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Anno XIV - N° 1, gennaio/marzo 2019 Periodico di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina WWW.ARACNE-GALATINA.IT Anno XIV - N° 1 gennaio/marzo 2019- Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita
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Anno XIV - N° 1, gennaio/marzo 2019

Periodico di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina

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SOMMARIO

Noi marinai non siamo come voi,noi siamo della nave e la nave è di noi.Che ne sai, sulla terra,di quest’onda immensaorlata di frangenti,che corre inesorabile all’incontrosollevando la prua come un fuscelloe la fa ricadere nel gran gorgoe poi scroscia sui fianchi all’avanzare.Che ne sai tu di quello che si sentedi notte in una planciadove non c’è altra lucedi quella dei quadranticon cifre azzurre per i nostri occhi attenti.Dove non v’è altro suonoche l’aritmia dei conta girie il nostro calmo respirare,mentre i binocoli delle vedettescrutano dalle alette l’orizzonte.Che ne sai tu delle stelleche sono come un mantoche dall’alto ci avvolgecome un immenso altaredove si può pregare.Noi consapevoli ad ogni istanteche ognuno ha gli altri accantoe che se pure potremmoperire tutti insieme ogni momentoognuno è sempre pronto a soccorrere l’altroa rischio di se stesso.Che ne sai, sulla terra, del legame profondoche unisce i marinai di tutto il mondonoi che parliamo un linguaggio diversoche non sa i confini di razze e di paesi,noi che abbiamo nel cuore il saporedi ciò che voi solo con le paroletentate di chiamare Libertà.

Franco SpagnoliMontecarlo

Redazione Il filo di Aracne

I MAR INA I

COPERTINA: “Tratturo salentino” - Foto tratta da “internet”

I Quadernetti di AthenaL’ETERNA LOTTA FRA GLI OPPOSTIdi Rino DUMA 4

Tra passato e presenteERASMO DA ROTTERDAMdi Giuseppe MAGNOLO 8

Risorgimento meridionaleLA STRAGE DI AULETTAdi Salvatore CESARI 14

L’angolo della poesiaL’IMPORTANZA DELLA POESIAdi Alfredo ROMANO 16

Gente di mareL’AFFONDATORE SOLITARIOdi Salvatore CHIFFI 18

In novo vetusLATINO VIVOdi Piero VINSPER 22

Usanze e costumi salentiniIL SALENTO DELLE LEGGENDEdi Antonio MELE/MELANTON 24

Poeti salentiniI GIORNI ED I VERSIdi Paolo VINCENTI 26

C’era una volta...GLI SFOLLATI NEL SALENTOdi Emilio RUBINO 28

Terra nosciaLU DITTERIUdi Piero VISPER 30

Storia cittadinaGALATINA - L’OMBELICO DEL SALENTOdi Gianfranco CONESE 32

Una finestra sul passatoSTORIA DELLA PASTICCERIA A GALATINAdi Alessandro MASSARO 34

Su e giù per il SalentoRACCONTI DELLA COSTA IDRUNTINAdi Adele QUARANTA 38

Artisti salentiniPIETRO CORONEOdi Domenica SPECCHIA 42

Sul filo della memoriaLO SCORRERE DEL TEMPOdi Pippi ONESIMO 44

Gli articoli rispecchianoil pensiero degli autori enon impegnano assolu-

tamente la Direzione.

Tutte le collaborazionisi intendono a titolo

gratuito.

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina, edito dal Circolo Cittadino “Athena”Corso Porta Luce, 69 - Galatina (Le) - Tel. 0836.568220 [email protected] - e.mail: [email protected] del Tribunale di Lecce n. 931 del 19 giugno 2006. Distribuzione gratuitaDirettore responsabile: Ada DonnoDirettore: Rino Duma - e.mail: [email protected] Direttore: Giuseppe Magnolo Collaborazione artistica: Melanton Redazione: Salvatore Chiffi, Gianfranco Conese, Pierlorenzo Diso, Giorgio Liaci, Adriano Margiotta,

Alessandro Massaro, Antonio Mele ‘Melanton’, Maurizio Nocera, Pippi Onesimo,M. Chiara Patera, Rosanna Verter, Piero Vinsper

Impaginazione e grafica: Salvatore ChiffiStampa: Editrice Salentina - Via Ippolito De Maria, 35 - 73013 Galatina

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Premessa

L’eterna lotta del Bene contro il Male è vecchia più diquanto non lo sia la vita dell’uomo. È nata esattamentecon i primi vagiti dell’universo e terminerà quando

ogni cosa decadrà lentamente, sino a concludersi nella finedel Tutto, a vantaggio del Nulla assoluto. Dai primissimi agglomerati di gas sino all’attuale struttura

dell’universo, si sono succeduti nu-merosi eventi catastrofici di materia,tutti scaturiti dallo scontro titanicodi elementi e forze di opposta natu-ra. Anche la stessa vita (intendendoquella presente nell’universo lungotutto l’arco dell’esistenza biologica)si è sviluppata in forme diverse e haseguito un percorso analogo a quel-lo della materia. Scontri di ogni ge-nere si sono verificati, si verificano econtinueranno a verificarsi tra spe-cie viventi antagoniste presenti suitantissimi pianeti dell’universo1. Si tratta di lotte che si protrarran-

no ancora per milioni, se non permiliardi di anni, in cui si avvicen-deranno diverse specie viventi,sempre più vivaci e sempre più in-telligenti, ma, ahinoi, sempre piùantagoniste, avide ed aggressive tra di loro. Da quando è comparso l’uomo sulla terra, si sono verifica-

te dapprima schermaglie tra comunità primitive, per poi sfo-ciare in sanguinose guerre tra città rivali, tra singoli stati einfine tra blocchi di nazioni. Oggi nel mondo si assiste inermie impotenti ad una lotta asperrima in ogni campo della vitaumana, a cominciare dalla guerra tra i potentati della comu-nicazione, della finanza, dell’industria, della politica e dellevarie religioni. Tutto è dettato dall’innato desiderio dell’uo-mo di accaparrarsi la supremazia nel gruppo o nella comuni-tà in cui opera. Come dire “homo homini lupus”2.

La struttura esistenziale del Bene e del MaleSia il Bene che il Male presentano un analogo processo di

maturazione nel loro percorso ma enormi differenze nella fi-nalità.L’alba e il tramonto, la giovinezza e la vecchiaia, la saggez-

za e l’ignoranza, la verità e la falsità, la pace e la guerra, la vi-ta e la morte sono alcuni esempi di lotta tra Opposti nellatravagliata vita umana.Su tutti, però, svettano la Luce e le Tenebre, che rappresen-

tano rispettivamente i contrafforti del Bene e del Male, in cuirisiedono i vari Opposti.La Luce è l’elemento basilare che dà forza e consistenza al-

la Ragione, la quale conduce via via all’acquisizione della Co-noscenza, da cui scaturisce il Sapere. Questa fase è riferita allaprima parte del percorso che conduce al Bene. Sono in tanti gliuomini che si fermano a questo traguardo intermedio, pen-

sando stoltamente di aver raggiun-to quello finale. Anche l’educazionefamiliare e scolastica si fermano aquesto livello centrale. Ma non ba-sta. Per diventare uomini a tutto ton-do bisogna rimettersi in viaggio peresplorare le parti più intime del pro-prio ‘Io’ e della stessa umanità, perampliare ancor di più le conoscenzenobili (quelle che fanno lievitare lospirito), per scoprire molte ‘veritàvelate’ ed entrare nella dimensionespirituale della vita. Ci si accorgeràche, durante questo percorso asceti-co, la personalità dell’individuocambia in positivo, diventa più lu-minosa, leggera, fine. Si tratta di unimpegno assiduo in cui lo studio e laricerca, spinti dal desiderio della co-noscenza, non devono mai arrestar-

si e mai arrendersi. Da qui, il passo è breve per accedere nel mondo dell’Amo-

re, che rappresenta l’anticamera che conduce allo stadio fina-le del Bene. Pertanto se gli uomini del futuro riusciranno a fondere

l’idealità con la realtà, se cioè sapranno dare “scarpe alle idee”per farle camminare ed “ali alle azioni” per staccarsi dalla ma-terialità quotidiana della vita, potranno senza alcun dubbioarrivare ad un passo dalla felicità, oggi purtroppo indistintaall’orizzonte3.Viceversa le Tenebre rappresentano il fosco mondo dove

l’uomo vive nell’Istinto brutale, nell’Ignoranza, nell’Invidia enella Falsità, che si consolidano, come ultimo atto, nell’Orgo-glio, nell’Odio e nella Violenza. Da tale condensato di negativi-tà si entra in una zona esistenziale di non-ritorno, esattamentein quel mondo tetro ed opprimente, in cui impera l’assoluti-smo del Male.L’uomo che vive nel Bene è innanzitutto colto e loquace,

saggio ed equilibrato, sincero e pacifico, amante della propriae dell’altrui vita, positivo e propositivo.

4 Il filo di Aracne gennaio/marzo 2019

I QUADERNETTI DI ATHENA

Scontro fra due galassie

Seconda e ultima parte

L’ETERNA LOTTA TRA GLI ‘OPPOSTI’LL’ETERNA LOTTA TRA GLI ‘OPPOSTI’

Lo scontro finaleLo scontro finale

Il Bene contro il MaleIl Bene contro il Male

di Rino Duma

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L’uomo che vive nel Male è generalmente ignorante e, secolto, lo è esclusivamente per fini propri e giammai per quel-li altrui; è taciturno e opportunista, infìdo e ingannevole, pri-vilegia il proprio mondo interiore ed ama quello esteriore soloper trarne vantaggi, in quanto spinto da un egoismo morbo-so e irrefrenabile. Indossa il saio francescano, ma intanto nel-la sua mente si agita un ribollir di loschi e turpi intenti.

Il Bene e il Male nel pensiero degli antichi poeti, storici, religiosi e filosofi

Già poeti come Omero ed Esiodo, drammaturghi come So-focle, Eschilo, Euripide e storici come Erodoto, Aristofane,Plutarco, Tucidide si sono largamente interessati dell’inquie-tante presenza del Male, da tutti ritenuto energia oscura checondiziona in negativo la vita umana. Contributi altamentesignificativi sono stati espressi dai filosofi greci e latini comePitagora, Socrate, Platone, Aristotele, Democrito e Lucrezio,Seneca, Cicerone, Sallustio, ecc. Non meno interessante è il pensiero dei grandi personaggi

legati alle religioni del mondo euro-asiatico, che hanno lascia-to profondi solchi nel percorso della vita umana, come Mosè,Gesù, Maometto, Buddha, Confucio ed altri. Per Socrate, il Male è rappresentato dall’ignoranza, cioè

dall’assenza di principi etici, mentre il Bene scaturisce dallaconoscenza, dalla cultura e, di conseguenza, dalla saggezza edall’equilibrio spirituale. In pratica, l’uomo è imperfetto pernatura e nasce evidenziando sintomi di cattiveria ed egoismo,nel senso che viene attratto, sin dalla tenera età, da ogni si-tuazione che gli aggrada. Si provi a dare un biscotto a duebambini, mettendolo a pari distanza tra i due. Questi lotte-ranno con ogni forza per accaparrarselo. Il bambino, quindi,va corretto ed educato, in modo da fargli perdere gran partedella sua grezza struttura caratteriale, essenzialmente utilita-ristica4. Il Bene e il Male nei filosofi moderni e contemporaneiAnche Hobbes, Hegel, Kant, Nietzsche, Bauman, Scho-

penhauer, Popper, Eco ed altri filosofi parlano del Male come“imperfezione o impurità” presente nella nostra coscienza equindi come “un’innata inclinazione naturale” dell’essereumano verso una vita improntata sulle cattive azioni. Il Be-ne, pertanto, viene considerato come un lontano traguardoda raggiungere solo dopo un faticosopercorso di vita, irto di numerosi osta-coli. Per Nietzsche l’umanità, sin dai

suoi albori, ha assorbito una strutturadel Male sempre più compatta e resi-stente, che si è rafforzata in continua-zione, al punto da essere considerata‘inattaccabile e infrangibile’. Il filosofosostiene che “l’uomo avverte un senso disconfitta senza aver mai combattuto, divuoto opprimente, di impotenza crescente,di afflizione estrema”. Tutto ciò è dovu-to alla certezza che il mondo è posse-duto ineluttabilmente dalle forze delMale, contro le quali non potrà indi-viduare alcun rimedio e dalle qualinon potrà più sfuggire. Nietzsche arri-va all’estrema conclusione di considerare prossima la fine diogni cosa. In una celebre sentenza afferma con grande dolo-re: “Dio è morto… e noi l’abbiamo ucciso!5”. Ed ha piena ragio-ne.Nasce spontanea la domanda che in molti si sono posti: “

Perché c’è tanto male nel mondo?”.Tutto è racchiuso nella necessità interiore di sentirsi protet-

to e nelle spinte egoistiche presenti in ogni uomo6. Se questenon vengono frenate e corrette, a lungo andare le negativitàsi rafforzano, sino a condizionare ogni comportamento o, ad-dirittura, sino a compromettere la vita della stessa umanità. Secioè, lo Stato in primis e poi la scuola e la famiglia non inter-vengono per tempo, quei bambini prepotenti e litigiosi, di cuisi parlava in precedenza, in futuro saranno risucchiati irrime-diabilmente dal vortice seducente del Male. Scrive Schopenhauer: ”Noi ci illudiamo che l’oggetto deside-

rato (se poi realizzato) possa porre fine alla nostra volontà. Invece,l’oggetto voluto assume, appena conseguito, un’altra forma e sottodi essa si ripresenta. Esso è il vero demonio che, sotto nuove formedi desiderio, ci stuzzica in continuazione7”. In pratica i bisognigià soddisfatti ripropongono sempre nuovi bisogni in una ca-tena infinita, la cui chiave è la perenne insoddisfazione. In-somma, i nostri desideri non si spengono mai, perché dettatida un’inesauribile voracità del nostro ‘ego’. Possono al limiteessere attenuati e contenuti in determinati limiti, grazie ad

un’accurata e continua educazione do-mestica, scolastica e sociale. Questa èl’unica strada da percorrere per costruireuna societas sana, in cui sia lo stesso citta-dino a controllare le spinte egoistiche e acontenerle nei limiti dovuti. Si conosceràla vera felicità solo quando ogni indivi-duo riuscirà a frenare il cavallo imbizzar-rito che è in lui.Se non s’interviene per tempo, l’uma-

nità entrerà quanto prima in una sorta di“cecità morale”, che, purtroppo già siprofila minacciosa all’orizzonte. Bastadare uno sguardo alla disordinata e cao-tica organizzazione della società mon-diale per farsi un’idea della sua instabilee pericolosa consistenza, in cui regnanoindisturbati il libero arbitrio, lo sfrutta-

mento dell’uomo sull’uomo, il mancato rispetto delle leggi ela continua usurpazione o, addirittura, la negazione di impor-tanti diritti umani. Queste eccessive negatività stanno deter-minando l’appiattimento dei valori basilari, che rappresen-tano il pilastro per una “vita migliore”. Il Male risiede quasi sempre nelle alte sfere sociali, quelle

del potere assoluto. Per potersi affermare hanno bisogno di

gennaio/marzo 2019 Il filo di Aracne 5

Il Bene contro il Male

Friedrich Nietzche

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‘produrre’ ignoranza, povertà, sofferenza, indifferenza e ac-cettazione passiva da parte di chi si trova a vivacchiare neibassifondi della piramide umana. A costoro viene concessosolo il minimo indispensabile per campicchiare, ma non cer-tamente per vivere. Questa parte di umanità (oltre il 65%) vi-ve una vita grama, piena di sofferenze fisiche e psichiche,sempre sospesa in una situazione di “borderline”, da cui nonpuò venir fuori. In pratica, queste povere genti non conosco-no quale sia il vero “valore della vita”. Hanno solo un vagodesiderio, confortato da una modesta speranza, di poter vi-vere un po’ meglio. Si rifugiano nei sogni biologici per sfug-gire, almeno per poche ore, alla crudeltà della vita. Forse noioccidentali non riusciamo a cogliere pienamente il vero aspet-to dell’enorme dissolutezza in cui viviamo.

L’insicurezza del mondo attualeNon molto tempo addietro faceva da perno nella vita degli

uomini una spinta morale che induceva ogni persona a realiz-zare almeno alcuni valori di base. Oggi, invece, siamo entra-ti nella complessa e difficile età dell’insicurezza e del-l’incertezza, in cui assistiamo impotentialla costante ‘liquefazione’ (per dirla co-me Bauman) dei valori fondanti della vi-ta umana, basata sui forti legami affettivifamiliari, interpersonali e sociali. Le trepiù importanti agenzie educative arran-cano e si limitano ad impartire un’edu-cazione sommaria, evanescente e non alpasso coi tempi. Esempi lampanti si tro-vano nel comportamento di alcuni ra-gazzi che contestano i professori sino aschiaffeggiarli, oppure di frange impaz-zite di tifosi che picchiano a morte tifosidi parte avversa, o di ragazzacci che dan-no fuoco ai clochard per il solo gusto diuccidere, o delle ragazzine che si prosti-tuiscono per poter acquistare un capo diabbigliamento firmato, o dei tanti ragaz-zi che si rifugiano nella droga per prova-re emozioni particolari che la vita non garantisce o chefiniscono nelle reti della malavita per sbarcare il lunario del-la loro parca esistenza, ecc. Tali atteggiamenti hanno deter-minato una sorta d’incantesimo, di un’ipnosi sociale sullaragione, ormai indirizzata verso ben altri propositi. Come ri-sultato sono emerse il senso di un fallimento esistenziale e diuna resa incondizionata delle coscienze. Le forze del Male stanno chiudendo il consorzio umano in

una gabbia senza sbarre, da cui è difficile evadere, o meglio inun labirinto in cui si vive una vita contrassegnata da diversi do-veri, vincoli, obblighi e divieti, ma con pochi e labili diritti e ri-strette liberta. Ormai i cittadini del mondo sono soltanto delle“tessere” di un grande mosaico nelle mani dei vari potentati.I nostri figli, e ancor di più i figli dei nostri figli, educheran-

no con una visione della vita diversa da quella con cui ci edu-carono i nostri genitori, poiché hanno subito una “deviazionevaloriale” durante il loro tempo di vita. Sulla scorta di tale allarmante situazione si coglie da più

parti la necessità di rispondere a questo male invadente con“una rinnovata filosofia dei valori” su scala mondiale.

ConclusioniSi avverte il bisogno impellente di invertire la rotta e di in-

ventarsi un nuovo Umanesimo, con l’auspicio che nasca un“Homo Novus”, un uomo proiettato verso concrete possibi-lità future, un uomo con nuovi orizzonti di vita, con robustivalori condivisi da tutti, che disintossichi l’umanità dal Male

dilagante, mediante una purificazione lenta e incessante del-le coscienze. Un uomo che riesca a riumanizzare il “villaggiomondiale” e che concorra a formare spiriti liberi, eletti e me-ritevoli della ‘felicità’. Si tratta di un sogno che bisogna vivere ad occhi aperti, se

intendiamo approdare sulla tanto auspicata “terra promes-sa”. In fondo, non si è folli se si insegue un sogno, semmai èfolle chi rifiuta di entrarci. È questa l’unica opportunità a di-sposizione dell’uomo. Ma già immagino, come nel lontano Far West, una lunga ca-

rovana di grandi astronavi abbandonare in tutta fretta la Ter-ra, ormai contaminata, brulla e agonizzante, dirette versol’ignoto, tutte strapiene di uomini (poco umani) con la stessasperanza dei migranti d’oggi di approdare su un nuovo pia-neta, ma con la stessa paura di essere respinti dai nativi pernon inquinare la loro vita con i pessimi sentimenti, di cui iterrestri sono portatori. In questo sogno, però, è bene non ca-larsi mai, perché è qui, su questo sperduto granello cosmico,che dobbiamo adoperarci per edificare, tutti insieme, la vera

casa dell’Uomo, quella dell’amore, dellapace, della felicità. In questa dimensionetroveremo ad aspettarci, da tempo imme-more, quel Dio che tanto bramiamo diconoscere e che rappresenta la meta fina-le del nostro faticoso viaggio terreno. Mac’è ancora da soffrire e da lottare per mil-lenni, prima che l’uomo possa accederein quel futuro e tanto agosganto mondo,dove non ci sarà posto nè per servi nè perpadroni. •

Note: 1. Sono in molti a ritenere che nell’universo, es-sendoci miliardi di galassie, costituite da miliar-di e miliardi di stelle, ognuna delle quali ha quasisempre un sistema planetario, è verosimilmentepossibile che ci siano milioni di pianeti su cui èpresente la vita, anche se sotto forma diversa.2. “L’uomo è lupo per l’altro uomo” – Plauto, nel-

l’Asinaria. 3. Pensiero tratto dal romanzo dello scrivente La donna dei Lumi, pag. 25– Editrice Salentina – 2012. 4. Mi sono posto il problema dei bambini che vengono picchiati dalle mae-stre nella scuola dell’infanzia e sono arrivato alla conclusione che quei‘peperini’, il più delle volte privi di una adeguata educazione familiare,diventano, lungo tutto l’arco della giornata, ingestibili e insopportabili.Può capitare che una maestra, stressata dallo schiamazzo continuo e daicapricci dei piccoli ribelli, esploda in un scatto inconsulto di nervi. So be-ne che i bambini non vanno mai toccati ma solo accarezzati, però, di tan-to in tanto, una salutare sgridata e, se recidivi, uno schiaffettino non fannomica male, anzi inducono a farli desistere da certi comportamenti. La col-pa è dei genitori, diversi da quelli di un tempo, ma soprattutto della ma-ledetta e pericolosa TV che, come asseriva Karl Popper, invece di educare,diseduca quotidianamente i piccoli “giamburrasca” con programmi tele-visivi inadeguati e inopportuni alla loro tenera età. Pertanto, se arresta-no le maestre di turno, dovrebbero anche arrestare quasi tutte le mammedel mondo, che di schiaffi danno a iosa ai loro figli. Non mi si dica che so-lo le mamme possono farlo, perché la sgridata e lo schiaffettino produco-no gli stessi effetti, sia che si tratti dalla madre o della maestra di turno adarli. Mi auguro che il pensiero esposto non sia male interpretato dal let-tore.5. Friedrich Nietzsche – La gaia scienza.6.Thomas Hobbes sostiene, nella sua opera De cive (Il cittadino), che “làdove non c’è potere condiviso non c’è legge, là dove non c’è legge, non c’è giusti-zia”. Essendo la vita umana connotata dallo spirito di sopravvivenza e disopraffazione, gli uomini sono portati ad aggregarsi in grosse comunitàunicamente per sentirsi protetti e, quindi, per fugare la paura di essere so-praffatti. Per tale motivo essi avvertono il bisogno di affidare le fortunedella propria vita ad un unico sovrano.7.Arthur Schopenhauer, La tragedia della vita.

