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4. Giovane cavaliere (Dioscuro?) sorretto da una …...detto ‘Cavaliere Marafioti’ 420-400 a.C....

Date post: 24-Apr-2020
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Relazione di restauro Il Gruppo equestre di Locri Epi- zefiri tra tecnologia e intervento di restauro di Sante Guido e Giuseppe Mantella Si desidera ringraziare Claudio Sab- bione, archeologo e noto conoscitore degli scavi di Locri Epizefiri per aver fornito utile materiale bibliografico e molti preziosi consigli. I numero- si colloqui con lo studioso hanno ad esempio messo in evidenza il fatto che non tutta l’area di rinvenimento dei frammenti fittili è stata oggetto di scavo, né all’epoca di Paolo Or- si, né successivamente. Alcune aree limitrofe devono ancora essere inda- gate. Non è da escludersi che future, auspicabili indagini archeologiche dell’intera area possano riservare in- teressanti scoperte anche in relazione al gruppo fittile in esame. È d’uopo rivolgere un ringraziamento oltre che a Simonetta Bonomi, artefice del progetto di restauro, al nuovo diret- tore del Museo Nazionale, Carmelo Malacrino e a tutto il personale di vi- gilanza che ci ha accolti con simpatia e cordialità sin dal primo momen- to, rendendo il cantiere di restauro ‘aperto al pubblico’ un ideale luogo di lavoro. 1. Cavaliere di Marafioti nel 1925. Ricostruzione dei frammenti sulla base dell’ipotesi di Paolo Orsi tecnica/materiali gruppo statuario a tutto tondo, terracotta policroma (tracce superstiti dei colori) dimensioni alt. 132 cm (gruppo); 125 × 50 cm (base) provenienza Locri (Reggio Calabria), località Marafioti, tempio greco, scavo del 1910 collocazione Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale (inv. 10475) relazione di restauro Sante Guido, Giuseppe Mantella relazione tecnico-scientifica Andrea Bloise, Donatella Barca, Marco Cappa, Raffaella De Luca, Mauro Francesco La Russa, Domenico Miriello, Gino Mirocle Crisci, Alessandra Pecci, Valentino Pingitore, Silvestro Antonio Ruffolo; Rosanna Pesce restauro Sante Guido, Giuseppe Mantella (Guido-Mantella restauratori associati) con la direzione di Simonetta Bonomi indagini fotogrammetriche Brettia s.n.c. sponsorizzazione tecnica per i servizi digitali digi.Art di Rosanna Pesce, Servizi digitali per l’Arte Giovane cavaliere (Dioscuro?) sorretto da una sfinge, detto ‘Cavaliere Marafioti’ 420-400 a.C. 4.
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Page 1: 4. Giovane cavaliere (Dioscuro?) sorretto da una …...detto ‘Cavaliere Marafioti’ 420-400 a.C. 4. Il Gruppo equestre di Locri Epizefi-ri, come venne chiamato da Paolo Orsi al

Relazione di restauro

Il Gruppo equestre di Locri Epi-zefiri tra tecnologia e intervento di restaurodi Sante Guido e Giuseppe Mantella

Si desidera ringraziare Claudio Sab-bione, archeologo e noto conoscitore degli scavi di Locri Epizefiri per aver fornito utile materiale bibliografico e molti preziosi consigli. I numero-si colloqui con lo studioso hanno ad esempio messo in evidenza il fatto che non tutta l’area di rinvenimento dei frammenti fittili è stata oggetto di scavo, né all’epoca di Paolo Or-si, né successivamente. Alcune aree limitrofe devono ancora essere inda-gate. Non è da escludersi che future, auspicabili indagini archeologiche dell’intera area possano riservare in-teressanti scoperte anche in relazione al gruppo fittile in esame. È d’uopo rivolgere un ringraziamento oltre che a Simonetta Bonomi, artefice del progetto di restauro, al nuovo diret-tore del Museo Nazionale, Carmelo Malacrino e a tutto il personale di vi-gilanza che ci ha accolti con simpatia e cordialità sin dal primo momen-to, rendendo il cantiere di restauro ‘aperto al pubblico’ un ideale luogo di lavoro. 1. Cavaliere di Marafioti nel 1925. Ricostruzione dei frammenti sulla base dell’ipotesi di Paolo Orsi

tecnica/materiali gruppo statuario a tutto tondo, terracotta policroma (tracce superstiti dei colori)

dimensioni alt. 132 cm (gruppo); 125 × 50 cm (base)

provenienza Locri (Reggio Calabria), località Marafioti, tempio greco, scavo del 1910

collocazione Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale (inv. 10475)

relazione di restauro Sante Guido, Giuseppe Mantella

relazione tecnico-scientifica Andrea Bloise, Donatella Barca, Marco Cappa, Raffaella De Luca, Mauro Francesco La Russa, Domenico Miriello, Gino Mirocle Crisci, Alessandra Pecci, Valentino Pingitore, Silvestro Antonio Ruffolo; Rosanna Pesce

restauro Sante Guido, Giuseppe Mantella (Guido-Mantella restauratori associati)

con la direzione di Simonetta Bonomi

indagini fotogrammetriche Brettia s.n.c.

sponsorizzazione tecnica per i servizi digitali

digi.Art di Rosanna Pesce, Servizi digitali per l’Arte

Giovane cavaliere (Dioscuro?) sorretto da una sfinge, detto ‘Cavaliere Marafioti’420-400 a.C.

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Il Gruppo equestre di Locri Epizefi-ri, come venne chiamato da Paolo Orsi al momento della sua scoper-ta, deriva dal riassemblaggio dei frammenti in terracotta rinvenuti durante le campagna di scavo del 1910 sul fianco occidentale del tempio dorico esastilo in località ‘Casa Marafioti’ (dal nome della famiglia proprietaria del luogo ove fu rinvenuto il tempio); dallo stes-so scavo furono prelevate decine di altri elementi decorativi che hanno reso possibile ricostruire parte de-gli ornamenti fittili policromi del tempio stesso, fra cui sime e ante-fisse a protome leonina. Il cosid-detto Cavaliere Marafioti è frutto dell’attento lavoro di assemblaggio di 186 frammenti ca ad opera del restauratore Giuseppe Damico gra-zie alla ricostruzione grafica di Ro-sario Carta, su indicazione di Orsi. Una prima ipotesi ricostruttiva dei frammenti venne presentata in un articolo del 1911 a firma di Paolo Orsi (Orsi 1911), mentre nel lun-go resoconto (Orsi 1925) pubbli-cato nel 1925 è descritta l’opera ricostituita per come oggi appare (fig. 1). Durante l’intervento di ri-composizione furono assemblati i numerosi frammenti per mezzo di staffe, grappe metalliche, supporti

interni di diversa natura, quali le-gno e stucco, al fine di recuperare nella sua interezza l’articolata opera plastica che raffigura un giovanet-to a cavallo sorretto da una sfinge; per raggiungere tale scopo furono necessarie importanti reintegra-zioni, indispensabili per risarcire le numerose lacune, ma anche per assicurare la tenuta statica dell’in-tero manufatto. Dopo il restauro eseguito tra il 1923 e il 1925, non sono documentati ulteriori inter-venti conservativi, se non di manu-tenzione, resisi necessari nella zona delle zampe anteriori del cavallo, delicatissime e attualmente fissate sul retro con piccole staffe metal-liche e ampiamente reintegrate alla base con un materiale diverso da quello utilizzato da Damico.Gli scritti relativi alla ricostruzione del gruppo fittile, le osservazioni e le considerazioni sui molti fram-menti, corredati da una dettagliata documentazione grafica e fotogra-fica, si sono rivelati un prezioso au-silio nella fase di studio preliminare all’attuale intervento di restauro; a questi si è aggiunta l’analisi tecno-logica dell’opera stessa nella con-sapevolezza che, parafrasando una celebre frase di Cesare Brandi, un intervento conservativo si pone

quale occasione unica per il rico-noscimento e lo studio dell’opera d’arte (figg. 2-5). Il restauro appena concluso, infatti, resosi necessario viste le cattive condizioni conser-

vative nelle quali versava l’opera, è stato anche l’occasione per ana-lizzare e approfondire la genesi del manufatto e lo studio dello straor-dinario restauro ricostruttivo. Nel

