciti, gli ordini
che non venivano pubblicati, quelli interni alla burocrazia, in forma orale. Infine non
ci furono più ordini. Ognuno sapeva quel che doveva fare”.
Identificare, concentrare, sterminare
Raul Hilberg, nella sua principale opera su “La distruzione degli Ebrei d’Europa”,
descrive le fasi che hanno condotto alla pianificazione dello sterminio.
“Le politiche e le azioni antiebraiche – scrive Hilberg – non fecero la loro improvvisa
comparsa nel 1933. Per molti secoli e in diversi Paesi, gli Ebrei erano stati vittime di
azioni distruttrici (…) La prima si manifestò durante l’Impero romano, nel IV secolo
d.C. (…) A differenza dei Romani prima di Cristo, che non pretendevano di imporre
nessuna fede esclusiva, la Chiesa cattolica esigeva che tutti abbracciassero la dottrina
cristiana (…). Il fallimento della conversione di massa ebbe effetti di grande portata.
L’insuccesso condusse la Chiesa a considerare gli Ebrei come un gruppo specifico,
diverso dai cristiani, sordo all’appello del cristianesimo, pericoloso per la fede
cristiana (…) l’espulsione fu il secondo modo di proporsi della politica antiebraica
19
nella storia. In origine era un’alternativa alla conversione, e gli ebrei erano liberi di
decidere. Ma dopo la separazione della Chiesa e dello Stato, e quando lo Stato aveva
cessato da molto tempo di essere il braccio secolare della Chiesa, l’espulsione e
l’esclusione rimasero gli unici obiettivi dell’attività antiebraica
(…) Adottata dai nazisti, la politica di espulsione e di esclusione continuò a ispirare
tutte le iniziative antiebraiche fino al 1941. Ma proprio quell’anno segnò una svolta
nella storia dell’antisemitismo attivo, perché i nazisti, allora, si trovavano posti di
fronte a una situazione di guerra totale. Diversi milioni di Ebrei erano rinchiusi nei
ghetti, e l’emigrazione diventava impossibile. Un progetto dell’ultima ora, che
consisteva nell’imbarcare gli Ebrei verso il Madagascar, era completamente abortito.
Bisognava inventare un altro mezzo per ‘risolvere’ il ‘problema ebraico’. In quel
periodo cruciale, si sviluppò nella mente di alcuni capi nazisti l’idea di una ‘soluzione
territoriale’. La ‘soluzione territoriale’ – o come la si nominò in seguito, la ‘soluzione
finale’ della questione ebraica in Europa – prevedeva molto semplicemente la morte
di tutti gli Ebrei europei. Dunque, si doveva ucciderli. E questa fu la terza fase storica
dell’azione antiebraica. Riassumiamo: dopo il quarto secolo della nostra era, si
manifestarono in successione tre politiche antiebraiche: quella della conversione,
quella dell’espulsione e quella dell’annientamento. La seconda comparve in
sostituzione della prima e la terza della seconda”.
Conversione, espulsione e annientamento. Ossia identificazione; per “convertire” è
necessario innanzitutto identificare e ridurre i soggetti a gruppo identificabile.
“Espulsione”; ovvero allontanamento del gruppo identificato dal tessuto sociale. Ossia
concentramento in contesti territoriali esterni al corpo sociale sebbene sul medesimo
territorio nazionale, laddove l’esilio vero e proprio non sia possibile. Tant’è vero che
il termine “deportazione” non significa portare da…a, ma portare da, specificando
solo un moto da luogo, senza alcun moto a luogo.
“Annientare”, “sterminare”; cioè sistematica distruzione della popolazione
identificata e concentrata. Fasi concatenate tra loro che contengono l’una la possibilità
dell’altra. Fasi che per Hilberg hanno un retroterra storico e culturale di ben 16 secoli.
Un periodo sufficientemente lungo per sedimentare le ragioni e la logica della
conversione-identificazione e dell’espulsione-concentramento nelle coscienze,
rendendole immanenti nel tessuto sociale e pronte per essere dirette verso ulteriori
“soluzioni” a fronte delle necessità che lo “Stato di eccezione” determina ovverosia di
trasformazioni che puntano ad una rottura civile.
Tuttavia, come ha sottolineato Zygmunt Bauman, non sarebbe stato possibile
sviluppare fino in fondo tutte le condizioni sufficienti per produrre in modo efficiente
ed efficace la “soluzione finale”, qualora la “modernità” non avesse elaborato la
strumentazione necessaria per il raggiungimento del fine preposto.
“L’Olocausto – scrive Bauman – fu pensato e messo in atto nell’ambito della nostra
società razionale moderna, nello stadio avanzato della nostra civiltà e al culmine dello
sviluppo culturale umano: ecco perché è un problema di tale società, di tale civiltà e di
tale cultura (…) esercitarsi ad individuare nella germanicità del crimine l’aspetto in
cui deve risiedere la sua spiegazione è contemporaneamente un esercizio che assolve
chiunque altro e, in particolare, qualunque altra cosa (…) L’Olocausto fu il prodotto
specifico dell’incontro tra le vecchie tensioni che la modernità aveva ignorato,
trascurato o mancato di risolvere, e i potenti strumenti di azione razionale ed
efficiente creati dallo sviluppo della modernità stessa”.
Per il sociologo tedesco, lo sterminio è pertanto un’esperienza inestricabilmente
legata alla logica interna della modernità così come si è sviluppata in Occidente;
sterminio che è stato l’esito specifico dell’incontro tra le grandi trasformazioni sociali
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provocate dalla modernizzazione e gli imponenti strumenti di ingegneria sociale creati
dalla modernità stessa. Fattori tuttora operanti e diffusi e sulle cui possibili
conseguenze non dobbiamo mai smettere di interrogarci. Le riflessioni di questi due
autori evidenziano una dinamica dove sono presenti momenti concatenati tra loro e
sui quali interviene, e con i quali interagisce, il sistema culturale ed economico,
quest’ultimo con tutto il suo portato tecnologico.
“L’Olocausto è stato “l’esito di una combinazione unica di fattori di per sé assai
ordinari e comuni; e che la possibilità di tale combinazione può essere attribuita in
misura preponderante all’emancipazione dello stato politico – con il suo monopolio
della violenza e le sue esasperate ambizioni di ingegneria sociale – dal controllo della
società, emancipazione che seguì il progressivo smantellamento di tutte le fonti di
potere non politiche e di tutte le istituzioni di autogestione sociale…informazioni di
fondamentale importanza sulla società di cui siamo membri”.
21
CAMPI DI PRIGIONIA ITALIANI
Il 4 settembre del 1940 Mussolini firma un decreto con cui vengono istituiti i
primi 43 campi di internamento per cittadini di paesi nemici. In realtà in questi
campi furono concentrate varie categorie di persone. Gli ebrei italiani colpiti dal
provvedimento non furono internati in quanto ebrei (anche se i provvedimenti
d’internamento sottolineano sempre l’appartenenza alla “razza ebraica” della persona
in questione), ma in quanto antifascisti militanti o soggetti ritenuti “pericolosi nelle
contingenze belliche”. Un’altra categoria è formata da stranieri sudditi di “paesi
nemici”, ebrei e non, che si trovavano in Italia allo scoppio della guerra, (inglesi,
francesi, ma anche cinesi, spagnoli e altri) nonché da quegli ebrei stranieri che erano
fuggiti dalle persecuzioni in atto nei loro paesi, residenti in Italia o di passaggio. Per
ebrei stranieri si intendono anche cittadini italiani ebrei, non nati in Italia. Numerosi
fra gli internati furono anche gli zingari. Infine, c’erano gli antifascisti schedati
(condannati dal Tribunale speciale, ex confinati, ex ammoniti, ecc.), antifascisti
arbitrariamente trattenuti a fine pena e altri arrestati per manifestazioni sporadiche di
antifascismo.
Secondo gli studi più recenti, nel giugno 1940, al momento dell’entrata in guerra, in
Italia erano presenti poco meno di 4.000 ebrei ed apolidi passibili del provvedimento
di internamento. Si trattava di tedeschi, austriaci, polacchi, cecoslovacchi ed apolidi
(divenuti tali in seguito alla revoca della cittadinanza italiana) che, nell’estate del ‘40,
costituirono nella quasi totalità il primo grosso contingente di internati ebraici nei
campi di concentramento fascisti. Tra il 1941 ed il ‘42, sarebbe giunto il secondo
contingente dalle zone ex-jugoslave appartenenti allo stato croato o annesse all’Italia,
composto da circa 2.000 ebrei, prevalentemente slavi, e nel quale vanno inclusi anche
i 500 naufraghi del “Pentcho”, battello fluviale partito da Bratislava nel maggio 1940
coll’improbabile proposito di raggiungere la Palestina ed incagliatosi, dopo sei mesi,
nei pressi di Rodi.
Ma quanti furono i campi di concentramento in Italia?
Renzo De Felice nel suo libro “Storia degli ebrei sotto il fascismo”, parla di circa 400
tra luoghi di confino e campi di internamento.
Fabio Galluccio, nel suo saggio del 2002 “I lager in Italia. La memoria sepolta nei
duecento luoghi di deportazione fascisti” (NonLuoghi Editore), scrive che i lager in
cui erano rinchiusi ebrei, dissidenti politici, stranieri, zingari e omosessuali, erano
probabilmente quasi duecento, senza contare i luoghi di “semplice” confino. Non è
stato ancora fatto un censimento attendibile. In ogni regione italiana vi era almeno un
campo. Questi campi potevano essere gestiti da civili o militari e potevano essere
misti o solo femminili, come il campo di Lanciano (Chieti). I campi di
concentramento fascisti erano situati prevalentemente nelle provincie di Teramo
(Civitella del Tronto, Corropoli, Isola del Gran Sasso, Nereto, Notaresco, Tortoreto,
Tossicia), Macerata (Pollenza, Urbisaglia, Tolentino, Treia, Potriolo), Campobasso
22
(Agnone, Boiano, Casacalenda, Isernia, Vinchiaturo), Chieti (Casoli, Istonio, Lama
dei Peligni, Lanciano, Tollo) e Avellino (Ariano Irpino, Monteforte Irpino, Solofra).
Gli altri campi si trovavano a Fabriano e Sassoferrato (Ancona), Civitella della China
a Renicci Anghiari (Arezzo), Alberobello e Gioia del Colle (Bari), Ferramonti di
Tarsia (Cosenza), Bagno, Ripoli e Montalbano (Firenze), Manfredonia e Tremiti
(Foggia), Ponza e Ventotene (Latina), Pisticci (Matera), Lipari (Messina),
Chiesanuova (Padova), Ustica (Palermo), Colfiorito (Perugia), Città Sant’Angelo
(Pescara), Castel di Guido (Roma), Campagna (Salerno) e Cairo Montenotte
(Savona).
I campi di concentramento erano situati in luoghi isolati e poco salubri, spesso in
montagna dove l’inverno era rigido. Gli edifici adibiti a ospitare gli internati erano
monasteri, ville requisite, fattorie, fabbriche dimesse, scuole, baracche, in un caso
addirittura un cinema (Isernia) e un ex mattatoio (Manfredonia). In generale le
condizioni di vita erano primitive e umilianti. Molti edifici presentavano una serie di
problemi: freddo e umidità, mura pericolanti, pochissima luce, fornelli difettosi,
finestre, pareti e tetti non isolati a sufficienza; a tutto ciò si aggiungeva il
sovraffollamento, il vitto insufficiente e la presenza di cimici, pidocchi, ratti e
scorpioni. L’assistenza sanitaria agli internati era prevista, ma poteva essere concessa
o rifiutata arbitrariamente, come avvenne nel caso di un’antifascista romana internata
a Mercogliano (Avellino), malata di cuore, la cui domanda di sottoporsi a una
radiografia toracica venne respinta dal Ministero dell’Interno.
I campi fascisti non erano dei lager, ma unicamente dei campi di concentramento. Le
condizioni di vita, già difficili e deprimenti per tutti, peggiorarono tuttavia
ulteriormente con l’arrivo, nell’aprile del 1941, degli sloveni e croati rastrellati in
seguito all’occupazione italiana della Jugoslavia. Sull’elenco Crowcass, compilato
dagli alleati angloamericani nel 1944/45 figurano oltre trenta nominativi di persone –
direttori o funzionari dei campi di concentramento fascisti – ricercate dalle autorità
jugoslave per crimini di guerra.
All’8 settembre del 1943 molti internati, in particolare gli sloveni e croati e gli ebrei
stranieri, si trovavano ancora rinchiusi nei campi di concentramento e nelle località
d’internamento, finendo così nelle mani dei nazisti che li deportarono in Germania o
nei campi di sterminio in Polonia. Valga per tutti il caso di Davi Bivash di 54 anni,
ebreo di origine greca internato a San Severino Marche (Macerata) e lì arrestato il 30
novembre 1943 da italiani. Il 5 aprile fu deportato dal campo di concentramento di
Fossoli ad Auschwitz, da dove non è più tornato.
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Resistenza
8 settembre 1943: i tedeschi a Parma
La notte tra l’8 e il 9 settembre 1943 lampi ed esplosioni d’artiglieria squarciarono le
tenebre in più punti della città, risvegliando bruscamente i parmigiani. Anche a
Parma, dopo l’annuncio radiofonico dell’armistizio, era scattato il “piano Achse”
predisposto dai comandi tedeschi per l’occupazione militare del territorio italiano.
Unità del 1° Reggimento granatieri corazzati Leibstandarte SS Adolf Hitler,
acquartierate già da diverse settimane nelle campagne tra Parma e Reggio Emilia,
avevano aperto il fuoco contro le installazioni dell’esercito italiano. Le prime
cannonate tedesche colpirono il Palazzo del governatore in Piazza Garibaldi, sede del
Comando di presidio, causando una vittima tra i militari di guardia che risposero al
fuoco. Intorno alle quattro del mattino vennero attaccate le caserme della Cittadella e
della Pilotta, la sede delle Poste e telegrafi in Via Pisacane, la Scuola d’applicazione
della fanteria nel Palazzo Ducale. Fu in questi ultimi due punti che i combattimenti si
svolsero più aspri. Particolarmente intorno alla Scuola di applicazione dove gli
ufficiali-allievi e i soldati dei servizi (poco più di duecento uomini in tutto, cinque i
caduti) resistettero fino alle sette quando i tedeschi fecero irruzione. Quasi
contemporaneamente si svolgeva l’ultimo episodio di resistenza ai tedeschi ad opera
dei carristi del 433° Battaglione complementi carri M che, giunti da Fidenza coi loro
blindati, ingaggiarono il combattimento nella zona compresa tra Barriera N. Bixio e
Piazzale Marsala; anche qui l’artiglieria anticarro tedesca ebbe presto il sopravvento:
sei i militari italiani caduti. La mattina del 9, la città era ormai pienamente sotto il
controllo delle armi tedesche.
In provincia, reparti del 51° Corpo d’Armata di montagna avevano preso posizione
nell’area da Fornovo fino al crinale appenninico, schierandosi a presidio dei principali
valichi (Cisa, Bocco, Centro Croci) ed occupando i centri di Berceto e Borgotaro.
A Fontanellato la mattina del 9, anticipando l’arrivo delle truppe tedesche, quasi
600 ufficiali britannici evasero dal campo di prigionia PG 49, con la complicità
del comandante italiano che per questo venne poi deportato in Germania. Molti
fuggiaschi, soccorsi e nascosti dalla popolazione locale, avrebbero
successivamente raggiunto la Svizzera; altri sarebbero stati avviati verso
l’Appennino, talvolta unendosi alle prime bande partigiane. Tra il 9 e il 10
settembre fuggì anche una parte considerevole degli internati civili jugoslavi rinchiusi
nel campo di concentramento di polizia del castello di Scipione (Salsomaggiore
Terme) e dei “sudditi di paesi nemici” internati nel castello di Montechiarugolo.
Peggiore sorte toccò, invece, ai circa 7000 militari italiani che, catturati dai tedeschi e
concentrati in Cittadella, dal giorno 11 furono trasferiti in camion a Mantova e di là in
Germania.
24
In quei medesimi giorni si verificarono a Parma episodi di saccheggio da parte della
popolazione affamata alle caserme abbandonate, ai magazzini del formaggio, ai
depositi merci ferroviari. Ben poca cosa, tuttavia, se paragonati alla metodica opera di
spoliazione condotta dalle SS che, oltre al bottino di guerra depredato negli impianti
militari, si dedicarono alla razzia di vestiario e di derrate alimentari, alla requisizione
di automobili e di biciclette. Il comando territoriale si stabilì in Piazza Garibaldi, nel
Palazzo del governatore. Il comando presidiario delle SS fissò la sua sede nella
caserma della Pilotta mentre il grosso dei reparti si acquartierava nel Parco ducale.
Venne imposto il coprifuoco e l’obbligo di un permesso di circolazione per chi
doveva viaggiare.
La nascita del CLN di Parma
La mattina del 9 settembre i dirigenti parmensi del Partito comunista, unico a disporre
in quel momento di una struttura clandestina efficiente, si erano riuniti a Villa Braga
in località Mariano. Al termine della riunione venne deciso di proseguire nella
costruzione di una rete clandestina possibilmente unitaria che coinvolgesse le altre
forze politiche antifasciste nei preparativi per una eventuale lotta armata contro i
tedeschi. Il Comitato d’Azione Antifascista composto da comunisti, socialisti e
cattolici e formatosi nel 1942 si era sciolto al termine di una riunione avvenuta la
notte precedente. A Villa Braga furono presi anche i primi provvedimenti necessari
per rendere operativa l’organizzazione clandestina: raccolta di armi, soldi, viveri,
aiuto ai soldati sbandati, ai prigionieri alleati fuggiti dal campo di prigionia PG 49
di Fontanellato e ai ricercati dai tedeschi, collegamenti col centro nazionale
dell’antifascismo organizzato.
La scelta del PCI di accelerare i tempi non ostacolò la ripresa dei contatti con gli altri
partiti e nello studio di Giuseppe Micheli, notaio, ministro, deputato, dirigente di
spicco del Partito popolare in età prefascista ed esponente dell’antifascismo
Parmense, il 15 ottobre venne costituito il CLN di Parma. Comprendeva comunisti,
socialisti, democristiani, repubblicani e membri del Partito d’Azione.
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Storia del Centro Cardinal Ferrari
La madre del Cardinale beato Andrea Ferrari lo porta infante, gravemente malato, ai
piedi della Madonna di Fontanellato ottenendo piena guarigione.
Don Andrea Carlo Ferrari (Lalatta di Palanzano, 13 agosto 1850 – Milano, 2
febbraio 1921) è stato un arcivescovo cattolico e cardinale italiano della Chiesa
cattolica. Vescovo di Como, arcivescovo di Milano dal 1894 al 1921, fu proclamato
beato da papa Giovanni Paolo II nel 1987. Celebra la sua prima Messa (21 - XII -
1873) sull'altare del santuario che lo vide recuperare la salute; arcivescovo di Milano,
solennizza il giubileo sacerdotale (21 dicembre 1898) ancora sull'altare della
Madonna di Fontanellato. Come pegno del suo amore e della pia gratitudine a Maria
lascia un bellissimo calice sbalzato con policromie incastonate. La sua devozione,
manifestata ancora nelle immancabili visite annuali a ricordo del suo battesimo,
meritò d'essere immortalata nel monumento bronzeo, innalzato davanti alla facciata
del santuario (1925), che lo vede inginocchiato in atto di intensa preghiera. È
l'immagine del "pellegrino".
L’immagine del religioso che promuove la devozione alla Madonna del Rosario è
impersonata da padre Giacinto Mazzetti (1869-1951), uno dei cinque chierici usciti
dal seminario di Parma per farsi domenicani. A lui si devono le seguenti opere: la
costruzione della monumentale facciata del santuario su magistrale disegno
dell'architetto Lamberto Cusani di Parma; la solennissima incoronazione della
Madonna del Rosario avvenuta nella cattedrale di Parma il 21 maggio 1925; la
creazione del monumento bronzeo del cardinal Ferrari inaugurato il giorno dopo la
suddetta incoronazione; la fondazione dell'Orfanotrofio nazionale Madonna di
Fontanellato.
Padre Mazzetti da giovane fu brillante predicatore itinerante. Calcando i pulpiti
d'Italia ebbe modo di conoscere ed ammirare il santuario di Pompei e le opere sociali
che il terziario domenicano Beato Bartolo Longo (1841-1926) vi aveva annesso a
soccorso di tanta innocenza forzatamente abbandonata. La devozione alla Madonna
deve tradursi in opere di misericordia. Sull'esempio del vulcanico avvocato
napoletano Bartolo Longo il sanguigno frate emiliano fece sorgere a fianco del
santuario della Madonna di Fontanellato l'orfanotrofio, la cui prima pietra fu posata
nel 1929, grazie alle offerte ovunque questuate con il foglio "Fiorita Mariana"
proponendo l'offerta di 50 centesimi per un mattone! Il Mazzetti, seppur sprovvisto di
mezzi economici, seppe ottenere il continuo contributo della pubblica carità a partire
dalla donazione del terreno compreso fra il cimitero ed il Santuario. Progettista del
grandioso edificio fu ancora l'architetto Cusani. Mentre il fabbricato prendeva corpo,
padre Mazzetti apriva a Casalbarbato vicino a Fontanellato un piccolo orfanotrofio
affidandolo alle suore domenicane della Beata Imelda, fondate a Venezia da padre
Giocondo Lorgna O.P. (1870-1928) che agli inizi del secolo fu per quattro anni
Superiore del convento di Fontanellato e zelantissimo apostolo della Madonna del
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Rosario.
Quando la costruzione
dell'orfanatrofio era quasi
finita scoppiò la II guerra
mondiale (1940). Requisito
dal governo, l'orfanotrofio
fu successivamente
prigione di ufficiali inglesi.
La mattina del 9 settembre 1943, anticipando l’arrivo delle truppe tedesche, quasi 600
ufficiali britannici evasero dal campo di prigionia PG 49, con la complicità del
comandante italiano che per questo venne poi deportato in Germania. Fu saccheggiato
durante il governo Badoglio, trasformato in scuola per allievi ufficiali della
Repubblica di Salò, perciò bombardato dagli alleati, come ricorda la lapide tuttora
presente nella cappella interna (foto di Gabriele Cavalli).
Padre Mazzetti, che per cinque anni assistette impotente allo scatenarsi della furia
bellica contro quest'opera di misericordia, al termine della vita († 1951) ebbe il
conforto di vedere grosse nidiate di orfanelli, d'ambo i sessi, raccolte nella "Casa del
Fanciullo Madonna di Fontanellato", perfettamente rimessa a nuovo dal dinamico
sacerdote domenicano padre Domenico Acerbi (1900-1984) e diretta con tanto amore
dalle suore domenicane della Beata Imelda.
L'orfanotrofio di Fontanellato, modello di organizzazione e di metodo educativo, fu
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aperto nel 1948, conobbe il massimo splendore nei decenni 1950-1970 raggiungendo
il numero di 250 assistiti e di 23 suore, e fu chiuso nel 1982 a seguito delle leggi
regionali sull'assistenza dei minori. Venne sostenuto in parte da Enti pubblici (Enaoli)
e in parte dalla popolazione, tanto devota alla Madonna quanto generosa a favore
dell'innocenza.
Nel 1993 l’immobile venne acquistato dalla Compagnia di San Paolo per essere
destinato ad istituto di riabilitazione a cui venne dato il nome di Cardinal Ferrari. Dal
1999, infatti, è sede del Centro Cardinal Ferrari, oggi parte dell’Istituto Santo Stefano
del Gruppo Kos. Negli anni si è affermato come uno dei principali punti di
riferimento italiani nel settore della riabilitazione per gravi cerebrolesioni acquisite,
con pazienti provenienti da tutte le regioni d’Italia.
Il progetto “Centro Cardinal Ferrari” è nato dalla necessità di soddisfare le esigenze
riabilitative legate al progressivo aumento del numero di pazienti con disabilità
secondarie ai gravi traumi cranioencefalici e alle cerebrolesioni acquisite. La
complessità e la molteplicità dei deficit che caratterizzano le gravi cerebro lesioni
hanno portato il CCF a sviluppare competenze specialistiche che consentono di dare
risposta anche alle esigenze di pazienti con esiti di patologie diverse dalla
cerebrolesione acquisita, ma simili per manifestazione.
Il Centro Cardinal Ferrari ha compiuto il primo ottobre 2009 i suoi primi dieci anni di
attività.
In questi dieci anni il Centro si è affermato come uno dei principali punti di
riferimento italiani nel settore della riabilitazione per gravi cerebrolesioni acquisite,
con pazienti provenienti da tutte le regioni d’Italia. Ha sede presso un immobile di
prestigio architettonico.
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La vita del Beato Andrea Carlo Ferrari
Arcivescovo di Milano
Nacque a LALATTA, frazione di PRATOPIANO, nella Diocesi di
Parma, il 13 Agosto 1850 da Giuseppe e Maddalena Longarini. Nel
1861 fu accolto nel Seminario di Parma per i primi studi
ecclesiastici. Il 20 Dicembre 1873 fu ordinato Sacerdote e il 21
dello stesso mese celebrò la sua prima Messa al santuario della
Madonna di Fontanellato. Nel Febbraio 1874 fu nominato Delegato
Vescovile (ufficio di parroco) di Mariano, paese presso Parma. Il 4
Luglio dello stesso anno divenne coadiutore dell'Arciprete di
Fornovo di Taro. Nell'autunno del 1875 fu nominato Vicario
Curato di S.Leonardo, ma subito dopo richiamato in Seminario
quale vicerettore del Seminario e professore di fisica e matematica.
Nel 1877 divenne Rettore del medesimo Seminario, dove dal 1878
insegnò Teologia fondamentale, Storia ecclesiastica e Teologia
morale : nel 1885 dava alle stampe il frutto dei suoi insegnamenti :
una Summula theologiae dogmaticae generalis, che prima della
fine del secolo conobbe tre edizioni. Il 29 Maggio 1890 venne
eletto Vescovo di Guastalla e fu consacrato a Roma dal Card.
Parocchi. Esattamente un anno dopo, il 29 Maggio 1891 era
trasferito alla sede di Como, dove si distinse per lo zelo, che lo
portò a visitare tutta la vastissima Diocesi : "il Vescovino di
Como", come lo chiamava con simpatia il suo vicino, il vecchio
buon Arcivescovo di Milano Luigi Nazari da Calabiana. E poi
Mons. Nazari morì e il Vescovino, che era fuori Como per la visita
pastorale, seppe che a Roma si era deciso per lui come successore.
Nel Concistoro del 18 Maggio 1894 fu creato Cardinale prete del
titolo di S. Anastasia ed il 21 dello stesso mese nominato
Arcivescovo di Milano. Fu in quell'occasione che assunse accanto
al suo nome di Battesimo -Andrea- anche quello di Carlo, in onore
di S. Carlo Borromeo. Nel Marzo del 1895 iniziò la sua prima
visita pastorale, che ripetè cinque volte, non trascurando le
parrocchie alpine. Durante le visite rivolgeva più volte la parola ai
fedeli, faceva l'esame della dottrina cristiana ai fanciulli,
amministrava la Cresima e distribuiva l'Eucaristia, spesso
consacrava chiese : qui a Legnano ha consacrato Legnanello,
S.Domenico, SS.Martiri e la Madonna delle Grazie. Celebrò il
Sinodo diocesano, che non si teneva dal 1687, nel 1902 e ancora
nel 1910 e nel 1914, mentre nel 1906 adunò il Concilio
Provinciale. Volle inoltre diversi congressi : quello Eucaristico (1-5
Sett.1895), il XV Congresso della Musica Sacra, che fece
conoscere il giovane Lorenzo Perosi in occasione delle feste per il
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XV centenario della morte di S.Ambrogio (maggio-dicembre
1897). Celebrò solennemente il cinquantesimo anniversario del
Dogma dell'Immacolata (1904) e delle apparizioni di Lourdes
(1908) e nel 1910 organizzò le feste per il terzo centenario della
canonizzazione di S.Carlo celebrando anche in quell'occasione un
sinodo ed un congresso catechistico. Nel 1913 promosse le
"settimane costantiniane", a ricordo del XVI centenario dell'editto
di Costantino. L'Arcivescovo Ferrari s'interessò anche ai problemi
sociali, e in omaggio all'enciclica di Leone XIII Rerum novarum
istituì in Seminario la cattedra di economia sociale, affidandola al
prof. Giuseppe Toniolo dell'Università di Pisa, quindi al prof.
Dalmazio Minoretti, che sarebbe diventato poi Cardinale e
Arcivescovo di Genova. Sotto il suo impulso, il clero si dedicò con
entusiasmo alle opere sociali (casse rurali, società di mutuo
soccorso, leghe operaie, agricole, ecc...). Anche la stampa cattolica
diocesana ebbe le cure dell'Arcivescovo : al suo arrivo a Milano,
essa era rappresentata da due quotidiani in lotta fra loro :
L'Osservatore Cattolico, fondato e sostenuto da D. Davide
Albertario, campione dell'intransigenza contro lo Stato Italiano, e
la Lega Lombarda, che invece era per l'accettazione dell'Italia unita
e per il dialogo con essa (guarda guarda...). Il Ferrari tentò la
fusione dei due giornali con la fondazione de L'Unione, che si
chiamò poi l'Italia (che negli anni '60 di questo secolo si sarebbe a
sua volta fusa con l'Avvenire d'Italia di Bologna, dando origine
all'attuale Avvenire.). Nel 1898, durante i gravissimi disordini
scoppiati a Milano a causa del malessere sociale, lo si accusò di
tutto : di aver fomentato la rivolta in odio allo stato italiano, di
essere fuggito nel giorno più sanguinoso della rivolta, con la scusa
della visita pastorale che lo attendeva ad Asso, di non avere il
coraggio di rientrare in città... il Generale Bava Beccaris, tra una
cannonata e l'altra contro gli operai, gli dedicò una lettera
sprezzante ed offensiva, la stampa lo denigrò senza complimenti, e
si arrivò a spargere la voce che Ferrari era ormai finito, e che il
Papa l'avrebbe imboscato in Vaticano. Ferrari non si arrese e restò
al suo posto : c'era un'altra tempesta da affrontare, ben più
dolorosa, che doveva venirgli dall'interno della Chiesa di lì a
qualche anno. Durante la campagna antimodernista (primo
decennio del secolo), il Cardinale, così ossequiente alle direttive
della S. Sede, fu sospettato di deviazionismo se non proprio di
eresia, e come tale pubblicamente attaccato da intransigentissimi
giornali cattolici, quali La Riscossa di Vicenza e La Liguria di
Genova. Nell'accusa -presa per buona purtroppo dal Papa S. Pio X-
vennero coinvolti il seminario e il clero : né le precisazioni
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dell'Arcivescovo, né le lettere spedite in Vaticano da molti Vescovi
e Cardinali servirono a chiarire l'equivoco : il Ferrari allora si
chiuse nel silenzio e nella preghiera aspettando che l'ora delle
tenebre passasse. E l'ora passò : negli ultimi mesi della sua vita, Pio
X fu udito dire :"Su Ferrari ci siamo sbagliati". Ma fu soprattutto il
nuovo Pontefice, Benedetto XV, a consolare l'Arcivescovo. Ma
intanto un'altra tribolazione colpiva il Ferrari con tutto il suo
popolo, la Prima Guerra mondiale. Durante il periodo bellico, il
Cardinale si dedicò alla più attiva carità verso gli orfani, le vedove,
le famiglie disagiate, i soldati, i prigionieri, e nella ricerca dei
dispersi. E finalmente, anche nell'opinione pubblica più
anticlericale, si dissipò il pregiudizio che faceva apparire il Ferrari
come antipatriota. Dopo la guerra comparvero i primi sintomi della
malattia che lo doveva condurre alla morte : un cancro alla gola.