gennaio/marzo 2019 Il filo di Aracne 7

Arthur Schopenhauer

Rino Duma

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Le analogie della storia e la moral suasion. Si dice spes-so che la storia è maestra di vita, pur sapendo che essanon si ripete mai in modo identico, per quanto a volte

possa presentare degli aspetti che ci riportano ad epoche tra-scorse, facendoci scoprire tracce, influenze, radici nascoste cheperiodicamente sembrano riaffiorare, permettendoci di salda-re il passato con il presente, magari prendendo spunto dallacronaca quotidiana. Nel suo discorso di fine 2018 rivolto allanazione per augurare il buon anno, il presidente Mattarellaha esercitato il suo com-pito istituzionale di mo-ral suasion indicando ivalori di riferimento chedovrebbero orientaretutti gli italiani nel per-seguire l’obiettivo delbene comune. In un bre-ve ma significativo pas-saggio ha ribadito ilsenso di appar- tenenzadell’Italia alla casa co-mune europea, e a talproposito ha menziona-to Antonio Megalizzicome figura esemplareda ricordare. Antonio èil giovane che ha persola vita per mano del ter-rorista Chérif Chekatt la sera dell’11 dicembre scorso, mentreera a Strasburgo per svolgere il suo lavoro di giornalista, invia-to nella sede del parlamento europeo per conto di “Europho-nica”, una emittente radio universitaria del Trentino, perseguire i lavori conclusivi annuali della commissione europeanei giorni di esame della manovra economica elaborata dalgoverno italiano.La generazione del Progetto Erasmus. Si potrebbe definire

A. Megalizzi1 come un esempio eccellente della GenerazioneErasmus, uno di quei tanti studenti universitari che si sonoavvalsi dell’opportunità offerta dal Progetto Comunitario de-finito appunto col nome “Erasmus” per svolgere un periododi studi accademici non nell’università italiana dove sono

iscritti, ma in un’altra sede universitaria in uno dei paesi del-la comunità europea, che li accoglie permettendogli di segui-re lezioni attinenti l’indirizzo di studi scelto e sostenere irelativi esami, che sono regolarmente riconosciuti nel propriocurriculumdi studi. La permanenza all’estero offre a questi stu-denti anche la possibilità di completare la conoscenza dellelingue straniere, condividendo stili di vita diversi, tali da ren-derli cittadini del mondo che possono valorizzare le propriepotenzialità in ambiti più ampi di quelli del loro paese di ori-

gine2. La filosofia alla ba-se del progetto è che, inun’Europa senza barrie-re, in cui merci, personee servizi vari possonocircolare liberamente, siagiusto offrire le stessepossibilità anche in rife-rimento al mercato dellavoro, specie per i gio-vani maggiormente qua-lificati. Questo era statoil percorso formativo diAntonio Megalizzi, chegrazie a tale esperienzaaveva maturato unaconvinta accettazionedell’ideale europeista,sostenuto dal desiderio

di vivere in una patria allargata ed inclusiva, svolgendo unaprofessione che in qualche modo lo mettesse in condizione diosservare da vicino e raccontare agli altri le vicende e le deci-sioni prese in sede parlamentare europea.Umanesimo e globalismo culturale. Ma chi era Erasmo da

Rotterdam? E perché mai una commissione europea ha deci-so di dare il suo nome ad un progetto formativo così impor-tante ed economicamente impegnativo? Semplificando undiscorso che si presterebbe a lunghe dissertazioni accademi-che, diremo che Erasmo3 è stato una delle figure culturalmen-te più rilevanti del Rinascimento europeo. Letterato e teologodi chiara fama, fu un esponente illustre di quell’umanesimoche rivalutò gli studi classici e diede la stura alle aspirazioni

8 Il filo di Aracne gennaio/marzo 2019

TRA PASSATO E PRESENTE

Erasmo da Rotterdam

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del periodo rinascimentale, rimotivan-do le ragioni che portano l’uomo ad in-terrogarsi sulle proprie potenzialitàdurante la vita terrena e a costruirsi undestino di libera scelta. L’aspetto vera-mente originale della personalità diErasmo era nella sua formazione co-smopolita con riferimento all’Europa diquel tempo, un’entità geografica in cuidal punto di vista politico esistevanodivisioni profonde costituite da stati or-ganizzati in senso concorrenziale e for-temente nazionalistico, mentre sulpiano culturale e quello religioso (chepur con varie problematicità faceva ca-po alla chiesa cattolica) vi era una fortecoesione che storicamente si richiama-va alla tradizione medievale del SacroRomano Impero, e linguisticamente siriconosceva nell’accettazione del latinocome lingua universale. Giustamenteegli è considerato la più cospicuaespressione di una visione culturalmente aperta e comprensi-va, perseguita con dedizione appassionata non solo durante isuoi numerosi viaggi di studio in diversi paesi europei, maanche mediante una incessante attività di insegnamento svol-ta nelle migliori università del tempo (Parigi, Bologna, Lo-sanna, Cambridge, Oxford), senza tralasciare le suefrequentazioni con i dotti del tempo (tra cui Lorenzo Valla,

Aldo Manuzio, Girolamo Aleandro,John Colet e soprattutto l’amico Tom-maso Moro), con i quali intrattenevarapporti costanti di corrispondenza.Va peraltro ricordato che nell’arco del-la sua esistenza egli poté giovarsi didue circostanze particolarmente favo-revoli ed innovative: la recente inven-zione della stampa (1450), che avevadato enorme impulso alla diffusionedel sapere mediante la pubblicazionedi opere scritte prima introvabili, e lascoperta dell’America nel 1492, ched’improvviso aveva allargato smisura-tamente gli orizzonti della conoscenzaumana.L’ironia e l’impegno sociale. Trala-

sciando la sua vasta produzione sucontenuti sia letterari che teologici, emantenendo la nostra riflessione suuna prospettiva più miratamente euro-peista, preferiamo richiamare l’atten-

zione su una sua opera particolarmente gradevole e dicontenuto ancora attuale, che si intitola Elogio della Follia4, dal-la quale emergono alcune caratteristiche di sicuro interesse siaper la rilevanza delle opinioni espresse che per la modernitàdella forma in cui lo scrittore rivela doti notevoli di sottile e atratti pungente ironia. Va detto che l’autore usa il termine fol-lia per indicare tutte le circostanze comportamentali in cui gli

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esseri umani non seguono i dettami della ragione, bensì gliimpulsi istintivi che ad essa sembrano contrapporsi, ad esem-pio nella sfera affettiva, in quella più generalmente relaziona-le, nelle abitudini quotidiane attinenti al cibo e al divertimento,oppure in quelle di maggior rischio come il gioco d’azzardo,la caccia, il desiderio di avventura. La finalità è dimostrare chele azioni degli uomini sono prevalentemente irrazionali, inquanto dettate dall’istinto e da passioni incontrollate, soprat-tutto in certi ambiti particolari come la politica, l’arte e soprat-tutto la religione, in cui gli intenti malvagi di alcuni individuipossono condurre adesiti così aberranti daprestarsi ad una satiraveramente mordace,seppur velata dall’ap-parente candore di unascherzosa ingenuità. Lacensura e i dubbi del-l’autore non risparmia-no nessuno a cominciareda sé stesso, ricordandoche la conoscenza indi-viduale è sempre limita-ta, e che anche le veritàteologiche alla fine si in-cagliano sempre in qual-che dogma che rimanemisteriosamente imper-scrutabile.Il frazionismo religioso e la polemica con Lutero. Le riser-

ve di Erasmo su alcune pratiche religiose del suo tempo nonerano tanto rivolte alla Chiesa Cattolica come istituzione, ben-sì a quegli ecclesiastici corrotti che a vari livelli (dai frati men-dicanti fino alle più alte gerarchie) facevano mercimonio ditutto ciò che ruotava intorno alla professione religiosa, in par-ticolare l’uso feticistico di reliquie, immagini e oggetti ritenu-ti sacri, e soprattutto la vendita delle indulgenze. Per talragione vi è stato chi gli ha attribuito la colpa di aver innesca-to l’ondata di resistenza contro il clero di Roma (i cosiddettipapisti), con le conseguenze scismatiche poi prodotte dalle va-rie chiese protestanti5. Il suo intento era invece quello di esor-tare i cattolici a mantenersi fedeli agli ideali di semplicità econdivisione che animavano la chiesa evangelica originaria.

Significativa fu anche la sua polemica con Lutero, che da un la-to lo ammirava per la sua vasta cultura e la solidità delle sueobiezioni, ma lo accusava poi di codardia nel rifiutarsi di ade-rire al movimento protestante6. L’effetto di questo atteggia-mento indipendente da parte dell’autore fu tale da scontentareentrambe le fazioni contrapposte, ossia tanto quella dell’orto-dossia cattolica che quella scismatica dei protestanti. La con-seguenza fu che egli venne sospeso dall’ordinamento religiosoe costretto a mantenersi con i soli proventi dell’attività di inse-gnante. Anche i suoi libri furono messi al bando e poco dopo

la sua morte furono datialle fiamme insieme aquelli di Lutero a Mila-no nel 1543, perché con-siderati eretici. L’unità europea e i ri-schi di disgregazione.Da attento osservatoredelle dinamiche sociali epolitiche che egli vedevaprevalere nei diversi sta-ti europei da lui visitati,Erasmo aveva pienaconsapevolezza del ri-schio di disgregazioneche la civiltà del vecchiocontinente correva, se glielementi di contrapposi-zione avessero finito col

reprimere il desiderio di comunanza che albergava negli ani-mi più eletti e responsabili del suo tempo. Vi è un brano del-l’Elogio della Follia che è molto eloquente riguardo allo spiritodi acceso nazionalismo che, allora come adesso, secondo l’au-tore mira a contrapporre i popoli europei, creando contrastiapparentemente insanabili:

La natura ha infuso l’amor proprio oltre che nei singoli indi-vidui, anche in ciascuna nazione e persino nelle città. Di qui lapretesa degli Inglesi di primeggiare, oltre che nel resto, sul pia-no della bellezza, della musica, della sontuosità dei banchetti;gli Scozzesi vantano nobiltà, parentele regali, nonché sottigliez-ze dialettiche; i Francesi rivendicano la raffinatezza dei costu-mi; […] gli Italiani affermano la loro superiorità nelle lettere enell’eloquenza e si lusingano di essere l’unico popolo non bar-baro fra tutta l’umanità. Primi in questo genere di beatitudinesono i Romani, ancora immersi nei bellissimi sogni dell’anticaRoma; quanto ai Veneti, si beano del prestigio della loro nobil-tà. I Greci, quali inventori delle arti, si vantano degli antichi ti-toli e dei loro famosi eroi; i Turchi [...] pretendono il primatodella religione e quindi deridono i cristiani come superstizio-si. Con piacere ancora maggiore gli Ebrei aspettano tuttora ilproprio Messia, e ancor oggi si tengono aggrappati al loro Mo-sè; gli Spagnoli non cedono a nessuno la gloria militare; i Tede-schi si compiacciono della loro alta statura e della conoscenzadella magia7.

Rispetto a questo pericolo di frammentazione nazionalisti-ca, che egli osteggiava apertamente, l’unico antidoto a suo av-viso poteva essere rappresentato dall’unità del sapere fondata

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Antonio Megalizzi

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sul valore della classicità e l’universalità di una fede non con-taminata da inutili orpelli e da pratiche corrotte e in contrastocon le più elementari regole morali. Il realismo dell’autore lorendeva tuttavia incline al pessimismo circa la capacità del ge-nere umano di seguire i dettami della ragione, che egli ritene-va essere sempre destinata a soccombere, schiacciata dallafollia:

Se potessimo contemplare dall’alto gli uomini nel loro agitar-si senza fine, crederemmo di vedere uno sciame di mosche e dizanzare che disputano, combattono, insidiano, scherzano, gio-cano, nascono, cadono e muoiono. Si stenta a credere che raz-za di scompigli e di tragedie può provocare un animaletto cosìpiccino e destinato a vita così breve. Infatti, di tanto in tanto,un’ondata anche non grave di guerra o di pestilenza ne colpi-sce e ne distrugge migliaia e migliaia8.

Nonostante la ferma condanna di tutto ciò che riteneva im-morale, egli rimase comunque sempre fedele alle sue idee dimoderazione e tolleranza, che finirono con emarginarlo difronte al prevalere di posizioni estremiste e intransigenti cheavrebbero travagliato l’Europa per molto tempo9. L’eredità di Erasmo e il contributo dei giovani. A distan-

za di cinque secoli la strenua difesa dei valori culturali di fon-do come strumenti di coesione sociale e politica costituisce ilretaggio più importante di Erasmo per la civiltà del mondooccidentale. Ed anche dal punto di vista religioso la prospet-tiva unitaria da lui indicata, con i suoi richiami alla semplici-tà evangelica e allo spirito di fratellanza che contrad-distingueva le prime comunità cristiane, rimane di cogente at-tualità. Sebbene possa sembrare inopportuno magna cum par-vis componere, data l’evidente asimmetria del confronto, ilnostro discorso intende comunque chiudersi come si era aper-to, con il richiamo ad Antonio Megalizzi, che qualcuno ha de-finito “un campione della Generazione Erasmus”. Riteniamoinfatti che nel caso specifico alcuni elementi di somiglianza siimpongano alla nostra attenzione per motivazioni che ci toc-cano in modo particolare. Come il vecchio Erasmo, anche il

giovane Megalizzi credeva fermamente nell’Europa come re-altà sovranazionale che può consentire di superare la visioneangusta dei vari particolarismi nazionalistici che, oggi come ie-ri, ci espongono a rischi esiziali. Per questo egli era costante-mente alla ricerca di elementi che possono aggregare anzichédividere, individuandoli in parte nell’ambito politico-econo-mico, ed ancor più in quello culturale. Ma l’elemento che so-prattutto accomuna le due personalità è il richiamo al senso diresponsabilità individuale verso la collettività, l’unico che puòconsentire di superare la china dell’egoismo camuffato sottol’egida nazionalistica. Ecco cosa scriveva il giornalista trentinoriguardo a queste problematiche:

“Il nostro cervello, d’istinto, ci invita a distogliere l’attenzio-ne dalle nostre colpe e a proiettarle sugli altri. (…) Lo scontri-no che non facciamo, il lavoro che non fatturiamo, la carta chegettiamo a terra, il treno che sporchiamo, sono tutte attività anostro giudizio conseguenti all’inefficacia del lavoro dello Sta-to nel nostro paese. Allo stesso modo, la politica non ammettele proprie inadeguatezze e invece insiste nell’andare a cercarealibi a Bruxelles, e il mondo dei social networks, che altro nonvuole che nuove vittime sacrificali, la segue a ruota.”10

Egli respingeva risolutamente le critiche degli euroscettici,che definiva “gente in cerca di alibi”, sostenendo la necessitàdi intervenire per correggere le disfunzioni presenti nellastruttura organizzativa europea, invece di affossarla. “Il siste-ma sarà anche malato” egli ammetteva, “ma se invece di cu-rarlo lo aggrediamo ancora di più, la guarigione si fa semprepiù lontana”. Megalizzi era ben consapevole del pericolo distraniamento rispetto ad un ideale così difficile da difenderea causa dei limiti e delle carenze che possono comprometter-lo. Per questo il suo impegno era costantemente rivolto a cor-rispondere a un bisogno di informazione diretta e veritiera,ritenendola capace di convincere gli italiani dell’opportunitàdi persistere nel disegno di integrazione europea.Il pendolo della memoria. La memoria è sempre selettiva,

ed è perennemente in bilico tra l’enfasi celebrativa dei casi ec-

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celsi e l’inevitabile oblio che avvolge tutto ciò che è umana-mente caduco. L’entusiasmo dei giovani si presta certamentea reazioni diverse. Qualcuno, mosso dal sentimento, lo am-mirerà ritenendolo dettato da valori ideali altissimi; altri, affi-dandosi al freddo raziocinio, lo denigreranno come fallace edannosa illusione. Il che ci riporta al pendolo di Erasmo, cheoscilla anch’esso tra la follia delle aspirazioni più nobili e il rea-lismo del calcolo egoistico. E proprio questo alla fine ci indu-ce a ritenere che, se per un momento il giovane Megalizzipotesse tornare per farci sentire ancora la sua voce, probabil-mente direbbe di considerare una fortuna il fatto di morirementre si sentiva appagato dal poter vivere in una patria eu-ropea. •

NOTE:

1.Antonio Megalizzi aveva 29 anni ed è morto dopo due giorni dicoma irreversibile. Nato da una famiglia di origini calabresi, eracresciuto a Trento. Dopo la laurea triennale a Verona in Scienzedella Comunicazione, aveva conseguito la specialistica in StudiInternazionali all’università di Trento, dove stava seguendo unmaster in Diritto Internazionale. Era responsabile del network eu-ropeo di radio universitarie “Europhonica”, in cui aveva riversa-to la sua passione giornalistica e i suoi studi internazionali. 2. Avviato a partire dal 1987 e finanziato con fondi comunitari,nell’arco di circa tre decenni il “Progetto Erasmus” (acronimo diEuropean Region Action Scheme for the Mobility of University Stu-dents) ha offerto prospettive importanti a migliaia di giovani,aprendogli orizzonti prima impensabili sia in termini di cono-scenze specialistiche che come possibilità di lavoro.3. Erasmus Desiderius Roterodamus (era questo il suo nome in la-tino) nacque a Rotterdam (Olanda) nel 1466/9 e morì a Basilea(Svizzera) nel 1536. Studiò in seminario e fu ordinato prete nel1592. Oltre agli studi di teologia approfondì gli autori classici la-tini e greci, da cui trasse gli Adagia (1500), ampia raccolta di afo-rismi e citazioni, e pubblicò traduzioni del Vecchio e NuovoTestamento. Nel 1511 diede alle stampe De Duplici Copia Verborum

et Rerum, un manuale di retorica. Nel 1514 abbandonò la vita con-ventuale per dedicarsi totalmente agli studi e curare le sue pub-blicazioni. Importante il suo trattato De Libero Arbitrio (1524), chein contrasto con Lutero confutava la teoria della predestinazione,e i Colloquia (1516-36), ampia dissertazione sulle verità di fede ele pratiche religiose in seno alla chiesa cattolica.4. L’opera fu composta nel 1509, allorché l’autore si recò in Inghil-terra dove fu ospite di Tommaso Moro, a cui l’opera, pubblicataper la prima volta nel 1511, è dedicata. Lo stesso titolo originalein latino Encomium Moriae, intenzionalmente richiama il nomedell’amico. Scritta di getto inizialmente in forma di trattato semi-serio su un argomento che Erasmo riteneva di puro esercizio re-torico, l’opera giunse a rappresentare una riflessione spontaneae sincera sulla società del suo tempo e una disamina lucida espassionata dei mali che l’affliggevano.5. Gli inizi dei movimenti di resistenza contro la Chiesa di Romarisalgono a diversi secoli prima della riforma protestante, e co-munque Erasmo ebbe sempre presente l’esigenza di preservarel’unità del mondo cattolico, seppur con opportune correzioni. 6. Rendendosi perfettamente conto del pericolo di sfaldamentoper la cristianità rappresentato dall’estremismo riformista delleTesi di Lutero, Erasmo scrisse l’opera De Libero Arbitrio (1524) percondannarle decisamente, affermando la capacità di libera scel-ta morale insita nella coscienza individuale. Lutero replicò a suavolta scrivendo il trattato De Servo Arbitrio (1525).7. ERASMO DA ROTTERDAM, Elogio della Follia, Feltrinelli, Mi-lano, 2011, p. 80.8. Ibid., p. 87.9. I contrasti religiosi dovuti ai movimenti riformisti insanguina-rono l’Europa per oltre un secolo. Soltanto nel 1648 con la Pace diAquisgrana si giunse ad una tregua in base al principio “Cuius re-gio, eius religio”, che sanciva il dovere di conformità di ciascunsuddito alla religione scelta dal sovrano dello stato di apparte-nenza. In età moderna tale criterio è stato sostituito dal riconosci-mento della libertà di religione come uno dei diritti fondamentalidell’uomo. Cfr. FEDERICO RAMPINI, Quando comincia la nostrastoria, Mondadori, Milano, 2018, pp. 383-393. 10. Da A. MEGALIZZI, Postpolitico, Saggio sulla comunicazionepolitica in epoca di social networks, (Self publishing su Internet).

Giuseppe Magnolo

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Il 28 luglio 1861, una nutrita colonna di ex-soldati bor-bonici e di legittimisti fedeli al deposto re Francesco II,entrò in Auletta, un piccolo paese in provincia di Saler-

no, si sbarazzò della modesta guarnigione piemontese eprese possesso della città tra i canti e il giubilo dell’interapopolazione. I pochi liberali, tra cui alcuni notabili, feceroappena in tempo per sottrarsi ai rivoltosi, raggiungere ilvicino paese di Pertosa e riferire sull’accaduto. Intanto ad Auletta vennero rimossi dal palazzo munici-

pale i ritratti di Vittorio Emanuele II e Garibaldi, che furo-no portati nella vicina piazza e dati alle fiamme. Al posto

del tricolore, lacerato e sputato, fu innalzata la bandieradei tre gigli del Regno delle Due Sicilie. Contemporanea-mente, nella locale chiesa di San Nicola di Mira, venne ce-lebrato il Te Deum a favore dei deposti sovrani, mentreintanto le campane delle chiese furono fatte suonare a di-stesa per invitare i cittadini alla difesa della città.