2. Prima del restauro, lato destro del gruppo fittile 3. Prima de restauro, lato sinistro del gruppo fittile

4. Prima del restauro, fronte del gruppo fittile

5. Prima del restauro, retro del gruppo fittile

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Gruppo equestre di Locri Epizefiri è stato riconosciuto che: «il giovane cavaliere [databile alla seconda me-tà del V sec. a.C.] che incombe sulla sfinge sia un essere divino, e preci-samente un Dioscuro» (Orsi 1925, p. 362). I due figli di Zeus – esisteva verosimilmente anche la figura del gemello, andata perduta – erano «considerati come numi tutelari e difensori della città di Locri Epi-zefiri» (ibidem, e poco oltre: «non escludo affatto che anche qui si ab-bia una rappresentanza dei Dioscu-ri»); a seguito della loro miracolosa apparizione a fianco dei Locresi nella battaglia campale del fiume Sagra contro le truppe d’invasione di Crotone nel 560-550 a.C., il cul-to per i Dioscuri si era consolidato presso le popolazioni locali. Il grup-

po rappresenta un esempio partico-larmente significativo della grande perizia raggiunta dagli artigiani della Magna Grecia nella lavorazio-ne della terracotta, impiegata non solo per la realizzazione delle deco-razioni architettoniche e di statuet-te votive di piccole dimensioni, ma anche per simulacri di grande for-mato. La complessa scultura eque-stre è tradizionalmente considerata un acroterio realizzato per essere collocato sul vertice del triangolo frontonale sul lato occidentale del tempio dedicato a Zeus, venerato a Locri come protettore della città. Ipotesi riconosciuta quale preferen-ziale dallo stesso Orsi che più vol-te ebbe a sottolineare la probabile «funzione acroteriale del gruppo» (Orsi 1925, p. 364) senza tuttavia

dimenticare che «il gruppo Mara-fioti è un’opera plastica autonoma che poteva anche figurare al vertice di un pilastro o come ex-voto» (ivi, p. 359). Osservazioni queste ultime che danno importanti indicazioni per l’analisi tecnologica dell’opera in esame.Il gruppo fittile si presenta costi-tuito dall’assemblaggio di quattro grandi elementi plastici distinti (a differenza di quanto suggerito da Orsi, che cita tre grandi figure riferendosi ai tre ‘personaggi’ che costituiscono il gruppo, nel nostro caso si tratterà l’insieme come com-posto da quattro porzioni princi-pali in quanto la sfinge è risultata essere formata da due elementi distinti, modellati singolarmente), realizzati separatamente nell’argilla

fresca, con spessori medi piuttosto consistenti corrispondenti a 3/4 cm ca, successivamente connessi tra loro: il giovinetto, il cavallo, il corpo leonino e il busto antropo-morfo dalle fattezze femminili. Le quattro parti sono a loro volta costituite da porzioni più piccole unite tra loro: la frequenza con la quale fratture e fessurazioni si sono generate seguendo linee nette sta a dimostrare che tali fenomeni di alterazione sono dovuti alle sezioni originali e corrispondono a preci-si punti critici, riferibili alle linee di accostamento delle porzioni di modellato in fase di assemblaggio. Vista la complessità della compo-sizione, fatta di tre figure che si sovrappongono le une alle altre, il lavoro di modellazione deve essere

6. Prima del restauro, zampa posteriore destra della sfinge 7. Prima del restauro, incisioni che simulano il vello sulla zampa posteriore sinistra della sfinge

8. Prima del restauro, grande ala sinistra della sfinge 9. Prima del restauro, particolare delle incisioni preparatorie sull’ala sinistra della sfinge

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partito dalla base: una lastra di ar-gilla piena dello spessore di 7 cm che misura 50 × 125 cm. Sulla sud-detta base è stata inizialmente rea-lizzata la figura leonina modellando lastre di argilla – dello spessore di 4 cm ca – perfettamente regolari, in modo da costruire il corpo cilindri-co appoggiato al piano e ‘rinforza-to’ con porzioni di supporto, inse-rendo lastre rettangolari più piccole all’altezza dell’addome. La parte anteriore del corpo leonino termi-na in corrispondenza dello sterno con una parete verticale che rende perfettamente conclusa la defini-zione plastica dell’animale, privo della testa. Le zampe posteriori si compongono di branche provviste di artigli realizzate a modellazione piena e perfettamente adese alla la-

stra di supporto (fig. 6), mentre le cosce risultano vuote, in quanto ot-tenute dalla modellazione di lastre spesse 1,5 cm ca, successivamente decorate riproducendo la consi-stenza del vello grazie all’uso della stecca con la quale furono praticate incisioni nette e precise sull’argilla fresca (fig. 7). La coda, che si at-torciglia su se stessa formando un anello, è priva del ciuffo terminale; costituita da volume pieno venne prodotta separatamente e succes-sivamente applicata alla figura me-diante argilla fresca, secondo il me-desimo procedimento con il quale furono realizzate le due grandi ali il cui spessore supera, in alcuni casi, i 3,5 cm (fig. 8). Realizzate ciascuna da un’unica grande lastra d’argilla sagomata a forma triangolare, le ali

vennero assemblate al corpo della sfinge accostando la parte anterio-re al fianco del felino e all’attacco delle spalle della figura femmini-le, lasciando la porzione termina-le libera da vincoli con un effetto ‘a giorno’ di estrema leggerezza e ariosità. Il modellato naturalistico del piumaggio venne definito dal disegno delle singole grandi penne, incidendo l’argilla fresca con tagli lunghi e regolari successivamente arrotondati e variati in modo da suggerire la sovrapposizione del soffice tegumento che ricopre la struttura portante delle ali (fig. 9). Come si evince dall’osservazione ravvicinata del manufatto, per conferire una maggiore consistenza plastica alla parte centrale, le piume vennero realizzate per sovrapposi-zione di un sottilissimo strato di argilla più raffinata, dello spessore di 2 mm ca, che fu poi modellata per definire i volumi, sulla base del disegno inciso con una punta sot-tile nell’argilla fresca sottostante. Con il tempo, in alcuni punti sul lato sinistro del manufatto, questo sottile strato di raffinata finitura si è distaccato mettendo a vista le linee guida originarie. La figura della sfinge (fig. 10) è co-stituita, oltre che dal corpo ferino, dalla parte anteriore antropomorfa a foggia di mezzo busto femminile. Modellata separatamente con lastre di argilla dello spessore di 3,5 cm

ca, è composta da quattro parti: la testa, della quale per quanto riguar-da il volto si conserva solo parte del-la bocca e del mento, e tutta la parte frontale e la calotta cranica, com-presa la zona occipitale dalla capi-gliatura a ciocche corte e morbide, modellate sul retro e rialzate sui lati applicando piccole porzioni di impasto argilloso successivamente incise a spigoli vivi per restituire la naturalistica volumetria dei riccio-li; sul lato destro è perfettamente conservato anche l’orecchio che presenta la particolarità di avere il lobo forato, forse per collocarvi un elemento decorativo. Un grumo d’argilla, che sembra conservare le impronte digitali dell’artefice, venne sommariamente applicato dietro la nuca a modellazione ulti-mata per incrementare e rafforzare il punto di assemblaggio del capo al resto della composizione. Il busto cilindrico, piuttosto rigido, è rea-lizzato con un’unica lastra irregola-re ricurva (di 36 × 31 cm ca) che anche sul retro scende dall’altezza delle scapole fino alla base. Tale ele-mento plastico a tutto tondo è net-tamente staccato dalla parte termi-nale del tronco del leone, dal quale risulta distante 20 cm ca (fig. 11): le due modellazioni, pur compo-nendo la stessa figura, costituisco-no, dal punto di vista tecnologico, due manufatti distinti e totalmente indipendenti, come già rilevato in

10. Prima del restauro, busto della sfinge, visione frontale

11. Prima del restauro, spazio cavo tra il busto della sfinge e il tronco della figura leonina uniti da un puntello distanziatore

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precedenza. Le due braccia, realiz-zate ciascuna in un’unica soluzione, sono piegate a forma di ‘U’, dalla spalla al gomito risalendo sino a metà avambraccio. La linea netta di frattura presente al di sotto del polso esplicita la suddivisione del modellato delle porzioni originali e al tempo stesso la distinzione tra braccio umano e zampa animale, provvista del tipico rigonfiamento corrispondente al malleo lo ferino. La parte terminale degli arti, in-fatti, acquista la forma di branca a quattro artigli che si chiudono at-torno al piede del cavaliere: si tratta di elementi eseguiti a modellazione piena, realizzati separatamente e as-

semblati all’avambraccio (fig. 12). Lungo tutto l’avambraccio destro è visibile il distacco di parte del-lo strato più superficiale di argilla – dello spessore variabile tra i 2 e i 5 mm –, che permetteva un mi-gliore assemblaggio fra le due parti. Quest’ultimo, collassato nel tem-po, ha messo in evidenza le superfi-ci sottostanti che si sono rivelate già perfettamente levigate e di dimen-sioni minori rispetto all’esito fina-le denunciando un vero e proprio ‘pentimento’ in corso d’opera, al pari di quelli che, in molti dipinti, vengono scoperti sotto lo strato pit-torico visibile, rivelando modifiche apportate alla raffigurazione rispet-

to al disegno originario. Proprio a causa della regolarità delle superfici sottostanti già rifinite, lo strato so-prammesso per ispessire il volume e meglio definire l’anatomia animale della zampa ha ceduto con il passa-re del tempo, non avendo un’area di contatto sufficientemente scabra che ne garantisse il perfetto aggrap-paggio.Il busto femminile, del tutto au-tonomo, è appoggiato sulla base e unito al corpo animale solo grazie alla parte terminale delle ali, appli-cate lungo la schiena della figura, grazie alle quali le due parti – uma-na e animale – appaiono in assoluta continuità in modo da connotare

la specificità anatomica della figura demoniaca. La giuntura è perfetta-mente nascosta dall’applicazione del sottile strato di argilla al quale si è accennato in precedenza, atto a definire le singole piume. Nello spazio di risulta tra la parte poste-riore del busto e la terminazione del corpo animale resta un vano rettangolare, di 20 × 27 cm ca, che permette di visionare le superfici interne. Al centro di tale area, nel punto di maggiore altezza a 35 cm ca dalla base, è posto un grosso tenone di raccordo, anch’esso di argilla, che suddivide lo spazio in due zone circolari e assicura una migliore tenuta all’assemblaggio

