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4.La Prima Rivoluzione Industriale (1720-1870) · Nella storia demografica inglese il caso di...

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1 4.La Prima Rivoluzione Industriale (1720-1870) La Gran Bretagna verso l’economia industriale Alla fine del 700, la Gran Bretagna, con largo anticipo su altri paesi, stava diventando la prima nazione industriale del mondo, grazie ad una grande produzione delle industrie siderurgiche e dell’industria tessile e a una diminuzione della percentuale della popolazione attiva che lavorava nel settore primario (53% contro l’80% delle campagne continentali). Siamo immersi in una complessa costruzione culturale e sociale che avviò trasformazioni graduali, cumulative, e con il tempo dimostratesi irreversibili negli assetti preesistenti. Perché tutto questo cominciò proprio in Inghilterra dopo la metà del 700? Perché laggiù un insieme di fattori materiali e culturali, da tempo entrati sommessamente in azione, aveva precostituito condizioni favorevoli al dispiegarsi di un nuovo modo di produrre la ricchezza per mezzo di macchine sempre più potenti e perfezionate, avendo ridotto alla condizione di merci l’ambiente, gli uomini e la moneta. L’ambiente: le infrastrutture di collegamento Il canale della Manica funzionò come ostacolo per gli aggressori e come elemento di connessioni con le regioni continentali. Il profilo frastagliato delle coste e i larghi estuari dei fiumi che conducono a centri interni di stoccaggio e consumo moltiplicarono gli approdi e promossero i trasferimenti di beni da una regione all’altra via mare. I terreni prevalentemente pianeggianti favorirono il miglioramento o la costruzione di strade da parte di società che riscuotevano pedaggi, anche se i viaggi via strada costavano il quadruplo rispetto a quelli via mare. La forma allungata, piatta e stretta del paese ebbe un ruolo fondamentale nel favorire una precoce integrazione delle diverse economie regionali in un mercato nazionale. Dal 1750 cominciò a profilarsi un mercato nazionale delle materie prime industriali, di alcuni generi d’importazione e coloniali. I dati danno conto di due fenomeni: 1.Del gigantismo di Londra fin dal primo 700; 2.Della grande crescita, nel secondo 700, dei porti affacciati sul braccio di mare che separa il Galles dall’Irlanda. La struttura urbana inglese prese forma grazie ai traffici internazionali e alle attività di servizio e di lavorazione delle materie prime importate. L’ambiente: il mondo rurale Alla fine del 600, l’agricoltura inglese e gallese: 1.Aveva grandi riserve di terra; 2.In molte parti del paese produceva per il mercato; 3.La produttività del frumento oscillava tra i 9 e i 10 quintali per ettaro; 4.I raccolti erano stabili nel medio periodo, in virtù di favorevoli condizioni meteo-climatiche. La popolazione: la dinamica generale Dopo una lenta crescita tra 600 e inizio 700, la popolazione quasi triplicò entro metà 800 e la durata della vita si allungò. I dati mostrano differenziazioni demografiche in relazione con i caratteri economici prevalenti: nelle aree a prevalenti attività manifatturiere e commerciali, la popolazione crebbe maggiormente. Alla fine del secolo, la maggior parte della popolazione, viveva ancora nelle contee poste ai margini del processo di crescita industriale. Poiché nel 1831 la quota residente nelle contee era ancora il 55%, ciò significava che le campagne svolsero un ruolo decisivo sia perché fornirono un crescente numero di braccia alle aree in cui stavano prendendo slancio le attività industriali, commerciali e
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4.La Prima Rivoluzione Industriale (1720-1870)

La Gran Bretagna verso l’economia industriale Alla fine del ’700, la Gran Bretagna, con largo

anticipo su altri paesi, stava diventando la prima nazione industriale del mondo, grazie ad una

grande produzione delle industrie siderurgiche e dell’industria tessile e a una diminuzione della

percentuale della popolazione attiva che lavorava nel settore primario (53% contro l’80% delle

campagne continentali). Siamo immersi in una complessa costruzione culturale e sociale che avviò

trasformazioni graduali, cumulative, e con il tempo dimostratesi irreversibili negli assetti

preesistenti. Perché tutto questo cominciò proprio in Inghilterra dopo la metà del ‘700? Perché

laggiù un insieme di fattori materiali e culturali, da tempo entrati sommessamente in azione,

aveva precostituito condizioni favorevoli al dispiegarsi di un nuovo modo di produrre la ricchezza

per mezzo di macchine sempre più potenti e perfezionate, avendo ridotto alla condizione di merci

l’ambiente, gli uomini e la moneta.

L’ambiente: le infrastrutture di collegamento Il canale della Manica funzionò come ostacolo per

gli aggressori e come elemento di connessioni con le regioni continentali. Il profilo frastagliato

delle coste e i larghi estuari dei fiumi che conducono a centri interni di stoccaggio e consumo

moltiplicarono gli approdi e promossero i trasferimenti di beni da una regione all’altra via mare. I

terreni prevalentemente pianeggianti favorirono il miglioramento o la costruzione di strade da

parte di società che riscuotevano pedaggi, anche se i viaggi via strada costavano il quadruplo

rispetto a quelli via mare. La forma allungata, piatta e stretta del paese ebbe un ruolo

fondamentale nel favorire una precoce integrazione delle diverse economie regionali in un mercato

nazionale. Dal 1750 cominciò a profilarsi un mercato nazionale delle materie prime industriali, di

alcuni generi d’importazione e coloniali. I dati danno conto di due fenomeni:

1.Del gigantismo di Londra fin dal primo ‘700;

2.Della grande crescita, nel secondo ‘700, dei porti affacciati sul braccio di mare che separa il

Galles dall’Irlanda. La struttura urbana inglese prese forma grazie ai traffici internazionali e alle

attività di servizio e di lavorazione delle materie prime importate.

L’ambiente: il mondo rurale Alla fine del ‘600, l’agricoltura inglese e gallese:

1.Aveva grandi riserve di terra;

2.In molte parti del paese produceva per il mercato;

3.La produttività del frumento oscillava tra i 9 e i 10 quintali per ettaro;

4.I raccolti erano stabili nel medio periodo, in virtù di favorevoli condizioni meteo-climatiche.

La popolazione: la dinamica generale Dopo una lenta crescita tra ‘600 e inizio ‘700, la

popolazione quasi triplicò entro metà ‘800 e la durata della vita si allungò. I dati mostrano

differenziazioni demografiche in relazione con i caratteri economici prevalenti: nelle aree a

prevalenti attività manifatturiere e commerciali, la popolazione crebbe maggiormente. Alla fine del

secolo, la maggior parte della popolazione, viveva ancora nelle contee poste ai margini del

processo di crescita industriale. Poiché nel 1831 la quota residente nelle contee era ancora il

55%, ciò significava che le campagne svolsero un ruolo decisivo sia perché fornirono un crescente

numero di braccia alle aree in cui stavano prendendo slancio le attività industriali, commerciali e

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di servizio, sia perché proprio nel settore agricolo si profilarono quegli aggiustamenti tecnici,

economici e delle mentalità che promossero e sostennero l’industrializzazione. Nella storia

demografica inglese il caso di Londra rappresenta un caso a parte, poiché già dalla fine del ‘600

era la città europea più popolata, e col passare degli anni, la popolazione londinese fu in

costante aumento. Questa crescita non avrebbe potuto proseguire senza i mutamenti intervenuti

nel mondo rurale circostante. Il potere d’acquisto relativamente elevato di quei operatori i cui

salari erano i più alti del paese, e a quello dei quasi centomila bottegai attivi nella città ai primi

anni del ‘700, fu un decisivo fattore di crescita della domanda aggregata di beni e servizi, che

da Londra si radiava in tutta l’Inghilterra.

Le istituzioni: la sovranità del Parlamento La Gran Bretagna di fine ‘700 aveva quasi completato

un processo istituzionale colto a rafforzare l’unità nazionale e a limitare il potere della corona,

della chiesa e della grande aristocrazia feudale. Nel 1629, con la Petizione dei Diritti , la Camera

dei Comuni aveva limitato il potere sovrano. Nacque un acceso conflitto tra corona e parlamento.

Le elezioni di nuovi deputati, mercanti, uomini di legge e proprietari fondiari, rafforzarono gli

avversari dell’assolutismo regio. Essi, infatti, votarono una norma sulla tolleranza religiosa e

invalidarono ogni tassazione non approvata dal Parlamento. I contrasti tra monarchici e avversari

portarono a una guerra civile tra esercito regio ed esercito del Parlamento. Olivier Cromwell, nel

1647, incarcerò il Re, lo sottopose a giudizio e lo fece condannare a morte. Abolita la Camera

dei Lord e cancellati i privilegi della grande aristocrazia, Cromwell instaurò una repubblica, il

Commonwealth, governata da un consiglio di stato composto dai suoi fedeli. Nel 1651 Cromwell

fece votare l’Atto di Navigazione, con il quale si chiudevano al naviglio estero tutti i porti

britannici, creando una vasta area riservata ai mercati nazionali. Con la morte di Cromwell (1658)

terminò la sua repubblica, e dal 1660 Carlo II Stuart riprese il trono, ma il sospetto di simpatie

papiste, assieme alla sua arrendevolezza verso il re francese, indusse i ceti borghesi e quelli

affaristici liberali ad avviare un’energica politica internazionale e a contrastare il riemergente

assolutismo regio. Un primo successo fu la promulgazione dell’Habeas Corpus Act (1679), con il

quale fu sancita la libertà personale dei sudditi e interdetta la carcerazione arbitraria. Alla sua

morte, i Whig non riuscirono a impedire l’ascesa al trono del fratello Giacomo II. I parlamentari

inglesi i appellarono al genero del nuovo re, Guglielmo II d’Orange, nobile protestante olandese,

che nel 1689 fu proclamato re, non prima, però, di avergli fatto giurare la Bill of Rights a

conferma delle prerogative parlamentari:

1.Libertà di parola

2.Approvazione dei tributi e controllo della finanza statale;

3.Proibizione al monarca di tenere un esercito stabile al suo servizio.

L’Inghilterra divenne, così, una Monarchia Costituzionale. Nel 1694 fu fondata la banca

d’Inghilterra e organizzato un mercato per i titoli pubblici e privati. Il potere esecutivo fu

temperato dall’esistenza di leggi che riconoscevano ai sudditi inglesi un insieme di libertà

individuali sconosciute nel resto d’Europa. Lontano da Londra, gli squires, i rampolli della nobiltà

rurale, esercitavano le funzioni amministrative e giurisdizionali in condizioni di completa

indipendenza e senza alcuna limitazione governativa. Così l’Inghilterra divenne una monarchia a

guida doppiamente aristocratica, al centro come nelle periferie.

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Le istituzioni: verso l’individualismo concorrenziale. Tre questioni istituzionali ebbero decisive

conseguenze economiche. La prima riguardò le chiusure delle campagne, la seconda la

regolamentazione del lavoro artigianale, e la terza l’eliminazione di monopoli e privilegi di

concessione regia.

1. Alla fine del ‘400 alcuni proprietari ricchi presero a recintare i loro terreni; le chiusure dei

campi minacciavano il livello di vita di quei contadini poveri che sopportavano le conseguenze del

graduale avvento di un sistema imperniato sull’individualismo agrario, che metteva a repentagli

l’equilibrio sociale. Il 1597 coincise con l’ultimo decreto contrario a sacrificare la cerealicoltura a

vantaggio del pascolo. Nel 1608 fu promulgata la prima norma chiaramente favorevole alla

chiusura dei campi. Nel 1621 il parlamento votò l’Enclosure Bill , legge quadro che disciplinava

organicamente la materia. Nel 1624 fu abrogata ogni norma avversa alle chiusure dei campi

aperti. Ma, solo nel 1801 fu emanato un General Act of Enclosure, che uniformò la disciplina.

2. Nel 1751, un’inchiesta parlamentare scoprì che “le fabbriche più utili e prospere sono

principalmente gestite in quelle città e in quei luoghi che non sono soggetti a leggi locali sulle

corporazioni” ed affermava, inoltre, che le leggi relative al commercio ed all’industria dovevano

essere annullato poiché, nelle presenti congiunture, erano dannose per il commercio. In realtà il

sistema corporativo inglese era in via di smantellamento sin dal 1688 e, negli anni successivi, il

Parlamento rifiutò più volte il ripristino delle antiche norme corporative. Nel 1694, fu abrogata la

norma dello Statute of Artificiers, che vietava ai figli dei contadini l’esercizio di attività artigianali,

legalizzandone l’impiego nelle manifatture tessili. Infine, l’eliminazione dell’apprendistato, a fine

‘700, offrì agli imprenditori l’opportunità di impiegare donne e bambini. Una situazione tanto

gravida di conflitti economici e sociali vene controllata grazie all’esistenza di leggi sui Poveri, Poor

Laws (1579-1601), secondo le quali ogni parrocchia doveva distribuire sussidi ai bisognosi

utilizzando fondi prelevati dai gettiti dell’imposta fondiaria. Il preambolo dell’Act of Settlement

(1662), legava gli indigenti alla parrocchia d’origine: pertanto la legge riconosceva a due giudici di

pace il potere di rispedire alla parrocchia d’origine gli indigenti; ma, in realtà, i nascenti centri

industriali divennero sempre più permissivi e a Londra la legge non fu mai applicata.

3.Il terzo aspetto riguarda dapprima la limitazione e poi la soppressione del diritto sovrano

d’accordare monopoli e privative commerciali dietro pagamento d’onoranze e canoni al Tesoro

della corona. Lo Statuto dei Monopoli del 1624, cancello ogni privilegio economico ed introdusse

nel diritto inglese il sistema dei brevetti che garantiva solo lo sfruttamento economico di

autentiche innovazioni, per un limitato periodo di tempo.

Le gerarchie sociali

Fra fine ‘700 e inizio ‘800, la Gran Bretagna conservava i caratteri di una società rurale, anche se

nelle isole britanniche fin dal ‘600 era andata profilandosi una struttura sociale imperniata sul

primato di grandi proprietari fondiari (Lords e Gentry ). Essi concedevano le loro campagne a

fittavoli in cambio di un canone, ed essi si avvalevano di braccianti ingaggiati stabilmente e altri

operai precari. Alla fine del ‘600 l’assetto della società rurale inglese era: concentrazione del 70%

della terra nelle mani di 16.200 casate aristocratiche, fatto che testimonia un’accentuata sperequazione nella distribuzione della risorsa di base (terra). Inoltre, a questo dato, dobbiamo

aggiungere circa 40.000 famiglie che controllavano poderi di almeno 40 ettari. Il piccolo

proprietario inglese di fine ‘600 era in un’ottima situazione economica e finanziaria. La riforma

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protestante ebbe 2 effetti sociali e culturali di rilievo: cancellazione del calendario liturgico di un

gran numero di festività religiose, fatto che aumentò i giorni lavorativi, la fatica, ma anche il

reddito dei salariati; e la diffusione dell’istruzione di base, fatto che incrementò l’indipendenza di

opinione ed anche la pubblicazione di opere in inglese. Nel 1695 fu abolita la censura preventiva,

fatto che aiuto l’Inghilterra a essere il primo paese a conoscere l’avvento della pubblica opinione

e a servirsi della stampa quotidiana e periodica come strumento di pressione politica.

L’economia  agricola  

La maggior parte della ricchezza prodotta in GB e la percentuale più alta di persone economicamente attive

lavorava  nelle  campagne.  La  produttività  dell’agricoltura  raddoppiò  per  effetto  della  diffusione  dell’individualismo  agrario  e  di  novità  agronomiche  di rilievo come:

1.Conversione dei maggesi in campi coltivati;

2.Semina di piante da foraggio;

3.Applicazione  del  principio  della  selezione  nell’allevamento  bovino;

4.Introduzione delle prime macchine per seminare, sarchiare, segare foraggi e mietere e trebbiare i cereali.

Fino  agli  anni  ’60  del  ’700,  l’Inghilterra  fu  il  maggiore  esportatore  di  grano  e  di  farina  dell’Europa  occidentale.

L’agricoltura  inglese  del  ‘700  era  caratterizzata  dalla  presenza  dominante  di  fittavoli  imprenditori  agricoli

(farmers).  La  stipulazione  di  contratti  d’affitto  di  lunga  durata  permettevano  loro  di  fare  investimenti  migliorativi sulle terre e di poterne raccogliere i frutti. Pertanto, a differenza di quanto accadeva nelle

campagne continentali, nelle campagne inglesi:

1.Gli agricoltori erano una maggioranza e, i contadini, una minoranza;

2.La maggior parte dei prodotti era orientata allo scambio interno ed estero;

3.Al mercato dei prodotti si affiancò quello dei fattori produttivi;

4.Il pagamento dei salari in moneta divenne la regola;

5.La grande dimensione delle aziende agricole e le perfezionate rotazioni agrarie permisero di integrare

agricoltura e allevamento. A dispetto delle pessimistiche previsioni di Malthus, durante i decenni del primo

sviluppo industriale,  l’agricoltura  inglese  riuscì  a  sfamare  una  popolazione  in  rapida  crescita,  mettendo  il  paese al riparo dal pericolo di dover ricorrere ad onerose importazioni di cereali. Inoltre si formò un circuito

virtuoso, domanda crescente-prezzi in flessione, che concorse a sostenere un mercato di massa di beni

industriali.

Manifattura tessile Fin dal ‘400 l’Inghilterra aveva strappato alle Fiandre il primato di

maggiore esportatore europeo di tessuti di lana. Sotto l’aspetto organizzativo nel lanificio, linificio

e setificio, ricorrevano 3 strutture ineguale peso economico e sociale:

1.Lavoro domiciliare (putting-out system): largamente prevalente, era imperniato su u mercanti

imprenditori, che fornivano la materia prima da lavorare al domicilio; trascorso il periodo

concordato, i mercanti tornavano a ritirare il prodotto e pagavano in denaro il compenso pattuito;

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si trattava di organizzare la produzione a partire dalla fase di rifinitura dei tessuti e

commercializzazione; i lavoratori mantenevano una certa indipendenza e padroneggiavano

attrezzature e tempo ma, ricevevano compensi assai bassi.

2.Industria Domestica: il protagonista era un artigiano che utilizzava strumenti tecnici propri,

aiutato dai familiari e da qualche garzone; i tessuti prodotti erano direttamente smerciati dai

fabbricanti nei centri urbani vicini; la struttura produttiva laniera era strettamente legata

all’agricoltura facendone parte integrante.

3.Manifattura accentrata: un imprenditore riuniva in un opificio un certo numero di telai accuditi

da tessitori a tempo pieno pagati a cottimo; egli controllava ogni fase produttiva; vendeva spesso

i propri tessuti a grossisti che li piazzavano sul mercato interno ed estero. Gli inizi del cotonificio

L’avvio della lavorazione del cotone in Inghilterra risale al 1550. L’imitazione delle tele indiane in

Inghilterra fu stimolata dal divieto di importare stoffe votata nel 1701 e nuovamente nel 1722. La

proibizione fu sollecitata dai produttori di lana che si sentivano minacciati dalla fortuna crescente

delle tele asiatiche di basso prezzo. Da dopo il 1730, importazioni e consumi conobbero una

dinamica sostenuta, e in particolare i tessuti misti di cotone ebbero un successo crescente. Solo

le trasformazioni tecniche di fine ‘700 fecero del cotonificio inglese uno dei settori trainanti

dell’economia del paese.

Le attività minerarie e metallurgiche A metà ‘700, in Inghilterra e Galles, si estraevano 5

milioni di tonnellate di carbone l’anno. Le operazioni di estrazione erano appaltate a capimastri

che ingaggiavano squadre di minatori pagati a cottimo. A inizio ‘700 a causa della scarsità di

legname adatto per fare carbone vegetale e l’abbondanza di giacimenti di carbon fossile,

moltiplicarono i tentativi di sostituire nelle operazioni di fusione dei minerali metalliferi il vegetale

con il fossile, assai meno costoso. Nel 1709, A. Darby riuscì ad ottenere il coke, un combustibile

d’elevato potere calorifico che sostituì il carbone di legna nel forno per fondere il ferro. L’utilizzo del coke si affermò lentamente in tutta la fusione metallurgica: nel 1788 l’80% delle ferriere

inglesi adoperava il coke. Lo sfruttamento allargato di giacimenti minerari pose problemi di

areazione, d’illuminazione e dell’uso di cariche esplosive nelle gallerie, ma soprattutto evidenziò la

questione del drenaggio delle acque sotterranee. Soluzioni a quest’ultimo problema furono

introdotte col passare del tempo:

1.1698, T. Savery, Pompa a vapore, detta “Amico del minatore”;

2. 1717, J. Newcomen, la rese più grande, più potente e più affidabile;

3. 1769, J. Watt, brevettò la sua prima Macchina a vapore;

4. 1775, Boulton & Watt, perfezionarono la precedente di Watt, con un nuovo motore, ottennero

un brevetto di 25 anni;la grande innovazione fu che il moto rettilineo che caratterizzava le

precedenti, venne modificato in moto rotatorio, fatto che rese la macchina a vapore, il primo

potente motore universale.

L’accelerazione del mutamento Fra la fine del ‘600 e i primi anni ’70 del ‘700, periodo

d’incubazione della R.I., le infrastrutture e i settori economici del paese furono in costante

crescita. Tutte le grandezze economiche registrate progredirono contemporaneamente, secondo un

principio di crescente interdipendenza in un sistema economico. Nella prima metà del ‘700 la

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percentuale di forza lavoro in agricoltura calò, mentre quella maschile addetta ad attività

industriali crebbe; ma il dato più scioccante fu dato dal fatto che la quota di ricchezza prodotta

non consumata crebbe di tre volte e mezzo liberando risorse per investimenti in infrastrutture,

capitale fisso e capitale circolante. L’Inghilterra sperimentò una crescita tendenziale della ricchezza

prodotta in agricoltura, nell’allevamento e nelle manifatture già prima dell’avvio della R.I.: gli

studiosi riconoscono al settore agricolo il ruolo di motore del mutamento economico. I guadagni

d’efficienza in agricoltura favorirono anche una diminuzione dei costi e dei prezzi che migliorò il

potere d’acquisto dei consumatori. La crescente richiesta di combustibili e di materie prime

stimolò la sostituzione di risorse organiche e di fonti energetiche animali con minerali e fonti

d’energia inanimate: ne derivarono inevitabili aggiustamenti tecnologici. Tra fine ‘600 e metà ‘700,

una lievitazione del reddito reale fu all’origine di un proporzionale incremento della domanda

aggregata e di una crescente diversificazione dei generi richiesti. Il reddito medio pro capite era

nettamente superiore a quello di ogni altro operaio in Europa e era interamente corrisposto in

denaro.

La tecnologia nel mondo rurale La possibilità di depositare brevetti e di avere proventi derivanti

dal loro esclusivo sfruttamento, promosse in Inghilterra grappoli d’innovazioni e d’invenzioni. Nel

mondo rurale le prime macchine furono la seminatrice e la zappatrice trainate da cavalli inventate

a inizio ‘700 da J. Tull. Negli stessi anni la diffusione dell’aratro Rotherham migliorò le tecniche

d’aratura. Tra il 1770 ed il 1840 si ebbe un profondo mutamento tecnologico. L’uso delle

macchine per operazioni ad altro fabbisogno di manodopera avventizia mutò il calendario dei

carichi di lavoro, modificò il mercato della manodopera rurale e liberò la parte sottoccupata.

L’impiego del motore a vapore L’impiego della macchina a vapore in siderurgia, permise agli

impianti di funzionare senza interruzione, ma anche di disporre in modo “concentrato” di

sufficiente energia da poter riunire in un solo impianto le tre fasi di forno, fucina e officina. Nel

mondo delle miniere prese forma l’idea della locomotiva. Il primo esemplare si deve a R.

Trevithick (1801), che utilizzo una macchina a vapore ad alta pressione; nel 1804 il primo

esemplare era pronto per l’impiego. Il punto debole di questo nuovo sistema era rappresentato

dai freni, dagli assali, dalle mole e dall’armamento dei binari. Nel 1825 G. Stephenson costruì una

locomotiva a vapore che trascinava vagoni pieni di carbone tra 2 giacimenti. Nel 1829 riuscì a

perfezionare la sua Rocket e un anno dopo fu inaugurata la prima linea ferroviaria.

Innovazioni tecnologiche nel tessile Nel settore cotoniero, le macchine che resero più rapida ed

efficiente la filatura furono inventate tra il 1760 e il 1780:

1.1733, J. Kay invento la “Navetta Volante” per il telaio, raddoppiando la produttività dei tessitori

e moltiplicando la domanda di filo;

2. 1769, R. Arkwright, “Water Frame”, filatoio idraulico imponente e costoso che utilizzò la forza

idraulica dei mulini;

3. 1770, J. Hargreaves, “Spinning Jenny”, piccolo filatoio; ebbe grande successo poiché costava

poco, era facile da usare e permetteva ad una sola persona di realizzare una grande quantità di

filo per ogni giornata di lavoro;

4. 1774-1779, S. Crompton, “Mule”,ottenuto combinando i principi della water frame e della

spinning jenny, permetteva di ottenere diversi tipi di filo

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5. 1790, W. Kelly, riuscì a costruire mule automatiche mosse da una ruota ad acqua dotate di

circo 300 fusi l’una e si rivelò di grande affidabilità e di diffuse a macchia d’olio sempre più

spesso mossa da macchine a vapore. I progressi nella tessitura furono più lenti. Tra il 1841 e il

1845, i telai meccanici raggiunsero una tale perfezione tecnica da divenire il sistema di gran lunga

più economico poiché un solo sorvegliante accudiva più macchine, con sensibili risparmi dei costi

di produzione e minor impiego di manodopera qualificata. Le operazioni di rifinitura dei tessuti

furono le più lente a meccanizzarsi.

Il primo paese industriale Nel 1851 ci fu la prima esposizione industriale della storia a Londra,

durante la quale i visitatori si accorsero che le tecnologie inglesi non avevano eguali: a metà ‘800

la Gran Bretagna era la massima potenza economica del pianeta. I destini economici della

popolazione. Nei primi 50 anni dell’800 gli abitanti erano quasi raddoppiati. Non si tratto

solamente di una vistosa crescita, ma anche la struttura demografica mutò profondamente:

1. Negli anni ’40 la popolazione urbana sopravanzò quella rurale;

2. Crebbero le città industriali;

3. La popolazione si spostò verso settori a maggior produttività rispetto a quelli di provenienza.

La crescente integrazione del sistema economico inglese è attestata dall’espansione degli addetti al

secondario a spese del primario e dal progresso delle attività d’intermediazione, distribuzione,

credito, assicurazione e servizio alle persone. Fin dal 1831, l’Inghilterra era un paese a economia

industriale, poiché l’agricoltura cedette il primato all’industria nella formazione della ricchezza

nazionale. La crescita del ‘700 divenne sviluppo, sicché la ricchezza prodotta nel paese in 50 anni

crebbe di tre volte e mezzo. Nel ventennio 1811-1831 vi fu il massimo sviluppo economico

inglese, ben prima che facessero la loro comparsa le ferrovie; il tenore di vita medio migliorò

sensibilmente, con un’impennata del reddito pro capite negli anni proprio negli anni 20.

L’assenza di barriere all’entrata Nel primo ‘800 lo sviluppo industriale fu favorito anche dalla

modesta quantità di capitale necessario per gli investimenti. I dati confermano che per 60 anni

circa, in Inghilterra fu possibile divenire industriali senza dover disporre di ingenti risorse. Una

volta avviate, le imprese si ingrandirono grazie all’investimento di una parte dei profitti.