Dalla vicina Pertosa, dove era di stanza un reggimentopiemontese, furono subito inviate poche decine di uominidella Guardia Nazionale Italiana e dei Carabinieri pertroncare sul nascere la rivolta. Prevedendo una reazionepiemontese, i legittimisti e i popolani, armati di tutto pun-to, respinsero a fucilate il manipolo di soldati. Un affron-to del genere, però, non poteva essere di certo tollerato,anche perché era necessario dare un’esemplare e dura pro-va di forza, come monito per altre città.Per tale motivo i vertici militari piemontesi decisero di

stroncare nel sangue la ribellione. Su Auletta fu riversato

un intero contingente di bersaglieri, affiancato da un’assa-tanata soldataglia della Legione Ungherese, che, per suanatura, si lasciava andare facilmente ad uccisioni, razzie estupri. All’alba del 30 luglio i militari, dopo aver sgominato la

modesta resistenza dei rivoltosi, entrarono in città, met-

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RISORGIMENTO MERIDIONALE

La strage di Auletta (SA)

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tendola a ferro e fuoco. Sterminati i pochi ribelli, i piemon-tesi e, soprattutto, gli ungheresi iniziarono a massacrareanche i civili d’ogni età. Donne e bambini, adulti ed anzia-ni vennero pestati a sangue, umiliati e derubati. Si racconta di stupri di donne e di fanciulle da parte del-

la squadraccia ungherese, sino ad arrivare alla fucilazioneimmediata e senza alcuno scrupolo di fronte all’opposizio-ne dei loro familiari. Attila, il famigerato barbaro calato dalnord-est dell’Europa, si sarebbe astenuto dal fare similiazioni o, quanto meno, avrebbe risparmiato le fanciulle.Tutte le case furono messe a soqquadro in cerca di og-

getti d’un certo valore. Non furono risparmiate dalla furiaanimalesca neanche la chiesa di San Nicola e altre duechiesette. Giuseppe Pucciarelli, il parroco che aveva issatola bandiera borbonica, venne picchiato a morte in pubbli-ca piazza. Stessa sorte toccò ad altri quattro prelati dopoesser stati costretti a inginocchiarsi al cospetto del tricolo-re. Si racconta anche che uno di loro, nonostante i suoi set-tant’anni, cercò di alzarsi in piedi per non onorare labandiera straniera, ma un sergente piemontese gli spaccòil cranio con il calcio del fucile. Furono 45 le vitti-me civili accertate quel giorno, ma alcune fonti par-lano di oltre un centinaio di morti. Alla fine della rappresaglia, ben 120 cittadini

vennero arrestati e tradotti nel carcere di Salernocon l'accusa di rivolta e di cospirazione.Nel relativo processo, durante il quale non fu

concessa agli imputati la possibilità di essere dife-si da un loro legale, ben 72 persone furono accusa-te di aver partecipato alla sedizione di qualchegiorno prima. Furono incarcerate, dopo essere sta-te costrette a baciare la bandiera italiana e a giura-re fedeltà a re Vittorio Emanuele II, penal’immediata fucilazione se si fossero opposte. No-nostante l’umiliazione, furono condannate a penevariabili dai cinque agli otto anni di prigione. Pare che un uomo di oltre ottant’anni, fedele al

re Francesco II, si rifiutò di farlo. Gli fu risparmiata la vi-ta, ma fu messo a pane e acqua in una celletta da solo. Fu,però, trovato morto dopo alcuni giorni. Non si seppe maiil motivo della sua morte. Forse fu avvelenato, forse morìdi crepacuore. Se ne andò da questo mondo da eroe silen-zioso, ma con tanto di dignità ed orgoglio per aver onora-to sino in fondo il proprio sovrano e difeso l’appartenenzaalla terra campana. Il suo corpo fu portato ad Auletta econsegnato ai pochi popolani rimasti in paese perché gli

dessero degna sepoltura. Almeno questo fu un atto di buo-na umanità.Come abbiamo spesso raccontato, l’occupazione pie-

montese non seminò soltanto morte e distruzione fra leschiere borboniche e fra i cosiddetti ‘briganti’, ma spesso evolentieri, ad assaggiare i fucili italiani furono persone co-muni, donne e bambini che, come unica colpa, avevanoquella di aver difeso la loro terra e le loro radici storiche.A 145 anni di distanza da quei tragici ed infausti avveni-

menti fu posta da una locale Associazione culturale, nellapiazza principale del paese, una lapide che così recita.“Auletta 30 luglio 1861 / 145° anniversario / LA STRAGE DIAULETTA / morirono da eroi dimenticati dalla storia / 30 luglio2006”.Altri atti scellerati furono compiuti dai Savoia nel Meri-

dione d’Italia. Di alcuni di questi eccidi ingiustificati par-leremo in altri momenti.A questo punto viene da chiedersi: “Perché mai in Italia,

nazione altamente democratica, non vengono fatti studiare daglialunni simili fatti criminali a danno delle popolazioni meridio-nali, mentre ogni anno vengono puntualmente ricordati - comeè giusto farlo - le stragi di Marzabotto, di Sant’Anna di Stazze-ma, degli italiani finiti nelle foibe, degli ebrei romani deportati adAuschwitz, dei soldati italiani fucilati per mano tedesca a Cefa-lonia e per i martiri delle Fosse Ardeatine?”.

ConclusioniI Savoia costruirono, storicamente e socialmente parlan-

do, un mondo alla rovescia, in cui gli innocenti (i meridio-nali) subirono l’invasione delle loro terre senza mai averdichiarato guerra ad alcuno Stato, furono depredati dei lo-ro beni e delle loro riserve auree, furono trucidati in mas-sa e giudicati come gente miserevole e ignorante, furonoderisi, descritti e tramandati alla storia come gli unici col-pevoli di un totale disastro nazionale, mentre a loro voltai veri colpevoli (i Savoia) furono giudicati come i salvato-

ri di un’unità d’Italia imposta con la forza a tutti gli italia-ni, furono considerati come mandati da Dio per correggerela dispotica tirannia borbonica, furono osannati e conse-gnati alle future generazioni come innocenti. In quasi 160 anni di unità d’Italia, i tribunali dell’uomo

si sono sempre astenuti dal condannare gli autori di que-gli ignobili e disumani fatti sangue; sarà senz’altro il tribu-nale di Dio a punire i veri colpevoli con sentenza severaed inappellabile. •

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Auletta oggi (SA)

Auletta (SA) - Lapide commemorativa

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Dal momento che la poesia nelle scuole è diventataun’illustre sconosciuta, è straordinario che alcuniragazzi dell’Istituto d’Arte di Civita Castellana (Vi-

terbo) abbiano provato a misurarsi con il suo linguaggio.In Italia si vendono romanzi, ma raramente libri di poesie.Perfino le opere dei grandi poeti hanno tirature striminzi-te. Ormai coloro che comprano o leggono poesie si sento-no come i pochi eletti, chiamati a godere dei misteri delverso e del suo ritmo.Tanti anni fa, la poesia si respirava in casa. Non c’erano

libri di poesie, ma le persone anziane erano depositarie diuna tradizione orale chesciorinava, accanto aiproverbi, ai racconti e al-le tiritere, anche le poe-sie, soprattutto quellenarrative. Noi ragazzicrescevamo al suono deiritmi della poesia, tantoche, quando s’affacciaval’approccio con le poesiedella scuola, per noi nonera una novità. Così, pertutto il periodo delle ele-mentari e delle medie,ma anche delle superio-ri, venivamo educati aimparare le poesie a me-moria, anche quelle deipoeti minori: mi vengono in mente Francesco Pastonchi,Angiolo Silvio Novaro, Luigi Mercantini.Quando frequen-tavo le medie inferiori, c’era perfino un professore d’italia-no che portava in classe un magnetofono (si chiamava così,allora, il registratore con tanto di bobine) per registrarcimentre recitavamo Omero. Lui pretendeva l’uso di certitoni, una certa cadenza e un ritmo tale, che nel verso si do-veva ascoltare come una musica. E non aveva torto, vistoche la poesia, alle sue origini, aveva un andamento melo-dico, non si recitava, ma si cantava quasi.È un peccato che oggi a scuola non s’imparino più le

poesie a memoria. Erroneamente si crede che ciò sia per iragazzi un puro esercizio mnemonico, eppure ancor oggimi ritrovo a ripetere brani di poesie. E non fui sorpresoquando Italo Calvino, prima che morisse, a un intervista-

tore che gli chiedeva un consiglio per i giovani, lui, senzascomporsi, rispose: “Imparare tante poesie a memoria, co-sì, quando saranno grandi, quelle poesie faranno loro tan-ta compagnia”.Imparare le poesie a memoria, perciò, significa anche

educarsi alla poesia, perché poi ci sono ritmi, cadenze,pause che restano nei cassetti della nostra memoria e cheandranno ad arricchire la nostra capacità di comunicare.Nessuno “nasce imparato”, si dice, e, come il garzone che

va alla bottega artigiana, anche per diventare poeti occorreesercizio: leggere e leggere poesie, scoprirne piacevolmen-

te tecniche e segreti. Solocosì ci si può impadroni-re del linguaggio dellapoesia e diventare a vol-te poeti. E tutto ciò per-ché abbiamo bisogno ditrasmettere esperienzeed emozioni che solo lapoesia, come l’arte in ge-nere, può nobilitare erendere universali.Succede così che riesci

a dire con la poesia ciòche non sarebbe possibi-le col linguaggio di tutti igiorni, talvolta così ba-nale. La poesia è libertà,ci si può mettere a nudo

con la poesia, rivelare stati d’animo, sogni e aspirazioni chesono accettati da chi sente o legge proprio perché espressiin forma poetica. Anche cose esecrabili, dette in poesia, sifanno perdonare. Ecco, la poesia non ha colpa, come nonha colpa un quadro, un brano di musica, perché l’arte èproprio sinonimo di libertà.C’è chi dice che la poesia salva la vita. Capita, a volte,

che non sopportiamo il peso delle nostre esperienze, delsolito tran tran quotidiano; oppure ci sono emozioni checi distruggono, come l’indignazione, la rabbia, l’odio, l’an-goscia, il senso di noia, ma anche un amore che ci devasta.Ecco, se riusciamo a chiudere il tutto in una gabbia di poe-sia, otterremo di trasformare la forza distruttrice di certeemozioni in qualcosa di bello, di creativo. Vi assicuro cheè uno dei modi più efficaci per non lasciarsi sopraffare dal-

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L’ANGOLO DELLA POESIA

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le emozioni.Che cos’è allora la poesia scritta? È proprio una gabbia in

cui dentro stanno chiusi stati d’animo, idee, emozioni chesi liberano d’incanto nel momento in cui la leggiamo. Leg-gere una poesia ad alta voce, poi, è come stappare (per-mettetemi il paragone) un buon vino d’annata, quando,d’incanto, si apronoprofumi, aromi e sen-sazioni per la gioiadel nostro naso e delnostro palato.Pavese diceva che

anche una sigarettaspenta sulle labbrapuò essere oggetto dipoesia. Dipende sem-pre dal linguaggio,dalle sensazioni checi provoca la poesia,da come riesce a sor-prenderci soprattut-to. Ecco, la poesia,leggendola, deve far-ci restare di stucco.Solo a questa condizione la poesia diventa di tutti, perché,una volta che la poesia è stata licenziata dal poeta, non ap-partiene più al suo autore, vive ormai di vita propria. D’al-tra parte, leggere o recitare la poesia di un poeta è cometrascriverla di nuovo, sì proprio come scrivere un’altrapoesia.Nelle scuole, abbiamo detto, l’educazione alla poesia va

scemando, anche se ci sono insegnanti che resistono e siprodigano. Ma, si sa, leggere una poesia richiede sempreun certo sforzo, una qualche attenzione, cosa che diventa

sempre più difficile in un mondo dove non c’è più silenzio,dove, perfino in casa, la televisione è diventata la colonnasonora della nostra giornata. Lode allora ai ragazzi del-l’Istituto d’Arte di Civita Castellana, che, con le poesie,hanno dato un senso alle loro idee, aspettative, sogni, an-che alla paura di vivere. Ciò significa che sono alla ricerca

di un linguaggio cheriesca a trasmetterecon più forza, o conpiù grazia, il loromondo di ragazzi. Igenitori, gli adulti ingenere, non li capi-scono a volte, è vero:provino i ragazzi al-lora a farsi capire conla poesia: chissà chenella comprensionereciproca...Ma adesso che i ra-

gazzi hanno scopertola poesia (con la qua-le non si guadagnaun bel niente), non si

fermino qui: siano curiosi dei poeti, li vadano a cercare(nella biblioteca comunale li troveranno tutti, italiani estranieri), cerchino di rubare il segreto del loro linguaggio:è bello innamorarsi di un poeta, farne il proprio angelo cu-stode. Così, può anche succedere di scrivere in poesia chesi abbia voglia di morire, ma proprio perché lo si è scritto,proprio perché lo si è gridato ai quattro venti, ecco che nevien fuori un’insopprimibile voglia di vivere.Sì, la poesia salva la vita! •

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18 Il filo di Aracne gennaio/marzo 2019

Il 1943 per le forze armate italiane fu un anno disastrosoper gli innumerevoli insuccessi sui vari fronti di guerra.Al contrario il S.I.M. (Servizio Informazioni Militari) in

quell’anno, ma anche nell’anno precedente, riscosse notevo-li successi sia con la cattura di numerose spie di varie na-zionalità operanti sul territorio italiano, sia per il notevoleflusso di informazioni che riceveva dai propri agenti segre-ti sparsi in territorio nemico.Probabilmente questi successi erano

dovuti anche al fatto che i servizi segre-ti delle forze alleate, visto l’andamentofavorevole della guerra, avevano allen-tato la morsa e messo da parte ogniprecauzione consentendo agli agentisegreti italiani di cogliere numerosi einsperati successi.Tra le tante informazioni che gli agen-

ti segreti italiani fecero pervenire al SIMquella trasmessa dall’agente “D65” su-scitò l’attenzione del responsabile delleOperazioni Medio Oriente.“D65”, trasmettendo da Alessandret-

ta in Turchia, segnalava che nei porti diAlessandretta e Mersin bastimenti ne-mici svolgevano una intensa attività dicarico di minerali di cromo, metallo es-senziale per la produzione bellica.L’agente segreto informava anche che

a causa dei bassi fondali le navi eranocostrette ad ancorarsi al largo e che ilprezioso carico veniva dapprima cari-cato su grosse zattere e poi trasportatosottobordo alle navi per essere imbarcato. Inoltre riferivache le navi non adottavano alcuna misura di protezione equindi potevano tranquillamente diventare bersaglio di unsommergibile.Il servizio segreto italiano non ritenne opportuno dislo-

care in zona uno dei pochi sommergibili che ancora rimane-vano e segnalò a “D56” che avrebbe mandato adAlessandretta un agente segreto con la qualifica di segreta-rio aggiunto al consolato con cui avrebbe dovuto avere unprimo contatto ad Instambul.Il giorno convenuto in un modesto albergo di Instambul

si incontrarono il segretario del consolato di Alessandretta,Giovanni Riccardo alias l’agente segreto “D56”, Luigi Ve-spa, capitano dei carabinieri del SIM e Luigi Ferraro uno deipiù esperti sommozzatori dei mezzi d’assalto della Marina

appartenente al “Gruppo Gamma”1.Le autorità militari, ritenendo che Luigi Ferraro, Sottote-

nente di artiglieria, uomo coraggiosissimo e spregiudicato,dal fisico imponente e subacqueo d’eccezione, fosse spreca-to come artigliere, si erano prodigate affinchè fosse trasferi-to nel “Gruppo Gamma”.

Mai il nostro uomo avrebbe pensato di diventare ungiorno agente segreto e, quando fu indottrinato sull’inca-

rico che gli stavano affidando, accettòcon entusiasmo e senza alcun tenten-namento.I tre agenti segreti incontratisi ad In-

stambul concordarono un piano strate-gico. Il capitano Vespa avrebbe rag-giunto Alessandretta separatamente daFerraro e Riccardo, si sarebbe tenutonascosto e nell’ombra avrebbe sorve-gliato che nessuno potesse intralciarele azioni di sabotaggio che gli altri dueavrebbero messo in atto.Grazie al passaporto diplomatico

Luigi Ferraro raggiunse il ConsolatoItaliano ad Alessandretta con quattrograndi valigie contenenti otto ordigniesplosivi, in gergo marinaresco chia-mati “bauletti” e pesanti 12 Kg. ognu-no, e tutta l’attrezzatura necessaria adun nuotatore d’assalto. Come era facile prevedere, l’arrivo

del nuovo inquilino del consolato ita-liano non passò inosservato ai funzio-nari e agli informatori degli altri

consolati, che lo tennero a lungo sotto controllo. Tale con-trollo fu molto semplice, facilitato dal fatto che il consola-to inglese, quello tedesco e quello inglese erano ubicati apochi metri di distanza l’uno dall’altro, mentre quelloamericano, greco e francese erano un po’ più distanti, macomunque tutti sulla stessa via e di fronte al mare da cuierano separati solo dalla strada. Questa vicinanza permet-teva agli agenti segreti di ogni paese di controllarsi a vi-cenda.Sul conto del nostro Ferraro non trapelò nulla tranne che

era stato inviato ad Alessandretta grazie all’intervento disuo padre, un pezzo grosso del partito, con l’intenzione ditenerlo lontano dai pericoli del fronte, praticamente un rac-comandato di ferro o come direbbe la ex ministro Fornero“un bamboccione”.

Luigi Ferraro in assetto “Gamma”

GENTE DI MARE

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gennaio/marzo 2019 Il filo di Aracne 19

Da parte sua Ferraro non fece nulla per smentire questaopinione conducendo una vita normale, partecipando allefeste e agli incontri organizzati dai vari consolati, giocandolunghe partite a bridge e a bocce, corteggiando le ragazze

da marito, ma, soprattutto, non facendo intuire le sue abili-tà natatorie, fingendo, da attore consumato, di avere pocadimestichezza con l’elemento liquido, arrivando persino afar finta di affogare, annaspando in maniera molto goffaquando un connazionale lo spinse giù da un imbarcaderoproprio di fronte al consolato inglese.Il Ferraro ogni pomeriggio si recava in spiaggia portando

con sé una grossa sacca in cui riponeva un telo da mare e al-cuni attrezzi ginnici adatti più a dei ragazzini. Era un uomoalto un metro e ottantacinque con le spalle larghe quantoun armadio, raggiungeva dapprima la sua cabina persona-le, si cambiava e, dopo aver steso il telo sulla sabbia, si ci-mentava in quegli esercizi ginnici che erano tantoapprezzati dal Duce e propagandati dal regime. Terminatigli esercizi, si stendeva al sole e all’imbrunire, dopo essersicambiato in cabina e aver riposto gli attrezzi nella sacca, fa-ceva ritorno al consolato per la cena.Due mesi dopo il suo arrivo nella città turca per Ferraro

arrivò finalmente l’ora di passare all’azione.

Il pomeriggio del 30 giugno il nostro finto diplomaticoraggiunse come di consueto la cabina sul mare portandocon sé la solita capiente sacca. Nessuno poteva sospettareche insieme alle clave, manubri, palloni ginnici Ferraro tra-sportava l’attrezzatura per l’immersione e due ordigniesplosivi dal peso ciascuno di 12 kg. Dopo aver occultato incabina questo materiale, Ferraro raggiunse la spiaggia, fecei suoi esercizi ginnici, prese il sole come ogni giorno e al tra-monto rientrò alla base.A tarda sera, approfittando delle tenebre, Ferraro rag-

giunse la cabina non visto. Indossò la tuta “gamma” di colornero, si tinse il viso con la crema nera per le scarpe e, dopoaver assicurato alla cintura i due “bauletti”, si diresse a nuo-

to verso l’obbiettivo prescelto: la nave greca “Orion” da7.000 tonnellate al servizio degli inglesi alla fonda a circa2.500 mt. dalla spiaggia.La nuotata di Ferraro era lenta e ben ritmata. Non dove-

va assolutamente arrivare affaticato o affannato sull’obbiet-tivo. Ogni tanto la luce di un riflettore spazzava la superficiedell’acqua, ma era molto difficile per le sentinelle avvistareil sabotatore nemico aiutato nell’occultamento da una legge-ra increspatura del mare dovuta alla brezza.Raggiunto l’obbiettivo senza essere individuato dalle as-

sonnate sentinelle Ferraro si immerse sotto la fiancata del-la nave sino a raggiungere l’aletta antirollio. Qui fissò ilprimo ordigno con la grande perizia che gli derivava dalunghi e collaudati allenamenti, tolse lo spillo di sicurezza

Luigi Ferraro durante una esercitazione

Ordigno esplosivo subacqueo denominato “bauletto”

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e, passando sotto la chiglia, raggiunse l’aletta antirolliosull’altro lato del bastimento. Rifece le stesse operazionifatte qualche minuto prima e poi,nuotando sott’acqua, si allontanò perriemergere silenziosa- mente un cen-tinaio di metri più in là.La luce accesa di due finestre del con-

solato lo guidarono verso il punto diapprodo che raggiunse verso le tre delmattino. Aiutato da “D56” raggiunse lacabina, si cambiò rapidamente, nasco-sero l’attrezzatura, attraversa- rono lastrada e raggiunsero il consolato.Quando ebbero richiuso dietro di lo-

ro il pesante cancello dall’ombra si ma-terializzò l’ombra di un uomo, costuisi fermò di fronte al consolato e, dopoaver acceso una sigaretta, riprese ilsuo cammino svanendo nell’ombra co-sì come era comparso. Era il capitanodei carabinieri Vespa che durante leoperazioni di sabotaggio, abilmentecelato, aveva “coperto” le spalle ai dueagenti segreti.Qualche giorno dopo, ultimate le

operazioni di carico, la Orion prese illargo, ma non raggiunse mai la desti-nazione. Infatti quando poche ore dopo raggiunta la veloci-tà di 5 miglia orarie2 gli ordigni esplosero e la nave affondòin pochi minuti. I naufraghi recuperati da un caccia inglesee ricondotti ad Alessandretta raccontarono di essere stati si-lurati da un sommergibile.Una quindicina di giorni dopo l’agente “D56” ebbe noti-

zia che nel vicino porto di Marsin era attraccato l’incrocia-

tore ausiliario3 inglese “Kaituna” da 12.000 tonnellate e neparlò con Ferraro. I due convennero che valeva la pena ten-

tare e così, con la scusa di incontrare ilbarone Aloisi, console di Mersin, rag-giunsero Abana in treno e successiva-mente Mersin in automobile precedutida un corriere diplomatico a cui erastato affidato il compito di trasportarel’attrezzatura subacquea e due dei ri-manenti sei ordigni esplosivi.L’operazione ebbe successo. Quando

il “Kaituna” raggiunse il mare aperto,avvenne l’esplosione, ma la nave nonaffondò subito e il comandante riuscìa portarla in secca lungo le coste dellaSiria. Gli inglesi, con l’ausilio di alcunirimorchiatori, riuscirono a recuperarel’incrociatore e a portarlo in bacino. Fuqui che si accorsero che l’esplosionenon era stata causata da un siluro o dauna mina ma da un sommozzatore inquanto una delle due bombe non eraesplosa e fu ritrovata laddove Ferrarol’aveva collocata. Il “Kaituma” rimasecomunque inutilizzato a causa dei gra-vi danni riportati all’apparato motore.Il 30 luglio, ignaro di quanto gli in-

glesi avevano scoperto, Ferraro portò a termine una terzamissione di sabotaggio. Questa volta il bersaglio fu la naveinglese da carico “Sicilian Prince” all’ancora 4.500 mt. dalpunto di immersione. Nonostante fosse provato dall’enor-me distanza il provetto sommozzatore collocò due ordigniesplosivi così come aveva fatto con l’Orion, ma le autoritàportuali turche, messe in allerta dagli inglesi per quanto era