13. Durante il restauro, testa del cavallo, particolare del lato destro meglio conservato

14. Durante il restauro, muscolatura del busto del cavallo. Evidente la sovrapposizione degli strati d’argilla per ottenere gli spessori desiderati in fase di modellazione del manufatto

12. Durante il restauro, avambraccio destro della sfinge a modellazione piena

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dei due manufatti. Anche il caval-lo è realizzato in più porzioni ove piene, come nel caso delle zampe, ove vuote, come per la modellazio-ne del corpo e della testa ricavati da lastre di argilla dello spessore di 3,5 cm ca. Il capo (fig. 13), sapiente-mente plasmato fin nei particolari delle vene in evidenza e delle pieghe prodotte dalla tensione muscolare dello sforzo, è realizzato in un’uni-ca soluzione che comprende tutto il cranio, la criniera e parte del collo per 20 cm ca sotto la mandibola. Una netta linea orizzontale di frat-tura pone in evidenza il punto di giunzione fra le parti. Il petto, dalla muscolatura ben definita e l’intera corporatura testimoniano la ma-estria dei coroplasti locresi per la regolarità degli spessori e l’armonia delle proporzioni. Quanto illustra-to per le braccia/zampe della sfinge ha trovato riscontro nel modellato del cavallo, in quanto sono state rilevate porzioni già perfettamente rifinite nel disegno delle masse mu-scolari alle quali venne sovrapposto uno strato, dello spessore che varia da 1 a 4 mm (fig. 14). In questo caso tuttavia l’intervento non ap-pare finalizzato alla regolarizzazio-ne dell’assemblaggio di due parti di modellato e sembra invece motiva-to dall’esigenza di aumentare la resa volumetrica della muscolatura, ar-monizzando le proporzioni dei vo-

lumi piuttosto che modificandone l’anatomia. È possibile osservare tale fenomeno sotto l’articolazione della zampa anteriore sinistra flessa. Le lesioni presenti sul petto denun-ciano, inoltre, un pregresso proces-so di distacco dello strato sopram-messo in tutta la zona frontale. È interessante osservare che la cri-niera è realizzata applicando sottili lastre di argilla, inserite di taglio se-guendo due linee verticali parallele, che furono successivamente incise con una punta sottile per disegnare l’andamento sinuoso delle singole ciocche. Nel tempo, a causa della ridotta superficie di contatto, la co-esione tra le parti è venuta meno provocando il collassamento delle lastre che formavano la criniera e la conseguente perdita di gran parte di questo dettaglio. Per la stessa ra-gione sono oggi assenti le orecchie, delle quali resta traccia nella corona circolare visibile in corrispondenza dell’originario attacco al capo del destriero. Gli occhi, perfettamente definiti nell’intaglio dell’argilla fresca (fig. 15), presentano il disegno delle pal-pebre e delle arcate cigliali, mentre la pupilla semisferica, mancante nell’orbita destra, si conserva in-tegra in quella sinistra; la cura con la quale venne modellata è emersa dall’osservazione al microscopio ottico che ha permesso di indivi-

duare una sottile incisione circola-re praticata per definire la pupilla all’interno della sclera. Anche in questo caso è possibile affermare che, data la levigatezza delle super-fici visibili nell’incavo destro, i globi oculari vennero realizzati separata-mente e poi inseriti all’interno delle palpebre. L’estrema attenzione nel modellato si rileva anche nel muso del cavallo che, in modo da consentire la raffi-gurazione della bocca aperta e i det-tagli della dentatura e della lingua, è caratterizzato da una mandibola pronunciata, plasmata a tutto ton-do, piena e adesa al supporto per pochi centimetri (fig. 16). Infine la grande coda, lunga 70 cm ca a mo-dellazione piena, appare formata da ciuffi di crini disegnati per mezzo di tagli netti e precisi praticati nell’ar-gilla morbida; date le dimensioni e la struttura non è solo un ele-mento figurativo di grande effetto, ma svolge anche una funzione di raccordo e di coesione tra le parti. Le zampe anteriori rampanti sono anch’esse realizzate a tutto tondo e a modellazione piena, con un ag-getto di 40 cm; ancorate al petto del cavallo, si appoggiano in parte alla testa della sfinge, mentre due grandi tenoni orizzontali rendono i due elementi solidali tra loro. Anche il giovinetto (fig. 17) è rea-lizzato in cinque porzioni; la testa

unita al busto, presenta una rottura esattamente sulla linea di giunzione orizzontale del collo; lo stesso vale per le due braccia con ‘tagli’ visibili immediatamente al di sotto delle spalle. Le due gambe, modellate dall’anca, sono assemblate affian-candole al corpo del cavallo. Nel punto di giunzione della gamba destra, all’altezza della coscia, è possibile osservare la mancanza del sottile strato di argilla che era stato applicato per nascondere la linea di giunzione, a riprova di come le due masse modellate separatamen-te siano state accostate tra loro solo in fase di assemblaggio. Anche in questo caso è presente una zona, corrispondente al polpaccio, nella quale l’ultimo strato di argilla ap-pare essersi distaccato mettendo a vista la superficie sottostante ben rifinita. Interessante osservare che, come già notato da Orsi, le braccia − dal gomito fino alla mano − sono a modellazione piena, come pure le gambe, almeno dal ginocchio sino al piede. La mano destra, accostata al corpo del cavallo e ‘sigillata’ con un leggero strato di argilla fresca che si è distaccata mostrando il punto di attacco, è perfettamente definita nel disegno delle unghie e delle singole falangi serrate in un pugno al fine di trattenere un elemento decorativo a sezione cir-colare oggi perduto (fig. 18). Esclu-

16. Durante il restauro, testa del cavallo, particolare del muso con la mandibola a modellazione piena e precisi dettagli descrittivi

15. Durante il restauro, testa del cavallo, particolare del lato sinistro con il globo oculare conservato all’interno dell’incavo orbitale

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dendo un giavellotto o una lancia, che per la loro lunghezza avrebbero trovato un ostacolo nella gamba e nell’anca del cavallo, si può ipotiz-zare la presenza di una spada corta o un pugnale, ma non è da escludere la presenza di briglie – meglio im-pugnate dalla mano sinistra piega-ta all’altezza del petto e della quale non si conservano le dita – o di un altro elemento decorativo. L’assen-

za di ossidi metallici, generalmente assorbiti dalla terracotta in presen-za di elementi bronzei o in ferro, potrebbe supportare quest’ultima ipotesi ricostruttiva.

Una volta assemblate le diverse parti, il gruppo in argilla fresca venne cotto in un’unica soluzione. Nonostante le dimensioni e la com-plessa articolazione della struttura,

tale operazione venne eseguita con successo, come dimostrano le parti originali superstiti che non presen-tano segni di ritiro o deformazioni dovute a temperature non idonee o ad altri errori in fase di cottura. Co-me da buona prassi esecutiva, pri-ma di questa delicata operazione, erano stati predisposti dei grandi fori ovali di sfiato, ancora oggi ben visibili, posizionati in punti precisi

della scultura al fine di permettere la circolazione dell’aria calda per la cottura delle superfici interne e la conseguente evaporazione dell’ac-qua presente negli impasti d’argilla. Nel caso del cavallo tali fori sono posizionati: uno sul dorso (fig. 19) all’altezza delle anche (15 × 8 cm), uno di piccolissime dimensioni (1,5 cm) nella parte anteriore, na-scosto dietro la testa femminile, e uno rettangolare all’altezza dello sterno (20 × 7 cm). Nella grande porzione di modellato del collo e della testa le aperture di sfiato sono inusualmente assenti. La figura della sfinge presenta, nella parte corrispondente al cor-po leonino, un grande foro (10 × 12 cm) poco sopra l’attacco della coda (fig. 20) e due più piccoli tra le cosce (diametro 5 cm) e infine sulla groppa, nascosta tra le ali, un’apertura rettangolare (25 × 5 cm) in corrispondenza di quella di forma analoga presente sul cavallo. Due grandi fori a sezione circolare irregolare – del diametro di 9 cm ca – sono presenti sui due fianchi all’altezza dell’intercapedine, alla quale si è già accennato, rilevata tra il busto femminile e il corpo ferino; nella parte superiore dell’incavo stesso c’è il grande foro suddiviso dal tenone di assemblaggio che vin-cola le due figurazioni. Sia per il busto femminile che per la figura del fanciullo non sono sta-ti rilevati fori di sfiato, sebbene nel caso del giovane cavaliere, vista la grande estensione delle lacune, non è dato sapere se questi fossero pre-senti nelle porzioni mancanti, co-me la sommità del capo o la parte bassa della schiena. È stato ipotizzato che il Gruppo equestre di Locri Epizefiri fosse collocato sul colmo del tetto del tempio o all’interno del frontone, in entrambi i casi in un luogo sog-getto all’azione diretta degli agenti atmosferici. In considerazione di tale congettura, i grandi fori sul-le terga della sfinge e del cavallo e quello tra il busto femminile e il corpo animale avrebbero necessa-riamente dovuto essere sigillati con appositi ‘tappi’, al fine di evitare