L'Arcivescovo tentò di lavorare fino all'ultimo (era stato
laringectomizzato e non aveva più l'uso della parola, e allora
scriveva). E quando dovette mettersi definitivamente a letto, il
popolo della città e della diocesi pellegrinò ininterrottamente alla
sua stanza per ricevere ancora una volta la benedizione del suo
pastore. Morì santamente al tramonto del 2 Febbraio 1921, e fu
sepolto nel Duomo all'altare della Virgo Potens. Giovanni Paolo II
lo beatificò in S. Pietro, il 10 Maggio 1987.
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Racconto della maestra Barbara Arduini
“…Quando ero piccola frequentavo l’asilo “Galeotti” gestito dalle Suore di
Fontanellato. Ricordo con intensità l’odore particolare delle merende dentro i cestini
posti all’interno dell’armadio a muro del corridoio se la minestra veniva preparata
dall’asilo, i genitori dovevano pensare ai secondi piatti: così il grande armadio
emanava ogni giorno un profumo misto di frittata e bistecca fritta, frittelle e
formaggio. Ma non tutto, all’asilo, era così spensierato.
Ad esempio, quando i bambini avevano combinato un guaio venivano riuniti nel
salone. Disposti tutti in cerchio attendevano l’arrivo della madre superiore Eusebia.
La suora entrava tenendo in braccio una grande bambola chiamata Rosetta. Si sedeva
davanti a noi piccoli tenendo Rosetta sul grembo. Iniziava poi a interrogare la
bambola chiedendole: “Rosetta dimmi oggi cos’è successo? Chi è stato bravo e chi si
è comportato male?”.
Metteva poi l’orecchio vicino alla bocca della bambola, faceva finta di ascoltare con
aria accigliata e poi svelava tutte le marachelle combinate dai bimbi. Rosetta non mi
faceva paura, ma riusciva sempre a stupirmi e vedevo riflessa la paura negli occhi
degli altri bambini. Mi sono sempre chiesta come facesse quella bambola sempre
chiusa al piano superiore dell’asilo a sapere tutto della vita dei bambini.
Se magari vicino a una siepe di more ne staccavo qualcuna, tra me e me, mi guardavo
attorno guardinga pensando: “Stavolta Rosetta non lo viene certo a sapere perché
attorno a me non c’è nessuno!...”
E puntualmente venivo smentita…”.
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Il Progetto PG 49 e la Residenza per Anziani “Peracchi”
La classe 3^A, nell’ambito del progetto PG 49, si è recata alla residenza per
anziani Peracchi ad intervistare gli ospiti per capire come fossero le loro
condizioni di vita all’epoca di guerra e per ricavare ulteriori informazioni
riguardanti il campo di prigionia di Fontanellato.
Altre indicazioni sono state ricavate da giornali, oggetti, documenti storici, foto e
pagine web.
Peracchi Lorenzo
Lorenzo Peracchi era figlio di una famiglia benestante della fine del ‘700 ed inizio
dell’800.
Sposò da giovane, una coetanea di nome Magnani Costanza, donna nobile d’animo e
valori. Ebbero la sfortuna di non avere figli. Molto innamorato della moglie, rimase
molto colpito quando ella s’ammalò ed inseguito morì. Il giorno 27/02/1846 Peracchi,
a ricordo della sua amata e a favore dei Miseri (così definiti nella lapide della
memoria che si trova nella Casa Protetta) donò un importante lascito per la
costruzione di un Ospedale per i Malati ed i Poveri di Fontanellato.
Dopo la morte di Lorenzo, l’ospedale divenne anche ospizio per i pellegrini del
Santuario o della Via Francigena.
Intorno al 1920/1930 diventò Ospedale Civile Peracchi (come dice tutt’ora la dicitura
che sovrasta la struttura), dove vi era il Reparto di Maternità, il posto nel quale
nascevano i “nuovi” fontanellatesi.
L’Istituzione venne trasformata nel 1965 circa in Casa di Residenza per Anziani.
INCONTRO CON GLI ANZIANI AL PERACCHI
Alla casa di riposo Peracchi gli anziani ci hanno raccontato alcune storie vissute nella
seconda guerra mondiale.
Una signora di ottantasette anni ci ha raccontato la sua brutta esperienza della guerra,
ci ha detto che la notte se una persona aveva una lampada accesa arrivava un aereo
chiamato Pippo che mitragliava tutto. Poi mi ha raccontato che lei aveva degli alberi
di castagne e sulle foglie si vedevano tutti i buchi che facevano i proiettili. Gli uomini
si nascondevano nelle montagne per non farsi trovare dai nazisti, ma poi venivano
trovati e venivano portati in Germania per essere uccisi. A Fidenza in tutto furono
buttate trecento bombe. A lei i tedeschi avevano portato via i cavalli e le mucche.
Il signor Athos che ci ha narrato anche lui delle cose molto interessanti, ad esempio
che lui quando aveva quattro o cinque anni era salito su un carro armato inglese che si
chiamava Tiger che poi è diventato tedesco. La fame era tanta: in un caseificio davano
da mangiare ai maiali delle patate piccole, ma il padrone del caseificio si era messo
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d’accordo di lasciar un’entrata aperta così le persone potevano andare a prendere le
patate per mangiarle.
La signora Elsa Repetti ci ha raccontato che lei e sua mamma di notte dormivano nel
solaio della loro casa, perché nel letto matrimoniale della camera ci dormivano i
nazisti. Sua mamma e delle altre persone si scambiavano il sale e la farina, perchè in
quel tempo sia il sale che la farina costavano molto perché si dovevano comprare nel
mercato nero, ma anche il pane costava molto e veniva preso sempre nel mercato
nero. La notte dormivano in mezzo al frumento senza che i nazisti li vedessero.
Poi c’era il signor Otello che ci ha raccontato la poesia che spiegava la storia di un
militare che era tornato dalla guerra ma poi quando si era presentato davanti alla porta
di casa, suo papà gli ha aperto la porta e lo ha ucciso con una fucilata. Sempre il
signor Athos ci ha detto che se una persona doveva andare in comune, davanti
all’entrata c’era un militare e uno gli doveva dire tutto quello che doveva fare in
comune altrimenti non poteva entrare.
La signora Isabella Arcari che ci ha raccontato che lei lavorava nel castello a
Castelguelfo e lì si erano impadroniti di tutto i tedeschi.
Claudio Bonitta
Oggi al Peracchi abbiamo avuto molte testimonianze da alcuni anziani: Athos- Elsa
Repetti-Isabella Arcari- Maria-Otello- Giovanni.
“Mio padre è stato prigioniero in Inghilterra, poi andò a casa di un signore e
sfogliando alcuni libri trovò un immagine della Rocca di Fontanellato e riferì al
signore la seguente frase: – Io vivo qui.”
“Un tempo data la povertà, le persone in miseria mangiavano le bucce di patate
bollite, destinate ai maiali”
Athos
“Io all’età di 13 anni nell’adolescenza, lavorai tre mesi nel castello di Castelguelfo.
C’erano dodici camerieri. C’erano la guerra, i bombardamenti e dei tedeschi che
venivano per alloggiare; io e le mie amiche eravamo carine e giovani, questo era un
pericolo per noi. Si vedevamo dei buchi nel Taro a causa delle bombe. Mia sorella era
ferita e la portammo all’ospedale e ci ha dormito tre mesi. Si aveva paura dei
tedeschi.”
Isabella Arcari
“Noi giovani eravamo consapevoli della guerra.”
Athos- Elsa Repetti-
Isabella Arcari- Otello- Giovanni.
“Mio padre non mi faceva uscire di casa perché c’era la guerra.”
“Al tempo della guerra le imposte delle finestre erano malmesse e anche se erano
chiuse si vedevano da fuori gli spiragli di luce; ogni sera arrivava un aereo che
bombardava tutto ciò che si muoveva o che emetteva luce sotto di lui, quindi avevamo
un codice per dire che stava arrivando ed urlavamo è: <<E’ arrivato Pippo!>>. Si
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dovevano spegnere tutte le candele e restare fermi.”
Athos
“Per il mercato nero noi producevamo il sale, facendo essiccare l’acqua di mare e
ricavando del sale sul fondo della pentola a pressione.”
Isabella Arcari
“I tedeschi non erano poi così cattivi, pensate che io ho visto dei ragazzi tedeschi
piangere dopo aver ucciso qualcuno. Loro non erano cattivi, facevano solo quello che
era loro imposto”. “Durante la guerra però gli italiani hanno fatto la loro parte.- Athos
-Infatti io per i partigiani ho perso tre biciclette.- Isabella Arcari
-Io con la carta topografica insegnavo la strada ai fuggitivi.- Maria
“Arrivarono dei tedeschi e il mio cane iniziò a mordere la gamba a uno di loro e lo
graffiò, per questo lo straniero ‘fece sangue’ del cane. Poi gli uomini e i ragazzi si
nascondevano nelle montagne per non essere portati nei campi di lavoro, ma quando li
trovavano li uccidevano.”
Maria
Montanari Asja e Martini Alex
Athos: “Una volta mangiavamo molta polenta e patate, la carne invece si mangiava la
domenica (forse). A volte la polenta la mettevano davanti al camino per farla
abbrustolire, la mangiavano anche al mattino. Una volta si mangiava di tutto, non
c’erano tutte le allergie che ci sono ora.
Una volta si camminava scalzi, ora non si può più, c’erano le strade non asfaltate e se
volevi andare tipo a Parma all’ospedale ci andavi in bici o a piedi, oppure si prendeva
la corriera, le macchine non c’erano e se si, erano una o due. Riguardo la scuola
invece, i maschi erano divisi dalle femmine ed erano sotto mentre le femmine erano
sopra e infatti le entrate erano divise. Quando chiacchieravi o facevi il “monello” o
non studiavi ti mandavano sopra dalle femmine dietro alla lavagna oppure ti davano le
bacchettate sulle mani. L’istruzione arrivava fino alla 5^ elementare per i più poveri
mentre per i più ricchi c’era la possibilità di proseguire poi alle medie, anche perché le
famiglie (dei meno ricchi) avevano bisogno che i figli iniziassero a lavorare nei campi
o nella stalla. Il maestro era uno solo per tutte le materie”.
Elsa: Durante la seconda guerra mondiale, lei viveva a Parma e aveva 16 anni.
Lavorava come sarta. Lei abitava dove erano situate due ferrovie Suzzara e Roma.
Sulla ferrovia si trovavano i treni tedeschi ed erano pieni di viveri. La signora ha
aperto un vagone, era pieno di tedeschi e di americani. Su un vagone c’erano delle
forme di formaggio, le trovarono e ne portarono a casa una a testa. Vi erano così tante
forme di formaggio che quando ne prendevano una, le altre le passavano tra le gambe.
Visto che erano tempi in cui il cibo scarseggiava, per non farselo rubare, tagliavano le
punte di formaggio, le celavano sotto le foglie di verza dell’orto e la sera le portavano
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in casa. Ella racconta di altri episodi in cui le è capitato di andare a rubare sui vagoni
tedeschi, un esempio è quando andò a saccheggiare un carico di farina, anche se non
andò a buon fine, poiché i tedeschi se ne accorsero e le spararono, ma per sua fortuna
non la colpirono e riuscì a portarsi il suo sacco a casa, oppure quando aveva trovato
un carico di sigarette e le dava agli uomini in cambio di viveri. Il cibo che
possedevano era desiderato da molte persone, proprio come i suoi parenti che
aspiravano alle sue riserve di alimenti e avevano cominciato ad andarla a trovare, ma
lei non cedeva alle assidue richieste o solo in minima parte. Poiché suo padre era
morto e non potevano più contare sui pezzi di carne che lui rubava dal macello in cui
lavorava, erano costretti a fare affidamento sulle loro forze (il coraggio di Elsa) e sul
loro orto. Sua sorella lavorava per la Barilla, come ragioniera, ed i tedeschi le avevano
donato un buono per prelevare due etti di olio e 10 kg di pasta al mese, ma non
sempre bastavano per sfamarsi, per questo motivo la signora Elsa e sua mamma, di
notte andavano nelle stalle e riempivano le borse dell’acqua calda con del latte e le
nascondevano sotto i vestiti. Di notte andavano sempre a dormire via da casa loro
allontanandosi con le biciclette per paura che gli aerei bombardassero le bombole di
gas che avevano vicino casa. Lei aveva paura degli aeroplani, perché quando suonava
l’allarme sapeva che stavano buttando i Bengala. Il territorio parmense ha subito dei
grandi mutamenti dalla seconda guerra mondiale ad oggi: le case ed i capannoni che
c’erano all’epoca ora sono scomparsi. Durante la guerra i tedeschi andavano nelle
osterie, portavano via tutti i viveri e poi facevano saltare in aria i ponti di
collegamento. La sua casa era stata distrutta così come alcuni capannoni e si erano
riparati in una stalla.
Intervista al figlio di un’ospite
Tutt’intorno al campo di prigionia di Fontanellato c’erano delle garitte di legno
con dentro le guardie, che dominavano tutto il campo e dovevano badare agli
ufficiali inglesi. Lui, allora un bambino, aveva visto giocare gli inglesi con un
pallone ovale (da rugby), che allora era uno sport ancora ignoto. L’otto
settembre, i prigionieri inglesi fuggirono, con la liberazione e gli abitanti di
Fontanellato andarono a rubare le cose nei campi. Non tutti i tedeschi erano
“cattivi”, un esempio è quando, questo ragazzo, venne accompagnato su un carro
armato da dei tedeschi. Era un carro armato Tiger, foderato di velluto rosso e a
questo bambino era apparso come una meraviglia. I soldati tedeschi diedero a
questo bambino una caramella, che qui in Italia non era ancora arrivata. Il
giorno della liberazione, cinque soldati inglesi fuggirono su un carro armato e lo
maneggiarono facendo oscillare in alto e in basso, un soldato inglese si aggrappò
alla torretta e lo fecero salire.
Durante la guerra, furono lanciate solo a Fidenza 318 bombe. In quegli anni
scarseggiava il metallo, per questo motivo venivano usate anche le ringhiere di
metallo per fare i bossoli. In campagna si scavavano delle buche nelle stradine, non
ancora asfaltate, per proteggersi durante i frequenti bombardamenti. Sempre in questo
periodo buio, alle donne venivano confiscate le fedi nuziali d’oro. Coloro che
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risiedevano in campagna dovevano dare i loro animali allo Stato ed i tedeschi,
caricandoli sui vagoni, li portavano via.
Pinardi Greta e Lori Federica
Luigi Borella ( Noceto)
Il signor Luigi, doveva finire l’università ma nel 1942 lo hanno chiamato per
arruolarsi ed andare in guerra. Poi venne imprigionato.
Ci ha raccontato che la vita in guerra era molto difficile e dura perché non c’era molto
cibo e per guadagnarselo, siccome lui non fumava, barattava il cibo con le sigarette e
alcune volte i soldati Tedeschi davano a loro da mangiare le gallette e al mattino
offrivano solo latte caldo e caffè.
Quando i soldati non rispettavano i comandi dei superiori venivano legati contro dei
pilastri e picchiati davanti ai propri compagni, con bastoni di gomma perché non
lasciavano segni sulla pelle ma i colpi erano dolorosi ugualmente, perché a volte
arrivavano controlli esterni, dagli svizzeri, per vedere la condizione dei prigionieri.
Venivano svegliati alle sei del mattino dal suono delle sirene e dormivano all’interno
di tende; li mandavano a lavare in spazi aperti anche quando il clima era freddo, a
dorso nudo venivano bagnati con acqua gelata da una canna.
Il signor Luigi ci ha spiegato che le lettere che ricevevano erano solo in lingua Latina
e Greca che vagamente capiva grazie ai suoi studi al Liceo Classico, ma egli non
riusciva a far arrivare a casa notizie di quello che stava passando. Nel campo in cui
era stato deportato (Campo di internamento), gli facevano fare lavori molto strazianti
ed il più pericoloso era minare il territorio per far saltare in aria i carri armati.
Luigi Borella, nonostante in guerra non abbia ucciso nessuno, ha comunque visto la
morte da vicino, perché sono stati uccisi alcuni suoi compagni: erano sul Monte
Penna, lui si era piegato per raccogliere delle more ed intanto i suoi amici furono
colpiti da spari.
Luigi era stanco di quella vita e di tutta la morte intorno a lui allora, un giorno tra il
1943-1944, decise insieme a due suoi compagni di scappare dal campo e si diresse in
Garfagnana, in Toscana.
Egli era capace di scendere dalle montagne, infatti continuò nella fuga, al contrario
dei suoi compagni che erano inesperti. Di loro non ha più avuto notizie.
Nel 1944 Luigi Borella, venne trovato dagli americani e confessò loro che era
schierato dalla loro parte, ma gli americani poco convinti, lo mandarono in un campo
di internamento. In seguito fu spedito nel campo di Coltano, provincia di Pisa, dove
nel 1945, venne liberato e fu portato a Noceto da un camionista che incontrò nel
tragitto del ritorno. Il 29 settembre 1945 verso sera arrivò finalmente nella sua
dimora.
Manghi Ingrid e Arba Nicholas
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Poesia sulla seconda guerra mondiale (recitata a memoria da Otello)
L’anno 1940, quando l’Italia entrava in guerra
Elio Fellini lasciò la sua terra
e a soldato per il fronte partì.
Salutava il babbo e la mamma
abbracciava la moglie e bambino,
destinato al fronte alpino
e per 6 mesi in Francia restò.
Dopo in Africa settentrionale poi in Grecia e Iugoslavia
da un fronte all’ altro girava
sotto il pericolo tremendo infernal.
Ecco il giorno dell’otto settembre dei tedeschi lui fu prigioniero,
nell’idea non gli pare al vero
ma la sorte dovette subir
caricati la sopra quel treno fitti fitti
da dentro i vagoni tutti chiusi come i leoni
senza bere e senza mangiar.
Sempre in viaggio così giorno e notte in Germania noi siamo arrivati.
Dolenti trattati come animal dopo divisi in tanti gruppetti ci hanno rinchiusi.
E la dentro in mezzo ai campi di concentramento,
acqua e patate fu il nostro mangiar.
Bombardamenti mitragliamenti combattimenti della posizione
già si sente tuonare il comandante si avvicina la liberazione.
Al 25 del mese di aprile arrivati son gli alleati,
noi prigionieri ci han liberati
una gran festa con gioia nel cuor.
Ho finito i dolori i tormenti ora vivere,
in abbondanza pane vino minestra e pietanze mangiare e bere così a volontà.
Elio Fellini contento e felice ed ansioso poter ritornar,
su di un treno ha potuto montare e a casa sua un bel giorno arrivò.
Eravamo al tempo dell’uva a casa sua avevan rubato ed il padre era in agguato per
poter il ladro scoprir.
Torna il figlio dalla Germania all’insaputa
lui non lo sapeva a quell’uva
lui soggiungeva per poter qualche grappol mangiar.
Dietro una pianta il padre nascosto salta fuori con il fucile puntato
un colpo
e il suo figliolo cadde morente al suol.
Corre a vedere chi ha colpito,
riconobbe che era suo figlio,
dal dolore l’uomo periglia
e dal dispiacere l’uomo impazzi,
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madre e moglie e il piccol bambino si sono straziati,
dolore piangente maledicono quel malvivente che per sua colpa suo figlio morì.
trascrizione di Pinardi Greta
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I NOSTRI FAMIGLIARI RACCONTANO:
Quando la mia famiglia ospitò un inglese di Valentina Testa
Io abitavo a Fontanellato, avevo 7 anni, quando a casa nostra era giunta la notizia che
gli inglesi erano fuggiti dal campo di prigionia P.G. 49, vicino al santuario della
Madonna di Fontanellato. Io tutte le domeniche, con mia sorella e mia madre, andavo
al Santuario ad ascoltare la messa dei frati, quell’edificio era enorme, o forse io
essendo piccola, lo vedevo ancora più grosso di come era.
Alcune volte si vedevano nel cortile delle persone, io non avevo mai visto un ragazzo
di colore, quella fu la prima volta che ne vidi uno, a me facevano un po’ paura, perché
loro erano tutti neri e quando alzavano una mano con il palmo girato verso di me,
questo era molto più chiaro della loro carnagione, poi anche perché avevano uno
sguardo molto aggressivo.
Il 10 settembre a casa mia era arrivata una notizia che giungeva dal paese: i
prigionieri che occupavano il campo di prigionia di Fontanellato era scappati dato
l’imminente arrivo dei tedeschi, a quel punto vidi una lacrima che scendeva sul viso
mia madre, mi avvicinai a lei e le chiesi per quale motivo stesse piangendo, lei mi
rispose che aveva paura che i prigionieri venissero a casa nostra e che ci derubassero
di quel poco che avevamo.
Mio padre la tranquillizzò dicendole che non sarebbe successo nulla di grave né a lei
nè a noi figli. Io in realtà non avevo molta paura dei prigionieri, ma per lo più avevo
paura che se avessimo ospitato un prigioniero e i tedeschi l’avessero ritrovato “che
cosa potevamo passare noi?”. Questo era il pensiero che mi preoccupava di più, cosa
ci avrebbero fatto, o per meglio dire, cosa avrebbero fatto a mio padre e a mia madre.
Lo stesso pomeriggio, alla nostra porta bussarono due colpi molto forti, i miei
fratellini più piccoli erano in camera a dormire e per quel gran rumore si svegliarono e
si misero a piangere. Aprii io. A quel tempo avevo due lunghe treccine che
scendevano sulle spalle sin ad arrivare quasi al fondo schiena, erano tenute insieme da
dei laccetti rosa, o del colore del vestito che indossavo quel giorno, che si intonavano
perfettamente con l’abitino che mia madre mi aveva confezionato, io per fortuna ero
la più grande e avevo sempre i vestiti nuovi, per modo di dire. Quando aprii la porta
mi trovai davanti due omoni, indossavano una divisa verde e attaccate al petto
avevano molte medaglie, uno si mise in ginocchio per arrivare alla mia stessa altezza,
mi prese la mano e mi chiese come mi chiamavo, aveva un accento molto strano come
se fosse inglese, io gli risposi che mi chiamavo Mariapia, anche loro si presentarono,
uno era un po’ su di età, l’altro invece era molto giovane, avrà avuto sulla ventina
d’anni.
Poi mi chiesero se c’era mia madre o mio padre in casa, io socchiusi la porta e
chiamai mia madre che era in cucina sulla poltrona a fare la maglia, arrivò alla porta e
con una carezza mi spostò lievemente, tanto per vedere chi c’era alla porta. Lei si
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spaventò vedendoli, ma loro la tranquillizzarono dicendo che erano persone buone e
che volevano essere ospitate solo per qualche giorno. Mia madre acconsentì, però li
dovette avvertire che dovevano dormire sul fieno e sulla paglia, loro risposero che per
loro andava bene, a loro bastava avere due pasti al giorno e una coperta a testa. Li
accompagnai nel solaio dove c’erano gli attrezzi di mio padre e il cibo per le mucche,
feci vedere dove potevano dormire, loro mi ringraziarono, mi chiesero se per caso
potevo portarli al bagno, perché ne avevano un urgente bisogno: li accompagnai, il
problema è che il bagno era al di fuori della casa, quindi anche se la notte avessero
avuto bisogno di esso, sarebbero dovuti andare fuori.
La sera stessa cucinarono loro, era molto buono quello che prepararono, non mi
ricordo di preciso cosa fosse, ma so che era buono, poi lavarono i piatti e a fine cena
andammo tutti a letto.
Il giorno dopo la fuga dei prigionieri dal campo di prigionia mia cugina più grande,
che aveva la stessa età del militare più giovane, venne a casa nostra per darci la
notizia, io la guardai con un aria pensierosa e lei mi chiese se lo se lo sapevamo già.
Mia madre arrivò in soggiorno in quell’istante e chiese: “Cosa dovremmo già
sapere?”. Mia cugina allora le diede la notizia e mia madre con aria molto calma e
rilassata disse che ne ospitavamo due e che dormivano in soffitta tra il fieno e la
paglia, mia cugina allora prese mia madre da una parte e le chiese se era impazzita,
perché chiunque avesse ospitato un inglese o un prigioniero sarebbe passato per grossi
guai.
Dopo poco che mia cugina era giunta a casa, i due soldati scesero, mia madre aveva
preparato loro sulla tavola dei biscotti casarecci e del tè appena preparato, mia cugina
adocchiò subito il militare più giovane e viceversa.
In casa, intanto, si era formato un rapporto molto unito fra la mia famiglia e i due
prigionieri, ci trattavamo come se fossimo tutti fratelli, infatti quando mia madre
aveva molto da lavorare, i due prigionieri si davano da fare a pulire la casa, a cucinare
e a far giocare me e i miei fratellini. A me avevano insegnato un po’ di inglese, le
parole base: “Se per caso un giorno andrai al di là dell’Italia…”. Dopo quella frase
andai in camera mia, presi un foglio e cominciai disegnare un mondo fantastico, dove
tutti potevano fare quello che volevano, dove nessuno era prigioniero.
Intanto nelle campagne di Fontanellato arrivava la primavera, io nel frattempo
compivo 8 anni e mi facevo sempre più grande e sempre più bella d’aspetto. Un
giorno, mentre stavo passeggiando con mia cugina e il militare più giovane, vedemmo
una camionetta militare tedesca che trasportava dei soldati inglesi, ai polsi avevano
delle manette. Io avevo paura che portassero via anche Andress e Josef, loro ormai mi
facevano da baby sitter, mi accompagnavano ovunque, ora loro non dormivano più in
solaio come appena arrivati, dormivano in una stanzetta in cui mio padre aveva
montato due lettini singoli e in cui io tutte le mattine rimettevo a posto le coperte. Ora
non avevano più quello strano accento, parlavano perfettamente italiano, il più
giovane parlava anche un po’ di dialetto, molto poco, però.
Me lo ricordo come se fosse ieri, un giorno come un altro stavo giocando con
Andress, il militare più giovane, a pallone in giardino, ad un tratto entrarono nel
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cortile dei signori con una macchina tutta lucida e ben tenuta, scesero e chiesero se
potevano fare delle perquisizioni in casa per assicurarsi che non ci fossero inglesi. Io
per la paura era andata in braccio ad Andress, entrammo in casa, girarono dappertutto,
ma per fortuna non videro e non trovarono nulla. Alla fine del tour per la casa alla
ricerca di prigionieri ci fecero mettere tutti in fila per controllarci i documenti. Mio
padre per fortuna aveva conservato la carta di identità di suo fratello, morto qualche
anno prima a colpa di un infezione riportata dopo una caduta in bicicletta, così aveva
cambiato la foto e ci aveva messo quella di Andress, invece mia madre aveva ancora
la carta di identità di suo padre: mia madre aveva 30 anni e il militare 60, quindi
poteva assomigliare a suo padre, anche lì avevano cambiato la foto per farle diventare
vere e proprie carte di identità personali.
Non si accorsero di nulla e uscirono svelti dalla porta, salutando il capofamiglia. Quel
giorno, dopo la perquisizione dei tedeschi, capimmo che i due prigionieri non
potevano più indossare i vestiti che usavano nel campo, così tennero solo la divisa per
ricordo, ma tutti gli altri vestiti li bruciarono. Mia madre andò in soffitta con il
militare più vecchio a prendere dei vestiti di mio nonno, mentre invece mio padre
andò da suo fratello che aveva un figlio più grande e gli chiese dei vestiti per Andress.
La vita continuava, io mi affezionavo sempre di più ad Andress. Un pomeriggio mia
cugina, io e lui andammo a fare una delle nostre solite passeggiate, ma quel
pomeriggio cambiò la vita di mia cugina e di Andress, infatti io ero in mezzo a loro,
tenevo le mani di entrambi, ad un certo punto ho cominciato a stringermi sino a
mollare le loro mani, così da farli mettere mano nella mano, loro mi guardarono come
per dire: “Cosa ti è saltato in mente Mariapia?”, ma poi non fecero altro che baciarsi.
Quando tornammo a casa la prima cosa che feci fu quella di dire a mamma e papà che
Andress e Angelina si erano messi insieme, i miei genitori si alzarono di colpo e
stupiti per la sorpresa li abbracciarono sino a non farli più respirare. Angelina pur non
abitando più con noi era cresciuta in casa nostra, infatti suo padre non lo aveva mai
conosciuto e sua madre era morta poco dopo la sua nascita, la sua famiglia eravamo
noi, ora per fortuna aveva qualcuno con cui sfogarsi quando doveva piangere e non
doveva farlo più con me, riempiendo il mio letto di fazzoletti usati e bagnati di muco
e lacrime, d’ora in poi speravo che non avrebbe più pianto per amore, ma solo di
gioia.
Gli anni passavano, intanto Josef era tornato in Inghilterra, mentre Andress era
rimasto qui: lui ora ha una famiglia qui, ha due splendidi bambini e io posso
godermelo quanto voglio, posso chiamarlo quando ho dei problemi con gli altri
bambini o chiamarlo per farmi insegnare delle nuove parole in inglese, a disegnare, a
scrivere, insegnarmi com’è il mondo, perché un giorno, come diceva sempre lui, se
desideri qualcosa quel qualcosa si realizzerà. Io sognavo che non sarebbe mai
diventato grande, che non sarebbe mai invecchiato, perché sapevo che se invecchiava
sarebbe morto e se fosse morto io non avrei più potuto sognare.