20 Il filo di Aracne gennaio/marzo 2019

Percorsi 1^ e 4^ azione d’attacco

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avvenuto al “Kaituma”, prima dellapartenza fecero ispezionare la carenae i due ordigni vennero trovati e di-sinnescati da palombari specializzati.Al Ferraro rimaneva ormai solo una

coppia di bombe. La notte del 2 ago-sto ad essere minata fu la nave norve-gese “Fernplant” da 7.000 tonnellate.Due giorni dopo la nave partì per lasua destinazione, ma dopo qualcheora di navigazione invertì la rotta etornò ad Alessandretta. Vedendolatornare i nostri agenti calcolarono chela sua velocità era superiore alle 5 mi-glia orarie e si aspettavano che la na-ve sarebbe saltata in aria da unmomento all’altro. Così non avvenne.La “Fernplant” ripartì nel tardo pome-riggio del 6 agosto per saltare in ariain mare aperto di fronte alle coste si-riane.A quel punto per Ferraro, rimasto

ormai disarmato, giunse l’ora di rien-trare in Italia. Ma come fare a non de-stare sospetti? L’agente “D56” fornì alnostro sub una pastiglia consigliandogli di prenderla conun po’ di acqua. La pastiglia gli procurò i sintomi della ma-laria e il medico turco che lo visitò gli consigliò di cambia-re aria e di rientrare immediatamente in Italia. Gli agentidel consolato inglese che si servivano del medico come spiafurono immediatamente informati sul cattivo stato di salu-te del “bamboccione” e non sospettarono nulla sul suo imme-diato rientro in Patria. Al termine del conflitto, smessi i panni militari, Ferraro

rimase nel campo della subacquea e sioccupò del recupero di navi affonda-te, collaborò con la Cressi Sub come di-rettore generale realizzando lamaschera Pinocchio e le pinne Rondine,fondò la prima scuola sportiva subac-quea presso l’Isola d’Elba e organizzòa Genova la scuola per sommozzatoriprofessionisti dei Vigili del Fuoco, Ca-rabinieri e Guardia di Finanza.Nel 1951 Luigi Ferraro, l’affondatore

solitario, fu decorato con medagliad’oro al valor militare e il suo “record”,tre navi affondate da un solo uomo,non è stato mai battuto. •

NOTE:1. Il Gruppo Gamma era un gruppo speciale dinuotatori d’assalto, provenienti della RegiaMarina italiana, dal Regio Esercito e dallaMVSN addestrato in gran segreto presso Vari-gnano (La Spezia), che si rese protagonista divari attacchi, molti dei quali riusciti, alle forzenavali alleate durante la seconda guerra mon-diale. I pochi uomini che ne fecero parte com-pirono missioni ad alto rischio, conseguendo

successi tali da modificare persino l’assetto strategico navale del Medi-terraneo.2.Gli ordigni in dotazione a Ferraro erano tarati in modo che esplodesse-ro quando la nave raggiungeva la velocità di 5 miglia orarie.3. Il Kaituma era una nave civile da carico armata contraddistinta dalla si-gla internazionale AMC, Armed Merchant Cruiser, letteralmente incrocia-tore armato mercantile. Il termine si riferisce specificatamente agliincrociatori ausiliari della marina inglese durante la seconda guerra mon-diale. Il loro impiego era prevalentemente di scorta ai convogli, posami-ne e interdizione dei commerci via mare e agivano in pratica come navicorsare.

L’autore dell’articolo in assetto “Gamma”

Salvatore Chiffi

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Ad limina: sulla soglia. Quest’espressione è dell’usoecclesiastico (riferita per intero è ad limina apostolo-rum, sulla soglia degli apostoli) e si dice del ponte-

fice che convoca ad limina i vescovi e gli altri dignitari dellachiesa. Si tratta della visita alla città santa, resa obbligato-ria da Sisto V per tutti i vescovi, ogni cinque anni; essi de-vono presentare alla sacra congregazione concistoriale unarelazione scritta sullo stato della diocesi. Nell’uso comunela frase si presta ad essere riferita a cose più varie: un im-piegato ad limina del pensionamento.Alteri saeculo: per un’altra generazione. Questa espressio-

ne si trova in un frammento del poeta comico Cecilio Sta-zio: serit arbores quae alteri saeculo prosint, pianta alberi dicui un’altra generazione godrà i frutti. Si dice di ogni ope-ra della quale non gli autori vedranno ed utilizzeranno irisultati, ma le generazioni future.Audiatur et altera pars: si dia ascolto anche all’altra par-

te. L’espressione ètuttora particolar-mente famosa: insenso proprio, indi-ca che in un proces-so non si deveesprimere la senten-za prima di aversentito con attenzio-ne e vagliato bene leragioni di entrambele parti, e parimenti,nel linguaggio comune, è usata a proposito di ogni dispu-ta e discussione. La formulazione è medievale, ma il prin-cipio giuridico era già diffuso nell’antichità: nel Digesto (48,17, 1) si stabilisce che non è equo condannare senza aversentito le ragioni e gli oratori attici (Demostene, Per la co-rona, 2, 6, Contro Timocrates, 151, Isocrate, Antidosis 21) rife-riscono di un giuramento del giudice, in cui si promette diascoltare sia l’accusatore sia l’accusato. Anche nelle lettera-ture classiche, però, il motivo non è presente solo in con-testi tecnici, ma può ricorrere con una valenza di tipoproverbiale: particolarmente importante è un luogo dellaMedea di Seneca (vv 199): Qui statuit aliquid parte inaudita al-tera aequum licet statuerit, haud aequus fuit: “chi ha decisoqualcosa senza aver ascoltato entrambe le parti, anche seha preso la decisione giusta, non si è comportato in modogiusto”. Audiatur et altera pars si ritrova poi in epoca medie-

vale e moderna in giuramenti, in iscrizioni in sede di giu-stizia, in autori (come per es. in Pascal, Pensieri). E vannosegnalati vari proverbi nelle moderne lingue europee: ades. i nostri ‘Non giudicar per legge né per corte se non ascoltil’una e l’altra parte’ e anche ‘A sentire una campana sola si giu-dica male’.Alias: bisogna sottintendere vices; e alias vices, altre vol-

te, in altre circostanze. Nell’uso odierno, significa “con al-tro nome”, cioè quello anagrafico, diverso dallo pseu-donimo o dal soprannome col quale sono diventati famo-si molti personaggi della storia, dell’arte, della cultura, del-lo spettacolo. Ricordiamo: Sofia Loren, alias Scicolone,Alberto Moravia aliasAlberto Pincherle, il Beato Angelicoalias fra Giovanni da Fiesole, Italo Svevo aliasAron HectorSchmitz, Marylin Monroe alias Norma Jean Mortenson,Curzio Malaparte alias Kurt Erich Suckert, Trilussa aliasCarlo Alberto Salustri (anagrammato in Trilussa, etc, etc,

etc, e il nostro poetadialettale Cino dePortaluce alias Fede-le Salacino. A d d e n d u m :

“Egregio signore,facendo seguito aivostri accordi verba-li, ci pregiamo in-viarle, a modificadel contratto in vi-gore, due copie del-

l’addendum, che stabilisce le nuove quote di partecipazioneagli utili della nostra società. In attesa di ricevere una co-pia da lei controfirmata, porgiamo cordiali saluti”.Questo è l’addendum, cosa da aggiungere, gerundio del

verbo addere, aggiungere. In matematica, quando si fa unasomma, o addizione, si chiamano addendi i numeri messiin colonna. Come addendum nasce ‘audiendum’, nasce ‘me-morandum’, cosa da ricordare.Nei rapporti internazionali, il memorandum è la nota di-

plomatica in cui un governo espone ad un altro il suo pun-to di vista, su una determinata questione. Talvolta significaaccordo tra più Stati, per la soluzione di un problema dicomune interesse. Per esempio, con il Memorandum d’inte-sa firmato a Londra il 5 ottobre 1954, nel Territorio Liberodi Trieste cessò l’occupazione militare degli angloamerica-ni nella zona A, che passò all’amministrazione civile italia-

22 Il filo di Aracne gennaio/marzo 2019

IN NOVO VETUS

Roma - Fori Romani e Palatino

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na. La zona B restò alla Jugoslavia.Grosso modo: in modo grossolano, approssimativamente.

Con tale locuzione avverbiale si vuole indicare che una co-sa è detta senza troppa cura di particolari, nelle sue lineeessenziali e con una certa schematicità. È usato anche peresprimere approssimazione ad una quantità, ad una idea,ecc.: gli invitati saranno grosso modo una cinquantina; mihanno riferito quanto grosso modo sapevo.Viceversa: più esattamente la forma latina è versa vice,

ablativo assoluto, propriamente, “mutata la vicenda, muta-to l’ordine”. In direzione contraria: es. l’autobus fa serviziodal centro alla periferia e viceversa; percorso Lecce-Roma eviceversa.De visu: per diretta visione. Constatare de visu: verificare

con i propri occhi, non fidarsi degli altri. Come fece l’apo-stolo Tommaso che, informato della resurrezione di Cri-sto, disse ai compagni: “Se non vedo sulle sue mani il foro deichiodi, e nel foro dei chiodi non metto il dito, e non metto la ma-no nel suo fianco, non credo”.De cuius: di cui… L’espressione, di chiara origine medie-

vale, indicava propriamente il defunto che era proprietariodel patrimonio ereditario (si tratta dell’abbreviazione di Isde cuius hereditate agitur). È ancora ampiamente usata, talo-ra anche come sostantivo (il de cuius), talora con la valen-za banalizzata della persona di cui si parla.More uxorio: come in matrimonio. Questa locuzione è tut-

tora comunemente usata a proposito di due persone che,pur non essendo sposate, convivono nella stessa condizio-ne di fatto che sarebbe conseguente al matrimonio. Questasituazione viene definita: dalla Chiesa, concubinato; dalgiurista, more uxorio; dal rotocalco rosa, affettuosa amici-zia.Ius gentium: il diritto delle genti. Si tratta dell’insieme del-

le norme che regolavano la vita delle popolazioni assog-

gettate dai Romani e considerate barbare, quindi menoprotette dalle leggi. Il trattamento di questi popoli preve-deva il pagamento dei tributi (mentre i cittadini romanierano esonerati dalle tasse), l’obbligo di fornire contingen-ti militari, la possibilità di pena di morte (esclusa per i Ro-mani) e di tortura. A un livello superiore stavano i popoliche godevano del “diritto latino” (ius Latinorum), conside-rati alleati e non sudditi (per lo meno in età repubblicanae nell’alto Impero). In età moderna l’espressione ius gen-tium è passata a indicare il diritto internazionale, più pre-cisamente, una sorta di summa dei diritti minimi di tutti ipopoli. De iure: di diritto. Locuzione particolarmente usata, nel

linguaggio comune, a proposito di ciò che si ha a buon di-ritto. Propriamente, in ambito giuridico, significa “in con-formità all’ordinamento giuridico” o “secondo legge”, incontrapposizione a de facto, che invece corrisponde al no-stro “di fatto”. Nel diritto internazionale il riconoscimen-to de iure di un governo è quello completo e senza riserve,che porta all’apertura delle relazioni ufficiali con lo stato aspese del quale si è formato il nuovo, se esso continua amantenere pretesa di sovranità sugli stessi territori. In la-tino classico era comunemente usato iure, mentre de iure èattestato nel Codice di Giustiniano.In utroque iure: in entrambi i diritti. L’espressione – come

pure la variante In iure utroque – è tratta dalla formula concui sino al secolo scorso si conferiva la laurea sia in dirittocivile sia in quello canonico; scherzosamente, ora la si usaper prendere in giro un dottore in legge (lo si chiama Dot-tore in utroque). Gode di una certa fama una sua ripresa inuna poesia di Giuseppe Giusti (Gingillino, I, 37), che cosìmette alla berlina l’avvocato novellino: Tibi quoque, tibi quo-que / è concessa facoltà / di potere in iure utroque / gingillarl’umanità. •

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Cari amici Lettori, questa puntata è un po’ sui generis:è come prendersi una mezza giornata di vacanza,stare per un po’ pensierosi e riflessivi, quasi assor-

ti. Forse per divagare. O per riordinare, in vostra compa-gnia, qualche aggrovigliato intrico di pensieri. Cercandoinfine di esprimere e riscoprire alcune piccole gioie dellavita. Andando di buon passo altrove. Senza nulla sentire senon il tempo che s’accompagna ai nostri aerei passi, la-sciando infine tracce speciali di sentimenti e desideri. Hobisogno di voi. E del mistero. Della scoperta, della cono-scenza, del sapere. Del condividere sentimenti e pensieri.Dell’essere… A chi, più che a un semplice uomo curioso, èdato di avere tali doni dalla vita? Vi auguro una gradevole lettura. Entrate nelle pagine di un libro... Con un po’ d’allena-

mento possono farlo tutti: mamme, papà, nonni, zie, zii,cugini di primo e secondo grado, perfino qualche vicinodi casa curioso e intrufolone, e più di tutti i bambini. I piùpiccoli sono avvantaggiati. Ovviamente. Proprio perchésono piccoli, e riescono a ciondolare meglio fra una riga el’altra di carta stampata, come già, di fatto, immagino chealcuni stiano già facendo. Li vedo, li vedete anche voi: so-no in grado di saltare a piè pari i punti, le virgole, perfinole parentesi, e i punti esclamativi (dei quali s’è persa qua-si la memoria). Sì, sono quelle asticciole longilinee e sotti-li con un punto alla base: proprio come questo qui. Anzi,no...: questo! Per esprimere sorpresa e meraviglia!!!Per i punti interrogativi ci vuole un po’ più di abilità, so-

no curvi e curiosi (...li vedete???). Non si può superarli eandare avanti: essi sono capaci di interrogarti per ore sul

perché e sul percome siete entrati di soppiatto anche voinelle righe, per esempio. Che è una cosa vietata. Per entra-re fin dentro le pagine dei libri, infatti, ci sono regole pre-cise e rigorose: intanto, bisogna avere il piacere e lacuriosità di entrarci; in più il ‘permesso’ con tanto di atte-stato personale, dev’essere rilasciato mediante un sorrisonon artefatto di compiacimento e di curiosità; e poi, alla fi-ne, bisogna saper leggere, perché sennò si finisce solo conil guardare le figure, e se il libro non ha figure, che figuraci fate?Giochiamo, naturalmente. Il senso del gioco insieme al-

la lettura, alla curiositàe alla fantasia sonoformidabili leve allaconoscenza e al sape-re. E i libri - i buoni li-bri - sono, per queste ealtre mille ragioni, lamusica del pensiero, ela nostra ricchezza in-finita. Cominciamo, peruna volta, da quellache potremmo consi-derare una ‘leggendametropolitana’, secon-do la quale s’intende-rebbe omologare isoprannomi (fantasiosaquanto acuta costu-manza popolaresca, lecui origini socio-antro-pologiche sconfinanonell’alba della Storia)alla stregua di volgarie offensive ngiùrie (co-me spesso e impro-priamente le chiamia-mo), trattandosi piut-tosto di un repertoriodi nomignoli da burla, senza intenzio-ni offensive, e sempre o quasi, canzo-natori e scherzosi, oltre che perfet-tamente identificativi. Sicché, adottando tale confidenziale ‘chiave di lettura’, e

con una certa qual complicità di sorrisi e simpatia, mi vie-ne spontaneo l’approccio ad alcuni dei più tipici e umori-stici soprannomi riservati ai “paesani” dei 146 Comuni delSalento (97 nella provincia di Lecce, 20 in quella di Brindi-si e 29 nel Tarantino, se ho fatto bene i conti), rinnovandouna mia personale quanto passionale consuetudine nel ri-percorrere ‘sentieri letterari’ di tal genere, che celano spes-so – fra le righe – richiami di storie fantastiche, dirievocazioni leggendarie, di misteriose comparazioni, dicammini fuori e oltre il Tempo... Pur se, talora, oltrepassa-no il ‘campanilismo’ e rasentano l’insolenza e lo sberleffo.Rivalità e ambizioni intra et extra moenia, quindi, che par-

tono da tempi remoti e leggendari, marcati spesso da fila-strocche irriverenti e feroci. Nella Grecìa si può ancoraascoltare questa sorta di ‘antologia’: «Sciamu mmera mme-ra / edimu li Puerci de Calimera; / sciamu luntanu luntanu /edimu li Ciucci de Martignanu; / sciamu tundu tundu / edimuli Jazzi (Caproni) / de Melendugnu; / sciamu chianu chianu /edimu li Pacci de Martanu». Di Squinzano si dice: «Schinza-nu cuti cuti, randi e piccinni, tutti curnuti». Tra Acquarica ePresicce non è mai corso buon sangue: «All’Acquarica lespurtedde, a Presicce le puttaneddhe». Ancora sulle donne:«Ninanu, ninanu, beddhe fìmmene nc’è a Carmianu; li còcule tiEie; li ncuazzate te Lijranu». Per Lecce, poi, è stato financhescomodato il latino, con questi ironici versi: «Hic aquaenon currunt, arbores non crescunt, feminae non erubescunt(Qui non scorrono le acque, non crescono gli alberi, e le donne

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USANZE E COSTUMI SALENTINI

Quando muoiono le leggende �niscono i sogni.Quando �niscono i sogni, �nisce ogni grandezza.

Misteri, prod nell’antica Te

Quinta

di Antonio Me

I libri costituiscono una diga contro l’ignoranza

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non arrossiscono)». In quest’altra - che è

un po’ la summa deisoprannomi di moltipaesi salentini, e chequi riporto solo par-zialmente - viene inve-ce glorificato uno deimigliori prodotti dellanostra terra, il vino:“All’Acquàrica le fim-mene beddhe, a Burga-gne li spustati, a Melen-dugnu su’ puerci bin-chiati, a Serranu li grop-pa te mulu, scutursatisuntu a Bagnulu, a Mel-pignanu le sciusciared-dhe, a Ruffanu li man-gia-friseddhe, a Cerfi-gnanu li zappa-tarrienu,a Galatina lu mieru bue-nu…”.I soprannomi, in-somma, fanno partedella storia e della leg-genda del genereumano. In tutti i tem-pi e in tutti i paesi. A

scuola non abbiamo forse studiato leavventure e le imprese di Federico“Barbarossa”, Guglielmo “il Malo”, Lo-

renzo “il Magnifico”, Pipino “il Breve” o Giovanna “la Paz-za”? Inevitabile, poi, che - come accade nel sistemaanagrafico vernacolare (peraltro orale e quasi mai docu-mentato nell’uso scritto) - l’utilizzo del ‘soprannome di fa-miglia’ permette di individuare con precisione ognipersona, all’interno della comunità, senza lasciare spazio aequivoci e omonimie. Un esempio personale quanto illuminante, alla stregua

di un vero aneddoto, è quanto racconto a seguire. Il miocognome Mele (voce dialettale di Miele, e non plurale diMela) è alquanto diffuso nel Salento (come nel Napoletanoe in Sardegna). Conosco, peraltro, un buon numero di per-sone col nome di Luigi Mele, fra cui un vecchio compagnodi giochi e, fino agli anni Settanta, vicino di casa a Galati-na. A distanza di qualche decennio, mi sono sentito salu-tare per telefono (a Roma, dove ormai risiedo da tempo),da un Luigi Mele, il quale, spontaneamente, e a scanso diequivoci, si è presentato anche come “lu Cici ‘Mbrìcate”(suo vecchio soprannome) illuminando così, in modo ine-quivocabile, la propria persona e identità.In conclusione: nessun altro Luigi Mele, ovunque sia, po-

trà mai essere confuso con il Luigi Mele-Cici Mbrìcate. E lostesso dicasi - per onorarne tanto il ricordo quanto l’affet-to e la compagnia dei tempi passati (ma tuttora presentinell’animo) - de lu Toniu Saresci, ad esempio. O dell’An-giulinu Macacu, de lu Tommasu Picachi, de lu Teta, lu Tatai,lu “Cipuddha”, o lu Toniu Nove... Il Salento ha luoghi di fascinoso mistero. Tanto che, in

questa Terra Meravigliosa, le leggende è come se ci abitas-

sero. Non c’è paese, contrada, campagna, bosco, masseria,torre, marina, che non custodisca l’irresistibile fascino delmistero o della magia. C’è sempre, ovunque, una leggen-da da raccogliere e raccontare.Leuca e dintorni. E più precisamente Castro. L’erede del-

l’antichissima e mitica Castrum Minervae. Questo piccoloma strategico sito è stato anche Contea e Sede vescovile.Ed è, per di più, un luogo di mare di bellezza incompara-bile. È qui che si può ammirare la splendida e misteriosaGrotta Zinzulusa. Anch’essa sede di fenomeni naturali (efors’anche innaturali), che lasciano spesso stupefatti. Ed èqui, proprio qui - con i più recenti scavi archeologici, e ivari reperti affiorati, dimostrativi di un quadro sempre piùampio di conoscenza, a conferma di quanto già scrivevapiù di duemila anni fa il poeta Virgilio nell’Eneide - che lastessa Storia, ben oltre la Leggenda, certifica che approdòEnea, dopo la guerra di Troia, nel suo lungo viaggio versol’Italia. Un luogo magico come Castro, in definitiva, non può che

riverberare altri innumerevoli miti, racconti, saghe, epo-pee, vicende epiche e leggendarie. Talora perfino tenebro-se. Come quella della Grotta delle Striare. Ovvero: laGrotta delle Streghe. Che – curiosando – troverete agevol-mente sulla costa verso nord-est a metà strada con SantaCesarea Terme. Chi si dovesse fermare, dovrà però stareattento a due fenomeni, che potrebbero accadere all’im-provviso, e che sarebbero (come sono) gli inequivocabilisegnali che le Striare vi stanno spiando, dall’alto delle lo-ro silenziosissime scope volanti, aspettando il momentoopportuno per... regalarvi qualche infido scherzetto.Il primo segnale è un improvviso vento forte, e quasi sibi-lante come un lamento, che dura poco, ma che si fa inten-samente sentire, e provoca quasi sempre - a detta di varitestimoni coi capelli dritti - un lungo brivido, dissolven-

dosi poi gradualmente. Subito dopo, però, il venticello la-scia il posto a un calore molto deciso, diffuso e persistente,che richiama proprio quello delle acque sulfuree della nonlontana Santa Cesarea Terme.Senza alcuna intenzione di irretire né allarmare le gentiliLettrici e i cari Lettori, è infine d’obbligo consigliarli a nonfarsi trovare in loco nelle notti di luna piena, specialmen-te in autunno. Perché negli ultimi ‘voli’ di stagione, le Stria-re potrebbero portarvi via con loro, e rilasciarvi, se tuttova bene, nel primo giorno della primavera successiva. Auguri!