17. Durante il restauro, il gruppo acroteriale dominato dalla figura del giovane cavaliere

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che all’interno delle figure si for-massero sacche di acqua piovana, così come rilevato in altri esempi di coroplastica contemporanea, come ad esempio nel caso delle figure acroteriali del cosiddetto ‘tempio di Portonaccio’ a Veio: l’Apollo e l’E-racle presentano infatti sulle spalle due grandi fori, in corrispondenza dei quali sono state trovate tracce dello stucco utilizzato per sigillare gli stessi con toppe in argilla model-lata in continuità con gli elementi decorativo-plastici della figura (cfr. Guido 2004a; Guido 2004b; Boitani, Guido 2005). L’acqua, infatti, penetrando all’interno delle figura, avrebbe raggiunto le aree cave della scultura dalle qua-li non sarebbe più potuta defluire

all’esterno, come nel caso delle gambe posteriori del cavallo dove avrebbe creato accumuli di più di 23 cm o ancora, nel caso delle ter-ga della fiera leonina, con depositi di liquidi per oltre 13 cm. Diverso il caso della parte anteriore della sfinge tra busto e corpo leonino, ove la pioggia confluita all’interno dell’intercapedine avrebbe potuto facilmente fuoriuscire attraverso un foro, oggi parzialmente chiuso, posizionato al centro della base. L’osservazione dei profili delle se-zioni dei fori, estremamente irre-golari, non ha permesso di rilevare alcun elemento in base al quale af-fermare che i fori stessi fossero in passato sigillati – condizione im-prescindibile per una collocazione

all’aperto –, rendendo in parte du-bitativa l’ipotesi di un’esposizione esterna del manufatto ceramico. Anche l’analisi del sistema di an-coraggio dell’opera non fornisce riscontri plausibili all’ipotesi che il manufatto fosse collocato all’ester-no di una struttura architettonica e dunque esposto all’azione mecca-nica dei venti. L’eventuale presenza di un grande perno ligneo passante tra i due fori ovoidali esistenti sui fianchi della sfinge (fig. 21) non sa-rebbe stata infatti sufficiente ad an-corare il gruppo fittile a una strut-tura di supporto. Si sarebbe trattato di un vincolo posizionato a circa un terzo del lato lungo della base, utile dunque a fissare solo la parte anteriore del manufatto lasciando i

due terzi della lastra, e quindi della scultura, privi di alcun sostegno. Inoltre, la pressione esercitata dal perno ligneo passante sarebbe stata concentrata sulla sezione inferiore del foro, e non distribuita sulla su-perficie della base come sarebbe sta-to più consono, scaricando il peso su un esiguo strato di lastra d’argilla di soli 3,5 cm di spessore, rialzato poco più un cm dal piano d’ap-poggio. Il perno ligneo, dunque, o era stato appositamente modanato attorno al bordo inferiore del foro in modo da essere tangente alla ba-se, oppure era sospeso rispetto alla base stessa rendendo assai precario l’ancoraggio. Va inoltre rilevato che sulla porzione di terracotta origina-le della base non esistono segni del-

19. Durante il restauro, grande foro di sfiato, indispensabile per la cottura della terracotta, posizionato sulla groppa del cavallo

20. Durante il restauro, foro di sfiato sulle terga della figura leonina 21. Durante il restauro, fori ovoidali simmetrici presenti sui fianchi della sfinge

18. Durante il restauro, mano destra del cavaliere a modellazione piena, fase di pulitura delle superfici

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la presenza del perno ligneo, non si è neppure riscontrata nel mo-dellato l’eventuale conformazione di una sede atta a ospitarlo (come invece si è riscontrato nel caso del-le citate statue acroteriali di Veio), né tantomeno tracce di abrasioni provocate dal tenone di ancoraggio alla struttura del tetto. Allo stesso modo sarebbero stati insufficienti i due piccoli perni in piombo del diametro di 1 cm ca, già segnala-ti da Orsi con questa funzione, e tutt’oggi presenti sul lato sinistro della base. Se dunque il sistema di ancoraggio e il posizionamento del gruppo fittile, che si erano conside-rati plausibili in passato, sono stati messi in discussione dalle recenti osservazioni del manufatto, non appare tuttavia possibile presentare ipotesi alternative in quanto la base della struttura è estremamente la-cunosa. Risulta mancante, infatti, oltre il 50% della lastra di suppor-to; è di restauro, ad esempio, l’inte-ra zona posteriore per una porzione di 30 cm ca di lunghezza. Non è quindi possibile sapere se in origi-ne vi fossero in quest’area ulteriori vincoli. Riguardo alla collocazione origina-le del gruppo scultoreo, e alla sua eventuale esposizione ad agenti che possano aver causato la con-sunzione dei materiali, appaiono

rilevanti le condizioni di conser-vazione delle superfici: con la sola eccezione dell’occhio e della parte più aggettante del muso del cavallo, il 90% ca dei frammenti che costi-tuiscono il lato sinistro si presen-tano, rispetto al lato destro, molto più deteriorati essendo interessati, oltre che dalla perdita degli strati d’ingobbio, da accentuati processi di alveolizzazione e decoesione del materiale ceramico, sino alla for-mazione di fessurazioni, specie sul collo del cavallo. Decoesioni e fes-surazioni che non risultano essere la conseguenza della lunga giacitu-ra dei frammenti nel terreno pri-ma del loro rinvenimento, quanto piuttosto dell’esposizione diretta all’azione degli agenti atmosferici e dell’irraggiamento diretto del so-le concentrati sul lato sinistro più esposto. I frammenti in esame, in-fatti, presentano, come sarà meglio illustrato in seguito, tracce di colore all’interno delle abrasioni.Considerando la conformazione della scultura, nella quale il lato preferenziale della visione è il de-stro – la figura del cavaliere presen-ta su tale lato il braccio abbassato aprendo quindi la composizione rispetto alla rigida simmetria fron-tale –, è stato supposto il suo inse-rimento nella struttura frontonale del tempio, con il profilo destro

a vista e dunque più esposto agli agenti atmosferici e il sinistro acco-stato alla parete. Tuttavia, il pessi-mo stato di conservazione del lato sinistro della scultura permette di escludere in via definitiva l’ipotesi che il manufatto fosse originaria-mente posizionato all’interno dello spazio del frontone (sul posiziona-mento di gruppi fittili a ornamento del cavo frontonale dei templi, con specifico riferimento a figure eque-stri, cfr. Bagnasco Gianni 2009, pp. 93-139). Più verosimile, e più accreditata resta allora «la funzione acroteriale del gruppo», destinato a ornare la cuspide del tetto del tem-pio, sul lato occidentale ove furono rintracciati i frammenti; modellato per essere visto su un lato, ornava probabilmente la sommità dell’edi-ficio insieme al gemello posiziona-to specularmente sul fronte orien-tale del tetto. Tuttavia i dati emersi dal recente studio del manufatto non escludono che, come già ricor-dato, «il gruppo Marafioti [fosse] un’opera plastica autonoma [che] poteva anche figurare al vertice di un pilastro o come ex–voto» (Orsi 1925, p. 359), in modo da essere meno esposto ai venti; tale colloca-zione avrebbe richiesto un sistema di ancoraggio meno articolato, ba-sato su semplici vincoli assimilabili ai sottili perni rintracciati sulla base

e di dimensioni sufficienti a garan-tirne la tenuta. In ogni caso il grup-po fittile doveva essere posizionato con il fianco sinistro, quello più de-teriorato, esposto a sud e dunque sottoposto per molte ore all’azione diretta dell’irraggiamento solare.