Io ora ho quasi 80 anni, non ho girato tutto il mondo come diceva lui, ma nella mia
mente sì, nella mia mente mi ricordo ancora quando mi faceva disegnare, quando
montavamo la “piscina” e mi faceva fare i tuffi, quando sorrideva, quando……
42
quando era lui. Dopo che si sposarono se ne andarono da Parma, penso si fossero
trasferiti a Bologna, forse, ma so che non li rividi mai più, in fondo provavo un po’ di
rammarico perché io quando sto tanto tempo con una persona finisce che mi affeziono
e con lui era successa la stessa identica cosa, mi era affezionata troppo, quel troppo
che poi si è rivelato inutile, infatti quando se ne sono andati mi dissero che ci
saremmo rivisti molto presto, invece non ci vedemmo per degli anni.
Quando avevo 50 anni mi arrivò una lettera, era lui che mi scriveva, mi diceva che
stava bene e che voleva rivedermi, mi aveva lasciato anche un numero di telefono, per
la prima volta mi sentivo cercata da lui, dovevamo incontrarci a Parma, ero
emozionatissima, arrivai in anticipo, quindi trovai una panchina e mi sedetti. Lui
arrivò poco dopo, era accompagnato da Angelina, erano cambiati tantissimo, quasi
non li riconoscevo. Io tenevo in mano una nostra foto che avevamo fatto davanti a
quel grande albero dove andavamo spesso.
Furono loro a riconoscermi, infatti io avevo ancora quelle lunghe trecce, ora raccolte
però in due cucù, quando risposi di essere io Mariapia, mi misi a piangere e loro mi
abbracciarono forte, erano passati molti anni e avevo moltissima voglia di vederli.
Trascorremmo la giornata a parlare e a raccontarci cosa avevamo fatto negli anni
passati, poi li portai a casa, restarono da me per un po’ di tempo. A casa io avevo
ancora i miei fratelli con le loro famiglie. Chiesi se si ricordavano di loro, soprattutto
mi piacque la risposta di Geremia, mio fratello più piccolo, mi disse che si ricordava
di lui, perché una notte mentre dormivamo, lui era sulle scale che giocava con i
peluche quando ad un certo punto ha sentito una porta aprirsi. Pensando che fosse la
mamma si nascose nell’ombra della parete, lasciando però i pupazzi sul pavimento, in
realtà la porta che si era aperta era quella della camera di Andress e Josef, Andress
doveva andare al bagno, quindi andò sulle scale ma cadde per colpa dei pupazzi. Mio
fratello continuò a raccontare la storia, ma io oramai sono anziana e non mi ricordo
tutto perfettamente, alla fine Angelina e Andress convinti dalla voglia di tornare nelle
campagne di Fontanellato tornarono a stare con me.
Qualche giorno dopo il loro ritorno a casa mia, arrivò una lettera intestata a mia
madre: era Josef che ci scriveva per chiederci come stavamo. Io gli risposi per tutti
quanti, anche lui era cambiato molto, ci aveva mandato una foto con tutta la sua
famiglia e noi per non mancare avevamo risposto con una foto della nostra grande
famiglia. Da quando lui se ne era andato da casa erano passati circa 40 anni e volevo
che lui e Andress si rincontrassero per cui contattai Josef e lo feci venire qui in Italia.
Quando i due si videro scoppiarono in lacrime, si abbracciarono, erano così buffi, uno
con il bastone e l’altro con le stampelle erano felici di essersi rivisti e quando arrivò il
momento che Josef dovette ripartire furono lacrime su lacrime.
Una decina di anni dopo ci giunse la notizia che Josef era morto, andammo in
Inghilterra per i funerali, Andress volle venire, ma fu una cosa molto drastica portarlo,
infatti durante la cerimonia del funerale non fece altro che piangere, era distrutto e a
me faceva un gran male vederlo così…
Tornammo a casa e dopo poco tempo Andress dovette essere ricoverato in ospedale
per un infarto, io avevo molta paura di perderlo, per fortuna dopo qualche mese di
43
coma si risvegliò, ma non tornò mai più a casa, perché si spense dopo pochi giorni.
Non smetterò mai di ringraziarlo, non smetterò mai di ringraziare quell’uomo che così
per caso entrò nella mia vita un giorno qualunque, pensando che dovesse uscirne
qualche giorno dopo, invece diventò una delle persone più importanti della mia vita.
Lui ora riposa a Londra in un semplice cimitero, io prima di diventare anziana quasi
tutti gli anni ci andavo con i miei fratelli per ricordare quella persona così importante,
che per noi era diventata quasi come un fratello maggiore, quasi come un padre
quando il nostro morì.
Mariapia Bottarelli
Sorella della nonna di Testa Valentina 3^A
Ricordi della guerra Testimonianza di Ines Manganini, raccolta da Valentina Testa.
Avevo 12 anni non capivo bene, passavamo davanti a quell’enorme edificio, mano
nella mano con mia sorella maggiore Ionis.
Tutt’intorno c’erano militari con grandi fucili, pronti a sparare, se mai qualcuno si
fosse ribellato; mia sorella aveva 18 anni, lei capiva bene, mi diceva di non aver
paura, anche quando da casa nostra passavano i camion militari, si sentiva il frastuono
delle ruote pesanti sull’asfalto ricoperto di ghiaia.
Quando passeggiavamo davanti al campo, vi erano persone affacciate alle finestre, era
tutto strano per me. Pensavo fosse una manifestazione in ricordo di una qualche
guerra avvenuta quando ancora io non c’ero, invece era quella la vera guerra.
Un giorno, mentre stavo passando con mia sorella e una sua amica, vidi negli occhi di
un militare il dolore e il sangue che gli usciva dalla bocca, per giorni quando chiudevo
gli occhi rivedevo ancora quella scena, avevo paura che catturassero anche noi.
Una mattina mi affacciai alla finestra e in lontananza si sentivano delle urla strazianti,
chiamai subito mia madre, mi disse che erano dei cacciatori che ridevano, ma io
sapevo che non era così, facevo finta di aver capito; quando mia madre se ne andò,
smisi di mettere in ordine i vestiti nell’armadio e mi riaffacciai alla finestra, vidi un
punto nero che correva verso casa mia, poi tutto d’un tratto lo vidi cadere e
sopraggiungere un militare… Urlai come mai avevo fatto, mi misi a piangere e scesi
da mio padre, gli dissi di aver visto morire un ragazzo, lui mi rispose che era un
detenuto del campo PG 49. Subito non capii di cosa stava parlando, poi collegai tutto
e mi balzò in mente quell’edificio strano che quasi tutti i giorni guardavo mentre
andavo da mia nonna.
La cosa che più mi è rimasta in testa della guerra è stata una lettere che diceva:
Cara mamma,
Sono passati tre mesi e sono ancora qui, rinchiuso in una cella, ho paura che per me
sia giunta la fine, ho paura che non ti rivedrò più, che non rivedrò più il papà e
Noris, qui il cibo arriva, non è malvagio, dobbiamo accontentarci.
Auguri mamma oggi è il tuo compleanno, mentre scrivo questa lettera immagino il
mio ritorno a casa che però non avverrà mai …
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Ti saluto mamma ciao e auguri ….
Con affetto Miguel.
TESTIMONIANZE RACCOLTE DA ALUNNI NEGLI ANNI
PASSATI
IL RACCONTO DEI PARTIGIANI
Testimonianza di Piazza Pompeo (ex sindaco di Fontanellato), raccolta nel 1990
dai ragazzi di 3^B:
“Il Comitato Nazionale di Liberazione era un organismo creato subito dopo il 25
luglio, specialmente nelle città ed era composto da esponenti dei diversi partiti sciolti
dal Regime Fascista.
Il 25 luglio ci fu il colpo di stato: il Gran Consiglio del Fascismo avevano messo in
minoranza il Duce; gli stessi gerarchi fascisti non erano più d’accordo visto
l’andamento catastrofico della guerra e il Re, fece arrestare Mussolini e nominò
Badoglio, capo del governo.
Il C.N.L subito costituì le squadre partigiane che erano formate da ribelli, operai,
studenti, da persone che avevano subito anni di carcere o di confino, da professionisti
che avevano subito soprusi nelle loro attività professionali, come l’avvocato Villini, al
quale avevano devastato l’ufficio perché era un oppositore del Regime. Badoglio
aveva in tanto sostituito il podestà con commissioni nominate dalla Prefettura.
Tra il 25 luglio e l’8 settembre non si erano costituiti molti comitati, mentre dopo l’8
settembre anche nella nostra zona si costituirono diversi gruppi e squadre organizzate.
Io ero al confine francese e ho visto entrare per quasi 30 giorni delle truppe tedesche
sul territorio italiano. I tedeschi occupavano l’Italia e, mentre l’esercito regio si
squagliava come neve al sole, nel giro di 48 ore l’esercito tedesco aveva preso nelle
sue mani il controllo del paese.
Soli in certe posizioni si era fatta resistenza ai tedeschi invasori: c’è chi afferma che si
fosse chiuso il Brennero, se si fosse opposta resistenza, se…
Comunque a Fontanellato arrivarono il mattino successivo, il 9 settembre del 1943.
Come forse sapete, qui a Fontanellato (casa del Fanciullo) c’era un campo di
concentramento composto da 500 inglesi (ufficiali e soldati) e da 100 militari
italiani; i tedeschi sono corsi a Fontanellato con l’intento di farli prigionieri, ma
poco prima del loro arrivo il Tenente Colonnello che comandava il campo li
aveva lasciati liberi di allontanarsi: gli ufficiali si sono sparsi nel nostro territorio
anche a Soragna ed a San Secondo.
Le famiglie delle nostra zona si sono date da fare in ogni modo, dando abiti civili,
cibo e spesso nascondendo i fuggiaschi nelle loro case e nei loro fienili, anche
perché molti avevano figli in guerra , chi in Africa, chi in Russia, ecc…
Poco dopo i tedeschi emisero un bando che annunciava una taglia come premio a
chi avesse consegnato un inglese; lo stesso bando minacciava inoltre arresti e
pene gravi per chi avesse tenuto nascosto o aiutato in qualsiasi modo un alleato.
Così alcuni furono scoperti e rinchiusi in Cittadella a Parma o portati a Bologna.
45
Ricordo in particolare Baruffini che per aver ospitato un inglese fu deportato a
Mathausen e non fece più ritorno.
Anche da noi il comitato era composto da uomini di diverse idee politiche, comunisti
e cattolici. Ricordo ad esempio monsignor Grassi, che ha insegnato in questa scuola,
presso il quale molti andavano per accordarsi su come costruire un gruppo
organizzato che poi si costituirà nell’Aprile.
Ricordo che ci si riunì in una ventina di uomini presso un circolo che aveva anche un
osteria, che si trovava sull’odierna circonvallazione ( casa di Piccioni), e alla presenza
di un partigiano di Salso e di una anziano si gettarono le basi per la costituzione di
una S.A.P… Nella squadra i compiti erano diversi: nei primi tempi ci si preoccupava
di fare propaganda perché i giovani non si presentassero alla chiamata alle armi e
perché gli agricoltori non portassero più generi alimentari all’ammasso; inoltre si
facevano “colpi” per procurarsi soldi.
L’orfanotrofio fu in seguito occupato da una scuola militare, Allievi Ufficiali
della Repubblica di Salò, questi avevano il compito di catturare chiunque fosse
sospettato di legami con in partigiani. La scuola rimase fino a novembre quando
fu trasferita ad Oderzo.
Nei primi mesi del ’45 ci fu un rastrellamento ad opera molti furono torturati. A
Fontanellato era rimasto un reparto delle brigate nere: monsignor Grassi e un padre
domenicano andarono a chiedere la resa che fu rifiutata: il reparto fu poi catturato dal
distaccamento Barabaschi.
Fra i tanti uomini valorosi voglio ricordare il medico di Fontanellato dottor
Sambataro, il quale s’impegnò, rischiando spesso la vita, per sostenere e aiutare i
partigiani, come anche monsignor Grassi e il signor Tedoldi che, sospettati di
finanziare le formazioni partigiane, furono arrestati e portati a Tabiano e poi
fortunatamente rilasciati. Potrei menzionare tanti episodi e persone, ma fra i tanti
voglio ricordare quello del Venerdì Santo quando tre partigiani furono fermati a
Carzeto (Diolo) dai tedeschi e uccisi.
A conclusione voglio solo dire che per il sacrificio, la partecipazione e il coraggio di
tante gente, il nostro paese era già stato liberato quando arrivarono gli alleati.
Testimonianza di Ghilarduzzi Orio, 69 anni
(raccolta nel 1990 da Cesari Francesca).
La vita non era sicuramente felice, infatti a quel tempo erano stati addirittura razionati
i viveri; ogni persona possedeva una tessera mensile che gli dava diritto all’acquisto
di un determinato quantitativo di prodotto. Esisteva una tessera per gli alimenti più
importanti come la carne, il pane, lo zucchero, il lardo e il burro. Gli agricoltori e i
mezzadri non avevano molte tessere perché molti prodotti alimentari come il
frumento, il latte, il mosto erano compresi nel loro contratto di lavoro. In questo
periodo scomparve il pane bianco, sostituito da quello nero con la crusca; era
assolutamente proibito cuocere al forno nel pane bianco e si poteva addirittura dover
pagare una multa e subire il ritiro di tutto il pane. Mio nonno ha provato di prima
persona questa esperienza; aveva vent’anni al tempo della guerra ed era arruolato in
46
un dipartimento di Bolzano assieme ad un suo compaesano. Un giorno mio nonno
venne a casa in licenza e aveva promesso al compagno di camerata di portargli un po’
di pane bianco che sua madre gli avrebbe preparato. La madre preparò il pane e lo
portò al forno per farlo cuocere, ma purtroppo le fu ritirato da una guardia e così non
poté mandarlo al proprio figlio, che si dovette accontentare delle poche micche che
mio nonno poté dividere con lui. Lo stesso grano, a quei tempi veniva macinato
abusivamente e poi nascosto come scorta alimentare in damigiane o in altri recipienti.
Altra imposizione dello stato riguardava l’uccisione del maiale, infatti, chi uccideva il
maiale o un altro animale di grossa taglia doveva versare allo stato un determinato
quantitativo di grasso (8 kg per maiale). Lo stato, che aveva bisogno di fondi sempre
maggiori per finanziare le imprese belliche, sostituì addirittura la fede iniziale d’oro
con un anello di ferro, inoltre ritirò tutti i recipienti e le suppellettili di rame presenti
nelle case. Il lavoro dei campi, nonostante la guerra, non si interruppe ma procedette
piuttosto a rilento in quanto mancavano gli uomini, tutti al fronte, e le uniche braccia
rimaste erano quelle delle donne, dei vecchi e dei fanciulli. Durante la notte non si
potevano assolutamente accendere le luci, neppure i lievi bagliori della stalla
potevano intravvedersi nelle tenebre, infatti i punti illuminati erano quelli verso cui
dirigevano i propri attacchi gli aerei di ricognizione notturna, detti Pippo. La gente si
era ormai abituata al monotono ronzio dei motori di Pippo durante la notte e sapeva
convivere con tutte le costrizioni che la guerra imponeva. Nei tre anni che hanno
preceduto l’8 Settembre 1943 i tedeschi avevano allestito nell’orfanotrofio di
Fontanellato un campo di prigionia per circa trecento ufficiali inglesi, che
liberati dopo l’8 settembre si sparsero nelle campagne nei dintorni di
Fontanellato. La famiglia di mia nonna ospitò in casa sua tre soldati inglesi molto
giovani, per una ventina di giorni. Stavano nascosti nei campi, sotto i filari tutto
il giorno e solo raramente uscivano per aiutare nei lavori dei campi; alla sera
entravano in casa per consumare la cena e ascoltare alla radio gli svolgimenti
della guerra e la posizione che assumeva giornalmente la loro patria; alla notte si
riposavano nel fienile. Col passare dei giorni la situazione si faceva sempre più
critica per loro così una notte partirono alla volta dei primi Appennini dove si
sarebbero uniti alle forze dei partigiani. Mia nonna a quell’epoca era una
ragazzina, ma è rimasta colpita dalla gentilezza e dalla grazia di quei giovani con
i quali la sua famiglia aveva instaurato una sorta di amicizia. Quando sono
partiti, infatti, si è organizzata una festa e un bellissimo banchetto di addio e gli
inglesi, che erano rimasti commossi, avevano promesso di scrivere e di andare a
trovarli alla fine della guerra. Quando è stato smantellato il campo di prigionia
molta gente di Fontanellato è accorsa per potere prendere i viveri e gli oggetti
che erano contenuti nell’orfanotrofio. C’erano magazzini colmi di caffè, the,
cioccolata frutta e purissima lana inglese che sono stati utilizzati per diversi anni
da molta gente di Fontanellato. Mia nonna era accorsa per vedere se si poteva
prendere qualche cosa ed era riuscita a portare a casa due cuscini, con i quali ha
fabbricato alcuni maglioni. Le zone più bombardate dagli alleati a Fontanellato
sono state l’orfanotrofio, dentro il quale, credevano che ci fossero dei magazzini
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tedeschi, e la chiesa; non ci sono stati morti ma solo danni agli edifici. Un’altra
zona molto bombardata è stata quella in prossimità della ferrovia, che è stata interrotta
nelle vicinanze del ponte sul Taro. Il pericolo dei bombardamenti era costante, tanto è
vero che ogni abitazione era dotata di un piccolo rifugio coperto di terra dove la gente
si riparava quanto sentiva sopraggiungere gli aerei. La guerra nelle città è stata molto
più drammatica che non nelle campagne, infatti le città furono le zone più colpite dai
bombardamenti ed inoltre c’erano molte meno possibilità di rifugiarsi e di scappare.
Dopo l’8 settembre 1943 si è assistito ad un fenomeno ingente di sfollamento dalle
città e si è trasferito in campagna dove c’erano anche maggiori possibilità alimentari e
dove era più praticato il cosiddetto mercato “nero” o abusivo. In quest’epoca non
c’erano spettacoli e tanto meno balli, e l’unica cosa a cui si poteva assistere erano i
famosi Film Luce che riportavano i principali avvenimenti che avevano interessato la
guerra in quel giorno. Il costo di entrata al cinema era di solo 1 Lira.
In realtà sul finire della seconda guerra mondiale, nell’aprile del 1945, il
monastero di Fontanellato fu vittima di bombardamenti: sotto le bombe gran
parte dell’edificio andò distrutto e due monache persero la vita. Fu presto
ricostruito, ma delle mura antiche ormai resta poco. Intatta, con tutti i suoi
antichi affreschi, è solo la parte più adiacente al Santuario.
Pigazzani Veronica III C
Testimonianza di Pigazzani Valdo- 82 anni
Mio nonno mi ha raccontato che i partigiani erano a Toccalmatto, i prigionieri inglesi
alla CASA del FANCIULLO e i tedeschi nella corte dove abita tuttora. Sui muri ci
sono ancora i segni delle mitragliatrici, il fienile era stato incendiato.
Quando mio nonno abitava a Toccalmatto, vicino al torrente Rovacchia, i tedeschi
durante la ritirata avevano piazzato nel cortile quattro cannoni e tre mitragliatrici per
difendersi dai partigiani e ogni tanto sparavano spaventando tutta la famiglia. Un altro
episodio fu quando i tedeschi volendo passare lo stesso torrente con i camion rimasero
impantanati e si fermarono per tutto il giorno nel podere, sistemando i cavalli nella
stalla tra le mucche e la notte ripartirono…
Quando durante la notte, mio padre, stava per nascere (16 Marzo 44) mio nonno si
azzardò ad uscire senza il permesso (dato che c’era il coprifuoco) per andare ad
avvisare l’ostetrica, ma andò tutto bene, perché disse alle pattuglie di guardia che si
trattava della nascita di un bambino…
Un’altra volta si fermarono gli inglesi, chiesero se c’erano i tedeschi, mio nonno disse
di no, in realtà erano nascosti tra l’erbaccia vicino al torrente e ribatterono che se li
avessero trovati li avrebbero uccisi; per fortuna ciò non accadde. Durante la ritirata
sulla via Emilia c’erano quattro colonne di carri armati. I tedeschi sparavano ad un
aereo inglese che serviva per l’esplorazione, ma era molto difficile prenderlo.
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Intervista a mia nonna, Rina Brianti
Lia Piovani
-Ciao nonna!
-veh chi’svada, me nnuda! Ve chè ch’at dag un bäs.
-Nonna,a scuola stiamo studiando la seconda guerra mondiale e la prof. Ci ha parlato
di un campo di prigionia qui a Fontanellato, chiamato PG49. Ne sai qualcosa?
-Sì cara,io quella guerra purtroppo l’ho vissuta e, ti dico la verità, non mi piaceva
gnanca ‘n po’
-Ti ricordi dove si trovava il campo?
-Era là dove c’era il palazzo del Cardinal Ferrari. ‘am ricord ben!
-Secondo te era un campo come gli altri, cioè ci si viveva male? La prof ci ha detto
che c’ erano dei prigionieri inglesi
-Sì, c’erano degli inglesi, ma anche altri soldati di altri paesi e per quello che ricordo
non stavano male, sicuramente meglio di noi che dovevamo lavorare nei campi in
mezzo al fango e sotto il sole.
-E quando sono scappati, qualcuno è venuto a casa tua?
-Me ne sono capitati in casa con il buio due, due ragazzi, giovani come l’acqua. Gli
ho dato da mangiare e poi j’o gournà in t’al sulèr
-Ma come facevi a parlare con loro. Tu non sapevi l’inglese!
-Ig’ avan’al vucabulari e am arcord, von di dü l’era un nigar
-Davvero? E tu?
-In prinsipì am son spavintàda parchè l’era la prima volta ch’a vdeva un nigar, ma
dopo abbiamo fatto amicizia. L’era simpatic.
-E poi? Sono rimasti da te per molto tempo?
-‘Na stmana circa e po’ien andà vers la muntagna. Prima ‘d partir j’an magnà e al
nigar poi mi ha dato un bacio.
Sono andato via con Borsi, un amico di mio marito che veniva da Varano Marchesi,
ad nòta, per non farsi vedere.
Li ha portati in montagna, dai partigiani per faria scapar.
-Grazie nonna, sei stata molto gentile. Adesso vado a casa, devo fare altri compiti.
-Sta ben cara e venà a catarm’ancora.
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*Ci scusiamo per l’ imprecisione nella scrittura delle parole dialettali
INFORMAZIONI RACCOLTE DAI GIORNALI E
DAL WEB
“Nei giorni che seguirono la fuga dal campo la comunità italiana si dimostrò di
grande aiuto. Per due notti i contadini italiani ci portarono cibo e abiti civili,
consentendoci di sciogliere il contingente in piccoli gruppi che si dispersero in varie
direzioni”. Questa testimonianza di ufficiali inglesi riportata nel libro “L’orizzonte
del campo” del ricercatore Marco Minardi è solo una parte della storia ancora viva e
sedimentata nei racconti e nei documenti che ricorda il sacrificio e il coraggio di chi
ha rischiato la vita per contribuire a salvare i militari alleati fuggiti dal campo PG49 di
Fontanellato dopo l’8 settembre del ’43.
Dispersi nella campagna circostante, nascosti negli argini erbosi vicini ai campi di
mais lungo il torrente Rovacchia i soldati furono nutriti, vestiti e nascosti. Il PG49
racconta una storia di coraggio e di riconoscenza. Gli inglesi in fuga, infatti, furono
protetti da uomini e donne che crearono una vera rete di solidarietà: manifestazioni di
resistenza personale, di famiglia, di gruppo, di paese come ricorda un altro ufficiale
Philip Kindersley: “Tutti gli italiani della zona dovevano essere a conoscenza di dove
eravamo e ciò dice molto della loro lealtà nei nostri confronti. Nessuno ci tradì con i
tedeschi”. E ancora: “Furono le ragazze le più impegnate nell’aiutarci. Ad esempio
una volta tre di loro, accompagnate da un uomo, raggiunsero il nostro nascondiglio,
portandoci abiti civili”. I rapporti tra la comunità fontanellatese, che ha pagato il caro
prezzo con l’arresto e la deportazione a Mauthausen di Andrea Baruffini, che da lì
non ha più fatto ritorno, e gli inglesi sopravvissuti sono continuati anche dopo la
guerra. Storie d’amore, d’amicizia, di vera gratitudine, che hanno portato anche alla
creazione di una Fondazione la Monte San Martino Trust, nata proprio in segno di
riconoscenza verso le comunità coraggiose che hanno offerto aiuto durante la guerra.
La Fondazione ha ideato e sostiene alcune borse di studio riservate a giovani
discendenti di quegli abitanti di Fontanellato, che potranno recarsi in Inghilterra per
un mese ad imparare la lingua.
Il Comune di Fontanellato, che ha attivato uno speciale gemellaggio con la
fondazione inglese, ha ospitato lo scorso settembre in occasione del sessantesimo
anniversario della liberazione del campo una delegazione di cittadini inglesi, tra cui
venti ex prigionieri e ha allestito un’importante mostra fotografica e storico
documentaria in cui hanno trovato spazio lettere, cartoline, cimeli d’epoca, per
ricostruire una pagina di storia locale e farla diventare patrimonio vivo e memoria del
territorio.
Mariagrazia Manghi
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1943: La salvezza di 46 ufficiali nelle mani del
fontevivese Giorgio Coperchini
Un ragazzo con un coraggio da leone, l’Italia allo sbando, diciannove anni d’età e
informazioni preziose in tasca indispensabili a salvare la vita a 46 ufficiali inglesi
nascosti nello scantinato del castello di Castelguelfo, dopo la fuga dei militari dal
campo di prigionia PG 49 di Fontanellato, durante l’Armistizio del 1943.
È la storia di Giorgio Coperchini, fontevivese di Case Rosi, che il 14 settembre 1943
fuggì in Svizzera, attraverso la Valtellina, con i compagni di viaggio Bruno Ferrarini e
Norino Spaggiari – oggi entrambi defunti - portando con sé le matricole dei militari
britannici da consegnare alla delegazione inglese a Berna.
E’ stato il signor Coperchini - che oggi ha 84 anni e una lunga carriera di medico tra
Fontevivo, Bardi, Corniglio e Salsomaggiore Terme - a farsi vivo dopo aver letto gli
articoli pubblicati dalla testata locale “Gazzetta di Parma” a Ferragosto sul Pg 49 di
Fontanellato.
«Ho letto le testimonianze che avete raccolto: desidero tramandare ai giovani anche
la mia storia in tempo di guerra – ha detto - Se ci penso ora ho rischiato tantissimo:
ma all’epoca il coraggio e l’audacia dell’essere giovane mi hanno dato la forza per
portare a termine una missione che è stata la grande avventura della mia vita».
«Il 15 settembre mi dovevo presentare al comando di Parma per essere arruolato e
spedito in Germania dove stavano formando le divisioni Italia e Monterosa – ha
narrato - Ma, renitente alla leva, ho deciso di scappare verso la Svizzera. Quando lo
seppe un signore genovese all’epoca proprietario di alcuni poderi di Castelguelfo, mi
chiese se ero disposto ad aiutarlo: ho accettato e mi ha affidato tanti bigliettini che
contenevano in codice le matricole di 46 ufficiali inglesi nascosti sotto la sua
protezione. Avevo l’incarico di consegnarli alla delegazione militare inglese a Berna.
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Era l’unico modo per aiutare i fuggitivi. Alcuni erano dispersi e ricercati da soldati
tedeschi a cavallo lungo le campagne e i fossati a Fontanellato e Fontevivo, altri a
Pontetaro e Castelguelfo. Di notte la popolazione del parmense li rifocillava e li
aiutava portando un pezzo di pane».
La storia di Giorgio inizia su quel treno: «Ho preso il treno insieme a due ragazzi
ebrei e due amici del parmense. Il nostro contatto era una donna che talvolta veniva a
fare il mercato nero a Fontevivo e che ci promise un aiuto per attraversare i monti.
Siamo scesi a Tirano, dopo Sondrio, dove ci attendeva questa signora a braccia
conserte. L’abbiamo seguita a distanza. Ci ha portato a casa sua: le abbiamo lasciato
il formaggio che portavamo in valigia e di notte ci accompagnò in alto lungo il
crinale. C’era la luna. Ci riposammo mezz’ora in un casolare. All’alba ci indicò in
fondo a valle il confine e una piccola caserma. Arrivati in Svizzera ci hanno messi nei
campi di accoglienza in quarantena: per 15 giorni siamo stati nel Cantone dei
Grigioni, poi nel Canton Berna che raggruppava oltre duemila persone. Da lì ho
scritto una lettera alla delegazione d’Inghilterra di Berna sperando che riuscissero a
riceverla. Dopo un po’ di tempo mi sono sentito chiamare forte a rapporto
all’altoparlante del campo: gli inglesi volevano conoscermi con grande stupore degli
ufficiali svizzeri che mi fecero molte domande ma io non svelai il segreto delle
matricole. I capi del campo mi diedero un biglietto per arrivare a Berna dove
finalmente riuscii a parlare con il colonnello: gli raccontai la mia avventura e gli
consegnai i bigliettini. Le matricole erano scritte come una lista della spesa: ad
esempio, carote 15, patate 10 chili, formaggio 2 forme. Gli dissi che non volevo finire
in Germania e che pensavo ai miei cari in Italia. Il colonnello mi promise tutto il suo
aiuto. Quella sera mi hanno alloggiato in un albergo: mi sono sfamato, ma ho
dormito poco perché ero in un letto morbido troppo comodo per me, abituato a stare
sulla paglia e in terra. Sono rimasto poi nel Canton Francese in un campo di internati
fino al rientro in Italia, dopo il 25 aprile 1945. Ho appreso con gioia che quei soldati
vennero tutti salvati». Giorgio Coperchini – oggi nonno - si è poi sposato e laureato in
Medicina all’Università di Bologna.
In fuga verso l'Appennino. Dalla Bassa alla montagna cercando la via del mare per
mettersi in salvo. Era il percorso che fecero molti soldati aiutati dalla Resistenza
partigiana: lo ricorda Giorgio Coperchini che rievocando gli anni Quaranta ha detto:
«Durante certe notti la Resistenza partigiana andava a prelevare i fuggitivi e li
accompagnava sulle colline nelle direzioni di Pellegrino Parmense fino al Parco di
Mariano di Pellegrino dove mio cugino, il prete don Alfredo Zanichelli, li rifocillava
nel bosco. Da lì a tappe venivano accompagnati a La Spezia dove al momento
opportuno i sommergibili inglesi li prelevavano e li portavano in salvo. L’operazione
durò fino a Natale e così molti furono tratti in salvo: questo fatto me lo confermò la
delegazione d’Inghilterra quando riuscii a mettermi in contatto con il colonnello
Cartright».
Settembre 2007
52
Stuart Hood - Capitano dell'esercito inglese - Detto “Carlino”.