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eggende �niscono i sogni.Q � gni, �nisce ogni grandezza.

igi e fantasie erra d’Otranto

puntata

ele ‘Melanton’

Tonio Mele offre un calice di vino ad Angelo e a Cici

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I giorni ed i versi. Poesie (2017), con il patrocinio del-la Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione delBasso Salento, è la terza raccolta poetica di Franco

Melissano. L’autore, apprezzato avvocato, vive ed opera aCorigliano d’Otranto ed è un appassionato cultore di me-morie antiche. Dotato di una solida formazione umanistica,riesce a spaziare fra la storia e la letteratura, come dimostrala sua collaborazione con la rivista miscellanea “Note distoria e Cultura Salentina”. La prima raccolta di poesie, “A ccore ‘pertu (2012-2013).

Poesie”, del 2013, costituiscel’esordio letterario di Melissano.Un esordio fortunato, dal momen-to che il libro si presenta, oltre checon una elegante copertina, operadi Gigi Specchia, anche imprezio-sito da una dotta Prefazione di Pi-no Mariano e da una prestigiosaPostfazione di Giuseppe OrlandoD’Urso. Questa opera è divisa inquattro sezioni, ciascuna recanteun’epigrafe che apre i canti: la pri-ma sezione, Corianu e llu Salentu,con un’epigrafe di Pino Mariano;la seconda, che dà il titolo al libro,con un’epi- grafe di Giuseppe Un-garetti; la terza, intitolata Risu ma-ru, come il famoso film di DeSantis con Silvana Mangano, conun’epigrafe di Jean de Santeuil, ov-vero Castigat ridendo mores; laquarta sezione, Finca ca libertàcerca lu core, con un’epigrafe di Pablo Neruda, tratta da“Confesso che ho vissuto”. Della silloge, forse per conso-nanza d’intenti, mi colpì molto la terza sezione, quella de-dicata alla satira, nella quale Melissano traccia da par suouna galleria di tipi umani, prendendo spunto dall’ordina-rio vissuto della sua comunità di appartenenza. Ma i varipersonaggi messi alla berlina, come Lu leccaculi, Lu tir-chiu, Lu ciucciu sapiente, Lu cane de chiazza, in realtà rap-presentano altrettante maschere della commedia umana,sono personaggi fortemente connotati, che diventano per-ciò stesso universali. Forse è per questo amore per la risa-ta intelligente, ho pensato, che Franco Melissano apprezzòil mio libro “L’osceno del villaggio”, che pure aveva a temala satira (“in un mondo in cui l’ironia non può più nulla”,citando lo sfortunato poeta Stefano Coppola), scrivendone

una bella recensione, che è fra le più complete che io abbiaricevuto per quel libro. La lingua dialettale dunque è pro-tagonista in questo libro in cui tratta vari argomenti, af-fronta, in versi, le più disparate tematiche, da quella socialea quella amorosa, da quella famigliare a quella locale cori-glianese, e lo fa con una duttilità ed una ricchezza diespressioni, tono e accenti, davvero sorprendenti. La seconda raccolta di poesie è “Carasciule te stelle. Poe-sie in dialetto”, del 2014, ulteriore testimonianza della ver-satilità della musa di Melissano, che proprio con la lirica

La Musa apre l’antologia. Nel libro,arricchito da una pregnante Prefa-zione di Lina Leone, prevale unasensazione di nostalgia per i tempipassati ed uno scoramento, unablanda mestizia per i tempi presen-ti; in generale, la consapevolezza deldolcea- maro della vita mista con unsentimento di ineluttabilità del de-stino. L’autore sembra farsi laudatortemporis acti quando contrappone al-la felicità dei tempi passati, lo squal-lore del presente, il miserabileteatrino politico e il disagio che per-vade la nostra società. Non da me-no, compare nella poesia diMelissano un sentimento religioso,che è portante nella sua formazione.Anche questa raccolta è divisa in se-zioni: Fiche e amedde, la prima,Stozzi te pane nvelenatu, la secon-da, Sonu te campane, la terza. L’uti-

lizzo del dialetto è sapiente, ma soprattutto naturale, daparte dell’autore, sgorga dall’intimo, è lingua dell’uso, perlui, non artificiosa operazione artistica se non, peggio, cap-tatio benevolentiae del vasto pubblico. E si giunge così a “I giorni ed i versi” che è in lingua ita-

liana e conferma, se non la “plurivocità”, per dirla conHusserl, certamente la multiformità della sua produzione.L’opera mi ha colpito molto più delle prece- denti. Conquesta raccolta l’autore sembra esser giunto alla maturitàartistica. Melissano utilizza una lingua ricca, varia, alta, mala padronanza dei mezzi es- pressivi, quella che si chiamala perizia, fornisce solamente il basamento alla sua poesia,voglio dire, la tecnica puntella l’ispirazione melica, ne sor-regge il ritmo, l’intonazione, ma la materia viva che com-pagina il libro è offerta dal suo sentimento, declinato nelle

POETI SALENTINI

Franco Melissano

“I giorni ed i versi”di Franco Melissano

di Paolo Vincenti

“I giorni ed i versi”di Franco Melissano

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molteplici forme che assume l’amore, eda un’ispirazione che non conosce cedi-menti dal primo all’ultimo verso diquesto pregevole canzoniere. La silloge,con una ispirata Prefazione di GiulianaCoppola, è divisa in due sezioni. La pri-ma è “Canto di sirena. Venti poesied’amore”, la seconda, che dà il titolo allibro, è “I giorni ed i versi”.Nella prima sezione, si avverte forte

l’influenza di Pablo Neruda de “I 20poemas de amor y una canciòn desespera-da”, specie per la forte sensualità chepervade questi versi, ma soprattutto dei“Cien sonetos de amor”, sia pure senzaquella struggente nostalgia, la latenteamarezza dell’inappagato, che intride iversi del grande poeta cileno, anchequando il paesaggio nel quale è calato il suo amore sia ra-dioso, pacificato, solare. Insistente è il ricorso alle simili-tudini, da parte di Melissano, con un vago richiamo alcrepuscolare, luttuoso, alla Bodini o alla Gatto per inten-derci, anche nelle poesie in cui maggiormente esulta l’eros,e questo è chiaramente un debito nei confronti dei classi-ci, per quella concezione dell’ineluttabilità del tempo, deldisfacimento di tutte le cose, che si ritrova nella lirica gre-ca delle origini. Così l’incanto del sentimento, il fascinodella donna amata, diventano rifugio dalla amara presa dicoscienza della realtà, argine al senso della fine che inseguedappresso. La seconda sezione, che si apre con un’invoca-zione all’amata poesia, si può considerare un compendiodi tutte le letture che hanno influenzato l’autore, a partiredai classici greci e latini, in primis Omero e Virgilio, - co-me non cogliere in alcune liriche l’influsso dell’elegia lati-na, di Catullo, di Properzio, di Ovidio -, passando perl’Ottocento, Foscolo su tutti, per arrivare ai poeti del No-vecento, come Ungaretti, Montale, Rebora, Quasimodo; in-somma, Melissano riversa in questa raccolta tutta lapropria eredità letteraria e lo fa con estrema naturalezza,senza il menomo sospetto di erudizione o di pedanteria.Non v’è ombra di artificiosa costruzione o di ridondanza.Del resto, come scrive Evtusenko di Boris Pasternak, “lavera grandezza non sta nell’ereditare, quanto nel condivi-dere con tutti. Altrimenti anche la persona di più vasta cul-tura si trasforma in un balzachiano Gobsek, nascondendoagli altri il tesoro del proprio sapere”. Melissano è figlio della sua cultura occidentale, il suo

percorso di studi, dal Liceo classico frequentato al glorio-so Capece di Maglie fino a Giurisprudenza studiata a Ro-ma, è lì a dimostrarcelo. Tuttavia ci sono due modi diamare la tradizione: uno è quello di rinnegarla, ribellan-dosene attraverso le più ardite sperimentazioni, l’altro èquello di conservarla, riproporla, attraverso un classicismoriecheggiato che ne fa omaggio. E se forse è più vero clas-sicismo il primo, non è del tutto indegno il secondo. Anzi,queste poesie stimolano il lettore di medio alta cultura acercare le innumeri tracce disseminate da Melissano, lad-dove, se non si trova di vero e proprio citazionismo, vi ètuttavia una ripresa dei grandi autori che fanno da riferi-mento. Una poesia allora come memoria, fatta di rimandi,di continui omaggi ai modelli che però vengono coinvolti

nel suo canto monodico, compartecipa-no, come stella polare, ovvero misura diconfronto costante, bussola di riferimen-to al suo navigare nel liquido lirico am-niotico della poesia invocata evocatainvocante evocante. La tendenza non èquella barocca, tortile, all’accumulo, maquella moderna all’essen- zialità; è ap-prezzabile l’asciuttezza, il lavoro di ce-sello fatto su questi versi nei quali ilritmo alimenta il canto e le immanenzeiconiche, archetipiche, quelle che si po-trebbero definire le risultanti della gesta-zione mitopoietica, sussumono un sensoalto attribuito alla poesia dal suo autore,salvifico, quasi palingenetico. Il portatosemiologico della silloge si compagina diimmagini tonde, metafore, allitterazioni,

assonanze e consonanze, che forniscono il contesto retori-co figurale nel quale si muovono le sue creazioni fantasti-che. E non solo la vita ed il sociale, la politica, le cronachedi tutti i giorni, diventano materia di scrittura, ma pure laletteratura stessa, e insomma tutte le articolazioni di unmondo in cui fra autore e lettore si è creato un incolmabi-le divario, oggi come oggi. Rimane il gusto agrodolce diuna raccolta che fa dell’eleganza, della misura e della com-postezza i fiori maturi da porre sull’avello della poesia. •

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Durante la seconda guerra mondiale, numerosi pro-fughi di diverse nazionalità o religioni, per sfuggi-re ai bombardamenti e persecuzioni, abbandona-

rono la propria patria per recarsi, tra mille disavventure, inpaesi in cui la furia bellica era meno avvertita o addirittu-ra assente. Si trattava di gente che aveva perso quasi tutto,di famiglie distrutte e al limite della sopravvivenza.Dopo l’invasione anglo-americana del 1943, Nardò e le

sue frazioni marittime ospitarono enormi masse di sfolla-ti, che furono sistemate dalle truppe di occupazione an-glo-americane in diversi luoghi, come ai Massarei, alleCenate Vecchie e Nuove, a Mondonuovo, a Santa Mariaal Bagno e a Santa Caterina. Si trattava prevalentemente di ebrei di varie nazionalità,

come iugoslavi, serbi, rume-ni, polacchi, greci, ecc., sfug-giti alla deportazione neicampi di sterminio. Le auto-rità di occupazione sistema-vano queste poveri genti indimore requisite in città, maanche in campagna o al ma-re. Ai primi profughi, quellipiù fortunati, furono asse-gnati palazzi di città o dellevarie marine. Questa situa-zione si protrasse per un pa-io di anni, a partire dalsettembre 1943 sino alla finedella guerra, allorquando,stipulati i vari armistizi, gli sfollati poterono tornare neiluoghi di origine oppure in Palestina, dove fu fondato lostato d’Israele. Molti, al rientro nella loro città, trovaronola casa distrutta e depredata di ogni bene; pochi, invece,poterono vantarsi di averla trovata con poche ferite e lamobilia quasi intatta.Durante il periodo di accoglienza, gli sfollati furono as-

sistiti da soldati inglesi, molti dei quali di colore. Ovunquevi erano servizi comuni di vettovagliamento, di sussisten-za e assistenza sanitaria, grazie all’installazione di cucineed ospedaletti da campo, carri-botte per la distribuzionedi acqua potabile, camion per il trasporto di pane, indu-menti e quanto necessario per consentire almeno il neces-sario sostegno. Ogni giorno, soprattutto durante l’ora di

pranzo e di cena, le polverose strade e stradine del territo-rio di Nardò erano frequentate da un viavai continuo dimezzi motorizzati, tutti sotto scorta per respingere even-tuali attacchi a sorpresa di irriducibili fascisti. Da Nardòverso la sua marina era tutto un susseguirsi di case, ville evillette situate in piccoli appezzamenti, quasi sempre cir-condate da parchi pieni di verde. Quasi tutte furono requi-site e concesse ai profughi. Anche gli agglomerati urbanidisposti lungo le coste furono sottratti ai proprietari e con-segnati ai profughi.Insomma, con l’arrivo delle truppe di liberazione, do-

vemmo subire il peso delle decisioni del vincitore di eva-cuare diverse case e metterle a disposizione degli stranieriin fuga verso la nostra terra. A noi residenti furono asse-

gnate modeste dimore, avolte senza i necessari servi-zi. Provvedimenti che, dipunto in bianco, ci ridusse-ro ad uno stato miserevole ealla fame più nera. Ci senti-vamo sfollati di ultima serietra sfollati di seria A. Ma lanostra gente seppe soppor-tare stoicamente le durecondizioni di vita ed arran-giarsi alla men peggio. Unacosa è certa che, sin da subi-to, dimostrò ampia solida-rietà ed accoglienza neiconfronti degli stranieri.

Per poter sopravvivere, i salentini furono costretti ad in-ventarsi mille stratagemmi, ma le pene e i disagi erano im-mensi e insopportabili. Si pensi che neppure il contrab-bando fu capace di alleviare le sofferenze dei tanti. Questolosco comportamento fu alimentato in particolare da alcu-ni proprietari terrieri che, in barba all’ammasso obbligato-rio, nascondevano il grano, l’olio, gli insaccati, il vino e leleguminose in anfratti sotterranei o, addirittura, li murava-no in casa, per poi vendere piccole quantità al popolo af-famato a prezzi da strozzinaggio. Mancavamo di tutto etutto quello che il mercato poteva offrire, indumenti e ge-neri di prima necessità, era insufficiente, anche perché ilrazionamento non garantiva neppure il minimo necessa-rio. Tutto era stato razionato con le ‘tessere’ e si doveva far

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C’ERA UNA VOLTA...

Nardò (LE) - Gruppo di Ebrei alle Cenate

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la fila per avere un po’ di zucchero, di carne, olio, sigaret-te, tessuti, ecc. Di pane, ad esempio, spettava ad ogni cit-tadino 150 grammi al giorno. Era la miseria più nera, maquella che più attanagliava era la fame, una fame che cre-sceva maledettamente sempre di più e che non ti abban-donava mai. Bambini e anziani, donne e nonne, insommatutti ci portavamo appresso giorno e notte, una fame sen-za fine, alla quale non si poteva resistere. E tutti noi, a pie-di, come in una lunga processione, andavamo a trovare glisfollati, casa per casa, villa per villa, a chiedere di vender-ci del pane e tutto ciò che si poteva mangiare. Il colmo! An-davamo a chiedere un po’ di pane agli sfollati ed in cambiodavamo sostegno e amore senza fine.Quello che gli ebrei ci regalavano o ci vendevano era il

pane più soffice e profumato del mondo, un pane scacciafame, che mangiavamo prima con gli occhi, per poi adden-tarlo con la bocca. Pezzi di pane grossi come ruote di trai-no, bianco come la neve, soffice come gommapiuma, cheper noi rappresentava la “manna”. E poi scatolette di car-ne, legumi, riso, ecc., coperte per confezionare cappotti estoffe per indumenti e vestiti. Ma dovevamo stare attentiperché, da un momento all’altro, potevano piombare in ca-sa i carabinieri, se non addirittura la Military Police ingle-se, per toglierci quello che avevamo comprato per vivere.Una volta scoperti, restavamo al verde, o meglio al sole,l’eterno sole che non riusciva a scaldare le nostre miserie.In tali condizioni di estremo bisogno, guardavamo con

ammirazione questi stranieri ed avevamo quasi invidia delloro benessere perché, senza comprendere appieno il lorodramma, ritenevamo fosse il toccasana per le nostre di-sgrazie. Certo, erano tempi d’oro per i contrabbandieri di ogni ri-

sma e finanche per quei neritini che si erano posti al servi-zio degli inglesi o degli americani, come uomini di fatica ocome sguatteri, ottenendo in cambio tante provvidenze,come pasta, pane, cioccolata, scatolette di carne, liquori,che distribuivano ai propri parenti, ma anche per vender-

li al mercato nero e farsi un mucchio di soldi. Facevano,insomma, gli americani. E degli americani avevano i vesti-ti, il modo di fare, imitandoli in tutto, anche nel linguaggio.Ed allora li sentivi usare termini come, ”okay, hello, come on,tank you, bye bye, good morning, good night, ecc.”.Con le truppe di liberazione si fraternizzò immediata-

mente. Il neritino, come d’altronde ogni salentino, è tuttocuore, assai fraterno ed amichevole, facile a tessere impor-tanti relazioni umane.

Conclusione Anche con gli sfollati, accomunati nella stessa grande

tragedia della guerra, ci fu quindi fraternizzazione, tant’èche alcuni giovani ebrei ebbero a frequentare per pocotempo le scuole pubbliche della nostra città e a ricevereogni sorta di aiuto e collaborazione.Poi, quando la guerra ebbe termine, essi tornarono nella

loro rispettiva patria. Sono convinto che, così come noi abbiamo serbato un ca-

ro ricordo di loro, altrettanto è avvenuto da parte dei no-stri ospiti. Alla loro partenza molti, da entrambe le parti, silasciarono scivolare sul viso più di una lacrima. Ricordoancora l’abbraccio senza fine fra una giovane neritina edun coetaneo ebreo. Pare, infatti, che tra i due fosse nato ungrande amore, un amore di quelli più struggenti. Lei, infat-ti, continuò a scrivergli appassionanti lettere per oltre dueanni. Poi, purtroppo, la lontananza e il tempo, da sempreottimi smacchiatori, sciolsero e dissolsero ogni strascico di“amorosi sensi”. Ancor oggi c’è gente che corrisponde te-lefonicamente con sfollati residenti in Israele, Polonia eCroazia. Addirittura alcuni ragazzi di quei tempi, oggi sucon gli anni, spinti dal desiderio di riabbracciare gli amicisalentini, sono tornati nel Salento a trascorrere il periodoestivo. Insomma, ciò che la guerra aveva distrutto in ogni sen-

so, l’amore, essenziale medicina dell’anima, pian piano ri-tornò a fortificare i cuori della gente, lacerati dalla folliadei Grandi, grandi a modo di dire. •

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Ci have persu li vovi, cu nnu’ bbascia cchiandu le cor-ne. Chi ha perduto i buoi non vada cercando le cor-na. Sono curiosi alcuni, che, dopo aver dilapidato

tutto, usano o pretendono usare economia, quando si ve-dono al verde. Cosa possono economizzare? Il popolo usain questo proverbio una forma e un linguaggio tagliente,quasi volesse mostrare tutto il suo dispetto contro gli sciu-poni. E poi dica loro: “A furia di scialacquare, avete datofondo alla vostra ricchezza, avete perduto i buoi (nomemolto appropriato per denotare la grandezza di una buo-na fortuna) e ora venite a cercare… che cosa?... le corna!Ma vi è cosa più spregevole dellecorna? Se avete perduto il tutto,avete anche perduto la parte at-taccata al tutto.Fingi e taci ca bbona vita faci.