Data la complessità dell’opera, per l’assemblaggio delle varie parti e la cottura dell’intero manufatto in un’unica soluzione fu necessario ricorrere all’ausilio di alcuni tenoni posizionati in punti considerati cri-tici per la tenuta statica della scultu-ra. Veri e propri puntelli che hanno permesso di conferire unità strut-turale all’insieme e di rinforzare le aree più delicate di una composi-zione estremamente complessa, ma anche di compensare, al momento dell’assemblaggio, la distribuzione dei carichi delle masse sovrapposte di argilla cruda e bagnata, in un si-stema che vede molta parte del peso del cavallo e del giovane dio grava-re sulla sfinge. Si possono contare dieci tenoni a sezione circolare con diametro variabile tra i 3 e i 7 cm, dei quali quattro in terracotta origi-nale e sei frutto di restauro, aggiunti da Damico e Orsi in base alle trac-ce rilevate sulle superfici. I tenoni orizzontali forniscono coesione tra le parti aggettanti e relativamente sottili: è il caso dei due presenti sul-

22. Prima del restauro, tenone verticale con funzione di supporto tra la sfinge e il cavallo, nascosto dalle grandi ali

23. Durante il restauro, criniera del cavallo modellata con incisioni parallele e rifinita con effetti cromatici a contrasto

24. Durante il restauro, acconciatura del capo della sfinge caratterizzata da tracce di colore nero costituito dagli ossidi di ferro applicati sulle superfici per ottenere la colorazione della terracotta con la tecnica dell’ingobbio

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le zampe anteriori del cavallo e dei tre presenti per ancorare, tra loro e alla coda, le zampe posteriori; svol-gono invece una funzione di scarico del peso e di rinforzo i tenoni ver-ticali e diagonali – allo stesso modo degli archi rampanti in architettura –: quello verticale, nascosto dalle ali e posto perfettamente al centro tra l’addome del cavallo e il dorso del-la sfinge, e i quattro diagonali, dei quali uno posizionato sul fronte, tra la schiena della figura femminile e il torso leonino, e gli altri tre siti tra le gambe posteriori dell’equino e le cosce del mostro. Questi ultimi erano in origine quattro distribui-ti simmetricamente: se infatti sul lato sinistro è presente una coppia di elementi, sul lato destro oltre al tenone superstite, si nota sulla terracotta originale l’invito di un elemento perduto, come rilevato anche nella ricostruzione novecen-tesca, quando venne lasciato grezzo il punto corrispondente all’attacco

del quarto supporto mancante. La superficie irregolare di forma cir-colare, ben visibile in sottosquadro all’altezza del gomito sinistro del cavaliere, appare la probabile sede di un puntello anch’esso mancan-te, necessario in origine al fine di conferire stabilità a un elemento scolpito a tutto tondo e proteso nel vuoto, com’è l’avambraccio del gio-vane dioscuro. Ad assicurare un ottimale scarico dei pesi del cavallo e del cavaliere direttamente sulla base, con un ruolo determinante per la stati-ca dell’intero gruppo, è la parete verticale interna posta a chiusura del tronco ferino della sfinge (fig. 22). Nascosta alla vista dalle grandi ali, ha uno spessore di 8 cm ca e raggiunge verticalmente lo sterno del cavallo in modo da svolgere perfettamente il proprio compito. Stessa funzione di rinforzo hanno le due lastre poste lungo i fianchi della sfinge. Elementi di consolida-

mento statico sono anche la lunga coda del cavallo, fissata in basso a quella della sfinge per mezzo di un corto elemento di supporto, e la co-da leonina sviluppata ad anello che permette di creare ulteriori punti d’appoggio e raccordo tra le parti.

L’aspetto originale del Gruppo eque-stre di Locri Epizefiri doveva essere estremamente diverso da quello che appare oggi. Le superfici, infat-ti, così come già osservato da Paolo Orsi, presentano numerose tracce di policromia originale ottenuta con la tecnica dell’ingobbio finale. Il rivestimento dell’argilla è eviden-te nelle molte tracce superstiti, ben individuabili nei segni del pennel-lo con il quale fu steso lo strato di argilla bianca, estremamente raffi-nata, al fine di impermeabilizzare, regolarizzare e poter decorare le superfici (fig. 23). La policromia del gruppo era frutto dell’uso di ingobbi pigmentati con ossidi me-

tallici applicati prima dell’asciuga-tura dell’argilla ‘a durezza cuoio’ e della cottura. Come già noto dalla letteratura specifica (Moioli, Sec-caroni 2004, p. 50; Reindell, Santarelli, Poggi 2006) e grazie ad apposite analisi chimico-fisiche (si veda di seguito la Relazione tecni-co-scientifica di Domenico Miriel-lo, Andrea Bloise, Donatella Barca et al.) effettuate preliminarmente all’intervento, è stato rilevato che le colorazioni sono dovute a ossidi metallici costituiti da manganese e ferro: al primo si devono le tonalità scure (fig. 24), mentre al secondo le colorazioni calde aranciate e rosse. Il nero potrebbe essere riferibile alla presenza di jacobsite, ossido costi-tuito dalla reazione ad alte tempe-rature della miscela di ossidi di ferro e manganese, sebbene al momento tale composto sia documentato so-lo su reperti etruschi (alla luce di tale ipotesi, sarebbe particolarmen-te auspicabile una futura campagna

25. Dopo il restauro, testa del cavallo con tracce di colorazione aranciata ottenuta con la tecnica dell’ingobbio

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diagnostica dei reperti provenienti dall’area di Locri Epizefiri per veri-ficare la presenza, anche in ambito magnogreco, di tale miscela di ossi-di. Cfr: Schweitzer, Rinuy 1982, pp. 118-123). Le operazioni di pulitura delle su-perfici hanno evidenziato come il cavallo presenti numerosissime tracce di colorazione aranciata: sui due lati del muso (fig. 25), specie a sinistra, dove sono evidenti i segni delle pennellate, e, sempre a sini-stra, sul collo e sulla zampa anterio-re, fintanto nello zoccolo; la stessa colorazione si rileva anche sulla na-tica destra e sulla zampa posteriore sinistra. Con maggior evidenza, e in una tonalità molto più marcata per la quasi perfetta condizione conservativa, il colore aranciato è visibile nella zona protetta dalla

gamba sinistra del cavaliere, per un’estensione di 10 cm2 ca; in que-sto punto la coloritura conserva una sorta di lucentezza legata alla funzione impermeabilizzante della stesura dell’ingobbio. La visione al microscopio ottico ha permesso altresì di distinguere come le campiture di colore siano riferibili a due differenti interven-ti succedutisi nel tempo, uno dei quali ascrivibile alle fasi di realiz-zazione dell’opera e uno risalente a una riqualificazione cromatica suc-cessiva, un restauro antico eseguito per risarcire quanto probabilmente era andato perduto. È evidente, in-fatti, che in più punti, ad esempio sul muso del cavallo, la colorazio-ne aranciata ha la consistenza delle pennellate di ingobbio steso sulla superficie argillosa perfettamente

levigata e modellata sin nei mini-mi dettagli. Si tratta della stesura originale, coeva alla realizzazione dell’opera; in queste zone, ove la superficie finale appare abrasa o alveolizzata a causa del degrado, si rilevano cadute della coloritura e dello scialbo e gli alveoli mostrano il corpo ceramico sottostante che varia dal grigio chiaro al giallo pal-lido. Una situazione completamen-te diversa caratterizza invece il lato sinistro del collo, ove la superficie appare, così come tutto il lato si-nistro del Gruppo equestre di Locri Epizefiri, in peggiori condizioni di conservazione. Qui il processo di alveolizzazione del corpo cerami-co è estremamente accentuato, al punto da conservare solo il 20% della superficie originale levigata. Un fenomeno di degrado che deve essersi verificato già in antico, e al quale si tentò di porre rimedio ri-pristinando l’omogeneità cromati-ca della scultura con la stesura di un nuovo strato di colore sia sulle rade superfici a levigazione originale, sia, e con ancor maggiore eviden-za, nelle parti intaccate dall’azione degli agenti atmosferici, dove le profonde cavità alveolari assumono una marcata colorazione aranciata. La figura del cavallo presenta trac-ce di nero per la definizione delle ombre dei denti che a loro volta conservano minuti lacerti di tinta bianca. Gli occhi sono definiti dalle palpebre di colorazione nera e, nel caso di quello sinistro perfettamen-te conservato, si nota la sclera bian-ca e, al centro della sottile incisione, la pupilla scura come testimoniano le particelle di colore nero.Ma ciò che ancor oggi caratterizza in modo eclatante la cromia del Gruppo equestre di Locri Epizefiri è la marcata colorazione rosso scuro-violacea dei frammenti della coda (fig. 26) e della criniera del cavallo, meglio conservata sul lato destro, e superstite solo in piccoli frammenti su quello sinistro. Sulla criniera, il colore fu steso in modo abbondan-te a rivestimento dell’argilla fresca incisa dai tagli vivi; l’intensità della tinta nella parte alta, limitrofa alle orecchie, vira fin quasi ad assumere