Nato ad Edzel (Scozia) il 17 dicembre 1915. Capitano dell’Esercito
Inglese, evaso dal campo di prigionia PG49 di Fontanellato, in
provincia di Parma, dopo essere stato ospitato a Migliana da alcuni
contadini insieme con altri suoi connazionali, si aggrega alla
formazione partigiana comandata da Lanciotto Ballerini.
Stuart Hood, 28 anni, con il nome di battaglia “Carlino” continua
la sua lotta contro il nazifascismo, anche dopo la battaglia di
Valibona. È un uomo di cultura, che unisce una grande sensibilità
personale a un profondo senso del dovere proprio di un ufficiale inglese. Stuart Hood ha scritto e pubblicato i ricordi della sua
drammatica esperienza italiana. Nel 1990 gli viene conferita la
cittadinanza onoraria di Campi Bisenzio.
A partire dal settembre 1943 le montagne intorno a Firenze cominciano ad essere la
meta di molti giovani e meno giovani, antifascisti di qualsiasi colore politico, militari
che volevano evitare di tornare al fronte, prigionieri di guerra di diverse nazionalità
provenienti dalle vicine carceri fiorentine, nonché dai campi di prigionia fascisti
disseminati un po’ in tutta la Toscana e l’Emilia. Dopo l'armistizio dell'8 settembre
1943,infatti, si era costituita sul Monte Morello una formazione partigiana. Quando
divenne troppo numerosa, fu deciso dal CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) di
dividerla in due gruppi. Uno di questi era comandato da Lanciotto Ballerini di Campi
Bisenzio, al quale con il gruppo dei Lupi Neri formato da 17 uomini, fu ordinato di
spostarsi nella zona del pistoiese.
La mattina del 26 dicembre del 1943 i Lupi Neri discesero dal Monte Morello e
giunsero in serata a Valibona, una piccola borgata del comune di Calenzano alle
pendici del Monte Maggiore, costituita da poche case di contadini, che li accolsero
molto bene e dove si attestarono in un fienile. Erano tutti armati con moschetti,
pistole, bombe a mano e un fucile mitragliatore.
Nei giorni che rimasero nel villaggio fecero piccole incursioni nella zona, sopratutto
per approvvigionarsi di viveri e durante una di queste ebbero uno scontro a fuoco con
dei fascisti, in località il Cornocchio. Cominciò così a circolare la voce della presenza
di un gruppo di partigiani che operava nell'area, che mise in allarme i comandi
militari, tanto che fu deciso di fare un rastrellamento nella zona con il battaglione
Muti e la Guardia nazionale repubblicana, formata da numerosi fascisti provenienti da
diverse località.
La mattina del 3 gennaio 1944 il villaggio di Valibona fu circondato da circa 150
uomini e intorno alle 6 del mattino fu intimata la resa ai partigiani che subito
risposero con le armi. Iniziò così una battaglia che infuriò per diverse ore.
Il comandante Ballerini cercò di rompere l'accerchiamento, ma nel tentativo di
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prendere la mitragliatrice di un nemico rimase ucciso, mentre Barinci, che era accanto
a lui, fu gravemente ferito. Ventroni, che aveva il fucile mitragliatore, riuscì a tenere a
bada i fascisti per diverso tempo ma terminate le munizioni, dovette ritirarsi nel vicino
fienile che venne incendiato e dove in seguito fu ritrovato carbonizzato.
I partigiani, a corto di munizioni, cercarono di fuggire dalla zona del combattimento,
che era durato circa tre ore. Il russo Vladimiro fu catturato e ucciso. Nello scontro
rimasero uccisi tre partigiani, cinque furono catturati vivi e trasferiti in carcere, gli
altri si salvarono riuscendo a sfuggire all'assedio e infliggendo anche gravi perdite al
nemico.
Per questa azione Lanciotto Ballerini fu poi insignito della Medaglia D'Oro al valor
Militare.
I superstiti, dopo la battaglia di Valibona, riescono a spostarsi nella zona di Monte
Giovi, riorganizzandosi in una nuova brigata sotto la guida di Aligi Barducci
“Potente” e di Alfredo Bini.
Ricordi di Stuart Hood
Capitano di Stato Maggiore Scozzese fra i Partigiani Toscani
Monte Morello
Sarebbe troppo lungo narrare l’intera storia della mia vita e come mi sono ritrovato
nel dicembre 1943 sulla Calvana. Non credo nel destino secondo le leggi
dell’oroscopo e dei segni zodiacali o nell’idea secondo la quale le nostre vite sono
tutte predestinate fin dalla nascita, ma accetto il fatto ovvio che noi tutti siamo nati in
seno ad una società particolare che ci ha formato,invitandoci ad accettare l’ideologia
dell’essere “naturale” e l’importanza del “senso comunitario” e per questa ragione
non si può discutere. Il motivo che mi ha spinto verso la Calvana è stata la ribellione
contro i principi sociali che mi hanno circondato quando ero un adolescente. Proprio
per questo è più indicato che io descriva alcuni dettagli della mia infanzia e gioventù.
Mio padre, un giovane lavoratore che ha conseguito la laurea dopo anni di duro
lavoro, era il Direttore di una piccola scuola in un piccolo paese in Scozia che
abbandonammo più tardi per stabilirci in una cittadina di pescatori dell’Est dove io
sono cresciuto. In termini sociali sono nato in un clima piccolo borghese, assorbendo
l’etica del Protestantesimo e la tradizione scozzese di egualitarismo. La mia famiglia
però, non ha mai messo in discussione questo tipo di società nella quale noi
occupavamo un posto sicuro anche se eravamo lontani dall’essere considerati dei
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ricchi. Era una cosa certa il fatto che io avrei dovuto studiare e seguire le orme di mio
padre nell’insegnamento. Di politica non si discuteva molto a casa. La politica era
qualcosa che andava avanti con il mondo, qualcosa adatto alle altre persone e non per
noi.
Una mattina all’alba nel luglio 1943 da una finestra del Campo PG 49 a
Fontanellato di Parma, vidi un giovane soldato andare nell’ufficio del
comandante, prendere il ritratto del Duce che era posto inevitabilmente sopra la
scrivania, e gettarlo a terra saltandoci sopra. Sapevo che era accaduto qualcosa
di importante. Infatti Mussolini era stato spodestato. Le pagine dei giornali
cominciarono ad apparire con le colonne bianche nelle quali le notizie erano state
censurate, ma essi parlavano di eventi quali una riunione comunista presieduta da
Giovanni Roveda, dell’attività politica dei socialisti ed altro. Questo era un periodo
curioso sotto il governo del generale Badoglio e un momento di paralisi nei ranghi
della classe governativa italiana e delle forze armate. Gli Alleati erano sbarcati in
Sicilia. Noi sedemmo e aspettammo notando il crescente numero delle truppe
tedesche.
Campo di concentramento
Poi il 9 settembre fummo chiamati per una parata dal nostro trombettiere e ci
disse che il comandante italiano era dispiaciuto perché non aveva armi sufficienti
da darci per combattere i tedeschi, ai quali lui voleva resistere, e che ci avrebbe
lasciato uscire fuori dal filo spinato. Così ci ritrovammo in mezzo ai campi in
Emilia, senza sapere dove andare e cosa fare. Dopo un paio di giorni passati nei
canali, nelle macchie punti dalle zanzare, non lontano da Busseto, Ted – Edward
Muniford, un capitano dell’esercito indiano che avevo conosciuto da poco, disse
che avremmo potuto trovare la salvezza nelle colline. Ted sarebbe diventato un
solido e coraggioso compagno nei mesi che seguirono, anche se la nostra estrazione
sociale e la nostra educazione, in special modo le nostre idee politiche, erano così
diverse.
Dopo aver trovato degli abiti civili, una giacca, pantaloni e una camicia, da una
famiglia di contadini per la quale svolgemmo alcuni lavori nei campi, ci
incamminammo, con lo scopo di arrivare, passando dalle vette più alte
dell’Appennino, fino al sud dove avremmo dovuto trovare gli Alleati e che, pensando
in maniera ottimistica, saremmo potuti arrivare vicino a Grosseto. Si prospettava un
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cammino molto duro e disagiato, con molti fiumi da guadare Il Taro era in piena e
l’acqua ci arrivò fino sotto le ascelle non appena vi entrammo. Solitamente
dormivamo “nella stalla” di alcune famiglie di contadini. Dovevamo conoscere e
rispettare i mezzadri che abitavano nell’Appennino; essi vivevano in un modo che mi
sembrava non fosse cambiato dal Medio Evo. Avevano solitamente, ma non sempre,
cibo a sufficienza e dovevano lavorare come i loro stessi buoi. Anche noi lavoravamo
con loro arando e dissodando la terra con la zappa, raccogliendo le castagne, aiutando
nella vendemmia, imparando, come nel mio caso, a capire il dialetto dell’Appennino
Tosco Emiliano. Ciò che ci colpì maggiormente era che venivamo accolti
positivamente e non eravamo trattati come ex nemici bensì come uomini che avevano
qualcosa da offrire, il nostro lavoro, e, d’altra parte, con delle necessità umane di cibo
e riparo. C’è da tener conto che offrendoci un rifugio essi rischiavano severe
punizioni quali ad esempio la morte o la prigione. Le donne contadine, in particolare,
erano assistenti e caritatevoli, ci portavano il cibo nei boschi o nelle colline quando
c’era un rastrellamento. Se io domandavo perché rischiavano tutto ciò, loro
rispondevano che speravano che nel mondo ci fossero altre persone che avrebbero
fatto lo stesso per i loro figli, mariti, fidanzati, che erano prigionieri o dispersi. Dopo
la guerra, un italiano che era sopravvissuto dal CSIR, mi ha raccontato di aver
ricevuto lo stesso trattamento dai contadini russi ed anche che questa era la loro carità
cristiana.
Soltanto in pochi giornali, che trovavamo occasionalmente, potevamo leggere
invettive contro gli Anglo-Americani. Dagli italiani non abbiamo mai ricevuto alcun
segno di xenofobia. In novembre attraversammo il passo dell’Abetone in mezzo alla
neve alta. Indossavamo soltanto i vestiti che avevamo ricevuto dai contadini e ci
chiedevamo se sarebbe stato possibile sopravvivere a quel freddo e se saremmo mai
potuti arrivare in Toscana: “Sì, ce la facciamo!”. Ce l’abbiamo fatta. Facemmo un
piano per arrivare a Pratomagno, che significava, lo sapevamo dalla nostra cartina
geografica, una mappa delle ferrovie italiane, che avremmo in qualche modo
raggiunto una località vicino a Prato, percorrendo la ferrovia Firenze-Bologna e
camminando lungo il fiume che pareva scorrere lungo questa. Ci incamminammo con
alcuni timori, cioè che una così importante linea ferroviaria poteva essere difesa. Era
un giorno di dicembre al crepuscolo facemmo un giro per evitare un paese proprio
davanti alla ferrovia, si trattava infatti di Migliana, lì incontrammo un tale che ci
chiese di farci riconoscere poichè ci aveva identificato dagli stivali dell’esercito
inglese.
Quello fu un momento molto particolare, carico di tensione, che l’uomo subito dissipò
mettendoci a nostro agio. Si chiamava Maurilio Franchi e ci persuase ad entrare nel
paese. Rimanemmo in questo luogo per alcuni giorni. Poi con lui e sua moglie Gina,
ci incamminammo una notte verso il Bisenzio, in direzione della linea ferroviaria, poi
ci dirigemmo verso la Calvana ed infine arrivammo in una fattoria sul Monte Morello.
Lì mi ritrovai in mezzo ad un gruppo di partigiani armati di fucili ed una
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mitragliatrice. Da ciò che sapevo del movimento antifascista e del ruolo degli italiani
nelle Brigate Internazionali in Spagna, avevo sempre immaginato che ci poteva essere
un movimento partigiano in Italia formato dallo stesso tipo di persone. Ora ero felice
di essere in contatto con loro. Dal mio punto di vista non era importante a fianco di
chi si combatteva il Fascismo, l’importante era combatterlo. Ciò che trovai fu una
formazione prevalentemente italiana ma che aveva anche persone jugoslave e russe.
Era veramente un’organizzazione internazionale ed anche nel modo di pensare
politicamente. Non eravamo considerati stranieri o ex-nemici, non eravamo guardati
con sospetto, ma fummo accolti con calore, come combattenti e compagni.
L’accoglienza che ricevetti a Monte Morello confermò la mia fede nei legami
internazionali che attraversavano le frontiere; avevo sempre ritenuto questo come uno
dei principi fondamentali del Socialismo. Fu proprio con questi compagni che imparai
a cantare Bandiera Rossa e il suo ritornello per “il comunismo e la libertà”, che era ed
è uno slogan utopistico, ma ogni persona ha bisogno di utopie era quello che Marx
chiamava “il sogno di una cosa”. Era chiaramente difficile per me orientarmi e capire
quale relazione intercorresse tra i membri dell’associazione.
Oggi conosco qualcosa della loro storia ma nel dicembre 1943 lo ignoravo. Tuttavia
non c’erano malintesi su quale fosse il ruolo di Lanciotto. Egli si imponeva (quasi)
con la sua presenza fisica, il suo impeto, e il suo incredibile coraggio. Ricordo un tale,
il cui nome era Ferdinando Puzzoli, il commissario politico col quale ebbi una lunga
discussione riguardo alla politica. C’era un Sardo, Luigi Ventroni, che aveva
l’incarico di occuparsi della mitragliatrice. Quando provava l’arma sulle colline, essa
funzionava veramente bene. Poi c’erano dei ragazzi di Sesto Fiorentino e altri che
ricordo vagamente eccetto i loro nomi di guerra ma che adesso conosco incluso
Guglielmo Tesi, Campeggiano,Vandalo Valoriano di Sesto Fiorentino, Guzzon Benito
e Lorenzo Barinci. C’erano due russi il tenente Vladimiro con il suo piede infetto,
aveva bloccato un convoglio tedesco, e uno ucraino, un uomo melanconico che era
convinto che non sarebbe mai tornato a casa. Dato che parlavo il russo potevo parlare
con loro e ricordo che quando cominciò a nevicare Vladimiro disse che in quel
momento sarebbe stato facile per i fascisti ritrovare le tracce dei partigiani. Dei due
jugoslavi, Thomas era un ragazzo grosso, che poteva caricarsi sulle spalle grandi pesi,
l’altro era Toni che credo fosse uno studente di Belgrado.
Ero con loro a Valibona ad aspettare altri che dovevano arrivare. Ted era andato da un
altra parte per prendere, se ricordo bene, altre munizioni ed armi. Una volta scesi giù
con il gruppo attraverso la Briglia, dove si diceva ci fosse una casa di un industriale
inglese. Forse quella poteva essere una possibilità per avere soldi e un po’ di cibo.
Lungo la strada scorgemmo una pattuglia di carabinieri ma loro non fecero caso a noi.
Ho alcuni ricordi delle mie passeggiate con Lanciotto verso la Croce della Calvana
aspettando i messaggi che dovevano arrivare da Campi, immagino. La notte
dormivamo bene distesi sul fieno, che sapevo essere un materiale caldo e un letto
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confortevole. I contadini erano sempre gentili con me. Ero tuttavia preoccupato del
fatto che avrei dovuto persuadere il gruppo, per il fatto che si doveva mettere una
sentinella. La sera del 1 gennaio ci fu una festa con balli e canti in una casa. Il giorno
dopo una maestra, che sembrava conoscesse le ragazze della casa, arrivò. La sua
presenza disturbava Lanciotto; parlammo insieme a lei, fuori dalla casa, avvertendola
di non fare la spia. C’era anche un uomo che suonava la fisarmonica, ma non lo
conoscevo. Il freddo era molto intenso nella notte del 2 gennaio. Ricordo che guardai
fuori nell’oscurità e vidi il tetto del fienile bianco dalla brina e la costellazione di
Orione che risplendeva sopra di noi. Non posso guardare questa costellazione senza
ricordare quella notte e ciò che accadde la mattina dopo. Fu l’ucraino che la mattina
del 3 gennaio, andò fuori e tornò dicendo che i fascisti erano li. Il combattimento è
sempre una specie di caos. Qualcosa si delineò nella mia mente da quella confusione,
vidi il sardo con la mitragliatrice che sparava ai fascisti, al di là dell’aia, che erano
arrivati da Vaiano. Lanciotto mi disse di andare fuori con lui e di coprirgli le spalle
con il fucile mentre lanciava le bombe ai fascisti che tentavano di trovare un riparo tra
i massi sul versante della collina. Trovammo difficoltà a rientrare dentro per i colpi
della mitragliatrice. Dopo trascorse quello che sembrò un tempo interminabile nel
quale sparammo da dentro il fienile a quelli che si avvicinavano con molta cautela,
salendo da tutte le parti; calcolai che dovevano essere una cinquantina. Mi ricordo che
le possibilità di sfuggire al loro accerchiamento erano poche. Nel frattempo la
mitragliatrice cominciò ad incepparsi – credo per il fatto che il sardo aveva inserto nel
nastro pallottole traccianti ogni cinque colpi. Poi Lanciotto ci disse di andare verso
l’entrata in basso e di inoltrarci verso la collina. Potevamo vedere che i fascisti erano
vicini alla fattoria. Vladimiro aveva un piede malandato e poteva camminare a fatica.
Le sue possibilità di fuga erano limitate.
Sulla collina sopra il fienile mi acquattai e sparai mirando ad un ufficiale fascista che
stava in piedi ed incoraggiava i suoi uomini ad avanzare. In un punto realizzai che le
pallottole rimbalzavano sul terreno, vicino a me, mi alzai per andare più in alto. Fu in
questo momento, credo, che dovetti saltare sopra il corpo di un giovane partigiano che
giaceva rivolto in avanti con la faccia che era una maschera di sangue. Mi dissi che
sicuramente doveva essere morto. Era, infatti, come sapevo, Loreno Barinci, che per
un miracolo si salvò. Dopo aver sparato più colpi, realizzai che il mio fucile era
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inceppato. L’unica persona che si trovava vicino a me e che si muoveva, era lo
jugoslavo Toni. Insieme decidemmo di trovare una via di scampo sulla collina e poi di
scendere lungo la valle del Bisenzio nella quale ci riparammo nel bosco.
Là incontrammo un ragazzo il cui fratello lavorava in una fattoria nella vallata. Venne
a vedere in quale modo avrebbe potuto aiutarci. Quella notte Toni ed io ci
incamminammo verso Migliana. Egli non vi voleva rimanere a lungo. lo venni
ospitato dalla famiglia Santi sotto consiglio di Maurilio Franchi che aveva preso
contatto con me. Rimasi lì per alcune settimane finché una mattina, quando ci fu
un’incursione fascista contro un gruppo di partigiani presso “I Faggi”, mi decisi di
andare via da solo, attraversando il Bisenzio e la Calvana per poi continuare verso
sud. Più tardi mi ritrovai in un distaccamento del Raggruppamento Monte Amiata,
così continuò il mio lavoro nella Resistenza.
Alcuni giorni prima della liberazione della città, ebbi l’ordine di entrare a Siena dove
mi vennero consegnati i documenti che mi facevano apparire membro della Polizia
Urbana. Rimasi lì e vidi le ultime truppe tedesche che abbandonavano la città, e presi
contatto con le truppe Alleate che entravano nella città subito dopo.In questo modo,
agli inizi di luglio, io ero “nel Campo” quando gli abitanti di Siena festeggiarono la
Liberazione con le bandiere delle contrade del Palio e la campana della torre del
Mangia suonò, cosa che accadeva soltanto in occasioni speciali. Nei miei ricordi ho
cercato di non essere contraddittorio: è il coraggio di quei giorni. Il coraggio non
soltanto dei miei compagni della Resistenza in Toscana, ma di tutti coloro che in un
certo modo rischiavano qualcosa ostenendoci e dandoci un aiuto decisivo. Mi ricordo
una donna in particolare che mi passò davanti in un sentiero di un campo mentre stavo
camminando per arrivare alla Sieve. Lei disse soltanto “Se sei uno di quelli non
andare di là”. Infatti, dall’altra sponda del fiume c’era una pattuglia proprio nel punto
in cui io sarei dovuto arrivare attraversandolo da quella parte, così scesi più sotto e lo
guadai da un altro punto. In quella stessa sera, dopo essere arrivato ad un ponte
ferroviario sopra l’Arno, scoprii che c’era una sentinella sul ponte. Camminai un po’
lungo la banchina pensando a cosa avrei dovuto fare. In quell’attimo sentii qualcuno
che chiamava Ps! Ps!” e vidi che si trattava di un uomo in una barca. Lo raggiunsi,egli
mi fece salire e mi portò al di là del fiume. Trascorsi la notte in una casa e la mattina
seguente mi incamminai verso il Chianti, dove gli uomini della Resistenza mi presero
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nei loro ranghi. Sarò debitore per tutta la vita a quegli uomini e a quelle donne.
“Abbiamo appreso purtroppo in questi giorni da una lettera inviata all’Anpi da Anne
Hood, la figlia del partigiano “Carlino”, che suo padre Stuart Hood, cittadino
onorario di Campi Bisenzio è scomparso il 31 gennaio 2011, all’età di 96 anni.
Stuart Hood, detto Carlino capitano dell’esercito inglese, unitosi alla formazione
Garibaldi “Lupi Neri” comandata da Lanciotto nel dicembre del 1943.Dopo la
battaglia di Valibona, tramite il CTLN venne indirizzato a Siena dove operò tra le file
della resistenza. In piazza del Palio, fu lui a far da tramite tra le forze alleate e
partigiane. Nato ad Edzel in Scozia il 17 dicembre 1915, morto il 31 gennaio 2011.
Capitano dell’esercito inglese, evaso dal campo di prigionia PG49 di Fontanellato, in
provincia di Parma, dopo essere stato ospitato a Migliana da alcuni contadini
insieme con altri suoi connazionali, si aggrega alla Formazione Partigiana
comandata da Lanciotto Ballerini. Stuart Hood con il nome di battaglia Carlino è un
intellettuale sensibile che lotta per gli ideali in cui ha sempre creduto. Stuart Hood ha
scritto e pubblicato i ricordi della sua drammatica esperienza italiana. Uomo di
cultura e di grande affabilità è cittadino onorario del Comune di Campi Bisenzio dal
1990. La sua scomparsa ci ha reso orfani di un compagno fraterno, la sua storia di
antifascista, di partigiano nella resistenza europea, segna il suo valore, la sua vita
impegnata nella ricerca e nella testimonianza, lo rende uno dei più preziosi
protagonisti nella lotta di liberazione dai nazifascismi e dalle loro nefaste in-culture.
Onore e gloria a Carlino. Vivi nei nostri cuori. Questa notizia ci addolora, erano
alcuni anni che Carlino si era ritirato in un luogo appartato, lontano da parenti e
amici, oggi questo magnifico testimone e protagonista della storia e della resistenza
europea vive nei nostri cuori, perché noi non dimentichiamo. Grazie”.
Fulvio Conti, Presidente Anpi sezione Lanciotto Ballerini
Michael Wilfrid LACEY
8306 SUPPLEMENT TO THE LONDON GAZETTE, 15 DECEMBER, 1939
ROYAL REGIMENT OF ARTILLERY.
Michael Wilfrid LACEY (105903) with precedence next below 2nd Lt. J. M. E.
Highfield.
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Dal CORRIERE PELIGNO
Una bella pagina di storia italiana – (La testimonianza di J.L. Alexander)
IL SENTIERO DELLA LIBERTÀ -da Nord a Sud- Settembre-Dicembre 1943
centinaia e centinaia di chilometri a piedi
Sulmona, 20 febbraio-Domenica 27 gennaio 2013, Giornata della memoria, a
Civitella Valle Roveto, è stato presentato il libro-diario di John Lindsay Alexander
“On Getting Trough – Attraversando le linee”alla presenza e con l’intervento del
figlio Charles Alexander.John Lindsay Alexander, “On Getting Through,
Attraversando le linee”, testo inglese a fronte e traduzione italiana di Angela Persia,
revisione e cura di Maria Caterina De Blasis, ed. ACE Graphic Solutions, Civitella
Roveto 2013. È il diario di John Lindsay Alexander, in tempo di guerra. Partito nel
settembre 1941 da Liverpool col settimo squadrone del Royal Engineer, arriva a
Durban, in Sudafrica, e infine al Cairo in Egitto.
Il 6 giugno 1942, in uno scontro di italiani e tedeschi dell’Africa Korps, comandati da
Rommel, contro gli inglesi, intrappolati nei dintorni di Tobruk, John Lindsay
Alexander viene catturato insieme ad altri commilitoni. “Non ricordo – scrive – di
essere mai stato così umiliato come lo fui in quel giorno e in quelli che seguirono”.
Ad El Alamein, con l’aiuto della scoperta del codice segreto tedesco (“Nessuno di noi
sapeva che un minuscolo gruppo di decriptaggio nel Regno Unito fosse sul punto di
svelare il sistema tedesco di codifica dei messaggi, conosciuto come Enigma… fu una
vittoria, una grande vittoria”), Rommel fu sconfitto.
Intanto, John Lindsay ed altri ufficiali prigionieri inglesi a Bengasi vengono caricati
su un aereo e trasportati a Lecce, al campo di prigionia: «Una fila di brandine, con
dura e ruvida biancheria. Eravamo pieni di pidocchi. Da dove diavolo venivano? Non
feci caso a quanti ne avevo io. Facemmo un immediato e gratificante uso delle
docce… Arrivarono alcuni parrucchieri. Ci tagliarono i capelli e ci rasarono la barba.
Non avevo avuto modo di radermi per buona parte delle ultime due settimane e
l’effetto che ebbe sul mio morale fu impressionante. Ritengo, quindi, che le guardie
italiane ci fecero stare bene.»
Il 19 giugno 1942, da Lecce, in treno, giungono al campo di prigionia n. 66, a Capua.
Incontrano un caporale di nome Magione, “chiacchierone, sempre pronto a fare
favori”. Ricevono i pacchi della Croce Rossa internazionale: tre pacchi ogni cinque
uomini, tutte le settimane. Purtroppo cimici e pidocchi dappertutto.
Da Capua vengono trasferiti a Piacenza, nel campo n. 17 di Rezzanello: «Un campo
abbastanza accettabile: biblioteca eccellente, edificio stabile, un pacco di cibo della
Croce Rossa per ciascuno… una manna dal cielo… Sono dell’idea che ci fosse lo
zampino dei canadesi.»
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Il 29 marzo 1943, un ulteriore trasferimento, da Rezzanello a Fontanellato, tra
Fidenza e Parma: il campo n. 49: «Grande e spettacolare edificio di stile
settecentesco, circondato da filo spinato, posti di guardia, alza bandiera .
Comparato con altri campi che già conoscevamo, e che non erano male, era una
reggia. Letti singoli, non a castello, servizi igienici eccellenti, cucina molto buona,
un grande campo da gioco.»
Mentre John Lindsay Alexander si trova a Fontanellato, annota: «Con nostra
grande sorpresa l’8 settembre 1943 le truppe del campo si disgregarono
semplicemente, urlando “per noi la guerra è finita”. Molte delle guardie si
diressero con naturalezza alla stazione per tornare a casa. Molte altre si
ubriacarono e danzarono intorno all’alzabandiera nel mezzo del cortile italiano.
Non sapevano se lasciar sventolare la bandiera o se tirarla giù e bruciarla.
Fecero entrambe le cose.»
I prigionieri, agli ordini dell’ufficiale maggiore inglese, si organizzarono e
abbandonarono il campo in gruppi di tre fino ad un’area stabilita: «La maggior
parte di noi iniziò ad immaginare dove fosse meglio dirigersi, se verso Nord, Sud,
Est od Ovest… Ci fu dato il permesso generale di dividerci, e dopo la voce che i
tedeschi erano diretti verso Fontanellato l’area si svuotò in fretta.»
Inizia così il lungo cammino, a piedi, da nord a sud dell’Italia di John Lindsay
Alexander, Jack Gatford e Michael Lacey.
Si incamminano verso Roma “a trovare quel dannato sbarco”, annota Alexander,
sapendo che uno sbarco dei soldati alleati sarebbe avvenuto sul Tirreno, nelle
vicinanze di Roma. Un viaggio lungo, con una media di “15 km al giorno in linea
d’aria, che si traducono in 30-40 km di cammino”.
Trovano sempre ospitalità e accoglienza nelle case della gente: «L’aiuto delle capre
(di cui spesso seguivano i sentieri) non era niente in confronto ai debiti che avevamo
con il contadino di collina e sua moglie, con il fattore e con il carbonaio, che, a turno,
salvarono la nostra libertà e persino le nostre vite. Non fu soltanto per l’aiuto
nell’attraversare colline e fiumi, ma anche perché ci lasciavano mangiare il loro cibo,
bere il loro vino…»
La polenta, che spesso mangiavano nelle case degli italiani, li incuriosiva e
affascinava. Ma l’interrogativo ricorrente, dal momento che le disposizioni dei
tedeschi contro coloro che aiutavano i prigionieri fuggiaschi comportavano la pena di
morte, era: «“Perché correte questo rischio?” La risposta fu splendida: “Mio figlio è
nell’esercito italiano e starà cercando di tornare a casa esattamente come voi… Prego
perché lui sia aiutato dalla buona gente, proprio come noi stiamo aiutando voi”. Più
volte, lungo il nostro cammino, ci imbattemmo nello stesso comportamento cristiano
ed era all’ordine del giorno ascoltare storie di altri prigionieri fuggitivi.»
A tappe attraversano gli Appennini: Passo della Cisa, Passo del Cerreto, Monte
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Cimone, Passo della Futa, Barberino del Mugello, Città di Castello, Umbertide,
Gubbio, Assisi, Spoleto, Leonessa, zone del Gran Sasso, Avezzano, Valle del Liri,
Balsorano.
A Balsorano trovano una famiglia che li accoglie e il mattino seguente li nasconde in
un ovile di montagna, assicurandoli: «Vi porteremo da mangiare tutti i giorni. State
fuori dalla capanna di giorno e non accendete mai il fuoco.»
Per portar loro il cibo, si avvicendavano varie persone della famiglia. Arrivò anche
una ragazza, sedicenne, che cercava di parlare in inglese. Si chiamava Angelina
Margani, amica della famiglia Mollicone, che li ospitava e si preoccupava di rifornirli
di alimenti. Dopo alcuni giorni, cercando di raggiungere il Sangro, arrivano verso
Sora e incontrano un paio di prigionieri inglesi fuggiaschi che li convincono a tornare
indietro, data l’invalicabilità dell’altopiano. Era il mese di dicembre 1943. Tornano a
Balsorano presso la famiglia Mollicone.