Zenone ha insegnato: “Sappi chehai due orecchie ed una sola boc-ca, perciò ascolta molto e parlapoco”. Biante di Priene è stato piùconciso: “Ascolta molto e parlapoco”. Sia l’uno che l’altro mani-festano il più grande segreto del-la prudenza. Ma se, per voler faredel bene, sappiamo che ce ne puòvenir del male, poiché i nostriamorevoli consigli son presi inmale parte dai maligni, il migliorpartito a cui appigliarsi è il silen-zio. Si finge di non aver veduto,né inteso e si taccia: nessuno sipentirà di aver taciuto: così anzinon prova disgusto chi non vuo-le essere disturbato nel male; silascia libero il corso all’asino chefugge verso il precipizio, l’im-mondo rimane libero di guazzare nella melma, e a noi stes-si si risparmia il fastidio e la noia d’ingiuste aggressioni,che son l’unica ricompensa dei malvagi.Lu nu’ ssacciu te libbera d’ogni ‘mpacciu: il non so ti li-

bera da ogni impaccio. A volte accade che, interrogati in-torno a una qualche cosa che sappiamo, ma che vogliamofar credere d’ignorare, ci troviamo impacciati come pulci-ni nella stoppia. Vorremmo rispondere come verità richie-

de, ma temiamo che la nostra risposta non pregiudichi edallora ciascuno di noi ripete con Dante: “Il sì e il no nel ca-po mi tenzona”. Il popolo, che non vuole mentire, né vuoleagire con imprudenza, da ottimo moralista, ha scoperto unescamotage, uno di quei mezzi nei quali i moralisti applica-no la cosiddetta restrizione mentale: “Nu’ ssacciu – Non so,perché non voglio dire. Non so per dirlo a te, e poiché nonso, è inutile che tu insista a domandarmi. E questa rispo-sta concisa e decisiva ci toglie da qualunque impaccio e daqualunque noia.Lu superchiu rumpe lu cuperchiu: il soverchio rompe il

coperchio. Ne quis nimis, dicevanogli antichi latini, ed un vecchioproverbio italiano recita: Gli ecces-si son sempre viziosi. Se voi voleteversare in una botte vino in quan-tità superiore alla capacità dellastessa botte, o il vino va per terrao la botte si sfascia per la troppapressione. Lasciate che la pentolabolla, ma non eccessivamente;l’eccesso non farebbe che rove-sciare il coperchio, che, cadendo,andrebbe in frantumi. Si tollerauna persona molesta, ma dentrocerti limiti, l’eccesso romperebbeil coperchio della nostra pazienza.Vesti curtu ca vesti tuttu: vesti

corto e vestirai tutto. È principiodi buona economia non spenderemai al di là di quello che le pro-prie forze permettono. Molti si li-berano di quel poco di moneta,che con tanti sacrifici hanno rag-granellato, sciupandola tutta, inmaniera sconsiderata, nel meno

urgente dei tanti loro bisogni. Il proverbio è abbastanzaeloquente: vesti curtu, cioè provvedi con discrezione, conparsimonia, nei limiti delle tue forze ai tuoi bisogni, ca ve-sti tuttu, perché, così, provvederai a tutto. Immaginiamoun individuo che si provvede a tanto panno, quanto gli èappena sufficiente per un pantalone, un corpetto e unagiacca. Se costui incominciasse dal farsi cucire un soprabi-to, invece di una giacchetta, per voler vestire lungo, rimar-

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TERRA NOSCIA

Esempio tangibile della saggezza popolare

Lu dittèriuIl popolo, quando parla, sentenzia

di Piero Vinsper

Galatina (LE) - Abitazioni a corte

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rebbe certamente o senza pantaloni o senza gilè. Ha volu-to un po’ troppo.Lu mercatu te merca: il mercato ti danneggia. Dovendo

comprare un oggetto, molti pensano di fare economia ac-quistando quello che costa meno: questa non è vera, mamalintesa economia. Se l’oggetto acquistato viene a costarmeno degli altri omogenei, vuol dire che o è formato d’unamateria scadente, o che è fatto con minore perfezione: unacosa e l’altra garantiscono una minore durata dell’oggetto,e quindi il bisogno di rifondere nuovo denaro per l’acqui-sto dell’oggetto medesimo, bisogno che si ripeterebbe finoa quando l’individuo non giungesse a persuadersi che ildenaro, che gli è sembrato di aver risparmiato la primavolta, comprando economicamente, l’ha rifuso tornando acomprare quell’oggetto, che pagato un pochino di più nelprimo acquisto, avrebbe sempre avuto una durata mag-giore.Bonu vinu fino a fezza, bonu pannu finu a

pezza: vino buono sino a feccia, buon pannosino a pezza.La feccia non è che il sedimento del vino,

sarà quindi della medesima qualità del vino:se il vino fu buono, buona sarà la feccia. Al-trettanto dicasi della qualità di una pezza dipanno: sarà buona se buono è il panno dalquale si taglia; sarà cattiva se cattivo è il pan-no: la parte non può essere che della stessaentità del tutto. Perciò, quando abbiamo spe-rimentato buono il vino e il panno, non dob-biamo temere la qualità della feccia e dellapezza: saranno buone l’una e l’altra.Lu sazziu nu’ ccride a llu ddesciunu: l’uo-

mo sazio non crede a chi è digiuno. La lunga esperienza ha fatto conoscere al-

l’uomo che, se non mangia, muore: un uomonon abituato a mangiare è inconcepibile. Fa-te che un mendicante si presenti a un uomo fornito di si-mili cognizioni, e, per commuoverlo a dargli un’elemosina,lo assicuri che è digiuno e che si sente perciò venir meno.Il sazio ragionerà: chi non mangia muore, ma costui è vi-vo, dunque non è digiuno, dunque ha mangiato, dunque

(è questa l’ultima conclusione), abbi pa-ce! E con un abbi pace crede di capire unostomaco vuoto. Ci vuole ben altro! Cre-de che, con una parola melliflua, possaattutire i languori dello stomaco? Equesto succede spessissimo: chi nuotanella gioia non crede a chi si lamentitra i ceppi del dolore; chi nuota nell’oronon crede a chi è privo di pane.Ci è curtu de mente è longu de pede:

chi è corto di mente deve essere lungodi piede.Per qualcuno, anzi per molti, si avve-

ra che non sono di felice memoria e mol-to facilmente dimenticano ciò chedevono fare. Escono da casa per sbriga-re qualche faccenda e ritornano a casasenza averla sbrigata. Al difetto dellamemoria son costretti a riparare con ec-cesso di cammino; devono rifare i passi,

ritornare sul cammino già fatto e sbrigare la faccenda di-menticata. Per questi individui è necessario un taccuino,sul quale, prima di uscire di casa, dopo un esame diligen-te, annotino gli affari da sbrigare; così, ritornando a casa,non saranno costretti a riuscire, vedendo già cancellati, co-me eseguito, ciò che avevano segnato di eseguire.Ci dorme nu’ pija pesci: chi dorme non piglia pesci. Si deve lavorare! Qui non vult operari, nec manducet. Chi

non vuole lavorare non mangerà. Molti vagabondi e pol-troni invidiano, e spesso calunniano, la sorte di chi con illavoro ha saputo guadagnarsi una posizione; ma non ba-dano, o fingono di non badare, ai sacrifici compiuti, e cre-dono che la fortuna scenda dal cielo a chi l’aspettanell’ozio. Il marinaio che, durante la notte, preferisce la ca-sa al mare, il letto alla barca, e poltrisce tra le coperte, nonavrà il piacere di vedere un pesce nella sua barca, e dovrà

con rammarico guardare gli altri compagni, i quali all’albason costretti a rattoppare le reti, rotte per la quantità delpesce pescato durante la notte. Lavoriamo! Ecco il nostroprogramma: nel lavoro sta la ricchezza e la vita! Le piùgrandi fortune sono figlie del lavoro! •

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Galatina (LE) - Piazza Alighieri - Anni ‘20

Galatina (LE) - Corso Porta Luce - Anni ‘20

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Riprendiamo a descrivere le tante microstorie del no-stro territorio, relative ad abitudini, vita civile, tradi-zioni, derrate alimentari, prodotti artigianali ed anche

architetture cittadine, paesaggi urbani ed agricoli. Inizio par-tendo dall’agricoltura nell’agro di Galatina (Sa-lento centro-meridionale), territorio semi-pianeggiante, situata tra i mariIonio ed Adriatico. La città, facilmente raggiungibile daiquattro punti cardinali, ha rivestito un ruolo importante neltempo, essendo stata un nodo di transito di uomini, di der-rate e soprattutto di merci, buona parte delle quali era espor-tata fuori da queste contrade.Tranne alcuni banchi non troppo estesi di roccia affiorante,

questo territorio, fertile ericco di falde freatiche,per molti secoli è stato lanaturale pancia, o megliol’umbilicus di gran partedel Salento. Nel 1855 Tommaso

Vanna, giudice e funzio-nario borbonico, nel de-scrivere nei suoi bozzettila città di Galatina, sot-tolineava, con asburgicaprecisione, che “la vege-tazione rigogliosa di frutte-ti, di orti e di giardini”circondava tutta la città.Quindi si era già sedi-

mentata in loco, grazieall’acqua e alla concima-zione da stallatico in abbondanza, un’agricoltura non di sus-sistenza, ma di qualità a vantaggio esclusivo delle classiagiate dell’intera provincia. L’elemento dinamico era la pre-senza in gran quantità dell’acqua, che, a seconda delle posi-zioni del terreno e delle stagioni, si trovava nei pozzi ad unaprofondità di appena 3 o 4 palmi in inverno (1 palmo = 0,269m.) e a 6 o 7 nella stagione estiva, sia nel paese che nelle cam-pagne. Solo nella zona ad occidente dell’abitato l’acqua sitrovava ad una profondità da i 12-13 palmi in inverno a 24 e25 nella stagione estiva. Una terra così generosa non spinge-va però il contadino locale ad ingegnarsi per aumentare iprofitti del proprio lavoro, tanto che il Vanna sentenziava :“Taluni si occupano soltanto a slargare le loro possessioni, senzapor mente a migliorare i metodi agrari, e mostrandosi ignari delprincipio economico, che si ritrae più da un piccolo fondo ben col-tivato che da un grandissimo del quale si abbia poca o niuna cura”.

Così il Vanna bollava i proprietari terrieri dell’epoca par-ticolarmente presenti in città (siamo nel 1855) in numero di727 contro i 4.912 agricoltori, mentre, maggiormente nellafrazione di Noha, i pastori e gli operai più i 610. Ma questoè solo un veloce appunto sociologico.Il territorio di Galatina, grande circa 9.592 tomolate1, così

si presentava suddiviso: improduttivo a macchia mediterra-nea e a roccia affiorante il 16.86%, coltivabile il 57.66%, adoliveto il 23.25%, a vigneto lo 0.68%, a giardini 1.16%, men-tre la parte boschiva era un misero 0.35%. Segnaliamo ancheche numerosi proprietari terrieri residenti in Galatina aveva-no anche enormi esten- sioni agricole nei paesi limitrofi, so-

prattutto a vigneto eduliveto.Nelle vaste aree colti-

vabili, il frumento erad’obbligo, nelle varietà:Triticum hibernum, Triti-cum aestivum, Nerina,Maiorca (tipo di granoantico tenero a chiccobianco) e il rosso o deiterreni forti. Natural-mente veniva seminatoin grande quantità anchel’orzo. Questi terreni afrumento si facevano ri-posare al secondo annodi produzione, lascian-doli al pascolo dellegreggi delle masserie

presenti nel feudo, secondo la regola della Statonica2.Il cotone

La coltivazione del cotone nella Terra d'Otranto, e a Gala-tina in particolare, fu prospera per molti secoli essendo que-sta una pianta rustica che non intralciava affattol'avvicendamento delle piante erbacee. La sua coltura esten-siva era inserita nel ciclo agrario quadriennale che comple-tava il ciclo vitale, in cui erano alternate le coltivazioni dicereali, legumi, cotone e maggese. Se la pianta del cotone eraprodotta in aree più secche aveva necessita dell'acqua dellepiogge primaverili, ma la resa era scarsa e il prodotto menopregiato.La coltura intensiva invece rispondeva alle elevate esigen-

ze idriche della pianta in fase vegetativa, per cui erano par-ticolarmente indicati pantani, lame e terre sommerse perperiodi più o meno lunghi dell'anno, ma anche saline di-

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STORIA CITTADINA

Prima parte

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smesse. In questi terreni, infatti, il periodo di carenza idricaera considerevolmente più breve e si prestava per lo sfrutta-mento delle terre a maggese3. Il cotone era coltivato secon-do due modalità. La coltura estensiva era inserita nel cicloagrario quadriennale che completava il ciclo vitale fra pri-mavera ed estate, copriva il maggese nei mesi immediata-mente precedenti la semina del grano. La coltura del cotonecondotta a secco, doveva essere approvvigionata d'acquadalle piogge primaverili, la resa era scarsa e il prodotto me-no pregiato. La raccolta avveniva in estate

quando le bacche si schiudevano eappariva un batuffolo di cotone, ilquale veniva separato dai semi con il“tornu de la cammace (bambagia)”. La“Bambace” (bambagia) che si racco-glieva veniva filata con il fuso e il fi-lo ottenuto si raccoglieva tramite “lumatassaru” (arcolaio). Il cotone veni-va poi sistemato sulla “macìnnula”(attrezzo usato anticamente per fila-re la lana) e con “lu tornu te le canned-dhe” veniva avvolto in rulli di canne“le canneddhe”.Nel 1805 le principali varietà di co-

tone in uso erano due e cioè quella afibra bianca e quella a fibra avana, no-ta con il nome di cotone barbaresco.La cotonicoltura, di cui le prime trac-ce si hanno già a partire dal 1327, di-venne molto diffusa fra '700 ed '800, ma il suo pesoeconomico iniziò a crescere in maniera sensibile solo dalXVII secolo. Questo filato alimentava anche un diffuso arti-gianato domestico, come ad esempio per creare la “dote” al-le ragazze in età di matrimonio. Per colorare il cotone di rosso si utilizzava la corteccia del

melograno, i frutti e le radici, mentre, per conferire il colorcannella sbiadito, si usava un terriccio argilloso. Verso la fine del Settecento, nella nostra città comparvero

alcuni grossi imprenditori del settore tessile, che attrezzaro-no officine con decine di telai. Pertanto a Galatina ci fu unaparvenza di meccanizzazione di questo comparto grazie ad

un imprenditore di nome Carmine Bose, che comunque nonottenne grandi successi. Migliore fortuna, anche se breve, ebbe la manifattura del-

l’Orfanotrofio della città (fondato nel 1753 dal celebre medi-co Ottavio Scalfo, soprattutto in epoca Napoleonica-Mu-rattiana), che si trasformò nel più importante cotonificio del-la provincia, tanto da poter partecipare alla prima esposizio-ne nazionale nel 1810 a Napoli. Si ottenne un riconoscimentoufficiale per la qualità e il pregio dei suoi manufatti. Questa

esperienza durò poco, perché non riu-scì a competere con la forte concorren-za dei mercati esteri. Purtroppo labella avventura si spense lentamente,nonostante le iniziative di risanamen-to volute dal Consiglio provinciale diTerra d’Otranto, che, nel 1818, stanziò1.000 ducati per la riorganizzazionedel reparto manifatturiero dell’orfa-notrofio galatinese. Così, sebbene lacoltura del cotone tra fine del '700 e si-no agli anni '60 dell'Ottocento si eradiffusa enormemente, la concorrenzadelle coltivazioni americane e asiati-che la fece ridimensionare e scompari-re negli anni che seguirono.Un altro motivo di questo rovinoso

declino è da imputare all’annessionedel Regno delle Due Sicilie al Regnod’Italia. Infatti, in pochi anni, l’indu-stria galatinese dovette issare bandie-

ra bianca perché ignorata e, per certi versi, osteggiata dalgoverno centrale, che, invece di sostenerla con congrui con-tributi, le diede il colpo di grazia inserendo dazi sull’espor-tazione e vanificando le ultime speranze degli imprenditorilocali. •

NOTE:1. 1 tomolata = 4087.89 metri quadri2. Statonica: l’antico sistema di regolamenti locali con dazi e affitti annua-li dei pascoli come descritto nella Bagliva di Galatina.3.Maggese viene dal latino “Maius” maggio. Era, infatti, in questo meseche si era soliti dissodare il campo in epoca medievale.

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Filatrice

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L’arte dolciaria e pasticcera galatinese oggi è rinomata intutto il Salento per la qualità, la varietà e la specificitàdei suoi prodotti. Non tutti sanno, però, che essi non

sono propriamente originari di Galatina, ma il frutto diun’evoluzione dovuta a una pluralità di contributi, che consi-stono nell’apporto di prodotti, di conoscenze e di esperienzematurate anche sul luogo. Alcuni prodotti tipici galatinesi, da tempo, sono comuni ad

altri paesi della provincia di Lecce, ossia quelli generalmenteattribuiti ad antiche tradizioni ‘popolari’. Molto diffusa, adesempio, la cuddhrura (gr. κολλύρα, κολλούρα id., ciambel-la, pane di forma rotonda)1, che secondo alcuni deriverebbeda un’antica tradizione delle comunitàcristiane di rito greco-bizantino presen-ti, in passato, nel Salento come anche inSicilia, dove si può notare la somiglian-za con la tradizione della cuddhura cul-l’ova o aceddhu cu l’ova, e tuttavia non èescluso che l’una discenda dall’altra oviceversa. Lo stesso potrebbe dirsi perle carteddhrate (gr. κάρταλλος, cesto)di cui rimane incerta la provenienza, sedalla Calabria o, ancora una volta, dal-la Sicilia. Ma, a parte queste ed altre poche ec-

cezioni, che non trovano riscontro nel-la letteratura gastronomica se non intempi più recenti, si può dire che la no-stra cultura pasticciera sia il risultato diuna selezione di conoscenze, in parteoriginarie o, comunque, già diffuse pre-valentemente in Campania, Toscana,Calabria e Sicilia. Infatti, la maggiorparte dei prodotti ‘tipici’ della nostraregione è associata a un lessico comu-ne a diversi ricettari antichi italiani, che sin dal Rinascimentohanno aspirato a creare un’identità culturale in cucina di por-tata nazionale, riuscendo ad aggregare e in alcuni casi fonde-re saperi e sapori tipici di diverse regioni italiane.In generale, l’abitudine al consumo dei dolci fino a circa me-

tà ‘800 era appannaggio dell’aristocrazia, mentre la classe bor-ghese ne godeva occasionalmente, in determinate ricorrenzereligiose e spesso provvedendo personalmente alla loro pre-parazione. Tra i tanti luoghi comuni, va sfatato, infatti, anchequello secondo cui molti prodotti della nostra tradizione ap-partenessero in passato alla ‘cucina contadina’ o a una dimen-sione così ‘popolare’, poiché la quasi totalità della popo-

lazione, fino ai primi decenni del ‘900, hasempre cucinato cibi scarsi e poveri di conte-nuti nutrizionali, in quella che è stata definita “cucina dellafame”.2Alcune novità gastronomiche sono state introdotte a Gala-

tina grazie all’immigrazione di persone o di famiglie bene-stanti che hanno portato con sé conoscenze o tradizioni deiluoghi di provenienza. In altri casi, sono stati gli stessi galati-nesi ad aver avuto l’opportunità di conoscere differenti costu-mi, tradizioni e prodotti tipici in altre città italiane,consentendo la replicazione di determinati cibi attraversol’apporto di ricettari, di respiro interregionale, tenendo conto

anche della crescente alfabetizzazionedella società conseguente l’unità nazio-nale.Nel precedente numero, abbiamo ab-

bozzato quella che può essere statal’evoluzione delle caffetterie galatinesi,laddove alla normale attività commer-ciale abbiamo visto aggiungersi dappri-ma la vendita di bevande ad altagradazione alcolica (acquavite, liquori)per arrivare, infine, nella seconda metàdell’800, ad intraprendere anche la pra-tica artigianale pasticciera. Ma, quando e come è nata questa ini-

ziativa? Nell’Ottocento, in Italia, le aspirazio-

ni civili e liberali di una società borghe-se in odore di unità nazionaleportarono a prediligere, oltre ai pubbli-ci caffè, come in altri Paesi d’Europa giànell’età dei lumi, gli ambienti domesti-ci, eletti a sedi abituali di riunioni cultu-rali e di incontri conviviali. Ciò è

testimoniato dalla corposa corrispondenza ottocentesca deiSicilani, pubblicata grazie al prezioso, notevole e interessan-te lavoro storiografico, curato da Francesco Luceri nel 2013 (P.Siciliani, Il carteggio familiare di Pietro Siciliani, 1850-1932, 2voll., Centro di studi salentini), e dalle singolari lettere pub-blicate da Rosamaria Dell'Erba in due articoli editi in questastessa rivista, nel 2014 (Lettere da Cesira Pozzolini Siciliani a Lui-gi Mezio in «Il filo di Aracne», anno IX, nn. 3, 4).Nel coltivare l’interesse e la ricerca di un’identità comune,

anche dopo l’unità d’Italia, i salotti culturali furono i luoghi discambio non solo di idee, ma anche di conoscenze tra intellet-tuali di diversa provenienza. Tra queste, non potevano man-

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UNA FINESTRA SUL PASSATO

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care le peculiarità enogastronomiche, spesso oggetto di di-squisizione e di apprezzamento da parte dei partecipanti al-le riunioni. Nelle lettere troviamo, perciò, una straordinariaquantità di testimonianze di quelli che erano i prodotti dol-ciari e di pasticceria dell’epoca, oggetto di frequenti doni, traGalatina e Firenze o tra Galatina e Bologna e viceversa, so-prattutto dopo il matrimonio (1864) tra Pietro Siciliani e Ce-sira Pozzolini. Vini e liquori, quindi, servono spesso ad accompagnare la

frutta secca (mandorle abbrustolite, fichisecchi, noci, giuggiole, prugne, uva sec-ca o passoline) e i dolci, cioè le preliba-tezze inviate da Galatina sia inoccasione delle ricorrenze religiosesia per deliziare i salotti culturali chesi tengono settimanalmente in casaSiciliani a Bologna ovvero, ancor pri-ma, a Firenze.È possibile che il frequente consu-

mo di specialità gastronomiche edenologiche a Firenze e a Bologna ab-bia invogliato a intraprendere a Ga-latina la pratica artigianale pastic-ciera?Molto probabilmente, l’invitan-

te abitudine di abbinare vini pre-giati e liquori alla frutta secca e aprodotti di pasticceria presso i salotti culturali fiorentini e bo-lognesi ha influenzato, attraverso le relazioni sociali e familia-ri, i costumi della società borghese ed aristocratica di Galatina,muovendo alcuni caffettieri, che già disponevano di un’offertadi prodotti enologici, ad adattarsi alle nuove, crescenti esi-genze di consumo. Molti esempi di abbinamenti tra cibi e vini tipici emergono

dal carteggio dei Siciliani in periodo postunitario. Per esem-pio, la lettera scritta il giorno di Martedì Santo del 1866 prean-nuncia l’invio da Firenze di una cassa contenente alcuni vini,quali: il vin santo, l’aleatico, il vermut, insieme a cibo della

tradizione pasquale ossia il panforte e la schiacciata, chiedendodi aver cura di farli recapitare a Galatina, in particolare a Lui-gi Mezio e a Felice Ascalone. Da Galatina, invece, abbinatiad agnellini pasquali vengono spediti altri vini di qualità, trai quali: il moscato e lo zagarese, spediti da D. Celestino Mon-giò ai Siciliani nel 1873; la lacryma, inviata a Bologna, da Pie-tro Vallone ai Siciliani, in un’altra occasione; il mezio suffezio(o solo mezio), inviato da Rosario Siciliani a Bologna nel 1871oppure dallo stesso Luigi Mezio nel 1870, 1873 e 1876, spesso

insieme ai torroni di Ascalone (R. Del-l'Erba, Lettere… cit., a. IX, n. 3, p. 11).