una tonalità nerastra: la regolari-tà di tale fenomeno su entrambi i lati sembra confermare che non si tratti, come in altri casi, di un’ano-mala trasformazione del materiale utilizzato (sull’argomento, con spe - cifiche indicazioni tecnologiche cfr. Il restauro dell’Apollo di Veio 2004) quanto piuttosto di un in-tenzionale tentativo di suggerire le ombreggiature della folta massa di crini. A riprova dell’estrema cura con cui venne eseguita questa fase, vanno rilevate le sottili pennellate di colore più diluito che, con un gusto naturalistico, vennero stese lungo la verticale della criniera per rappresentare le ciocche di pelo che sfumano sul collo. Le numerose tracce di colore aran-ciato rinvenute sul cavallo sono totalmente assenti sulla sfinge, a dimostrazione che quest’ultima doveva apparire in netto contra-sto cromatico rispetto alle figure soprastanti. In nessun punto della scultura, né nel tronco ferino, né sul busto femminile, pur indagan-do fintanto nei sottosquadri e nelle parti interne più protette, è stato rintracciato un colore caldo simile a quello del cavallo. L’unica ecce-zione è rappresentata dall’area del mento, ove la pulitura ha messo in luce una bella sfumatura arancio-rosata. Al contrario, le poche zone del busto, ma anche delle piume, conservatesi integre, dov’è ancora visibile la levigatezza della superfi-cie originale, presentano una tona-lità chiara, giallo pallido, pertinen-te sia al corpo ceramico, ma anche alla scialbatura che ricopre lo strato di argilla. Nella testa femminile la pulitura ha messo in evidenza, oltre al citato tono rosato del mento, nu-merose tracce di colorazione nera, in uno strato compatto e piuttosto spesso – misurato in 120 µ –, con-servata all’interno dei sottosquadri delle numerose ciocche che defini-scono la capigliatura. Un discorso del tutto simile è vali-do anche per il cavaliere: non sono state rilevate tracce che possano de-nunciare quale fosse la cromia scel-ta per tale figura: i lacerti di pennel-late di scialbo, piuttosto consistenti

26. Dopo il restauro, effetti di policromia sulla coda del cavallo

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sul lato sinistro del petto e in parte della gamba destra, non presenta-no infatti alcuna colorazione. Inu-sualmente alcune campiture rosate sono state riscontrate sull’abrasione della mano destra e sulla superficie particolarmente alveolizzata del polpaccio sinistro, giustificabili con quanto illustrato per il cavallo a proposito dell’intervento di re-stauro che però, in questo caso, non sembra aver rispettato le originali, differenti qualificazioni superficia-li. Sull’anca e sull’avambraccio si-nistro una tonalità calda è accostata a colature scure; le palpebre presen-tano tracce di colore nero.

Stato di conservazione del gruppo fit-tile al momento di intraprendere le operazioni di restauro e cenni sulla

tecnica della ricostruzione voluta da Paolo OrsiIl Gruppo equestre di Locri Epizefiri realizzato in terracotta policroma, versava in un cattivo stato di conser-vazione, le superfici si presentavano infatti completamente ricoperte da depositi incoerenti e più coerenti di diversa natura, quali cere, pulvi-scolo atmosferico, sostanze grasse e protettivi ossidati che le rendevano opache e in alcuni punti annerite. Erano presenti localizzate efflore-scenze saline di colorazione bian-castra dovute a migrazioni, a causa della presenza di stuccature in gesso bianco riferibili a operazioni di ma-nutenzione successive all’interven-to voluto da Orsi. Alla complessa ri-costruzione dei frammenti risalente agli anni Venti del secolo scorso si

deve l’uso, per le grandi reintegra-zioni, di un composto cementizio di colorazione grigio scura, molto duro e tenace, con caratteristiche simili al corpo ceramico. Al di sotto di tale strato molto spesso e com-patto, da considerarsi una sorta di finitura, è presente in molti casi un impasto più tenero, costituito da una malta contenente piccoli inclu-si e sabbie, utilizzata per le prime operazioni di assemblaggio. Come testimoniato dalle molte sbordature a vista, l’incollaggio dei frammen-ti venne realizzato con l’ausilio di colofonia dalla tipica colorazione rosso scura (fig. 27). L’assemblaggio fu possibile anche grazie all’uso di numerose grappe metalliche in lega di rame – ottone, posizionate nelle superfici interne, di lunghi perni sa-

gomati e di barre inserite nel corpo ceramico preparando idonee sedi, così come emerso dagli esiti di un’e-saustiva campagna di gammagrafie. Due delle barre metalliche impie-gate, del diametro di 3 mm, sono visibili sul lato destro in prossimità dell’ala: una nella parte alta dello spessore, l’altra sul lato interno. Le zampe anteriori del cavallo, essendo più esposte e soggette a sollecitazio-ni per il loro protendersi in avanti, apparivano interessate da recenti ri-parazioni eseguite con infiltrazioni di collanti di natura sintetica al fine di bloccare incipienti fenomeni di distacco.

Operazioni di restauro L’intervento di restauro è stato pre-ceduto e accompagnato in corso

27. Prima del restauro, zampa anteriore destra del cavallo. Tracce di colofonia, dalla tipica colorazione rossa, impiegata nelle fasi di assemblaggio dei frammenti nella ricostruzione degli anni Venti del Novecento

28. Durante il restauro, fase di pulitura

29. Durante il restauro, fase di pulitura. Tassello che evidenzia il recupero della colorazione originale

30. Dopo il restauro, fase di ritocco con integrazione cromatica a puntinato per conferire continuità percettiva alla visione del manufatto nel suo insieme

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31. Dopo il restauro, lato destro, lato sinistro, fronte, retro del gruppo fittile

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d’opera da una mirata e complessa campagna diagnostica che ha visto la realizzazione di indagini chimi-che e fisiche, affiancate da un’esau-stiva documentazione fotografica a luce reale; una volta rimossi dalle superfici i depositi incoerenti, sono state eseguite riprese fotografiche a luce infrarossa e ultravioletta; il re-soconto dei risultati sarà descritto e argomentato nelle pagine seguenti. Le operazioni sono state precedute da un’accurata spolveratura delle superfici e messa in sicurezza delle parti in precario stato di stabilità. Tale operazione ha riguardato so-prattutto le zampe anteriori del cavallo, con velature preliminari con garze imbibite di cicloesano, al fine di fissare piccole porzioni di materiale in fase di distacco. Gra-zie alla recente documentazione gammagrafica, che ha attestato la presenza di un lungo perno inter-no che percorre le zampe per tutta la lunghezza assemblandole al cor-po del cavallo, l’eventuale rischio di distacco dei frammenti è stato scongiurato.Meccanicamente, con bisturi cal-do, è stato rimosso il più possibi-le della resina epossidica infiltrata nella sezione in epoca recente per bloccare le parti in distacco, così come le moderne grappe in metal-lo. La verifica degli incollaggi risa-lenti agli anni Venti del XX secolo eseguiti con colofonia ha evidenzia-to che questi erano effettivamente collassati e alcuni frammenti si presentavano parzialmente mobili; due grappe rimosse sono state sosti-tuite con nuovi vincoli in materiale inerte − fibra di vetro − poi ricoperti con nuove stuccature. Gli incollag-gi di inizio Novecento, collassati, sono stati ripuliti, rimuovendo ove possibile la colofonia cristallizzata e i frammenti intasabili sono stati nuovamente bloccati con infiltra-zioni di resina acrilica (Paraloid® B72) al 5% in acetone; la futura re-versibilità dell’intervento è garan-tita dalla possibile rimozione della resina mediante l’impiego dello stesso solvente usato per diluirla. La campagna d’indagini prelimi-nari ha permesso di identificare

su tutte le superfici dell’opera, compreso il secondo strato di ver-nice steso sulle parti di restauro da Damico, la presenza di un pesante film acrilico originariamente tra-sparente e in seguito molto ingial-lito utilizzato come consolidante e protettivo: evidenziato da alcune scolature messe in luce dall’attenta osservazione a microscopio ottico binoculare, ha trovato conferma nelle riprese alla luce di Wood e nella campagna fotografica ultra-violetta. Le superfici quindi sono state inizialmente sgrassate con una soluzione di acetone ed etanolo pu-ro (in proporzione 1:1) applicata a tampone. Le reintegrazioni grigie in malta cementizia utilizzata da Damico erano in massima parte coperte da due strati di colore: un primo livello più interno a tempera e uno strato più esterno a vernice acrilica, che non permetteva di ap-prezzare l’estensione dei rifacimen-ti. Anche in questo caso l’interven-to ha previsto la rimozione del co-lore posticcio con una soluzione di acetone ed etanolo puro applicata a tampone. Alla conclusione del pro-cesso, è quindi emersa per la prima volta in maniera estremamente evi-dente l’entità delle reintegrazioni volute da Orsi. Lo strato più spesso del film acri-lico sulle parti in terracotta, solo parzialmente assottigliato, è stato interessato da micro-impacchi del-la stessa soluzione in sospensione. La rimozione del recente protetti-vo acrilico ha in parte alleggerito, ma non totalmente eliminato dai sottosquadri e dalle superfici più scabre, lo strato scuro di sostanze organiche e grassi dovuto alle più vecchie operazioni di manutenzio-ne. Al fine di non intervenire con solventi volatili o altra sostanza tos-sica o irritante − visto che le ope-razioni sono state eseguite a ‘can-tiere aperto’ al pubblico nel salone d’ingresso del Museo Nazionale Archeologico di Reggio Calabria, soggetto a un continuo e incessante flusso di visitatori − si è intervenuti, previo test di calibratura, mediante la stesura di un sottilissimo velo di resina a scambio ionico in sospen-