Dopo aver saputo la notizia dello sbarco alleato ad Anzio, il 21 gennaio 1944,
lasciano Balsorano e cercano di recarsi verso il fronte. Incontrano per strada un
personaggio, «che parlava inglese in modo abbastanza fluente. Si chiamava Vittorio
Gozzer, conosciuto come Tito. Era un ufficiale degli alpini… e cercava di aiutare
chiunque si fosse perso nel caos del centro Italia. Eravamo, per così dire un “pasto”
ideale per lui”.» Dà loro del cibo, li fa sistemare in una stalla e torna il giorno
successivo con altro cibo. Intanto lo sbarco ad Anzio non procede, perché i tedeschi
creano un blocco di difesa. La conoscenza di Tito li rassicura: «Tito, da quello che
scoprimmo con il tempo, era un bell’esempio dell’italiano libero che rischiava la vita
e la libertà per formare gruppi di partigiani, pronto ad aiutare i non italiani come e
dove poteva. Noi, fuggitivi di guerra britannici, ne traemmo un grande beneficio.»
Al paese di Norma, con l’aiuto di Tito, trovarono ospitalità e cibo, ottenuto
direttamente dal negozio del paese: “Un bel numero di uomini a Norma, ci vedeva
come amici”. Arrivarono altri soldati alleati ed ebbero lo stesso trattamento. La
presenza dei tedeschi nel paese e nella zona costringeva i fuggiaschi a mantenersi
nascosti.
Verso la fine di maggio del 1944, nell’ultima battaglia di Cassino, la guerra si
intensifica con continui attacchi tra i fronti avversari. I tedeschi sono costretti alla
ritirata: “tutti giovincelli tra i 18 e i 25 anni, stanchi affamati, senza spirito, sconfitti e
disorganizzati… Gli italiani erano contentissimi, li schernivano e
ridevano…”Finalmente, dopo circa nove mesi, i due prigionieri fuggiaschi ritrovano
l’esercito alleato. Ma nel presentarsi all’ufficiale britannico, in attesa della loro
identificazione, vengono rinchiusi nel carcere di Anzio: “Non ci fu dato niente da
mangiare e da bere”. Dopo qualche giorno, provata l’identificazione, sono liberi. Il 7
luglio 1944, John Lindsay Alexander e Jack Gatford tornano a camminare sulla loro
terra.
63
Mario Setta
Fontanellato Lunch 2012
A record number of Trust supporters gathered at the Royal Overseas League club in
London on 13th
November 2012 for the annual Fontanellato luncheon, which proved
to be an uplifting occasion.
The annual luncheon is always enjoyable, as it brings together the families of former
prisoners of war and celebrates the bravery of the Italian people who gave them
refuge while they were on the run. But this time there was an added sense of
excitement as we looked ahead to the year 2013, and the 70th
anniversary in September
of the Armistice with Italy. The Italian surrender was the catalyst for the escape into
the countryside of thousands of servicemen seeking to escape the Germans and
Fascists and rejoin the Allies.
Guest speaker Edward Stourton
Among the 109 guests were five “originals”, men who had been prisoners in Italian
camps: Cavaliere Ufficiale Keith Killby, OBE, the Trust founder; Major Michael
Lacey; Mr Rivers Scott, Mr Frank Unwin, MBE; and Major Mick Wagner, MBE.
Welcoming the guests, Sir Nicholas Young, chairman of the Monte San Martino
Trust, waved the diary that his own father had kept while a prisoner at the
Fontanellato camp, near Parma. “I bring it to the lunch every year,” he said. He went
on to outline the events that the Trust plans to hold in 2013, and in which he hoped as
many supporters as possible would participate. These will include a reception early in
the year at the Italian embassy in London, which has been kindly offered by the
Ambassador, and a number of different events and trails in September.
One of these trails takes place in the Tenna Valley in the north-east region of the
Marche, and is being jointly organised by the Trust and the Escape Lines Memorial
Society. Another trek – more precisely, a climb – is to pass over Monte Rosa in the
64
Italian Alps and down to Zermatt in Switzerland. This ambitious venture, involving
guides, ropes and crampons, is being organised by the family of Colonel Hugo de
Burgh, who was British commanding officer at Fontanellato and who escaped along
that route in September 1943.
In addition, there will be celebrations at Fontanellato itself. Several Trust families are
planning to visit the town, which is near Parma, over the weekend of September 8th.
Also, the town itself, which has always had strong links with the Trust, is laying on a
number of events to mark the anniversary of the Armistice.
At this point, Sir Nicholas introduced Dottore Francesco Trivelloni, the deputy mayor
of Fontanellato, who had come from Italy for the luncheon with the express purpose
of inviting Trust supporters to the town. Mr Trivelloni recalled his own time as a
student in London on a Trust bursary, eight years previously, describing it (“and the
British weather”) as a great experience. “In Fontanellato we consider it very important
that as many as possible of you participate in the events in September,” he said.
Resuming his own speech, Sir Nicholas then paid tribute to Mr Vanni Treves, CBE,
chairman of the Trust’s fundraising Appeal, for the enormous efforts that he and the
Trust’s fundraiser, Mrs Sue Comber, had made over the 12 months since the launch of
the Appeal. The total of money raised or pledged had reached £420,000, said Sir
Nicholas, adding that the Appeal would continue until the end of 2013 and would, he
hoped, be boosted by sponsorships of the trails.
Sir Nicholas then introduced the luncheon’s guest speaker, Mr Edward Stourton, the
BBC broadcaster. Reminding the audience that Mr Stourton presents the Sunday
programme, is a former BBC Paris correspondent and a founder member of Channel 4
News, he described him as “my favourite broadcaster: those wonderful, mellifluous
tones and that sense of deep integrity”.
“No pressure, then,” joked Mr Stourton, who began his talk by describing the Rossano
Valley Freedom Trail, in which he had recently participated in order to record
interviews for a BBC radio programme that will be broadcast in September 2013 to
commemorate the Armistice. There was, he said, one difference between the Rossano
trail in Italy and a similar trail he had done in the footsteps of escapers over the
Pyrenees. “The difference can be described in one word,” he said. “Lunch.” He
added: “We were never far from a bowl of pasta or a glass of wine.”
In a more serious vein, he said that, as a broadcaster, “covering a walk is an incredibly
effective way of bringing history alive”. Moreover, he said, “interest in the second
world war is growing all the time and we are still finding out new things about it. We
want to hang on to those stories, make sure they do not slip over the edge of history.”
65
BEYOND THE WIRE
A TRUE STORY OF ALLIED POWs IN ITALY
1943-1945
by Malcolm Tudor
..........................................................................................................................................
....................
The Mass Escape from PG 49
The prisoners of war in Fontanellato camp rose early on Thursday, 9 September 1943,
after receiving news the night before of the Armistice. Everyone was on parade at five
to nine to hear the orders of the Senior British Officer, Lieutenant Colonel Hugo de
Burgh. It was the first time that there were no Italians present. The colonel stated that
some time ago he had received an order from the War Office through the usual
channels. It instructed that in the event of an armistice everyone in prison camps
should stay put. The SBO said that he believed that the order was out of date and did not reflect the true tactical situation. Colonel Vicedomini had received information
that there had been fighting since dawn in Parma and Piacenza between German and
Italian troops. It was likely that the Germans would arrive at any moment to take over
the camp. If this happened, the Commandant had said that he would defend the village
with the force under his command.
Colonel de Burgh stated that he had considered offering the services of his men to
help the Italians, but had decided that he did not wish to do anything that might
embarrass the British Government.
A place was being found in the countryside where all the prisoners could be hidden.
The Commandant had scouts on the access roads to give early warning of any move
on the camp …
One British officer was already outside the wire. Lieutenant Colonel Hugh
Mainwaring had been given responsibility for coordinating the response to any
emergency. Once news arrived of the invasion, he had been tasked with finding a
refuge for the prisoners if the rapid evacuation of the camp became necessary. The
Commandant had called on Hugh Mainwaring at 7.30 in the morning and said that the
situation had deteriorated. He gave him a map of the area and suggested the best
direction to take. Accompanied by Captain Camino, the officer left the camp half an
hour later. They found a suitable hiding place five miles north-west of the camp. The
deep, winding bed of the Rovacchia torrent has steep banks covered with scrub,
beeches and poplars.
As the pair arrived back at the camp at noon, a patrol returned with the news that a
German column had been sighted only two miles away. It was drawn up on the main
road and was ready to take over the camp. Colonel Vicedomini was true to his word.
An Italian bugler blew three Gs, the prearranged alarm signal. Stuart Hood recalled
the sound of feet running in the corridors of the orphanage, shouts, laughter, and
commands as the prisoners sprinted down to the courtyard.
For the last time the men paraded in their five companies. They marched out through
the gap in the wire, led by Colonel Mainwaring and Captain Camino. The escapers
walked three in a row, creating a long, straggling column. It was hoped that the crew
66
of any German aircraft would judge the formation to be one of their own infantry
battalions.
Some of the Italian soldiers who had helped plan the departure joined their captain in
the column, including Lieutenant Peredini and Sergeant Major Rissotto. Colonel
Vicedomini and 40 of his troops chose to remain. The march out was done quietly
and in good order. By 12.10 the camp was empty. The walk to the hiding place took
two hours. The country lanes were sweltering in the afternoon sun, but no one seemed
to mind, they were so happy. Toby Graham recalled: ‘One moment we were prisoners
behind wire - the next, free men walking through sunlit vineyards, plucking at the
near-ripe grapes.’
DI LÀ DEL FILO
Una storia vera di prigionieri di guerra alleati in Italia
1943-1945
Scritta da Malcolm Tudor
BEYOND THE WIRE:
A TRUE STORY OF
ALLIED POWs IN ITALY
1943-1945
by MALCOLM TUDOR
The Greatest Escape in Italy
"A must read for those interested in both Italy and wartime tales" --- Italia! Magazine
To go beyond the wire was to leave the camp in which prisoners of war had been held for perhaps three days, three
months or even three years. For the first time the servicemen tasted freedom: the power to act, speak and think
freely. But this was only the beginning. On the horizon of the camp there should have been advancing Allied troops.
Planners in London said that there would be and issued a stay put order. Instead, there were only Germans and
Fascists. The escapers had to choose the right road to get them home. The wrong one meant recapture and a journey
in a sealed railway cattle truck to a prison camp in Germany.
The greatest escape in Italy was at PG 49 Fontanellato. Over 500 POWs marched out at noon on 9 September 1943,
just ahead of a German column sent to take over the camp. Among the Italians who helped the escapers were the
author's mother and grandparents. Beyond the Wire covers the experiences of the escapers from PG 49 and other
camps. A secret army of civilians and members of the Resistance helped the fugitives. As a result, over 17,000
former POWs were able to cross to Switzerland or to reach Allied forces within Italy. This new book is full of true
67
stories of personal courage.
These are the chapters:
Prisoners of War in Italy
The Camp
Hopes of Escape
The 45 Days
The Mass Escape
Every Man for Himself
Through Enemy Lines
Secret Journey
From Occupation to Liberation
After the War
The foreword is written by wartime partisan officer, Doctor Oreste Scaglioni. The book also
includes a Glossary, a Resources section and 16 photographs.
"A very good book, your best yet" - - Brian Lett, QC
- As advertised in Family Tree Magazine and Wartime News -
Military History - A5 Paperback - 144 pages
DI LÀ DEL FILO:
una storia vera di
prigionieri di guerra alleati in Italia
1943-1945
di MALCOLM TUDOR
ISBN 9780953896455
La grande fuga in Italia
" Lo deve leggere chi è interessato a storie sia in Italia che in tempo di guerra"---
Italia! Rivista
68
For You the War is Over
by
Dan Billany and David Dowie
DAN BILLANY and DAVID DOWIE (pictures taken while in Rezzanello POW
camp)
69
Taken from Dan Billany and David Dowie's original manuscripts, now in the Imperial
War Museum. In May 1949 Longman's published The Cage and generated a run of
very favourable reviews; however it was only a partial representation of the work
intended by the authors to be called For You the War is Over.
This book is intended to take you into the strange world where we have now been
living for a year. Naturally a small fee is payable.
If we delayed writing till we got back to England we should gain in tranquility, but in
every thing else we should lose. We have no idea how we shall regard this interlude in
the future years. The only thing we can be sure of is that we will not see it in the way
we see it now. Therefore the picture we mean to draw now is the one which we should
lose for ever if we delayed.
"Ere the fleeting hour goes by,
Quick! Thy tablets, Memory."
For as we write this, we are in it. We are not even 'certain' that we shall ever go back
to England. At the moment there is not a whisper of release, and the war seems well
able to go on for ever. Freedom is a hypothesis, prison is a fact.
DB and DD
70
Dr Paul Skrebels has been restoring the work to its original state, and in the foreword
to the book Dr Skrebels explains —
Two principal tasks were in involved in the restoration of For You the War is
Over.The first was to revise the text of the 1949 edition so that it more accurately
reflects the final draft of the manuscript. Thus previously omitted passages have been
reintegrated, while other sections altered or amended in various ways have been
returned to their original form. Second, the illustrations - hitherto unavailable to the
public have been included.The thumbnail sketches have been placed in or around the
text as close as possible to their original positions,at least as far as the transcription
from longhand to word-processed typescript allows, while the larger scenes of prison-
camp life return to their key roles as text in their own right. In addition, certain other
portraits and scenes from the notebooks, although apparently not intended by the
authors for inclusion,, have been employed to add variety and depth to the largely
unembellished latter part of the work, and so provide some balance to the much
illustrated episodes of the earlier part. Another stage of the project will entail the
addition of notes and appendices drawn from the notebooks, earlier drafts and other
works by Billany and Dowie, as well as broader background and contextual
information as aids for contemporary readers and researchers.
There is no question that The Cage, even in its first published form, is a remarkable
work and a noteworthy addition to the canon of WWII and PoW literature. It is hoped
that in its restored form as For You the War is Over it will be recognised both as a
unique and groundbreaking tour-de-force in war writing, and for its potential to
contribute even further to our understanding and appreciation of that body of work
and of the times and the people who helped to create it.
71
The Fontanella family, ordinary people, who like the Melettis and many others, risked
their own lives giving Dan and David shelter from the Germans . When WWII was
over Dino Meletti sent a parcel to the Billany family—it contained the manuscripts to
The Trap and The Cage (For You the War is Over) which Dan had entrusted to his
safe keeping.
Colonel Eugenio Vicedomini ran Fontanellato, Camp PG 49. In September 1943 as
the Italian Armistice approached the Colonel proved to be a man with strong moral
principles. Going against orders to wait for the Germans to arrive and transport the
prisoners to a camp in Germany, Vicedomini, with Lt Col Hugo de Burgh, the Senior
British Officer in the camp organised freeing the prisoners. And so it was that Dan
Billany and David Dowie with all the other PoWs left Fontanellato.
However, Colonel Vicedomini stayed to face the Germans. A valiant deed which was
to cost him dearly. When the Germans arrived to find not a single Allied prisoner,
they took him instead. Arrested, he was sent to a camp in Poland. Badly treated and in
poor health he returned soon after the war ended to die in Italy.
Meanwhile, although Dan and the others were no longer prisoners, they were far from
safe. The Allied Lines lay 500 miles south. The map shows roughly the route taken by
Dan and David from Fontanellato to Capistrello. Sympathetic Italian families gave
them food and shelter along the way, risking their own lives in doing so. It was the
practice to leave a chit with their hosts; a simple bit of paper with their names on it,
stating that the holder had looked after them, the idea being that the British
Government would recompense them for their trouble. The last chit signed by Dan,
David and Alec Harding to be handed in was from Capistrello, dated 20th November
1943. On leaving they are presumed to have headed south.
As can be seen from the picture of Capistrello (right) the journey was going to be far
from easy - in a mountainous territory, crawling with Germans and bitterly cold the
three friends vanished. To this day their fates remain unknown.
72
Home by Christmas? *
In questa foto di primavera-estate 1944 a Bandera di Vernasca sulla costa di
Vigoleno versante torrente Ongina vediamo al centro in camicia e cravatta Joseph
Cahalane , io sono seduto tra le sue gambe. A sinistra Bruna Vajenti, poi Robert (?)
militare inglese, (autore di un diario di guerra in mio possesso) ha in braccio mia
sorella Franca. In alto Carmen Bertolotti, deceduta il mese scorso. Verso destra
abbiamo poi Bianca Vajenti, a destra Renzo (?) con la famiglia. In mano di Renzo
un binocolo da marina tedesco preda di guerra. Insomma un bella foto che sarebbe
bastata a mandarci tutti al muro.
La casa a Bandera di Vernasca
Joseph Cahalane: stocker, POW poi amico
Joseph Cahalane era un marinaio del sottomarino inglese Oswald catturato insieme al
restante equipaggio il 1 agosto del 1940, al largo di Capo Spartivento. Sbarcato poi a
Taranto fu internato prima nell'isola di Poveglia (Venezia) e, nell'ottobre 1940, a
Sulmona, Nell'aprile del 1941 fu trasferito a Rezzanello nel piacentino per finire, nel
marzo del 1943 al Campo 49 a Fontanellato dove si trovava alla data dell'armistizio
proclamato dal Governo Badoglio l'otto settembre del '43. Evaso insieme agli altri
prigionieri, dalle campagne della bassa si diresse verso le prime colline nel piacentino
dove, a Bandera di Vernasca, fu aiutato dalla famiglia delle sorelle Vajenti e la sua
vita si incrociò con la mia. Finita la guerra Joseph tornò in Irlanda, suo paese. Morì
73
relativamente giovane a 58 anni nel 1972. Quest'ultima informazione mi viene dal
figlio di Joseph, Barry, con il quale sono recentemente venuto in contatto dopo una
lunga ricerca resa difficile dal fatto che di Joseph non conoscevo che il nome
(Giuseppe) e sapevo solo che era un irlandese evaso dal campo di Fontanellato aiutato
dalla mia famiglia.
Per qualche giorno, da domani, Barry sarà in Italia e ripercorreremo insieme
quegli anni e quei luoghi.
Ma ecco come, con maggior dettaglio, è iniziata la storia di Joseph in Italia.
Oswald era un sottomarino tolto dalla riserva ed mandato ad operare nel Mediterraneo
durante la seconda guerra mondiale. Non era il meglio, male equipaggiato, antiquato e
con difetti meccanici particolarmente nelle gallerie di uscita a poppa. Al sottomarino
Oswald erano state apportate modifiche per renderlo più governabile senza tuttavia
ottenere i risultati sperati.
Nella notte del 1 agosto 1940 l'Oswald era in superficie al largo di Capo Spartivento
per ricaricare le batterie ed effettuare manutenzioni di routine quando fu notato
dall'intercettatore italiano Ugolino Vivaldi.
Quando i marinai dell'Oswald si accorsero della presenza del Vivaldi questi stava
chiudendo rapidamente e nessun sottomarino avrebbe potuto immergersi per evitarlo
in tempo. Procedendo a più di venti nodi il Vivaldi speronò l'Oswald e lo travolse.
Il sottomarino era fatalmente ferito e il Comandante Frase dette l'ordine "abandon
ship" (abbandonare la nave). I cinquantacinque marinai si trovarono in acqua e furono
raccolti dalla nave attaccante, tre di essi non sopravvissero. I superstiti dopo essere
stati medicati furono internati in campi di prigionia italiani.
Alla fine della guerra il Comandante Inglese David Fraser e altri due ufficiali furono
processati dalla corte marziale per la parte avuta nell'incidente, ma questo c'entra poco
con la nostra storia.
L'intercettatore Ugolino Vivaldi
74
Il sottomarino Oswald
Marinai del sottomarino Oswald a bordo dell'intercettatore italiano Ugolino Vivaldi.
*********************
"Home by Christmas" è il titolo di un libro di Ian English dedicato a quei 600 prigionieri di guerra che evasero dal campo PG49 di Fontanellato l'otto settembre 1943.
75
8 settembre 1943
Bandera di Vernasca 1944 - Joseph Cahalane, irlandese, ex-prigioniero del Campo di prigionia di
Fontanellato, Maria Vajenti poi Robert (?) militare inglese, autore di un diario di guerra.
Un episodio tra i mille di quelle giornate convulse e drammatiche è quello
raccontato nel diario che un ex-prigioniero del campo di Fontanellato ha lasciato
alle sorelle Vajenti che ne protessero la latitanza tra il 1943 e il 1944 sulle colline
attorno Vigoleno in Val d'Ongina. L'intero diario è stato pubblicato dal sito inglese
Prisoner of War .
Ecco alcune righe del diario:
"It happened on the evening of September 8th. I was seated on the wooden trestle
table in our messroom of P.G. 49, sipping a bottle of iced orangeade, thinking of
nothing in particular except perhaps that the evenings were beginning to be of a
temperature rather more bearable than they had been throughout the summer months,
& also perhaps, looking at the grubby table tops, that Griffiths wasn't worrying too
much about maintaining their cleanliness, he having just taken the job from me.
C.P.G. 49 was a converted orphanage situated on the outskirts of the "Paese di
Fontanellato", a small but seemingly important centre for farmers living over a fair
area around, judging by the crowds that always appeared on 'festa' days, & the truck
& wagons that were always in & out through the working days. As I gazed through
the window on this particular evening, just before 8 o'clock, the scene was much the
same as on any other. People - mostly women & girls, strolled slowly, arm in arm,
along the road by the camp, occasionally one of them just before rations behind the
hut, risking a sly wave across, in response to the group of ladykillers, the same little
group to be seen sitting outside against the wire every other night since the camp had
opened six months before. One or two bicycles weaved their way slowly through those
walking, as they always did, there being apparently no law to keep pedestrians on the
side of the road to allow free passage for wheeled traffic. It had always amused me
how, a heavy lorry or a bus (one bus passed the camp four times a day) invariably
went through the village without reducing speed, & sounding its horn, without a
76
break, starting a kilometre before the village finishing a kilometre after, the
pedestrians parting slowly, without excitement or harsh word, before the onrushing
vehicle. Much the same thing happens with a car but somehow was never as amusing
to me."
Traduzione informale. Accadde la sera dell' 8 settembre. Ero seduto alla tavola di
legno coi cavalletti nella nostra mensa del P.G. 49, gustando una bottiglia di aranciata
ghiacciata, pensando a niente di particolare eccetto forse che le serate stavano
diventando più accettabili per temperatura in confronto a quelle insopportabili dei
mesi estivi, e anche, forse, guardando alle superfici sporche del tavolo, che Griffiths
non si era preso abbastanza disturbo per mantenerle pulite, lui che aveva preso proprio
il mio posto. Il Campo P.G. 49 era un orfanotrofio riconvertito situato alla periferia di
Fontanellato, un piccolo ma apparentemente importante centro per contadini che
vivevano nella zona circostante, giudicando dalla folla che appariva sempre in "festa"
in quei giorni, e i camion, i trattori che andavano e venivano nei giorni lavorativi.
Guardavo fuori dalla finestra in quella particolare sera, prima delle 8, la scena era
come il solito delle altre sere. La gente soprattutto donne e ragazze, facevano
pigramente la passeggiata, sotto braccio, lungo la strada vicino al campo, talvolta una
di loro proprio dietro la capanna della distribuzione dei viveri, rischiava un cenno
veloce in risposta ad un gruppo di "ladykillers", lo stesso gruppo che si poteva vedere,
seduto all'esterno del filo spinato, ogni notte da quando il campo era stato aperto sei
mesi prima. Una o due biciclette erano intralciate da quelli che passeggiavano, come
facevano sempre, non essendoci apparentemente alcuna regola che tenesse i pedoni da
una parte della strada e permettesse il libero passaggio al traffico su ruote. Mi ha
sempre divertito come un pesante camioncino o un autobus, (un autobus passava
quattro volte al giorno di fuori del campo) che invariabilmente attraversava il paese
senza rallentare, suonando il clacson continuamente, senza alcuna interruzione;
cominciava un chilometro fuori dal paese, finendo un chilometro dopo, i pedoni che si
dividevano lentamente, senza alcuna parola eccitata o aspra, davanti all'irrompente
veicolo. Spesse volte questo accadeva con un macchina, ma questo non mi divertiva
così tanto.
Camps : P.G. 49. The following are notes that were written by an unknown prisoner of war in exercise
books, concerning the events at the time of Italy's surrender and the mass escape into
the countryside of the 600 prisoners at P.G. 49. The notes were written in several
exercise books, many pages of which are devoted to a summary of news reports
obtained concerning the progress of the Allied armies around the world. The first
names of the prisoners who eventually sought refuge with the Ponzi family are
Robert, an Englishman, and Patrick, and Irishman. If you are able to help identify the
author of this narrative, please write to [email protected].
77
It happened on the evening of September 8th. I was seated on the wooden trestle table
in our messroom of P.G. 49, sipping a bottle of iced orangeade, thinking of nothing in
particular except perhaps that the evenings were beginning to be of a temperature
rather more bearable than they had been throughout the summer months, & also
perhaps, looking at the grubby table tops, that Griffiths wasn't worrying too much
about maintaining their cleanliness, he having just taken the job from me. C.P.G. 49
was a converted orphanage situated on the outskirts of the "Paese di Fontanellato", a
small but seemingly important centre for farmers living over a fair area around,
judging by the crowds that always appeared on 'festa' days, & the truck & wagons that
were always in & out through the working days. As I gazed through the window on
this particular evening, just before 8 o'clock, the scene was much the same as on any
other. People - mostly women & girls, strolled slowly, arm in arm, along the road by
the camp, occasionally one of them just before rations behind the hut, risking a sly
wave across, in response to the group of ladykillers, the same little group to be seen
sitting outside against the wire every other night since the camp had opened six
months before. One or two bicycles weaved their way slowly through those walking,
as they always did, there being apparently no law to keep pedestrians on the side of
the road to allow free passage for wheeled traffic. It had always amused me how, a
heavy lorry or a bus (one bus passed the camp four times a day) invariably went
through the village without reducing speed, & sounding its horn, without a break,
starting a kilometre before the village finishing a kilometre after, the pedestrians
parting slowly, without excitement or harsh word, before the onrushing vehicle. Much
the same thing happens with a car but somehow was never as amusing to me.
Farther down the table to my right an argument was in progress between a group of
would-be Generals on the where-a-bouts of the main German line of advance in
Calabria. They paused and all bent over a map - cut from the "Caurier della Sera" -
and then all began talking at once - just as they always did. At the table behind was
another argument, somebody said "There is no reason why the war shouldn't end
Tomorrow." & a dismal voice drawled back "No! Another two years at least." But you
met them like that in prison camps too many of them. At the other end of the mess a
disappointed winefly roared at the fellow selling wine, for selling it at all too early.
Above the buzz of many conversations & argument through the door came alternately
a squeak & croak resembling a cat & a porker - the cat having its toe trodden on & the
porker being towed by its ears. The trumpet toying [?] a bit of a combination in
preparation for Tomorrow's lunchtime ½ hr of dance music by the camp orchestra. It
was just after 8 o'clock.
Looking through the window an Italian soldier appeared at the door of the hut: with a
grin which divided his face in two, his fists were clenched as he semi crouched in the
doorway. Suddenly he was rudely catapulted from where he stood tense & out
tumbled five or six more from behind him. Some of them looked in our direction &
stuck two thumbs in the air, others ran in the direction of their sleeping quarters,
shouting as they went, the rest kicked their steel helmets high in the air. Looking past
the hut to the road, life was being speeded up: cyclists put on speed, those that had
78
been strolling began to run, & in a very short time a cloud of dust lay over the road,
stirred up by madly careering cyclists & others running as hard as they could go.
Inside the messroom arguments eased up & one or two were larking out inquiringly.
One of the lady killers also seeing that something was on risked jail & called to the
sentry on the tower asking what all the excitement was about. He replied "Tutti
finito." "What's that mean?" somebody asked, everybody thinking, but not daring to
suggest that he might mean the war, for to be wrong about anything regarding the war
news would bring endless rebukes & sneers from all directions.
The excitement spread. Somebody who had been speaking to the guard on the gate
came in and said that the war was over. Immediately myself & some others went
outside where we met two Carabinieri but they knew nothing & they passed out only
to return very shortly to say that there was an armistice. I said, thinking of the
Germans "Why the ______ don't they open the gates," but nobody replied.
I went upstairs to the room I shared with thirty others at the top of the building. I
opened the door. It was quiet inside: everybody either reading sleeping or mending,
talking softly. I said in a voice as normal as I could make it "Pack your gear Gents -
going home." as if I was just reminding them "Porridge for breakfast in the morning."
as I had often done before. The silence continued. One or two that had looked up
when I spoke went on with what they were doing. "No Skylark" I continued. Someone
who had been looking out of the window said "Something's on anyway, the It's have
all gone barmy outside". Then everybody seemed to wake up together. Golden came
in & said it was all balls. Everybody was talking. More came in. Some went to the
windows & were waved back by the Italians some of whom pointed rifles up at the
windows which they always did when they were excited.
I left the room again & went downstairs to the main hall expecting something to
happen there (although I wasn't sure exactly what nature). Every night in this hall
bridge is played & tonight they had began as usual after supper. But everybody had
the same idea as myself & a regular stream flowed in through both doors. The bridge
enthusiasts soon forgot their enthusiasm & the diehard's were forced to, by people
pressing about the table & by the time the S.B.O. mounted the table to speak, it
seemed that every one of the six hundred P.O.W.'s were wedged in the hall to listen to
him. I don't remember exactly what he said, but it was something about having seen
this happen at a previous camp. This when Mussolini packed up. He had spoken of it
to us before. Apparently a number of officers at this previous camp had started kissing
Carabinieri thinking the war to be over. Of course he hadn't seen anything like it
before actually he must have known this. He also said that an armistice meant
absolutely nothing & that hostilities were likely to recommence at any moment. Well,
a nation would be disappointed. Events lately proved this to be so. He finished by
telling everybody to continue as usual as if nothing had happened which of course
was asking rather a lot. He had only been in the bag a few months.
As I left the hall to go upstairs again, I heard somebody say that the 'gen' that the
Gerries were pulling out & the via Imelia was choked with vehicles going north, that a
Carabinieri had brought in that morning must have been correct. Events proved the
79
first part to be entirely wrong & that the Carabinieri didn't know north from south.
Later when the excitement had died down and & one was able to think more clearly, it
seemed ridiculous to suppose that the Germans would retreat in this manner allowing
the British Force to reach the threshold of Germany with only fighting a rearguard
action. But I've no doubt it was, the excitement of the moment and this false gen, that
drew my first doubts as to what the Germans would do about it.
Only a few days before the armistice, in reply to a question that an officer had asked
me regarding when we would be going home, I said "it depends on what all these
Gerries are doing here. If it is a military occupation, you can expect to be in Germany
very soon." (After the resignation of Mussolini German troops poured into Italy &
were to be seen up & down the road past the camp all day - every day on bicycles,
horses & carts, two stroke m/cycle, cars & coaches, lorries, everything, whereas
previously, in two & a half years I had seen only two German soldiers, in Piacenza,
while en route from Rezzanello to Fontanellato). He had laughed & said that he didn't
think so. And I went to bed that night & thought no more of Germans.