Ruolo e peso del capitale fisso Il capitale fisso rappresentava, nei cotonifici, poco più della metà

di tutte le risorse investite, e negli altri settori rappresentava anche una quota inferiore. Un freno

agli investimenti in capitale fisso provenne dalla larga ed elastica offerta di manodopera a basso

salario, connessa al declino del putting-out system, e all’alto ritmo di crescita della popolazione. I

mulini, in ritirata, resistevano solo dove non era indispensabile disporre di un moto continuo e

regolare delle apparecchiature. I progressi della siderurgia e la crescente domanda di manufatti

metallici favorirono la nascita del settore metalmeccanico attorno agli anni 20.

Investimenti in infrastrutture Nella prima metà dell’800 il capitale venne investito principalmente

nella costruzione e manutenzione dei canali: essi svolsero un ruolo decisivo nella formazione del

mercato nazionale. Essi favorirono anche la specializzazione dei trasporti in 3 settori:

1.Cabotaggio lungo le coste;

2.Acque interne;

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3.Strade; pretesero l’impiego di risorse enormi.

Imprese credito e moneta Fino a metà ‘800 quasi tutte le imprese britanniche furono individuali

o familiari. Il Bubble Act del 1720, promulgato per tutelare i risparmiatori dopo lo scandalo della

South Sea Bubble, una bolla speculativa scoppiata a Londra in quell’anno, prevedeva solo società

in nome collettivo (partnerships), così ogni socio rispondeva con i propri beni dei debiti degli altri

soci. Le società anonime non erano sconosciute, ma per la loro costituzione era necessario

ottenere un atto speciale del parlamento assai costoso. Il Bubble Act fu abolito nel 1825, anche

se la responsabilità limitata (Limited Company ) fu introdotta solamente nel 1825 con i Joint-Stock

Company Acts. Nel 1885 le Limited Company erano in netta minoranza fra le imprese

manifatturiere e si concentravano nella cantieristica, siderurgia e nel cotonificio. Più numerose

erano le società azionarie costituite con semplice scrittura privata (Limited Private Company ),

legalmente riconosciute solo dal 1907: fu la formula preferita per controllare le imprese familiari.

L’identità fra impresa e famiglia fu uno dei caratteri fondanti de, imprenditoria inglese e limitò le

fonti d’approvvigionamento di capitali:

1.Alle relazioni familiari e societarie fra persone;

2.Al credito commerciale, in forma d’allungamento dei termini di pagamento delle materie prime e

dei semilavorati;

3.A facilitazioni prestate da grossisti agli industriali, loro fornitori;

4.All’autofinanziamento derivante dalla mancata o parziale distribuzione di utili. La principale forma

di finanziamento fu largamente rappresentata da credito commerciale a breve, offerto da banchieri

che scontavano cambiali avvallate da terzi.

La sospensione della convertibilità in oro e argento della cartamoneta emessa dalle banche

moltiplicò i mezzi di pagamento fiduciari mentre prezzi e salari continuavano a crescere e il

debito pubblico aumentò di tre volte e mezzo. Con il Pell Act del 1819, si decise di ancorare il

valore della sterlina all’oro e di limitare l’emissione di moneta cartacea alle disponibilità di metalli

preziosi esistenti presso le banche. Dal 1821 la convertibilità fu reintrodotta di fatto: l’Inghilterra inaugurava così il GOLD STANDARD, un sistema monetario che avrebbe semplificato i rapporti

commerciali internazionali per tutto l’800 e fino allo scoppio della prima GM. La Banca

d’Inghilterra divenne così ‘istituto di riscontro finale. La riforma del 1844 (Bank Charter Act ),

regolò rigidamente l’emissione di moneta cartacea, essendo prevalsa la convinzione che la

mancanza di vincoli all’emissione incoraggiava le speculazioni.

Le reazioni della società al capitalismo industriale Tra il 1795 e il 1815, il rialzo dei prezzi

raddoppiò le rendite fondiarie. Analogamente crebbero anche i profitti della seconda generazione

degli industriali, ma alla fine delle guerre napoleoniche il clima cambiò perché segui un periodo di

deflazione che porto a un generale malcontento ed ad una serie di tumulti. I modi di lavorare

avevano subito enormi cambiamenti. L’industrializzazione sostituì al servo l’operaio, l’uomo fu

ridotto a merce fittizia. I domestici si salvarono dal processo di massificazione. Nella fabbrica, il

lavoro alle macchine impose una monotonia che era sconosciuta agli operai preindustriali.

L’industrializzazione portò con sé la tirannide dell’orologio, del tempo dettato dal fischio della

sirena della fabbrica e dal ritmo della macchina. Poiché uomini, donne e bambini non si

adattavano spontaneamente a mutamenti tanto radicali, si dovettero costringere con una ferrea

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disciplina e con ammende, con leggi sul lavoro dipendente come quella del 1824 che prevedeva

la prigione per gli operai che rompessero un contratto di lavoro. Anche i salari bassi cooperarono

alla normalizzazione. A causa della rapida industrializzazione e del conseguente inurbamento, le

città spesso mancavano di servizi pubblici elementari, e ciò contribuì alla diffusione di diverse

malattie come tifo, colera e tubercolosi. Le città distrussero anche le tradizionali relazioni umane:

credenze, morali, religione e cultura non offrivano alcune linee guida per i comportamenti richiesti

dal nuovo mondo industriale, e la completa ignoranza del miglior modo di vivere rendeva la vita

quotidiana ancor più penosa e difficile per i poveri. Nella prima metà dell’800 sul paese si

abbatterono periodiche ondate di malcontento e malessere sociale. Nel 1832 il Reform Bill , una

nuova legge elettorale, modificò i collegi elettorali uninominali accrescendo i seggi cittadini a

scapito di quelli delle contee; fu, poi, istituito il suffragio censitario.

Tenore di vita e assistenza ai poveri Il periodo che va dal 1818 al 1824 venne contraddistinto da

un drastico calo dei prezzi ma, in realtà, solo pochi salari nominali furono diminuiti sicché, allo

stesso tempo, crebbe anche il loro potere d’acquisto. Il processo di deflazione durò fino agli anni

’50 e i salari nominali resistettero o calarono di meno; l’unica eccezione furono i salari dei

tessitori, radicalmente diminuiti. Il periodo aureo dei salariati (1818-1825) si spiega con una serie

di circostanze almeno in parte fortuite come:

1.Severa politica deflazionistica orientata al ripristino della convertibilità della sterlina;

2.Tradizionale vischiosità dei salari ereditata dall’età preindustriale;

3.Maggiore volatilità dei prezzi di derrate agricole e manufatti industriali;

4.Mutamenti strutturali intervenuti nella società e nell’economia inglese che indussero il

Parlamento a rivedere la politica assistenziale verso i poveri; infatti, le 1834, fu introdotto un

nuovo sistema di assistenza sociale (il sistema di Speenhamland) che integrava le entrate dei

poveri quando queste non assicuravano adeguate razioni quotidiane di pane.

Il sistema dei sussidi tratteneva la forza lavoro nei luoghi d’origine e addossava ai proprietari

fondiari della parrocchia l’onere del finanziamento dell’assistenza; inoltre istituiva anche case di

lavoro parrocchiali o interparrocchiali nelle quali le autorità riunivano i disoccupati. In tal modo

prevaleva una mentalità che identificava nel povero un fannullone da istituzionalizzare e

controllare.

L’Inghilterra dal primato al declino Verso il libero scambio internazionale L’esportazione svolse un

ruolo strategico nella crescita economica e nello sviluppo inglese fin dai primi decenni dell’800. Di

fronte ad un calo consistente dei prezzi del grano che fece fallire numerosi fittavoli, nel 1815 il

Parlamento votò la legge protettiva del grano nazionale (Corn Law ) volta a impedire le

importazioni di cereali a basso prezzo. A varie riprese i dazi furono progressivamente inaspriti.

Presto si notò che i dazi sui grani mantenevano artificiosamente alti i prezzi dei beni di prima

necessità e anche i salari correlati al carovita. Si profilava un conflitto tra interessi degli agrari e

interessi degli industriali. Nel 1820 i fautori del libero scambio riproposero le loro tesi con una

petizione presentata in Parlamento. Nel 1822 furono ridotti i dazi sulle materie prime e sui

prodotti industriali, furono oppresse alcune proibizioni e attenuati gli atti di navigazione. Nel 1828

fu votata la scala mobile dei dazi sul grano che riduceva il protezionismo sui cereali. Nel 1833

furono ritoccate al ribasso anche le tariffe doganali. Formidabile ostacolo al libero scambio era

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dato dal fatto che il gettito delle dogane rappresentava larga parte dell’entrata del bilancio

pubblico inglese, insieme alla protezione tradizionalmente accordata in sede politica agli interessi

dei proprietari fondiari, i cui rappresentanti sedevano tanto nella camera alta, quanto in quella dei

comuni. La riforma elettorale del 1832 portò in parlamento numerosi mercanti, industriali convinti

assertori del libero scambio; essi affermarono che i diritti doganali riducevano le dimensioni del

mercato nazionale e di quello estero perché limitavano anche la capacità d’acquisto dei paesi

esportatori. Il successo di queste tesi venne dalla prima mobilitazione dell’opinione pubblica e

culminò con l' Anti-Corn-Law League fondata nel 1836; 6 anni più tardi, nel 1842, R. Cobden e i

gli altri sostenitori del libero scambio ottennero un attenuamento della scala mobile del grano.

Tutti i dazi furono abbassati, eliminati i divieti d’entrata di talune merci e fissate al 5% le tariffe

sulle materie prime. Un quadro generale dei rapporti economici intrattenuti dalla Gran Bretagna

con l’estero permette di soppesare il ruolo dei movimenti di merci, l’importanza dei proventi

ottenuti da servizi e il crescente peso dei profitti realizzati investendo capitale all’estero. La

dipendenza commerciale dall’estero è talmente evidente da giustificare la preoccupazione di aprire

le porte alle merci straniere. La vera forza dell’economia inglese consisteva nei servizi, nella

riesportazione di coloniali e nell’esportazione di capitali. Se la bilancia dei pagamenti fu

costantemente in avanzo, ciò si dovette alle cosiddette partite invisibili (finanza, assicurazioni,

banca e noli marittimi) che concorsero ad accrescere le riserve auree inglesi.

L’Inghilterra verso il declino Con l’introduzione del libero scambio, la dipendenza inglese dal

commercio internazionale si accentuò e vennero al pettine molti nodi connessi a uno dei caratteri

originari dello sviluppo britannico: la ristrettezza del mercato interno. La popolazione non era

abbastanza numerosa né danarosa da sostenere un apparato industriale e commerciale in continua

crescita. Inoltre i salariati inglesi erano stati tenuti troppo a lungo in condizioni di sottoconsumo

perché alimentassero un’adeguata domanda aggregata di beni e servizi non indispensabili. Fino al

1875 circa, le esportazioni inglesi aumentarono più rapidamente del reddito nazionale; in altri

termini, una quota crescente della ricchezza prodotta in Gran Bretagna e ne andava all’estero. Alla

lunga il primato britannico fu messo in discussione. Le economie in via di sviluppo, una volta

appropriatesi delle conoscenze necessarie all’avvio dell’industrializzazione, abbracciavano il

protezionismo per consolidare standard tecnici tanto elevati da permettersi di affrontare e battere

sui mercati esteri la concorrenza britannica. Solo tra il 1846 e il 1873 Gran Bretagna, aree in via

di sviluppo e regioni sottosviluppate trassero un mutuo vantaggio dal libero commercio

internazionale. Il periodo aureo dell’economia inglese fu tra il 1840 e il 1870, periodo durante il

quale il commercio mondiale crebbe enormemente, ma quella fu anche l’epoca dalla quale il

paese cominciò a perdere il suo primato industriale. Le interpretazioni del declino inglese hanno

soprattutto insistito sulla “stanchezza” della terza generazione d’imprenditori i cui avi avevano

profittato di condizioni favorevoli al successo e i cui padri lo avevano consolidato. Taluni fattori

esterni contribuirono ad aggravare la situazione socio-culturale per molti versi statica:

1.Né il sistema scolastico né il sistema universitario britannico furono all’altezza della sfida posta

dal crescente fabbisogno di capitale umano e all’esigenza di trasmettere conoscenze scientifiche e

tecniche d’alto profilo;

2.L’avvento tardivo di nuovi settori industriali ad altra intensità tecnologica, insieme al ritardo

nell’adeguamento tecnologico in settori tradizionalmente forti;

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3.Lo stile di vita e valori culturali di riferimento del mondo imprenditoriale erano quanto di più

lontano potesse esistere dall’ingegneria industriale e dal management; anche nel mondo della

finanza l’accentuato conservatorismo istituzionale divenne presto un fattore d’arretratezza. Una

prova della caduta del potenziale economico inglese nel corso del 1800 proviene anche dal

raffronto tra livelli percentuali del reddito prodotto nel settore industriale, dagli investimenti

effettuati e dalla quota di spesa pubblica rispetto agli standard medi europei.

5. L’Europa industriale (1830-1914)

I primi imitatori continentali Nel 1815, a Vienna, i sovrani che sconfissero Bonaparte

ridisegnarono l’Europa, e Francia, Portogallo, Spagna e Italia rimisero sui troni gli antichi regnanti.

Dagli anni ’20 in qualche regione si profilarono mutamenti economici analoghi a quelli intervenuti

nell’Inghilterra del secondo ‘700. Il trasferimento di tecnologie pretese condizioni di base e

dotazione infrastrutturali:

1.Potenziali di crescita della produttività nel settore agricolo;

2.Disponibilità di carbon fossile e ferro;

3.Corsi d’acqua con portate costanti per tutto l’anno;

4.Vie di comunicazione efficienti e bassi costi di trasporto;

5.Facile accesso ai porti atlantici per l’approvvigionamento del cotone grezzo importato;

6.Collegamenti con i maggiori centri del commercio e della finanza internazionale;

7.Elevata specializzazione della manodopera artigiana;

8.Brevettabilità delle invenzioni:

9.Alti livelli di alfabetizzazione.

Questo insieme di requisiti mise una ristretta cerchia di regioni d’Europa nella condizione di

imitare l’Inghilterra fin dal terzo decennio dell’800. Solo dal 1824 in poi, artigiani inglesi poterono

espatriare e dal 1825 fu possibile costruire macchine all’estero su licenza. Una completa

liberalizzazione si ebbe solo dal 1843, con l’adozione del libero scambio delle merci. L’industria belga fu la prima a decollare e, di conseguenza, trasmise esperienze tecnologie e capitali alla

Francia settentrionale, alla Germania e alla Russia.

Il Belgio, primo paese industriale del continente Il congresso di Vienna (1814) unificò le ex

Provincie Unite olandesi con I paesi Bassi e il granducato del Lussemburgo. Le differenze

economiche e culturali portarono alla secessione del Belgio nel 1830, divenuto monarchia

costituzionale l’anno successivo. Precocità e alto ritmo di sviluppo belga dipesero da almeno 4

fattori:

1. La vicinanza all’Inghilterra e l’integrazione entro uno spazio economico che comprendeva Olanda,

alta Rennania e Francia settentrionale;

2.Le abbondanti riserve di carbon fossile e ferro;

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3.La presenza in numerosi centri di una solida manifattura tessile:

4.L’iniziativa economica dei sovrani che nel 1822 promossero la Société Genérale: la prima banca

d’affari europea e nel 1835 fondarono la banca centrale (Banque de Belgique) sottoscrivendo metà

delle azioni. Lo stato realizzo in pochi anni un’ampia rete ferroviaria. Nella vallata della Mosa, dal

1805, prese avvio una trasformazione tecnologia e organizzativa che dalla siderurgia si estese al

settore metalmeccanico. Tra il 1815 e il 1834 si affermarono 3 grandi imprese: nel 1809 quella di

W. Cockerill, nel 1821 quella dei fratelli Orban e nel 1829 quella di G.A. Lamarche: esse

controllavano e sfruttavano i giacimenti coi metodi più avanzati; fu il primo esempio d’integrazione verticale. Spesso alcune imprese incontrarono problemi di finanziamento, risolti con il concorso

pubblico e con investimenti di capitalisti industriali e grandi mercanti. Il settore che ebbe il

maggiore sviluppo, evoluto sin dal ‘300, fu quello della tessitura nella regione di Gand che venne

organizzandosi secondo lo schema della grande manifattura accentrata. Dopo aver ottenuto il

monopolio generale del cotone proveniente dalle indie olandesi, dal 1819-182, Gand divenne il

maggior centro cotoniero continentale, zona nella quale furono importati anche numerosi filatoi

automatici inglesi. La rapida meccanizzazione delle operazioni di filatura e tessitura accelerò

l’avvento della fabbrica e garantì guadagni di produttività e stimolò concentrazione e integrazione

verticale. L’esperienza storica dell’industrializzazione belga presenta alcuni caratteri peculiari:

1.La precocità dovuta al facile accesso alla tecnologia innovativa inglese;

2.L’intraprendenza degli industriali locali, primi organizzatori del sistema di fabbrica, e la

disponibilità di capitale finanziario;

3.I rapporti sempre più serrati del sistema bancario con le industrie;

4.Una politica statale favorevole all’industrializzazione.

La Svizzera, un’eccezione al modello inglese L’industrializzazione fu relativamente precoce anche in

Svizzera. Il suo caso conferma che le piccole dimensioni territoriali e demografiche costituirono un

fattore di facilitazione del primo viluppo industriale. La manifattura domestica rurale vi si era

rafforzata nel secondo ‘700 grazie a 5 condizioni:

1 Il particolarismo politico istituzionale, con leggi diverse da cantone a cantone;

2.Un’agricoltura talmente povera da esigere integrazioni dei redditi tramite manifattura domestica;

3.La vicinanza ai mercati francese e tedesco sui quali avviare esportazioni;

4.L’assenza di controllo delle corporazioni artigiane urbane nei confronti delle attività

manifatturiere dei vicini cantoni rurali;

5 La realizzazione di un’unione doganale, postale e monetaria. La particolare morfologia del paese

rappresentava una difesa. Nel primo ‘800, il settore cotoniero, avendo impiantato moderni filatoi,

produsse le matasse di base. L’abbondanza di corsi d’acqua indusse ad incrementare lo

sfruttamento dell’energia idraulica, e l’alto costo del carbone fece si che le poche macchine a

vapore importate funzionassero solo come macchine ausiliari. L’accoglienza delle stoffe pregiato sui

mercati esteri, favorì un vero e proprio boom dell’export svizzero in un settore oltretutto privo di

concorrenti. La posizione di nicchia, ormai consolidata nell’800, permise di continuare a usare telai

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a mano e filatoi idraulici dispersi entro un vasto comprensorio. Nel settore serico furono applicati

principi analoghi:

1.Lavorazioni tecnicamente accurate eseguite in piccoli opifici;

2.Qualità eccellente;

3.Forte orientamento all’esportazione.

Il terzo settore orientato ai mercati esteri era l’orologeria: il sistema produttivo s’imperniava sull’attività domiciliare di centinaia di artigiani, e grazie alla standardizzazione dei componenti e

l’uso crescente di macchine e di utensili di precisione modificarono le fasi del montaggio. Prima

Vacheron e Costantin e poi Patek, Philippe & Co., intrapresero la produzione per l’esportazione di

orologi standardizzati d’oro e d’argento. A metà ‘800, già una delle regioni più industrializzate

d’Europa, la Svizzera si scoprì anche una vocazione turistica elitaria. Poco dopo anche l’agricoltura cominciò a migliorare e sorsero industrie agrarie innovative, come quelle del latte condensato,

dell’estratto di carne per brodo e del cioccolato. Un settore chimico e farmaceutico d’alto profilo

tecnico scientifico si affermò nel secondo ‘800 , riuscendo a piazzare quali il 90% della sua

produzione all’estero. La Francia divenne il maggior partner negli scambi di merci. Con il tempo la

quota dell’export svizzero andò calando, per converso aumentò l’esportazione di capitale tecnico e

finanziario che era poco meno che doppio rispetto a quello inglese. Nell’alta Italia, gli svizzeri

erano fra i principali protagonisti del nascente settore della filatura del cotone. Durante l’800 la

crescita economica del paese fu costante ed equilibrata, fatto che portò ad un aumento del PIL

pro capite che raggiunse i livelli di quello inglese e belga. Fra i fattori che concorsero a un

risultato tanto appariscente, vi furono anche requisiti di carattere sociale e culturale, come:

1.Il livello d’istruzione e d’ingegnosità della popolazione;

2.Un’ampia disponibilità di energia idraulica;

3.Esportazione di prodotti di pregio e di nicchia;

4.Secolare abitudine al risparmio;

5. Combinazione di redditi agricoli e da manifattura domestica;

6.Protezionismo agricolo che assicurò redditi adeguanti ai contadini e li trattenne dal cercare in

massa lavoro nell’industria;

7.Alta qualità delle produzioni nel cotonificio, nel setificio, nell’orologeria e più tardi nella

farmaceutica e nella chimica;

8.Il prestigio di cui godettero i manufatti svizzeri.

Il gigante lento:la Francia

La  popolazione  Nel  1801,  la  Francia  era  il  paese  più  popolato  dell’Europa  occidentale, anche se la quota dei

giovani era inferiore a quella degli anziani. La caduta della fecondità, fu determinata dalle morti che

portarono le guerre napoleoniche, e rafforzata, in seguito, dagli effetti successori del Codice civile, che

distribuiva il patrimonio  paterno  fra  i  figli  impoverendo  le  famiglie  numerose.    L’inurbamento  dei  rurali,  

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solo  in  parte  derivò  dall’industrializzazione.  Le  città  erano  anzitutto  centri  amministrativi,  d’artigianato  e  di  servizi che smistavano i prodotti del mondo rurale circostante. La crescita urbana fu alimentata dal

sovrappopolamento delle campagne. Ne derivarono 4 processi di notevole portata economica e sociale:

1. L’inurbamento  in  piccoli  e  medi  centri  che  crebbero  di  dimensione:

2.Controllo della fecondità praticato dalla popolazione rurale;

3.Incremento del volume delle produzioni agricole;

4.Regresso  dell’artigianato  rurale.  

L’agricoltura  La  suddivisione  dei  suoli  tra  le  diverse  coltivazioni,  nel  1840,  prova  il  grado  d’arretratezza

delle  campagne  francesi.  Per  tutto  l’800  esistettero  diversi  sistemi  agrari,  separati  da  una  linea  ideale  che  tagliava diagonalmente il paese da nord-ovest a sud-est. A nord prevalevano grandi poderi dati in affitto e

condotti direttamente dai proprietari. A sud coesistevano due agricolture contadine; una sussistenziale,

fatta  di  piccoli  proprietari  che  avevano  saltuari  contati  con  il  mercato,  e  l’altra  monoculturale.  Un  lento  processo di modernizzazione coincise con il regno di Luigi Filippo di Orleans (1831-1847), durante il quale si

affacciarono  le  prime  colture  industriali.  Il  crescente  potere  d’acquisto  degli  abitanti  delle  campagne  fu  un  decisivo  fattore  di  crescita  per  l’economia  dell’intero  paese.    

Verso il mercato nazionale: comunicazioni e trasporti Nel periodo tra il 1830 e il 1860, ingenti investimenti

nel  sistema  delle  comunicazioni  favorirono  l’avvento  del  mercato  nazionale.  Il  sistema  viario  era  tra  i  più  evoluti ed efficienti del paese, e fece un miglioramento con il completamento della rete interna di canali.

Tra il 1852 e il 1870, le grandi linee ferroviarie furono completate. Un calo netto dei costi di trasporto

abbassò  i  costi  di  produzione,  allargò  il  mercato  interno  e  rese  più  competitive  le  merci  francesi  all’estero.    

Risorse naturali, energia, tecnologie L’abbondanza  delle  acque  e  l’alto  costo  del  carbone  spiegano  la  lenta  penetrazione in Francia della macchina a vapore. La protezione doganale favorì la nascita di un solido

settore  meccanico.  Con  i  primi  anni  ’60,  l’energia  delle macchine a vapore eguagliò quella prodotta dai

motori  idraulici,  i  cui  rendimenti  erano  stati  migliorati  con  l’applicazione  di  turbine;  per  di  più,  pregiudizi  culturali  ostili  all’uso  del  carbone,  ritardarono  l’utilizzo  del  coke.  Per  questa  somma  di  ragioni la siderurgia

francese raggiunse livelli produttivi analoghi a quelli inglesi solo dopo il 1870. La siderurgia francese

assunse i caratteri della grande impresa moderna solo dal 1870 con:

1.L’integrazione  verticale;

2.La concentrazione finanziaria in società anonime;

3.Impianti  d’enormi  dimensioni;

4 L’evoluzione  verso  l’oligopolio;  

5.L’abbattimento  della  concorrenza  con  un  cartello  che  avrebbe  evitato  crisi  di  sovrapproduzione  e  mantenuto alti i prezzi interni, grazie anche alle consistenti difese doganali.

Le industrie tessili L’editto  regio  del  1762,  con  il  quale  si  permetteva  ai  campagnoli  di  fabbricare  ogni  tipo  di  stoffa,  sancì  una  diffusa  e  preesistenze  situazione  di  fatto.    L’industria  tessile  francese  seguì  il  modello  inglese. Superato il periodo delle guerre e del blocco napoleonico, nel 1815 la filatura era in linea con le

tecniche  più  aggiornate.  La  regione  cotoniera  francese  fu  l’Alsazia.  Il  successo  commerciale  stimolò  l’avvio  

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d’attività  locali  di  filatura  e  tessitura.  La  tessitura  subì trasformazioni altrettanto profonde. Il cotonificio

alsaziano  stimolò  la  strutturazione  di  un  indotto  che  comprendeva  la  chimica  e  la  meccanica.  L’Alsazia  divenne una delle aree più industrializzate di Francia perché al cotonificio, alla chimica e alla meccanica si

aggiunsero imprese siderurgiche lanifici, cappellifici, cartiere e raffinerie di zucchero da barbabietola. Nel

cotonificio  l’adozione  di  filatoi  meccanici  fu  più  rapida  per  almeno  tre  motivi:  

1.Il cotone aveva parzialmente sostituito il lino e la lana causando una riduzione dei loro tradizionali sbocchi

di mercato;

2.La larga disponibilità di manodopera rurale a basso costo ritardò la meccanizzazione e concentrazione

della filatura;

3.  Ci  furono  notevoli  difficoltà  tecniche  da  superare.  L’ultimo comparto tessile a dotarsi di macchine fu

quello del lino. Ancora più lenta fu la diffusione di telai automatici.