sione acquosa (cationica debole) con tempo di contatto di non più di 45/60 secondi per applicazione (fig. 28). L’operazione ha permesso di recuperare una discreta leggibili-tà delle superfici, mettendo in luce estese porzioni di colorazione origi-nale prima mai rilevata e, in alcune casi, persino i segni di stesura a pen-nello del sottile scialbo originale. Al contempo è stato possibile elimina-re, anche se non totalmente come verificato con microscopio attico binoculare a 8 ingrandimenti, i più minuscoli residui di sostanze so-prammesse. Una volta sciacquate le superfici con acqua deionizzata a tampone, è stato possibile verifi-care che la quasi totalità delle zone limitrofe alle rime di frattura erano coperte, con aree anche di vari cen-timetri, da uno strato a spessore va-riabile di materiale cementizio, di colorazione grigio scura, utilizzato per le reintegrazioni. Molta parte delle superfici ceramiche appariva quindi di tale colorazione con l’ef-fetto di ingannare l’osservatore sul-la reale estensione delle parti origi-nali che, a pulitura conclusa, sono risultate invece molto più estese. La durezza di tale strato da rimuove-re e la fragilità del corpo ceramico sottostante hanno suggerito quale unica possibilità l’uso di un appa-recchio a laser opportunamente ta-rato (l’apparecchiatura utilizzata è il modello ARTINY della Lambda-Vicenza con le seguenti caratteristi-che: sorgente emissione Nd: YAG; lunghezza d’onda 1064-532 nm; modalità Q-Switch; energia d’im-pulso 10-300 mJ; durata dell’im-pulso 20 ns; diametro massimo impulso 3 mm; frequenza di ripe-tizione 1-5 Hz). Con tale apparec-chiatura e con lentissime operazio-ni è stato possibile, una volta cali-brata la lunghezza d’onda, il tempo dell’impulso e la distanza ottimale (sulla superficie nuda della terra-cotta: a secco, lunghezza d’onda 1064 nm, frequenza 4 Hz, potenza 10 mJ, distanza dalla superficie 15 cm, diametro spot 3 mm - fluen-za 0,08 J/cm²; sulla policromia: a secco, lunghezza d’onda 1064 nm, frequenza 3 Hz, potenza 10 mJ,

distanza dalla superficie 30 cm, diametro spot 7 mm - fluenza 0,03 J/cm²) rimuovere sia i residui delle sostanze grasse ancora presenti, ma anche mettere in evidenza ulteriori estese zone di colorazione originale non evidenziata in precedenza (fig. 29). Successivamente, con impulsi più sostenuti, è stato possibile in-debolire, decoedere e disgregare lo strato di malta cementizia che rico-priva parte delle superfici originali e quindi meccanicamente con bi-sturi e specilli dentistici, operando grazie all’uso di microscopio ottico, far saltare le micro-scaglie di tale materiale mettendo finalmente a vista le reali dimensioni dei fram-menti ceramici originali. Una volta documentata fotograficamente, graficamente e con riprese video l’effettiva estensione delle parti ori-ginali superstiti e delle reintegrazio-ni, in accordo con la Direzione ai Lavori, si è provveduto a ricostitu-ire l’unità della percezione visiva e la continuità estetica del manufatto con la tecnica del ‘puntinato’ a co-lori acrilici ricoprendo quanto non originale con una tonalità neutra facilmente riconoscibile (fig. 30). La rimozione del cemento, in mol-ti casi utilizzato anche per realizzare piccole stuccature, ha reso necessa-rio, prima della ripresa cromatica, eseguirne di nuove con polvere ‘polifilla’.Una volta ultimate le operazioni, le superfici originali sono state tratta-te con l’applicazione di due mani di resina acrilica (Paraloid® B72) al 1,5% in acetone. A conclusio-ne dei lavori è stata effettuata una completa campagna fotografica e video (fig. 31).

Bibliografia Orsi 1911, pp. 27-62; Schweitzer, Rinuy 1982, pp. 118-123; Guido 2004a, pp. 51-60; Guido 2004b, pp. 35-43; Moioli, Seccaro-ni 2004, p. 50; Boitani, Guido 2005, pp. 12-18; Reindell, San-tarelli, Poggi 2006, pp. 477-485; Bagnasco Gianni 2009, pp. 93-139.

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Relazione tecnico-scientifica

Caratterizzazione composizionale dei pigmenti del Cavaliere Mara-fiotidi Andrea Bloise, Donatella Barca, Marco Cappa, Raffaella De Luca, Mauro Francesco La Russa, Do-menico Miriello, Gino Mirocle Crisci, Alessandra Pecci, Valentino Pingitore, Silvestro Antonio Ruf-folo

Si ringrazia il Laboratorio Micro X-ray Lab dell’Università di Bari, nelle persone di Roberto Terzano e Ignazio Allegretta, per le analisi micro-chi-miche eseguite mediante il sistema Bruker M4 Tornado.

Le indagini diagnostiche di un ma-nufatto antico rivestono un ruolo importante, soprattutto se eseguite all’interno di un contesto multidi-sciplinare, in cui le problematiche da indagare e i quesiti a cui rispon-dere sono analizzati e discussi tra archeologi, storici dell’arte, restau-ratori e diagnosti. Studiare un re-perto di notevole valore storico-ar-tistico, come il Cavaliere Marafioti, presenta sempre numerose proble-matiche. Non esiste un protocollo analitico standard da seguire per raggiungere risultati ottimali. Il processo che porta alla conoscenza dei materiali consente ai diagno-sti di testare diverse metodologie, configurandosi come un’impor-tante occasione per selezionare e mettere a confronto tra loro diffe-renti tecniche analitiche. L’unicità di ogni reperto spinge il diagnosta a costruire un percorso analitico peculiare, che sappia minimizzare l’impatto invasivo, massimizzan-do la probabilità di ottenere dati scientificamente robusti. Il Cavaliere Marafioti presenta diverse aree in cui è possibile ri-conoscere la presenza di pigmenti utilizzati dall’artista per creare ef-fetti di tipo cromatico. Lo studio ha focalizzato la sua attenzione sui pigmenti rossi, neri e bianchi, presenti rispettivamente sulla coda del cavallo (pigmento rosso), sulla testa della sfinge (pigmento nero),

32. Prima del restauro, fasi analitiche in situ finalizzate a ottenere informazioni sulla composizione dei pigmenti mediante la spettroscopia a fluorescenza di raggi X

34. Prima del restauro, microfoto stratigrafica a luce riflessa del campione CM3 pigmentato di rosso (coda del cavallo); b) microfoto stratigrafica a luce riflessa del campione CM1 pigmentato di nero (testa della sfinge)

33. Prima del restauro: a) punto di prelievo del campione CM3 sulla coda del cavallo (pigmento rosso); b) punto di prelievo del campione CM1 sulla testa della sfinge (pigmento nero)

a a

bb

sui denti e sugli occhi del cavallo (pigmento nero e bianco), cercan-do di ottenere informazioni sulla loro composizione. Le tecniche analitiche utilizzate per lo studio sono la microscopia ottica a luce

riflessa, attraverso un microsco-pio Meiji EMZ-5TRD, la micro-fluorescenza a raggi X 2D, eseguita mediante il sistema Bruker M4 Tornado, la spettroscopia Raman, eseguita mediante un microscopio

Raman Thermo Fisher DXR, la microscopia elettronica a scansio-ne, eseguita utilizzando un sistema FEI Quanta 200 e la spettrometria a fluorescenza di raggi X in situ, eseguita attraverso lo spettrometro

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Bruker Artax (fig. 32). Di seguito sono riassunti alcuni dei risultati raggiunti dagli studi diagnostici, mentre la trattazione completa dei dati sarà oggetto di una futura pubblicazione scientifica.Il prelievo di due piccoli frammen-ti di pigmento rosso (campione CM3) e nero (campione CM1), presenti sulla coda del cavallo e sulla testa della sfinge (fig. 33), ha consentito di eseguire alcune inda-gini di tipo micro-morfologico e micro-chimico all’interfaccia tra il substrato ceramico e lo strato pig-mentato. Le osservazioni in luce riflessa dei bulk lucidi dei campioni, inglobati in resina epossidica, possono dare informazioni sullo spessore effet-tivo dello strato pigmentato. Nel campione CM3, su cui è presen-te il pigmento rosso (fig. 34a), lo spessore massimo del pigmento è di 14 µm ca; mentre lo spessore massimo del pigmento nero nel campione CM1 raggiunge i 120 µm ca (fig. 34b). Al di sopra dello strato di colore rosso del campione CM3 è visibile uno strato traslucido trasparente di circa 14 µm di spessore (fig. 34a), interpretabile, in prima analisi, come un possibile materiale pro-tettivo e/o consolidante utilizzato durante uno degli ultimi interven-ti di restauro. A tale proposito, è stato prelevato un piccolo campio-ne grattando in un’altra area del manufatto (sulla superficie della piccola asta che unisce le zampe anteriori del cavallo), lì dove era evidente la presenza di un restauro precedente. Le analisi FTIR della parte organica estratta su tale cam-pione mediante trattamento con acetone hanno evidenziato la pre-senza del gruppo vinilico. È mol-to probabile, quindi, che la parte traslucida al di sopra del pigmen-to rosso (fig. 34a) possa essere un composto a base vinilica utilizzato in un restauro precedente. Inoltre le analisi al SEM, condot-te superficialmente sul campione tale e quale, hanno evidenziato la presenza di sporco composto pre-valentemente da polvere di natura

organica (trattasi molto probabil-mente di particolato atmosferico di natura antropica).Le osservazioni morfologiche ese-guite mediante microscopia elet-tronica a scansione possono dare utili informazioni sui rapporti esistenti all’interfaccia tra lo strato pigmentato e il supporto ceramico.