Talking to Les Woodward & John Rogers just before turning in I said "I feel as if
something ought to happen. It's too quiet." When I saw John Rogers about a week
later he reminded me of these words. He wasn't so happy then, after sleeping for three
or four nights under the [?] on a very damp river bank without groundsheets, & only
half a blanket.
September 9th
I awoke on this morning, just as it was breaking daylight at about six o'clock. As I lay
awake thinking of turning out I became conscious of many explosions taking place in
the distance. Later we learned it was a battle between the Germans & Italians for
Parma Railway Station. Everything went as usual until just after rollcall had been
sounded.
While on my way down to the usual spot for rollcall I was turned back & told to form
up as the back of the building instead of at the side. Everybody seemed to be making
for the same spot & when we had eventually sorted ourselves out into threes, the
S.B.O., mounted the steps & delivered his second speech in twelve hours. He started
by telling us that the Italian Commandant had said that he would defend the camp
should it be attacked. "My first inclination," he went on "was to ask if we could assist:
but on second thought I decided that we were still at war with Italy & it was not up to
us to interfere." After a pause he went on to say that the Italian Commandant was
prepared to liberate us should the necessity arise. "Everybody must be prepared to
leave at five minutes notice." & went on with his plan for the evacuation of the camp.
"The alarm will be a series of "G's" sounded on the trumpet. Apart from haversack
rations, which will be prepared you will go exactly as I'm dressed here now in
Battledress." He finished with his plans for dividing the camp into Companies,
Platoons & Sections emphasising the fact that discipline must be maintained at all
times. When the alarm was sounded we were to march down & form up in our
respective platoons - Companies etc in the field. We were given to understand that we
80
would probably be back in the camp for supper. And so we all went & changed into
Battledress.
I borrowed some Lira & tried without success to purchase a Dunhill pipe which I
knew to be loafing in the canteen. There was a queue outside the Tobacco store of
individuals drawing their hoarded tobacco & and another outside the officers food
store drawing haversack rations. The Mess & kitchen staffs went about their task of
preparing lunch which they completed & had nicely laid out on the tables but it was
never eaten, at least by the P.O.W.'s.
By midday most of the rush & tear had died away again but not for long. Just after
twelve I was in the room, looking down on to the road. I saw an Italian walking along
the road away from Fontanellato. He stopped suddenly & looked down the road,
shouted something to one of the Italian soldiers standing by the Interpreters office &
then took a header over the hedge. The Soldier took one look down the road shouted
something to the Guard Commander standing by the Guardroom & then turned & ran
to his sleeping quarters. I saw him half an hour later in civilian clothes riding a
bicycle away from the camp. I thought "That's the [?]", & without waiting for the
"G's" went over to my bed picked up my haversack, which I had packed earlier with
the rations provided, a spare pair of socks & shaving gear, completely forgetting my
pipe and quarter lbs of Dunhill tobacco I had had given me during the morning, &
went downstairs & stood on the top of the steps leading down to the yard. Then the
alarm was sounded.
Only a few people had found their way outside when there was a roar & a Ju.52
appeared from behind the trees & flew low over the building. I looked up at it
doubtfully, & was ready to jump in a small gap between the steps of the building,
several more standing by, had the same idea apparently, for one or two edged over to
the parapet wall. But nothing happened & in ten or fifteen minutes everybody was in
threes in their respective sections, platoons, etc., & the roll called ready to march
through the gap in the wire previously cut by the Italians.
It was about half past twelve when the first Company marched out through the gap
with News hound [?]'s camera an' all, recording forever that great event. How the
Germans didn't catch the whole batch that afternoon is something I don't suppose
anybody will ever know. Six hundred marched in threes across a main road to a
previously arranged rendezvous on a river bank three miles N.W. of the camp. And
how they didn't catch them there is another mystery, for it was two days before the
order was given to disperse, although many including myself pushed off on their own
accord beforehand.
By the orders we received that afternoon one would imagine that we had the support
of a couple of armoured divisions & ourselves armed to the teeth with automatic
weapons. Sections were sent on patrols covering all the roads round about. But for
some reason or other nobody saw any Germans, at least I never heard of anybody
having seen any, which was lucky for us. Most of the information, in fact all of it, I
think, came from Italians, among which was the news that back at the camp the
Germans were selling our gear to the Italians. I decided after this that there was no
81
point in returning to the camp, and looked about for a companion who was prepared
to take a stroll south, but at this time nobody seemed to think it was necessary. This
was about four in the afternoon. It will probably never go down in History, but it can
truly be said I think, that six hundred Officers & O.R's took the commune of
Fontanellato in the face of the German Army, without guns, ammunition, or loss to
themselves.
The Italian civilians greeted us with great enthusiasm & many wanted to do
something to help us. They produced slowly six hundred cut civilian suits of some
sort & fed everybody. But there was far too many just hanging around for any
comfort. They looked at us in awe as if we were animals of some rare species that had
just escaped from the zoo. But I didn't mind that. It was the fact that they just stood in
a crowd on a bank which if, in itself, didn't attract attention & give the game away, I
thought it quite reasonable to suppose that there would be at least one black sheep
among them who would "blow the gaff" to the Gerries.
When it began to get dark all the patrols were called in & we were told to make
preparations as if to stay the night, but at nine o'clock we were to move on farther.
This was an effort to evade the civilians a little. I had nothing to make a bed with - not
even a Great Coat, & I didn't see much point in sleeping on a wet river bank when
there was so many dry barns about, & I decided that after the move came off, I would
climb into the nearest one. As things turned out I was in one quicker than I thought. It
was almost dark when a lad of about twelve years rode a bicycle into the camp in a
very excited condition & said that the Germans were a kilo away coming down the
road in our direction. Quite a number decided then that it was time they went, & a
crowd of about twenty, myself included went off down the river bank. Later I met
S.S. somewhere near Bardi who said that he had given a youth some lira to come into
our midst & start a panic to provide an excuse to go.
I soon decided that the crowd was too big so I nudged L.W. & went over the bank &
L.W. followed. Shortly after larking around in the dark on the other side we saw a
pair of white trousers walking across the field & a closer inspection proved them to
belong to J.B. We three decided that the thing to do was to get our heads down
somewhere. So we walk on a bit & after five or ten minutes saw a dim light through
the grape vines. J.B. volunteered to investigate so L.W. & myself waited under the
vines. After what seemed an hour but was only about ten minutes the pair of white
trousers came walking out of the darkness once again. He reported that the light came
from a cow stall inside of which three S. Africans. G.L. & V.G. Bros, were consulting
maps torn from an ordinary school atlas. None of them turned out to be much good.
We decided to go in & have a look, & it was here that I first regretted not having
learned Italian. The S.A. G.L. seemed to manage all right, J.B. managed with a
struggle to make himself understood but V.G. Bros, L.W. & myself were starting
from scratch. We messed about in this stall for a time getting nowhere but when G.L.
asked the contadino if we could sleep in his barn, he refused & said something about
the Germans concentrating forty divisions in Italy & that it was too dangerous. We
learned afterwards that he had been a big fascist.
82
However leaving him six of us crossed the river to try the other side. The first place
we tried we were lucky. Five of us stayed at the house of G.P. & F.C. for three weeks.
The sixth caused the remainder a certain amount of worry by pushing off the next
morning dressed in G.P.'s Sunday suit, sunday shoes & his wife's bicycle & we never
saw him again although after two weeks & much bother retrieved the clothes &
bicycle. Both G.P. and F.C. agreed to let us stay & there & then produced bread &
cheese & wine - white bread, the first we had seen in two & a half years.
G.P. told us he was Carabinieri & that when the armistice was arranged decided he
didn't like the Carabinier any more & came home. F.C. was much older told us how
when he heard the armistice he had drunk more than his ration of vino & on his way
home had fallen from his bicycle & knocked his front teeth out. We sat up in this
hayloft talking, eating & drinking until about eleven o'clock, of course G.L. doing
most of the talking. So we spent our first night in the hay. It was the next morning that
G.L. donned G.Ps Sunday suit & disappeared into Fontanellato.
For three weeks all but a day we stayed working in the fields trying to make up our
minds whether to go south or wait.
The condition of the Italian people, by condition I mean principally their education
and morale or general outlook, after twenty years of Fascism, is such as to constitute a
menace to the prosperity & peace of Europe. To begin with the majority of Italians
believe that the streets of London really are paved in 21 K gold blocks. This is due
largely to Italians that emigrate to England & return after ten or fifteen years loaded
down with money, and also possibly the fact that those Italians in Italy find it easy to
part English tourists from their money. Although I am quite certain that very often in
these cases the Italian could show far more money than the English tourist, although it
would be difficult to convince the Italian of this.
When one tries to explain to an Italian that in England, to play games or to have a
holiday of some sort from which only amusement and not money is derived, is
something that nearly everybody has, from the poorest to the richest, he looks at you
doubtfully & says "yes but Italy is a poor nation." which is quite right, but not in the
sense that he means. The average Italian has no idea how to play games in spite of
large stadiums built by Mussolini for the people in which to play. But this was all a
part of the gloss to hide the dust & dirt underneath. Very impressive in photographs
but Mussolini never made any attempt to teach the people how to use the sports
stadium, in fact he made no attempt to teach the people anything except to have faith
in him, in this he succeeded.
Where as in England the people believe in working a part of the time & then having
some form of a hobby at which to amuse themselves, in Italy due probably due to the
insecurity of life a large surplus of labour in the country a love for gold. An Italian is
prepared to & does work all day & half the night for practically nothing, eating the
very minimum of food value, & walking about in rags, having possibly one decent
suit which he wears to church Sunday morning, changing back to his rags
immediately on his return. He never spends a cent, & his house is barely furnished
with primative benches & stools. It is easy to see how an Italian makes money in
83
England, & without thinking of what he is doing to the living standard of English
workers.
------------------
The Allied advance eventually overtook the area and the unknown prisoner of war
returned home. He left the following note in one of his notebooks to ask that the
family be compensated for the loss of their house and business in several bombing
raids in 1944.
July
The payment of Italian civilians for maintenance of Ex P.O.W's in German occupied
territory.
This is to certify that the undermentioned family, has, at great risk to themselves,
provided me with a billet, food & clothing, maintaining me in every possible way
from 15th November onwards.
This family, last November accepted me into their house at a period when all the
communes in the mountains were garrisoned by very aggressive Fascist troops. Due
to this the majority of the Italians were too terrified to have the ex-p.o.w's even near
their house; also there was some disappointment in the progress of the Allies in Italy
who were at this time just across the Volturno River.
This family accepted the risk & gave me a good suit of clothes & a bed.
On May 2nd, their house was flattened when Allied planes bombed Fidenza. Eleven
days later on the 13th May their business was lost in a second Allied bombardment. In
spite of this & many [?] by Fascist & German troops I have never been asked to leave
the house.
Having no other means of living, it is vital that the business in Fidenza, the "Cafe
Ballila" be opened again as soon as. Since the bombardment they have lived on
capital it would be appreciated if a part or all of any payment forthcoming be made in
stock for the café.
------------------
The following is a letter that he wrote to the family from England.
31, Union Road,
West Croydon,
Surrey,
England.
27th November 1946,
Dear Maria and Family,
Many thanks for all your cards, your letters and the photograph of Getto and Franca. I
sincerely hope that Albertina is in better health. Give her my regards and tell her I
hope that she will soon be well.
I am very sorry at not having written before, but so much has happened during the last
few months, the most important being my demobilisation from the forces. I am now a
civilian and working for my living(?), and do not particularly like it, however, one
must live. In spite of a restless feeling I am managing to settle down and often when
sitting in my stuffy office, I wish I were back on top of those mountains above Bardi.
84
Being of a naturally lazy disposition, lack of correspondence does not mean I do not
think of you. My Italian is quickly leaving me: when recently I visited an Italian
Restaurant, Genero's in Soho, London, I found it very difficult to understand the
Italian waiters, who spoke too quickly for me now. I did enjoy my plate of pasta suita
though.
Beniamino Gigli has been singing in London recently but I was unable to get seats for
any performance. There is also the San Carlo Opera Company from Naples touring
England and we saw I Pagliaci and Cavaliera Rusticana, which were both excellently
performed.
I have not heard from Giuseppe, Patricio or Giovanni for some considerable time
now, but I suspect they are still about somewhere, either in Europe or the Pacific.
Egito and Franca didn't seem to have altered much. In the photo Getto seems to be
growing up - he will be too heavy for a ride "in gruppo" soon.
Sorry to hear that the price of everything is so high in Italy. In England too everything
is getting more expensive everyday, although the price of food is maintained fairly
steady, it is only because of rigid price controls and large sums of money being payed
out by the government.
I am sorry I cannot send you Patrizio's address because I do not know it, but you
could address a letter to:-
Major P. De Clermont,
The Cavalry Club,
Piccadilly,
London.
I believe it would find him.
My parents send their kindest regards and sincerely hope this finds all my friends
well, in Italy. Sorry that I was unable to visit you this year but will try again next year.
All good wishes,
Very sincerely yours,
My thanks to Ambrogio Ponzi ("Getto", as mentioned in the above letter) for this
account.
MICHAEL GILBERT
It could easily be argued that Michael Gilbert was one of the greatest
crime fiction writers of the twentieth century. He belongs to a very
select group of writers who have been named Grandmaster by the
Mystery Writers of America, awarded a Diamond Dagger for career
accomplishments by the Crime Writers Association of Great Britain
and honored for his lifetime achievement at Bouchercon, the World
Mystery Convention. Yet in 2007, less than a year after his death on
February 8, 2006, at the age of 93, only one of his more than forty
books—and a short story collection at that—was in print in the
85
United States. Why this is should be so tells us more about the
lamentable state of publishing today than it does about Gilbert’s talent
and his immense contribution to the genre.
Some critics have argued that Gilbert would have done better to stick
with just one form of the crime novel, suggesting that variety is not
the surest path to commercial success. The principle of same book,
just a little bit different, has kept many lesser talents at the top of the
New York Times bestseller list. Instead, Gilbert tackled virtually every
aspect of the genre: classic detective stories, police procedurals, spy
novels, adventure stories and courtroom dramas. There was nary a
dud in the lot and several that probably will be read with pleasure a
hundred years from now. Nor did he restrict himself to the novel. In a
day and age when the short story has fallen into disfavor, he was a
master of the form. One early collection, Game Without Rules, was
named by Ellery Queen as one of the most important mystery short
story collections of all time. These droll stories featuring those
cutthroat but always gentlemanly spies Calder and Behrens were a hit
on British and American television several decades later.
Gilbert’s first book, Close Quarters, set in the summer of 1937, was
begun in 1938 while he was a schoolmaster in Salisbury, and the
Melchester Cathedral of the book is obviously patterned after
Salisbury Cathedral, albeit a considerably smaller version. War
interrupted both Gilbert’s teaching and fledgling writing careers.
While serving with the Royal Horse Artillery in North Africa and
Europe, Gilbert was captured and spent part of the war in an Italian
prisoner of war camp, a setting he used in one of this most successful
novels, 1952’s The Danger Within (published in England as Death in
Captivity). It was filmed in 1958 and starred Richard Todd, Michael
Wilding and Richard Attenborough.
Close Quarters was finally published in 1947. Years later Gilbert
complained that he found the book somewhat “cluttered.” And while
it’s true that this leisurely apprentice effort lacks some of the subtle
control found in his subsequent books, many critics begged to differ
with this judgment, including National Book Award winner Jacques
Barzun, who called it “one of the good stories of murder in godly
surroundings,” remarking that the diagrams accompanying the text
make it easy to follow the clues. Frank Denton, writing in The St.
James Guide to Crime & Mystery Writers, said that Gilbert’s maiden
effort was a solid achievement which paled only when compared with
his later books where “experience brought maturity of writing.”
Gilbert, he suggested, could “always be depended on to deliver solid
86
reading entertainment.”
Smallbone Deceased (1950) is often considered one of Gilbert’s
masterpieces. Like many of his books, it borrows on his postwar
experience as a solicitor. Gilbert numbered the Conservative Party
and Raymond Chandler (whose will he drafted) among his clients. He
did virtually all of his writing while commuting by train between his
home in Kent and his law offices in London.
While Gilbert received an extraordinary number of literary awards
and honors in his long lifetime, he was not without his detractors. He
expressed amusement when British critics (and fellow mystery
writers) Julian Symons and H.R.F. Keating complained that Gilbert
fell short of greatness because he was more concerned with
entertaining than in enlightening his readers. “I find the whole thing
puzzling,” Gilbert wrote in 1980. “What is a writer to do if he is not
allowed to entertain?” The passing of time did not alter his opinion.
Ten years later he dismissed those deeply analytical novels which
serve primarily as a showcase for their author’s personalities as not
“members of the true and honorable line of crime stories. They may
be something else. As to what I offer no opinion.”
Tom & Enid Schantz
June 2007
Michael Gilbert’s life as a POW
The Danger Within, Michael Gilbert’s sixth novel, first published in
Great Britain as Death in Captivity in 1952, relies heavily on his
experiences as a prisoner-of-war in various prison camps in Italy
during World War II. While serving with the Royal Horse Artillery in
North Africa in 1943, Gilbert was investigating a farm which he
believed to be in Allied hands. While he was in the farmhouse his
driver heard a burst of automatic fire coming from the building and
immediately drove off, leaving Gilbert to fend for himself. Gilbert
was officially reported as missing in action, presumed dead. Instead,
he was captured and, along with scores of other British officers,
flown to Italy.
He was one of the lucky ones. British enlisted men who were taken
prisoner in North Africa didn’t fare as well, with hundreds of them
dying from thirst and disease in desert prison cages where they were
left to rot, according to Gilbert’s fellow officer Tony Davies, who
also served with the artillery and who was to join Gilbert in numerous
escape attempts during the coming year.
87
Gilbert and Davies were reunited at Camp P.G. 66, a transit camp at
Capua near Naples, where prisoners were kept until places were
found for them in permanent camps. The first few weeks in the camp
were called the “wire happy” days when the captured men first
learned what it was to be a prisoner, a caged animal. After absorbing
that initial shock, the captives grew accustomed to their status and
began doing things to make their lives as comfortable as possible.
And to plan their escapes.
Gilbert, gaunt and bespectacled, looking very much like Captain
Henry “Cuckoo” Goyles in The Danger Within, insisted to Davies
that they needed to be in top physical condition when they made their
attempt. Fortunately, Red Cross packages began arriving at this time,
replacing the meager fare they had been fed in the North Africa
camps—disgusting ersatz coffee made from dried lupin seeds,
macaroni soup, bread, a little cheese and dates. The Red Cross
rations, on the other hand, provided a balanced diet and did much to
keep the men fit.
As part of their daily fitness regimen, Gilbert and Davies made sixty
brisk circuits of the camp, just inside the barbed wire, each night
between 7 and 9. Tunneling at this camp was not possible and,
besides, it was unclear how long they would be there. Instead, the two
decided that their best chance for a successful escape would be to
jump from the train that would transport them to their permanent
camp. They figured that once they got clear of the train they would
walk 80 miles to the Adriatic coast, steal a fishing boat and head for
Yugoslavia, where they could make contact with the partisans. They
squirreled away as much food as they could spare from their rations
but planned to live off the land as much as possible. To this end, they
traded bits from their Red Cross packages to get lira from the Italian
guards.
The Italians were easy to deal with in this matter. And, anyhow, they
couldn’t understand why the prisoners were so anxious to escape and
get back to the war. The Italians also couldn’t tell Germans from
English, so the idea was to pass themselves off as German soldiers
since badly spoken Italian seems very much the same whether it
comes from a German or an Englishman. Fortunately, it was easy to
alter their own uniforms to make them look like the Africa Korps
uniforms they already resembled. What they lacked were the peaked
forage caps worn by Rommel’s men. These they managed to get from
some black South African troops in a neighboring compound, who
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presumably had taken them off of dead German soldiers and had
been, oddly enough, allowed to keep them. It cost them two weeks
worth of Red Cross rations, their own British berets, and, most
importantly of all, a string beads—to the South Africans the most
important part of the transaction—which they were able to obtain by
having another English prisoner steal them from some other South
Africans.
After six weeks in the camp, Gilbert and Davies were notified that
they would be among 40 prisoners who were to be transferred to a
permanent camp at Chieti, near Pescara on the Adriatic, about 100
miles from their present location. The prisoners were placed in
second-class compartments in groups of six along with an armed
sentry. The train left Capua at 6 p.m. heading first south to Caserta
near Naples, then northeast over the mountains. The train proceeded
uphill in the darkness at a steady 30 miles an hour. Once the train
began to accelerate, the two knew that they were on a down gradient
and it was time to make their move. Another prisoner who was in on
the plan distracted the sentry by offering him a cigarette. At that
moment, Gilbert pulled the window down three feet and jumped,
Davies following nearly immediately, stealing one last look at the
sentry whose surprised face was illuminated by the match lit for his
cigarette. Davies landed on a small road alongside the track and
immediately began to scramble to safety up the hillside. Gilbert was
nowhere in sight. The train braked and sentries on the flat van at the
rear of the train began shooting in his direction but soon gave up.
Obviously, there was no way that a handful of soldiers could find two
men in this kind of terrain in the darkness and the train soon
recommenced its journey as the remaining prisoners cheered and sang
“God Save the King.”
After the train was out of sight, Davies and Gilbert both shouted for
each other but apparently the two were out of earshot and each
decided the other had been either recaptured or killed by the jump.
The two proceeded on their separate ways, Gilbert sticking to the
original plan of walking to the Adriatic while Davies decided the best
idea was simply to get as far away from the jump site as quickly as
possible. For the next couple of days the two moved across the
countryside, fooling most of the Italian soldiers they encountered,
although Gilbert was eventually recaptured by the Italians. Davies’
phony uniform was his eventual downfall. At one point, he
encountered a German patrol and decided to bluff his way through, at
which point he was stopped as a suspected deserter. A closer look at
his uniform elicited a laugh from the German officer in charge who
89
immediately identified Davies as one of the two escaped English
prisoners.
“You know,” the German said, “the funniest thing about this whole
business is that the Italians have called out at least a division to look
for you. You are classed as highly dangerous and to be recaptured at
all costs. What a joke! You dodge the whole lot of them and walk
straight into me. Funny, isn’t it?”
The Italians Davies was turned over to also thought the affair was
funny, but for different reasons. He was told: “You go through the
hell of Africa, the beastliness of fighting, you are fortunate enough to
be captured and to leave all that behind you. You come to our lovely
country, and then, at the first opportunity, you risk your life so that
you can get back to the war. You must be crazy!”
Crazy or not, the two were even more determined than ever to escape
again. Gilbert told Davies, “At least we’ve learned a lot. We shan’t
make the same mistakes a second time.”
For their efforts, the two were court martialed (an odd but standard
procedure for attempted escapees) along with the hapless sentry who
received two years at hard labor for accepting a bribe, even though
the English officers told the court that he had been merely derelict in
his duty. The court sentenced Gilbert and Davies to 30 days in
solitary confinement, a sentence that struck neither as being
particularly onerous since it meant that they would enjoy one of those
precious things that all prisoners lack, a bit of privacy, and besides the
solitary confinement cells weren’t all that small. Or all that solitary,
for that matter. It turned out that two of the three cells were already
occupied and so Gilbert and Davies were placed in the same cell
where they immediately began preparing for their next escape attempt
by getting the guards to help them perfect their rudimentary Italian.
The worst part of their incarceration was an infestation of body lice.
They also had a bit of fun at the expense of their jailers by doing a
little sentry-baiting. One night, Gilbert positioned his head and
shoulders in front of the cell’s window and proceed to whack an out-
of-sight mattress with a board while Davies, safely hidden from view
in another corner, shrieked in pain. When the sentries showed up with
their officers to show them how the prisoners were attempting to kill
each other both men were tucked quietly in their beds, apparently
sleeping the night away.
Near the end of their confinement, a Swiss delegation arrived in camp
90
to insure that the Italians were adhering to the Geneva Convention
rules for prison camps. The camp had been tidied up and punishment
cells were discreetly disguised. Gilbert and Davies waited until the
Swiss team was passing close to their cell and then began banging on
their cell door, crying out: “Acqua, Acqua. For the love of God a little
water.” The Swiss somehow didn’t hear but the Italians did and they
were not amused.
The Italians, in fact, were often not amused at the way the English
prisoners made fun of them. For the most part the Italian citizenry
were proud of their own soldiers, affectionately referring to them as I
Nostri piccoli, which translates to “our little ones.” This term never
failed to amuse the British, who ridiculed the Italian troops as “more
shout than shoot.” It was obvious to everyone that most of the Italian
soldiers were not happy about being drafted, but once in the army
they fell in love with their uniforms and the accompanying pomp. In
The Danger Within, the prisoners make fun of the guards in order to
trick them as part of their escape plan.
Once out of solitary confinement, the two reported to the camp’s
escape committee and then presented a talk to about 300 prisoners on
their failed attempt to escape. The talk was entitled “The Principles of
Marine Insurance,” and the Italians never seemed to question why so
many men would be interested in so specialized a topic. Toying with
the guards remained one of the most enjoyable ways to pass away the
time in the camp. Even though Gilbert spent only five days at Campo
P.G. 21 (not counting that month in solitary confinement), he
obviously based Campo 127 in The Danger Within on Campo P.G.
21, which Davies described as “a series of one-story buildings
arranged in rows on either side of a large dusty expanse” surrounded
by a 15-foot high wall with guard towers situated at each corner and
halfway along each side. Each tower had a searchlight and a machine
gun.
“There were no less than four tunnels in progress at that moment,”
Davies wrote in When the Moon Rises, his 1973 account of the escape
attempts he made with Gilbert. “Italian security guards were
extremely active, and the ‘Ferrets,’ carabinieri (Italian soldiers)
working in pairs, spent the entire day inside the compound, searching
every inch of ground and buildings for signs of tunneling activity.”
Often the prisoners only had two minutes warning to conceal their
labors before search teams arrived.
Although the escape plans in The Danger Within center around
91
tunnelling, it was one of the few methods in which Gilbert himself
was not directly involved. His first camp at Capua did not lend itself
to such methods and he wasn’t at Campo P.G. 21 long enough to do
any tunnelling. Tunneling at this next stop was out of the question,
since the prison consisted of a single three-story building with
basement in the middle of the village of Fontanellato five miles north
of Parma. It was a prison designed to house Molto Pericoloso—
troublemakers and habitual escapers. It would take all of Gilbert and
Davies’ ingenuity to break out of this place.
Unlike the Fascisti in charge of Campo 127 in The Danger Within,
the Italian officers at Fontanellato were professional soldiers who
treated their prisoners well. They knew—and respected the
fact—that it was a prisoner’s duty to escape just as it was their
duty to prevent those escapes. One of the amenities that the
Campo 49 lacked was a place for the prisoners to exercise, other
than a weekly walk under heavy guard outside the walls. These
walks not only provided the prisoners with fresh air and a little
exercise, they also provided them a knowledge of the local
geography which was to prove invaluable. Eventually, the Italians
allowed the prisoners to build an exercise field outside the
building. It was heavily guarded and enclosed by a barbed-wire
fence. Since the ground was too rough for regular exercise, the
prisoners were allowed tools to level the field.
The prisoners soon saw a possible means for escape and carefully
constructed a small trench, roofing it over and disguising it each
night. When it was finished, the British organized a game of rugby.
When the scrum fell on top of the trench, two men climbed in and
were roofed over hidden from view by the mass of bodies. At roll
call, the two men were reported to be asleep in sick bay and before
the guards could reach their supposed resting place, two of the
prisoners who had already been counted rushed in and occupied their
bunks. The two men in the trench made it to the border where they
could see the inhabitants of a Swiss village from their perch before
they were recaptured.
By this time, the war was going badly for the Italians. The Allied
invasion was going very well and it was expected that Italy would
soon be out of the war. That, however, meant that the Germans would
take over and this is what the prisoners most feared. Although a full-
scale tunnel was not possible in Campo 49, the prisoners managed to
cut into the stone walls above the basement to create a hiding place in
case the Germans should try to seize control of the prison. In that
92
event, the hole could be pushed through the wall, allowing the
prisoners to escape at ground level.
Then on the evening of July 21, 1943, the prisoners heard
shouting and cheering from the guards’ quarters. Mussolini and
the Fascist regime had been toppled. Soon villagers joined in the
cheering, tearing down Fascist posters and smashing plaster busts
of Il Duce to bits. The atmosphere had changed greatly, but as the
days passed the prisoners’ status remained unchanged. Finally,
on September 9, the Italians cut a hole in the fence surrounding
the exercise field and within a few days the prisoners marched
out, free at last but far from out of danger. The Italian guards
threw away their guns and went into hiding, fearing reprisals
from the fast approaching German troops, who were determined
to hold the northern regions of Italy.
Villagers gave the newly freed men clothes and food. Most of
them chose to head for the Swiss border and interment until the
end of the war. Gilbert and Davies wanted nothing to do with that
option. One other prisoner, Toby Graham, joined them in their
decision to head south instead toward the advancing Allies. They
were about to embark on one of the most remarkable journeys in
the history of warfare, most of it along the 600-mile backbone of
Italy, the Apennine mountain range. It was an ordeal that no
doubt partially inspired Gilbert’s 1985 novel, The Long Journey
Home.
The three men dodged German troops for next several weeks, aided
by Italian peasants who opened their homes and barns to the former
prisoners. Some days they fared better than others, but Gilbert was
always determined to make the best of their situation. “Any bloody
fool can eat and sleep rough,” he said, so the threesome quit their trek
each day in time to find a suitable resting place, staying with peasants
and avoiding the more prosperous homes which they feared might
belong to unrepentant Fascist sympathizers. Eventually they made it
through Tuscany and into the province of Marche, where they found
refuge in a monastery. Gilbert and Graham talked to the Father
Superior, mostly in Latin, and were invited to stay there to wait for
the Allied arrival. Gilbert favored the idea but Davies and Graham
pointed out that the Allies were still 200 miles away and that the
Germans could still recapture them. The three continued on their
journey but at one point, disagreeing over the route, Toby went his
separate way.
93
The three miraculously met up again, along with another escapee, a
South African named Hal Becker, just a few miles from the Allied
lines. But the closer they got to the Allied lines, the more Germans
they had to get through. Finally, they reached an open valley near
those lines. It looked safe enough but they decided it would be best to
go in pairs. Michael and Toby took off and made it without any
difficulty. Ten minutes later Becker and Davies followed. Halfway
across the valley, shots rang out and Becker was killed. Davies ran on
and jumped over a crest only to fall into the hands of a German
patrol. He was a prisoner again. Gilbert and Graham, on the other
hand, made it safely to the Allied lines. Of the 400 officers who
marched out of Campo P.G. 49, only a tenth made it to freedom. The
rest were killed or recaptured by the Germans within days. Davies
was sent to Moosburg POW camp in Germany, later famous for its
“great escape” and brutal aftermath. Davies succeeded in escaping
that camp as well but was recaptured near Prague where he spent the
rest of the war.