Capitale Finanziario e credito Attorno al 1815, in Francia, la moneta aveva un ruolo modesto come

intermediario degli scambi. Per di più la  circolazione  monetaria  era  intralciata  dalla  presenza  di  un’infinità  di vecchie monete divisionali, nazionali ed estere, di valore intrinseco largamente inferiore al nominale. Ci

fu  un  grande  ritardo  all’avvento  di  un  mercato  monetario  moderno  e  della  nascita di un sistema creditizio

capillarmente  diffuso.  Del  resto,  la  Banca  di  Francia  non  contribuiva  certo  a  promuovere  l’uso  di  moneta  fiduciaria,  poiché  per  gran  parte  dell’800  banconote  e  depositi  svolsero  un  ruolo  economico  marginale.  Napoleone tentò di  rilanciare  il  credito  agganciando  il  franco  all’oro  e  fondando  la  Banca  di  Francia,  ma  la  severità delle procedure scoraggiò il ricordo alla BC e favorì il proliferare di scontisti privati che applicavano

alti  tassi  d’interesse  e  impedivano  la  formazione  d’un  mercato  creditizio  trasparente.  Il  Codice  di  commercio  del  1808,  oltre  alla  società  di  persone,  contemplò  la  società  in  accomandita  e  l’anonima.  Gli  investimenti nelle imprese commerciali e industriali vennero soprattutto dai patrimoni familiari degli

imprenditori e dal reimpiego di profitti. I patrimoni familiari comportarono due gravi conseguenze:

1.Le piccole dimensioni impedirono di sfruttare e economie di scala;

2.Vi  fu  un’accentuata  indipendenza  dalle  banche.

Del resto i banchieri francesi non ambivano a sostenere le industrie. Le casse di risparmio versavano la loro

raccolta, fatta nelle periferie, alla nazionale Cassa Depositi e Prestiti, che permetteva al governo di

realizzare investimenti pubblici infrastrutturali. Un freno allo sviluppo  economico  provenne  dall’attitudine  francese  a  impiegare  risparmi  in  investimenti  sicuri:  pertanto,  solo  un  po’  meno  della  metà  del  risparmio  netto  francese  fu  investito  nell’agricoltura  e  nell’industria  del  paese.    

Il commercio internazionale e l’andamento  del  reddito  nazionale Rivoluzione e primo impero intralciarono

non  poco  le  relazioni  francesi  con  l’esterno,  anche  per  via  dell’embargo  commerciale  del  1806.  Dopo  la  caduta di Napoleone, le importazioni di materie prime crebbero sotto lo stimolo  dell’industrializzazione.  La  bilanci commerciale francese rimase in deficit fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Il lungo periodo

libero-scambista facilità le importazioni di materie prime, ma causò anche una depressione agricola. Poiché

due terzi dei francesi viveva ancora nelle campagne, vi fu un peggioramento dei loro redditi, fatto che

rallentò la dinamica economica compressiva. Per di più ci fu la sconfitta contro i prussiani, che portò alla

perdita  dell’Alsazia,  maggior  polo  dell’industria cotoniera, e della Lorena, giacimenti di carbone e ferro. La

caduta delle protezioni daziarie rivelò la debolezza del sistema economico francese. La miscela di vincoli e

limiti  dell’economia  francese  dell’800  può  essere  così  riepilogata:  

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1. Lo svantaggio derivante dalle dimensioni geografiche e demografiche insolitamente ampie;

2.Un’agricoltura  arretrata  imperniata  u  coltivazioni  volte  ad  assicurare  la  sussistenza;  

3.La notevole arretratezza del sistema monetario e creditizio;

4.Una persistente mentalità  orientata  soprattutto  all’impiego  del  risparmio  in  investimenti  a  basso  rischio;  5.Un ingente debito pubblico che impegnava, per il pagamento degli interessi, una grossa parte del bilancio

statale;

6.Una domanda interna depressa a causa della stagnante dinamica demografica e per la lenta crescita del

reddito pro capite.

Un mondo rurale conservatore e tradizionalista, insomma, ebbe una parte non secondaria nella vicenda

del  lento  sviluppo  economico  del  paese.  Nell’800  divenne  il  massimo  produttore  di  grano e di vino

dell’Europa  occidentale.  Si  riconosce,  in  generale,  una  tendenza  a  non  sacrificare  il  settore  tradizionale  favorire quello avanzato.

Scienza  e  tecnica  al  servizio  dell’industria Dall’empirismo  alla  scienza  Nel  secondo  ‘800  prese  il  sopravvento  l’adattamento  all’industria  dei  risultati  della  ricerca  scientifica  nelle  discipline  chimiche,  fisiche  e  meccaniche.  La  “tecnologia  invisibile”,  derivante  dalla  scoperta  di  fenomeni  invisibili  a  occhio  nudo,  fu  trasferita alla siderurgia, alla chimica di  base,  all’elettricità  e  alla  meccanica:  tutti  settori  nei  quali  conoscenze scientifiche e tecnologiche si tradussero in invenzioni e innovazioni. In campo siderurgico, il

progresso decisivo consistette nella messa a punto di tecniche che resero assai meno costosa la produzione

dell’acciaio.  Nel  1856,  H.  Bessemer  brevettò  un  sistema  di  fabbricazione  dell’acciaio  dalla  ghisa,  che  permetteva di abbassare e controllare la percentuale di carbonio presente nel metallo allo stato liquido, ma

solo possibili con alcuni minerali ferrosi. Nel 1870, Martin e Siemens escogitarono un nuovo forno, più lento

e più costoso del Bessemer, che, alimentato con minerali ferrosi ricchi di fosforo frammisti a rottami di

ferro, forniva acciaio di migliore qualità. Nel 1878-1879 S. G. Thomas e P. C. Gilchrist brevettarono un

ingegnoso metodo di correzione basica del fosforo acido presente nei minerali ferrosi, che permise di

sfruttare nelle acciaierie i minerali di vasti giacimenti fosforosi. La chimica contribuì alla scoperta e

all’utilizzo  di  nuovi  metalli  come  cromo,  manganese  e  tungsteno  e  allo  sfruttamento  di  zinco,  nichel,  magnesio e alluminio. Dal 1856 la chimica industriale aprì la strada al fondamentale settore dei coloranti

artificiali. Si avviarono così 4 nuovi settori:

1.Principi attivi farmaceutici;

2.Esplosivi;

3.Reagenti fotosensibili;

4.Fibre sintetiche.

L’elettricità  fu  il  campo  della  fisica  nel  quale  susseguirono  scoperte  teoriche  più  tardi  tradotte  in  applicazioni economicamente sfruttabili. Nel 1821 M. Faraday inventò il motore elettrico e, 10 anni dopo, la

dinamo.  Però,  vi  furono  problemi  di  produzione  e  distribuzione,  e  l’elettricità  a  livello  industriale  fu  sfruttata  soprattutto  per  trasmettere  informazioni  via  telegrafo.    Il  telefono  dell’americano  G.  Bell (1876)

rese private le comunicazioni. T. A. Edison, inventore del fonografo e della lampadina ad incandescenza, si

occupò  soprattutto  di  generazione  e  distribuzione  dell’energia  per  l’illuminazione  pubblica  e  privata.  La

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produzione di corrente alternata e del trasformatore permisero di trasferire anche a grandi distanze

l’energia  elettrica  usata  per  illuminazione,  trazione,  elettrochimica,  elettrometallurgia  e  forza  motrice.    L’ingegneria  meccanica,  dal  1840  in  avanti,  ebbe  il  suo  settore  più  dinamico nelle linee ferroviarie e nel

materiale rotabile. Anche i piroscafi mutarono tempi e volumi dei trasporti via acqua. Fra il 1838 e il 1854,

la  cantieristica  costruì  le  prime  grandi  navi  di  ferro  mosse  da  motori  di  crescente  potenza;  negli  anni  ’60  si

passo  alla  produzione  di  scafi  d’acciaio.    Nel  campo  della  meccanica  fondamentali  innovazioni  riguardarono  l’editoria.  Altra  invenzione  che  ebbe  reali  conseguenze  sui  sistemi  produttivi  fu  la  macchina  da  cucire  comparsa  nei  primi  anni  ’50:  essa  penetrò  nell’economia  domestica  e  diede  un  forte  impulso  all’industria  dei  guanti,  selleria,  confezione  di  calzature.  La  bicicletta  (1885)  e  soprattutto  l’automobile,  messa  a  punto  da K. Benz, mossa da un motore a scoppio a quattro tempi, ebbero un crescente successo dai primi del

‘900.

Lo stato protagonista economico Uno  sguardo  d’insieme  La  prima  industrializzazione  si  era  svolta  all’insegna  dello  stato  quasi  assente.  La  classe  dirigente  prelevò,  infatti,  ricchezza  con  imposte  sui  commerci  interni ed esteri, decentrò  l’esercizio  della  giustizia  affidandola  a  giudici  non  professionisti,  eliminò  le  corporazioni,  i  monopoli  e  le  privative,  e  costruì  la  proprietà  individuale.  L’azione  della  cosiddetta  “mano  invisibile”  evocata  da  A.  Smith,  vale  a  dire  la  generalizzazione degli scambi che promosse, poi, la divisione e

la specializzazione del lavoro e permise agli individui e alle imprese di perseguire il massimo tornaconto

nell’acquistare  e  nel  cedere  fattori  produttivi,  merci  e  servizi,  in  Gran  Bretagna  fu  il  motore  della crescita

mentre  il  governo  lasciava  fare.    Notevole  contributo  all’abbattimento  dei  costi  di  transazione  in  Gran  Bretagna  fu  l’istituzione,  dal  1840,  di  un  servizio  postale  prepagato.  La  stessa  amministrazione  postale  sviluppò, di lì a poco, una rete telegrafica.  Nel  secondo  ‘800,  il  pensiero  degli  economisti,  indusse  a  considerare innaturali quei processi che si discostavano da quello del primo paese industriale del mondo: in

realtà  si  trattavate  di  un  caso  unico  e  irripetibile,  poiché  l’Inghilterra  poté godere di un monopolio

tecnologico per più di 10 anni circa; una condizione che aveva reso assai difficili le condizioni di crescita e

sviluppo di eventuali concorrenti e permise ai produttori anglosassoni di realizzare margini di profitto

talmente alti da permettere loro di autofinanziare la crescita delle loro imprese. In secondo luogo, il

primato della flotta commerciale inglese spalancò le porte di un enorme mercato internazionale. Quei paesi

che  intrapresero  con  “ritardo”  il  difficile  cammino  dell’industrializzazione, dovettero ricorrere a quelli che

gli  economisti  chiamarono  fattori  sostitutivi  nell’impianto  dell’economia  industriale:

1.Protezionismo doganale;

2.Spesa pubblica;

3.Credito  mobiliare  d’investimento  nelle  società  anonime  industriali;

4.La diretta gestione statale di imprese industriali.

Negli stati del continente, la tradizione regolativa dei mercati interni e dei commerci esteri delle monarchie

assolute e dei despoti illuminati produsse riflessioni teoriche e prassi politiche e amministrative favorevoli

all’intervento  dello  stato  nell’economia.  Il  primo  e  più  diffuso  intervento  fu  dato  dalle  tariffe  doganali;  nel  secondo,  lo  stato  disincentivava  l’esportazione  di  prodotti  nazionali  considerati  strategici.    L’idea  che  il  protezionismo  fosse  la  chiave  di  volta  dell’avvio  della  trasformazione  dell’economia  nazionale  in  senso  industriale,  fu  propugnata  dal  tedesco  F.  List,  economista  che  pose  le  basi  teoriche  dell’azione  economica  degli stati volta a proteggere la crescita e il consolidamento delle industrie nascenti, in aperta

contraddizione  con  la  tesi  dominante  del  free  trade.  Dagli  anni  ’80  dell’800,  le  forme  d’intervento  dei  poteri  politici delle nazioni economicamente arretrate furono numerose (misure politiche riguardanti):

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1.Esigenza di raccogliere ingenti capitali: molti paesi avviarono politiche fiscali assai onerose; in tal modo lo

stato drenò risorse finanziarie che altrimenti non sarebbero state spontaneamente investite in maniera

mirata e produttiva;oppure venivano lanciati prestiti pubblici nazionali e internazionali;

2.Istituzionalizzazione di sistemi bancari capaci di controllare il credito e la moneta e di finanziare le grandi

imprese; una banca abilitata dal governo ad emettere banconote fu il primo prerequisito comune a tutti i

paesi; secondo passo fu aprire istituti di credito privati in forma di società anonime; in Belgio le Banche

universali o miste svolsero un ruolo decisivo nello sviluppo dei rispettivi comparti industriali;

3.Fattore lavoro; in tutti i paesi in cui  l’industria  andava  affermandosi  i  parlamenti:  

•Limitarono  l’età  lavorativa  dei  minori;  

•Limite  all’orario  di  lavoro  giornaliero;  

•Vietarono il lavoro notturno ai minori e alle donne;

•Previdero assistenza per le lavoratrici gestanti;

-Disposero misure igieniche e di sicurezza nei luoghi di lavoro;

•Vararono assicurazioni contro le malattie e contro gli incidenti sul lavoro;

•Organizzarono sistemi di pensionamento dai 65 anni.

La Germania: territorio e popolazione Nel 1800 i territori del futuro impero tedesco contavano 24,6 milioni

di  abitanti,  concentrati  nelle  regioni  a  suoli  più  fertili,  e  lungo  le  grandi  vie  di  comunicazione.  Tutto  l’800  fu  caratterizzato dalla alta mortalità infantile e da una bassa natalità. Mentre la popolazione aumentava, una

quota crescente di tedeschi si trasferiva dalle campagne alle città (inurbamento). Poiché gli inurbati erano

giovani, la loro fecondità accentuò il tasso di natalità delle città industriali, già in crescita per via

dell’immigrazione.    

Dogane e trasporti: verso un mercato nazionale Una politica di rigore finanziario permise ai governanti

prussiani di riequilibrare il bilancio dello stato e di affrancare parte del debito pubblico. Le misure più

gravide furono prese in campo  daziario.  Nel  1819,  dazi  e  gabelle,  furono  sostituiti  da  un’unica  tariffa  applicata  alle  merci  che  superavano  le  frontiere,  trasformando  così  il  regno  in  un’unica  area  commerciale,  così fabbricanti e commercianti dovettero misurarsi con i prodotti esteri. Con una lungimirante politica dei

piccoli  passi,  la  Prussia  allargava  la  sfera  d’influenza  del  suo  “mercato  comune”.    Nel 1829 fu raggiunto un

accordo  che,  dal  1833,  prevedeva  l’unificazione  dell’associazione  doganale  del  nord  con  quella  del  sud.  Entro il  1867  tutti  gli  stati  tedeschi  vi  aderirono  formando  una  Germania  economica  con  un’unica  frontiera  tariffaria  esterna.  A  metà  ‘800  in  Germania  erano  già  sviluppate  molte  ferrovie.  In  fatto  di  regolazione  pubblica, i diversi stati si valsero di tutte le possibili soluzioni: stile belga, francese o inglese.

I Prerequisiti materiali e sociali La formazione di un vasto mercato comune con modeste difese daziarie agì

come  prerequisito  dell’avvio  dell’industrializzazione  tedesca.  L’industria  sorse  su  basi  moderne, lontano dai

centri  tradizionali.  L’emancipazione  dei  servi  della  gleba  favorì  un  miglioramento  della  produttività  agricola  assieme  a  una  crescente  mobilità  della  manodopera.  L’agricoltura  era  in  costante  crescita,  grazie  a:  abbandono del maggese che  permise  l’aumento  della  superficie  produttiva  e  l’aggiornamento  agronomico.  Le grandi tenute orientali degli Junker .

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L’incubazione  dello  sviluppo  (1848-1873) A  metà  ‘800,  la  Germania  produceva  ed  esportava  materie  prime  e  derrate  agricole  dell’est  e  cominciava a fabbricare manufatti industriali. Dopo un boom durato dal 1852 al

1857,  l’economia  tedesca  continuò  a  crescere  impetuosamente.  Fra  il  1848  e  il  1873,  il  settore  tessile  fu  investito dai mutamenti più incisivi, con alla testa il comparto cotoniero.  L‘industria  della  lana  si  modernizzò  più lentamente perché buona parte della materia prima era esportata. Il settore tessile meno dinamico e

tecnicamente arretrato continuò a essere il linificio. Le leggi minerarie prussiane del 1851 diedero notevole

impulso  all’estrazione  di  carbone  e  ferro.  Fu  inoltre  dimezzata  la  tassa  gravante  sulle  materie  prime  estratte. Non mancarono apporti di investitori stranieri, di banche e di singoli risparmiatori, favoriti dalla

creazione di società minerarie anonime. Dal 1850 in poi, la domanda di prodotti siderurgici esplose. Le

esportazioni di materie prime e semilavorati tennero un ritmo altissimo. La classe politica e i burocrati

governativi compresero che lo sviluppo andava programmato favorendo la ricerca scientifica e l’istruzione  tecnica organizzando efficacemente le imprese e proteggendo con una politica doganale aggressiva. La

Germania preferì stipulare trattati bilaterali di commercio moderatamente protezionisti. Il mondo

tradizionale e aristocratico della terra si alleò  a  quello  spregiudicato  e  nuovo  dell’industria.  La  tariffa  protezionistica del 1879 inaugurò la fase di maturazione del capitalismo tedesco.

Dalla crescita allo sviluppo (1873- 1896) La Germania, unificata nel 1871, era un paese in via di sviluppo

che stava realizzando colossali investimenti industriali. Dal 1872 una lunga fase depressiva colpì le

economie più avanzate. Il cancelliere Bismarck introdusse il Gold standard 81873) simile a quello inglese e

limitò  l’emissione  di  carta  moneta  a  34  banche (1875). Fu anche promulgata una legge sui marchi di

fabbrica (1875) e una sui brevetti (1877). In agricoltura andava profilandosi un processo di riconversione

produttiva,  grazie  al  crescente  utilizza  di  macchine  e  fertilizzanti.  Anche  l’apparato  produttivo industriale

non smise di crescere. Nel tessile, il cotonificio continuò a consolidarsi e a completare la meccanizzazione.

La manifattura serica ebbe uno sviluppo sensibilissimo sulla base di una meccanizzazione intensiva di ogni

fase produttiva, tanto da portare il setificio tedesco al secondo posto in Europa. Si svilupparono anche

grandi  fabbriche  di  capi  d’abbigliamento  di  serie,  di  bottoni  e  di  calzature.  La  crescita  urbana  favorì  lo  sviluppo  dell’edilizia  civile  e  delle  imprese  di  servizi  quali  la  distribuzione  d’energia  elettrica,  di  gas,  tramvie,  telegrafi  e  telefoni.  La  chimica  si  affermò  nel  panorama  industriale  tedesco  della  fine  dell’800:  in  Germania  crebbero medie e grandi industrie chimiche operanti in 5 differenti settori:

1.Chimica di base;

2. Fertilizzanti agricoli artificiali;

3.Catrame, i coloranti minerali e artificiali;

4Esplosivi;

5.Cosmetici e prodotti farmaceutici.

Verso una posizione di primato Da 1870 al 1913, La Germania esportò sempre meno derrate agricole e

sempre  più  prodotti  industriali  ad  alto  valore  aggiunto.  A  partire  dal  1880,  l’economia  tedesca  ebbe  un  equilibrato  sviluppo  che  coinvolse  agricoltura,  commercio  e  servizi  accanto  all’industria, il settore dei

massimi investimenti in tecnologia. Il successo industriale tedesco per gran parte dipese dalle grandi

dimensioni aziendali e dai continui investimenti migliorativi in tecnologia, favoriti anche dagli stretti legami

intrecciati fra industria credito e finanza. Altro fattore di crescita fu la rinuncia alla concorrenza

antagonistica  sui  prezzi,  a  vantaggio  di  accordi  e  di  combinazioni  fra  imprese.  Dai  primi  anni  ’70  nacquero  attitudini favorevoli alla stipulazione di cartelli industriali, veri e propri patti di non aggressione mirati a

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mantenere  sul  mercato  un  discreto  numero  di  imprese  d’analoga  dimensione,  bandendo  la  concorrenza.  Questi cartelli giunsero a regolare prezzi e produzioni, a distribuire le quote di mercato tra imprese e a

formare  potenti  gruppi  d’acquisto  delle  materie  prime.  L’industria  tedesca  condusse  anche  una    politica  commerciale  aggressiva  di  dumping,  vendendo  all’estero  a  prezzi  inferiori  ai  costi  per  inibire  la  nascita  di  competitori entro i paesi più arretrati; questa  pratica  era  l’effetto  delle  sempre  più  energiche  difese  daziarie  messe  in  atto  dalla  maggior  parte  dei  paesi  a  quell’epoca  in  via  di  sviluppo.    

Banca centrale, sistema creditizio e investimenti. Il rapporto tra moneta, credito, finanza e investimenti è

centrale  nello  sviluppo  economico  tedesco.  Prima  dell’unificazione,  in  Germania  esistevano  molte  monete  metalliche; una prima razionalizzazione coincise con la riforma monetaria del 1871, che impose il marco

d’oro.  Nel  1875,  fu  riordinato  il  sistema  d’emissione  fondando  la  Reichbank  e  prendendo  a  modello  la  legge  bancaria inglese del 1844: essa svolgeva le normali operazioni di credito commerciale e fungeva da banca

delle banche. Dopo la crisi politica del 1848, comparvero i primi istituti di credito in forma societaria,

cooperative e accomandite per azioni; in seguito ci fu una grande proliferazione di società bancarie, delle

quali,  dagli  anni  ’60,  tre  assunsero  il  primato:  la Deutsche Bank, la Commerz und Disconto Bank, e la

Dresdner Bank. I maggiori istituti  di  credito  fecero  investimenti  soprattutto  nell’industria.  In  un  area  economica priva di tradizioni mercantili e arretrata sotto il profilo manifatturiero, le banche svolsero un

ruolo  fondamentale  nel  dirigere  gli  investimenti.  Un’attività  creditizia tanto rischiosa indusse le banche

miste, che facevano contemporaneamente operazioni di credito a breve, medio e lungo termine, ad avere

imponenti mezzi propri piuttosto che valersi dei depositi della clientela.

I contraccolpi sociali dello sviluppo economico La trasformazione della Germania da paese agricolo e

tradizionale  a  potenza  industriale  nell’arco  di  tre  generazioni  fu  all’origine  d’inevitabili  quanto  diffusi  malesseri sociali, sia nelle aree rurali che in quelle urbane, protagoniste di una crescita sostenutissima. Nel

1862 nacque il movimento cooperativo che si allargò rapidamente fino a comprendere parecchi settori

produttivi, della trasformazione e del consumo. I gettiti della tariffa doganale permisero di finanziare

misure di politica sociale volte ad attenuare i disagi esistenti presso vasti strati della popolazione meno

abbiente.  Un’altra  parte  servì  per  finanziare  un  sistema  assistenziale  fondato  su  4  settori  d’intervento:  

1.Pensioni di vecchiaia;

2. Provvidenze per malattia;

3.Assistenza per infortuni sul lavoro;

4.Sussidi  per  disoccupati,  che  non  ebbero  corso  a  causa  dell’irriducibile  opposizione  del  mondo  imprenditoriale.

L’allontanamento  di  Bismarck  interruppe  l’efficace  e  lungimirante  politica  conservatrice  intesa  a  controllare  il  malessere  sociale  interno  e  minò  la  posizione  di  centralità  dell’azione  diplomatica  tedesca  in  Europa.  La  sostituzione  dell’accorta  realpolitik  bismarckiana  con  una  ben  più  rozza  politica  di  pura  potenza  portò  al  progressivo isolamento della Germania sulla scena diplomatica europea.

Dal Feudalesimo al Capitalismo La  Russia  verso  l’emancipazione  dei  servi  Verso  il  1850,  la  Russia  era  una  società feudale, con tecniche arretrate e si avvaleva soprattutto del fattore lavoro. Il governo autocratico

degli zar controllava un immenso paese sottopopolato. La società russa era polarizzata agli estremi della

scala sociale: una ristretta cerchia di famiglie aristocratiche, i pomesciki , controllava la terra lavorata da

una massa di contadini poveri dispersa in villaggi. I diritti dei nobili sulla terra comprendevano il pieno

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controllo degli uomini che lavoravano. Ogni maschio adulto sposato riceveva in uso un lotto di terra,

secondo una ripartizione operata dal consiglio degli anziani, il mir , tenuto conto del numero dei

componenti della famiglia. I servi russi erano tenuti a prestare la loro opera sulle terre del signore oppure a

pagare  ogni  anno  un’onoranza  in  natura  e  in  moneta.  L’agricoltura  era  ancora  allo  stadio  di  attività  di  riproduzione, tuttavia si trattava del settore economico del quale proveniva la maggior parte della ricchezza

annualmente  prodotta  nell’impero.    L’esito  della  guerra  di  Crimea  (1854-1856) assestò un duro colpo

all’immagine  interna  ed  esterna  della  potenza  russa:  la  Russia  uscì  sconfitta  e umiliata a causa

dell’arretratezza  tecnologica  e  organizzativa  accumulata  rispetto  alle  altre  potenze  europee.  L’emancipazione  dei  servi  era  necessaria  per  attenuare  l’ostilità  esistente  tra  i  contadini  e  i  loro  proprietari,  ed era preferibile che essa avvenisse  dall’alto  anziché  dal  basso.  Il  governo  temeva  che  nelle  campagne  scoppiassero sommosse e rivolte, ma prevaleva il timore di avviare mutamenti alla lunga incontrollabili.

Anche  gli  intellettuali  osteggiavano  l’industrializzazione  perché  ne  percepivano  l’estraneità  rispetto  ai  valori  tradizionali della Santa Russia. Tra il 1858 e il 1868 fu abolita la servitù e distribuita la terra. La riforma

agraria poneva gravi questioni sociali: se i nobili preferivano vendere in modo da fronteggiare i loro debiti, i

contadini non volevano comprare, mancando loro le risorse per farlo. Due tipi di aziende agrarie prevalsero

all’indomani  della  riforma:  il  latifondo,  che  interessava  la  quarta  parte  dei  suoli  coltivati,  e  le  terre  dei  mir  controllate dai contadini ex  servi.  La  bassa  produttività  e  l’insufficiente  produzione  dei  piccoli  poderi  autarchici dei contadini ne induceva i titolari a cercare lavoro come braccianti presso i latifondi nobiliari.

Alla  lunga,  l’incremento  della  popolazione  e  l’aumento  percentuale di quella residente nei centri urbani

accrebbero la domanda interna di cereali e di patate e fecero del suolo un fattore sempre più scarso.

L?imponente crescita demografica nelle campagne causò una suddivisione dei poderi familiari nei mir e

aggravò  l’indebitamento  e  l’impoverimento  del  mondo  rurale.  Una  minoranza  di  contadini  intraprendenti  e  privi di scrupoli che prestava a usura, i kulaki , moltiplicò le proprie risorse monetarie e continuò ad

acquistare terreni: essi erano il ceto più dinamico delle campagne. La consistente crescita demografica

favorì  l’avvio  di  u  processo  di  urbanizzazione  e  di  emigrazione  verso  le  pianure  siberiane  e  dell’Asia  centrale.  Le  trasformazioni  strutturali  avvenute  nel  mondo  rurale  sul  finire  dell’800  e  l’aggiornamento  agronomico accrebbero la produttività cerealicola, portando il volume medio dei raccolti quasi a

raddoppiare  sull’arco  di  un  decennio.  In  realtà  non  sempre  fu  soddisfatto  il  fabbisogno  interno  di  derrate  alimentari; permase, quindi, il fantasma della carestia.