Nel periodo pasquale, imman-cabilmente vengono inviate le tra-

dizionali paste di mandorle informa di torte o di agnelli3. In altreoccasioni, tra il 1865 e il 1881, la cas-setta de’ dolci spedita da Galatina,per la quale giungono puntuali iringraziamenti di Cesira Pozzolini,contiene una significativa varietà dialtri articoli tra cui: cotognate, pit-telle (pitteddhre, in dialetto), pan dispagna, turroncini, pezzi duri, co-peta, mostaccioli, carancioli, ta-ralli, oltre a dei generici dolciinzuccherati. Le lettere testimoniano il consu-

mo di altri prodotti tipici galatinesi, non contenuti nelle cas-sette de’ dolci, come ad esempio le pittole (pp. 417, 782),preparate al momento con il mele (miele).Poi, troviamo anche: bucconotti (27 giu. 1881; 14 apr. 1884),

gattò e struffoli (27 dic. 1883), in pratica, dei dolci che vengo-no citati per la prima volta in questo periodo, negli scambi epi-stolari, come se per produrli, ora, si attingesse a una recentefonte di conoscenze.4Ai più oggi sembrerà strano, ma per tut-to il secolo non vengono mai menzionati dolci o paste alla cre-ma di nessun genere. Salvo rarissime eccezioni, non è chiaro sequesti prodotti provenissero dai caffè-pasticcerie dell’epoca o

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Forma in gesso per la cnfezione diagnellini in pasta di mandorle

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se venissero prodotti in casa da alcune famiglie borghesi.Da uno scambio epistolare a cavallo tra ‘800 e inizio ‘900,

invece, si può rilevare un frequente invio a Cesira Pozzolini didolci preparati da alcune donne in particolare, quali: Consi-glia Siciliani (moglie di Giuseppe Garzya), Pietrina Sicilia-ni (moglie di Antonio Michele Vallone), Giuseppina Vallone(moglie di Luigi Palma), Adalgisa Virgilis (moglie di VitoVallone),Giuseppina Tundo (moglie di Vito Antonio Sicilia-ni) e, forse, Petrina Tundo (moglie di Giuseppe Siciliano). Ad esempio, da Firenze Cesira Pozzolini scrive: «Alla Con-

siglia mando infiniti ringraziamenti pel pensiero che ha avuto dimandarmi quella buona, squisitissima copeta…» (13/10/1865).«Trovai la cassetta di dolci della Giuseppina Siciliani [Tun-do]» (1/1/1908). «In un vassoio avevo preparato dolci della Giu-seppina [Vallone]» (31/1/1910). «Vi dirò che tante volte ho pensatoa que’ buoni dolci della tua Pierina» (lett. a Antonio M. Val-lone, 13/6/1908). «Ho ricevuto con l’agnellino Pasquale i dolci gra-ditissimi: se sono fattura tua mi rallegro con te, perché sonoproprio squisiti.» (lettera indirizzata ad Adalgisa Virgilis,2/4/1914). Verosimilmente, quindi, vi era uno scambio priva-to anche di consigli e di ricette.La stessa Cesira Pozzolini sostiene di insegnare a

cucinare a una giovane domestica, in una lettera in-viata il 21 dicembre 1867 a Rosario Siciliani, nellaquale, peraltro, confida di aver ricevuto da Piero, daFirenze, “Il Cuoco pratico”5, un ricettario anonimo,edito a Livorno sin dal 1864, con cui si diletta in cu-cina. Questo indizio sta a testimoniare che la con-sultazione dei ricettari non era una pratica cosìinusuale in ambito domestico, perlomeno nelle fa-miglie più acculturate. Perciò, presumibilmente inquesto periodo ne sono stati procurati ad amici oparenti a seguito di viaggi o durante la permanen-za di galatinesi in altre città italiane.È possibile, quindi, che altri manuali del genere

possano aver contribuito a migliorare o far a intra-prendere l’attività artigianale di pasticceria a Gala-tina.6 Del resto, in generale non abbiamo notizieinequivocabili circa l’eventuale esistenza a Galatinadi altri pasticcieri, coevi o di generazioni preceden-ti, che possano aver tramandato ai primi, noti arti-giani galatinesi il proprio sapere professionale.I primi espliciti riferimenti alla produzione arti-

gianale pasticciera galatinese li troviamo, peraltro, in una let-tera del 5 febbraio 1866 e riguardano i turroncini7 e i pezzi du-ri di Felice Ascalone. Si ignora la provenienza8, invece, «delle eccellenti cotogna-

te» inviate un po’ prima, il 13 gennaio 1866, all’interno di una«elegantissima cassetta di dolci». Dati i frequenti rapporti dei Si-ciliani con gli ambienti liberali leccesi, è possibile che si trat-tasse della famosa cotognata Cesano, detta poi ‘cotognataleccese’. Tuttavia, le cotognate vengono donate già qualcheanno prima della nascita ufficiale (1863) della “Ditta Cesano”,

ma non si evince da dove provenissero. Le prime testimonianze dei bucconotti, a Galatina,

le abbiamo tra l’800 e il ‘900. Erano delle piccole pastedi forma tonda costituite da un involucro di frolla, far-cito, probabilmente, con marmellata, faldacchiera (cfr.V. Corrado, op. cit., pp. 182,199) o con un composto abase di mandorle o tutt’al più di cioccolato. PetrinaTundo ne spedisce a Bologna, in prossimità della festapatronale di Galatina, nel 1881. Ne vengono inviati an-che da Rosario Siciliani a Firenze per la Pasqua del1884. In entrambi i casi non è indicato chi li avesse pro-dotti. Nel 1909, invece, sappiamo che dei bucconottivengono realizzati da Adalgisa Virgilis e spediti a Fi-renze per Cesira Pozzolini, la quale scrive: «Feci io lacrema9 e la guarnii con tre de’ tuoi bucconotti (dico bene?)squisiti. Vito ti dirà che, tua mercé, la mia crema era buonadavvero. Come ti ringrazio, cara Adalgisa, di avermi man-dato anche i bucconotti, fattura delle tue mani!»(15/11/1909). I mostaccioli10, pur volendo ammetterne la prove-

nienza direttamente da Napoli, non sappiamo concertezza quando e chi possa averli introdotti a Gala-

tina, ma ciò può essere avvenuto, molto probabilmente, nel-la seconda metà dell’800. Lo stesso dicasi anche per glistruffoli11, inviati da Galatina a Bologna nel dicembre 1883,che insieme ai carancioli12 (nov. 1867), date le reciproche so-miglianze, parrebbero proprio corrispondere rispettivamen-te ai purciddhruzzi e alle carteddhrate. Nel Salento, gli africani sono un prodotto esclusivo, ma non

originario di Galatina. Rosario Siciliani ci dà notizia, in unalettera, di averne offerti in occasione del battesimo del nipo-te Vito, figlio del fratello Pietro e di Cesira Pozzolini, avvenu-to a Firenze il 5 febbraio 1866. Li chiama affricani, utilizzando

36 Il filo di Aracne gennaio/marzo 2019

Africani e ricettario del 1788 di Vincenzo Corrado

Carteddhrate (Carancioli)

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la pronuncia toscana e in effetti è molto probabile che Rosa-rio li abbia acquistati a Firenze13 per poterli integrare ad altriprodotti, portati con sé da Galatina, e offrirli subito dopo lacerimonia. Furono fatti apprezzare anche ad altri galatinesipresenti, tra cui Luigi Mezio e Pietro Cavoti, perciò è moltoprobabile che fu proprio a seguito di quella circostanza chel’affricano verrà importato a Galatina. Sta di fatto che la ricet-ta dell’africano galatinese è simile, fuorché nell’aspetto, a quel-la dell’affricano prodotto nelle aree geografiche del Chianti edel Mugello e, tuttavia, la ricetta non è nemmeno di originetoscana. Infatti, ‘affricani’ non è altro cheuna semplificazione di Biscotti (o Boc-coni) all’Africana, titolo originaledella ricetta scritta dall’oritanoVincenzo Corrado, suo proba-bile14 inventore, il quale inuna delle prime edizioni nedescrive così il procedi-mento:«Mescolali bene dieci

gialli d’uova con dieci on-cie di zucchero in polvere,in modo che i gialli diven-tino quasi bianchi, si uni-scano con mezza chiarad’uovo montata, ed un sen-so di Cedrato. Poi distribui-to questo composto in variecartelline lunghe, e strette, si fa-rà cuocere al forno lentamente, equando si distaccheranno dalla cartasi possono servire» (Il Cuoco Galante, IIed., Napoli, 1788, p. 182). A mio avviso, con l’attributo all’Afri-cana l’erudito Corrado allude alla propria conoscenza circa laprecisazione di Antonio Latini (op. cit., p. 225), secondo cuidei galli pregiati venivano comunemente, ma impropriamen-te definiti ‘d’India’ quando, invece, erano di origine dei «Pae-si Africani» (Egitto?); in questo modo, perciò, il Corradosottende anche la qualità delle uova, ossia la loro provenien-za dal medesimo allevamento avicolo.L’appellativo dita di Apostoli (P. Siciliani, op. cit., p. 284),

invece, molto facilmente è stato coniato in (o per) ambienti re-ligiosi, ma plausibilmente deriva dalla forma prescritta pergli stessi biscotti in edizioni successive: «fogli di carta, dispo-sti a canaletti come un ventaglio» (Il Cuoco Galante, VI ed.,Napoli, 1820, p. 146), ossia, possiamo immaginare, come ledita aperte di una mano. Una circostanza in cui la ricetta deibiscotti all’africana giunse in Toscana è testimoniata in una let-tera (Ivi, VI ed. cit., p. 240) scritta dal Cav. Antonio Paci a Fi-renze, il 17 maggio 1781, per ringraziare il Corrado di avergliinviato in dono una copia del suo celebre ricettario. Sappiamo, invece, attraverso le recenti testimonianze dei

più anziani, che nella prima metà del ‘900 gli africani veniva-no preparati per i bambini dalle mamme o dalle nonne, che lasera portavano lo zabaglione fatto in casa presso un forno co-mune, appena spento, per farlo cuocere.Altri articoli di pasticceria a noi familiari verranno prodot-

ti e venduti al banco nel ‘900, quando a Galatina nascerannonuovi caffè, bar e pasticcerie, mentre alcuni maestri in parti-colare contribuiranno notevolmente a segnare l’evoluzione ela storia della pasticceria galatinese e di altri paesi della Pro-vincia, diffondendo il sapere alle nuove generazioni. •NOTE:

1. cfr. G. Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, M. Congedo Editore, 2007.2. Cfr.: 1861-2011: La Cucina nella formazione dell'identità nazionale, a c. dei

Centri studi Territoriali, Accademia Italiana della cucina, Milano, 2011,pp. 57-74: Cap. I – Cucina della fame e cucina borghese nella seconda metà del-l’Ottocento.3. Sono molto apprezzati quelli di Corigliano, dove probabilmente vi eraun’attività artigianale pasticciera. Cfr. P. Siciliani, op. cit., pp. 267, 284.4. Oltre ai mostaccioli, menzionati già nel 1870 (p. 465), bucconotti, gattòe struffoli si trovano nei più celebri ricettari antichi napoletani, riferimen-ti importanti per molti altri ricettari successivi. In particolare: Il Cuoco Ga-lante (Napoli, 1773) di Vincenzo Corrado, e Cucina Teorico-Pratica (Napoli,1837-65) di Ippolito Cavalcanti.5. Il Cuoco pratico ed economo ossia l'arte di fare una buona cucina con poca spe-sa…, E. Rossi e C., Livorno (1864-1865); edito anche a Milano, presso E.

Oliva, dal 1867.6. “Il Cuoco pratico” non fa parte della collezio-ne della Biblioteca “Siciliani” di Galatina; nefa parte, invece, l’anonimo “Ricettario dome-

stico” (Sonzogno, Milano, 1888), perdono di Pietro Cavoti. Per una bi-bliografia di ricettari ottocente-schi, cfr. A. Capatti (a c. di),Pellegrino Artusi…, BUR, 2010.Sorge spontaneo ripensare, inol-tre, ai frequenti scambi di favorie di doni tra i Siciliani e LuigiMezio e, d’altra parte, al sodaliziotra la famiglia di quest’ultimo equella di Felice Ascalone, dovutoanche a una passione comune perla produzione enologica, che sem-brerebbe risalire alla fine del ‘700 o

inizio ‘800 (vds.: 1^ parte di questoarticolo). 7. Le origini del torrone e della cupeta (o

croccante), si ritengono essere antichissime.molto antiche. Il torrone è menzionato in Gio-

van B. Crisci, Lucerna de Corteggiani, Napoli,1634, p. 307, ma la ricetta più antica è quella deltorrone squisito di Aversa, descritta in Antonio

Latini, Lo Scalco alla Moderna, Napoli, 1694, p. 603. Il più famoso, oggi,è quello beneventano.8. È possibile che il marchio/logotipo sia stato adottato dopo la nascita delprimo laboratorio con carattere industriale, inaugurato da Raffaele Cesa-no il 2 feb. 1888 (cfr. A. Sabato, Lecce illustrata, Del Grifo, 2005, p. 362) ov-vero per distinguersi, in seguito, dalle ditte concorrenti, come quelle diFrancesco Fiorentino e di Oronzo Tripoli.9. Prima d’ora, nelle lettere non vengono mai menzionati prodotti alla cre-ma né la sola crema, che Cesira Pozzolini qui sperimenta, molto proba-bilmente, grazie al suo vecchio (1864/65), ricettario: cfr. Il Cuoco pratico…cit., pp. 174-175.10. P. Siciliani, op. cit., pp. 465, 806, 807. Mustacciolo (mustazzolo a Galatina;scajozzo a Gallipoli) deriverebbe da ‘mosto’ (dal lat. mostacea); infatti, siparla dei mustacei già nel De Agricoltura di Catone, cioè di dolci a base difarina, lardo e mosto, aromatizzato con anice, cumino e alloro. Già Cristo-foro Messisbugo scrive nel 1557 la ricetta dei mustazzoli di zuccaro, men-tre quella dei mustacciuoli napoletani la troviamo in Opera (Roma, 1570) diB. Scappi, poi nei ricettari napoletani e in altri successivi.11.Anche gli struffoli (o truffoli) sono menzionati in Opera di B. Scappi e inG. B. Crisci, op. cit.. Sono dei dolci tradizionali natalizi molto simili ai pur-ciddhruzzi, stando alle descrizioni riportate dal Cavalcanti (op. cit., pp.14, 15). Nel Salento, questo termine è sopravvissuto in Maglie, ed è statosegnalato come esistente a S. Cesario di L. e Maglie intorno al 1930: cfr.G. Rohlfs, op. cit..12. P. Siciliani, op. cit., p. 375. Il termine caranciolo, attualmente estinto, è dietimologia ignota. Il Rohlfs riferisce (op. cit.) l’assonante voce dialettalecalangi (Calimera, Castrì di Lecce) o calangeddhri (Lecce) e, dalla sua de-scrizione, sono molto simili alle attuali carteddhrate.13. Rosario Siciliani, nella lettera (Firenze, 5/2/1866) al fratello Pietro Do-nato scrive: «si fecero tre vassoi (quintiere) una di affricani, ossia dita di Apo-stoli, una seconda di quei pezzi duri di Ascalone e turroncini […], ed una terzadi altri generi…». La sequenza con cui vengono elencati i dolci lascia in-tendere che gli affricani non fossero stati prodotti da Ascalone; né da altrigalatinesi; ad ogni modo, questa è l’unica volta in cui compaiono in tut-ta la corrispondenza dei Siciliani. 14. Il Corrado ha scritto molte ricette e metodi originali. La ricetta dellozabaglione risale almeno al XV sec. (es.: “Cuoco napoletano”; “Libro de Ar-te coquinaria” del Maestro Martino da Como), ma, anche in altri ricettarianteriori a quello del Corrado, non si prescrive mai la cottura al forno.

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Pitteddhre

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Il contributo scaturisce da un’escursione lungo la costaotrantina – effettuata il 27 ottobre 2018 e promossa dal-la scrivente in qualità di Presidente dell’Associazione

Culturale G.ECO.S. –, che, dopo aver attraversato antichiuliveti, muretti a secco e siepi di fichi d’india, ha consenti-to di ammirare, tra mare e terra, l’incantevole bellezza delpaesaggio, panorami singolari, numerosi anfratti, calettedi rara bellezza, tratti costieri tra i più selvaggi del Salen-to ed aree di rilevante interesse antropologico e storiogra-fico, fino ad Otranto con la sua storia ricca di vicendemisteriose e la straordinaria architettura civile e religiosa.Sul litorale idruntino, da sud verso nord, s’incontrano:Porto Badisco, porticciolo naturale dove, secondo la de-

scrizione di Virgilio nell’Eneide, sarebbe approdato Enea,nel viaggio in Italiadopo la fuga da Tro-ia. Tra due scogliere,ricche di grotte, siadagia una spiagget-ta, foce di un torren-te ormai scomparso. Fra le numerose ca-

vità naturali, la Grot-ta dei Cervi costi-tuisce il più impo-nente complesso pit-torico europeo. Ipittogrammi, realiz-zati in guano di pipi-strello e ocra rossa,risalgono, infatti, alNeolitico (4.000-3.000a.C.), riproduconoforme geometriche,umane e di animali (cacciatori, cani, cavalli, oggetti, simbo-li magici, geometrie astratte) e molte scene di caccia ai cer-vi, da cui il nome del sito (uno dei graffiti più famosi è ilcosiddetto “Dio che balla”, che raffigura uno stregone dan-zante). Proseguendo verso Otranto, s’incontra la cinquecente-

sca Torre Sant’Emiliano (è stata eretta, a 50 mt s.l.m. daCarlo V, in funzione anti saracena), seguita da Punta Pala-scìa o Capo d’Otranto (il più orientale sito d’Italia, che, se-condo le convenzioni nautiche, separa i mari Adriatico e

Ionio. Questa particolare posizione, nella notte che prece-de il Capodanno, attrae numerose persone allo scopo divedere la prima alba del nuovo anno: augurio di speran-za di un nuovo inizio, lontano dal caos e luci cittadine. Qui,sono ubicati il faro (recentemente ristrutturato e tutelato,tra i cinque ricadenti nel Mediterraneo, dalla Commissio-ne europea) e la stazione meteorologica di Otranto-PuntaPalascìa, ufficialmente riconosciuta dall’ OrganizzazioneMeteorologica Mondiale.Dalla terrazza del suggestivo faro si può godere un pa-

norama spettacolare: le rocce costiere, la distesa marina, lavariegata vegetazione e le montagne albanesi a 70 chilo-metri di distanza (un proverbio locale recita: “Quando sevidine le muntagne dell’Albania, lu scirocco sta alla via”).

All’interno della li-toranea, si trova l’an-tico monastero di sanNicola di Casole,uno dei luoghi piùimportanti del Salen-to dal punto di vistastorico, artistico e cul-turale. Il casale, fon-dato nel 1098 daBoemondo I d’Antio-chia, successivamentevenne donato a ungruppo di basilianiguidati da Giuseppe,primo abate del futu-ro centro religioso,che ospitava non soloragazzi provenientida tutta l’Europa per

motivi di studio, ma anche una delle più importanti biblio-teche che custodiva numerosissimi volumi greci e latini.All’epoca, l’abbazia era dotata di altari, cripte e casupoledove i monaci pregavano (casole, in vernacolo, da cui il no-me S. Nicola di Casole), ma venne distrutta nel 1480 daiTurchi. I Codici prodotti in questo monastero sono ora cu-stoditi in alcune biblioteche europee, mentre della struttu-ra oggi restano solo rovine. In questo monastero,probabilmente, si formò il mosaicista greco-idruntino Pan-ta- leone, autore di una delle testimonianze più importan-

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SU E GIÙ PER IL SALENTO

Otranto (LE) - Il castello

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ti e teologicamente ancora di controversainterpretazione, come il mosaico pavi-mentale della Cattedrale di Otranto.In uno dei tratti costieri più selvaggi del

Salento, ricadono la Baia dell’Orte ed ilLaghetto della cava di bauxite (dal sitoveniva estratto, negli anni '60-'70 del se-colo scorso, il minerale usato per ricavarel’alluminio, imbarcato nel porto cittadinoe destinato a Marghera per la lavorazio-ne). La cava – profonda 40 mt e con undiametro di circa 200 mt – venne definiti-vamente abbandonata nel 1976, a causadel costoso processo estrattivo, ma la pre-senza di una falda freatica, intercettatanella fase di scavo, ha originato un picco-lo invaso, caratterizzato da effetti croma-tici suggestivi e da formazioni calanchivelungo i versanti (dal forte contrasto tra ilcolore dell’acqua ed il rosso tipico del mi-nerale), nonché circoscritto da piante ac-quatiche e paludose, mentre le acquepluviali e sorgive sono ancora utilizzateper l’irrigazione dei terreni limitrofi.La vicina Torre del Serpe, a base circo-

lare, fu costruita nel XVI secolo, durante ilregno di Carlo V, con funzioni difensive.Gli Otrantini sono molto legati a questastruttura – originariamente un faro –, tan-to da averla inserita anche nello stemmacittadino (forse simboleggia il primo ba-gliore della fede, in quanto, questo centrourbano, secondo la leggenda, fu il primo,in Occidente, ad accogliere san Pietro). Ilnome è legato ad un racconto tradiziona-le, secondo cui, ogni sera, un serpente vi-sitava l’edificio per bere l’olio, usato comecombustibile del segnale luminoso. Unanotte i saraceni, che volevano attaccareOtranto, trovando il faro spento e non avendo punti di ri-ferimento, si diressero verso Brindisi e la saccheggiarono.L’escursione si è conclusa ad Otranto, il comune italiano

più orientale – dapprima centro greco-messapico e roma-no, denominato Hydruntum (dal nome del torrente Hy-drus nella cui vallata sorge la città), poi bizantino e piùtardi aragonese –, sviluppato attorno all’impo- nente ca-stello e alla cattedrale normanna. Nel 1480 la città fu espu-gnata dai Turchi, i quali, con Maometto II, decimarono lapopolazione ed uccisero 813 persone, decapitate perché sirifiutarono di abiurare in favore dell’Islamismo. La cittadina ha dato il nome sia all’omonimo canale che

separa l’Italia dall’Albania, sia alla Terra d’Otranto, anticacircoscrizione del Regno di Napoli comprendente i terri-tori delle odierne province di Lecce, Taranto e Brindisi, ol-tre a quello di Matera fino al 1663, quando la città fudichiarata capoluogo della Basilicata con decreto di Filip-po IV di Spagna. Molto diffuse risultavano le attività com-merciali ed artigianali, in particolare fiorente si rivelava lalavorazione della porpora e dei tessuti. La città ospitava,inoltre, una comunità ebraica molto attiva nei commerci,che andavano oltre le isole Ionie.