Gilbert, who died in 2006 at the age of 93, went on to become an
attorney and one of the most honored mystery writers of the second
half of the twentieth century, Graham became a history professor at
the University of Toronto, while Davies settled down as a country
doctor. If such a thing as the “greatest generation” exists, these three -
and their comrades-surely stood at the very front of its ranks.
Tom & Enid Schantz
August 2007
Si potrebbe facilmente sostenere che Michael Gilbert era uno dei più grandi
scrittori narrativa criminalità del ventesimo secolo. Egli appartiene a un gruppo
molto selezionato di scrittori che hanno nominato Gran Maestri dalla Mystery
Writers of America, premiato con un pugnale di diamante per le realizzazioni di
carriera da Crime Writers Association of Great Britain e onorato per la sua carriera
presso Bouchercon, la convenzione di mistero del mondo. Ancora nel 2007, meno
di un anno dopo la sua morte, il 8 febbraio 2006, all'età di 93, solo uno dei suoi più
di quaranta libri — e una raccolta di racconti che — era in stampa negli Stati Uniti.
Perché questo è dovrebbe essere così ci dice di più circa lo stato deplorevole della
pubblicazione oggi di quanto non sul talento di Gilbert e il suo immenso contributo
al genere.
Alcuni critici hanno sostenuto che Gilbert avrebbe fatto meglio a restare con solo
94
una forma di romanzo di crimine, suggerendo che la varietà non è il percorso più
sicuro successo commerciale. Il principio del libro stesso, solo un po' diverso, ha
mantenuto molti talenti minori nella parte superiore della bestseller list del New
York Times. Invece, Gilbert ha affrontato praticamente ogni aspetto del genere:
classica storia detective, polizia procedurals, spia romanzi, storie di avventura e
drammi di aula di tribunale. Una raccolta precoce, Gioco senza regole, è stata
nominata da Ellery Queen come una delle più importanti raccolte di racconti di
mistero di tutti i tempi.
Il primo libro di Gilbert, Close Quarters, ambientato nell'estate del 1937, fu iniziato
nel 1938, mentre lui era un maestro di scuola di Salisbury, e la Cattedrale di Maki
del libro ovviamente è modellata sulla Cattedrale di Salisbury. La Guerra
interrompe l’insegnamento e la nascente carriera di scrittura di Gilbert. Mentre è al
servizio con la Royal Horse Artillery in Nord Africa e in Europa, Gilbert fu
catturato e trascorse parte della guerra in un campo di prigionieri di guerra italiano.
Gilbert ha ricevuto uno straordinario numero di premi letterari e riconoscimenti nel
corso della sua lunga vita, non era senza i suoi detrattori.
Tom & Enid Schantz
Giugno 2007
95
Fontanellato: Borse di studio in Inghilterra
Il Trust offre, ai ragazzi tra i 18 e i 25 anni, 28 giorni di borsa di studio per
imparare l’idioma britannico in college inglesi
I nonni e i bisnonni hanno salvato i prigionieri inglesi in fuga dal campo Pg 49 di
Fontanellato e oggi i nipoti possono usufruire di borse di studio per imparare l'inglese
a Londra e a Oxford.
L’assessorato alla Pubblica Istruzione del Comune Fontanellato in collaborazione con
il Comitato Gemellaggi, la Fondazione Monte San Martino Trust di Londra e il
Comitato Italiano offrono questa possibilità ai giovani residenti in paese, purché
abbiano un’età compresa tra i 18 e i 25 anni. La priorità è data a chi è discendente
delle famiglie benefattrici nei confronti della popolazione britannica.
“L’iniziativa è realizzata in collaborazione con la Fondazione Monte San Martino
Trust in segno di riconoscenza per l’aiuto che la popolazione fontanellatese ha offerto
ai cittadini inglesi fuggiti dal campo di prigionia “PG49” durante la seconda guerra
mondiale. L'iniziativa testimonia anche un importante frammento di storia locale” ha
detto l’assessore alla Pubblica Istruzione Francesco Trivelloni, presentando
l’iniziativa. “Sarà cura dei membri della fondazione selezionare, per le borse di
studio, studenti che dimostrino di essere spinti all’apprendimento della lingua
inglese. L’esperienza ti consente di vivere un mese da vero inglese sia sotto il profilo
linguistico che a contatto con tradizioni, vita quotidiana a scuola e nelle famiglie.
Ritorneranno a casa con un bagaglio culturale ampliato e una maggiore ricchezza di
stimoli da offrire alla comunità fontanellatese” ha aggiunto l’assessore. “Questa
iniziativa - collegata all’impegno costante rivolto alle scuole del territorio - punta a
dare un’impronta europea alle esperienze dei giovani di Fontanellato per creare nei
ragazzi di oggi i veri cittadini europei del futuro grazie allo scambio e alla
conoscenza reciproca tra i popoli dell’Unione” ha concluso l’assessore Trivelloni.
Il Trust offre 28 giorni di borsa di studio per imparare l’idioma britannico in college
inglesi. Docenti universitari seguiranno gli stage dei ragazzi che alloggeranno in
famiglia. I criteri d’accesso alle borse di studio sono stati stilati dalla fondazione
britannica: occorre ovviamente una conoscenza almeno basilare dell’inglese. Unico
elemento a carico dello studente è il viaggio di andata e ritorno.
96
Da Fontanellato agli Appennini: il viaggio di Rosemary Clarke
Domenica 1 luglio partenza da Fontanellato per
ripercorrere il viaggio che portò in salvo il padre
durante la Seconda Guerra. Il percorso a piedi di
Rosemary Clarke sulle orme del padre, il tenente
inglese Jack Clarke.
Quaranta giorni di viaggio e 1.100 chilometri a piedi
con il cuore colmo di gratitudine verso le famiglie che
nel 1943 - da Fontanellato nel parmense all’Appennino, fino al fiume Sangro
oltre il Gran Sasso in Abruzzo - aiutarono e rifocillarono suo padre, il luogotenente
in seconda Jack Clarke.
A compiere questo epico pellegrinaggio della pace è la signora Rosemary Clarke,
figlia dell’ufficiale inglese che fuggì insieme ad altri 600 soldati britannici dal campo
PG49 di Fontanellato, tra l’8 e il 9 settembre 1943, durante la seconda guerra
mondiale.
Zaino in spalla e buone scarpe ai piedi, il viaggio di Rosemary inizia proprio
domenica mattina 1 luglio con taglio del nastro da Fontanellato, davanti alla Rocca
Sanvitale.
Il cammino termina il 10 agosto con l’arrivo al fiume Sangro, dove il padre di
Rosemary venne nuovamente catturato, per poi scappare nei mesi successivi e
raggiungere finalmente la Svizzera. Rosemary è dottoressa in psicoanalisi.
Ha oggi 60 anni. Vive in Inghilterra nel sud a Malvern, località termale famosa per le
acque. Suo padre è morto 23 anni fa.
Diverse saranno le occasioni per gli abitanti del parmense e i figli dei partigiani per
incontrare la Clarke:
venerdì 29 giugno all’agriturismo Casa Nuova a Tizzano Val Parma (dove la signora
ha scelto di fare campo base ospite della famiglia amica Saviola) dopo la tortellata
serale, Rosemary illustrerà l’avventuroso viaggio che l’attende.
Sabato 30 giugno alle 21 in piazza nell’ambito delle manifestazioni della Fiera di San
Pietro, il Comune presenterà “Amicizia per gli Appennini” consegnando un
riconoscimento alla Clarke.
Domenica 1 luglio, in prima mattina, è la volta di Fontanellato con un momento
ufficiale dedicato alla “pellegrina” d’eccezione da parte del Comune e
dell’associazione culturale Jacopo Sanvitale.
Chi vorrà potrà unirsi alla partenza del gruppo e percorrere insieme parte del viaggio.
Interverranno in queste due occasioni le autorità: il presidente della Provincia di
Parma Vincenzo Bernazzoli, i referenti di Parma Turismi, i sindaci di Tizzano e di
Fontanellato con gli assessori alla Cultura, rappresentanti di associazioni d’arma.
L’iniziativa vede la collaborazione infatti di Parma Turismi, Provincia di Parma,
Comune di Fontanellato, Comune di Tizzano Val Parma e la sponsorizzazione della
97
Strada del Prosciutto e dei Vini dei Colli. Il Birmingham Post, quotidiano delle
English Midlands, pubblicherà settimanalmente a episodi le avventure del tenente
Clarke, riscritte dalla figlia. Su un “weblog” i lettori potranno inoltre seguire il
cammino nel diario on line tenuto dalla Clarke stessa.
La donna ripercorrerà la strada seguita dal padre: «Il mio obiettivo è camminare dove
mio padre camminò. Incontrare la gente che incontrò, stringere le mani dei
discendenti delle famiglie che lo aiutarono e gli permisero di sopravvivere – ha detto
la Clarke - Lo scopo del mio viaggio è celebrare il sostegno dato ai prigionieri alleati
da migliaia di italiani, persone comuni ma straordinarie. Desidero far conoscere
questa storia da Fontanellato all’Abruzzo in Gran Bretagna».
Inoltre, tutti i fondi raccolti saranno devoluti alla Fondazione Monte San Martino
Trust, sorta a Londra per ringraziare questi italiani. Come? Finanziando borse di
studio nei college inglesi per giovani discendenti di coloro che negli anni Quaranta
prestarono soccorso ai britannici.
Ma Jack Clarke non era solo nel suo viaggio verso la salvezza: erano con lui il
capitano Marcus Kane-Berman e il luogotenente in seconda Anthony Laing.
Rosemary incontrerà per la prima volta, all’agriturismo Casa Nuova,– proprio la figlia
di Kane-Berman, la signora Jocelyn Ritchie, che arriverà in Italia appositamente dal
Sud Africa.
Neppure la Clarke sarà sola nella sua spedizione: avrà come compagni di viaggio il
cane Ottavia e Diadorim Saviola, esperto del Parco dei Cento Laghi, nonché giovane
musicista italiano che ha oggi la stessa età del giovane tenente Clarke all’epoca.
«La comitiva porterà con sé l’attrezzatura minima e pernotterà in agriturismi, ostelli,
rifugi di montagna, bed and breakfast situati lungo la strada» ha spiegato Diadorim.
C’è grande attenzione per il progetto anche da parte degli Istituti Storici sulla
Resistenza e tra le autorità locali. Lo storico sindaco di Fontanellato Pompeo Piazza
con il sindaco odierno Maria Grazia Guareschi e l’assessore alla Cultura Alberto
Copercini hanno espresso «grande interesse per il progetto di Rosemary perché crea
un ponte tra Stati, ripercorre un secolo importante quale il Novecento, riscopre
relazioni umane e le vicende delle nostre campagne di pianura collegate a quelle del
movimento della Resistenza negli Appennini».
Fontanellato: da una soffitta riemergono lettere dei soldati
Dalla vecchia soffitta della storica casa Cattabiani, a Fontanellato, sono riemersi
documenti e lettere che risalgono ai primi anni Quaranta del secolo scorso e
riguardano i soldati inglesi internati al campo di prigionia PG49 a Fontanellato.
L’associazione culturale Jacopo Sanvitale presieduta dal professor Mario Calidoni
in collaborazione con l’assessorato alla Cultura del Comune presentano – venerdì 1
luglio in occasione della partenza di Rosemary Clarke – i testi. Si tratta di pagine a
firma del capitano Williams che fanno luce sulla vita del campo: soprattutto sui libri
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che si leggevano al PG49 e su alcune rappresentazioni che venivano allestite per i
soldati, tra cui “L’importanza di chiamarsi Ernesto” di Oscar Wilde. Toccanti sono
anche le lettere scritte dagli ufficiali ai familiari.
Presentate in Rocca le lettere degli ufficiali del PG49
“Cara mamma nessuna lettera ancora questa settimana.
Nessuna sin da quelle datate 3 settembre e 8 settembre
1942. Siamo tutti felici di sapere che le cose sono
ricominciate in Africa. Possano i nostri desideri e le
nostre preghiere avere l'effetto desiderato. Ieri è stata
festa in tutta Italia: ventesimo anniversario della Marcia
su Roma o qualcosa del genere. E' piovuto per tutto il
pomeriggio. Ora riceviamo razioni ridotte, circa una per
persona a settimana da lunedì scorso..”: inizia così la
lettera del Capitano inglese R. Williams datata al 29
ottobre 1942, internato al Pg49 di Fontanellato,
indirizzata alla madre.
È riemersa insieme ad altre missive dedicate a familiari e
fidanzate degli ufficiali britannici nella soffitta di una
casa in centro storico a Fontanellato. E’ oggi pubblicata
in un “quaderno” realizzato dall’associazione Jacopo
Sanvitale con il patrocinio dell’assessorato alla Cultura
del Comune.
Frammenti dei pensieri dei giovani in divisa, emozioni e
mesi di vita quotidiana nel campo: la pubblicazione è
stata presentata domenica 1 luglio nella Sala Convegni
della Rocca, in occasione della partenza di Rosemary
Clarke la signora britannica che ha intrapreso un viaggio
di 1.100 chilometri lungo gli Appennini per ripercorrere
il tragitto che fece suo padre – il tenente in seconda Jack
Clarke – in fuga verso la libertà dopo l’Armistizio del
1943.
Erano presenti il presidente della Provincia Vincenzo
Bernazzoli, l'assessore alla Cultura del Comune Alberto
Copercini, i rappresentanti della Jacopo Sanvitale
Fernando Virgili e Jole Lembo, l'ex sindaco Pompeo
Piazza oltre ai fontanellatesi che vissero da vicino negli
anni Quaranta la vicenda del Pg49.
“Dai documenti trovati nel solaio, si attesta che proprio
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Jack Clarke, morto ormai 23 anni fa, teneva alto il morale
dei compagni al Pg49 - ha spiegato il professor Mario
Calidoni - era il regista insieme a Williams di commedie
messe in scena come passatempo per i soldati. Le
interpretazioni prevedevano un intervallo musicale
suonato dal complesso The Orphans le cui musiche erano
arrangiate da proprio da Jack Clarke l'ufficiale padre
della protagonista della grande camminata della
memoria”.
Tanti sono i lacerti di pensieri scritti dai soldati: “Le
passeggiate in campagna continuano. Abbiamo fatto una
strada diversa nelle vicinanze e ho visto un paesaggio
meraviglioso. Ora la notte fa molto freddo, ma i giorni
sono belli, eccetto quando piove. Se dovessi avere notizia
di Go, ti prego di tenermi informato su di loro”.
C’è anche una lettera scritta da Jane, la madre di un
ufficiale, che il figlio teneva custodita al Campo: “Mio
caro, Nessuna tua lettera da secoli, il che non mi
sorprende! Spero che tu stia bene ed in buona salute. Noi
lo siamo. Ha fatto molto caldo, ma ora si è rinfrescato
dopo un temporale e spero che il tempo sarà bello per la
festa di Bank Holiday. Non ho apprezzato il mio
soggiorno a B. Starlford. Joan è cambiata così tanto, è
così presa dai suoi nuovi amici che non ha tempo per me
e quando le ho chiesto perché ha risposto che i suoi
sentimenti nei miei confronti erano cambiati! Strana
ragazza! D ( Dad il padre) sta cercando in ogni modo di
spostarsi, qui è assolutamente stufo e crede che se non lo
sposteranno, darà le dimissioni e cercherà qualcos'altro,
io credo e spero che non sia troppo lontano da quando
arrivi tu. Ho appena sentito Mary. John ha compiuto 17
anni venerdì. Indossa ancora la divisa scolastica blu e
spera d diventare un insegnante di storia inglese. Geoff.
è ancora in ordinanza. Credo che Mary sarà se stessa a
Ditcling. Ho sentito anche Gwen. Dick ora è ufficiale di
radio nel RN ed è molto felice. Speriamo che tu stia bene
o mio allegro tesoro......”
Una lettera del 1942 è indirizzata a un papà: “Caro papà
il figlio di Cigs è qui. Scrivigli In India. Ieri lezione sulla
marina mercantile”.
E ancora, un altro scritto del 31 agosto 1943: “Caro
papà, molte grazie, la tua lettera datata 17.7 arrivata il
100
27.8. Ti prego di salutarmi Anna, Liz, Harry, Hanna E. e
Norah. Mi dispiace di sentire che Hanna E. non stia
benissimo. Saluta mamma, spero siate entrambi bene, io
sto bene, sto dipingendo i fondali”.
E ancora: “Cara mamma, Non aspettarti che l'ultima
lettera ti arrivi, visto che ti ho descrittole condizioni di
vita qui. Non ci muoveremo per 3 settimane”.
Dicembre 2010
La Bbc a Fontanellato per girare un documentario sull'Ex Campo Pg49
Martedì 7 dicembre in Rocca Sanvitale e nelle campagne fontanellatesi una troupe
dell'emittente britannica Bbc girerà un filmato per un documentario dedicato alla
seconda guerra mondiale ed in particolare si concentreranno sui prigionieri inglesi
rinchiusi nel Campo di Prigionia Pg 49 a Fontanellato, aiutati nella fuga dalla
popolazione fontanellatese. Tante famiglie, infatti, nascosero, rifocillarono ed
ospitarono nelle loro case gli ufficiali inglesi. La Bbc sta ripercorrendo le tappe della
presenza di soldati sul territorio italiano.
A Fontanellato si celebra nelle scuole la "Giornata della memoria"
Il Comune dona a ogni studente una cartina storica sui luoghi segnati
dalla Guerra
Per non dimenticare il dolore della Shoah. Per ricordare le vittime dell'Olocausto e
l'orrore dei campi di concentramento.
Gli alunni delle scuole elementari e medie di Fontanellato commemorano, martedì 27
gennaio, in collaborazione con l'amministrazione comunale la "Giornata della
memoria".
Il 27 gennaio 1945 il campo di sterminio di Auschwitz, teatro di atrocità disumane,
venne liberato. Se le insegnanti delle scuole fontanellatesi ripercorreranno le tappe
che hanno segnato la Storia europea, l'assessorato alla Pubblica Istruzione proporrà
un richiamo alle vicende locali del nostro territorio. Donerà a ogni studente una
cartina storica della nostra zona che segnala i luoghi delle lotte partigiane, i giorni
della Resistenza e le vicende salienti della seconda guerra mondiale.
La cartina è corredata anche da testimonianze di partigiani e racconti di vita
degli ex ufficiali britannici che fuggirono dal campo di prigionia locale PG49
grazie all'aiuto delle famiglie di Fontanellato. In quell'occasione fu tanto il
coraggio e la generosità degli italiani che aiutarono i prigionieri di guerra che - alla
dichiarazione dell'Armistizio del 1943 - fuggirono disperdendosi nelle campagne
italiane e furono sfamati, nascosti e protetti fino alla Liberazione dell'Italia.
101
Il Comune ricorda il “tenente inglese” Eric Newby, cittadino
onorario, morto il 20 ottobre 2006
Un ufficiale straniero, una donna innamorata, fascisti e partigiani, inglesi, americani e
tedeschi: tante storie in una grande storia di guerra, di amore, di liberazione.
E’ morto per cause naturali - il 20 ottobre 2006 - il tenente inglese Eric Newby, classe
1919, cittadino onorario di Fontanellato, presidente della Fondazione Monte San
Martino Trust di Londra, giornalista di viaggi per il britannico Observer dal 1963,
scrittore di oltre venti libri, importanti saggi e romanzi tra storia e memoria tra cui il
celebre “Love and war in the Appenines” (1971), ovvero “Amore e guerra negli
Appennini” che ha fatto il giro del mondo e da cui è stato tratto un film.
E con lui se ne è andato un pezzo importante della storia del territorio fontanellatese
che il Comune punta a tenere viva tra le nuove generazioni: la notizia è stata ripresa
per una intera giornata dall’emittente Bbc.
Il tenente è stato ricordato dal sindaco Maria Grazia Guareschi insieme all’assessore
ai gemellaggi Aldo Barbera.
Eric Newby, che come decine di migliaia di suoi commilitoni venne sorpreso dall'8
settembre in un campo italiano di prigionia PG49, trovò durante la fuga il grande
amore della sua vita, Wanda Skoff di origini slave ma cresciuta a Fontanellato
dall’infanzia. La fuga dal campo del tenente porta alla luce la vicenda di tanti militari
inglesi che si rifugiarono nelle case dei contadini della pianura parmense o tra i gruppi
partigiani in Appennino.
«E’ con profondo cordoglio che abbiamo appreso la notizia della triste perdita del
tenente Newby – hanno spiegato il sindaco e l’assessore Barbera - Il capitano era
marito della signora Wanda Skoff, che trascorse l’infanzia e l’adolescenza a
Fontanellato con la famiglia e qui ha ancora cari amici con cui è rimasta in contatto.
Il Comune è sempre stato molto legato, dal dopoguerra a oggi, alla famiglia Newby-
Skoff: il sodalizio della coppia nacque in tempo di guerra, perché il tenente inglese
era prigioniero nel campo Pg49 di Fontanellato. La loro storia d’amore continuata
poi in tempo di pace ha unito Fontanellato all’Inghilterra. Un legame che ci è sempre
stato a cuore e che abbiamo coltivato attraverso scambi interculturali per le giovani
generazioni tra Fontanellato e la Gran Bretagna».
Eric Newby, il “tenente inglese” come lo ricordano amici e conoscenti in paese,
viveva da anni nelle campagne inglesi a oltre cento chilometri da Londra, vicino a
Guildford, nell'Inghilterra meridionale, con la moglie Wanda, classe 1922. Per un
decennio dal 1963, è stato il giornalista di viaggi del britannico Observer. Lascia la
moglie e due figli.
Scrittore di viaggi Eric Newby ha raccontato le sue avventure in Afghanistan, India e
Italia. Newby è diventato famoso per il suo libro del 1958 "A short walk in the Hindu
Kush", un racconto del suo viaggio da Londra alle montagne dell'Afghanistan, e
"Slowly down the Ganges" (1966), la storia di un viaggio di Newby e sua moglie
lungo il fiume sacro indiano. «Eric e Wanda hanno avuto due figli, Sonia e Jonathan
– ha spiegato la signora Ada Barantani, cara amica di Wanda dall’infanzia – e hanno
un nipote di venticinque anni, John. L’incontro tra Eric e Wanda è una gran bella
storia d’amore sbocciata in un periodo molto duro».
La popolazione fontanellatese ha offerto aiuto, infatti, ai numerosi ufficiali inglesi
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come Eric Newby, fuggiti dal campo di prigionia “PG49” durante la seconda guerra
mondiale. In molti casi li hanno salvati mentre fuggivano dal campo. Li hanno
nascosti nei casolari e fienili. Li hanno rifocillati mentre si nascondevano in attesa del
momento propizio per andare verso l’Appennino.
«E oggi, nel duemila, le iniziative di gemellaggio tra Comune e Fondazione Monte
San Martino Trust sono nate proprio come segno di riconoscenza da parte degli
inglesi che ogni anno ospitano a Londra e a Oxford i bisnipoti delle famiglie
fontanellatesi, finanziando corsi di inglese in madrelingua e un viaggio-studio di
formazione in Gran Bretagna» ha spiegato l’assessore Barbera.
Il Trust britannico presieduto da Eric Newby è stato fondato per commemorare il
coraggio e la generosità degli italiani che aiutarono i prigionieri di guerra che - alla
dichiarazione dell'Armistizio del 1943 - fuggirono disperdendosi nelle campagne
italiane e furono sfamati, nascosti e protetti fino alla Liberazione dell'Italia. Gli
studenti a cui il Trust offre tuttora un mese di borse di studio per imparare l'inglese in
Inghilterra sono scelti nelle zone dove, all'epoca, venne dato il maggior numero di
aiuto ai fuggitivi inglesi. Docenti universitari seguiranno gli stage dei ragazzi che
alloggiano in famiglia.
“Eric era un uomo con un'energia enorme, calore e curiosità. La sua scrittura era
divertente, ma la prendeva molto seriamente", ha detto la sua famiglia in un
comunicato.
“Amava la semplicità di camminare e andare in bicicletta ed era attaccato alle sue
macchine fotografiche, alle macchine da scrivere manuali e ad una serie di tosaerba.
Era molto divertente e rendeva la vita un'avventura".
103
La Liberazione dell'ex soldato Usa: a Fontanellato 65 anni
dopo
'
E’ un 25 aprile dal sapore speciale quello che il Comune di Fontanellato si appresta a
vivere perchè Paul Denver Bennet - detto P.D. - ha fatto ritorno nei luoghi dove fu
soldato sotto la bandiera statunitense, con una tappa speciale anche in Rocca
Sanvitale. Accompagnato dal collezionista Alberto Campanini - che proprio in
Castello allestì una bella mostra dedicata alle radio militare d'epoca e un laboratorio
sul codice morse per i bambini a novembre 2007 - PD Bennett è stato accolto dal
vicesindaco Domenico Altieri e dallo staff dell'amministrazione comunale.
L'appassionato di radio militari Campanini membro dell'associazione «Rover Joe» ha
rintracciato, infatti, uno dei sedici soldati americani che, nel 1944 e nel 1945,
parteciparono alla Campagna d’Italia in qualità di addetti alle comunicazioni su
speciali jeep che sarebbero state utilizzate in soli otto esemplari. Il reduce Paul
Denver Bennett, cittadino del Texas, è ritornato quindi in Italia 65 anni dopo esservi
sbarcato come militare dell’esercito degli Stati Uniti. "E' una grande emozione - ha
detto Campanini - tra l'altro l'associazione Rover Joe prende il nome proprio da quel
raro modello di jeep Willys che segnò una svolta nelle operazioni militari della
Seconda guerra mondiale. Il mezzo militare seguiva il continuo mutare delle zone del
fronte e forniva indicazioni utili all’aviazione che doveva bombardare il nemico,
salvaguardando contemporaneamente le truppe di terra. Oggi sembra scontato, ma fu
qualcosa di "rivoluzionario" che consentì di risparmiare tantissime vite».
Paul Bennet, che allora veniva chiamato P.D, è stato uno dei membri degli equipaggi
della Rover Joe. Parteciperà ad alcune manifestazioni, raduni e cortei dedicati al 25
aprile nel territorio provinciale.
104
Viaggio della memoria a Campegine-Carpi-Fossoli
Martedì 9 aprile 2013 di Federica Lori
Ore 8: partenza davanti alla nostra scuola.
Circa un'ora dopo siamo arrivati alla casa dei Sette Fratelli Cervi a Campegine e
subito ci siamo divisi in due gruppi; la guida, prima di entrare, ci ha parlato
brevemente della storia di questa famiglia facendoci riflettere sulle condizioni di vita
che vi erano all'epoca della Seconda guerra mondiale. Le sale erano tutte differenti e
in ognuna di queste vi erano degli oggetti appartenuti alla famiglia, con la relativa
descrizione e il relativo nome in dialetto. In una di queste stanze abbiamo avuto
l'opportunità di vedere un video che raccontava in breve la storia dei Cervi e mostrava
le dure condizioni di vita per dei contadini come loro, dapprima sotto padrone poi con
un terreno in affitto. Le significative vicende di questi fratelli vanno ricordate, perché
sono un coraggioso atto, simbolo della resistenza italiana e un’ importante
testimonianza. Secondo me, però, non si può “rivivere” l’atmosfera di quel tempo
attraverso la casa-museo a causa del fatto che è troppo ristrutturata! La casa ha
mantenuto il suo aspetto esterno, ma quando entri all'interno non vedi la vera e unica
rustica semplicità contadina, solo qualche ricordo che non rende omaggio a dei
partigiani così fedeli alle loro idee e che sono morte dopo aver tentato di liberare il
loro Paese dai Nazisti.
Dopo una mattinata un po' noiosa e un pranzo che mi ha risollevato il morale, ci
siamo recati nel cuore di Carpi per visitare il Museo del deportato. Appena siamo
giunti nel piazzale esterno, subito abbiamo notato i pilastri in cemento eretti come
monumento e sui quali erano incisi i nomi di alcuni dei maggiori campi di sterminio e
concentramento nazisti. La guida si è fissata sulla riflessione, senza tante spiegazioni,
ma interagendo con noi e spiegandoci il significato delle frasi scolpite nei muri e dei
graffiti. La nostra curiosità doveva farci agire e doveva spingerci a guardare sempre
un po' più in là e in profondità. Il Museo del deportato di Carpi non so se si possa
definire realmente bello, perché di bello nella morte delle persone e nella crudeltà
della mente umana non c'è proprio nulla, piuttosto si può definire evocativo, pieno di
significato, ma soprattutto interessante e stimolante. Un percorso mirato non tanto
all'apprendimento in sé o allo studio di una guerra che ha portato alla distruzione di
milioni di uomini, ma alla sofferenza e al tentativo di immedesimarsi con la mente
umana, per ricordare e suscitare emozioni che solamente ognuno di noi nel suo
profondo conosce. Ultima tappa del percorso della memoria è stato il campo di
smistamento di Fossoli, che forse poteva essere maggiormente interessante se non
fosse stato per il poco tempo rimasto a disposizione per visitarlo.
Sinceramente la parte migliore di questo viaggio della memoria è stato il pomeriggio,
perché secondo me ha fatto capire a tutti che cosa sia realmente successo nei campi di
sterminio nazisti, tramite l'uso della razionalità e del ragionamento, evocando
sensazioni maggiori e rappresentando in modo più evidente la vera disperazione e la
reale sofferenza dei prigionieri, rispetto all'esempio del pur nobile sacrificio dei sette
fratelli Cervi.
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I S E T T E F R A T E L L I C E R V I
I Cervi, una famiglia contadina di Campegine, in provincia di Reggio Emilia, da
sempre antifascisti, dopo l’8 settembre 1943 ospitarono nella loro cascina soldati
sbandati e prigionieri stranieri in fuga: li accoglievano, li nutrivano, li curavano,
trovavano i collegamenti perché raggiungessero i partigiani. Il 26 novembre 1943 la
milizia repubblichina circondò la cascina sparando: i sette fratelli e il padre risposero
con le bombe a mano e con un fucile mitragliatore. Allora i fascisti incendiarono
stalla e abitazione; perché le mogli e i figli si salvassero, i Cervi si arresero. Vennero
imprigionati a Reggio, ma quando (il 27 dicembre) il segretario del fascio di un paese
vicino venne giustiziato in un’azione partigiana, i sette fratelli Cervi furono fucilati.