Dalla manifattura tradizionale all’industria La manifattura non esercitò alcuno stimolo su una

società del tutto priva di un ceto borghese. Per di più dal 1822, con l’adozione di tariffe

doganali, l’economia nazionale fu sottratta agli stimoli derivanti dall’importazione di manufatti di

largo consumo. La sostenuta crescita della popolazione comportò anche l’ampliamento della

rudimentale base manifatturiera. I dati mostrano un alto numero di addetti per opificio, spiegabile

con l’assenza di macchinari, e la minima percentuale di manodopera impegnata nelle fabbriche. La

nobiltà non riuscì mai a trasformarsi in un ceto imprenditoriale. Attorno al 1830 in Russia

cominciarono a comparire grandi impianti tecnologicamente all’avanguardia. I dazi protettivi sui

filati esteri, assieme all’importazione di macchinari e di tecnici inglesi, tra il 1838 e il 1853

favorirono un boom della filatura. Contemporaneamente il governo rilanciò l’espansione territoriale

in Asia centrale, sia per avviarvi la coltivazione del cotone, sia per smaltirvi le eccedenze

produttive del mercato interno.

Intervento statale, industria e finanza Come altrove in Europa, anche in Russia la costruzione di

strade ferrate impresse una svolta all’economia. Iniziate da compagnie private; con il passare del

tempo il governo intensificò il suo intervento. Nel 1878 lo stato prese il controllo di numerose

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società ferroviarie e riscattò le compagnie più importanti. Dal 1881 al 1903 i tre ministri

succedutisi al Tesoro favorirono investimenti di capitale finanziario e tecnologico straniero,

promossero lo sviluppo d’infrastrutture e accentuarono il protezionismo doganale. Il governo

aumentò la pressione fiscale sui contadini per diminuire i consumi e stornare risorse destinate alla

costruzione d’infrastrutture viarie e all’impianto d’industrie. Poiché la manodopera rissa era

inefficiente e indisciplinata e i possidenti non erano interessanti a investire nell’industria, il

governo decise di ricorrere a imprenditori stranieri che padroneggiassero le tecniche più moderne:

alla manodopera abbondante ma inefficiente e indisciplinata, il governo sostituì il fattore capitale.

Dal 1890, lo sviluppo della grande industria si fece tumultuoso. Negli stessi anni una ditta belga

avviò la costruzione di uno stabilimento siderurgico modernissimo nel cuore del bacino carbonifero

in Ucraina. Il governo incoraggiò e sostenne anche le attività metalmeccaniche, che dal 1880 in

poi crebbe rapidamente fino a produrre telai automatici per le industrie tessili; grazie alla

formazione di cartelli il settore riuscì a espandere le esportazioni. Nel settore petrolifero e in

quello del credito, si crearono veri e propri trust. La crescita del ceto borghese produsse un

mutamento sociale soprattutto nelle città, nelle quali l‘artigianato tradizionale cominciò a

tramontare. Al finanziamento delle infrastrutture pubbliche e dell’industria privata parteciparono sia

i capitali esteri, inglesi e tedeschi, sia quelli nazionali: in alcuni settori la finanza estera dominava.

Dal 1870 in poi, la finanza russa incontrò crescenti problemi, e il basso gettito fiscale e il

ricorrente deficit di bilancio, non fecero che aggravare il processo inflazionistico. Nel tentativo di

mettere sotto controllo la moneta, anche la Russia, nel 1897 adottò il gold standard, e la

stabilizzazione del rublo funzionò come una svalutazione che allineò il valore interno della moneta

con quello estero. Fu così incoraggiato l’afflusso di capitali esteri investiti in titoli del debito

pubblico russo. I sensibili progressi ottenuti nel campo industriale non si diffusero nel resto

dell’economia, anzi il passare del tempo accentuò il contrasto fra tradizione e innovazione. Dal

1906, sempre più spesso il governo dovette controllare e reprimere movimenti rivoluzionari favoriti

dal malessere economico e sociale diffuso tanto nelle campagne quanto nelle aree industriali.

L’economia italiana (1861-1914) I problemi d’impianto del nuovo stato liberoscambista Nel 1861,

L’Italia era uno degli stati europei più densamente popolati. L’arretratezza socio-culturale è provata

dai moltissimi analfabeti, dai pochissimi italiani capaci di comunicare per iscritto nella lingua

letteraria, dagli alti tassi di mortalità infantile, da diete alimentari mediamente povere e squilibrate

e da un suffragio elettorale limitato. Rispetto a quella dei maggiori stai europei, l’economia italiana era arretrata e depressa. Essa era divisa in molti mercati particolari e risentiva di alcune

caratteristiche sfavorevoli all’avvio di un processo di crescita industriale. L’agricoltura era tra le

meno produttive d’Europa: pochi suoli adatti alle coltivazioni, condizioni climatiche sfavorevoli,

arretratezza agronomica e mancanza di macchine e fertilizzanti chimici non garantivano nemmeno

l’autosufficienza cerealicola del paese. Il basso reddito assicurato dal dominante settore primario

impediva anche l’accantonamento di risparmi. Il paese era privo delle risorse naturali

indispensabili per l’impianto di una siderurgia moderna e per fare massiccio uso della macchina a

vapore. Negli anni ’60-’70, l’azione del governo a favore delle imprese fu relativamente blanda. I

politici e gli economisti italiani erano convinti che il paese non potesse che dedicarsi alle

produzioni agricole, da esportare in cambio di manufatti industriali. Dalla seconda metà degli anni

’70, l’agricoltura italiana subì l’assalto dei grani russi e statunitensi, a prezzi notevolmente inferiori.

Alla lunga, il riassetto dell’agricoltura più orientata al mercato, favorì un visibile incremento della

ricchezza prodotta nel settore economico dominante. Quali misure presero i governi italiani per

sostenere e favorire le attività industriali?

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L’unificazione del mercato nazionale fu la prima preoccupazione dei governi liberali della destra

storica. Dal 1862 fu realizzata l’unione monetaria prendendo a modello la lira piemontese a base

decimale. Nel dicembre del 1865 l’Italia aderì all’Unione Monetaria Latina, impegnandosi a coniare

monete d’oro e d’argento uniformi per titolo, peso e dimensione. Dal 1862 furono uniformati i

pesi e le misure adottando il sistema metrico decimale: si procedette a un paziente lavoro di

fissazione delle equivalenze delle centinaia di misure d’ascendenza medievale. Dal 1865 entrò in

vigore il Codice di commercio, in modo da regolare in maniera organica le relazioni commerciali e

la costituzione di società di persone e di capitali. Il 25% della spesa pubblica fu destinato alla

promozione e alla realizzazione di infrastrutture. Il primo caso d’intervento governativo a favore

di una singola impresa riguardò la Società Italiana delle Acciaierie Fonderie e Altiforni di Terni.

Fondata nel 1884, le furono garantiti finanziamenti bancari e commesse pagate anticipatamente

rispetto all’esecuzione degli ordinativi. La Terni ebbe seri problemi economici sia nel 1887 che nel

1893: in entrambi i casi il governo ne ripianò le perdite. Vi furono anche interventi pubblici

miranti a migliorare l’immagine estera del paese, con ricadute economiche di qualche peso.

L’esigenza di disporre una flotta da guerra favorì i cantieri navali nazionali. La politica fiscale della

destra storica mirò al contenimento dell’indebitamento pubblico. La spesa per ‘istruzione

elementare va equiparata a un grande investimento in infrastrutture.

Il sostegno all’industria nel periodo protezionista (1887-1914) Nella prima metà degli anni ’80, il

governo della sinistra promosse l’insediamento di società estere capaci d’assicurare produzioni

strategiche, e varò un piano decennale di aiuti alla cantieristica. Nel 1887 il Parlamento diede una

decisa sterzata protezionistica. Il maggior contributo alla crescita industriale italiana provenne dal

settore cotoniero: esso progredì quasi ininterrottamente fino al 1915, quando arrivò a lavorare un

volume di materia prima 11,5 volte superiore rispetto al 1875. Le barriere doganali a difesa della

filatura promossero l’insediamento in Lombardi di cotonieri svizzeri, francesi e tedeschi che

trasferirono macchinari e conoscenze. Sul mercato interno, la crescita del settore agricolo allargò il

consumo dei tessili a buon mercato e garantì una stabilizzazione della domanda di beni di massa.

L’adozione delle prime macchine, dei fertilizzanti chimici e di novità agronomiche, promosse un

netto incremento della produttività nelle campagne e una crescita dei redditi, dei consumi e dei

risparmi affidati alle banche. Dal 1896 produzione e prezzi presero a crescere sui mercati

internazionali con vantaggi per quei paesi, come il nostro, arrivati ultimi all’industria che pagavano

bassi salari. Il settore tessile fu ulteriormente rafforzato e tecnologicamente aggiornato: si affermò

la siderurgia del rottame, e l’elettricità divenne la forma energetica emergente, in concorrenza con

le macchine a vapore. La fondazione di due banche miste (Banca Commerciale Italiana 1894, e

Credito Italiano 1895) sostenne le maggiori società anonime industriali, sorte nell’alta Italia

occidentale fin dagli anni ’80, con aperture di credito, acquisto di azioni e di obbligazioni, oltre

alla partecipazione diretta di funzionari ai consigli d’amministrazione. Dagli ultimi anni dell’800, le

attività industriali presero un forte slancio soprattutto nelle periferie di Milano, Genova e Torino.

L’impiego di una crescente quantità di capitale produsse un raddoppio della produttività del lavoro

fra il 1870 e il 1913 e concentrò nelle tre regioni del nord-ovest dai due terzi ai tre quarti della

forza motrice installata nei 4 settori: tessile, meccanico, elettricità-gas-acqua, e meccanica

artigianale. Nel 1905 il governo decise di nazionalizzare quasi tutte le linee ferroviarie. Nel 1907

una crisi economica internazionale ebbe ripercussioni pesanti nel settore siderurgico e cotoniero:

era la prima crisi industriale italiana a soli 9 anni di distanza dall’ultima carestia. Nel 1911 la

Banca d’Italia costrinse i maggiori istituti di credito a organizzare il salvataggio dei due più

importanti gruppi siderurgici italiani. Nell’aprile del 1912 nacque l’INA (Istituto Nazionale

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Assicurazioni). Lo stato gestì anche direttamente la prima rete telefonica. L’economia italiana

rimase quasi immobile nel ventennio 1871-1891 e accelerò decisamente negli anni 1891-1911. Gli

anni della grande guerra (1914-1918), con la “mobilitazione industriale”, comportarono un’assidua regolazione amministrativa delle oltre mille imprese che partecipavano allo sforzo di produrre

rifornimenti adeguanti. La P.A. avrebbe garantito le scorte di materie prime, le fonti energetiche e

la manodopera necessaria, che fu equiparata alle truppe arruolate. Nei febbrili anni della guerra,

le grandi imprese siderurgiche e meccaniche divennero colossi perché approfittarono di una

legislazione che prevedeva facilitazioni fiscali per i profitti reinvestiti in ampliamenti e in nuovi

impianti. La certezza dei margini di utile e la ristrettezza del mercato nazionale frenarono gli

investimenti in tecnologia, la creazione di organizzazioni manageriali complesse e di estese reti

commerciali. L’Italia uscì vittoriosa dalla guerra, ma con enormi disavanzi di bilancio statale e

debiti esteri ingenti, con prezzi più che quadruplicati, troppo cartamoneta in circolazione e

potenziali produttivi industriali largamente superiori alla più ottimistica capacità d’assorbimento della domanda interna. L’agricoltura era in condizioni anche peggiori.

6.L’industria fuori d’Europa

La società e l’economia giapponese: dal feudalesimo all’industria Un paese chiuso in movimento

Nel 1639, l’impero del Sol levante chiuse i suoi porti alle navi europee. Fino al secondo ‘800, per

contro dell’imperatore, il potere politico fu ininterrottamente esercitato da un capo militare, lo

shogun, della nobile casata Tokugawa, preservando il paese da ogni influsso culturale, religioso e

tecnologico esterno e perpetuandovi un assetto sociale fondato sul feudalesimo e sulle caste. Tra

‘500 e ‘700 un quarto del Giappone apparteneva ai Tokugawa, il resto era suddiviso fra 247

famiglie feudali: i daymno, che esercitavano un potere assoluto nei rispettivi feudi, avendo diritto

di vita e di morte sui sudditi, che battevano moneta, prelevavano imposte e armavano eserciti.

Essi avevano al loro servizio i samurai : la nobiltà minore che forniva i quadri della burocrazia

amministrativa e padroneggiava l’uso delle armi. L’economia era basata sull’agricoltura e la base

della dieta era il riso; accanto ad altri cereali si coltivavano in particolare soia e tè. Nei tempi

morti dei lavori agricoli, i contadini residenti presso le coste si dedicavano alla pesca e quelli che

abitavano nell’entroterra, alla filatura e tessitura del cotone, della canapa e della seta.

Un’organizzazione analoga all’industria domiciliare europea metteva al lavoro i contadini fornendo

loro le materie prime e limitandosi a rifinire e a commercializzare i manufatti. Nelle città

operavano mercanti e artigiani riuniti in corporazioni a numero chiuso. Nelle campagne abitava la

gran massa della popolazione che deteneva la terra in semplice uso. L’appartenenza per nascita a

un ceto decideva i destini individuali, essendo vietato cambiare residenza e occupazione o

mestiere. Ai daymno e ai samurai era proibito commerciare. L?esistenza di numerosi centri

urbani densamente popolati fu un potente fattore d’evoluzione economica sociale. Nelle città,

infatti, durante il ‘700 i mercanti garantivano l’offerta di derrate agricole e di manufatti e i

banchieri prestavano a usura. Insomma, nonostante una politica improntata alla conservazione

dell’assetto sociale tradizionale, nel lungo andare i Tokugawa on riuscirono a evitare che, nelle

città come nelle campagne, prosperasse una borghesia orientata agli scambi e al credito,

mantenuta in condizioni d’inferiorità sociale e culturale nonostante controllasse una crescente

quota di ricchezza fondiaria e mobiliare. L’isolazionismo giapponese terminò nel 1853, quando gli

USA proponevano l’avvio di normali relazioni diplomatiche e commerciali. Gli americani, in effetti,

avevano bisogno di uno scalo tecnico in Giappone per arrivare fino in Cina, con la quale avevano

inaugurato una linea commerciale. Nel marzo 1854, lo shogun Tokugawa concesse agli statunitensi

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in diritto di risiedere e commerciare in due porti. Tra il 1854 e il 1859, sulla base del privilegio

concesso agli americani, altri paesi imposero al Giappone trattati commerciali analoghi. Nacquero,

di conseguenza, movimenti nazionalisti contro gli stranieri e contro lo shogun rimproverato di aver

leso la dignità nazionale. Nel novembre del 1864 l’imperatore fu costretto a firmare un trattato

che aboliva ‘autonomia doganale del Giappone fino al 1899 e che prevedeva un tetto massimo

del 5% per i diritti doganali applicati sul valore delle importazioni. Nel gennaio del 1867 il

quattordicenne Mitsuhito saliva al trono; all’inizio del 1868 egli proclamò la fine dello shogunato.

Subito scoppiò una guerra civile che portò alla vittoria i filo imperiali. Gli effetti del commercio

internazionale provocarono un crescente malcontento presso la popolazione. Le esportazioni

avevano fatto crescere i prezzi. L’uscita dal paese di grandi quantità di metallo giallo diminuiva la

massa monetaria pregiata e accresceva il peso relativo di quella divisionale d’argento e di rame,

aggiungendo inflazione a quella causata dal calo dell’offerta interna rispetto alla domanda.

L’avvio della modernizzazione Conclusa vittoriosamente la guerra civile, il giovane imperatore

stabilì la capitale a Tokyo e abolì le tradizionali strutture feudali. Dal 1871 cadde ogni distinzione

di ceto fra i sudditi. I daymno furono concentrati a Tokyo e il governo li tacitò con una pensione

annuale pari alla decima parte delle entrate che erano abituate a ricavare dai loro feudi. Anche i

samurai perdettero i loro privilegi e le funzioni militari in cambio di una piccola pensione. Il

governo favorì netti miglioramenti della produttività agricola inviando esperti all’estero a far

pratica dei metodi agronomici più aggiornati, fondando scuole agrarie. Dal 1880 al 1917, la

produzione risicola del paese crebbe fortemente e quella del grano raddoppiò. L’accresciuta produzione di derrate agricole e di materie prime, permise di pagare le importazioni di tecnologia

per l’industria. Per di più, la neutralità mantenuta in occasione della prima guerra mondiale

assicurò ai prodotti giapponesi crescenti sbocchi esteri. L’obiettivo centrale del governo era

l’industrializzazione. Dal 1868 al 1880, lo stato finanziò in proprio le imprese. Il Giappone si

avvantaggiò delle esperienze tecniche maturate altrove, specialmente in GB e negli USA. Dagli anni

’70, il paese realizzò un’esperienza di politica economica per molti aspetti eccezionale. Il

tradizionale ceto fondiario divenne protagonista della finanza privata e le risorse pubbliche

indispensabili per procedere a investimenti infrastrutturali provennero dalla tassazione sui terreni.

L’introduzione della regola della trasmissione della terra a un solo erede per ogni generazione

stabilizzò le dimensione delle aziende agrarie favorendone la ricomposizione fondiaria, diede vita a

imprese artigiane e industriali nelle campagne e provocò l’inurbamento di rurali in cerca

d’occupazione fuori dal settore agricolo. Dal 1872, il governo diede grande impulso all’istruzione primaria e dal 1886, la scuola dell’obbligo previde la frequenza di quattro annualità. Il governo

avviò anche attività industriali e bancarie. Nel 1869, fondò un’agenzia per il commercio estero che

faceva incetta di tè, seta e riso da vendere all’estero. Accanto a costoro, agirono però anche

uomini di livello sociale inferiore. Nonostante le numerose innovazioni istituzionali e

amministrative, il sistema di relazioni economiche e sociali continuò a essere imperniato sul

modello culturale della famiglia, con una felice sintesi di tradizione e di adattamento al moderno.

Fra tradizione e innovazione L’economia privata andò organizzandosi sulla base di società

finanziare in accomandita per azioni che controllavano un gran numero di imprese minori collegate

secondo il modello del clan familiare. La società madre era governata dal capo della famiglia

mentre gli altri componenti del gruppo si occupavano della direzione e dell’amministrazione delle

società minori. Si trattava del sistema chiamato Zaibatsu. Ne erano protagoniste famiglie di

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mercanti e burocrati tradizionalmente dediti alla gestione e amministrazione dei feudi la cui

mentalità era orientata al rispetto degli indirizzi governativi. Con il passare del tempo, otto grandi

famiglie giunsero a controllare metà di tutto il capitale investito: tre di queste detenevano la

quarta parte della ricchezza nazionale. Il modello di sviluppo giapponese coniugava un potere

finanziario altamente concentrato a un’elevata dispersione delle attività manifatturiere e industriali.

Fino a tutti gli anni ’30 del ‘900, fu evitata la concentrazione delle industrie nelle periferie

urbane e il conseguente malessere sociale e culturale da inurbamento di larga parte della

popolazione. Si verificò, inoltre, un graduale miglioramento del tenore di vita di larghi strati della

popolazione, e le tensioni sociali si attenuarono. Nel commercio internazionale, dopo una prima

fase durante la quale il paese esportò materie prime e prodotti agricoli, furono venduti all’estero i manufatti tessili Solo dopo aver costruito una solida base industriale, il Giappone si lanciò nella

diversificazione delle attività. Nel arco di 40 anni, il nazionalismo imperialista giapponese condusse

tre guerre vittoriose nello scacchiere asiatico. La prima contro la Cina 1894-95, rese un’ingente quantità d’oro; la seconda contro l’impero russo nel 1904-1905, impose il paese all’attenzione del

mondo, e la terza con l’invasione della Manciuria nel 1931m inaugurò il colonialismo del Sol

levante. La politica statale degli armamenti concorse allo sviluppo della siderurgia, della meccanica,

dell’industria cantieristica e dell’aeronautica. Tra il 1868 e il 1938, la crescita economica

giapponese ristagnò nel decennio delle guerre, ma successivamente fu continua e sostenuta.

L’economia giapponese moderna offre uno dei più riusciti esempi di sviluppo economico diretto

dal governo e dalla burocrazia pubblica. La prima e principale ragione del successo consiste

nell’avere accettato, senza complessi d’inferiorità culturale, il ruolo di paese economicamente

arretrato. La permanente capacità di apprendere, imitare, adattarsi e perseguire l’ottimo possibile

è il segreto del successo giapponese. Il processo di rapida modernizzazione avvenne senza

implicazioni ideologiche e su base eminentemente empirica, facilitato dalla proverbiale frugalità dei

contadini. La prevalenza del gruppo sul singolo, il valore riconosciuto alla cooperazione e

all’armonia piuttosto che all’antagonismo e alla rivalità, il rispetto ossessivo per le differenze di

rango e per i cerimoniali, l’importanza accordata alle relazioni personali, sono altrettante

testimonianze della tenuta di un mondo di relazioni e di valori ereditato dalla tradizione; un

mondo che non ha impedito al paese di diventare modernissimo senza tradire la propria identità

culturale.

Dalla sconfitta militare all’eccellenza economica Uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale, Il

Giappone rinunciò ad avere un esercito e intrattenne con il suo vincitore, gli USA, relazioni tanto

strette da diventare suo alleato nel 1951, e da imitare le tecniche di gestione aziendale. Di fronte

all’altissima concentrazione di proprietà industriali e bancarie, il comando americano occupante

stabilì rigorose regole per avviare una democratizzazione dell’economia: l’intento era eliminare gli

zaibatsu. Le holding furono dichiarate fuorilegge e suddivise in molte nuove imprese, le grandi

famiglie dovettero cedere il loro pacchetti azionari, che furono collocati presso il pubblico. Infine

attraverso imposte straordinarie sui patrimoni, le ricchezze familiari furono drasticamente ridotte. Il

governo invertì la rotta favorendo una ricomposizione degli antichi potentati senza tuttavia

eliminare un diffuso azionariato popolare. Al posto degli zaibatsu comparvero i Keiretsu, che

raggruppano in senso verticale e orizzontale aziende minori sotto l’egida di una grande impresa

dominante. Nel 1962 l’autorità parlamentare d’inchiesta sugli assetti appurò che le 156 aziende

“madri” controllavano in media ciascuna 16 società “figlie”. Dopo una fase di ristagno, dal 1914

al 1945, il volume del commercio mondiale quadruplicò dal 1953 al 1977. Con il passare del

tempo prevalsero i prodotti industriali ad alto valore specifico e il Giappone continuò ad

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accrescere la sua quota di esportazioni vendendo all’estero più di quanto importava, perché i suoi

prodotti avevano prezzi concorrenziali e perché il governo nipponico ha sempre adottato politiche

commerciali difensive, mantenendo bassi i consumi interni.

Il trionfo del diverso: l’economia statunitense

I difficili esordi Nel 1607 gli inglesi fondarono la prima colonia, la Virginia, di là dall’Atlantico. Un

più saldo controllo del territorio fu iniziato, però, solamente negli anni ’20. Gli insediamenti inglesi

si consolidarono attorno a Boston, NY e la Filadelfia dei quaccheri. Raggiunta l’indipendenza dalla

madre patria nel 1783, le colonie si diedero una costituzione nel 1787 e nel 1789 il primo

governo federale presieduto da G. Washington, cominciò a operare. Nel 1790 a popolazione

statunitense era dedita alle attività agricole, di pesca, trasporto e commercio marittimo ed

estrazioni minerarie. Alla fine del ’700, la flotta commerciale statunitense era seconda solo a

quella inglese e i celebri clippers americani frequentavano ogni porto del mondo. Cotone, tabacco,

riso e canna da zucchero erano i quattro prodotti dell’agricoltura di piantagione degli stati del sud

orientati all’esportazione. La diffusione della macchina sgranatrice di Eli Whitney moltiplicò

coltivazione e produzione. NY divenne il centro delle funzioni d’intermediazione, credito

assicurazione e trasporto marittimo. Fino agli anni ’40 dell’800, le officine e le botteghe

americane erano piccole imprese familiari, spesso attive nei tempi morti dell’agricoltura, simili a

quelle del’’artigianato domestico europeo. La precoce adozione di filatoi e telai idraulici favorì nel

tessile l’avvento della fabbrica integrata. Molti tecnici americani migliorarono i filatoi importati, in

modo da ottenete più prodotto nella stessa unità di tempo. Gli eccellenti rendimenti dei capitali

finanziari investiti nel cotonificio moltiplicarono le innovazioni e stimolarono la meccanizzazione di

ogni fase lavorativa. La mancanza di manodopera rurale, orientò gli industriali a adottare processi

di fabbricazione che facevano largo ricorso alle macchine per economizzare la forza lavoro. I

continui guadagni di produttività promossero l’accumulazione di capitale tecnico. La crescita della

domanda nell’ampliare le dimensioni del mercato fin dal primo ‘800 orientò l’industria verso la

produzione di massa, la standardizzazione e l’organizzazione delle fasi produttive in catena. La

suddivisione delle operazioni lavorative in un processo continuo e integrato, era comparsa fin dal

1872, con il celebre mulino di Oliver Evans. Nel quale una serie di automatismi trasformava il

cereale in sacchi di farina. Nel 1818, Eli Whitney, costruì le prime armi da fuoco leggere con

elementi standardizzati e intercambiabili. Specializzazione del lavoro, alta intensità di capitale

tecnico aiutarono all’avvio della meccanica delle armi, grazie anche alle commesse governative. Dal

settore delle armi, i metodi produttivi rimbalzarono nella metalmeccanica che produceva aratri,

seminatrici e trebbiatrici. L’occupazione nel settore primario, nell’arco di 40 anni, diminuì del 20%.

Negli anni ’40 dell’800, il mondo agricolo americano faceva già uso di utensili e macchine

prodotte industrialmente come aratri metallici, seminatrici, … Superata la fase autarchica, i coloni

producevano derrate da vendere a grossi mercanti e altri che le avrebbero trasferite sui mercati

orientali. I corsi d’acqua naturali e i canali scavati erano le vie maggiormente usate dai

trasportatori indipendenti che movimentavano i prodotti agricoli, il carbone e i metalli estratti

dalle miniere. L’economia statunitense della prima metà dell’800 rappresenta un caso particolare

d’avvio dell’industrializzazione perché le condizioni dei fattori economici risultano invertite rispetto

all’esperienza europea. La terra era così abbondante da essere ceduta gratuitamente o con

vendite all’asta a bassissimo prezzo dallo stato federale. Fattore sovrabbondante nel vecchio

continente, negli USA la manodopera continuò a essere così scarsa da orientare i sistemi

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produttivi verso un massiccio ricorso al capitale tecnico. A metà ‘800, lo spazio statunitense era

diviso in 3 aree:

1.Nord-est atlantico: specializzato nell’industria, nel grande commercio e nella finanza, oltre che

nell’agricoltura ortofrutticola e nel settore lattiero-caseario;

2. Ovest: i pionieri si erano spinti fino a una linea che andava dal Texas al Michigan, che si stava

specializzando nella produzione di cereali, mais e di carne da macello;

3.Sud: specializzato soprattutto nella produzione di cotone. Il nord-est vendeva i suoi prodotti

industriali all’ovest, il quale spediva le sue derrate agricole a sud via acqua. Quest’ultimo esportava in Europa la maggior parte delle sue produzioni di piantagione. La costruzione di

ferrovie permise di collegare ancora più strettamente le tre grandi regioni economiche e mise in

relazione diretta le vaste pianure centrali produttrici di cereali, mais e carne con l’area industriale

altamente urbanizzata del nord-est.