In fig. 35 sono mostrate le imma-gini acquisite mediante micro-scopia elettronica a scansione dei campioni CM3 (fig. 35a) e CM1 (fig. 35b). In nessuno dei due campioni si osserva una superficie di discontinuità netta tra gli strati pigmentati e il substrato ceramico. Entrambi gli strati pigmentati so-

no di composizione silicatica e il fatto che appaiano come un corpo unico con il substrato ceramico suggerisce una cottura dello strato pigmentato e del corpo ceramico avvenuta in un unico momento.Per avere informazioni mineralo-giche di dettaglio sugli strati pig-mentati, è stata usata la spettro-

35. Prima del restauro: a) immagine acquisita mediante microscopia elettronica a scansione del campione CM3; b) immagine acquisita mediante microscopia elettronica a scansione del campione CM1

36. Prima del restauro, composizione chimica XRF media dello strato pigmentato in nero del campione CM1 (testa della sfinge)

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scopia Raman accoppiata alla mi-croscopia ottica. Le analisi Raman hanno consentito di stabilire con certezza che la colorazione rossa del pigmento è dovuta alla pre-senza di abbondante ematite. Lo studio del pigmento nero presente nel campione CM1 mediante spet-troscopia Raman, non ha, invece, dato risultati soddisfacenti; infatti tale tecnica non ha consentito di ottenere spettri significativamente correlabili alla presenza di specie mineralogiche ‘indice’. Per chiarire l’origine della colorazione nera pre-sente sul campione CM1 si è quin-di fatto uso della micro-analisi in fluorescenza a raggi X eseguita con lo spettrometro ‘tornado Bruker M4’, che consente di ottenere ra-pidamente mappe chimiche di aree ampie, lavorando in condizioni di vuoto. In fig. 36 è rappresentato lo spettro XRF medio della sola area pigmentata in nero (campione CM1), in cui è possibile osserva-re, oltre al ferro (Fe), la significa-tiva presenza di manganese (Mn), elemento chimico che conferisce la tipica colorazione nera alla te-sta della sfinge (fig. 36). La stessa analisi eseguita sul pigmento rosso (campione CM3) ha consentito di evidenziare la netta prevalenza del ferro (Fe) rispetto al manganese (Mn) (fig. 37), confermando l’uso prevalente di ematite (già eviden-

ziata dall’analisi Raman) per con-ferire la colorazione rossa alla coda del cavallo.Analisi in situ totalmente non di-struttive sono state eseguite sugli occhi e sui denti del cavallo, me-diante lo spettrometro a fluore-scenza di raggi X “Bruker Artax” (fig. 32). Queste tipologie di analisi consentono di avere informazioni chimiche di tipo semiquantitativo, quindi affette da un certo margine di incertezza. Lo spot analitico di 2 mm ca, la disomogeneità delle aree indagate, l’elevata probabili-tà di analizzare simultaneamente, insieme al pigmento, anche parte del corpo ceramico, le analisi con-dotte in aria (e non in condizioni di vuoto), sono tutti fattori che non consentono di ottenere spettri chimici puliti; infatti, le altezze dei picchi possono non rispecchiare i reali rapporti tra i vari elementi chimici. Tuttavia la presenza di al-cuni elementi chimici ‘indice’, può dare utili indicazioni sull’uso di de-terminati pigmenti. In fig. 38 sono rappresentati gli spettri XRF dei pigmenti bianchi presenti all’inter-no dell’occhio sinistro del cavallo (fig. 38a) e sul dente del cavallo (fig. 38b). La significativa presen-za di piombo (Pb) nello spettro rappresentato in figura 38a, insie-me ad abbondante calcio, indica una miscela di bianco di piombo e bianco di calce utilizzata per di-pingere la parte bianca dell’occhio stesso. Il bianco presente sul dente del cavallo (fig. 38b) è quasi privo di piombo; ciò indica l’utilizzo di bianco di calce quasi puro.In figura 39 sono rappresentati gli spettri XRF di alcune aree pig-mentate di nero: in particolare la pupilla dell’occhio sinistro del ca-vallo (fig. 39a), il dente del cavallo (fig. 39b) e la palpebra destra del cavallo (fig. 39c). In tutti gli spettri è presente un significativo conte-nuto di manganese (Mn) e ferro (Fe), insieme al calcio (Ca). Ciò indica un pigmento di colore nero ottenuto mescolando, molto pro-babilmente, calce e terre a base di manganese e ferro. Le analisi XRF in situ, di tipo non distruttivo, so-

37. Prima del restauro, composizione chimica XRF media dello strato pigmentato in rosso del campione CM3 (coda del cavallo)

38. Prima del restauro: a) spettro XRF dell’area bianca localizzata nel centro dell’occhio sinistro del cavallo; b) spettro XRF dell’area bianca localizzata sul dente del cavallo

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no state eseguite prima del restauro e quindi prima della pulitura della superficie del manufatto; di con-seguenza, le interpretazioni degli spettri di fluorescenza, soprattutto per quel che riguarda la presenza di piombo (Pb), dovranno essere confermate da ulteriori analisi in situ da eseguire dopo il completa-mento del restauro.I risultati qui presentati, seppur di carattere preliminare, rappre-sentano un passo importante nel-la comprensione della tecnologia

produttiva del Cavaliere Marafioti. Altri studi sono tuttora in corso per comprendere la natura del corpo ceramico e determinare la prove-nienza delle materie prime utiliz-zate per la sua produzione.

Relazione tecnica scansione 3DRosanna Pesce per digi.Art

Le nuove tecnologie per il rilievo non invasivo del Cavaliere Mara-fioti hanno permesso di ottenere

40. Rilievo 3D con scanner laser

41. Modello tridimensionale

39. Prima del restauro: a) spettro XRF dell’area nera localizzata nella pupilla dell’occhio sinistro del cavallo; b) spettro XRF dell’area nera localizzata sul dente del cavallo; c) spettro XRF dell’area nera localizzata sulla palpebra destra del cavallo

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un modello tridimensionale corri-spondente al reale con texture in alta definizione (fig. 40).Per l’ottenimento della nuvola di punti le prime operazioni di scan-sione sul Cavaliere Marafioti sono state effettuate con uno scanner tridimensionale a luce strutturata configurato appositamente tenen-do conto delle condizioni ambien-tali e delle geometrie dell’oggetto, con particolare riferimento alle ampie zone in sottosquadro. Suc-cessivamente, per le zone di mag-giore dettaglio è stato utilizzato uno scanner con tecnologia laser

a triangolazione ottica. Il model-lo tridimensionale ‘grezzo’ è stato poi sottoposto a procedure di ri-duzione degli effetti di rumore e correzione degli errori. Quindi è stato generato un modello poli-gonale a cui sono state associate le texture ottenute tramite un rilievo fotografico in altissima definizione (figg. 41-42).I risultati della ‘scansione texturiz-zata’, che hanno mirato alla crea-zione di un vero e proprio database 3D, hanno permesso (in massima sicurezza e nel rispetto dell’opera, che non è stata sottoposta a stress e

a manipolazioni superflue), di di-mostrare la corretta ricostruzione filologica delle parti mancanti del manufatto eseguita da Paolo Orsi.Successivamente all’ultima fase operativa del restauro, consisten-te nell’uniformare i toni di colore della superficie del cavaliere, è sta-ta ottenuta la colorazione digitale proiettando le foto sul modello ad alta densità poligonale con il vertex color. Una volta generata la mappa UV sul modello opportunamente suddiviso, il colore è stato con-vertito in una mappa diffuse per-mettendo di ottenere una texture

precisa e fedele al reperto (fig. 43). Infine sono state integrate nel modello tridimensionale le scan-sioni delle gammagrafie preceden-temente realizzate sul Cavaliere Marafioti, per fornire una visione completa anche delle modalità di fissaggio interno dei vari frammen-ti che compongono l’opera (figg. 44-45).

42. Modello tridimensionale senza texture 43. Applicazione della texture ad alta definizione sul modello 3D

44. Gammagrafia della gamba destra 45. Gammagrafia della testa

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