A partire dalla seconda metà del Seicento, Otranto entròin crisi per la diminuzione dei trasporti commerciali, ilblocco del settore edile e le incessanti incursioni via mare.Per questo motivo, gli abitanti si trasferirono in luoghi piùsicuri, abbandonando, tra l’altro, i terreni dove si diffuse-ro paludismo e malaria. Nel 2010 il borgo antico è stato riconosciuto come Patri-

monio Culturale dell’UNESCO quale Sito Messaggero diPace.I principali edifici religiosi sono costituiti dalla chiesa di

san Pietro e dalla cattedrale dedicata a santa Maria Annun-ziata, costruita nel periodo normanno ed ultimata nel XIIsecolo. Sorge sui resti di un villaggio messapico, di una do-mus romana e di un tempio paleocristiano. Consacrata ilprimo agosto 1088 durante il papato di Urbano II, conser-va, oltre alle reliquie dei martiri di Otranto (santificati, il 12maggio 2013, da papa Francesco), un capolavoro dell’artemusiva medievale (il mosaico pavimentale più granded’Europa), realizzato, tra il 1163 e il 1165, dal monaco Pan-taleone ed esteso lungo le tre navate, il transetto e l’abside.Quella centrale presenta un maestoso “Albero della Vita”con temi tratti dall’Antico Testamento, dai vangeli apocri-

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fi, dai cicli cavallereschi e dal bestiario medievale. Nell’area sottostante ricade la cripta (la più antica in Pu-

glia), costituita da tre absidi e suddivisa in 9 navate cheospitano 42 colonne (monolitiche e di riporto, ma diversein merito alla materia prima usata, stile e periodo di realiz-zazione), 23 semicolonne e 3 nell’abside centrale. La parti-colarità è data dai capitelli (tutti diversi tra loro, adornatida grifi, figure di arpie, leoni, aquilette) e dagli affreschicinquecenteschi. Tra i complessi civili, invece, austero si presenta il castel-

lo, in stretta relazione con la cinta muraria con cui formaun unico apparato difensivo. Fu realizzato tra il 1485 e il1498 da Alfonso d’Aragona, il quale lo circondò con un al-to fossato e predispose, grazie alle nuove tecniche di dife-sa, un lungo passaggio ipogeo, che collegava le variebocche e postazioni di fuoco affacciate sul fossato (sul por-tone d’ingresso è scolpito lo stemma di Carlo V).Era dotato, inoltre, di dispense e grandi ambienti con

colossali volte a botte (la proiezione di un vi-deo nei sotterranei, ha reso la visita più com-pleta e suggestiva). Sebbene la pianta delcastello sia pentagonale, risulta piuttosto ir-regolare, soprattutto a causa dei successivi ri-facimenti risalenti al XVI secolo, quando, sullato dell’edificio prospiciente il mare, venneaggiunto un bastione a lancia con i baluardiesterni, onde avvistare l’arrivo di navi e flot-te nemiche, ma, soprattutto difendersi da pe-ricoli e assalti.In definitiva, l’escursione “lungo la costa

idruntina” si è sviluppata in un territorio digrande interesse non solo per la ricostruzionedella storia dell’uomo e la bellezza dell’am-biente, ma altresì per i forti contrasti di coloretra l’infinita distesa del mare e la variegata ve-getazione, che ha suscitato forti emozioni, inparte espresse da Lidia Caputo in un suo com-ponimento (allegato di seguito), scaturito dal-

l’atmosfera spirituale che avvolge la cittadina otrantina,modello di fede e di amore anche ai nostri giorni.Come racconta Paolo Rumiz (nato nel 1947), giornalista

e scrittore italiano, viandante ed esploratore della costaadriatica italiana e dell’area balcanica:

“Questi sono posti in cui si imparaa decrittare l’arrivo di una tempesta,

ad ascoltare il vento,a convivere con gli uccelli,

a discorrere di abissi,a riconoscere le mappe

smemoranti del nuovo turismo da crocierae i segni che allarmano

i nuovi migranti a trovarela fraternità silenziosa ed un pasto frugale”.

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Otranto (LE) - Cattedrale - La cripta (particolare)

Adele Quaranta

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FRESCHI DI STAMPA

Domenico Scapati - “STORIA DEL TARANTISMO”Carlo Saladino Editore - pp. 230 - € 20.00

Donne emarginate che durante l’estasi ed il tormento delveleno si potevano permettere anche di mimare l’amples-so in pubblico fino a quando San Paolo non concedeva lagrazia della guarigione.Questa è la condizione della donna delle terre del Sud, maanche degli uomini adibiti ai lavori nei campi.

Giovanni Leuzzi - “REPÙTU pe lle chiazze salentine”Lamento funebre per le piazze rurali del SalentoMario Congedo Editore pp. 175 - € 18.00

Il poema in ottava rima e in rigoroso dialetto salentino, che utilizza a prete-sto narrativo una divertente storia paesana, fotografa, con i toni e registripiù diversi e seguendo il libero andare della memoria, il rapido e per moltiversi catastrofico diluirsi, in un nulla ancora indistinto, della millenaria ci-viltà contadina; una civiltà che nei centri del Salento aveva realizzato, pur inun quadro diffuso di povertà, sfruttamento ed ingiustizia, straordinari ri-sultati di risposta ai bisogni collettivi di socialità ed identità culturale.

Paolo Vincenti - “AVANTI (O) POPArgoMentiEdizioni - pp. 200 - € 13.00

Ritorna, con Avanti (o) Pop, la penna, graffiante e acuta, di Paolo Vin-centi; il volume, che si pone in continuità ideale con “L’osceno del vil-laggio” ed “Italieni”, raccoglie diversi articoli scritti prevalentementenel 2017. Anche in questa raccolta l’autore riprende temi a lui cari fracui la TV e gli anni ‘80 mescolandoli ad argomenti di attualità in unasorta di documentario del nostro tempo con felici incursioni nel suopassato di ragazzo cresciuto a “pane e serie televisive”.

Elena Nicolai - “L’ALBERO DELLE QUAGLIE”Bertonieditore - pp. 135 - € 14.00

Le suggestioni di anni vissuti in Pakistan si ricompongono nelle sto-rie di personaggi dai significati simbolici, quasi magici, attraversan-do montagne isolate e città caotiche. Lo straniero si smarrisce e siritrova in una continua ricerca identitaria che tradisce ogni sua aspet-tativa.Il Pakistan è disorientamento, amicizia, amore, passione, nostalgia;si scopre che è semplicemente spazio dell’umano, vita.

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Il 29 luglio 2018, alla V Collettiva Regionale d’Arte diMesagne, “Radici senza tempo”, Pietro Coroneo, scul-tore galatinese, ha ricevuto il Primo premio.

Ripercorrendo il cammino storico della scultura e recu-perando il filo conduttore dell’interpretazione della real-tà salentina, Pietro Coroneo, scultore galatinese,autodidatta, sviluppa soggetti biomorfi quali creazioni diun artista che contribuisce all’opera grandiosa della crea-zione plasmando i fenomeni che lo circondano a propriaimmagine e somiglianza.

Nel flusso della sua creatività si trovano le tracce di uniter artistico della storia della cultura ancorata alla suaterra che gli ha dato i natali, alle sue umili origini, alla

sua nobile semplicità d’animo.Il suo fare arcaico si è evoluto nel corso degli anni, at-

traverso immagini che ricongiungono i tempi ed i sensitradizionali in echi iconografici, elementari ed essenzia-li, concretizzatisi in acquerelli, tempere, chine o anche inpietre, legni, argille. Queste risonanze, come onde sono-re, si sono ripetute componendo una soave melodia chegiunge da lontano e che pervade tutta la sua produzioneartistica. E’ una naturale vocazione quella dell’artista ga-latinese che è espressione di una sentita e solare mediter-raneità. Coroneo, nel corso degli anni, giunge a negare la teoria

mimetica dell’arte a favore di quella espressiva che si ri-scontra, soprattutto nel suo essere e palesarsi scultore.La sua arte primaria è la conoscenza della materia della

sua terra (pietra, argilla, legno) che egli lavora e con la qua-le – in relazione alle sue proprietà intrinseche – definisceun rapporto dialettico tale da essere essenziale nel proces-so plastico di elaborazione del prodotto creativo.Il suo realismo è cogliere la vita nella sua contradditto-

rietà cioè come espressione di sentimenti opposti: sereni-tà-ansia, gioia-dolore, vita–morte. Il suo modus operandi èveramente unico: nell’iconografia che si caratterizza nel-l’essenzialità degli elementi compositivi; nel linguaggioformale, che definisce le forme con sapiente manualità;nell’iconologia associante il suo pensiero artistico conl’espressione icastica che il fruitore coglie nell’immediatez-za della veduta scultorea.Il suo linguaggio artistico non è meramente descrittivo,

ma traduce gli aspetti percettivi e coscienti del suo mondointeriore diventando, attraverso il ritmo spaziale, ars poe-tica di linee, luci, ombre, colori.I contenuti delle sue opere si sostanziano nella gramma-

tica del linguaggio artistico rispecchiando il suo pensiero.L’artifex esprime quindi nel particolare formale, un’esigen-za indefinita nella finitezza fisica, la sua autonomia di con-tenuto etico-estetico in una limitazione della realtà e,conseguentemente, il suo codice artistico non è macchino-so e artefatto, bensì autentico e spontaneo, chiaro ed elo-quente. Ma, per cogliere questi aspetti bisogna impos-sessarsi dell’opera di Coroneo cioè osservarla in tutta lasua pienezza e nella molteplicità dei suoi aspetti. Soltantocosì il fruitore, al di là di percezioni meramente fisiche,può esaminare che ogni parte si integra con le altre per

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ARTISTI SALENTINI

“Metamorfosi” - Ferro e terracotta

“Fatica e sudore” - Ferro e terracotta

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esplicitare il significato recondito dell’autore. La configu-razione del significato nella forma è la sintesi dei contenu-ti di coscienza con gli aspetti formali nell’implicanza delsuggestivo ed attuale tema prescelto dall’autore.Nelle opere del Nostro la presenza di più immagini è un

avvicendarsi di molteplici momenti della successione sti-listica, ma il processo creativo è unico come unica rimanel’immagine finale e altrettanto unici ed indissolubili sonoi rapporti compenetrativi di forme e contenuti, evidenzia-ti dalla pienezza dei valori plastico-volumetrici ed etico-estetici espressi.I suoi prodotti artistici non sono il risultato di un lavoro

meccanico. Il fare tecnico dello scultore nasce dalla consa-pevolezza che gli elementi del linguaggio dell’arte non so-no simboli dell’animo dell’artista, bensì è il suo animostesso che si concretizza nelle diverse forme formate. Il suoscopo, infatti, rimane quello di coinvolgere l’osservatoreaprendo uno spazio alla sua immaginazione di berninianamemoria.Nel suo atelier, nel cen-

tro storico di Galatina,egli ha consumato gli an-ni della sua vita operan-do con passione e de-dizione e realizzandoopere dai soggetti sacri eprofani, ma attestanti tut-te i diversi periodi dellasua produzione artistica,approdati ultimamentenell’abbinamento di ma-teriali poveri (terracotta efil di ferro). Quest’ultima produ-

zione ha avuto un riscon-tro lusinghiero, a Mesa-gne, dove l’artista è statopremiato quale primoclassificato (ex-aequo con lo scultore galatinese Franco Mar-tinucci) alla V Collettiva Regionale d’Arte, il 29 luglio 2018.La scultura, metamorfosi della morte in vita, rappresen-

ta l’albero d’ulivo che da un lato evidenzia il male che lo hacolpito (xylella) poiché le foglie risultano secche, ormai an-nichilite dal morbo; mentre, dall’altro lato una donna, i cuicapelli si trasformano in rigogliosi virgulti, dà alla luce un

neonato impregnato di sangue. E’ la vita che rinasce: dopoun tragico evento, vi è sempre il rinnovarsi e il rinvigorir-si poiché “non si possono fermare le onde ma si può impa-rare a cavalcarle”. Ma, nella sua opera, abilmente plasmatanella forma, c’è anche un monito che rimane attuale quel-lo della resilienza cioè della capacità, da parte dell’uomo ingenere, “di far fronte in maniera positiva a eventi dram-matici, di riorganizzare positivamente la propria vita di-nanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibile alleopportunità positive che la realtà offre, senza alienare lapropria identità”. Nell’opera si contempla l’univoco signi-ficato della forma e anche l’altrettanto univoco valore chegli elementi compositivi assumono in un variegato dispie-gamento scultoreo.Gli elementi della realtà, presi a modello dalla natura,

divengono espressione della spiritualità che è nell’uomoCoroneo e non nelle cose, enucleazione quindi di quellasua coscienza del fare che lo contraddistingue più comeartista che come artigiano pur abile. Il saper “vedere” den-

tro ed oltre i limiti dellecose attribuendo una si-gnificazione umana agliaspetti esteriori dell’esi-stenza è un ulteriore con-quista dello scultore chepian piano sta comple-tando il puzzle della suapoetica artistica. D’altronde lo stesso

scultore verseggia:” “L’arte è sentimento inte-

riore.L’arte è forza aggregatrice

del sommerso.L’arte è creazione del-

l’idea che si ha dentro.”Dalle introduttive for-

me naturalistiche date,l’autore è giunto a forme create, dalle iniziali analisi pre-sentative è pervenuto a sintesi rappresentative, dall’ecces-siva insistenza sui valori tattili legati alla illustrazionecompositiva e alla decorazione cromatica è approdato sulversante di un’arte creatrice di forme-formate il cui valoreè nell’artista e non nel “dato” semplicemente naturalisti-co. •

gennaio/marzo 2019 Il filo di Aracne 43

“Taurus moriens” - Ferro e terracotta “Albero della vita” - Ulivo

“Giorgio Bassa” - Ulivo e ferro

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Durante quella mattina d’agosto, Chicco lavorò tan-to e così a lungo da rimanere assorto, stordito, qua-si assente, senza rendersi conto dello scorrere del

tempo.Forse ‘u faugnu di quel giorno, caldo, umido, asfissiante

e interminabile, lo aveva confuso a tal punto da fargli per-dere l’orientamento e il senso reale delle cose.Solo le lunghe teorie delle filze di tabacco stise a llu sole

su lli talaretti davano il segnale evidente e indiscutibile dellavoro fatto e del tempo trascorso.Nella ramesa, i muntuni de fujazze de tabaccu distribuiti per

terra e opportunamen-te distanziati fra lli sset-taturi si erano manmano assottigliati, oesauriti del tutto.I vagnuni, abbando-

nati i cuccetti e lasciatele cuceddhre per terra,avevano già provvedu-to alla pulizia dellemani.Eliminavano il gras-

so giallastro, rilasciatodalle foglie della zzacu-vina e accumulato sullapelle, chi strofinandole mani con la polveredi tufo, chi con chicchidi uva acerba, chi conla buccia di pomodoro.Subito dopo, senza perdere tempo, avevano ripreso già

a scioculisciare cu lli tuddhri sotto l’albero di noce, o cu llu cu-ruddhru sul piazzale in terra battuta, dura e assestata, ilquale, dopo una breve ansa, immetteva sveltamente sullungo vialone.Anche Fido, per quel vociare insistente e concitato, si era

svegliato dal suo torpore e annusava incuriosito o li tud-dhri che saltellavano per terra, o lu curuddhru ca fitava perterra.Scodinzolava e guaiva, perché si sentiva trascurato.Ma non demordeva: girava tornu tornu ai bambini acco-

vacciati per terra, o a quelli che in piedi giocavano con latrottola.Sembrava chiedesse loro di farlo partecipare al gioco.Voleva essere coinvolto. Ma invano.Comunque si appassionava a saltellare contento fra un

gruppo e l’altro, mentre tutti erano freneticamente indaffa-rati nei loro piccoli giochi.Ma lui continuava ad abbaiare divertito, mentre fiutava

con la lingua penzoloni ogni oggetto in movimento.E, mentre si spostava da un gruppetto all’altro, solleva-

va col tramestio delle zampe goffe nuvolette di polvere cheimbiancavano capric-ciosamente la ricited-dhra, sparsatutt’intorno per terra amacchia di leopardo.Di più lo incuriosiva

‘u curuddhru, che spes-so afferrava con i denti,quando, finita la suacorsa, si adagiava suun fianco.Era proprio quello il

momento giusto.Qualche volta appro-

fittava per filare via disoppiatto cu llu curud-dhru fra i denti nel vici-no vigneto, nascon-dendosi sotto un fron-doso cippone.

Aprite celu!Inseguito immediatamente con una gragnola de paddhrot-

te, era costretto a mollare la presa e a starsene lontano, incastigo, per un po’ di tempo.Intanto le languide nenie campagnole che si cantavano

ininterrottamente per ammazzare il sonno prepotente e ca-priccioso si erano quasi spente.Non rimbalzavano più sotta lla suppinna i ritornelli liquo-

rosi di “Quel mazzolin di fiori”, o di “ Mamma mia dammi cen-to lire…”, o di “Vola vola vola“.In quel silenzio vi era il segnale ca tutti ianu zzatu le raz-

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SUL FILO DELLA MEMORIA

Ragazzi che giocano a tuddhri

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ze: spacu, cuceddhra e fujazze giacevanoper terra accanto a lli settaturi.Finalmente si era arrivati alla sospi-

rata pausa pranzo.Questa consisteva più esattamente in

un breve intervallo, un passaggio comeun lampo, perché si riprendeva nel po-meriggio dopo una veloce sosta di po-co più di mezz’ora.In questi conteggi il padre di Chicco

non sbagliava mai di un minuto: riusci-va a misurare pure il tempo che occor-reva per aprire la bocca e tirare ’n alu.L’orologio del suo tempo non scandi-

va mai un battito a vuoto e nu’ rimaniamai senza corda.

Nu’ scamiddhrava mai de ‘nu secondu.Era più preciso e prezioso dell’orolo-

gio da taschino, la sua cipolletta con ca-tenina e custodia a scatto in ottone quae là rruggiata, gelosamente custoditanell’ultimo cassetto, in alto, del comò.

Lu vientu de sciaroccu aveva portatofin sopra la casa colonica il rintoccomelanconico di campane sperdute, le quali con un rim-bombo lieve, cadenzato e monotono, poco incisivo e qua-si soffuso per la lontananza, annunciavano che era giàarrivato mezzogiorno.Sembrava fosse passata un’eternità, da quando alle quat-

tro del mattino tutti era stati buttati giù dal letto!Era un destino, quello che precedeva l’alba, che toccava

a tutti senza pietà e senza distinzione.Succedeva ogni giorno, escluso la domenica.Solo qualche minuto di tolleranza era concesso ai più

piccoli per intercessione, previa tacita e sudata intesa, del-la mamma.Poi il rigore da caserma prendeva il sopravvento e ognu-

no svolgeva il suo compito tacitamente assegnato e scolpi-to in modo indelebile nella propria memoria.Quasi una naturale predestinazione dei ruoli.

Sembrava un ordine di servizio, affis-so sulla porta della coscienza di ognu-no.C’era poco da confondersi: i più

grandi scunavanu dalle piante fujazze detabaccu con la mano destra, riunendolecol picciolo in alto e congiungendole amazzetti tenuti ristretti con l’altra manocontro la parte sinistra del petto.Una volta divenuti ingombranti, li

depositavano per terra nella strettapasserella fra le piante maestose dellazzacuvina.I più piccoli invece, che seguivano a

breve distanza, li recuperavano conuna carriola traballante fra le paddhrot-te e li trasportavano nella ramesa, distri-buendoli sul pavimento in piccolimucchi.Intanto, in questo scorrere lento, ca-

denzato, inesauribile del tempo, nel-la mente di Chicco si accavallavano inconfusione molte immagini del pas-sato.

Tante venivano da un profondo passato, da molto lonta-no, sparse nell’inconscio come se fossero scivolate giù al-l’improvviso da un cassetto impolverato, di sicurodimenticato in un angolo remoto della memoria.Erano brandelli leggeri e vaganti, sbiaditi e trasparenti

come la nebbia tremula di un mattino d’estate.Immagini dei suoi primi turbamenti sentimentali veni-

vano giù a cascata, puerili, delicati, già castigati nella men-te alla sorgente del pensiero, scurnusi e riservati, quasi allimite di una inconsapevole reticenza. Sembravano avvolte nella nebbia, ma, di tanto in tanto,

diventavano immagini chiare, nitide, precise nei contorni,evidenti e marcate nei dettagli, dove le ombre e le luci in-gaggiavano una continua, infinita, alterna rincorsa per po-sizionarsi al centro dell’attenzione.Fantasmi e realtà vere, imperiose e vivaci, confuse insie-

Curuddhru risalente ai primi ‘900

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me, giocavano crudelmente a rimpiattino nei meandri del-la memoria.Sembravano immagini virtuali, come quelle inventate

oggi dalla tecnologia informatica; quindi ingannevoli, fal-se ed evanescenti come quelle che non appartengono allospirito e non nascono dalle pulsazioni del cuore.Le reminiscenze

di Chicco contene-vano invece sorrisifugacemente accen-nati, sguardi inno-centi i quali, nonreggendo il confron-to, subito si abbassa-vano, mentre le pal-pebre con un brevetic nervoso muove-vano giù le ciglia.Un delicato, im-

percettibile tremolioschermava natural-mente gli occhi conriservata, impalpabi-le tenerezza.Poi quei sorrisi si

stemperavano in so-spiri impercettibiliche tradivano emozioni nascoste, a malapena celate e maisopite.Ad ogni incontro, il pallore del volto diventava lo spec-

chio fedele della sua ansia e della sua preoccupazione.Le gote, ravvivate da un leggero rossore, tradivano un

segreto turbamento che attraversava silenzioso e discretoil suo animo.

Il cuore galoppava sussultando con delicati battiti, ap-pena repressi.E in questa altalena di emozioni e di sentimenti veniva a

galla il primo dei ricordi, il più riservato in assoluto.Sovrastava tutti gli altri per la delicata bellezza della sua

formazione.Era quello del pri-

mo incontro, del pri-mo sentimento ri-cambiato attraversouno sguardo fugace-mente accennato,breve e pudico, deci-so e veloce come unbattito d’ali.E il sentimento del-

l’amore non è altro senon un battito d’ali,esili, delicate e poli-crome come quelle diuna delicata farfalla,sicuramente la partepiù nobile dei nostripensieri.Dovremmo met-

terlo sempre a casset-ta per fargli guidare,

scurisciatu alla manu, la nostra bizzarra, disordinata, trabal-lante diligenza della vita.Forse, solo così, riusciremmo a tenere a bada il pulsare

avvolgente delle nostre passioni, l’accavallarsi incontrolla-to dei nostri istinti e diventare sul serio, ma soprattutto inmodo definitivo e credibile, uomini veri. •

Bambine e adolescenti intente a ‘nfilare foglie di tabacco

pippi onesimo

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