Dal conflitto economico alla guerra di secessione La scoperta di ricche miniere d’oro in California,

nel 1848, accelerò l ritmo di immigrazione negli USA e quello di trasferimento verso ovest di

pionieri-coloni e di cercatori d’oro. La crescente disponibilità dell’oro ebbe 2 conseguenze sul

mercato americano:

1. Preferenza per l’oro come metallo di riserva, a garanzia della circolazione di cartamoneta

prodotta dalle banche;

2.Tendenziale incremento dei prezzi, sia dei prodotti agricoli sia di quelli industriali.

Tra il 1847 e il 1855 giunsero negli USA 300.000 emigrati all’anno e, dalla piazza di Londra,

affluirono capitali finanziari da investire soprattutto nelle grandi società ferroviarie che costruivano

tronchi di penetrazione verso ovest. Il conflitto tra gli interessi di alcune migliaia di latifondisti del

sud e gli interessi degli industriali, dei commercianti e dei banchieri del nord, esplose a proposito

della politica doganale, degli investimenti federali nei canali al nord e della questione schiavista. I

sudisti avversavano il protezionismo doganale favorevole alle industrie del nord perché avrebbero

potuto acquistare merci industriali a prezzi inferiori. Si opponevano alle spese federali per la

costruzione dei canali di collegamento fra le miniere del nord e i porti della costa alto-atlantica e

contrastavano l’abolizione della schiavitù proposta dai parlamentari nordisti. Gli instabili conflitti

portarono a una lunga guerra civile (1861-1865) che causò 600.00 morti e in occasione della

quale il potenziale industriale a disposizione di uno dei continenti si rivelò decisivo per il

successo: c’era un’enorme differenza di potenziale produttivo fra i due antagonisti. Per l’economia nordista, la guerra fu occasione di formidabile crescita in ogni settore, agricoltura e allevamento

compresi; essa non cessò mai di crescere. Al contrario, l’economia dei confederati, imperniata

sulle piantagioni schiaviste, dipendente dalle esportazioni di materie prime e dalle importazioni di

manufatti industriali, priva di naviglio commerciale, povera di risparmi e di credito interno e

internazionale, entrò rapidamente in crisi. Gli stati del nord uscirono dalla guerra

economicamente rafforzata nella siderurgia, nella meccanica delle armi e delle macchine agricole,

nella conservazione dei cibi, nel lanificio e nella confezione di abiti e scarpe. Il sud, teatro di

aspri combattimenti, ebbe gravi distruzioni civili, fallimenti di banche e industrie, alti tassi

d’inflazione, perdite dei risparmi investiti in titoli del prestito pubblico e un’agricoltura in

ginocchio. L’impoverimento dei latifondisti ebbe durature e vistose conseguenze sulla distribuzione

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della proprietà fondiaria. Nell’arco di un ventennio, in tutto il sud, la superficie media delle

fattorie calò, mentre decine di migliaia di proprietari diretti coltivatori bianchi e di mezzadri neri

prendevano il posto nella manodopera schiava.

Verso imprese di grandi dimensioni Dal 1856 al 1914 lo sviluppo dell’economia statunitense

proseguì quasi ininterrotto contemporaneamente in tutti i tre settori: l’agricoltura e l’allevamento, l’industria pesante, il terziario delle assicurazioni e delle banche, ma soprattutto dei trasporti

navali e ferroviari. In circa 80 anni, la popolazione crebbe di circa 6 volte, facendo del paese il

primo mercato di massa del mondo. La ricchezza mediamente disponibile per ogni cittadino

americano aumentò. La ricchezza mediamente prodotta da ogni persona economicamente attiva

crebbe sensibilmente. Il progresso tecnico e organizzativo riguardò ogni settore. L’introduzione di

tecniche di vendita innovativa accelerò la creazione di un mercato nazionale in continua

espansione perché la manodopera non cessava di crescere, soprattutto grazie all’immigrazione. La

macchina a vapore dal 1870 prese il sopravvento sull’energia idraulica e, dal 1869, la ferrovia

collegò le coste atlantiche a quelle del pacifico completando il processo di unificazione e

integrazione del vasto mercato nazionale. Da 1847 era iniziato lo sfruttamento commerciale del

telegrafo, che si rivelò decisivo nella diffusione di informazioni riguardanti prezzi, quantità e

movimenti delle merci. Vigendo un regime di concorrenza, il calo dei costi si tradusse in una

diminuzione dei prezzi , sicché la domanda aggregata aumentò. Negli USA, negli ultimi 30 anni

dell’800, l’avvento della fabbrica come organizzazione produttiva dominante fu favorito da un

complesso di fattori:

1.Offerta crescente del carbon fossile a basso costo;

2.Disponibilità di macchine a vapore sempre più potenti ed efficienti:

3. Possibilità di raggiungere un gran numero di mercati di sbocco senza limitazioni stagionali;

4.Capacità di comunicare e scambiare informazioni, anche a grande distanza, in tempi brevi

(telefono a fine ‘800);

5.Costante crescita della domanda interna.

Il settore economico più bisognoso di organizzazione, coordinamento e controllo degli uomini e

degli impianti era quello ferroviario a causa delle gigantesche dimensioni delle imprese, per la

forma di società anonima e per l’esigenza di gestire uomini e impianti dislocati entro una vasta

rete di unità operative interdipendenti. La gestione delle ferrovie pretese il ricorso a un’inedita figura professionale: l’alto dirigente stipendiato e impegnato a tempo pieno. Gli ingegneri civili e

industriali cominciarono a essere identificati come i professionisti culturalmente meglio attrezzati

per svolgere il ruolo di dirigenti nelle grandi imprese a organizzazione complessa. L’adozione di

macchine a ciclo continuo, indusse le imprese a riversare sul mercato internazionale una parte

crescente della produzione. La vittoria dei nordisti, portò al raddoppio delle tariffe doganali dopo

la fine della guerra civile, così da riservare ai produttori nazionali il mercato interno sul quale

andavano peraltro dispiegandosi tecniche di vendita (marketing) innovative. Dai secondi anni ’70, i

cereali delle grandi pianure centrali raggiunsero i mercati europei a prezzi imbattibili; come

conseguenza, le esportazioni sopravanzavano le importazioni con vantaggio per la bilancia dei

pagamenti. Il mercato interno non era sufficiente ad assorbire i crescenti volumi dei prodotti

agricoli e industriali. Tra il 1880 e il 1910, l’economia statunitense seppe trovare sbocchi al’’estero

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per le proprie crescenti produzioni. Una vittoriosa guerra con la Spagna nel 1898 permise agli

USA di allargare la loro influenza diplomatica ed economica sulle filippine, su Guam, Portorico,

Cuba e Panama. Nell’ultimo ventennio dell’800, fusioni e incorporazioni di società causarono una

diminuzione del numero d’imprese. Nel 1888 con l’Interstate Commerce Act e nel 1890 con lo

Scherman Act , il Parlamento approvò alcune regole quadro che rendevano incostituzionale ogni

collusione fra le imprese volte a stipulare cartelli ma, stimolava la formazione di gruppi, holdings,

sempre più grandi. Nonostante l’iterazione di norme antitrust, per riuscire a spezzare due

giganteschi gruppi che controllavano l’offerta del petrolio e del tabacco, dovette intervenire la

Corte Suprema. La soluzione manageriale diveniva sempre più la modalità di gestione prevalente

presso le gigantesche imprese, e il coordinamento manageriale la tecnica organizzativa e gestionale

più idonea a trarre il massimo vantaggio dalle dimensioni.

7.La  prima  globalizzazione  fra  ‘800  e  ‘900  

La formazione di un mercato mondiale Nei  40  anni  che  precedettero  lo  scoppio  della  prima  GM,  l’Europa  raggiunse il massimo potere economico, insieme rappresentato dal primato nella produzione di beni

industriali  e  dal  dominio  sul  commercio  internazionale.  L’esistenza  di  un’imponente rete di trasporti in

Europa  e  nell’America  settentrionale,  accelerò  il  processo  d’integrazione  dell’economia  mondiale  avviato  dalla  Gran  Bretagna  a  metà  ‘800  con  l’eliminazione  delle  dogane  e  la  libera  circolazione  internazionale  delle  merci. Tra secondo  ‘800  e  primo  ‘900,  il  trapianto  di  quasi  22  milioni  di  europei  nelle  Americhe,  in  Sud  Africa e in Australia, diffuse un gran numero di potenziali consumatori di prodotti industriali. Tutte le zone

coloniali  ricevettero  forza  lavoro  dall’Europa  meno progredita e capitale finanziario, tecnico, ingegneri e

operai specializzati dalle regioni economicamente più evolute. In Europa cominciarono ad affluire masse di

merci  di  relativamente  basso  valore  specifico.    L’abbattimento  di  noli  marittimi  sulle  lunghe distanze.

L’apertura  dei  canali  di  Suez  e  Pana  e  la  comparsa  di  navi  frigorifere  permisero  alle  terre  più  lontane  di  aggiungere alle tradizionali esportazioni di minerali ad alto valore intrinseco, grandi quantità di cereali,

farine e carni congelate: gli emigrati migliorarono, così, il loro tenore di vita abbastanza da divenire

acquirenti di manufatti industriali europei. Assistiamo allo sviluppo del commercio internazionale. I paesi

tropicali accomunati dalla bassa produttività agricola, mobilitarono le loro risorse più abbondanti e meno

costose (terra e manodopera) specializzandosi in una sola merce la cui domanda era in rapida crescita.

L’integrazione  del  mercato  globale  comportò  un  livellamento  dei  prezzi  dei  coloniali  e  la  scomparsa  della  pluralità di  produttori  dislocati  nei  viversi  continenti  che  aveva  contraddistinto  l’economia  coloniale  del  ‘600-‘700.  Gli  USA  divennero  i  maggiori  esportatori  mondiali  di  cotone  e  tabacco  e  per  alcuni  decenni  furono quasi monopolisti del mercato internazionale del grano,e, il Giappone, di seta e tè.

Guerre doganali e rivalità tecniche e commerciali L’aumento  dell’offerta  in  Europa  di  derrate  agricole  di  base a prezzi nettamente inferiori, in un mercato effettivamente aperto avrebbe dato origine a

un’inevitabile  quanto  pronta  riorganizzazione  delle  coltivazioni.  Dagli  ultimi  anno  ’70,  gli  agricoltori dell’Europa  occidentale  riuscirono  ad  evitare  di  dover  procedere  a  radicali  riconversioni  ottenendo  dai  governi energiche difese doganali. L’introduzione  e  l’inasprimento  di  tariffe,  innescò  una  reazione  a  catena  di conflitti commerciali fra paesi europei, che in qualche caso sfociarono in vere e proprie guerre doganali.

Solo  la  Gran  Bretagna  rimase  fedele  al  dogma  liberoscambista  perché  l’opinione  pubblica  inglese  non  accettava  l’idea  che  i  prezzi  dei  beni  alimentari  potessero  aumentare.  Le  regioni  dell’impero britannico,

prive di autonomia, non poterono che allinearsi alla madrepatria, sicché andò formandosi un duplice

mercato internazionale: quello inglese, improntato sul libero scambio, e quello dei paesi in via

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d’industrializzazione,  contraddistinto  da regimi doganali che disincentivavano gli scambi e favorivano le

relazioni commerciali preferenziali con partner ai quali erano legati anche da affinità politiche e

diplomatiche.  La  fede  inglese  al  liberoscambio  fece  sì  che  s’invertisse  la  corrente  di  importazioni ed

esportazioni  di  manufatti  industriali  da  e  verso  i  paesi  dell’Europa  continentale.  I  consumatori  inglesi  beneficiarono  dei  prezzi  più  bassi,  ma  l’apparato  produttivo  del  paese  incontrò  crescenti  ostacoli  nel  conservare le dimensioni e le posizioni acquisite durante il trentennio liberoscambista (1843-1873). Dalla

fine  dell’800,  insomma,  nell’Europa  continentale  e  negli  USA  il  nazionalismo  economico  prevalse  sul  liberalismo concorrenziale.

Qual  era  il  ruolo  degli  stati  nell’opera  di  sostegno  e di promozione dello sviluppo delle economie nazionali?

I governi non potevano disinteressarsi del finanziamento di basilari infrastrutture, della promozione di

un’essenziale  struttura  industriale  e  dell’industria  pesante.  Nel  medesimo  tempo  era  indispensabile

attenuare  il  disagio  indotto  dall’avvento  dell’industrializzazione  nei  settori  tradizionalmente  meno  efficienti,  come  l’agricoltura  e  commercio  al  dettaglio.  Il  diffuso  irrigidimento  doganale  ebbe  l’effetto  di  stimolare i maggiori gruppi produttori di beni a superare gli ostacoli commerciali aprendo stabilimenti

all’interno  dei  paesi  protezionisti.  In  tal  modo  si  trasferirono  capitali  finanziari  e  tecnologie  e  si  diede  vita  a  gruppi multinazionali che avviarono imprese ad alta tecnologia là dove, spontaneamente, non sarebbero

sorte.  L’avvento  di  processi  e  la  realizzazione  di  prodotti  ad  alto  contenuto  tecnico  alimentarono  la  rivalità  tra paesi europei che esportavano in concorrenza con la Gran Bretagna. Dopo aver umiliato la Francia, la

Germania strappò alla Gran Bretagna il primato industriale in Europa a cominciare dalla siderurgia

dell’acciaio.  Per  la  Gran  Bretagna  un  altro  fattore  di  crisi  provenne  dalla  formazione  di  un  mercato  globale  del carbone. Venivano, così, meno le condizioni che avevano lungamente  permesso  all’economia  inglese  di  sopportare i costi più bassi per produrre energia e calore. Inoltre, la concentrazione delle esportazioni

inglesi principalmente sui due settori del carbone e dei tessuti di cotone, impediva di applicare ai rispettivi

processi produttivi innovazioni tecniche capaci di abbattere consistentemente i costi. Nella chimica

industriale la Germania vantava un altro netto vantaggio competitivo rispetto alla Gran Bretagna, derivante

dall’esistenza  in  quel  paese  di  numerose  istituzioni  culturali  e  scientifiche  d’alto  profilo,  fatto  che,  insieme  a  ricerche e finanziamenti ingenti, permise alla chimica organica di svilupparsi secondo ritmi che non avevano

paragoni in Europa e di imporre sul mercato internazionale i suoi brevetti e i suoi prodotti. La tradizionale

preferenza  inglese  per  un  apprendimento  realizzato  sul  campo,  impedì  o  ritardò  la  creazione  nell’isola  di  grandi  industrie  a  elevato  tenore  tecnologico  e  dirette  da  manager.    L’Inghilterra  conservò  la  propria  posizione di primato nella cantieristica e nei servizi finanziari, bancari e assicurativi concentrati a Londra, la

prima  piazza  finanziaria  del  mondo.    Gli  USA,  anch’essi  in  ascesa,  ebbero  un  impatto  meno  violento  sugli  equilibri del commercio internazionale perché riversarono la maggior parte delle proprie energie finanziarie

e  industriali  su  due  frontiere  interne:  la  conquista  dell’Ovest  e  la  rapida  crescita  della  popolazione  urbana  lungo  la  costa  orientale.  Visto  dall’Europa,  il  giovane  gigante  americano  era  soprattutto il granaio del

mondo  che  riforniva  di  cereali  tutti  quei  paesi  europei  e  asiatici  bisognosi  di  approvvigionamenti.  Dall’inizio  del  ‘900,  crescenti  quote  della  produzione  statunitense  di  grano,  carne,  cotone  e  tabacco  furono  assorbite  dal mercato interno, con un inevitabile ridimensionamento delle esportazioni. La tradizionale attitudine del

paese a sostituire le importazioni di manufatti esteri con prodotti nazionali di pari qualità e minor prezzo

rallentò  la  crescita  del  volume  d’interscambio  con  l’estero e contribuì allo sviluppo di settori industriali

nuovi,  come  l’elettromeccanica,  la  chimica  organica  e  dei  coloranti.  Crebbero,  per  contro,  le  importazioni  di  materie prime industriali come lana, seta, gomma, cuoio e pelli. Rispetto a quelle inglesi, le esportazioni

statunitensi aumentarono molto di più soprattutto per due ragioni:

1.Perché si trattava di prodotti il cui consumo mondiale stava crescendo;

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2.Perché finivano sui mercati di quei paesi che avevano uno sviluppo economico superiore alla media

La  concorrenza  americana  causò  una  caduta  dei  prezzi,  dei  redditi  e  del  potere  d’acquisto  di  contadini  e  agricoltori tradottosi in un ripiegamento della domanda di concimi e macchine agricole.

Alle origini del SOTTOSVILUPPO: il secondo colonialismo La superiorità di strumenti tecnici e concettuali,

assieme alla superiore arte della guerra, del governo e del credito, dal 1400 permisero agli europei di

stabilizzare il loro dominio su popolazioni di altri continenti. Alla lunga, i bianchi prevalsero ovunque

affermando  la  loro  superiorità  tecnica  e  concettuale  mediante  il  diritto,  il  potere  e  l’organizzazione.  Attorno  al  1760,  quando  l’Inghilterra  muoveva  i  primi  passi  verso  l’industria,  le  popolazioni  dei  diversi  domini  coloniali  ammontavano  a  27  milioni  di  abitanti,  mentre  l’Europa  ne  contava  già  130.  Nel  1830,  quando  la  decolonizzazione di gran parte delle Americhe aveva ridotto a un terzo la superficie del dominio coloniale

europeo, le popolazioni colonizzate superavano quelle europee (senza la Russia). Tra il 1760 e il 1938

l’assetto  coloniale  subì  una  doppia  trasformazione:  l’America  cedette  il  suo  primato  d’area  coloniale  all’Asia.  Analogamente,  nel  1830,  il  primato  del  controllo  dei  bianchi  sul  resto  del  mondo  passò  dalla  Spagna al Regno Unito. Anche il Portogallo non era più una potenza marittima e commerciale. Alla vigilia

della prima GM, le merci importate in Europa ammontavano a 20 milioni di tonnellate (50 volte i

quantitativi del 1790). Tra il 1830 e il 1912, mentre la R.I. si diffondeva nella vecchia Europa, negli USA e in

Giappone, la dinamica dei trasferimenti tenne ritmi sostenuti e subì una straordinaria accelerazione nei

primi  dodici  anni  del  ‘900.    Tre  processi  condizionarono  la  diversificazione  dei  prodotti  importati dalle

colonie:

1.La  progressiva  industrializzazione  europea  ne  rese  quasi  impossibile  l’esportazione  dalle  colonie  e  creò  le  premesse  di  un’inondazione  in  periferia  di  prodotti  industriali  europei  e  nordamericani;  

2.L’innalzamento  sensibile  dei  tenori  di  vita  degli  europei  moltiplicò  gli  sbocchi  per  l’offerta  di  quei  prodotti  tropicali  fino  ai  primi  dell’800,  percepiti  come  beni  di  lusso  esotici;  

3.L’abbattimento  progressivo  dei  costi  di  trasporto  sulle  lunghe  distanze  rafforzò  le  due  tendenze  ricordate.

Nessun paese non occidentale, a parte il Giappone, riuscì ad avviare un processo di sviluppo economico

prima  del  1960,  quando  le  “quattro  tigri”  asiatiche  (Hong  Kong,  Corea,  Taiwan  e  Singapore)  misero  in  moto  uno sviluppo così rapido che, nel 1980 ormai rientravano tra i paesi economicamente avanzati.

Come  spiegare  la  durevole  condizione  d’arretratezza  economica  del  Terzo  Mondo  (ex  - coloniale) a

sessant’anni  dall’avvio  della  decolonizzazione  (1947)?  

Innanzitutto, la diffusione delle innovative tecniche agricole inglesi nel sud del mondo fu ostacolata da

condizioni climatiche assai diverse: è stato più semplice ambientare in Europa riso, mais e patata che

diffondere altrove il frumento. Per di più, la bassa densità della popolazione stanziata nelle campagne

europee  favorì  l’adozione  di  macchine  che  aumentarono  la  produttività  delle  coltivazioni.  Le  politiche  economiche adottate dai governi metropolitani non cessarono di favorire la produzione di semilavorati e di

prodotti agricoli che è impossibile coltivare nelle zone temperate. Infine, quattro limitazioni

contraddistinsero ovunque le relazioni commerciali fra colonia e madrepatria:

1.I prodotti coloniali erano esportabili solo nella madrepatria, che a sua volta poteva riesportarli;

2.Nella colonia le importazioni di merci e servizi potevano venire solo dalla madrepatria;

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3.Nella colonia era vietato produrre materie prime e manufatti in concorrenza con quelli della madrepatria;

4.Le relazioni commerciali, creditizie e di trasporto tra colonia e madrepatria erano riservate alle imprese

metropolitane.

8. Da una guerra all’altra (1914-1945)

L’Europa nella prima guerra mondiale La grande guerra (1914-1918) alterò i regimi politico-

istituzionali, modificò gli assetti sociali, coinvolse le economie, incise pesantemente sugli assetti

demografici, alterò i rapporti di forza fra i partiti ed ebbe conseguenze persistenti sulle mentalità

collettive e sulle ideologie. L’intesa (Serbia, Russia, Francia, Inghilterra e Belgio) cui si aggiunsero

Italia (1915) e Stati Uniti (1917), fronteggiò gli imperi centrali: Austria - Ungheria e Germania e

dal 1917 quello Turco ottomano. Il prolungarsi del confronto e la mobilitazione generale di risorse

umane e materiali accrebbero la domanda di armamenti , esplosivi, proiettili, mezzi di trasporto di

terra, navi, aeroplani, abbigliamento militare, calzature, materiale sanitario, medicinali, bendaggi e

razioni alimentari per le truppe: emerse l’esigenza, con il prolungarsi del conflitto, di predisporre

adeguati rifornimenti per i fronti. Gli ammassi obbligatori delle derrate agricole, il razionamento

dei generi alimentari, il contingentamento d’importazioni ed esportazioni, la requisizione di mezzi

di trasporto, la nazionalizzazione delle risorse energetiche, allargarono la sfera normativa e

amministrativa delle istituzioni pubbliche centrali e periferiche sull’economia. Iniziò, accanto alla

guerra combattuta sul fronte, anche una guerra economica tendente a colpire il nemico nelle sue

strutture produttive e nei rifornimenti all’estero di materiali energetici e di beni alimentari.

Germania e Austria – Ungheria furono isolate dall’embargo degli alleati. La Germania replicò con

la guerra sottomarina.

Le conseguenze demografiche Decine di milioni di uomini presero parte al conflitto. La guerra

moltiplicò i decessi e limitò i concepimenti. Sui fronti morirono 9 milioni di soldati e 20 milioni

furono gli invalidi e i mutilati, oltre alle 6 milioni di vittime civili. Alla fine della guerra

mancavano all’appello 28 milioni di persone. Alla già grave situazione si aggiunse una terribile

epidemia influenzale: la “spagnola”. Le perdite subite in vari modi dalla popolazione, furono, tra

il 1914 e il 1921, attorno i 56 e i 60 milioni di individui.

Le conseguenze politiche I quadri politici tradizionali furono sconvolti e un po’ ovunque i

movimenti operai contestarono sia i tradizionali assetti sociali, sia la proprietà privata. I nuovi

stati sorti in europeo dopo lo smembramento dell’impero austro-ungarico e parte del russo, non

disponevano né di personale politico, né di solidi ceti dirigenti borghesi. Mancavano quadri sociali

che si interponessero fra la ristretta cerchia dei grandi agrari nobili e la massa indistinta di

contadini discendenti dai servi della gleba. I livelli di analfabetismo e disoccupazione erano

altissimi e manca una pubblica opinione. Le istituzioni parlamentari funzionavano male e

facilmente furono spazzate via da regimi autoritari. I movimenti conservatori e nazionalisti

guadagnarono una larga base popolare. Fra il 1920 e il 1930, il liberalismo parlamentare fu in

vario modo scalzato e sostituito da regimi autoritari e dittatoriali. Gli unici paesi che non subirono

notevoli cambiamenti furono quelli del nord europeo e dell’area baltica: Olanda, Belgio, Francia,

Gran Bretagna e le monarchie Scandinave. Le conseguenze sociali Le conseguenze sui rapporti

politici e sugli assetti sociali furono enormi. Apparve una figura inedita: l’ex combattente reduce.

Quel numeroso gruppo di persone era animato da orgoglio e fierezza, da acceso nazionalismo,

fedeltà alla memoria dei compagni caduti, ostilità verso le divisioni partitiche, disistima verso la

classe politica e i sistemi parlamentari. I reduci trovarono una società ben più polarizzata di quella

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prebellica: nuovi ricchi e una maggioranza delle vittime degli effetti economici della guerra.

Costoro avevano sopportato pesanti tagli del potere d’acquisto dei loro redditi e del valore stesso

dei titoli. Nemmeno il mondo rurale fu risparmiato dalle conseguenze economiche della guerra.

Quanti erano considerati marginali, scioperati, fannulloni, nella nuova veste di reduci, cominciarono

a premere sui partiti politici portando alla ribalta l’inedita questione economica e sociale della

disoccupazione.

Le conseguenze economiche Le distruzioni d’infrastrutture, edifici civili, impianti industriali e di

scorte di merci si concentrarono soprattutto nelle regioni ad alta densità industriale teatro degli

scontri. Secondo calcoli accurati, le materie prime, i capitali e il lavoro sprecati e distrutti nella

grande guerra ammontarono alla ricchezza che, in condizioni di pace, l’Europa avrebbe potuto

produrre in 3-4 anni. Alle distruzioni bisogna aggiungere l’abbandono o la perdita degli

investimenti esteri. La Gran Bretagna sopportò grandissimi danni alla flotta mercantile e cedette

parte dei suoi investimenti esteri per finanziare lo sforzo bellico. Anche i francesi perdettero gli

investimenti esteri, ma gli svantaggi maggiori si concentrarono soprattutto nel settore del debito

pubblico e delle partecipazioni azionarie in quei paesi, dove avvennero radicali trasformazioni

istituzionali. Bisogna considerare, inoltre, che i governi finanziarono le ingenti spese belliche in

parte con una nuova moneta cartacea, che accrebbe la massa fiduciaria esistente causando un

processo inflattivo fuori controllo, e in parte con il ricorso all’emissione dei titoli del debito

pubblico largamente sottoscritti dalle banche. In condizioni davvero difficili erano Germania,

Austria, Francia, Belgio e Italia. Per i governi, la pace portò con sé il pesante fardello delle

pensioni a favore di orfani e vedove dei caduti. L’erogazione di indennizzi e sussidi pretese

un’organizzazione burocratica senza precedenti. La corresponsione di pensioni ebbe un peso

rilevante e concorsero a rendere ancora più difficile il ritorno a pareggio fra entrate e uscite.

Nel caso dei tre imperi sconfitti, gli oneri derivanti da interessi del debito pubblico e pensioni si

aggiunsero alle riparazioni o danni di guerra importi soprattutto alla Germania.