Dieci anni dopo, Italo Calvino scrisse questo ricordo.
”Qui, da questo filare comincia la terra dei sette fratelli. Questa piana, sono state le
braccia dei sette fratelli a lavorarla; questi canali, questa vigna, ogni cosa qui
intorno, l’hanno fatta i sette fratelli; e questa è la loro fattoria, quella è la loro stalla,
la famosa stalla razionale, orgoglio dei sette fratelli, e le bestie famose per il latte e
per il peso; ed ecco l’ala della casa che fu incendiata quella notte, ecco le finestre da
cui i fratelli risposero al fuoco dei fascisti, ecco il muro contro il quale furono messi
in fila a mani alzate, dopo che Gelindo aveva salutato le donne e detto che resistere
non si poteva più e che conveniva arrendersi per poi cercare di scappare, e Aldo
aveva detto che stessero tutti tranquilli, che avrebbe preso lui la responsabilità di
tutto e così anche se lo fucilavano restavano sei di loro a far andare avanti la
campagna: la storia dei sette fratelli Cervi si è svolta tutta qui. Era una famiglia
numerosa, come quelle che voleva il duce; ma nelle intenzioni di Mussolini le famiglie
numerose dovevano essere allevamenti di disperati, di bestie da macello; questa
invece era una delle ultime famiglie patriarcali. Che i Cervi fossero contro il fascio, il
duce, l’impero e tutto il resto non era un mistero, perché non lasciavano passare
occasione per dirlo e predicarlo ai quattro venti; ma erano anche quelli che la
sapevano lunga su tutti gli avvenimenti nazionali e internazionali, passati e presenti e
anche futuri. Le idee politiche non se le erano trovate già in testa nascendo, i sette
Cervi; ci erano arrivati ragionando e discutendo e leggendo, a poco a poco. Dopo l’8
settembre quell’avamposto di una società futura che era stata la famiglia Cervi ora
assume un altro significato, ideale: diventa un avamposto di fratellanza
internazionale nel cuore della guerra più crudele. Un centinaio di stranieri si
fermarono alla fattoria dei Cervi nei mesi dal settembre al novembre 1943: inglesi,
sovietici, un aviatore americano ferito, un tedesco disertore. I Cervi furono tra i primi
ideatori e sperimentatori delle nuove forme di lotta, particolarmente per quel che
riguarda le azioni di squadra in pianura, di cui allora non si supponevano i grandi
sviluppi futuri. Come prima erano i pionieri di nuove tecniche agricole, così ora
sperimentarono i metodi di guerriglia, misurandosi nelle più varie esperienze di lotta
partigiana, dalle azioni di sabotaggio all’attività clandestina nei centri abitati. Tutto
quello che il popolo italiano espresse di meglio nella Resistenza: lotta contro la
guerra, patriottismo concreto, nuovo slancio di cultura, fratellanza internazionale,
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inventiva nell’azione, coraggio, amore della famiglia e della terra, tutto questo fu nei
Cervi. Perciò in questi sette veri volti di intelligenti contadini emiliani riconosciamo
l’immagine della nostra faticosa, dolorosa rinascita”. (da Italo Calvino, I sette
fratelli, in “Patria indipendente”, n.24 del 20 dicembre 1953)
Il campo di Fossoli
A Fossoli, a circa sei chilometri da Carpi, rimangono ancora le tracce del Campo
poliziesco e di transito utilizzato dalle SS nel 1944 come anticamera dei Lager del
Reich. Da Fossoli transitarono circa 5.000 prigionieri politici e razziali, poi destinati a
Auschwitz-Birkenau, Dachau, Buchenwald, Flossenburg.
Tra i prigionieri di Fossoli vi fu anche Primo Levi che rievoca la sua breve
esperienza nel campo nelle prime pagine di "Se questo e un uomo" e nella poesia
"Tramonto a Fossoli".
Il 2 agosto 1944 il campo venne abbandonato per ragioni di sicurezza e trasferito a
Bolzano-Gries. Dopo la fine della guerra, il Campo è stato utilizzato lungamente a
scopo abitativo prima dalla comunità cattolica di Nomadelfia e poi dai profughi
giuliani e dalmati. Questi utilizzi hanno modificato l'aspetto del campo, in quanto chi
vi abitò cercò di cancellare i segni di quello che era stato l'utilizzo precedente. Da
queste modifiche sembrano essere escluse solo la muratura delle baracche e la
posizione delle strutture superstiti. Nel 1973 è stato aperto a Carpi il Museo-
Monumento al Deportato e il Comune ha ottenuto l'area dell'ex Campo dì Fossoli
dal 1984.
Il Museo si è impegnato in questi anni a commemorare le vittime della Deportazione,
rendendo il ricordo ancora vivo nelle superstiti strutture del vicino Campo di Fossoli
un costante monito per il futuro. Il Museo si compone di tredici sale caratterizzate da
un'atmosfera di grande impatto emotivo. Sulle pareti si leggono stralci delle lettere dei
condannati a morte della Resistenza europea. Pittori come Ricasso, Longoni, Léger,
Cagli e Guttuso hanno dato la loro interpretazione della Deportazione con suggestivi
graffiti. Nelle teche sono conservati alcuni documenti materiali molto significativi.
Nel 1996 è stata costituita la Fondazione ex campo Fossoli dal Comune di Carpi e
dall'Associazione Amici del Museo Monumento al Deportato che ha come obiettivi il
recupero e la valorizzazione della memoria storica dell'ex Campo di Concentramento
di Fossoli di Carpi, nonchè la promozione di attività rivolte prevalentemente ai
giovani sui temi dell'educazione alla pace, ai diritti umani ed all'interculturalità.
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DALLA REALTA’ ALLA FANTASIA: ESPERIENZE DI
SCRITTURA CREATIVA
Fontanellato, 24 giugno 1943
Cari mamma e papà,
è da un po’ di tempo che non ho vostre notizie. Ora io mi trovo nel campo PG49 di
Fontanellato, in provincia di Parma. Lo stabile che ci accoglie è molto grande e
luminoso. Mi trovo abbastanza bene: abbiamo una buona scelta di cibo, l’acqua
fredda per fare la doccia tutti i giorni e una volta alla settimana acqua calda. Il tempo
lo trascorriamo leggendo, scrivendo, tenendoci in forma facendo sport oppure corse
nei campi; ovviamente scortati da militari. Ci sono alcune regole un po’ noiose, come
non potersi sporgere dalla finestra per guardare le ragazze del paese o semplicemente
per goderci il panorama; il rischio è quello di prendere una pallottola addosso. I nostri
carcerieri non scherzano!
Giochiamo spesso a carte. Come sapete a me piace tanto e la maggior parte delle
partite le vinco io.
Ho conosciuto un nuovo compagno di stanza, si chiama Thomas, è molto simpatico e
la sua famiglia non abita tanto lontano da casa nostra.
Voi come state? Spero bene e mi auguro di avere a breve vostre notizie, mi mancate
molto e spero di riabbracciarvi al più presto.
Con affetto
il vostro Edward
Giulia Zuccheri
Fontanellato, 26 luglio 1943
Cara Charlotte,
la guerra è il male più grande, dalla guerra non si potrà mai ricavare nulla di buono,
poiché dal male nasce male. L’uomo proviene dal disordine, dal caos, dalla
distruzione ed è a causa delle sue origini che nascono i conflitti, le incomprensioni e
le guerre ed è per questo motivo che ora io sono prigioniero delle forze nemiche
italiane, ma non ci sono nemici e amici, non ci sono ricchi e poveri, siamo tutti uguali,
tutti umani. Ci siamo inventati le distinzioni razziali, i ricchi e i poveri, per trovare un
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motivo logico per la nostra incomprensione, il nostro odio irrazionale verso gli altri,
ma non c’è nulla di razionale nell’odiare una persona senza alcun motivo. Questa
guerra sta decimando la razza umana che si ostina a non capire: ma verso cosa stiamo
combattendo, verso cosa stanno marciando i soldati, per chi alziamo la bandiera al
mattino, per chi spariamo al cielo mentre un uomo regge la Sacra Scrittura, per chi
uccidiamo un fratello, per chi marciamo sotto il sole e sotto il gelo, per chi ci
mettiamo sull’attenti, per chi abbandoniamo i nostri cari, le nostre metà, le nostre
uniche ragioni di vita, per andare su un campo infuocato, che sibila, esplode e falcia le
anime di coloro che portano al collo la loro vita, che giorno dopo giorno sul terreno
nefasto dimenticano ed essa si degrada, sempre di più, si sbriciola ed ingiallisce, fino
a quando di lei non rimane che polvere nel deserto che nessuno può recuperare?
Ci saranno giorni in cui gli uomini periranno, ci saranno giorni per piangere, ci
saranno giorni per ridere, ci saranno giorni per crescere, ci saranno giorni per gioire,
ci saranno giorni per disperare, ci saranno giorni per morire, ma non è questo il
momento, oggi marciamo sul campo di battaglia, oggi lottiamo contro il male, oggi
lottiamo per ricordare di chi è il nome che teniamo stretto sul petto, per ricordare chi
ci aspetta sempre sotto il cielo che si tinge di rosso, ma il male contro cui lottiamo non
è una persona, il male contro cui lottiamo è l’oscurità della nostra anima che ci induce
a dimenticare il nostro nome e riduce in polvere la nostra vita.
Non c’è modo di vincere una guerra, le guerre non si vincono mai, non ci sono nè
vincitori nè vinti, ci sono solo uomini che uccidono i loro fratelli. Come si può
vincere una guerra se bisogna uccidere i propri fratelli? Alla fine chi è che vince, colui
che ha ucciso più persone? Colui che ha lasciato che la sua anima fosse ghermita
dall’oscurità e che il suo nome si mischiasse alla sabbia del deserto? Chi dobbiamo
uccidere, chi dobbiamo incolpare, chi dobbiamo chiamare nemico? Forse il nostro
fratello che indossa una divisa diversa dalla nostra? E per quale motivo dobbiamo
ucciderlo? Per vincere la guerra, per essere coloro che hanno ucciso più persone
solamente perché il nostro istinto primordiale di trattare tutti come nemici ha avuto il
sopravvento. Perché mai andiamo in guerra se quando siamo sul campo di battaglia
spariamo tutti verso l’alto per non uccidere nessuno? Perché mai non sganciamo le
bombe dove sappiamo che si rifugiano i nostri fratelli, ma lanciamo le bombe a
grappolo che colpiscono dove vogliono, in modo da non sentirci in colpa? La guerra è
come un balletto che continua fino quando un ballerino non cade a terra. Sappiamo
quali sono i punti deboli e i punti forti di tutti i nostri fratelli e li sfruttiamo per
mandare avanti il balletto. Sappiamo che gli duole la gamba destra e che se fa un altro
volteggio è a terra, per questo motivo lo facciamo noi al suo posto, in modo di farlo
soffrire ancora di più la prossima volta. L’uomo è un animale, non è né un predatore
né una preda, l’uomo gode nel fare del male, ma si sente in colpa se uccide, allora
cos’è l’uomo? Come può definirsi un essere superiore se uccide i suoi fratelli per il
puro gusto di farlo, senza nessuna logica in suo supporto? Secondo me l’uomo non ha
il diritto di chiamarsi essere superiore, mentre la tigre potrebbe essere perfettamente
un essere superiore, così come gli altri animali, infatti la tigre uccide i suoi fratelli per
nutrirsi, non per il puro gusto di farlo, ruba il cibo se sta per morire di fame, attacca se
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è in pericolo, mentre l’uomo uccide per il puro gusto di farlo, ruba tutto quello che
trova, dal cibo ai quadri, attacca anche se non è in pericolo, distrugge tutto quello che
trova per costruire ovunque e quando non sa più dove fabbricare nascono le guerre per
il territorio.
Scusa questo mio lungi sfogo, ma qui a Fontanellato ho molto tempo per leggere e
pensare. Non disperare se io non tornerò, non odiare i nemici, non odiare gli uomini, i
nostri fratelli, che come noi hanno una famiglia e una vita, non odiare la guerra,
perché fa parte della natura umana, creare caos e distruzione senza motivo, non
disperare quando i fucili canteranno per me e quando la colorata tela mi coprirà dal
freddo. Ti chiedo solo una cosa mia adorata Charlotte, fa in modo che la mia vita non
vada dispersa tra la sabbia del deserto, fa in modo che i fiori non avvizziscano,
continua a vivere come se io fossi al tuo fianco e non odiare mai nessuno, non
disprezzare nessuno, perché è il fato che ha reclamato la mia anima, la morte ha
chiamato il mio nome e io devo rispondere all’appello.
Il tuo per sempre
Howl Black
(Greta Pinardi)
Fontanellato, 21 giugno1943
Cara famiglia,
è da tanto tempo che ci troviamo in questo campo e voi mi mancate molto, mi manca
molto la mia patria, la mia amata città ed i suoi generosi abitanti, insomma mi manca
tutto della Gran Bretagna e spero di tornare molto presto.
Dal primo giorno qui in Italia non abbiamo fatto altro che marciare, ma con una meta
ben precisa: il campo PG 49, situato nel piccolo paesino di Fontanellato. Marciavamo
per luoghi polverosi e sperduti: non c’era neanche l’ombra di un abitante, forse non
avevano il permesso di osservare il nostro passaggio; si scorgevano solo di campi di
frumento, pomodori e barbabietole, ogni tanto, qua e là spuntava dai campi qualche
abitazione ed in alcune di esse si scorgevano delle forma di formaggio. Verso la fine
di marzo eravamo già tutti all’interno del campo e molti, anche se il posto era
abbastanza grande con i suoi quattro piani di altezza, si lamentavano del
sovraffollamento!
Da subito, però, iniziarono ad esservi lati positivi: nel campo, infatti, molto spesso
arrivavano pacchi della Croce Rossa italiana, nei quali erano contenuti beni materiali,
the, tabacco, libri e molto altro ancora. Nei libri era contenuta la cosa più importante:
nelle loro rilegature, venivano nascoste mappe e soldi, nel caso qualcuno cercasse di
fuggire. Purtroppo le guardie si sono accorte che quando ci arrivavano i libri
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potevamo disporre anche di oggetti che potevano favorire la fuga, perciò ora tolgono
rigorosamente tutte le rilegature ai libri prima di consegnarli.
Il diritto di sporgerci dalle finestre per guardare il paesaggio ci era vietato ed ogni
volta che qualcuno si affacciava, le sentinelle sparavano qualche colpo con i loro
fucili ed i loro mitragliatori. Noi prigionieri ci siamo accorti che siamo oggetto di
curiosità da parte delle giovani ragazze italiane, che molto spesso passano nella strada
adiacente al campo che porta verso il cimitero e spesso ci salutiamo a vicenda.
Una cosa che da subito non ci è piaciuta è l’instabilità dell’edificio: infatti ogni volta
che qualcuno scendeva bruscamente dal letto o qualcuno saltava dai piani superiori,
tutta la struttura barcollava e noi temevamo per la nostra incolumità nel caso
avvenisse un bombardamento nelle vicinanze. Per fortuna gli italiani non sono molto
crudeli e due volte al giorno ci fanno uscire in giardino, in modo tale da riuscire ad
allenarci, mentre una volta alla settimana, ci fanno fare delle marce nella campagna,
ovviamente molto sorvegliate, per rimanere in forma e prendere una boccata d’aria
fresca.
Fino ad ora ci sono stati molti tentativi di fuga, ma quasi nessuno è mai riuscito ad
uscire dal campo, solo tre miei amici e compagni di stanza ci riuscirono, ma la
vicenda non andò poi tanto bene: durante la pulitura del campo sportivo, loro, si sono
sdraiati in una buca e si sono ricoperti con assi di legno ed un po’ di terra. Per
assicurarsi il ricambio d’aria hanno messo alcune canne per l’acqua che collegavano
l’esterno con il loro mini bunker. Hanno aspettato la notte, sono usciti dalla fossa,
hanno tagliato il filo della recinzione e sono scappati, ma dopo pochi giorni furono
ripresi.
Mi mancate molto, sto facendo di tutto per rimanere in vita e potervi riabbracciare
Con affetto
Thomas Wellington
(Martini Alex)
Fontanellato (PR), 13 marzo 1943
Cara mamma e papà,
è un po’ che non ci sentiamo, scusate se vi ho fatto stare in ansia, ma purtroppo mi
hanno catturato e mi hanno portato in un campo di prigionia per ufficiali, sono a
Fontanellato, in provincia di Parma.
Nel campo ci sono molte persone, la vita è un po’ difficile, non c’è privacy, non c’è
abbastanza cibo per tutti, i letti sono quelli che sono.
Oltre ai lati oscuri del campo ci sono anche le note positive, per esempio ci sono una
biblioteca e un bar. Non si può affacciarsi alle finestre, perché le sentinelle hanno
l’ordine di sparare verso coloro che si sporgono per guardare.
Io sono in camera con altre cinque persone, due inglesi e tre sudafricani, a volte
facciamo fatica a capirci, ma con impegno e qualche sforzo riusciamo a metterci
d’accordo.
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Ora voi piangerete perché vi ho fatto preoccupare, ma io sto bene, ho molti amici qui,
e siamo molto legati. Ci è persino concesso di fare delle passeggiate nelle campagne
di Fontanellato, prima di uscire però dobbiamo giurare sul nostro onore che non
scapperemo e restare vicino ai nostri carcerieri.
Io ho una voglia immensa di uscire liberamente da queste mura, ma purtroppo siamo
tenuti sotto strettissimo controllo.
Una volta al giorno gli italiani ci radunano in un piccolo piazzale per fare l’appello e
vedere se siamo tutti presenti, o anche più sovente se loro sospettano che qualcuno si
sia dato alla fuga.
Alcune volte quando mi annoio, mi reco nella biblioteca in cui scrivo poesie, negli
ultimi tempi ho scritto molti versi.
Saluta tanto la nonna e gli zii, dai un bacio grande al tato, so che ci rivedremo
presto….
Dal vostro Josh
Valentina Testa
Fontanellato, (PR) 31 Marzo 1943
Cara mamma,
sicuramente ti sarai chiesta il motivo per cui non ti ho più scritto, così ti sarai
preoccupata.
Ti chiedo scusa, ma ecco la mia motivazione: sono stato catturato dai tedeschi, i quali
mi hanno portato in Emilia Romagna, a Fontanellato un paese in provincia di Parma,
presso un campo di prigionia chiamato PG 49.
So che quando leggerai queste righe scoppierai in lacrime e penserai che avevi
ragione, che era un rischio viaggiare, specialmente in questo periodo. Lo so, avrei
dovuto darti ascolto ma, solo ora me ne sono accorto.
Ancora una volta ti chiedo di perdonarmi per i miei sbagli, per averti abbandonato
lasciandoti solo una lettera sul tavolo e per non aver seguito le tue prediche, che erano
a fin di bene.
Mamma, è inutile scriverti che sto bene perché tu mi conosci e capiresti subito il mio
vero stato d’animo.. Sto male, malissimo, qui siamo tantissimi e con alcuni non riesco
a capirmi, perché parlano altre lingue, i problemi maggiori sono: la lingua, il cibo, i
vestiti, l’igiene, perché non c'è più intimità per noi stessi.
La sera io ed i miei compagni ci dividiamo quel po’ di viveri che ci vengono portati,
in seguito con alcuni ragazzi ci raccontiamo delle storie, vere oppure inventate.
Invece durante la giornata passo il tempo in una piccola biblioteca all’interno del
campo, dove vi sono libri e dizionari, che io utilizzo per cercare di formulare delle
frasi in lingue diverse in modo da poter comunicare con gli altri ufficiali indiani ed
italiani. Il resto del tempo lo passo nel bar ove non ci si può affacciare alle finestre,
altrimenti le sentinelle sparano.
Anche durante le uscite siamo controllati, perché dobbiamo tornare nel campo in un
orario preciso e ti fanno giurare sul tuo onore che non tenterai la fuga.
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Mamma, stai tranquilla sono sicuro che ci rivedremo.
Tuo Robert
Giacomo Caltabellotta
IL CAMPO PG-49 ERA UNA PRIGIONE DOVE VENIVANO RINCHIUSI GLI UFFICIALI INGLESI DAI TEDESCHI. UN GIORNO ALCUNI UFFICIALI SCAPPARONO CON L’AIUTO DI UN MILITARE ITALIANO.
Gabriele Cavalli
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... E DI RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA con la Prof. Ester Aimi
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RINGRAZIAMENTI
Alla fine della nostra opera ci sentiamo in dovere di ringraziare chi ci ha permesso di
realizzarla:
- l’Amministrazione Comunale, per il sostegno in tutti i sensi (!!) e per averci coinvolto in
questo progetto così ambizioso e interessante,
- l’Assessore Trivelloni, vulcanico ideatore del Progetto e sempre disponibile ad accogliere le
nostre di idee; Francesco, grazie grazie..
- l’Assessore Benito Allegri, per la consueta disponibilità e l’entusiasmo nel coinvolgere le
giovani generazioni,
- il Dirigente Scolastico per aver creduto nell’iniziativa e per aver sostenuto il Progetto,
- la Vicaria Rosaria Poi, che ha tenuto i contatti con i nostri “gemelli” inglesi,
- l’Istituto Storico della Resistenza per la qualità del lavoro offerto,
- il Prof. Marco Minardi e la Dott.ssa Chiara Nizzoli per averci trasmesso l’amore e la passione
per la storia (e tanta tanta competenza!),
- la Dott.ssa Saviola e i suoi collaboratori, per averci messo a disposizione i locali del Centro
Cardinal Ferrari,
- il Dott. Lucchini, per noi ormai Amedeo, per averci aperto le porte della Residenza per
Anziani Peracchi,
- Roberta, animatrice della Residenza, per l’accoglienza che ci ha sempre riservato,
- gli Ospiti della Residenza Peracchi: Elsa, Otello, Isabella, Giovanni, Luigi… e tutti i loro
famigliari (grazie Athos!!),
- Carlo Ferrari e i suoi collaboratori, per la straordinaria opportunità offerta ai nostri ragazzi di
sentirsi veri attori,
- il Sig. Sandro Bassi, per la sua preziosa testimonianza di vita,
- il Sig. Pietro Bettati, per gli importanti documenti che ci ha portato,
- Annamaria, per le foto, i racconti, gli articoli di giornale; senza di lei non avremmo saputo
come fare!!,
- i vari autori, da cui abbiamo tratto tanti spunti interessanti,
- tutti i colleghi che ci hanno sempre appoggiato in questa nostra avventura, in particolare
Ester, Laura A. ed Egidio per la preziosissima collaborazione e la grande mole di lavoro
svolto.
Per ultimi, ma nei nostri cuori per primi, ringraziamo i ragazzi, che con il loro entusiasmo e il loro
impegno hanno reso ogni nostra fatica un piacere.
Paola e Barbara
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GLI AUTORI
Classe 3^ A
Foto con Chiara Nizzoli
Arba Nicholas Martini Alex
Bonitta Claudio Montanari Asja
Caltabellotta Giacomo Pili Niccolò
Cavalli Gabriele Pinardi Greta
Curatolo Ivana Singh Harpreet
De Falco Alessio Sterbizzi Giorgia
Lori Federica Testa Valentina
Manghi Ingrid Zuccheri Giulia
Con i Docenti
Paola Bassignani, Ester Aimi,
Laura Astorino, Egidio Gaudioso, Barbara Zambrelli
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CONCLUSIONI
Anche questo Progetto, così come “Alla scoperta dei giardini”, è un altro chiaro
esempio di come la programmazione dell’intera classe possa essere “smussata” per
conciliarsi il più possibile con le esigenze cognitive e i bisogni formativi degli alunni,
tutti caratterizzati da stili di apprendimento diversi.
Nelle sue linee essenziali ha previsto le seguenti fasi:
1) ricerca e analisi di vari testi storici, biografici, letterari, descrittivi,
2) rielaborazione da parte degli studenti
3) riscrittura al computer e circolazione testi via mail, utilizzando l’indirizzo di
posta elettronica di classe ([email protected])
4) creazione di testi argomentativi e/o inventati, loro scrittura al computer e
circolazione via mail
5) utilizzo del wikispace di classe come “contenitore” degli elaborati e dei
materiali e come mezzo di scambio e confronto tra i partecipanti
Interessante, oltre ai contenuti trattati nella realizzazione di questo Progetto è la
modalità scelta di circolazione dei testi scritti dai ragazzi, di correzione da parte
dell’insegnante di classe e di utilizzo di un “contenitore” visibile e modificabile da
tutti gli alunni. Si è infatti pensato di sfruttare le potenzialità delle nuove tecnologie
sia per ottimizzare i tempi di consegna delle produzioni dei ragazzi, che per stimolarli
all’utilizzo consapevole e proficuo di Internet. Si è curato l’aspetto di riscrittura al
computer dei testi ed è stata stesa una circolare per le famiglie, in cui si chiedeva
l’autorizzazione all’utilizzo della casella di posta elettronica come modalità di
trasmissione dei dati a supporto della didattica. Quest’anno abbiamo creato una mail
di classe a cui gli alunni potevano spedire i testi e da cui venivano inviate le
correzioni, le comunicazioni alle famiglie e i materiali necessari per lo svolgimento
dei compiti domestici o delle esercitazioni.
Per tutti i Progetti svolti quest’anno a questi strumenti si è affiancato l’utilizzo di un
wikispace di classe, uno spazio tutto nostro in cui scambiarci idee, materiali, e su cui
“pubblicare” le nostre produzioni e i nostri commenti al lavoro svolto. I wiki nascono
proprio con lo scopo di fornire il supporto alla condivisione di conoscenze. Il wiki è
infatti un particolare tipo di sito Web che consente a più utenti di creare e modificare
le sue pagine, in un editor comune. La condivisione di un'attività in un wiki non
richiede la compresenza degli autori quindi di per sé è uno strumento di
comunicazione asincrona. Il sistema conserva traccia delle modifiche effettuate e
delle versioni precedenti, consentendo eventualmente anche una sorta di controllo sui
contributi forniti attraverso l'accettazione o meno delle variazioni effettuate dai
collaboratori. Di solito tutti i componenti di un gruppo di lavoro possono modificare
un wiki web, senza troppe formalità. La creazione delle pagine, come pure il
meccanismo di gestione editoriale, può prevedere una gestione differenziata dei ruoli.
È ad esempio possibile definire la presenza di un supervisore a cui spetta il compito di
rivedere e approvare i contenuti o inserire limitazioni per classi di utenti come quelli
non registrati ai quali, solitamente, è preclusa la possibilità di inserire e modificare le
pagine. L’uso del wiki nel nostro progetto scolastico è evidentemente legato alla
collaborazione, l'elemento che più di ogni altro contraddistingue questo strumento e il
nostro modo di intendere il lavoro di gruppo. Rispetto al tradizionale lavoro di
gruppo, realizzato in presenza, il wiki offre possibilità superiori perché consente una
riflessione a partire dalla natura testuale del prodotto e la possibilità di operare in
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maniera contemporanea tra più individui.
In generale la gestione dell’attività è stata complessa, soprattutto nella fase dell’invio
degli scritti, della loro correzione, e del successivo riordino dei testi definitivi
all’interno di un libro che mantenesse un filo logico. I ragazzi sono stati molto
collaborativi e hanno generalmente tenuto fede ai tempi di consegna stabiliti; si sono
dimostrati stimolati a scrivere e ad inventare situazioni ironiche e divertenti, ma anche
macabre e surreali, misurandosi con la difficoltà di dover rivedere magari più volte
quanto scritto per trovare la forma più corretta e più gradevole alla lettura. Ne sono
scaturiti aneddoti da condividere col gruppo classe per farsi due risate o momenti di
discussione plenaria per trovare spunti o per sottoporre ai compagni dubbi o richieste
di suggerimento. L’interesse per il progetto e lo stimolo derivante dal vedere che pian
piano il testo immaginato prendeva forma, è stato visibile anche nei momenti di
utilizzo dell’aula di informatica. Dopo una prima fase di banale videoscrittura, ossia
di ricopiatura dei testi precedentemente prodotti in forma cartacea, la maggior parte
dei ragazzi è passata a scrivere direttamente con la tastiera del computer,
interpellandoci per questioni di ordine tecnico e a volte per pareri di tipo
contenutistico. I files di testo creati venivano salvati su supporti esterni e
successivamente inviati via mail alla docente che avrebbe provveduto alla correzione
utilizzando la casella di posta elettronica della classe. Questo ha avuto l’indubbio
vantaggio di facilitare la correzione stessa, che avveniva tramite PC, e di evitare la
continua stampa di testi non definitivi e quindi destinati inevitabilmente al cestino una
volta riportati corretti su file. Tutti hanno tratto grande vantaggio dall’attività in
questione: le eccellenze hanno fatto un “lavoro di lima” sulle loro già buone
produzioni e gli alunni meno inclini alla scrittura hanno sopperito alle loro difficoltà
espressive attraverso un uso spiccato dell’ironia, dell’immagine, del linguaggio
comico, contribuendo tutti, ognuno con le proprie potenzialità e peculiarità, alla buona
riuscita del Progetto.
Paola Bassignani e Barbara Zambrelli
1
INDICE
Introduzione p. 1
Campo P.G. 49 p. 2
Fontanellato Prison Camp p. 6
List of POW Camps in Italy p. 7
Campi Prigionieri di Guerra in Italia p. 11
Daniele Camilli,
“Le parole e le cose, dal concentramento allo sterminio” p. 17
Campi di prigionia italiani p. 21
Resistenza p. 23
Storia del Centro Cardinal Ferrari p. 25
La vita del Beato Andrea Cardinal Ferrari p. 28
Racconto della Maestra Barbara Arduini p. 31
Il Progetto PG 49 e la Residenza per Anziani Peracchi p. 32
Lorenzo Peracchi p. 32
Incontro con gli Anziani al Peracchi p. 32
I nostri famigliari raccontano p. 39
Quando la mia famiglia ospitò un inglese di V. Testa p. 39
Ricordi della guerra di V. Testa p. 43
Testimonianze raccolte dagli alunni degli anni passati p. 44
Informazioni raccolte dai giornali e dal web p. 49
Notizie da Fontanellato p. 95
Viaggio della memoria a Campegine-Carpi-Fossoli
Martedì 9 aprile 2013 – Relazione di F. Lori p. 104
Dalla realtà alla fantasia: esperienze di scrittura creativa… p. 107
2
Testo di Giulia Zuccheri p. 107
Testo di Greta Pinardi p. 107
Testo di Alex Martini p. 109
Testo di Valentina Testa p. 111
Testo di Giacomo Caltabellotta p. 111
Testo di Gabriele Cavalli p. 112
… e di rappresentazione artistica con la Prof. Aimi p. 113
Ringraziamenti p. 117
Autori p. 118
Conclusioni p. 119