Il difficile ritorno alla normalità Finita la grande guerra, in Europa il rapporto fra stato e imprese

private mutò profondamente: il ritorno a condizioni di pace fu lento e graduale. I problemi

comuni a tutti gli stati usciti dalla guerra erano:

1.Ricostruire le infrastrutture e il capitale tecnico distrutti o danneggiati;

2.Gestire i debiti di guerra interni e internazionali e le riparazioni dei paesi sconfitti;

3.Rientrare dall’inflazione, ricostruire le riserve d’oro e di valute estere convertibili in ora in modo

da ritornare alla base aurea della moneta e da ripristinare il gold standard;

4 Ridurre l’eccesso di capacità produttiva in alcuni settori industriali enormemente cresciuti durante

il conflitto;

5.Attenuare la dilagante disoccupazione, reperire risorse per corrispondere sussidi pubblici ai reduci

di guerra invalidi;

6. Limitare le importazioni troppo costose, tenuto conto dell’inflazione. Nell’immediato dopoguerra,

ci si illuse di tornare in breve al dinamismo economico dei primi tre lustri del ‘900, quando la

produzione era stata costantemente in crescita e gli scambi internazionali avevano continuato a

lievitare. Da paesi strutturalmente esportatori di beni, la guerra ridusse Gran Bretagna e Francia

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alla condizione di debitori, mentre gli USA, divenuti il primo paese esportatore di beni e di

servizi, assunsero il ruolo di massimo creditore. L’effetto più dirompente venne, però, dalle misure

di limitazione e di quotazione prese dal governo USA a partire dal 1921, che vennero presi tra il

1923 e il 1925 anche da Canada e Australia. Per tutti gli anni ’20, solo l’America continuò ad

accogliere emigranti come prima della guerra. In Europa, il ritorno dell’agricoltura e dell’industria a

condizioni produttive analoghe a quelle prebelliche, non fu né semplice né rapido. Il lento e

stentato ritorno a standard produttivi simili, che avevano sensibilmente accresciuto le rispettive

esportazioni, favoriti dall’esigenze delle nazioni belligeranti di rifornirsi e dal simultaneo calo

dell’offerta di manufatti dei maggiori paesi industriali impegnati nella guerra. Le relazioni

internazionali erano complicate anche dall’enormità dei debiti interalleati di guerra:il principale

debitore era la Francia, poi Italia e Belgio. Le riparazioni addossate alla Germania erano di 33

miliardi di dollari, con annualità proibitive; nel 1923 fu ristrutturato e dilazionato, anche se

l’inflazione proseguiva inarrestabile. Negli anni ’20, lo sviluppo tecnologico e la diffusione dei

moderni processi costruttivi allargarono l’offerta sul mercato mondiale. Sorsero rivalità e tensioni

fra vecchi e nuovi sistemi produttivi, tanto sui mercati interni quanto su quello internazionale. Gli

USA favoriti da quella congiuntura, ma anche il Giappone ne approfittò per compiere vistosi

progressi tecnologici e divenire un serio concorrente su molti mercati esteri periferici riforniti dagli

europei fino al 1913. Con il deprimere le importazioni e con lo stimolare il nazionalismo

economico, la guerra ridusse la domanda internazionale di manufatti tradizionalmente provenienti

da alcune precise aree produttive. Nel biennio 1925-26, dappertutto i processi si ricostruzione

economica erano pressoché completati e il commercio internazionale era in ripresa; quasi ovunque

in Europa, però, la ricchezza pro capite era ancora inferiore a quella del 1913. Non a caso, i

paesi che dal 1919 al 1928 realizzarono i maggiori tassi di crescita del PIL furono quelli neutrali.

La grande crisi degli anni ‘30 Fra il 24 e il 29 ottobre del 1929, la borsa di NY subì un crack.

Il crollo dei corsi dei titoli mentre nel paese c’era un boom di consumi di beni, causò i primi

fallimenti di agenti di cambio e banche che avevano prestato ai clienti dollari per speculazioni

borsistiche, mentre il costo del denaro cresceva notevolmente per scoraggiare le speculazioni a

breve. Molte imprese industriali persero più della metà dei capitali investiti, con conseguenze

gravissime sull’equilibrio finanziario. Dai primi d’agosto del 1929, i prezzi all’ingrosso delle materie

prime minerali e agricole avevano cominciato a scendere su tutte le maggiori piazze internazionali.

Il calo dei prezzi delle merci importate negli USA accelerò quello delle merci interne, inducendo le

imprese industriali a corto di liquidità a vendere le scorte di materie prime. La consistente

crescita dell’offerta, a prezzi costantemente in calo, e l’attendismo della domanda avviarono una

spirale involutiva che causò una netta diminuzione del volume degli affari. Le prime misure

anticrisi prese dal governo per emettere liquidità nel sistema economico consistettero nel

riacquisto di 370 milioni di dollari di titoli del debito pubblico assieme all’abbassamento del tasso

ufficiale di sconto dal 5% al 4,5%. Nei primi mesi del 1930, il presidente Hoover ridusse la

pressione fiscale per stimolare la domanda e varò una tariffa doganale protettiva, che innescò

ritorsioni da parte dei paesi esportatori di merci in America. Il prezzo del grano era dimezzato,

gettando nella crisi più nera il mondo rurale statunitense che aveva ancora un peso notevole

nell’economia e nella politica nazionale. La percentuale di disoccupati dal 3,7% del 1929 era

passata al 24,9% 1933. Il crollo della borsa americana contagiò le piazze europee. Dai primi mesi

del 1930 si ebbero insolvenze e fallimenti a catena. I numerosi licenziamenti causarono un crollo

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della domanda dei prodotti industriali e un progressivo calo dei prezzi. A una decina d’anni dalla

fine della guerra, sotto la pressione dell’opinione pubblica, istituzioni e meccanismi a suo tempo

per fronteggiare le emergenze belliche furono ripristinati nell’intento di contrastare una crisi senza

precedenti nella storia economica mondiale perché deflazione e disoccupazione non si erano mai

presentate insieme per un periodo così lungo. Contemporaneamente calavano le entrate fiscali e

cresceva la spesa pubblica per indennità di disoccupazione. Il capovolgimento da paese creditore a

paese debitore mise in crisi la fiducia nella sterlina come stabile mezzo di pagamento

internazionale. Il calo di valore della maggiore valuta internazionale colpì gli interessi di quei paesi

che avevano anche riserve in sterline (Gold Exchange Standard ). La situazione divenne insostenibile

e il 21 settembre 1931 il governo inglese decise di sospendere la convertibilità in oro della

sterlina. Era la fine del gold standard . Cinque mesi dopo, il Parlamento inglese ripristinò le Corn

Laws, abrogate nel 1846. Era la fine del liberoscambismo. 25 paesi seguirono la sterlina nel suo

ribasso. Per tutti gli altri fu, di fatto, una rivalutazione delle rispettive monete dell’ordine del 40%,

con effetti depressivi sui prezzi interni che continuarono a diminuire. Negli USA i prezzi delle

materie prime subirono cali oscillanti fra il 10%e il 34%. Il 20 aprile del 1933, F. D. Roosevelt

svalutò il dollaro senza sganciarlo dall’oro e avviò una politica economica e sociale dirigista,

chiamata New Deal , che introdusse misure in materia di disoccupazione, anzianità, casa mutua

malattia, orario di lavoro, salario minimo, lavoro minorile, prelevano risorse dalla tassazione dei

grandi patrimoni. Le misure anticrisi all’epoca adottate nei diversi paesi furono:

1.L’abbandono del gold standard e la svalutazione della moneta;

2.L’avvio di grandi lavori pubblici ad alto impiego di fattore lavoro;

3.Controlli dei cambi per evitare deficit della bilancia dei pagamenti e cali del potere d’acquisto internazionale delle monete nazionali;

4.Tariffe doganali più alte;

5.Politiche orientate allo sfruttamento autarchico delle risorse nazionali e dei prodotti del paese;

6.Trattati commerciali con i maggiori partner allo scopo di contingentare i generi e i valori.

Dal biennio 1933-34, alcuni governi, avviando un’intensa politica di rinnovo e ampliamento degli

armamenti, sostennero i settori siderurgico, cantieristico, metalmeccanico, automobilistico e

aeronautico.

Le politiche economiche e sociali in alcuni paesi europei In Gran Bretagna, dal 1934 il governo

intervenne a sostegno dei settori minerario, cotoniero e dei cantieri navali. Dal 1937 furono offerti

incentivi alle imprese che s’installavano in aree economicamente depresse. Furono promosse

costruzioni immobiliari, piani regolatori urbani e di sviluppo di nuovi centri. In Francia, il governo

mantenne il gold standard e tentò una politica di deflazione controllata. Il ribasso dei prezzi fece

aumentare i disoccupati e calare i profitti, mentre i costi di produzione erano il lenta discesa. Gli

agricoltori furono i più colpiti dal ribasso dei e dalla perdita dei loro risparmi per fallimento di

molte banche locali. Con la vittoria del fronte popolare si abbandonò la parità aurea, svalutò il

franco e avviò opere pubbliche. Nel 1937, per effetto delle misure governative, fu raggiunto il

pieno impiego della forza lavoro. La Svezia non ricorse al protezionismo, né attivò pratiche

monetarie deflattive. Il governo regolò la spesa pubblica per controbilanciare le fluttuazioni

dell’economia. Nel 1933 quasi un quarto dei disoccupati aveva un impiego statale sostitutivo.

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Furono varati lavori pubblici lanciando prestiti redimibili. Dopo il 1935, i lavori pubblici furono

ininterrotti e i prestiti rimborsati accrescendo la liquidità a disposizione del sistema. Il basso costo

del denaro favorì l’edilizia abitativa e gli investimenti migliorativi nelle industrie. La ripresa delle

esportazioni di prodotti industriali fece da traino all’economia generale. La Svezia fu il primo

paese ad applicare un’attiva quanto efficace politica economica anticiclica: la miscela di misure più

efficaci fu escogitata e messa in atto in Svezia. I regimi totalitaristi accrebbero il reddito pro

capite ad un ritmo compreso tra il +4,4% e il +4,6% l’anno. Lo stesso Giappone realizzi nel

decennio 1929-1938 un tasso di crescita da decollo industriale. Tra i paesi europei industrializzati,

solo la Gran Bretagna non smise di crescere nonostante le difficoltà e le contrarietà interne e

internazionali.

I totalitarismi (1917-1945) Dopo la prima GM, l’itinerario politico verso la democrazia fu arrestato

in molti paesi dall’eliminazione dei partiti e dalla presa del potere da parte di un solo partito

politico. Il totalitarismo, come esperienza comune al comunismo sovietica (1917), al fascismo

italiano (1922) e al nazionalsocialismo (1933), fu un tragico esperimento di dominio politico

attuato da un partito rivoluzionario guidato da un capo carismatico che instaurò un regime a

partito unico, fondato sul terrore e sulla demagogia populistica, assoggettò la popolazione

irriggimentandola in organizzazioni proprie e impose la propria ideologia come una religione

politica di massa. Ogni regime totalitario presenta sei elementi distintivi:

1.Il partito e la sua ideologia;

2.L’assoggettamento e il controllo delle forze armate;

3.L’organizzazione di una polizia segreta e la repressione/eliminazione fisica degli oppositori:

4.La propaganda insistita, la censura e il controllo dei mass media;

5.Il culto della personalità del capo, identificato come eroe-dio mitico;

6.Il controllo dell’economia attraverso una politica economica dirigista e/o di pianificazione che

limita e programma l’economia di mercato o la sostituisce del tutto con una gestione burocratica

delle relazioni economiche interne e con l’estero.

Nell’ottobre del 1917, quando scoppiò la rivoluzione a San Pietroburgo, la Russia conservava una

struttura sociale arcaica e un’agricoltura tradizionale e arretrata. Nel grande paese si erano

sviluppate solo le infrastrutture pubbliche e la grande industria con capitali esteri. Al principio, i

bolscevichi si limitarono a istituire consigli operai con lo scopo di controllare le decisioni operative

degli imprenditori. Le reazioni di questi ultimi, nel 1918, indussero Lenin a nazionalizzare le

banche, le grandi industrie, le imprese che commerciavano con l’estero e a cancellare l’ingente frazione del debito pubblico ereditato dallo zar in mano a investitori esteri. Il partito optò per

uno sfruttamento collettivista dei suoli appartenenti alla borghesia e alla nobiltà. Per sopprimere il

mercato, il governo organizzò ammassi pubblici dei prodotti di base e ne impose la distribuzione

in natura, con effetti pratici catastrofici. L’economia andò incontro a una totale paralisi anche

perché era in corso una guerra civile, sicché il governo fu costretto fu costretto a rivedere

radicalmente la sua politica economica. Introdotta da Lenin nel 1921, la nuova politica economica

(NEP) ripristinò la proprietà privata contadina e quelle delle imprese industriali che impiegava fino

a venti addetti. Fu ripristinato l’uso della moneta e permesso ai piccoli produttori artigianali e

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contadini di vendere i loro prodotti direttamente. La NEP ebbe successo. La produzione crebbe.

Nelle campagne, l’emergere di una classe di contadini arricchiti dalla produzione per la vendita, i

kulaki , fu visto dal governo come segnale del ritorno dell’odiato capitalismo. Dal 1928, Stalin

abbandonò la NEP e decise la socializzazione del commercio e la collettivizzazione delle terre,

ingaggiando una lotta senza quartiere con i kulaki. Nei primi 30 anni, la liquidazione dei kulaki

come “classe” procedette senza soste né pietà, causando molti milioni di morti. Nella Russia

rurale divampò una vera e propria lotta contadina che innescò feroci repressioni da parte

dell’esercito, e dal 1933 indusse Stalin a rallentare il ritmo della collettivizzazione dei suoli. Nel

1928, fu inaugurata, inoltre, la politica di pianificazione economica sistematica della produzione e

distribuzione della ricchezza, poi proseguita fino al 1957. La politica di piano era ispirata a tre

principi generali:

1.Lo spirito di partito;

2.Il centralismo democratico, che prevedeva una divisione di responsabilità fra centro e periferia;

3.Il principio settoriale: ogni impresa statale dipendeva da un ministero tecnico, secondo la natura

della produzione.

Nel 1930 si procedette alla collettivizzazione della terra completata in 10 anni. Da quel momento

comparvero i kolkoz, le grandi fattorie cooperative, e i sovkoz, le fattorie statali. Le aziende

industriali governative, dalla fine degli anni ’30 furono raggruppate in trust, che comprendevano

le imprese appartenenti al medesimo settore produttivo oppure in Combinat che integravano

verticalmente le aziende. Le aziende commerciali erano di due generi: i negozi di stato e le

cooperative di consumo. Le cooperative agricole ricevevano dallo stato in possesso grandi fattorie

di alcune migliaia di ettari, simili ai latifondi nobiliari d’epoca zarista. I kolkoz, piccoli

appezzamenti coltivati individualmente, contemperavano l’individuo contadino con il collettivismo

socialista. L’incentivo del tornaconto individuale manteneva alte le rese nel kolkoz. I sovkoz,

enormi aziende statali di circa 8000 ettari l’una, erano assai più rari. Vi lavoravano operai

salariati, in tutto paragonabili alla manodopera industriale. Le disponibilità di macchine (capitale)

assieme a un’agricoltura estensiva, accresceva la produttività del lavoro. Gli effetti economici del

primo piano quinquennale (1928-1933) sono impressionanti. Gli economisti occidentali hanno

calcolato che il tasso annuo di crescita si aggirasse attorno al 13-15%. Anche il settore edilizio ebbe

uno sviluppo vistoso. Nell’insieme, la produzione industriale fu moltiplicata per otto volte e mezzo. Non

bisogna peraltro dimenticare che la programmazione coercitiva di Stalin era simile a “un’economia di

guerra” e che la Russia andò del tutto esente dagli effetti devastanti sugli apparati industriali occidentali

della crisi del 1929. Alla fine della seconda GM, il paese rifiutò gli aiuti del piano Marshall e rilanciò la

pianificazione economica (1946-1951). Nel 1949 la produzione sovietica aveva già riguadagnato i livelli della

vigilia della guerra, ma dopo la morte di Stalin (marzo 1953), riemersero le disastrose condizioni

dell’agricoltura, il settore economico sino allora più trascurato. Dagli anni ’60, l’agricoltura cominciò a

registrare preoccupanti cali produttivi di cereali, carne e latte. Il basso tenore di vita della popolazione di un

paese ormai economicamente avanzato posa la questioni di riorganizzare i principi stessi della

pianificazione, attribuendo la stessa dignità alla produzione di beni di consumo rispetto a quella di beni

strumentali e armamenti. Mentre l’economia sovietica dal 1930 al 1960 aveva sperimentato una costante

espansione, dal 1960 al 1989 andò progressivamente incontra al ristagno. Quando, dagli anni ’50, l’economia capitalista si dedicò al soddisfacimento della crescente domanda privata di elettrodomestici,

automobili, elettronica, aeronautica civile, chimica farmaceutica comunicazioni, l’URSS non riuscì a imitarla.

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I flussi del commercio estero russo da e verso il mondo capitalistico occidentale, testimoniano

efficacemente il progressivo deterioramento cui andò incontro l’economia sovietica esportatrice

soprattutto di beni primari, gas naturale e petrolio, e importatrice di derrate alimentari, metalli e prodotti

chimici. Dopo il crollo del 1989, l’economia russa andò incontro al disastro. Nel giro di pochi anni il PIL

dimezzò. L’economia fu distrutta da manovre speculative della nomenklatura, dalle prescrizioni

astrattamente liberistiche del Fondo Monetario Internazionale (FMI), da alcuni economisti occidentali e dai

loro colleghi russi, inesperti di capitalismo, chiamati a ruoli di grande responsabilità. L’eredità permanente

dello statalismo sovietico ha distrutto la società civile. Il radicamento della democrazia è difficile in un

mondo orfano di un’identità collettiva, dove i flussi del potere e del denaro condizionano le istituzioni

economiche e sociali emergenti. La Russia attuale somiglia in maniera impressionante allo zarismo primo

novecentesco.

L’economia  autarchica  di  uno  stato  dirigista:  l’Italia  1922-1945 Alla fine del 1922, Benito Mussolini

ricevette dal re l’incarico di formare il governo. Le prime misura economiche, di carattere liberista,

favorirono l’alta finanza e la borghesia industriale e agraria. Il governo abolì il monopolio statale delle

assicurazioni sulla vita, diminuì l’imposta patrimoniale ed eliminò quella di successione per i discendenti

diretti. Furono ridotti i dazi doganali sulle importazioni e la produzione agricola migliorò. Dal 1925 il

governo abbandonò la politica liberista fino allora praticata e ne avviò una di risanamento monetario di

crescente protezionismo e dirigismo statale. Con il 1925 fu inaugurata una politica agricola volta a

migliorare la condizione produttiva del settore primario. Mussolini bandì la “battaglia del grano” con

l’obiettivo di raggiungere l’autosufficienza produttiva dell’alimento base della popolazione per non dover

dipendere da massicce importazioni. Nel 1926, dopo l’emanazione delle “leggi fascistissime”, la Banca

d’Italia ebbe l’esclusiva del diritto d’emissione di cartamoneta. Nel 1927 fu ripristinato il gold Exchange

standard: la misura era una premessa per la rivalutazione della lira. La lira fu innegabilmente

sopravvalutata. La domanda estera calò e la struttura produttiva nazionale fu orientata a produrre per il

mercato domestico, riducendo violentemente l’apertura verso l’economia internazionale. Prezzi al

consumo, stipendi e salari diminuirono senza apprezzabili vantaggi per i consumatori e la disoccupazione

triplicò. Grazie al ripristino di un dazio protettivo sul grano, l’Italia arrivò a reperire all’estero un quarto del

grano importato 10 anni prima. L’ampliamento della superficie destinata a frumento danneggiò le altre

colture e l’alto prezzo del pane abbatté i consumi interni di derrate agricole e manufatti. La “battaglia del

grano”, tuttavia, stimolò la produzione nazionale di trattori, macchine agricole e fertilizzanti chimici, anche

perche, nel 1928, fu varata la legge di bonifica integrale, che prevedeva la collaborazione fra stato e

proprietari fondiari per prosciugare palude acquitrini e trasformarli in campagne modernamente coltivate.

Negli anni ‘320, le banche miste italiane erano gli azionisti di controllo delle maggiori imprese industriali. La

crisi finanziaria ne dissestò i bilanci e minò la fiducia della clientela depositante. Alla fine del 1931, il Credito

Italiano (CREDIT) e la banca Commerciale Italiana (COMIT) cedettero le loro partecipazioni azionarie a due

società finanziare controllate dalla Banca d’Italia e si impegnarono a cessare di svolgere operazioni tipiche

delle banche universali. Con la fondazione dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) nel 1933, il

governo affrontò il problema della riorganizzazione tecnica, economica e finanziaria delle attività industriali

acquisite dalle banche miste. Dal 1937 l’IRI fu un organo permanente di gestione delle partecipazioni

azionarie dello stato nei settori commerciale, industriale e creditizio del paese. Nel settore elettrico, da solo

o in partecipazione con privati, lo Stato controllava la rete del mezzogiorno. Lo stimolo alla concentrazione

industriale prodotto dalla crisi si estese anche alle imprese private, mentre si moltiplicavano consorzi o

cartelli tra i produttori dei diversi settori al fine di eliminare la concorrenza e di sostenere i prezzi. Il

governo stesso incoraggiò la costituzione di consorzi, quando non lo rese addirittura obbligatori nel giugno

del 1932. I consorzi obbligatori in un grande numero di settori agricoli o industriali assicurarono ai

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produttori posizioni monopolistiche, e abbaterono anche l’efficienza produttiva del sistema. In conclusione,

dai primi anni ’30, quanto al livello di statalizzazione dell’economia, l’Italia fu seconda solo alla Russia. Il

risanamento del sistema bancario, avviato nel 1926, fu concluso nel 1936. Gli istituti che operavano in più

di 30 province furono definite “banche d’interesse nazionale” (COMIT, CREDIT, Banco di Roma) abilitate a

concedere solo finanziamenti a breve termine. Nacquero poi gli Istituti di Credito di Diritto Pubblico e,

come ultime, la Banche di Credito Ordinario. La chiusura delle frontiere di numerosi paese in condizioni

economiche critiche, creò difficoltà crescenti alle imprese esportatrici; per di più l’aumento dei disoccupati

e la diminuzione dei salari, ebbero effetti depressivi anche sulla domanda interna. Alla fine del 1935, la

Società Delle Nazioni proclamò l’embargo su armi e munizioni e vietò ai paesi membri le importazioni di

merci italiane e la concessione di prestiti dia parte di banche straniere. La risposta di Mussolini fu la

proclamazione dell’autarchia, vale a dire la produzione nazionale, per imitazione, di quei beni di consumo

che non si sarebbero più potuti importare. Così l’economia italiana venne a trovarsi in una condizione

d’isolamento, e, in occasione della seconda GM, nel mondo industriale della penisola non accade nulla di

paragonabile a quanto era avvenuto fra il 1915 e il 1918, ai tempi della generale mobilitazione dopo

l’entrata nella fornace della grande guerra.

Il nazionalsocialismo tedesco (1933-1945) La repubblica parlamentare e federale sorta dalla sconfitta

tedesca, dal 1919 fu governata dai socialisti e dai loro alleati di centro. Parlamento, partiti e la politica

stessa furono però oggetto di un irriducibile disprezzo da parte di quanti attribuivano alla compattezza e

alla disciplina un valore primario e che nel confronto delle differenti opinioni vedevano un lusso

insopportabile. Concretezza, ordine e dignità erano valori irrinunciabili proclamati a ogni piè sospinto dalla

destra. Nel 1920, il centrosinistra perse le elezioni. Nel 1922 fu assassinato Walter Rathenau, industriale

illuminato di origine ebraica favorevole alla partecipazione operaia alla gestione delle imprese e ministro

degli esteri. Nel 1923, le truppe belghe e francesi entrarono nella Ruhr per costringere i padroni di casa a

spedire oltre confine convogli ferroviari di carbone in parziale pagamento delle riparazioni di guerra. Gli

anni dal 1923 al 1928 furono relativamente tranquilli anche perché fu raggiunto un onorevole

compromesso sulla questione delle riparazioni. Il partito nazionalsocialista di Adolf Hitler si convertì alla

legalità ma non riuscì a ottenere in controllo dell’elettorato di destra. Gli effetti a distanza della crisi di Wall

Street, diffuse sfiducia nella repubblica parlamentare presso gran parte dell’elettorato. Alle elezioni del

1930, i nazionalsocialisti raccolsero 6 milioni e mezzo di suffragi contro i 600.000 ottenuti nel 1928. Una

guerra civile strisciante accrebbe il prestigio delle Squadre d’Assalto naziste presso l’elettorato

conservatore. Nel gennaio 1933 Hitler ricevette dal presidente della Repubblica Hindenburg l’incarico di

formare il governo in alleanza al centrodestra. Messi fuori legge i comunisti e ottenuta l’investitura

popolare con nuove elezioni, Hitler sciolse tutti i partiti tranne il suo e attuò energici processi

centralizzazione del potere, eliminando l’articolazione federale dello stato. Nel 1934, Hitler cumulò

alla carica di cancelliere quella di presidente della repubblica, concentrando ogni potere nelle sue

mani. Dopo il 1932, l’economia tedesca realizzò la ripresa più rilevante fra quelle dei paesi

economicamente avanzati. La disoccupazione era scesa; in seguito furono soppressi i sindacati,

razionate le risorse. I nazisti lanciarono un vasto programma di lavori pubblici. Gli effetti positivi

sull’occupazione e la domanda non si fecero attendere. Dal 1934 lo sforzo fu concentrato sul

riarmo e sui preparativi remoti di una nuova guerra. La spesa statale aumentò consistentemente,

mentre veniva avviata una pianificazione economica selettiva. Il prelievo fiscale fu inasprito per

spostare risorse dai consumi alla produzione. Lo sforzo industriale del riarmo garantì grandi

commesse statali alle industrie siderurgiche, cantieristiche, metalmeccaniche e chimiche. Il governo

divenne il maggior investitore e il maggior consumatore dell’economia nazionale. La Germania

stabilì relazioni commerciali offrendo loro la possibilità di pagare con materie prime e prodotti

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agricoli le importazioni di manufatti e di macchinari tedeschi. La penetrazione economica

germanica spianò la strada alla conquista politica e militare dei paesi partner. Austria e

Cecoslovacchia furono annesse al Reich Hitleriano nel 1938-1939 e, di lì a poco, la conquista della

Polonia avrebbe innescato lo scoppio della seconda guerra mondiale.

La seconda guerra mondiale e le sue conseguenze La guerra del 1939-1945 fu totale in un

duplice senso: perché ebbe un’estensione geografica davvero mondiale e durò 68 mesi in Europa

e 44 mesi in Asia, dove cominciò nel 1941 con l’attacco a Pearl Harbour, e finì con il

bombardamento atomico sul Giappone nel 1945. Fu una guerra generale con mobilitazione

altrettanto generale; militari e civili ne furono equamente coinvolti e ne seguirono, in molti casi,

guerre partigiane. Per la prima volta vi furono anche bombardamenti a tappeto sulle periferie

industriali delle città. Pianificazione e controllo centralizzato delle risorse economiche dei paesi

belligeranti furono molto più estesi di quanto fosse avvenuto con la grande guerra, anche per

effetto degli interventi statali avviati negli anni ’30 con i programmi di politica economica e

sociale anticrisi. Dovunque, lo sforzo bellico fu realizzato operando in tre principali direzioni:

1.Accrescendo la produzione;

2.Contenendo i consumi privati a favore di quelli pubblici;

3.Rinunciando a nuovi investimenti e tralasciando di rinnovare le infrastrutture e il capitale tecnico

logorato dall’uso e dal passare del tempo.

Il massimo sforzo economico per la guerra fu sostenuto dagli USA che produssero, impiegarono e

distribuirono agli alleati un terzo di tutti i mezzi adoperati nei combattimenti. Fu, insomma, un

vero e proprio boom. Massicci e nuovi investimenti realizzati negli USA accrebbero del 50% la

capacità produttiva dell’industria rispetto alle condizioni precedenti il 1939. La Gran Bretagna

destinò metà della ricchezza annualmente prodotta al finanziamento della guerra. Per contro, fino

agli ultimi mesi di guerra, l’economia tedesca trasse vantaggio dal conflitto. La Germania impose

pesanti tributi alle popolazioni dei territori occupati. Il Reich risucchiò risorse e popolazione attiva

non solo dalle regioni occupate, ma anche da quei paesi alleati con la Germania. I peggiori effetti

sulle economie nazionali dell’occupazione germanica si ebbero in Polonia, Belgio, Francia, Olanda e

Grecia. L’invasione tedesca devastò l’economia russa, che perche circa la metà del proprio

potenziale industriale entro i primi due ani di guerra. I livelli di vita crollarono. La seconda GM

causò direttamente dai 37 ai 44 milioni di morti, 17 dei quali caddero in combattimento. Tra i

morti civili (da 20 a 27 milioni) rientrano anche i quali 7 milioni di ebrei e le centinaia di

migliaia di zingari, omosessuali e testimoni di Geova vittime dello sterminio nazista. Le

conseguenze territoriali, riguardarono soprattutto la Germania, ed ebbero effetti sulle economie dei

vari paesi. La Germania, divisa in due, cessò di essere la prima potenza economica del continente

e la Russia ne prese il posto. Gli USA accrebbero la loro posizione di economia dominante e

creditrice, a differenza di quanto era accaduto nel primo dopoguerra, e si comportarono di

conseguenza. Nel luglio del 1944, a Bretton Woods, nel New Hampshire, con i rappresentanti degli

alleati si riunirono quelli di 44 paesi per disporre misure atte a evitare che l’ormai imminente

fine della guerra e il ritorno a un’economia di pace provocassero crisi e disagi economici analoghi

a quelli intervenuti nel 1920-1921, ivi fu deciso di:

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1 Creare la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS), detta anche Banca

Mondiale, per incoraggiare investimenti esteri a lungo termine e che oggi aiuta i paesi

economicamente arretrati;

2.Creare il Fondo Monetario Internazionale (FMI), che avrebbe svolto un ruolo fondamentale nel

mantenere la stabilità dei cambi fra valute e nel risolvere problemi collegati alla bilancia dei

pagamenti;

3.Promuovere la liberalizzazione degli scambi internazionali: nel 1947, 23 paesi diedero origine al

General Agreement on Tariffs and Trade (GATT), che ebbe un ruolo fondamentale nel processo di

riduzione delle barriere doganali. Solo nel 1995 sarebbe sorta l’Organizzazione Mondiale del

Commercio (WTO).

9. Ricostruzione, sviluppo e maturità (1945-1973)

La ricostruzione postbellica Nel giugno 1945, le poche fabbriche europee rimaste in pieni erano

prive di macchinari e materie prime. Le vie di comunicazione erano interrotte o danneggiate.

L’agricoltura subì ovunque cali dei raccolti. La mancanza di riserve d’oro, di valute, di credito

internazionale impedivano le importazioni di beni indispensabili. Pesanti deficit dei conti statali, alti

livelli d’indebitamento interno ed esterno, cartamoneta sovrabbondante rispetto ai volumi degli

scambi, ovunque dominavano il quadro finanziari. Nel 1947, gli USA completarono la

trasformazione della loro industria di guerra in un apparato produttivo civile senza conseguenze

negative sull’occupazione. L’intervento dell’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation

Administration), avviato fin dal 1944 per occorrere le popolazioni europee che uscivano dalla

guerra, cessò nel giugno 1947, quando il vecchio continente era ancora lontano dall’aver ricostruito e riavviato le proprie economie nazionali e usava i dollari avuti in prestito per le

importazioni cereali indispensabili a sfamare le popolazioni. Sempre nel giugno 1947, il segretario

americano George Marshall presentò un imponente piano ERP (European Recovery Program) di

aiuti diretti ai paesi dell’Europa occidentale per impedire che ricadessero nell’autarchia e nel

protezionismo e smettessero di acquistare materie prime, macchinari e manufatti industriali

statunitensi, causando una crisi economica di là dall’Atlantico. Il governo americano attribuì anche

al piano il compito di rafforzare il commercio internazionale intereuropeo; il governo americano

trasferì in Europa 15,7 miliardi di dollari, 12 dei quali a titolo gratuito. Il piano prevedeva anche

la cooperazione tra i destinatari degli aiuti, riuniti nell’OECE (Organizzazione Europea per la

Cooperazione Economica) che avrebbe controllato la compatibilità dei piani nazionali di utilizzo

degli aiuti e incentivato gli scambi fra partner che ristabilivano relazioni economiche. Gli USA

contribuirono a riavviare le economie europee e a promuovere le esportazioni in modo da

controbilanciare le importazioni di derrate agricole e di materie prime. Le relazioni fra paesi

debitori e paesi creditori furono garantite dal FMI e dalla BIRS. Dopo l’istituzione del GATT,

l’accordo generale sulle tariffe di commercio internazionale, alla fine del 1947, quasi la metà del

commercio mondiale era esente da intralci protezionisti. Dei tre stati usciti perdenti dalla guerra,

l’Italia era quello economicamente meno malandato. A distanza di 5 anni dalla fine del conflitto,

Germania e Giappone si erano riportati ai due terzi della ricchezza prodotta alla vigilia del

conflitto. L’Italia, invece, aveva costantemente superato la media europea comprendente paesi

rimasti imparziali che avevano beneficiato della loro neutralità.

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Le politiche di sostegno alla ripresa Le misure prese dai governi dell’Europa occidentale, diedero

un’energica spinta al rilancio delle rispettive economie grazie a un’inedita combinazione di pubblico

e privato chiamata “economia mista”. Si trattava di escogitare i modi più efficaci per riavviare i

processi di crescita economica inceppatisi fin dal 1914. La teoria economica giuda fu identificata

nelle tesi di John Maynard Keynes proposte nel 1936 con il celebre trattato Teoria generale

dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. Keynes affermò che un’economia in crisi era

incapace di auto correggersi per riportarsi in equilibrio. Era dunque necessario l’intervento attivo

dei governi per stimolare l’impiego di fattori disponibili e inutilizzati. Si avrebbero così evitare crisi

economiche catastrofiche operando attraverso tre leve:

1.Politica monetaria;

2.Spesa pubblica -deficit di bilancio- per distribuire reddito e creare domanda aggiuntiva;

3.Diminuzione/aumento della pressione discale per sostenere il risparmio e la domanda. Le linee

generali di politica economica perseguite dai diversi governi sono riconducili ai seguenti principi:

1.Concentrare gli investimenti nelle industrie di base, così da ottenere incrementi di produttività,

di volumi prodotti e di esportazioni;

2.Accordare priorità agli investimenti rispetto ai consumi;

3.Stimolare il risparmio, rendere il credito per investimenti facile e a buon mercato;

4.Investire in risorse pubbliche;

5.Controllare l’inflazione attraverso la leva fiscale sulla domanda, tassando i profitti non reinvestiti

e contenendo i salari;

6.Promuovere le esportazioni e contenere le importazioni perché i paesi europei mancavano di

riserve di dollari e di oro per aumentare il commercio internazionale.

Nonostante i gravi danni, i tempi della ricostruzione si rivelarono nettamente più brevi di quelli

pretesi dal primo dopoguerra. Due settori, in particolare, realizzarono alti tassi di crescita:

l’industria e l’agricoltura. Le forze politiche esprimevano dappertutto forti istanze riformistiche.

Furono numerosi i mutamenti istituzionali orientati alla democrazia. Furono tendenze politiche

comuni a tutta l’Europa occidentale:

1.Suffragio universale, il sistema elettorale proporzionale (tranne la GB), regimi assembleari reputati

garanti dei principi democratici, governi in posizione di soggezione rispetto alle assemblee

parlamentari;

2 Realizzazione di riforme economiche strutturali, come le nazionalizzazioni di grandi imprese

industriali e di servizi;

3. Progressi di carattere sociale come la ricostruzione dei sindacati e la loro unità d’azione, l’introduzione di assegni familiari e della scala mobile dei salari per attenuare l’effetto inflazionistico sul potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti;

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Verso l’economia mista Nel 1949, gli esperti ONU avevano previsto che la produzione industrial

sarebbe aumentata fra il 40% e il 60%. Gli aiuti americani, la crescente liberalizzazione degli

scambi fra partner europei, gli investimenti migliorativi e delle tecniche produttive e il massiccio

intervento diretto e indiretto dei governi, interagendo e rafforzandosi a vicenda, spiegano come la

ricostruzione abbia potuto favorire l’avvento di un processo di generale sviluppo economico,

dovunque prolungatosi dai primi anni ’50 ai primi anni ’70. L’economia mista ebbe 5 obiettivi

espliciti:

1.Il pieno impiego del fattore lavoro;

2.L’utilizzo dell’intera capacità produttiva esistente;

3.La stabilità dei prezzi;

4. L’aumento dei salari legato a miglioramenti della produttività del lavoro;

5.L’equilibrio della bilancia dei pagamenti.

Con il passare del tempo, alla preoccupazione d’attenuare le oscillazioni cicliche congiunturali,

subentrò quella di programmare la crescita economica a lungo termine. L’accoglimento dell’economia mista pose anche la questione del ruolo statale nel favorire una distribuzione equa

del benessere su tutta la popolazione. I governi ebbero un crescente ruolo nei trasferimenti di

ricchezza drenata per mezzo dell’imposizione fiscale proporzionale sui patrimoni e progressiva sui

redditi. Furono approvate leggi sui salari minimi, sull’edilizia pubblica, sull’istruzione obbligatoria,

sulla sanità e sulla previdenza sociale. L’economia mista fu inaugurata procedendo a

nazionalizzazioni d’imprese strategiche. L’azione economica del governo laburista britannico puntò

soprattutto sul pieno impiego del fattore lavoro. Nel 1952 i conservatori allentarono i controlli sui

prezzi e salari e privatizzarono i trasporti su strada e parte della siderurgia e nel 1962 crearono il

Consiglio di sviluppo economico nazionale. Gli interventi più incisivi riguardarono la ricerca

tecnologica e l’istituzione di scuole professionali. In Germania ci fu un netto rifiuto della politica

dirigista perché evocava quella nazista. Essi presero come modello un’economia di mercato a

sfondo sociale e fu lanciata una politica favorevole alle piccole imprese. Nel 1948 fu riformata la

moneta e furono ridotte le imposte sul reddito personale e sugli utili delle società. La politica

neoliberista rimase in sostanza a livello di dichiarazioni d’intenti finché, dal 1948, il piano Marshall

e la ricostruzione a tappe forzate pretesero l’intervento dello stato. Nel corso degli anni ’50 le

eccedenze del bilancio governativo furono destinate al miglioramento dell’assistenza sociale, alla

tutela dell’ambiente e alle pensioni d’anzianità. Nel 1967 il Parlamento tedesco votò una legge

che impegnava il governo a promuovere la stabilità dei prezzi e dei salari e la crescita

dell’economia mediante una pianificazione quinquennale dei bilanci pubblici, l’istituzione di un

consiglio di esperti economici e l’adozione di una politica dei redditi. Sul finire degli anni ’50,

l’accesso delle esportazioni al mercato mondiale e l’avvio delle CEE (Comunità Economica Europea),

segnarono il tramonto del Neoliberismo germanico. In Svezia, Paesi bassi, Belgio e Austria

l’economia mista prese corpo attraverso la sistematica consultazione delle parti sociali da parte dei

governi.

I venticinque anni d’oro (1949-1973) Fra il 1949 e la crisi petrolifera di metà anni ’70, l’economia europea e mondiale visse un periodo di sviluppo economico e sociale senza precedenti. A

progressiva liberalizzazione degli scambi internazionali svolse un ruolo decisivo perché l’ammontare

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di derrate agricole, di materie prime metalliche ed energetiche , di semilavorati e di prodotti finiti

scambiati fra paesi continuò ad aumentare senza interruzioni. La crescente produzione di merci e

servizi fu il risultato combinato di massicci investimenti di capitale tecnologico e dell’aumento di

manodopera impiegata nei settori secondario e terziario, dovuto tanto alla crescita della

popolazione, quanto allo spostamento da settori a bassa produttività a settori ove l’alta produttività era favorita dalla crescente intensità di capitale tecnologico. Gran Bretagna e USA non

disponevano quasi di riserve di manodopera perché avevano completato le trasformazioni

strutturali delle rispettive agricolture nella prima metà del ‘900, investendovi massicce quote di

capitale e ottenendo consistenti risparmi di fattore lavoro. Gli alti prezzi interni dei beni alimentari

agirono da freno al trasferimento massiccio e repentino di manodopera dal primario all’industria e

ai servizi, consentendo altresì l’accumulo di potere d’acquisto e di risparmio presso larga parte

della popolazione rurale. Per di più i governi avviarono o riavviarono il processo di

meccanizzazione dell’agricoltura e di aggiornamento agronomico delle tecniche produttive. I

massicci investimenti in capitale produssero sensibili aumenti della produttività perché si trattava

soprattutto di “ingegneria del miglioramento”, cioè di applicazioni ai processi produttivi esistenti

degli accorgimenti e delle attrezzature usate negli Stati Uniti negli anni ’30 e ’40. Gli investimenti

ebbero effetti stimolanti sulla produttività del lavoro e sulla crescita economica complessiva di

tutti i paesi, in particolare, i tre paesi usciti sconfitti dalla guerra realizzarono i maggiori progressi

in virtù di una miscela di fattori economici, sociali e culturali. In Europa e Giappone, crebbero

vistosamente i consumi di beni industriali durevoli mentre andava affermandosi per gradi la

società del benessere. Mentre in Europa e Giappone il settore economico più dinamico diveniva il

secondario, nell’economia americana il settore protagonista cominciava a essere il terziario. La

supremazia tecnologica statunitense nel campo della organizzazione e della gestione aziendale

indusse le grandi imprese multinazionali ad aprire filiali in quei paesi dove stava profilandosi il

compimento della seconda rivoluzione industriale. A spingere gli investimenti statunitensi in Europa

occidentale e in Giappone concorsero anche le leggi antitrust e la super valutazione del dollaro,

fino al 1971, nei confronti delle valute europee e dello yen giapponese.

L’Italia paese industriale Dalla ricostruzione allo sviluppo

Nel triennio 1945-1947, l’Italia era un paese in crisi economica, politica e sociale. Aveva subito

danni al materiale ferroviario, alle strade, ai porti, al naviglio mercantile, ai ponti, alle reti

elettriche, telefoniche e telegrafiche.

Rallentamento della crescita e deindustrializzazione Dopo una lunga fase di stabilità, durata fino

al 1966, dal 1967 al 1971, nei maggiori paesi i prezzi rincararono di quasi il 5% l’anno. L’inflazione causò un ripiegamento della domanda aggregata e un rallentamento delle produzioni.

L’aumento del 27% del prezzo del petrolio greggio rinforzò le tendenze inflazionistiche. Fu però il

primo shock petrolifero dell’ottobre del 1973 a fornire un propellente formidabile alla tendenza

rialzista degli indici generali dei prezzi i quali sumentarono in media del 13,2%. Tra ottobre 1980

e novembre 1981, l’oro nero raggiunse i 34 dollari al barile, 19 volte il prezzo di undici anni

prima. La febbre inflazionistica provocata dall’embargo parziale da parte dei paesi arabi produttori

contro i paesi europei nell’occasione della guerra fra arabi e israeliani (1973) durò all’incirca un

decennio. Un’inflazione d’intensità senza precedenti in periodi di pace, comportò aumenti medi

annui dei prezzi del 9,1%. L’inflazione galoppante (1972-1983) produsse una serie di contraccolpi:

1.Depresse il valore delle monete misurato in dollari, la valuta di riferimento per i pagamenti

internazionali, a sua volta ancorata all’oro. Il 15 agosto 1971 il presidente americano Nixon decise

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di sospendere la convertibilità delle banconote in oro; da quel momento finiva una storia

millenaria e l’oro diventava una merce qualsiasi, per quanto rara e pregiata;

2.I valori delle singole monete fluttuarono liberamente secondo le condizioni del mercato, ma il

dollaro continuò a essere la moneta di riferimento per le altre monete sul mercato internazionale;

3.Altro effetto riguarda i bilanci statali. Il rallentamento della crescita e l’aumento della spesa

pubblica causarono in tutti i bilanci statali deficit annuali più o meno pesanti; molti bilanci

chiusero in disavanzo costringendo i governi a ricorrere a prestiti onerosi;

4.Sul mercato dei capitali, la concorrenza alle imprese da parte dei governi rese molto più

oneroso il costo del denaro;

5.La crescita del debito pubblico e dei tassi d’interesse corrisposti dagli stati aggravò ulteriormente

i disavanzi;

6.Dal 1974 la disoccupazione cominciò a crescere senza interruzioni fino al 1983. Dopo di allora,

fino ai gironi nostri, essa non è significativamente diminuita.

La risposta dei governi ai bilanci pubblici in deficit strutturale fu la privatizzazione d’imprese industriali pubbliche e di servizi pubblici. In GB, dal 1980, il primo ministro conservatore M.

Thatcher privatizzò imprese che nell’insieme impiegavano 600.000 persone. Negli anni ’90, alcuni

governi cedettero a privati perfino i servizi sociali. Dalla metà degli anni ’80, fra le imprese

private ci sono state molte migliaia di fusioni-acquisizioni, specie fra aziende attive in paesi diversi

e con spostamento delle attività manifatturiere del Terzo Mondo. Dalla metà degli anni ’70 in

Europa occidentale, e dai primi anni ’70 negli USA, il settore tessile è declinato avendo perduto

la metà degli addetti che contava trent’anni prima (1965). A cominciare dagli ultimi anni ’60 un

processo analogo ha interessato la siderurgia e l’elettronica di prima generazione, con spostamenti

da regioni d’antica industrializzazione a paesi di più recente sviluppo, come Giappone, Corea del

Sud, India, Spagna e brasile. Alla stessa epoca, fenomeni simili riguardarono la produzione di radio

e di apparecchi televisivi, macchine fotografiche e cineprese. Il regresso ha pesantemente

riguardato i settori tradizionali a basso contenuto tecnologico, come il tessile, l’abbigliamento e la

siderurgia. In ogni caso, nessun settore produttivo fa eccezione alla tendenza generale. All’origine delle rilocalizzazioni industriali agiscono tre fattori:

1.Differenti livelli salariali;

2.Disponibilità o meno di manodopera addestrata;

3.Abbattimento delle dogane su prodotti industriali esteri, con dimezzamento delle tariffe tra i

primi anni ’50 e i primi anni ’60.

Conflitti e integrazioni di fine secolo Gli shock petroliferi degli anni ’70 spinsero i paesi sviluppati

occidentali a incrementare le loro esportazioni nel tentativo di controbilanciare il maggior esborso

a favore dei produttori/venditori di petrolio greggio. Intorno al 1970, le esportazioni dei paesi

sviluppati occidentali si aggiravano attorno al 10% della ricchezza prodotta ogni anno del mondo.

Gli USA sono il paese che più di ogni altro ha ampliato la propria quota di esportazioni, più che

raddoppiando la sua percentuale dal 1970 al 2004. Nell’insieme, i paesi dell’UE sono cresciuti, ma

non va trascurato che da 6 iniziali sono diventati 25 e che l’unione doganale ha stimolato

anzitutto gli scambi interni. Una dinamica del genere spiega, fra l’altro, perché il concetto di

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mondializzazione o globalizzazione abbia molto più credito di là dall’Atlantico che nel vecchio

continente. Il terzo protagonista dell’economia nazionale, il Giappone all’inzio degli anni ’90 era di

molto cresciuto. Nell’insieme, comunque, agli inizi dell’ultimo decennio del XX secolo, il 37,9%

delle esportazioni mondiali erano appannaggio della “triade” USA, UE, Giappone e sorge il

sospetto che i maggiori esportatori facciano dumping (vendevano all’estero a prezzi inferiori

rispetto a quelli interni) per sfruttare appieno le capacità produttive e organizzative delle loro

imprese. Tra il 1990 e il 2004, mentre il Giappone arretrava parecchio, gli USA e ancor di più

l’UE guadagnavano terreno trascinati dalle importazioni delle economie asiatiche, in vistosa e

prolungata crescita dalla metà degli anni ’80. Oltre alle merci, anche i servizi interscambiati tra

paesi sviluppati hanno registrato tassi d’incremento notevoli; nel ventennio 1970-1990, i più

dinamici furono i Giapponesi. Un ultimo aspetto delle relazioni economiche internazionali merita di

essere accennato: quello degli investimenti esteri di capitale. I paesi europei hanno raddoppiato i

loro investimenti dal 1980 al 1995 preferendo puntare sulle regioni economicamente evolute

piuttosto che su quelle in via di sviluppo. Gli USA, dall’inizio degli anni ’70, sono divenuti i

maggiori destinatari d’investimenti stranieri diretti. In tal modo, con il passare del tempo, gli

investimenti statunitensi all’estero sono andati equilibrandosi con quelli esteri realizzati negli USA,

al punto che nel 1995, il valore complessivo dei primi superava solo di un quarto quello dei

secondi. La crescente concentrazione dei tre quarti degli investimenti di capitali dei paesi ricchi

nelle economie dei medesimi paesi ricchi ha accentuato l’interdipendenza fra le diverse economie

più avanzate. Protagoniste d’investimenti esteri volti alla delocalizzazione sono soprattutto le

imprese multinazionali. Le multinazionali coprono i due terzi del commercio mondiale. Se,

nell’insieme, si può parlare di mondializzazione dell’economia, non v’è tuttavia alcun dubbio che si

tratti di un processo che riguarda prevalentemente le imprese dei paesi ricchi, nei quali vive e

opera solo il 22% della popolazione del globo. Conviene, infine, gettare uno sguardo agli indici

dell’andamento della ricchezza prodotta dal 1971 al 2005 nei sei paesi più ricchi. La ricchezza

prodotta ha smesso di crescere tra il 1991 e il 1996 dappertutto tranne che in Gran Bretagna. La

rivoluzione tecnologica delle comunicazioni sembra favorire i paesi in via di sviluppo molto più di

quelli solidamente sviluppatisi con l’economia misto dopo la seconda GM. Analogamente, gli USA,

che erano giunti alla maturità economica prima dello scoppio della seconda GM, crebbero più

lentamente e meno bruscamente calarono sul finire del secondo millennio. Sembra che la maturità

renda meno reattive le economie e troppo alti i costi d’impianto d’infrastrutture e di tecnologie

avanzate, senza parlare del personale tecnico e scientifico necessario per convertire e mantenere

le strutture innovative.

11. Dalla decolonizzazione al Terzo Mondo

Il processo di decolonizzazione Lo sgretolamento del colonialismo europeo avvenne in una

ventina d’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e si svolse in due fasi successive. La

prima, 1946-1951, riguardò essenzialmente il continente asiatico; la seconda, 1956-1963, fu la volta

dell’Africa. Del grande impero britannico sopravviveva la piccola Hong Kong che sarebbe stata

restituita alla Cina nel 1997. Tra la prima e la seconda fase, si situa una tappa fondamentale

delle relazioni fra nazioni neoindipendenti ed economicamente arretrate e paesi sviluppati. Nella

primavera del 1955, riuniti a Bandung (Indonesia), i responsabili di 29 paesi asiatici e africani

condannarono ogni forma d0oppressione coloniale ancora esistente e sollecitarono l’avvio di una

politica di riequilibrio delle relazioni economiche tra sud e nord del mondo: prese forma uno

schieramento di nazioni che condividevano l’esigenza di tramutare la recente indipendenza in vera

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e propria autonomia e di avviare la crescita economica. I paesi ex coloniali si divisero tra

economie di libero mercato ed economie a programmazione economica centralizzata. 70 nazioni,

nel 1965 nel palazzo dell’ONU, rappresentavano quella parte di umanità che il demografo ed

economista francese Alfred Sauvy chiamò “Terzo Mondo”. Le Nazioni Unite, con una risoluzione

del 1961, avevano dichiarato gli anni ’60 come il “primo decennio dello sviluppo” dei paesi

poveri, e l’anno successivo creavano l’UNCTAD. Accanto alle agenzie dell’ONU fiorirono anche

associazioni che misero in relazione gruppi di paesi del nord e del sud. Negli anni della

presidenza Kennedy (1961) negli USA fu creata l’Alleanza per il progresso. Di qua dall’Atlantico l’Unione Europea strinse legami con 18 paesi africani.

Luci e ombre della prima fase di sviluppo (1946-1965) Raggiunta l’indipendenza, i paesi del Terzo

Mondo s’impegnarono nell’avvio di processi d0industrializzazione, assieme a programmi d’istruzione rapida per popolazioni semianalfabete, in modo da attenuare il grave ritardo rispetto ai paesi del

mondo sviluppato.La battaglia dell’istruzione diede risultati incoraggianti. L’accesso agli studi

universitari è stato relativamente diseguale da un continente all’altro e da paese a paese, secondo

gli assetti e i regimi politici esistenti, ed è inversamente proporzionale alla massa dei potenziali

studenti. In ogni caso, il progresso dell’istruzione superiore ha avuto andamento esponenziale.

Nell’arco di un paio di decenni, tra il 1948 e il 1965, il Terzo Mondo a economia di mercato

triplicò il volume delle produzioni manifatturiere tenendo un tasso annuo medio di crescita del

7%. La sostituzione delle importazioni con produzione locale spiega l’intensità del processo. In

pratica, fu rovesciatala tendenza consolidatasi nel XIX secolo e proseguita fino alla vigilia della

prima GM, quando le importazioni di manufatti dai territori metropolitani avevano sostituito le

produzioni locali. Non appena il processo di sostituzione delle importazioni fu completato sul finire

degli anni ’60 vi fu un ovvio rallentamento della crescita delle attività manifatturiere. Per di più,

la possibilità di riversare su mercati esteri le produzioni a basso valore aggiunto fu intralciata da

limitazioni e ostacoli frapposti alle importazioni dai paesi sviluppati che difendevano la loro

manodopera e le loro imprese. Un freno alla prosecuzione dello sviluppo venne anche dalla

rigidità della domanda mondiale di tessili e calzature assieme alla dipendenza delle società

multinazionali occidentali che nel Terzo Mondo spostarono in crescente misura quelle fasi dei

processi produttivi che impiegano manodopera scarsamente qualificata. I casi di massicci

investimenti relativisti del tutto inutili o largamente sovradimensionati non si contano, come quelli

di sperpero energetico e di materie prime. Un capitolo a parte meriterebbe la questione della

diffusa corruzione delle autorità governative e dei funzionari pubblici chiamati a decidere la

localizzazione di nuovi impianti industriali. Un altro fattore limitativo è dato dalla prevalente

sottoutilizzazione della capacità produttiva delle installazioni, spesso largamente sovradimensionate

rispetto ai volumi di prodotto assorbibili della domanda interna ed estera.

Il vincolo demografico Nei primi anni ’60 i risultati dei primi censimenti ruppero l’incantesimo. Fu

presto chiaro, infatti, che era in corso un’inflazione demografica galoppante. Gli effetti del boom

demografico innescato da cali consistenti della mortalità infantile e da campagne di vaccinazione a

tappeto non tardarono a manifestarsi con deficit degli alimenti di basi. In molti casi i governi

finanziarono politiche di miglioramento delle tecniche agronomiche, di diffusione delle macchine

agricole e di utilizzo di sementi modificate dalla ricerca biotecnologica. Alle politiche locali si

affiancarono sempre più spesso programmi internazionali di aiuti di scarsa efficacia strutturale. Nel

frattempo, l’esplosione della domanda di petrolio introduceva un forte discrimine fra paesi in via

di sviluppo, dissociando i venditori d’oro nero da tutti gli altri. Proprio l’impennata della domanda

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di petrolio del “primo mondo” avvisò quei paesi che non ne disponevano che il divario tra i loro

livelli di vita e quelli dei paesi ricchi sarebbe inesorabilmente aumentato. La scalata dei prezzi del

greggio causò inflazione anche nei paesi del Terzo Mondo; inflazione che si aggiunse a quella

endogena prodotta dalle accresciute produzioni agricole e manifatturiere avutesi dalla fine degli

anni ’40. Quando, dalla metà degli anni ’80, la febbre inflattiva si spense, nel Terzo Mondo non

solo continuò, ma addirittura si aggravò nel decennio 1986-1995, con enormi divari fra i tre

continenti.

Una via d’uscita dal sottosviluppo: le quattro tigri asiatiche All’inizio degli anni ’70 nel Terzo

Mondo a economia di mercato il clima generale era improntato al pessimismo. Nei paesi privi di

petrolio una galoppante inflazione dei prezzi interni si aggiungesse al boom demografico e al

connesso crescente deficit alimentare. In totale controtendenza, nel lontano oriente, dagli anni

’60 Hong Kong e poi, una decina d’anni dopo, Taiwan, Corea del Sud e Singapore, imboccarono

la strada di uno sviluppo economico tanto rapido e inteso da proiettarli, trent’anni dopo, nel

novero dei paesi economicamente avanzati. I quattro piccoli paesi che rappresentavano una

minima frazione demografica dell’Asia e del Terzo Mondo, condividevano alcune caratteristiche

negative, se si guarda ai requisiti per avviare un processo di sviluppo all’occidentale. Si trattava di

territori privi di risorse naturali ed energetiche, densamente popolati e usciti devastati dalla guerra

mondiale. Corea e Taiwan, che erano state colonie giapponesi, negli anni ’30 avevano conosciuto

miglioramenti dell’agricoltura e qualche iniziativa industriale. Alla vigilia della seconda GM la Corea

era già molto sviluppata nel settore industriale grazie anche alla manodopera locale specializzata.

A Hong Kong e Singapore mancava il peso del mondo rurale tradizionale che ovunque

rappresenta un serbatoio di manodopera sottoutilizzata. Hong Kong, che dal 1842 è stata una

vera e propria enclave inglese alle porte della Cina, aveva cominciato a esportare manufatti già

prima della grande guerra e, alla fine della seconda, aveva una base industriale diversificata. La

crescita demografica dei quattro paesi fu inferiore a quella del resto dell’Asia. Un notevole fattore

di facilitazione nell’avvio dello sviluppo fu dato anche dalle basse percentuali di contadini e di

livelli d’analfabetismo nettamente inferiori alla media dei paesi asiatici a economia di mercato. La

novità delle quattro tigri consiste nelle relazioni istituitesi fra stato, come fattore e organizzatore

di sviluppo, economia, tecnologia e società muovendo da politiche dettate dalla logica della

sopravvivenza nazionale postbellica. La crescita economica andò di pari passo con un visibile

miglioramento dei tenori di vita e della perequazione dei redditi. È interessante notare come nei

paesi in cui ha lungamente dominato la cultura britannica, la sperequazione dei redditi è

nettamente più accentuata rispetto ai rimanenti tre paesi nei quali domina la cultura orientale

tendente a non polarizzare la distribuzione della ricchezza, che significa maggior potere d’acquisto diffuso, maggiore capacità di risparmio, migliore sostegno della domanda. In tutti e quattro i casi

considerati, in vario modo, l’azione delle amministrazioni pubbliche è stata così decisiva da far

coniare agli studiosi la formula: “Stato per lo Sviluppo”, espressiva di uno stato che, mentre

sostiene le imprese, impone loro di misurarsi sul mercato globale. Hong Kong fu la più precoce

delle quattro. Tutto il territorio apparteneva alla corona inglese che lo affittava invece di venderlo

a privati. Questa politica dei suoli permise al governo di finanziare progetti di edilizia pubblica e

di costruire immobili a uso industriale e fabbriche con abitazioni civili annesse; politica poi

rivelatasi decisiva nella prima fase d’industrializzazione. Le autorità di Hong Kong svolsero anche

un ruolo decisivo di promozione e controllo nel settore bancario,borsistico e di servizi avanzati,

tanto da lanciare il mercato finanziario della città nel Gotha delle maggiori borse mondiali. La

chiave iniziale del successo fu comunque la crescita esponenziale delle esportazioni di manufatti

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destinate al Regno Unito al Commonwealth e agli USA, seguendo una strategia di cambiamento

delle linee di prodotti o del loro valore all’interno del medesimo settore. In questo senso, il

fattore fondamentale fu la flessibilità dei prodotti manifatturieri  e  la  loro  capacità  d’adattamento  alla  sempre più mutevole domanda del mercato mondiale. La flessibilità del sistema produttivo deriva dal

prevalere  di  piccole  e  medie  imprese  e  da  tassi  d’investimento  costante  elevati.  Dal  1950  al  1995,  favoriti

da  un  peso  limitato  dell’agricoltura  e  da  dimensioni  territoriali  minime,  le  quattro  tigri  realizzarono  uno  sviluppo  economico  rapido  e  intenso,  seppur  con  tempi  sfasati  tra  loro  per  la  differente  epoca  dell’avvio  del  processo.

Le tigri nella crisi di fine secolo La  crisi  economica  asiatica  di  fine  anni  ’90  ebbe  effetti  assai  diversi  sulle  quattro tigri. Per la bolla speculativa immobiliare e per il crollo della sua borsa, nel 1998 Hong Kong entrò in

recessione per la prima volta dopo 30 anni. A Hong Kong tra il 1990 e il 1996, il valore degli immobili privati

quadruplicò.  Mentre  l’offerta  di  terreni  demaniali  privatizzabili  calava  e  c’era  un  boom  delle  attività  finanziarie e di servizio alle imprese, i prezzi esplosero. Per di più, era in corso una rapida riconversione

dell’economia  da  manifatturiera  a  terziario  avanzato.  La  terziarizzazione  attirò  i  capitali  dei  taiwanesi,  dei  giapponesi e degli speculatori di tutto il mondo, mentre e quotazioni di borsa continuavano a crescere.

Nell’ottobre  del  1997, un attacco speculativo al dollaro di Hong Kong minò la fiducia degli investitori. Il

successivo  crollo  venne  evitato  grazie  al  provvidenziale  intervento  della  Cina  Popolare,  ma  l’economia  incappò in una recessione. Dopo il grande sviluppo della finanza a Singapore, lo stato evitò che si

abbandonasse il settore manifatturiero, a favore del quale il governo avviò un progetto di sviluppo

tecnologico per stimolare produzioni a più alto valore aggiunto. Grazie a regolamentazioni dei mercati

creditizi e finanziari più rigide di quelle di Hong Kong, la borsa di Singapore andò esente da scorrerie

speculative della finanza globale e i solidi legami con le multinazionali manifatturiere fecero il resto. La crisi

coreana iniziò nel gennaio del 1997, con il fallimento di Hanbo, uno dei maggiori Chaebol (conglomerata,

che dipese da problemi di assetto e di gestione e da standard tecnologici scaduti rispetto a quelli

concorrenti) specializzato in siderurgia e edilizia. Nel giro di pochi mesi fallirono 6 fra i primi 30 gruppi del

paese. Gli investitori esteri si affrettarono a liquidare le loro posizioni. La fuga di capitali mise in crisi la

moneta, che il governo tentò di difendere inutilmente dilapidando le riserve in valuta estera. Il won crollò

mentre il governo dichiarava che non avrebbe pagato gli interessi sul debito pubblico. Fu chiamato in aiuto

il FMI per risanare la situazione. Il nuovo governo favorevole alla deregolamentazione e liberalizzazione dei

commerci e delle transazioni finanziarie, non intervenne per evitare i fallimenti dei chaebol sicché la fiducia

interna e internazionale crollò. Le aziende produttrici di semiconduttori taiwanesi, addirittura superarono i

concorrenti sudcoreani e giapponesi, conquistando fette del mercato mondiale tecnologico. Inoltre, le

enormi riserve di valuta estera scoraggiarono attacchi speculativi sulla moneta nazionale. Confidando nella

competitività  manifatturiera,  l’economia  taiwanese  sfuggì  brillantemente  alle  turbolenze  finanziarie  che  avevano messo in seria crisi sia Hong Kong, sia la corea del Sud. Singapore e Taiwan uscirono indenni dalla

burrasca perché non sacrificarono la loro tradizionale competitività manifatturiera alla finanza globale e al

terziario più o meno avanzato.

12. Il risveglio dei dinosauri Asiatici

Il dragone cinese Il modello di modernizzazione e crescita dell’economia cinese non ha precedenti

nella storia economica contemporanea perché è concepito e attuato all’interno della principale

Economia Pianificata del mondo, nel tentativo di realizzare una sintesi virtuosa tra pianificazione

centralizzata ed economia di mercato. L’ingresso cinese nell’economia globale non è lasciato

all’autonomo processo di aggiustamento delle “forze del mercato”, ma è piuttosto governato

dallo stato con misure di politica mirate, e accompagnate da riforme, che da un lato tendono a

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rendere la transizione graduale e sostenibile e, dall’altro, la fanno essere compatibile con le

condizioni, le esigenze e gli interessi specifici del paese. Per comprendere cosa significhi per la

Cina stabilire relazioni con il resto del mondo conviene prendere mosse dagli anni ’30 del ‘

900. Dopo l’occupazione della Manciuria (1931), nel 1937 il Giappone riprese la guerra di

conquista in Cina attaccando Pechino e conquistando facilmente le province esterne e

industrializzate di Shangai, Nanchino e Canton. Nella resistenza ai giapponesi si distinse l’Esercito di Liberazione Popolare formato da contadini e guidato da Mao Zedong. Esso fu decisivo per la

sconfitta dell’invasore nel continente asiatico e, con una guerra civile condotta dal 1945 al 1949,

Mao sconfisse anche il generale Chiang Kai-schek, con il quale aveva combattuto i giapponesi. La

rivoluzione cinese fu nazionalista e contadina. In più, essendo comunista, nella costruzione del

nuovo stato per il partito fu prioritario controllare l’economia attraverso un sistema di

pianificazione centralizzata e gestire la società attraverso un capillare apparato ideologico marxista-

leninista che dominasse l’informazione e la comunicazione. In uno stato scaturito da una guerra di

liberazione e poi da una guerra civile, il cuore del nuovo sistema di potere fu la Commissione

Militare Centrale del Comitato centrale del Partito, la cui presidenza fu l’unica carica

ininterrottamente conservata da Mao sino alla morte nel 1976. Il partito, una cosa sola con

l’esercito, era un’immensa macchina politica ramificata e decentrata ovunque, che per la prima

volta nella storia cinese controllava ogni angolo dell’immenso paese. L’estrema personalizzazione

della leadership ha fatto sì che qualsiasi decisione presa dal vertice si trasformi in una

mobilitazione generale. Solo così si spiega la straordinaria potenza distruttiva di parole d’ordine come “il grande balzo in avanti” e la “rivoluzione culturale proletaria”, lanciate da Mao in

persona. In realtà Mao rispondeva alla fondamentale questione di come conservare il potere

comunista e come rendere la Cina forte e indipendente in un modo radicalmente diviso fra le

due superpotenze e avendo alle porte quattro tigri in rapido sviluppo economico e tecnologico.

Egli era convinto che convenisse conservare la civiltà rurale cinese della quale era figlio, sviluppare

l’autosufficienza, assicurare il primato dell’ideologia e allenare il popolo a una guerriglia decentrata

per resistere a eventuali invasori, che andavano scoraggiati con il deterrente nucleare. Al vertice

del partito, ed in disaccordo con Mao, fin dagli anni ’50 Deng Xiaoping e Liu Shao-chi

sostenevano che si dovesse invece procedere a un’accelerata industrializzazione e modernizzazione

tecnologia, in modo da seguire lo sviluppo come in Russia. Chou En-Lai, capo del governo, riuscì

abilmente nel difficile gioco di accordare le fazioni in lotta rafforzando il complesso produttivo e

scientifico militare, inteso come indispensabile presidio dell’indipendenza nazionale. Fu così che la

ricerca tecnologica militare passarono indenni fra le bufere politiche e le lotte al vertice degli anni

'60 e '70. Morto Mao, nel 1976, i vertici del partito si riorganizzarono richiamando l’mai anziano

Deng il quale riprese la sua vecchia idea che la prosperità economica e la modernizzazione

tecnologica rappresentassero i pilasti del prestigio internazionale e dell’indipendenza cinese. Egli

intuì anche che, dopo la dissennata “rivoluzione culturale” maoista, era indispensabile restituire

legittimità al partito diffondendo fra la popolazione il diritto di proprietà, migliorandone il tenore

di vita e fondando attese di crescita economica.

L’economia della Cina autarchica Nel 1978, alla vigilia della decisione di Deng di aprire le porte a

imprenditori e capitali esteri, in quali condizioni versava l’economia del paese che conta un quinto

degli abitanti della terra? Nel primo decennio della Repubblica Popolare, il migliorato tenore di

vita e l’adozione di un’assistenza sanitaria essenziale per tutta la popolazione causarono

un’impetuosa spinta demografica, interrotta solo dalle stravaganti misure adottate da Mao per

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realizzare un “grande balzo in avanti”. La popolazione fu suddivisa in gruppi di circa 5000

famiglie dotate di lotti di terreno, di cucine comuni e perfino di acciaierie a conduzione familiare,

secondo principi d’autarchia spinta. Il risultato fu ovviamente fallimentare. Crollarono produzione e

distribuzione delle derrate agricole essenziali e ci fu una disastrosa, pluriennale carestia che causò

30 milioni di morti in 4 anni. In risposta, il governo dispose rigide norme di pianificazione

familiare: era vietato sposarsi prima dei 25 anni e si poteva generare un solo figlio per coppia.

Il diffuso malcontento, a metà degli anni ’80, suggerì alle autorità di abrogare le regole quando

la natalità s’era fortemente ridotta. La cerealicoltura impiegò qualche anno per riportarsi dov’era prima della dissennata politica del “grande balzo”, dopo di che raddoppiò il volume dei raccolti

entro il 1978. Si assistette, quindi ad una crescita generale, e l’economia superò dell’80% la media

di quelle del Terzo Mondo. Ricordiamo che la Cina non usufruì di aiuti né d’investimenti esteri né

esportò significative quantità di merci.

L’apertura al mondo Nei primi anni ’80 il progetto di integrare la Cina nell’economia globale

cominciò da quattro Export Processing Zones piazzate dirimpetto a Hong Kong. L’idea era di

attirarvi capitali e tecnologie estere per acquisire know-how aggiornato e realizzare profitti in

dollari e sterline. Le zone furono isolate dal resto della Cina per paura che il capitalismo

contaminasse il resto del paese. L’esperimento non funzionò perché le multinazionali fruivano di

condizioni analoghe, ma soprattutto perché erano molto più interessate a penetrare nel mercato

cinese per portarvi la loro cultura aziendale e creare una rete di fornitori e distributori. In pratica

si trattava di far parte dell’economia cinese e di non fermarsi nell’anticamera del paese e

sfruttarne semplicemente la manodopera a basso costo. Dopo qualche anno, il governo aprì una

gran parte delle regioni industriali sotto l’attento controllo della burocrazia statale e di quella dei

governi regionali. Tuttavia, fino alla metà degli anni ’90, gli investimenti occidentali e giapponesi

rappresentarono solo il 28%. La principale connessione con l’economia globale era data dal know-

how tecnologico e dall’esperienza dei cinesi di Hong Kong e Taiwan in fatto di mercato globale.

Facendo capo a reti relazionali di parentela, negli anni ’80 i fuoriusciti furono protagonisti

dell’armatura infrastrutturale di una megaregione divenuta, di fatto, un gigantesco distretto

economico dove abitavano 80 milioni di persone: uno dei potenziali nodi globali del XXI secolo. In

risposta la regione si Shangai nei primi anni ’90 lanciò la nuova regione economica di sviluppo

di Pudong, divenuta in breve il principale centro dei servizi avanzati per le imprese. Dagli anni ’

90, il capitale cominciò ad affluire da ogni parte del globo, ma soprattutto e ancora da cinesi

d’oltremare. Nel 1992, Deng Xiaoping incoraggiò il Guandong e la regione di Shangai a imitare e

superare le quattro tigri. Le autorità delle due regioni rivendicarono una crescente autonomia

economica e di attivare insediamenti d’imprese estere e fondare imprese in partecipazione (Joint

Ventures) con stranieri. Nel 1992, un emendamento della Costituzione introdusse il principio

dell’”economia socialista di mercato”. In pratica, accanto alle tradizionali imprese di stato, nella

Cina aperta al capitalismo, sono sorte imprese private e soprattutto “imprese collettive” di livello

regionale del “capitalismo burocratico”. Si tratta di aziende oligopolistiche nella regione in cui

operano e concorrenziali nel resto del mercato cinese e in quelli esteri. La crisi del biennio 1998-

1999 ha causato un relativo rallentamento dell’altissimo ritmo di crescita nel dodicennio qui

considerato, dopo di che la percentuale annua di crescita è costantemente aumentata nonostante

le autorità governative si sforzino di mantenere sotto controllo la dinamica economica in atto,

potenzialmente inflattiva. Le conseguenze della politica della “porta aperta” di Deng, che decretò

la fine dell’isolazionismo cinese e preparò l’introduzione nella Costituzione (1999-2004) del diritto

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“inviolabile” della proprietà privata, dello stato di diritto e del superamento della pianificazione

economica socialista, pongono però una serie di questioni di gran peso.

•La prima è data dal massiccio esodo delle campagne di alcune centinaia di milioni di cinesi

socialmente e culturalmente sradicati e in condizioni economiche precarie.Incombente dualismo

regioni rurali e urbane.

•I sempre più frequenti conflitti tra Pechino e province della fascia costiera derivanti dalla larga

autonomia concessa dal governo alle autorità provinciali sono un potenziale fattore di

disgregazione e di crisi politica.

•Le imprese pubbliche a bassa produttività non trovano compratori, né possono essere liquidate.

•Accettare la diffusione di Internet: dal 1950, l’informazione è controllata e censurata dal partito.

L’india dell’East Indian Company Ai primi del ‘600 arrivarono i primi galeoni inglesi sulla costa

occidentale indiana. L’East Indian Company ottenne il monopolio del commercio a est del Capo di

B.S. La prima base operativa fu stabilita a Surat dove il sovrano accordò il diritto di commerciare

e di costruire edifici e magazzini. Nel 1635 Lisbona accettò e legittimò la presenza inglese in

India. L’East Indian Company continuò ad aprire basi commerciali e svolse funzioni amministrativa

per conto dei sovrani dei numerosi principi e regni indiani. Il volume d’affari in crescita e

l’impossibilità di imporre i prezzi delle merci acquistate causò un crescente deficit commerciale

inglese. Ai primi del ‘700 il parlamento di Londra approvò due leggi che vietavano l’importazione di cotonate indiane interrompendo un ricco e promettente commercio, sicché la compagnia

rimediò cominciando a svolgere fra Bengala e Cina il poco nobile e assai redditizio traffico

dell’oppio, ottenendone in cambio tè, porcellane e lacche cinesi. Fra il 1757 e il 1765 l’EIC si

guadagnò la riscossione delle imposte in tre stati. I proventi delle esazioni servirono per l’acquisto di merci destinate alla madre patria, senza che si dovesse spostare oro e argento da Londra. Nel

giro di una trentina d’anni la Compagnia prese il controllo politico ed economico dell’India nord-

orientale , facendo adottare riforme fiscali e introducendo principi del diritto comune inglese come

la proprietà privata della terra (1793). La riforma creò una pletora di parassiti latifondisti e usurai

favorevoli agli inglesi e odiati dal resto della popolazione contadina. Dal 1813, quando finì il

monopolio della EIC, tramontò anche l’attitudine d’incivilimento  e prese il sopravvento quella di

sfruttamento. Per tutto l’800, il monopolio governativo della droga fu una delle colonne

dell’economia indiana e assicurò il secondo gettito d’entrata del bilancio pubblico. A metà ‘800,

la convinzione che il commercio fosse il motore della modernità spinse gli inglesi a fare

investimenti giganteschi nella costruzione di strade ferrate laddove si sarebbe potuta costruire una

rete di canali d’irrigazione per ottenere sostanziali incrementi del volume di cereali e

approvvigionare una popolazione in costante aumento. Da un lato, una fiorente economia

mercantile fu messa in crisi dalla “globalizzazione” della tela di cotone fabbricata a Manchester,

dall’altra di verificò una specie d’implosione delle economie di villaggio regredite allo stadio di

economie sussistenziali e povere. Il processo di penetrazione e conquista proseguì fio al 1857,

quando nel Bengala i militari indiani al soldo della Compagnia si rivoltarono. In quell’occasione esplose il malcontento di migliaia di uomini che non sopportavano che gli stranieri continuassero

a imporre cambiamenti degli usi e costumi tradizionali. La rivolta fu sedata con inaudita violenza

da un corpo di spedizione militare inviato da Londra. Il 2 agosto 1858, il governo ripristinò il

controllo con il Governement Act of India ed il Parlamento trasferiva, così, alla corona tutti i

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diritti della East India Company riducendo il paese allo stato di colonia. La piantagione di materie

prime industriali squilibrò l’agricoltura indiana e impedì alle popolazioni di coltivare secondo le

proprie esigenze alimentari, tanto che alla fine del XIX secolo si verificarono disastrose carestie.

Poiché a lungo l’economia indiana fu diretta da Londra, all’indomani dell’indipendenza (1947), il

paese non poté fare a meno dei partner economici inglesi.

La Repubblica Federale Indiana Nell’estate del 1947, lo smembramento dell’Impero britannico delle

Indie generò due stati: l’Unione Indiana e il Pakistan, rispettivamente induista e islamica. Per

l’Unione Indiana, i “compiti per il futuro erano: la sconfitta della povertà, dell’ignoranza, delle

malattie e delle disparità sociali ed economiche delle opportunità”. I capi di governo succedutisi

alla guida del paese si diedero per obiettivo primario la promozione dell’economia assieme

all’equità sociale. A tale scopo, fin dal 1950 furono disposti piani quinquennali che identificavano i

fini da perseguire, stanziavano risorse pubbliche e controllavano i risultati. La diffusa condizione di

povertà fu contrastata soprattutto promuovendo la modernizzazione del settore agricolo e

sostenendo lo sviluppo delle industrie di base. Due fattori soprattutto intralciarono il

raggiungimento degli obiettivi costantemente ribaditi: i conflitti interreligiosi e politici su base

etnica e ‘inarrestabile crescita della popolazione. C’era da ammodernare il sistema ferroviario

ereditato dagli inglesi e da realizzare una rete minuta di strade. Il settore economico più tutelato

direttamente e indirettamente fu il primario, La grande attenzione dei governanti indiani per il

difetto sociale ed economica della povertà è ben evidente. Con i primi quattro piani (1951-1971),

i governi mirarono soprattutto a dotare il paese di infrastrutture di base adeguate e a migliorare

l’agricoltura, così da renderlo autonomo sotto il profilo alimentare. Una politica daziaria

iperprotettiva dal 1950 difese le industrie e le manifatture nazionali dalla concorrenza degli altri

paesi asiatici. Dagli anni ’70 i governanti cominciarono a dimostrare un crescente interesse per

forme di cooperazione internazionale che promuovessero lo sviluppo.

L’apertura verso l’estero Con i primi anni ’80, il ceto governativo indiano si convinse che

convenisse seguire la via intrapresa dalle quattro tigri cioè abbattere le difese daziarie e

aumentare i prodotti da esportare, promuovendo la concorrenza e l’efficienza, Per far ciò era

indispensabile incentivare investimenti esteri diretti e favorire lo spostamento di manodopera dal

dominante e arretrato settore primario al secondario. L’effetto indiretto del nuovo indirizzo si

manifestò subito con un calo del tasso di povertà. Nel 1991 l’ingresso dell’India nel WTO accelerò

il processo di riforme e di liberalizzazione del mercato. Dopo la svalutazione della rupia, le

principali riforme economiche del periodo 1991-1997 attenuarono la presa dello stato

sull’economia:

1.Fu abolito il sistema delle licenze per aprire o ampliare imprese, a eccezione di quelle

strategiche;

2.Furono eliminati i controlli sulle importazioni di capitali e merci e ulteriormente ridotte le tariffe

doganali.

Dal 1993, la rupia divenne convertibile nelle maggiori valute. Fu liberalizzato il tasso d’interesse, allentata la barriera all’ingresso per banche private nazionali ed estere e aperta la borsa a

investitori istituzionali esteri. Da ultimo, il sistema fiscale fu rafforzato, riformato e semplificato. Il

pacchetto di riforme si rivelò vincente. Nel triennio iniziale del nuovo secolo (2000-2003), la

ricchezza annualmente prodotta ha oscillato, dipendendo in parte dalla produttività agricola, a sua

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volta legata alla meteorologia. Le misure liberalizzanti, facilitando l’accesso a fattori produttivi e

beni d’investimento esteri, hanno migliorato l’utilizzo delle capacità produttive, e favorito la

crescita delle esportazioni. Le esportazioni hanno tratto vantaggio dalla liberalizzazione del

commercio della riduzione dei dazi e dell’apertura all’investimento estero in settori orientati

all’export come quelle dell’Information Technology, il vero e proprio fiore all’occhiello del recente

sviluppo economico del paese. L’emergere dei servizi come settore più dinamico dell’economia indiana per molto versi costituisce un enigma perché gli economisti sostengono che nei processi di

sviluppo economico in un primo tempo cala la quota della ricchezza prodotta dall’agricoltura e

cresce quella dell’industria. Solo in seguito la quota dei servizi cresce più rapidamente, mentre

quella del settore industriale resta stabile o declina di poco. Una prima spiegazione della

stupefacente crescita del terziario indiano rimanda a un aumento della domanda dei servizi

proveniente dagli altri due settori. In più: le trasformazioni tecniche e strutturali avrebbero indotto

le imprese ad affidare all’esterno operazioni tradizionalmente svolte in casa. La crescita industriale

avrebbe causato una più che proporzionale domanda di prestazioni burocratiche. Un indice di

povertà fra i più altri del Terzo Mondo a economia di mercato esige strutture assistenziali

pubbliche centrali e periferiche altrove inesistenti. Infine, un ruolo decisivo avrebbero svolto le

riforme degli anni ’90, assieme alla crescita della domanda estera. L’accelerazione della crescita

del settore dei servizi negli anni ’90 derivò anche da una dismissione generalizzata di numerose

imprese e funzioni pubbliche, trasferite ai privati e da una crescita accelerata di alcuni sostenitori

quali:

1.I servizi relativi agli affari , cresciuti in media di circa il 20% l’anno;

2.I servizi di comunicazione;

3.I servizi creditizi e finanziari;

4.I servizi di comunità, hotel e ristoranti.


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